Tutela dell’ambiente di lavoro nella contrattazione aziendale sviluppata dalle PMI
Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni Industriali
Tutela dell’ambiente di lavoro nella contrattazione aziendale sviluppata dalle PMI
di XXXXXXX XXXXX
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’impatto del decreto legislativo n. 626/1994 sulle dinamiche organizzative delle piccole e medie realtà produttive. – 2.1. Le disposizioni legislative afferenti il livello dimensionale dell’impresa. – 3. Ruolo della contrattazione collettiva nella riforma del 1994. – 3.1. I contenuti della contrattazione di categoria in materia di salute e sicurezza. – 3.2. I rinvii alla contrattazione di 2° livello. – 4. L’analisi della contrattazione aziendale con particolare riferimento alle piccole e medie imprese.
Working paper n. 33/2006
Pubblicazione registrata il giorno 11 novembre 2001 presso il Tribunale di Modena. Registrazione n. 1609
1. Premessa
2. L’impatto del decreto legislativo n. 626/1994
sulle dinamiche organizzative delle piccole
e medie realtà produttive
La disamina del ruolo della contrattazione aziendale delle piccole medie imprese in tema di salute e sicurezza sul lavoro evidenzia una pluralità di livelli di indagine di difficile riconduzione ad una unità argomentativa. Sul presupposto della “centralità” della contrattazione decentrata, quale strumento di adeguamento delle normative generali alle singole unità produttive, si rilevano peraltro profili di criticità non attinenti solamente ad una prospettiva di mera specificazione delle intese sindacali, volta a definire gli ambiti di innovazione e/o integrazione della contrattazione di categoria. Si osserva, infatti, come l’argomento de quo assuma connotati del tutto peculiari nella interrelazione con la legislazione in materia. Per un verso, la quasi totale assenza di rinvii alla contrattazione di secondo livello sembra non solo porre qualche dubbio sul livello di autonomia negoziale delle parti, ma anche costituire un concreto ostacolo per un effettivo spostamento delle relazioni inter-aziendali da un approccio meramente difensivo, di contenimento delle rivendicazioni sindacali, ad un approccio più propriamente promozionale. Per altro verso, la presenza di disposizioni specifiche per le piccole e medie imprese, tra l’altro sulla base di criteri non sempre omogenei con riferimento ai requisiti dimensionali, nonché la configurazione legislativa di un apposito canale rappresentativo, astrattamente non coincidente con le tradizionali rappresentanze sindacali aziendali, paiono costituire profili di rilevante differenziazione, anche metodologica, rispetto ai tradizionali argomenti dell’azione sindacale.
Profilo di differenziazione tanto più evidente se si considera che le tradizionali finalità della dialettica sindacale, divise tra equità ed efficienza, non possono integralmente estendersi al tema della salute sicurezza del lavoro, sul presupposto che la necessita di tutela della persona in quanto tale pare certamente sovraordinarsi a qualunque considerazione di natura economica1. Salvo naturalmente l’utilizzo di strategie di qualità in una prospettiva di marketing sociale. La questione della tutela dell’ambiente di lavoro, genericamente inteso, si inserisce, infatti, perfettamente nel più ampio contesto della responsabilità sociale delle imprese; da cui, nella prospettiva che a noi qui interessa, la rilevanza dello strumento della contrattazione aziendale quale consolidamento di strategie imprenditoriali miranti a logiche profittuali di lungo periodo.
Per tali ordini di ragioni, ma anche per motivi di migliore chiarezza espositiva, prima di procedere alla analisi delle varie clausole dei contratti aziendali (in relazione ad un campione di piccole medie imprese) pare opportuno contestualizzare l’oggetto dell’indagine alla luce sia del rapporto tra PMI e normativa legale sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, sia della interrelazione in materia tra i diversi livelli di contrattazione.
Occorre in primo luogo rilevare che l’impatto del d.lgs. n. 626/1994 sulle dinamiche organizzative aziendali si mostra alquanto differente a seconda del livello dimensionale delle imprese. Le realtà di più grandi dimensioni avevano – mediamente – già prima dell’intervento legislativo adottato un approccio sistematico alle problematiche della sicurezza. Pur nella diversità delle soluzioni individuate, l’introduzione della nuova normativa ha pertanto rappresentato o una mera razionalizzazione e integrazione di quanto già prima praticato o, tutt’al più, l’occasione per una ridefinizione nella attribuzione dei compiti e delle responsabilità relativi alla sicurezza. Per le realtà aziendali di minori dimensioni, invece, l’adeguamento al nuovo impianto legislativo ha assunto connotati di rilevante novità, soprattutto nella prospettiva dell’assetto organizzativo e delle modalità di gestione. È infatti raro che le PMI abbiano avuto prima dell’intervento del legislatore del 1994 un approccio sistematico in materia. Si pensi per esempio alle strategie di formazione
ed informazione del personale, risolte peraltro quasi sempre attraverso modalità dirette ed informali, con l’ausilio delle associazioni di categoria, e ancor di più, agli adempimenti datoriali in tema di valutazione dei rischi, che spesso ha richiesto da parte delle Pmi il ricorso al supporto di consulenti esterni nell’effettuazione di particolari attività di analisi e di progettazione degli interventi.
Lo stesso fulcro della riforma del 1994, incentrata sulla valorizzazione degli adempimenti organizzativi, ancor prima che tecnici, riflette la complessa problematica delle piccole e medie realtà imprenditoriali divisa tra le specifiche e, per un certo senso, accentuate, esigenze di sicurezza, (come evidenziano i recenti dati Inail sulla distribuzione degli infortuni nel lavoro) e le altrettanto specifiche esigenze di compatibilità degli adempimenti legali con le minori risorse finanziare a disposizione. In questo ultimo senso, si ricorda come lo stesso art. 118 A, inserito dall’Atto unico europeo del 1986 nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957, preveda la c.d. clausola di contemperamento, cioè una raccomandazione del legislatore comunitario affinché si evitino che le direttive emanate a tutela dell’ambiente di lavoro impongano vincoli finanziari, amministrativi e giuridici di natura tale da ostacolare lo sviluppo e la creazione di piccole e medie imprese. Il legislatore italiano nel recepire tale principio ha peraltro scelto una strategia di intervento non fondata sulla individuazione di misure alternative specifiche, quanto piuttosto sulla disapplicazione e/o alleggerimento degli adempimenti più onerosi. Si rileva al riguardo una carenza progettuale della riforma, soprattutto in una logica di spostamento da una mera tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori alla più ampia tutela dell’ambiente di lavoro2. Nel primo caso, infatti, le disapplicazioni normative non arrivano a coinvolgere le piccole imprese a rischio specifico, osservandosi inoltre come la prevenzione di peculiari categorie di rischio sia precipuamente svolta all’interno di una logica di adempimenti di natura tecnica comune a tutti o a quasi tutti i livelli dimensionali di impresa. Nel secondo caso, invece, l’assenza legislativa di soluzioni organizzative alternative sembra influire direttamente sulla promozione dei livelli di maturità relativa alla gestione ambientale, ampiamente intesa, sul presupposto, che, a differenza delle aziende di grandi dimensioni, sembra minore sia il fattore motivazionale riguardo l’adozione di politiche avanzate nel campo della gestione organizzativa della sicurezza, a causa in particolare di un minor livello di pressione provenienti dagli stakeholders, sia il livello di consapevolezza delle opportunità esistenti a livello extralegislativo circa l’utilizzo di peculiari strumenti di gestione. Carenza di percezione dovuta certamente ad un minore apporto, anche in senso culturale, della dialettica sindacale, intesa sia in senso partecipativo che contrattuale, ma, in ogni caso, fondata su una strutturale attribuzione in termini di scarsa rilevanza alla opportunità di ricorrere ad una strategia sistematica di miglioramento dell’ambiente di lavoro, quale fattore di promozione dei rapporti con i propri interlocutori esterni. Una conferma a queste osservazioni proviene del resto da una indagine del 1999 su un campione di 100 piccole e medie imprese della Lombardia3, laddove, si è evidenziato, pur avendosi utilizzato un criterio di selezione di eccellenza rispetto al contesto industriale regionale, una significativa peculiarità delle PMI riguardo il peso della legislazione sulle dinamiche organizzative aziendali.
