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Il contratto a tutele crescenti dopo la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale
A cura dell’Area Lavoro e Previdenza
Il 6 marzo 2015, veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il D.lgs. 23/2015, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, il quale ha introdotto importanti novità in merito ai contratti a tempo indeterminato stipulati successivamente al 7 marzo 2015.
Le tutele dei lavoratori a fronte di un licenziamento illegittimo, già limitate in parte nel 2012 dalla Riforma Fornero, sono state fortemente circoscritte dal sopraccitato decreto del Jobs Act.
Questa nuova regolamentazione riguarda specialmente gli aspetti relativi alle conseguenze previste in caso di illegittimità del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo oggettivo e soggettivo comminato ai lavoratori assunti a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 23/2015.
L’obiettivo del legislatore è stato quello di andare oltre la previsione della Legge Fornero, creando un sistema che rendesse certi i costi di separazione.
Vi è un superamento delle tutele previste dall’art. 18 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), caratterizzato dalla presenza sia di una tutela risarcitoria sia di una reintegratoria e nel quale la quantificazione dell’indennità risarcitoria è rimessa, all’interno di determinati importi minimi e massimi, alla valutazione del giudice.
Il legislatore ha, infatti, eliminato quasi completamente le ipotesi di reintegrazione previste dallo Statuto dei Lavoratori, limitandole a casi eccezionali e specificatamente previsti dalla norma quali: il licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, ovvero il licenziamento della lavoratrice madre nel primo anno di vita del bambino o di lavoratori in costanza di matrimonio.
Il c.d. contratto a tutele crescenti prevede che nei casi in cui venga accertato che non ricorrano gli estremi del licenziamento, il giudice dichiari estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanni il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di un importo pari a due mensilità per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
Si è passati dunque ad un sistema dove la reintegra diventa uno strumento residuale di
tutela e la determinazione dell’importo dell’indennità risarcitoria non è affidato alla
discrezionalità dei giudici bensì è rimessa ad un calcolo previsto dal legislatore e legato
all’anzianità di servizio.
A quasi cinque anni dall’entrata in vigore della riforma, valutata positivamente dalle imprese proprio nell’ottica chiarificatrice rispetto al tema dei costi legati alla risoluzione del rapporto di lavoro, la polemica dei detrattori, in primis alcune tra organizzazioni sindacali, non si è mai spenta e ha trovato conferma negli orientamenti della giurisprudenza che ha finito con mettere pesantemente in discussione l’impianto originario, così come immaginato e realizzato dalla riforma del Jobs Act.
Il contenzioso, gli ultimi interventi ad opera del Decreto Dignità e la giurisprudenza con la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale nonché con alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione (n. 30430/2018 e n. 27657/2018) hanno di fatto stravolto l’impianto originario della norma ribaltando il meccanismo iniziale delle tutele crescenti.
La Corte Costituzionale, con la sentenza emessa in data 26/09/2018 n. 194, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del D.lgs. 23/2015, limitatamente nella parte in cui la norma determina l’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo in ragione della sola anzianità di servizio poiché “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro1”.
Al fine di comprendere le ragioni che hanno portato la Corte ad esprimersi in questi termini, è utile soffermarsi brevemente sui fatti di causa.
Il tribunale di Roma, a seguito dell’impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo da parte di una lavoratrice assunta successivamente all’entrata in vigore del D.lgs. 23/2015, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, co.7, lett c), della L. 183/2014 e degli artt. 2, 3 e 4 del D.lgs. 23/2015.
Le questioni dedotte dal giudice rimettente sono state:
• la violazione del principio di eguaglianza in ragione della disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015;
• la violazione del principio di eguaglianza in ragione della disparità di trattamento tra i lavoratori privi di qualifica dirigenziale e i dirigenti assunti a decorrere dal 7 marzo 2015;
• la violazione delle disposizioni costituzionali di cui agli artt. 76 e 117 della CDFUE, secondo le quali “Ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell’Unione Europea e alle legislazioni e prassi nazionali”;
• la violazione degli artt. 3, 4, co. 1, 35, co. 1, e 76 e 117, co.1, Cost.
La Corte ha ritenuto fondata solo la quarta questione.