Invero, la menzionata indagine non giunge ad una assoluta univocità di risultato, evidenziandosi qualche elemento di contraddittorietà, o rectius, di complessità nella ricostruzione sistematica dei dati raccolti. Si evidenzia infatti che addirittura il 92% delle aziende coinvolte dichiara di condividere parzialmente o completamente l’affermazione secondo cui il d.lgs. n. 626/1994 e successive modificazioni avrebbe solamente formalizzato interventi che venivano già realizzati negli stabilimenti. La medesima percentuale dichiara altresì di condividere la complessiva logica prevenzionale deducibile nel nuovo impianto legislativo. Sembrerebbe dunque
2.1. Le disposizioni legislative afferenti
il livello dimensionale dell’impresa
trovare smentita la precedente affermazione secondo la quale il d.lgs. n. 626/1994 avrebbe rappresentato una svolta quasi rivoluzionaria nella gestione aziendale della prevenzione dei rischi. Tuttavia, la peculiarità dell’approccio alla sicurezza delle PMI appare riemergere sulla base di una serie di indicazioni. Innanzitutto, l’elevato dato percentuale sulla condivisone della riforma del 1994, pare attenuarsi con riferimento alle imprese con un numero di dipendenti inferiori alle 50 unità. Tale rilievo, senza arrivare a capovolgere e nemmeno a scardinare il valore complessivo dei risultati dell’indagine, sembra però sottolineare la sussistenza di un profilo di diversità tra i diversi livelli dimensionali in materia di sicurezza; profilo che giunge a coinvolgere lo stesso concetto di piccola e media impresa, ponendo non pochi dubbi sulla univocità degli obiettivi, delle esigenze e delle strategie tra imprese con 20/30 lavoratori e imprese con 200/250 lavoratori effettivi. Un secondo fattore da considerare concerne la difficoltà delle piccole e medie imprese a differenziare il profilo teorico da quello applicativo, evidenziandosi una propensione culturale difensiva volta, per un verso, alla condivisione della ratio della riforma, e, per altro verso, a celare “le difficoltà incontrate nell’adeguarsi e scoprire così i propri punti deboli”4. Ne è prova il fatto che a fronte di quesiti non sulla condivisione ma sulla realizzabilità della riforma le risposte delle aziende coinvolte sembrano andare in direzione decisamente opposta. Il 67% del campione ritiene infatti la normativa del 1994 eccessivamente articolata, mentre il restante 33% la ritiene addirittura irrealistica o comunque inadeguata rispetto alla situazione reale. In questo senso si muovono anche ulteriori risposte al questionario. Si consideri in particolare che il 76% delle imprese si è dichiarata concorde con la necessità di semplificazioni e che l’87% delle stesse si è mostrata favorevole alla introduzione di specifici incentivi per le piccole e medie imprese nel raffronto sistematico con gli adempimenti contenuti nella legge. Si consideri infine che la stessa percentuale dell’87% ha denunciato uno scarsa attenzione della disciplina legale al coordinamento tra logica prevenzionale e la necessità di una maggiore flessibilizzazione del rapporto con il contesto giuridico e istituzionale.
Riguardo la strutturazione dei vari adempimenti datoriali e, più in generale, del complessivo sistema prevenzionale di cui al d.lgs n. 626/1994 si rinvia peraltro all’ampia letteratura in materia5 nonché alle considerazioni che saranno svolte successivamente in sede di commento delle varie clausole aziendali6. Ora, più semplicemente, si tratta di delineare brevemente quei profili di disciplina che sono direttamente afferenti al livello dimensionale dell’impresa.
Occorre innanzitutto evidenziare che il legislatore del 1994 non individua un parametro definitorio univoco di piccola e media impresa, appoggiandosi invece su due criteri cumulativi: il primo relativo al numero degli addetti, il secondo relativo alla tipologia dell’attività svolta (industriale, artigiana o commerciale). Il concetto così delineato si affida dunque “ad indicazioni puramente numeriche, per di più variabili”7, condizionate, infatti, dalla sussistenza o meno nella impresa, pur di ridotte dimensioni, di rischi particolari o specifici.
Tale variabilità del profilo definitorio pone, inoltre, qualche problema di coordinamento con i criteri di individuazione delle PMI adottati dai decreti ministeriali in ottemperanza alla disciplina comunitaria, al fine di selezionare le imprese che possono accedere ai meccanismi nazionali e ai programmi europei di sostegno. Xxxxxxx, infatti, non sempre corrispondenti ai livelli dimensionali “agevolati” individuati dal d.lgs. n. 626/1994 e, per di più, identificati sulla base del rispetto di soglie, non presenti nella riforma del 1994, relative al totale di bilancio oppure al volume di affari8.
Ma analizziamo in dettaglio le specifiche disposizioni del decreto legislativo del 1994.
Innanzitutto, l’art. 4, comma 11, prevede che i datori di lavoro delle aziende familiari9
nonché delle aziende che occupano fino a dieci addetti non siano soggetti all’obbligo di elaborazione e redazione del documento di valutazione dei rischi, potendo sostituire tale onere mediante l’autocertificazione per iscritto dell’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi e l’adempimento degli obblighi ad essa collegati. Il legislatore esclude, peraltro, da tale beneficio alcune specifiche categorie di imprese, e precisamente: le aziende che svolgono le attività industriali di cui all’art. 1 del d.P.R. 17 maggio 1988, n. 175, e successive modifiche, soggette all’obbligo di dichiarazione o notifica ai sensi degli artt. 4 e 6 del decreto stesso, le centrali termoelettriche, gli impianti ed i laboratori nucleari, le aziende estrattive e altre attività minerarie, le aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, gli ospedali e le cliniche, nonché tutte le varie aziende soggette a particolari fattori di rischio, individuate nell’ambito di specifici settori produttivi con uno o più decreti del ministro del lavoro. Si aggiunga, inoltre, che anche per le imprese esenti ex art. 4, comma 11, d.lgs. n. 626/1994, è da escludersi che l’autocertificazione possa tradursi in una mera dichiarazione di avvenuta valutazione dei rischi, dovendo questa formalizzarsi per lo meno nella indicazione sia dei criteri utilizzati, che delle specifiche misure prevenzionali adottate10. Si consideri del resto che l’assenza di un adeguato riscontro documentale potrebbe precludere l’accesso ad una pluralità di agevolazioni normative, tra le quali, in primis, il ricorso a forme di lavoro subordinato non standard, quali, in particolare (ma non solo), il lavoro a tempo determinato e la somministrazione di lavoro, Tipi contrattuali, questi, espressamente vietati per le imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi11. In questo senso, è indicativo che i dati forniti dal Rapporto conclusivo del progetto e monitoraggio e controllo dell’applicazione del d.lgs. n. 626/199412 abbiano rivelato che più della metà delle piccolissime imprese monitorate si siano dotate di un documento di valutazione, pur non avendone l’obbligo formale. Segnale evidente che una formalizzazione della gestione della sicurezza costituisce uno strumento di notevole importanza per interfacciarsi con il contesto legale e sociale di riferimento. Sempre con riferimento all’obbligo di valutazione dei rischi occorre infine ricordare che il dm 5 dicembre 1996 ha dato attuazione all’art. 4, comma 9, d.lgs. n. 626/1994, prevedendo procedure standardizzate per i relativi adempimenti documentali da parte delle piccole e medie imprese di cui all’allegato 1 del decreto legislativo in oggetto, vale a dire: a) le aziende artigiane e industriali fino a 30 addetti; b) le aziende agricole e zootecniche fino a 10 addetti13; c) le aziende della pesca fino a 20 addetti; d) tutte le restanti aziende fino a 200 addetti.
Le appena menzionate categorie di imprese sono destinatarie di una ulteriore specifica disposizione. L’art. 10, d.lgs. n. 626/1994, prevede, infatti, che in tali casi il datore di lavoro possa svolgere direttamente i compiti propri del servizio di prevenzione e protezione dai rischi nonché di prevenzione incendi e di evacuazione. Per poter usufruire di suddetta agevolazione il datore di lavoro deve darne preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e trasmettere all’organo di vigilanza competente per territorio: a) una dichiarazione attestante la capacità di svolgimento dei compiti di prevenzione e protezione dai rischi; b) una dichiarazione attestante gli adempimenti di cui all’art. 4, commi 1, 2, 3 e 11; c) una relazione sull’andamento degli infortuni e delle malattie professionali della propria azienda elaborata in base ai dati degli ultimi tre anni del registro infortuni o, in mancanza dello stesso, di analoga documentazione prevista dalla legislazione vigente; d) l’attestazione di frequenza del corso di formazione in materia di sicurezza e salute sul luogo di lavoro. Interessante è notare, in sede di implementazione della norma, come lo sfruttamento di siffatta possibilità sia direttamente proporzionale al livello dimensionale dell’impresa. Al riguardo il menzionato Rapporto del 2003 rileva infatti che nelle piccolissime aziende il
responsabile SPP è il datore di lavoro stesso nel 52% dei casi, scendendo invece la percentuale al 39% nelle piccole aziende, e ad una percentuale ancora inferiore nelle aziende medie (rientranti comunque nelle categorie di imprese esonerate).
Da rilevare, sempre con riferimento al servizio di prevenzione e protezione, che il legislatore ex art. 4, comma 10, d.lgs. n. 626/1994, lett a), ha previsto la possibilità, con uno o più decreti dei Ministri del lavoro e della previdenza sociale, dell’industria del commercio e dell’artigianato e della sanità, sentita la Commissione consultiva permanente per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, di individuare i casi relativi a ipotesi di scarsa pericolosità, nei quali è possibile lo svolgimento diretto dei compiti di prevenzione e protezione in aziende ovvero unità produttive che impiegano un numero di addetti superiore a quello indicato nel menzionato allegato I. Ad oggi, peraltro, nessun decreto ministeriale è stato emanato.
È stato invece emanato il decreto che da attuazione alla lett. b) del citato art. 4, comma 10, in tema di individuazione dei casi in cui è possibile la riduzione a una sola volta all’anno della visita di cui all’art. 17, lett. h), degli ambienti di lavoro da parte del medico competente, ferma restando l’obbligatorietà di visite ulteriori, allorché si modificano le situazioni di rischio. Il dm 16 gennaio 1997 dispone al riguardo che, per tutte le aziende rientrante nell’allegato I del d.lgs. n. 626/1994, la visita del medico competente può essere ridotta ad una volta l’anno, in presenza di una valutazione congiunta del datore di lavoro, del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, del medico competente e del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Il datore di lavoro a questo fine deve produrre una dichiarazione in tal senso, da custodire presso l’azienda ovvero l’unità produttiva. Qualora però dovesse ritenersi modificata la situazione di rischio da parte di uno dei componenti il gruppo di valutazione, il datore di lavoro dovrà provvedere a rettificare la precedente dichiarazione.
Connesse al livello dimensionale dell’impresa sono anche le disposizioni ex art. 11, d.lgs. n. 626/1994, in materia di riunione periodica sulla prevenzione e partecipazione dei rischi. Per le aziende, ovvero unità produttive, che occupano più di 15 dipendenti, tale riunione, con la partecipazione di tutti i soggetti della sicurezza, è obbligatoria almeno una volta l’anno e, in aggiunta, in tutte le occasioni in cui si verificano significative variazioni delle condizioni di esposizione del rischio. Per le aziende o unità produttive che occupano fino a 15 dipendenti, invece, la riunione periodica è solo eventuale, essendo condizionata dalla richiesta di convocazione da parte del rappresentante della sicurezza: richiesta, per di più, attivabile non in via generale ma solo in presenza di significative variazioni delle condizioni di sicurezza14.
Riferimenti ai medesimi livelli dimensionali sono contenuti anche nell’art. 18, d.lgs.
n. 626/1994, che disciplina l’elezione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Si stabilisce, infatti, che nelle aziende o unità produttive con 15 o meno dipendenti l’RSL sia eletto direttamente dai lavoratori al loro interno, favorendosi quindi la volontà diretta degli stessi15. Si dispone altresì che, nelle stesse imprese, il rappresentante per la sicurezza possa essere individuato per più aziende nell’ambito territoriale ovvero del comparto produttivo; in questo caso è possibile che l’RSL sia designato o eletto nell’ambito delle rappresentanze sindacali, così come definite dalla contrattazione collettiva di riferimento16. La stessa contrattazione provvede altresì a definire esattamente il numero dei rappresentanti, nel rispetto peraltro del numero minimo previsto dalla legge, e, precisamente: a) un rappresentante nelle aziende ovvero unità produttive sino a 200 dipendenti; b) tre rappresentanti nelle aziende ovvero unità produttive da 201 a 1000 dipendenti; c) sei rappresentanti in tutte le altre aziende ovvero unità produttive.
Ultime considerazioni devono compiersi in materia di delega di funzioni17. Antecedentemente al d.lgs. n. 626/1994 così come modificato dal d.lgs. n.
3. Ruolo della
contrattazione collettiva nella riforma del 1994
242/1996, la giurisprudenza di legittimità era sostanzialmente unanime nel circoscrivere la possibilità di conferire la delega solo nelle imprese di grandi o rilevanti dimensioni18. Successivamente si è via via maturato, fino a divenire ora orientamento assolutamente prevalente19, un principio di validità fondato esclusivamente sulla effettività, in senso gestionale e finanziario della delega, senza alcun riferimento alla rilevanza del livello dimensionale. Riferimento, del resto, non previsto nell’art. 1, comma 4-ter, del decreto legislativo in oggetto, laddove nell’indicare specificamente gli adempimenti non delegabili dal datore di lavoro, determina il riconoscimento normativo dell’istituto della delega di funzioni. Riferimento, inoltre, disconosciuto da gran parte della dottrina ancor prima dell’entrata in vigore della disciplina del 199420, sul presupposto che, per un verso, il concetto di complessità aziendale non si esaurisce in un aspetto puramente dimensionale, potendo riguardare anche il grado di specializzazione delle attività in questione, e che, per altro verso, il giudice non può sindacare l’esigenza di una ripartizione di compiti, risolvendosi ciò in una violazione del principio di libertà di iniziativa economica privata.
Un elemento decisivo a favore della possibilità di delega anche per le piccolissime aziende può, del resto, essere individuato nell’art. 1, comma 4-bis, del d.lgs. n. 626/1994, cosÏ come modificato dal d.lgs. n. 242/1996. In esso, infatti, tra gli adempimenti indelegabili da parte del datore di lavoro, viene menzionato anche l’obbligo di auto-certificazione concernente l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi. Ora, dal momento che tale incombenza costituisce una modalità semplificata di adempimento a favore delle aziende familiari e delle imprese che occupano fino a dieci addetti, si deduce a contrario che nelle piccole realtà produttive sono delegabili tutti gli obblighi che non si traducano nella predetta attività di auto-certificazione.
Delineato sinteticamente il quadro delle disposizioni normative con riferimento al livello dimensionale dell’impresa, si tratta ora di analizzare funzioni e contenuti della contrattazione collettiva. Il d.lgs. n. 626/1994, in questo senso, ha rappresentato certamente un grosso passo in avanti verso una piena valorizzazione del profilo collettivo della sicurezza: profilo, peraltro, inquadrato per lo più all’interno di un sistema di partecipazione equilibrata dei lavoratori e dei loro rappresentanti su tutte le questioni concernenti la tutela della salute nei luoghi di lavoro. Per converso, il ruolo assegnato alla contrattazione collettiva appare di dubbia qualificazione. Da una parte, è vero che con il decreto del 1994 si incomincia “ad accogliere l’idea che la tutela della salute non consista più soltanto nell’adozione di misure per la prevenzione di malattie e infortuni, ma nella predisposizione delle condizioni per la realizzazione di uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale”: concezione, questa, che “apre nuovi e importanti scenari al tema della sicurezza e al ruolo dell’autonomia collettiva”21. Dall’altra parte, i rinvii contenuti nella legge alla contrattazione sono pochissimi e, in ogni caso, circoscritti a profili estranei all’individuazione del contenuto dell’obbligo di sicurezza: rinvii infatti limitati alle modalità di elezione e svolgimento delle RSL (cfr. art. 18, d.lgs. n. 626/1994) e ad alcuni casi di specificazione del dato legale, quali, l’individuazione (anche da parte dei contratti aziendali) delle modalità delle interruzioni per i prestatori che svolgano la propria attività ai videoterminali per almeno 4 ore consecutive (cfr. art. 54, d.lgs.
n. 626/1994), la determinazione delle procedure per la manipolazione e il trasporto in condizioni di sicurezza di agenti biologici all’interno del luogo di lavoro (cfr. art. 79, comma 2, lett. m), d.lgs. n. 626/1994), la determinazione del periodo massimo di adibizione a mansioni inferiori del lavoratore allontanato temporaneamente da una attività comportante esposizione a un agente chimico, fisico o biologico (cfr. art. 8, comma 3, d.lgs. n. 277/1991). A tali casi si può poi aggiungere la costituzione ex art.
3.1. I contenuti della contrattazione di categoria
in materia di salute
e sicurezza.
20, d.lgs. n. 626/1994, degli organismi paritetici tra le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, con funzioni di orientamento e di promozione di iniziative formative nei confronti dei lavoratori. La natura di negozio collettivo di tali enti sembra infatti desumersi dalla disposizione di salvaguardia di cui al comma 2 del predetto art. 20, in virtù della quale sono fatti salvi gli organismi bilaterali o partecipativi previsti da accordi interconfederali, di categoria, nazionali, territoriali o aziendali.
A questo breve elenco si potrebbe, peraltro, sommare, rifacendosi alla già accennata idea allargata di sicurezza e ad una concezione della riforma del 1994 in stretta interrelazione con il contesto legale di riferimento, tutti quei rinvii legislativi volti alla tutela della salute sotto il profilo del rischio sotteso a determinate condizioni socio-economiche, psicologico emotive connesse a specifici processi organizzativi, metodi lavorativi, o a forme di precarietà del lavoro. Si pensi in particolare a tutti i rinvii alla contrattazione in funzione di controllo e/o promozione delle nuove tipologie di lavoro flessibile22, e soprattutto in materia di flessibilità dell’orario e dei ritmi di lavoro23, anche in relazione al coordinamento con gli stessi ritmi di vita24.
Resta, tuttavia, la considerazione che con riferimento alle concrete determinazioni delle misure preventive, soprattutto in una stretta prospettiva antinfortunistica, la scarsità dei richiami alla contrattazione collettiva “sembrerebbe dare ragione a quella parte della dottrina che ritiene la metodologia negoziale strutturalmente inidonea da sola a fornire soluzioni adeguate alle problematiche dell’ambiente di lavoro”25.
La disamina dei vari accordi di categoria evidenzia, del resto, una scarsa autonomia normativa degli stessi, attenendosi scrupolosamente ai limiti legali di cui al d.lgs. n. 626/1994. Anzi, il più delle volte, la disciplina sulle forme di rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza esaurisce quasi del tutto la parte negoziale relativa alla tutela dell’ambiente di lavoro.