Per quanto concerne, infatti, la disparità di trattamento tra lavoratori aventi le stesse
condizioni occupazionali ma assunti prima o dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, si tratta
1 Sentenza Corte Costituzionale n. 194/2018
di una disparità che non lede né la ragionevolezza né il principio di parità di trattamento, perchè “non contrasta di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato
applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche2”.
La Consulta ha altresì salvato la limitazione della tutela reale in funzione di un risarcimento garantito al lavoratore licenziato.
La dichiarazione di incostituzionalità riguarda, quindi, non il fatto che il legislatore abbia previsto un tetto minimo e massimo di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo, ma che la determinazione di tale importo sia legato esclusivamente all’anzianità maturata e venga totalmente sottratta al giudice la possibilità di determinare l’indennizzo attraverso la considerazione di altri parametri rilevanti.
Un risarcimento del danno basato sulla sola anzianità e che non tenga in considerazione la diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, viola - secondo la Corte - i principi di ragionevolezza e uguaglianza, e contrasta, anche, con il diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione, poiché comporta una ingiustificata omologazione di situazioni diverse.
In aggiunta, la Consulta ha ritenuto che la previsione di una tutela economica predeterminabile attraverso un semplice calcolo matematico contrasti anche con il principio di ragionevolezza, poiché potrebbe non consentire un ristoro adeguato del danno prodotto a seguito del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione dell’azienda dal licenziare ingiustamente, comprimendo l’interesse del lavoratore in misura eccessiva.
Una volta dichiarato, quindi, incostituzionale il solo criterio dell’anzianità come parametro di scelta per commisurare l’indennità risarcitoria, è necessario individuarne di ulteriori.
La Corte non ha colmato tale vuoto con l’introduzione di criteri nuovi, né ha previsto un mero rinvio alla discrezionalità del giudice di merito. La stessa ha infatti rimandato alla giurisprudenza, sottolineando come la casistica dimostri che il pregiudizio prodotto da un licenziamento illegittimo sia legato anche ad altri fattori “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti3” quali le dimensioni dell’impresa, il numero complessivo dei dipendenti occupati, il comportamento e le condizioni delle parti.
La Corte conclude dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 3, co. 1, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
Dunque, nel rispetto dei limiti previsti dal legislatore dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante ai lavoratori licenziati illegittimamente, viene restituita ai giudici la discrezionalità nella quantificazione della stessa.
2 Sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto
3 Art. 18 L. 300/1970, art. 8 L. 604/1966
Essi non saranno più legati ad un parametro rigido nella determinazione dell’importo
indennizzabile, ma lo potranno adeguare tenendo in considerazione i principi sopra citati.
Tra gli effetti che la decisione della Corte può provocare, potrebbe esserci anche un cambio di pensiero circa la convinzione che i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 23/2015 siano maggiormente favoriti poiché rientranti nelle tutele previste dall’art.18 della Legge 300/1970.
In virtù di tale opinione, si è visto come in questi ultimi anni, molti lavoratori hanno manifestato delle riserve nel cambiare lavoro, proprio per non perdere le tutele acquisite, ovvero, in sede di assunzione hanno provato a negoziare il mantenimento delle stesse. Si ricorda, infatti, che gli stessi sindacati hanno stipulato, in alcune occasioni, accordi che garantissero le tutele del vecchio art. 18 anche ai nuovi assunti.
Con la pronuncia della Consulta, invece, un lavoratore assunto con le tutele crescenti, il cui licenziamento venga dichiarato illegittimo, potrebbe avere un indennizzo superiore rispetto a quello massimo spettante al lavoratore assunto prima dell’entrata in vigore del Jobs Act.
L’art. 18, infatti, prevede che nei casi in cui non è prevista la reintegra nel posto di lavoro, al lavoratore licenziato illegittimamente spetti un’indennità determinata dal giudice che va da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità. Al lavoratore assunto con le tutele crescenti, invece, spetta un indennizzo che può arrivare fino a massimo 36 mensilità.
Vediamo, quindi, come in seguito alle modifiche apportate dal Decreto Dignità, che ha innalzato l’importo massimo indennizzabile per i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, e dalla pronuncia della Corte, siamo di fronte a una differenziazione di trattamento tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, forse meno netta rispetto al passato.