Del resto, storicamente, proprio l’esercizio dei poteri collettivi in materia di salute e sicurezza ha costituito il profilo più indagato dalla contrattazione. Ciò almeno da quando il riconoscimento normativo ex art. 9, l. n. 300/1970 (il c.d. Statuto dei lavoratori) del diritto di rappresentanze di lavoratori a partecipare al sistema di sicurezza in funzione di controllo e promozione ha spostato il precedente modello culturale da una politica di mera monetizzazione del rischio a una politica di gestione dei problemi connessi al luogo di lavoro. Si pensi in particolare al Ccnl metalmeccanici del 1° maggio 1976 o al Ccnl per le industrie chimiche del 1° aprile dello stesso anno laddove si prevedevano sistemi informativi diretti a coinvolgere i lavoratori nell’organizzazione del lavoro, per il tramite delle rappresentanze sindacali presenti in azienda. In particolare, il Ccnl industrie chimiche prevedeva che venissero attribuiti al Consiglio di Fabbrica i compiti relativi alla promozione della ricerca e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica del lavoratore e riconosceva alle rappresentanze il diritto a partecipare agli accertamenti relativi a condizioni di nocività e particolare gravosità. Veniva, inoltre, riconosciuto il diritto a partecipare agli incontri con l’azienda ai membri del Consiglio di Fabbrica ed ai lavoratori del gruppo direttamente esposto alle specifiche condizioni ambientali in discussione. I datori di lavoro avevano altresì l’obbligo di portare a conoscenza dei Consigli di Fabbrica i programmi di investimento concernenti il miglioramento dell’ambiente di lavoro e la sicurezza. Anche in caso di innovazioni produttive che comportassero l’esposizione dei lavoratori a nuovi agenti di rischio, l’Azienda era tenuta ad attenersi alle acquisizioni medico-scientifiche esistenti dandone però preventiva informazione al Consiglio di Fabbrica.
Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 626/1994 l’articolazione dei poteri delle rappresentanze per la sicurezza è stata direttamente disciplinata dal legislatore, pur
rinviando alla contrattazione un importante ruolo di implementazione e/o integrazione del dato legale.
Significative, innanzitutto, sono le disposizioni contrattuali in relazione alle modalità elettive dell’RSL. La maggior parte dei Ccnl si limita a ribadire quanto stabilito dai vari accordi interconfederali stipulati subito dopo la riforma del 1994, concordi quasi tutti nel fissare nell’ambito delle RSU l’elezione del rappresentante – per una durata dell’incarico pari a tre anni – a suffragio universale diretto e a scrutinio segreto con la possibilità di elettorato passivo solo per i lavoratori subordinati non in prova con contratto a tempo indeterminato. Importante differenziazione di disciplina a livello interconfederale si riscontra, peraltro, con riferimento all’ambito di elezione per i rappresentanti nelle aziende o unità produttive sino a 15 dipendenti. L’accordo Confindustria del 22 giugno 2005, così come quello Confapi del 27 ottobre dello stesso anno affermano il carattere aziendale dell’RSL, essendo questo eletto dai lavoratori dell’azienda al loro interno. Da evidenziare, al riguardo, che alcuni contratti di categoria non rilevano la necessità di una apposita riunione per l’elezione del rappresentante, dovendosi riunire le funzione di questi con quelle del delegato di impresa, ove tale carica sindacale risulti attivata26. L’accordo Confartigianato del 22 ottobre 1995, diversamente, privilegia il carattere territoriale del rappresentante27, non potendo tuttavia tale rappresentanza essere riconosciuta in capo agli stessi soggetti che svolgono la funzione di rappresentanti sindacali di bacino ai sensi dell’accordo interconfederale del 21 luglio 1988, distinguendosi in tal modo le funzioni contrattuali rispetto a quelle partecipative.
Altra funzione attribuita alla contrattazione è la determinazione del numero dei rappresentanti per azienda o unità produttiva. I contratti nazionali di categoria non sembrano, peraltro, il più delle volte, discostarsi dei livelli minimi stabiliti a livello di accordo intercorfederale, a loro volta facenti riferimento ai livelli normativi di cui all’art. 18, comma 6, d.lgs n. 626/1994. Tra le poche eccezioni, si segnala in particolare il Ccnl per le aziende chimiche del 12 febbraio 2002 in cui si prevede l’elezione, diversamente dal dato legale, ma in linea con la flessibilità decisionale attribuita dal livello confederale a quello di categoria in relazione a specifici settori di attività: di 2 rappresentanti nelle imprese o unità produttive che occupano da 101 a 200 dipendenti; da 3 a 6 rappresentanti nelle imprese o unità produttive che occupano da 201 a 1.000 dipendenti; da 6 a 9 rappresentanti nelle imprese o unità produttive di maggiori dimensioni. Si veda anche il Ccnl industria tessile del 28 maggio 2004 laddove prevede 2 rappresentanti nelle unità produttive da 121 a 200 dipendenti.
Importante è il ruolo della contrattazione anche per l’attuazione del principio di cui al comma 2 dell’art. 19, d.lgs. n. 626/1994, in cui si prevede che l’RSL deve disporre del tempo necessario allo svolgimento dell’incarico senza perdita di retribuzione. Al riguardo, è da rilevare come gli accordi collettivi operino un fondamentale distinguo tra attività sindacale in senso stretto e quella propriamente di rappresentanza per la sicurezza. L’RSL, infatti, quant’anche sia un esponente sindacale in azienda e per tali motivi abbia un certo quantitativo di ore di permesso, qualora svolga una diversa attività, vale a dire una attività prevenzionistica ex art. 19, d.lgs. n. 62671994, si può avvalere di ulteriori permessi rispetto a quelli riconosciuti in vece di rappresentante delle Rsu. In questo senso si veda l’accordo interconfederale Confindustria del 22 giugno 1995, che riconosce, in aggiunta alle ore di permesso delle Rsu, ulteriori 40 ore di permesso annue. In senso ancora migliorativo si vedano altresì: il Ccnl industria tessile del 28 maggio 2004, il Ccnl Chimici del 12 febbraio 2002, nonché il Ccnl Alimentari del 5 giugno 1999.
A queste ore di permesso retribuito vanno inoltre aggiunte quelle previste per l’espletamento della formazione dei rappresentanti per la sicurezza. Gli accordi interconfederali del 22 giugno 1995 Confindustria, del 27 ottobre 1995 Confapi, del
22 novembre 1995 Confartigianato prevedono, infatti, che la formazione si svolga mediante permessi retribuiti aggiuntivi rispetto a quelli già previsti per la loro attività. Formazione che deve prevedere un programma base di 32 ore e deve comprendere: conoscenze generali sugli obblighi e diritti previsti dalla normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro; conoscenze generali sui rischi dell’attività e sulle relative misure di prevenzione e protezione; metodologie sulla valutazione del rischio; metodologie minime di comunicazione. Ulteriori contenuti specifici della formazione (anche in tema di metodologia didattica), con riferimento a peculiarità dei propri comparti, possono essere individuati – a norma dei menzionati accordi – dalla contrattazione nazionale di categoria. La maggior parte dei Ccnl si limita, peraltro, a ribadire i contenuti delle intese interconfederali di riferimento, rinviando tutt’al più ai relativi organismi bilaterali l’individuazione di contenuti specifici per la formazione dei RSL28, o prevedendo un’integrazione della formazione a carico del datore di lavoro solo nel caso in cui vengano introdotte innovazioni che abbiano rilevanza ai fini della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. In detti casi, alcune disposizioni contrattuali affermano, laddove le parti concordino sulla necessità di un più elevato ricorso alla formazione rispetto ai programmi base di 32 ore, la possibilità di definire progetti formativi privilegiando l’utilizzo del monte previste dagli stessi Ccnl per il diritto allo studio29.
Più raramente, le disposizioni collettive assumono un ruolo maggiormente penetrante di vera e propria specificazione e /o integrazione del dato legale. Si pensi soprattutto alle modalità di svolgimento delle riunioni periodiche ex art. 11, d.lgs. n. 626/1994, che, nel silenzio della legge, sono state dettagliatamente disciplinate dall’accordo interconfederale del 22 giugno 1995, estendo altresì a tutte le imprese, indipendentemente dal loro livello dimensionale, la possibilità per il rappresentante della sicurezza di richiedere la convocazione della riunione al presentarsi di gravi e motivate situazioni di rischio o di significative variazioni delle condizioni di prevenzione in azienda. Da evidenziare che il Ccnl metalmeccanici (industria) del 7 maggio 2003 ha aggiunto una ulteriore ipotesi di convocabilità della riunione, qualora cioè il rappresentante per la sicurezza ritenga, come previsto dall’art. 19, lett. o), del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che le misure di prevenzione e protezione dai rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonei a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro. In tale occasione, le parti qualora siano d’accordo sulla necessità di procedere a verifiche o accertamenti potranno valutare di affidare ad Istituti o Enti qualificati, scelti di comune accordo, le rilevazioni o le indagini che si ritenessero necessarie secondo le modalità concordemente individuate.
Altre disposizioni contrattuali provvedono poi a ponderare le prerogative sindacali sulla base di parametri di tutela della salute dei lavoratori. Si pensi per esempio al Ccnl aziende cooperative metalmeccaniche dell’8 luglio 2003 in cui si prevede, per un verso, che lo svolgimento delle riunioni durante l’orario di lavoro dovrà aver luogo comunque con modalità che tengano conto della esigenza di garantire la sicurezza delle persone e la salvaguardia degli impianti, e per altro verso, che al monte ore annuo per il diritto di assemblea durante l’orario di lavoro venga aggiunta un’ulteriore ora esclusivamente dedicata all’informazione ai lavoratori sui temi della salute e della sicurezza.
Altre disposizioni30 ancora si preoccupano di delineare delle linee guida sui criteri di gestione degli appalti al fine contribuire a promuovere da parte delle imprese, dei lavoratori e delle loro rappresentanze criteri di gestione delle problematiche ambientali e di sicurezza improntate alla partecipazione eliminando atteggiamenti di tipo burocratico e veicolando la fase di esternalizzazione nel rispetto delle caratteristiche dimensionali e operative delle differenti imprese.
Per il resto, quasi tutti i contratti di categoria contengono ampie dichiarazioni di
principio sulla importanza della tutela delle condizioni di lavoro e sulla condivisione dell’obiettivo del continuo miglioramento del livello di salute e sicurezza sul luogo di lavoro. A queste generiche formulazioni fa spesso seguito l’enunciazione di buona parte delle disposizioni legislative vigenti, con particolare riferimento agli obblighi dell’impresa e ai diritti e agli obblighi dei lavoratori. Molto diffuse, almeno in certi settori, sono anche le disposizioni relative alla tenuta dei registri dei dati ambientali e biostatici e delle cartelle di rischio31, nonché quelle relative all’istituzione di commissioni e organismi paritetici32.
Si tratta, tuttavia, in linea generale, di previsioni contrattuali che sono state introdotte in prossimità della riforma del 1994, non rilevandosi invece delle importanti innovazioni nelle ultime tornate contrattuali, orientandosi, per contro, il prevalente interesse delle parti contraenti “nei confronti di temi di forte impatto sociale, come l’eliminazione dello sfruttamento del lavoro minorile”33.
Tra i pochi aspetti innovativi in tema di salute e sicurezza si evidenzia, peraltro, la recente attenzione della contrattazione alle tematiche inerenti al benessere psicofisico del lavoratore, in relazione, in particolare, alla tutela di quest’ultimo rispetto ad azioni di carattere vessatorio nei luoghi di lavoro: il c.d. mobbing34. Al riguardo, le tipologie di intervento dei contratti collettivi non si presenta uniforme, differenziandosi sulla base della intensità e specificazione delle relative disposizioni. Alcuni contratti di categoria si limitano solamente a sottolineare l’opportunità che il rapporto di lavoro si svolga in un clima aziendale idoneo allo svolgimento dell’attività, imponendo al datore di lavoro di assicurare il rispetto della dignità della persona in ogni suo aspetto, prevenendo ogni comportamento improprio che arrechi offesa alla personalità e all’integrità psico-fisica della lavoratrice e del lavoratore35. La scarsa considerazione da un punto di vista giuridico del fenomeno mobbing nei suoi profili definitori e di prevenzione si rileva del resto nelle previsioni in cui si sancisce l’impegno delle parti di incontrarsi sono in caso di emanazione di norme specifiche36.
Altri contratti, diversamente, sanciscono l’impegno delle parti di incontrarsi per affrontare il problema, indipendentemente dalla eventuale e futura emanazione di una legge ad hoc. Quasi sempre tale confronto viene individuato nell’ambito di apposite commissioni o altri enti paritetici variamente denominati; a volte, nell’ambito di enti o commissioni non appositamente costituiti ma già presenti in relazione a diverse finalità. È il caso per esempio del Ccnl commercio del 2 luglio 2004 in cui l’organo di attivazione della strategia ricognitiva/preventiva viene individuato nella Commissione paritetica permanente per le pari opportunità. Le funzioni di tali organi sono quasi sempre ricognitive volte alla raccolta dei dati relativi all’aspetto qualitativo e quantitativo del fenomeno del mobbing ovvero alla individuazione delle possibili cause della problematica, con particolare riferimento alla verifica dell’esistenza di condizioni di lavoro o fattori organizzativi e gestionali che possano determinare l’insorgenza di situazioni persecutorie o di violenza morale. Anche allorquando viene attribuita a tali organismi una competenza specifica di carattere propositivo – quale, a titolo di esempio, la formulazione sia di proposte di azioni positive in ordine alla prevenzione e alla repressione delle situazioni di criticità, anche al fine di realizzare misure di tutela del/della dipendente interessato, sia di un codice quadro di condotta37 – non viene, peraltro, indicata alcuna modalità temporale di individuazione e di conseguente adozione delle misure preventive. Vengono in tal modo a configurarsi norme di carattere autoreferenziale, lasciando “alle parti sociali la scelta circa l’opportunità e le modalità dell’intervento così da dover essere ricondotta alla parte obbligatoria del contratto collettivo”38, con la conseguenza di non determinare alcun diritto soggettivo a vantaggio dei singoli lavoratori, consentendo solo alle organizzazioni sindacali di attivare la procedura ex art. 28 Statuto dei lavoratori in caso di impedimento del confronto da parte del
datore di lavoro39.
Le disposizioni contrattuali più complete da un punto di vista della strategia di lotta al mobbing, se si escludono i Ccnl del settore pubblico40, si trovano senza dubbio in alcuni Ccnl del settore cooperativo. Emblematico è, in particolare, l’accordo di rinnovo metalmeccanica (cooperative) dell’8 luglio 2003. In esso si trova formulato un vero e proprio codice di condotta. Oltre al profilo definitorio del mobbing e alla enucleazione di alcuni principi a tutela della dignità, libertà e riservatezza dei lavoratori, importante previsione è quella che istituisce la figura della/del Consigliera/e di Fiducia, i cui compiti sono individuati nel relativo regolamento e sintetizzabili: a) nello svolgimento di attività di prevenzione attraverso iniziative di tipo culturale, formativo e informativo; b) nel sostegno e assistenza alle persone vittime di molestie sessuali e mobbing; c) nella indicazione delle misure organizzative ritenute di volta in volta utili alla cessazione immediata dei comportamenti di molestie sessuali e mobbing; d) nella verifica, qualora vi siano fondati motivi, che i vari atti aziendali non siano stati viziati da atteggiamento di molestia sessuale o mobbing avanzando, se del caso, proposte per una maggiore tutela delle lavoratrici e dei lavoratori; e) nella trasmissione annuale ai firmatari del Ccnl di una apposita relazione sullo stato di attuazione del Codice di Comportamento. Si sottolinea, inoltre, che il Consigliere di Fiducia agisce in piena autonomia e che l’Azienda dovrà impegnarsi a mettere a disposizione del Consigliere tutti gli strumenti necessari per lo svolgimento dei propri compiti garantendo la riservatezza della sua attività. L’accordo collettivo in questione prevede poi tre distinte e alternative procedure da adottare in caso di mobbing. Innanzitutto, la procedura informale, consistente nel tentativo di composizione della controversia mediante rapporto diretto con l’autore/autrice delle molestie sessuali o del mobbing. La funzione conciliativa viene attribuita al consigliere di fiducia, che ha il compito preliminare di accertare i fatti41 e, in conseguenza, di favorire il superamento della situazione di disagio e ripristinare un sereno ambiente di lavoro, facendo presente al presunto autore/autrice che il suo comportamento scorretto deve cessare perché offende, crea disagio e interferisce con lo svolgimento del lavoro. Qualora le parti non intendano giungere alla composizione pacifica di cui sopra o nell’ipotesi che il tentativo di composizione pacifica non vada a buon fine, possono chiedere al Consigliere di Fiducia di risolvere la controversia in sede arbitrale42. Infine, ove la persona oggetto di mobbing non ritenga di far ricorso alla procedura informale, ovvero qualora dopo tale intervento, il comportamento indesiderato permanga, potrà sporgere formale denuncia, anche avvalendosi dell’assistenza del Consigliere di fiducia, al proprio Dirigente o al Dirigente del Personale. Si prevede quindi l’attivazione di un procedimento disciplinare43 a carico dell’autore dell’illecito con la successiva adozione delle opportune misure organizzative Si prevede altresì che, in attesa della conclusione del procedimento disciplinare, su richiesta di uno o entrambi gli interessati, la cooperativa, nel rispetto della l. n. 125/1991, possa adottare un provvedimento di trasferimento in via temporanea al fine di ristabilire un clima sereno.
3.2. I rinvii alla contrattazione di 2° livello
Così sinteticamente delineato il quadro dei contenuti della contrattazione collettiva in tema di salute e sicurezza, anche nella più ampia prospettiva della tutela del benessere psicofisico del lavoratore, diamo ora un breve sguardo alla funzione attribuita dai contratti di categoria alla contrattazione aziendale.
I rinvii più numerosi sono in relazione al contenuto del livello di informazione44 dei lavoratori e formazione dei rappresentanti dei lavoratori, in considerazione di una migliore valutazione delle problematiche da parte di chi opera nelle singole realtà produttive. In questa stessa prospettiva, trovano giustificazione i numerosi rinvii alla
4. L’analisi della contrattazione aziendale con particolare riferimento alle piccole e medie imprese
contrattazione di 2° livello circa l’eventuale previsione di permessi retributivi aggiuntivi, connessi sia allo svolgimento dei propri compiti istituzionali, sia allo svolgimento di attività di mera formazione. Numerosi, altresì, sono i rinvii relativi alla individuazione degli specifici strumenti di protezione e di tutela dell’igiene45. Più rare sono, invece, le disposizioni contrattuali che attribuiscono alla contrattazione aziendale una specifica competenza in tema di individuazione di soluzioni organizzative e procedurali, anche se – occorre dire – tale più ampia competenza viene assorbita dai generici rinvii alla contrattazione integrativa in materia di salute e sicurezza. Rinvii, questi ultimi, che nel panorama contrattuale prendono la forma: a) di mera possibilità di concordare a livello di azienda norme riguardanti l’ambiente e la sicurezza nei luoghi di lavoro46; b) di vera e propria necessità di realizzare in materia accordi aziendali47; c) di mera salvaguardia rispetto a quanto già deciso da contratti di 2° livello48.