Un altro aspetto interessante da approfondire quando parliamo di contratto a tutele crescenti, che è stato oggetto di alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, è quello relativo ad una delle questioni maggiormente dibattute in dottrina e giurisprudenza riguardante l’interpretazione di “insussistenza del fatto contestato” nei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e per giusta causa.
La “disputa” sulla categoria del fatto materiale nasce a seguito della Riforma Fornero la quale prevedeva il diritto in capo al lavoratore illegittimamente licenziato di essere reintegrato nel posto di lavoro solo quando il giudice accerti che “non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. Negli altri casi il lavoratore aveva diritto al solo indennizzo risarcitorio determinato dal giudice ricompreso tra un minimo di dodici a un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Questa linea viene mantenuta anche dal D.lgs. 23/2015, il quale prevede che il giudice debba disporre della reintegra “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato
motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Il problema riguardante l’interpretazione del significato di “insussistenza del fatto contestato” ha dato vita a due teorie contrapposte: la teoria del fatto materiale e la teoria del fatto giuridico.
La prima teoria sostiene che la reintegra deve essere prevista solo nel caso in cui il fatto materiale oggetto della contestazione non sia accaduto, mentre nelle altre ipotesi il lavoratore avrebbe diritto alla sola tutela indennitaria (ad esempio nel caso in cui fosse insussistente l’antigiuridicità, l’imputabilità o la volontarietà del lavoratore ovvero nelle ipotesi in cui ci fosse sproporzionalità tra la sanzione del licenziamento e il fatto commesso).
La teoria del fatto giuridico, invece, sostiene che la reintegra spetta non solo quando il fatto materiale sia insussistente, ma anche quando pur esistente, non presenti profili di illiceità. Il giudice, dunque, dovrebbe valutare non solo la sussistenza del fatto commesso dal lavoratore ma anche gli elementi di valutazione giuridica del fatto stesso (valutazione globale del fatto e delle circostanze nonché dell’aspetto soggettivo del lavoratore).
La giurisprudenza di merito4 e, recentemente, anche la Corte di Cassazione hanno generalmente accolto la seconda teoria.
La Corte, infatti, dopo una prima presa di posizione che optava per la teoria del fatto materiale5, ha effettuato un cambio di rotta rilevando una irragionevole disparità di trattamento in violazione dell’art. 3 della Costituzione nel caso in cui per insussistenza del fatto contestato si intenda il fatto meramente materiale, poiché si riconoscerebbe la tutela reintegratoria a quei lavoratori che abbiano commesso un illecito disciplinare e non a quelli che non ne abbiano commesso alcuno avendo tenuto una condotta lecita.
Una delle ultime pronunce della Corte di Cassazione che va in questa direzione è la sentenza
n. 30430/2018, nella quale la stessa ha ribadito che “l’insussistenza del fatto contestato comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si rilevi insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, nondimeno non presenti profili di illiceità” precisando però che nell’indagine relativa all’antigiuridicità del fatto non può essere oggetto di giudizio l’eventuale sproporzionalità tra fatto e sanzione.
Sembrerebbe, dunque, che sia la giurisprudenza di merito che la Cassazione siano indirizzate verso l’estensione dei principi generali della teoria del fatto giuridico anche nei confronti dei licenziamenti disciplinari illegittimi comminati ai lavoratori con contratto a tutele crescenti.
4 Sentenza n. 2631 del 15/10/2012 – Tribunale di Bologna
5 Sentenza n. 23669/2014 Corte di Cassazione
In conclusione possiamo vedere come sia la sentenza della Corte Costituzionale che le recenti pronunce della Corte di Cassazione abbiano messo in discussione alcuni punti cardine del Jobs Act, la prima non consentendo più ai datori di lavoro di ipotizzare ex ante una determinazione puntuale dell’indennità spettante al dipendente in caso di licenziamento illegittimo e le seconde, facendo rientrare la concezione di insussistenza del fatto materiale all’interno della teoria del fatto giuridico, non rendendo più certa l’esclusione di una reintegra per quei lavoratori licenziati per motivi disciplinari che pur avendo commesso il fatto contestato non avesse caratteri di illiceità.
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09 gennaio 2020