Ma veniamo finalmente ai contenuti della contrattazione aziendale. Indagine che avrà per oggetto le disposizioni in materia di ambiente di lavoro in relazione alle piccole e medie realtà industriali, rispetto ad un campione di imprese situate nell’area lombardo veneta e in particolare nelle province di Bergamo e Vicenza.
Primo dato di manifesta evidenza è la scarsità dei riferimenti in materia di salute e sicurezza. Non solo sono poco numerosi gli accordi aziendali che prevedono al riguardo specifiche disposizioni, ma anche laddove i contratti affrontano la questione quasi sempre non si spingono al di là di generiche affermazione di principio sulla condivisione dell’importanza della tutela dell’ambiente di lavoro.
Del resto, ad una prima considerazione di intima connessione tra la complessità organizzativa dell’impresa e la necessità di una più intensa strategia di tutela dell’ambiente di lavoro, soprattutto in una prospettiva di razionalizzazione e ottimizzazione delle competenze dei vari soggetti del sistema sicurezza, a cui si accompagna il rilievo di una inevitabile distanza culturale e di sensibilità con riferimento alle problematiche sull’ambiente di lavoro rispetto alle aziende di più grandi dimensioni, deve aggiungersi l’ulteriore considerazione, secondo la quale – come già accennato in sede di premessa – è la stessa contrattazione aziendale indipendentemente dal livello dimensionale dell’impresa a scontare sul punto delle oggettive difficoltà. Queste, in particolare, identificabili, per un verso, nello scarso rilievo promozionale presente nel dato legislativo, vista la quasi totale assenza di rinvii al 2° livello di contrattazione, per altro verso, nel coinvolgimento di diritti fondamentali del lavoratore, quali, in primis, il diritto alla salute, ontologicamente poco confacenti a proposte di flessibilizzazione e/o razionalizzazione della struttura organizzativa, così come a qualunque valutazione di natura prettamente economica, se non nella esclusiva prospettiva di un sistema di qualità fondato su logiche reddituali di lungo periodo.
Nemmeno, infatti, il panorama complessivo degli accordi aziendali concernenti i grandi e medio grandi gruppi industriali rivela un quadro del tutto soddisfacente. È vero che pressoché tutti gli accordi contengono una apposita sezione dedicata alla tutela dell’ambiente di lavoro, tuttavia, essa spesso si riduce a mere dichiarazioni di principio o, comunque, a previsioni di natura meramente programmatica, risolvendosi, inoltre – quasi sempre – le diverse questioni circa l’implementazione delle disposizione legislative, attraverso un mero rinvio ai relativi contratti categoria e ai relativi accordi interconfederali di settore. Alcuni contratti, semmai, si preoccupano di specificare le cadenze degli incontri, già previsti a livello di Ccnl, individuando inoltre le questioni di maggior interesse in relazione alle peculiari caratteristiche delle imprese. Molto rari sono invece gli accordi che prevedono determinate modalità di valutazione congiunta dei rischi da parte di tutti i soggetti del sistema sicurezza49, così come anche gli accordi che si preoccupano di definire dei
criteri minimi da applicare nella progettazione ergonomica e nella scelta delle caratteristiche tecniche delle apparecchiature e dei posti di lavoro50. Si delinea, quindi, un quadro, al di là dei contenuti programmatici relativi a confronti e verifiche comuni, anche mediante la costituzione di apposite commissioni paritetiche, al di là delle dichiarazioni di disponibilità a svolgere una attività ricognitiva e ad illustrare le risultanze delle indagini sul clima aziendale in materia di sicurezza51, e al di là delle disposizioni su specifici strumenti di protezione individuale e collettiva, piuttosto carente di particolari sulle concrete iniziative assunte dall’imprese in ambito organizzativo al fine di meglio tutelare la salute dei lavoratori. Pare, conseguentemente, condivisibile l’impressione dottrinale “di un gap ancora da colmare, tra intenzioni di tutela, oramai dichiarate senza parsimonia, ed effettivo apprestamento delle misure richieste da tale esigenza”52. Una inversione, sia pure ancora parziale, di tendenza si registra peraltro nella più recente contrattazione aziendale. In essa, oltre a notarsi un ulteriore aumento quantitativo delle disposizioni in tema ambiente di lavoro, si evidenzia una crescita di attenzione verso alcuni profili prima sottovalutati. Il riferimento è in particolare alla accurata definizione delle specifiche modalità operative in materia di gestione della sicurezza, tale da configurare una forma embrionale di codice di condotta53, nonché al profilo della formazione con riferimento a tutti soggetti attivi e passivi dell’apparato prevenzionale, e quindi, i lavoratori, il rappresentante per la sicurezza, i componenti della squadra antincendio e pronto soccorso54, ma anche i dirigenti, i preposti e, più in generale, il management55. In alcuni casi si arriva persino a configurare dettagliatamente la procedura informativa e informativa dei lavoratori e ad individuare degli strumenti per poter verificare e registrare la formazione avvenuta in modo da ricostruire il percorso formativo di ciascun singolo lavoratore56. Una maggiore attenzione sembra infine dedicarsi alla medicina preventiva, mediante l’esplicito impegno contrattuale a favorire l’effettuazione di indagini diagnostiche57, cosi come agli interventi strutturali in materia di miglioramento delle condizioni ambientali58.
Ma torniamo alla contrattazione nelle piccole medie imprese. Il campione, come già menzionato, evidenzia che, laddove gli accordi aziendali prevedono disposizioni in materia di sicurezza, queste si risolvono per lo più in dichiarazioni di principio o affermazioni puramente programmatiche. Nella maggior parte dei casi, tra l’altro con formulazioni molto simili, a volte identiche, ci si limita a confermare l’attenzione dell’azienda al tema dell’ambiente e della sicurezza sul lavoro e a ribadire l’impegno della stessa ad illustrare gli interventi che volta per volta intende effettuare per migliorare le condizioni ambientali di sicurezza, nonché i programmi di informazione e formazione dei lavoratori. Poche sono le varianti a questo modello standard di previsione programmatica. In alcuni accordi si osserva un riferimento aggiuntivo all’attuazione del dato legale: a volte mediante un laconico richiamo al d.lgs. n. 626/1994, a volte mediante formulazioni più retoriche con le quali si ribadisce l’impegno dell’azienda ad attivarsi con mutua collaborazione e con i mezzi consentiti dalla legge per mantenere l’ambiente lavorativo almeno nelle condizioni previste dall’attuale normativa. In altri accordi la conferma di attenzione alle problematiche della sicurezza e al rispetto della normativa vigente viene preceduta da formulazioni con le quali le parti riconoscono che la situazione ambientale ed infortunistica è progressivamente migliorata, sottolineandosi, inoltre, come la tutela della salute ed il miglioramento delle condizioni di lavoro siano oramai parte della cultura aziendale o, comunque, rilevando il costante impegno e la forte volontà dell’azienda e dei lavoratori ad investire risorse finanziarie ed umane nel comune obiettivo di migliorare l’ambiente e la sicurezza interne, financo a riconoscere espressamente il ruolo e la professionalità delle figure più impegnate nel sistema sicurezza, quali il responsabile del servizio di prevenzione e sicurezza, il rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza, il medico competente e gli addetti all’emergenza.
Evidente, in siffatti casi, è la volontà di individuare comportamenti di qualità in una prospettiva, sia pure sfumata, di marketing sociale, rispetto alla quale l’accordo aziendale, attraverso la condivisione della parte sindacale, diviene a costituire uno strumento di valorizzazione dell’organizzazione aziendale. A conferma di ciò si osserva che, laddove vi è un siffatto esplicito riconoscimento dell’impegno profuso, l’accordo aziendale quasi sempre provvede a comunicare altresì la già realizzata o futura adesione alle certificazioni di processo, quali Vision 2000, ISO 9000 o XX 0000 (nelle diverse realease) 59, strumenti adottati dalle imprese quali fondamentali prerequisiti per comunicare e fare business su scala nazionale e internazionale. In siffatto ambito, sia pure in nessun accordo del campione esaminato vi sia un esplicito riferimento in tal senso – come invece avviene in alcuni recenti contratti aziendali della grande impresa60 – è palese, tuttavia, che il superamento della logica del mero rispetto degli obblighi legislativi a vantaggio di una strategia proiettata alla valorizzazione del capitale umano, dell’ambiente di lavoro e, in generale, di tutti gli elementi coinvolti, viene a configurare una implicita adesione ad una strategia di responsabilità sociale (RSI)61, rispetto alla quale la ricerca di comportamenti di qualità non si giustifica in un’ottica meramente filantropica, ma soprattutto in un ottica più pragmatica di valorizzazione di strumenti gestionali capaci di conciliare interessi economici a obiettivi sociali, in una prospettiva di visibilità anche al di fuori dell’impresa (62). La RSI, in questi termini, viene a configurare un nuovo modo di fare profitto (63), fondato su una razionale implementazione delle interrelazioni tra globalizzazione e mondo imprenditoriale in una prospettiva che considera la società globale non come un evento naturale, oggettivo e inevitabile, ma “come un ambiente di relazione che va costruito attraverso l’intelligenza e l’iniziativa dei soggetti che la abitano”, mediante cioè la realizzazione di “un progetto sostenibile (perché capace di dare ritorni che manterranno questa convenienza nel corso del suo sviluppo): un progetto che tenga conto dei vincoli oggettivi da rispettare, ma che soprattutto sappia proporre un disegno autonomamente scelto e condivisibile (perché nell’interesse delle parti che chiamano in causa)” 64.
Un ulteriore profilo da sottolineare concerne i soggetti destinatari delle comunicazioni aziendali in materia di sicurezza. Nelle menzionate formulazioni contrattuali inerenti l’impegno dell’impresa ad illustrare gli interventi che si intendono effettuare si nota una assenza di omogeneità nell’individuazione dei soggetti competenti a ricevere tali comunicazioni: in alcuni casi non viene indicato alcun destinatario, in altri si individuano congiuntamente le RSU e le RLS, in altri ancora si individuano solo le RSU.
Al riguardo, occorre chiarire che per legge ex art. 19, d.lgs. n. 626/1994, i destinatari di ogni informazione, anche in funzione di una eventuale consultazione preventiva, sono i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, da cui almeno due serie di considerazioni.
La prima consiste nel rilievo che, laddove gli interventi dell’impresa riguardino misure per cui è prevista la consultazione preventiva dell’RSL65, la comunicazione dei suddetti interventi deve necessariamente avvenire prima che sia conclusa la fase decisionale della direzione aziendale. Occorre sottolineare che tra gli accordi esaminati vi sono casi in cui l’azienda specifica la natura degli interventi da realizzare, laddove per esempio comunica che provvederà all’aggiornamento del documento di valutazione del rischio, o alla verifica del suddetto provvedimento: casi, questi, in cui la consultazione all’RSL non solo deve essere preventiva ma anche tempestiva. In questo senso è da rilevare che in un solo accordo tra quelli analizzati si è adeguatamente provveduto a confermare l’impegno di consultazione con i rappresentanti dei lavoratori.
La seconda considerazione consiste invece nell’affermazione circa la natura
suppletiva e complementare rispetto al dato legale delle comunicazioni datoriali alle RSU in tema di sicurezza. Ciò sia nei casi in cui gli accordi aziendali individuano congiuntamente le RSU e le RLS quali destinatari delle informazioni, sia nei casi in cui gli accordi si limitino a indicare le sole RSU. Pare infatti da escludersi che, a prescindere da qualsiasi intento delle parti stipulanti, il riferimento alle RSU possa esaurire, in quanto comprensivo delle funzioni delle RLS, gli adempimenti legali di cui al menzionato art. 19. Se è vero infatti che la legge e i vari accordi interconfederali configurano una tendenziale sovrapposizione tra RSL e rappresentanze sindacali in azienda, tuttavia, dal punto di vista sistematico non sembra assolutamente corretta una equiparazione dei soggetti. In primo luogo perché le RSL sussistono a prescindere dalla presenza delle RSU, venendo eletti in tale ipotesi dai lavoratori al loro interno66, in secondo luogo, perché gli stessi accordi inteconfederali, pur favorendo – come già accennato – una tendenziale corrispondenza tra gli organismi, non arrivano però a sancirne una perfetta coincidenza. Si pensi in particolare all’accordo Confindustria del 22 giugno 1995 laddove si prevede che nelle aziende o unità produttive che occupano da 201 a 300 dipendenti, qualora la RSU risulti composta da tre soggetti secondo le regole dell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1993 – i rappresentanti per la sicurezza sono individuati, con le modalità di seguito indicate, nel numero di due tra i componenti della RSU, a cui si aggiunge un rappresentante esterno, eletto con le medesime modalità. È chiaro l’intento di salvaguardare la specializzazione funzionale delle RLS qualora vi sia piena coincidenza nel numero dei componenti delle RSU e delle RLS67. Un segnale in tal senso si evidenzia anche nella disposizione dello stesso accordo interconfederale, secondo la quale in caso di dimissioni della RSU, non consegue l’immediata decadenza dei rappresentanti per la sicurezza, potendo questi esercitare le proprie funzioni fino a nuova elezione e comunque non oltre 60 giorni. Si consideri, inoltre, che la stessa tendenziale corrispondenza tra RSL e RSU prevista dalle intese interconfederali sembra andare oltre le intenzioni del legislatore, che fa invece genericamente riferimento alle rappresentanze sindacali aziendali, potendo quindi l’accordo collettivo, anche aziendale, applicare i criteri di selezione delle RSA ex art. 19, Statuto dei lavoratori, e non quelli delle RSU di cui all’accordo del luglio del 199368. Senza contare le opinioni di quella dottrina69 che, contrariamente a quanto previsto dall’art. 18, comma 3, 1° periodo e dalla stessa contrattazione collettiva, sul presupposto dell’estensione ex art. 19, comma 4, alle RLS delle medesime garanzie previste per le rappresentanze sindacali, arriva a dedurre la possibilità di designare i rappresentanti per la sicurezza al di fuori delle RSU e/o RSA.
Ne consegue, in definitiva, al fine di evitare ogni possibile dubbio interpretativo, l’opportunità, laddove si voglia integrare il dato legale con un obbligo di comunicazione nei confronti anche delle RSU (in materia di sicurezza), di prevedere in ogni caso negli accordi aziendali un esplicito riferimento alle RLS.
Altre disposizioni (sia pur rare) presenti nel campione di riferimento sono quelle relative alla riunione periodica ex art. 11, d.lgs n. 626/1994. Il relativo riferimento è peraltro generalmente limitato ad una mera sottolineatura della previsione legislativa sul punto, con il conseguente implicito richiamo alla cadenza annuale della riunione in questione70. Solo in un caso si è osservato un impegno contrattuale ad una maggiore frequenza di dette riunioni laddove si è previsto che la Direzione aziendale promuoverà con cadenza quadrimestrale incontri tra un rappresentante aziendale, l’RSPP e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, per le verifiche previste dal d.lgs n. 626/1994. Da evidenziare al riguardo che, sebbene manchi un esplicito riferimento all’art. 11 (richiamo che sarebbe peraltro opportuno), tuttavia, il generico riferimento alla normativa del 1994 sembra sufficiente per dedurre l’impegno delle parti a sottoporre alle riunioni quadrimestrali i contenuti minimi di cui al comma 2 del
menzionato art. 11, d.lgs. n. 626/199471.
Per il resto, il panorama degli accordi aziendali si presenta alquanto scarno. In questo senso, da qui in poi, pare molto più utile nell’economia della presente trattazione analizzare sinteticamente quello che non si è, piuttosto quello che si è trovato.
Innanzitutto, nessun contratto ha provveduto a quantificare preventivamente i tempi di intervento reali da destinare all’RSL anche ai fini di una specificazione e/o aumento dei permessi retribuiti da attribuire ai rappresentanti per la sicurezza. Solo in un caso, peraltro con una formulazione eccessivamente generica che non chiarisce del tutto la relazione con quanto previsto sul punto dagli accordi interconfederali e di categoria, si è prevista la possibilità che i RSL, dietro richiesta del proprio responsabile, usufruiscano di un monte ore aggiuntivo da dedicare allo svolgimento dei loro compiti di cui al d.lgs. n. 626/1994, nonché alla partecipazione ad iniziative formative riguardante temi della sicurezza e igiene del lavoro.
In nessun accordo esaminato si è provveduto a specificare, chiarire, coordinare il ruolo dei vari soggetti del sistema sicurezza72, limitandosi alcuni contratti (peraltro pochi) o a sottolinearne l’importanza ai fini di una idonea strategia di tutela dell’ambiente di lavoro, o a prevedere sporadicamente e sistematicamente qualche disposizione laddove, per esempio, si è resa nota la già avvenuta individuazione del personale addetto al pronto soccorso ed il relativo avviamento ad un corso di aggiornamento, non appena questo sarà definito dal medico aziendale, già incaricato in tal senso.
Mancano altresì disposizioni specifiche sulla formazione dei lavoratori (e dei RLS), se si escludono i già menzionati riferimenti alle avvenute o future certificazioni dei processi di qualità. È vero che proprio la formazione costituisce il profilo più delicato per le piccole e medie realtà produttive, incidendo questa notevolmente sul bilancio aziendale, ma proprio per questo motivo la contrattazione aziendale potrebbe essere l’occasione per l’individuazione condivisa di pratiche e strumenti alternativi. Si pensi, per esempio, ad una valorizzazione delle competenze all’interno della azienda, con particolare riferimento al personale non collocato in posizione gerarchicamente elevata. Costituisce infatti osservazione di comune evidenza che in un contesto partecipativo e collaborativo il contributo dei lavoratori più esperti viene ad assumere un ruolo fondamentale sia per la qualità della formazione erogata, sia per il suo ridottissimo costo aziendale.
Ma il passaggio ad un sistema collaborativo non può non passare da una valorizzazione degli strumenti di informazione dei lavoratori ai fini degli adempimenti di cui all’art. 21, d.lgs n. 626/1994. Al riguardo, quasi nessuno degli accordi esaminati contiene precise disposizioni in tal senso, nemmeno sotto l’implicita forma, invece prevista in molti accordi aziendali per la media e grande impresa, di un aumento (ai fini della discussione materia di salute e sicurezza) delle ore retribuite per l’esercizio durante l’orario di lavoro del diritto di assemblea ex art. 20 Statuto dei lavoratori73. L’unico scarno, sia pur diretto, accenno al diritto di informazione si rinviene in quella disposizione contrattuale in cui l’azienda si impegna a distribuire ai lavoratori un foglio descrittivo dei rischi presenti sulle lavorazioni, con le indicazioni idonee a ridurre o eliminare il verificarsi dei rischi medesimi.
Mancano altresì disposizioni sulle procedure di assegnazione dei dispositivi di protezione individuale. Sono pressoché inesistenti anche solo mere specificazioni di determinati strumenti di protezione, sussistendo invece sporadici riferimenti a strumenti di miglioramento delle condizioni ambientali, e come tali non qualificabili come DPI ex art. 40, comma 2, d.lgs. n. 616/1994. Si pensi alla disposizione in cui l’Azienda conferma che si provvederà alla consegna di n. 2 felpe a maniche lunghe per l’inverno e, a richiesta del dipendente, di n. 1 giubbottino senza maniche74. Si
pensi anche a quelle disposizioni concernenti l’ambiente di lavoro in senso stretto, quali, per esempio, l’imbiancatura e/o la climatizzazione dei locali.
Assolutamente assenti sono altresì le disposizioni che facciano un qualunque riferimento al mobbing o comunque al clima delle relazioni sociali all’interno dell’azienda. Del resto, esempi di regolamentazione di interventi preventivi sul punto sono pochissimi anche tra la stessa contrattazione aziendale nelle imprese di grandi dimensioni. E quando esistenti si risolvono per lo più in mere dichiarazioni programmatiche, mediante le quali l’azienda o esprime la massima sensibilità e la conseguente volontà di ricercare, assieme alle Organizzazioni Sindacali, gli strumenti idonei ad evitare qualsiasi fenomeno di condotta vessatoria75, ovvero, si impegna a trasmettere comunicazioni informative a tutto il personale, finalizzate alla sensibilizzazione dei lavoratori sul fenomeno e a promuovere, in via sperimentale, l’opportunità di percorsi formativi specifici76. Solo in un caso77, a quanto consta, è stata predisposta a livello aziendale una specifica procedura antimobbing, prevedendo che qualora il lavoratore ritenga siano configurabili in suo danno, per effetto di fatti, atti o comportamenti riferibili all’azienda, gli estremi di una discriminazione sia per ragioni di sesso ai sensi dell’art. 4, comma1 e 2, l. n. 125/1991, sia per ragioni razziali, religiose o politiche, sia perché effetto di persecuzione sul posto di lavoro (mobbing), può per il tramite dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato, investire del caso la Commissione paritetica Quest’ultima, investita del caso, svolge la relativa istruttoria, da completare entro 30 giorni, prorogabili a 60 nei casi più complessi, acquisendo ogni più opportuno elemento di conoscenza, valutazione e prova. La Commissione medesima, entro l’ulteriore termine di 15 giorni, delibera sul caso all’unanimità, accertando o meno la sussistenza della lamentata discriminazione. La Commissione, infine, laddove abbia accertato la discriminazione, con la medesima delibera adottata all’unanimità dispone le opportune azioni, con le relative articolazioni operative e temporali, finalizzate alla rimozione dell’accertata discriminazione.
Resta infine da rendere conto, nell’ambito degli accordi analizzati, di quelle disposizioni che nell’ambito del sistema premiale condizionano la stessa erogazione del premio, o di una parte di esso, al raggiungimento di obiettivi inerenti la sicurezza. Tra le poche previsioni in tal senso si registrano o la corresponsione di una quota una tantum condizionata dal raggiungimento del singolo obiettivo di sicurezza, ovvero, la determinazione di una quota percentuale di incidenza sul premio (al raggiungimento dell’obbiettivo di sicurezza), il cui complessivo profilo quantitativo è, infatti, condizionato dal raggiungimento di altri risultati riferiti a parametri di produttività, redditività e qualità. L’aspetto problematico e, per certi aspetti non condivisibile, consiste nel fatto che l’individuazione dell’obiettivo di sicurezza viene sempre identificato nella assenza o comunque nella diminuzione di eventi infortunistici nell’arco dell’anno di riferimento. Si evidenzia, in questi termini, una cultura di monetizzazione del rischio non fondata su indissolubili parametri di eccellenza, in quanto uno strumento idoneo di raggiungimento dell’obbiettivo si individua nella mera non ufficializzazione degli infortuni. Che una tale considerazione non sia priva di logica, lo si riconosce indirettamente anche negli stessi accordi esaminati, laddove nel disporre un premio aziendale in relazione al raggiungimento di determinati obiettivi ambientali (in senso di ambiente esterno), si esclude espressamente da tali obiettivi i mancati incidenti, proprio per il motivo di non volerne disincentivare la segnalazione.
Una migliore soluzione, peraltro di difficile compatibilità con le risorse finanziarie generalmente a disposizione della piccola e media impresa, sarebbe quella di parametrare gli obiettivi di sicurezza sulla base della conformità a criteri di eccellenza nell’ambito dell’ottenimento delle certificazione dei processi di qualità78.
Altra soluzione, certamente più facilmente realizzabile anche se di minore spessore contenutistico, potrebbe essere quella di concentrarsi non tanto sulla tipologia degli obiettivi, quanto sulla tipologia di premi, al fine di evitare “pericolose” pratiche di monetizzazione del rischio. Si potrebbe, in particolare, sull’esempio di quanto già praticato da alcune aziende, prevedere una sorta di competizione interna dei lavoratori e assegnare un premio consistente al vincitore da assegnare in beneficenza ad un ente o associazione di sua scelta. Oppure, ancor più semplicemente, si potrebbe premiare i lavoratori meritevoli di comportamenti di eccellenza attraverso riconoscimenti di carattere non monetario, quali l’attribuzione di diplomi, targhe, medaglie, ecc., o l’impegno dell’azienda a pubblicare su giornali o altro mezzo di comunicazione i nomi e/o le foto dei soggetti più meritevoli.
* In corso di pubblicazione su X. Xxxxxxxxxx (a cura di), La contrattazione collettiva nelle PMI, IPSOA, Milano.
1 Sul punto è pressoché unanime la giurisprudenza comunitaria. Cfr. in particolare X. Xxxxx. 12 novembre 1996, in LG, 1997, 111 ss.
2 Sul passaggio da un sistema di tutela della salute e sicurezza ad un più ampio sistema di tutela dell’ambiente di lavoro, cfr. in particolare le considerazioni di X. Xxx Xxxxx, Tutela della sicurezza sul lavoro e questione ambientale, in DRI, 1999, n. 2, 153-157.
3 L’indagine è stata realizzata nell’ambito del progetto Adapt Developnet Lombardia, i cui risultati, in materia di sicurezza, sono stati pubblicati in X. Xxxx, Sicurezza, ambiente e qualità, La gestione integrata nelle piccole e medie imprese industriali lombarde, Il Sole 24Ore, Milano, 1999.
4 Così X. Xxxx, op. cit., 63.
5 X. Xxxxxxx, Il sistema vigente del diritto della sicurezza del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2006; X. Xxxxxx, Sicurezza sul lavoro: inquadramento giuridico e recenti sviluppi normativi e giurisprudenziali, Xxxxxxx, Milano, 2003; X. Xxx, La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2002; Aa.Vv., Problemi della sicurezza nei luoghi di lavoro: ricerche, giurisprudenza e prospettive di riforma, Cedam, Padova, 2001; X. Xxxxxxxx, Sicurezza sul lavoro e modelli di rappresentanza, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1999; X. Xxxxxxxxx (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza: per una gestione integrata dei rischi da lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1997; X. Xxxxxxxxx (a cura di), La sicurezza del lavoro: commento ai decreti legislativi 19 settembre 1994, N.626 e 19 marzo 1996, n. 242, Xxxxxxx, Milano, 1996; X. Xxxxxxxx, La nuova normativa di sicurezza sul lavoro: commento al D. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 integrato e modificato dal D. Lgs. 19 marzo 1996, n. 242, Xxxxxxx, Milano, 1996; X. Xxxxxx, La sicurezza del lavoro: obblighi e responsabilità dell’impresa: i decreti legislativi 626/194 e 242/196, Pirola, Milano, 1996.
6 Vedi § 4.
7 Così X. Xxx, Tutela dei lavoratori nelle piccole imprese, in ISL, 1999, 501.
8 Da rilevare che la nuova definizione comunitaria di PMI (in virtù della raccomandazione n. 2003/361/CE che sostituisce la n. 96/280/CE) è entrata in vigore il 1°gennaio 2005. Essa prevede che: a) la media impresa occupi meno di 250 effettivi e abbia un fatturato annuo non superiore a 50 milioni di euro, oppure ha un totale di bilancio annuo non superiore a 43 milioni di euro (si considera il dato più favorevole); b) la piccola impresa occupi meno di 50 effettivi e abbia un fatturato oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 10 milioni di euro; c) la microimpresa occupi meno di 10 effettivi e abbia un fatturato oppure un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro. Da ricordare, inoltre, che, per quanto riguarda l’applicazione della nuova definizione alle agevolazioni nazionali e dunque agli aiuti di Stato, essa è stata inserita nell’allegato I del regolamento n. 70/2001 ad opera del regolamento 364/2004, atto con il quale si sono estesi i meccanismi dell’esenzione agli aiuti ad attività di ricerca e sviluppo svolte da PMI. Quindi, almeno nel campo degli aiuti di Stato, la nuova definizione ha ora una base giuridica più “solida” di quella costituita dalla raccomandazione (atto per sua natura non vincolante) e infatti al regolamento 70 è opportuno fare riferimento (la stessa Commissione segue questa strada) per richiamare le definizioni comunitarie di micro, piccola e media impresa. Da sottolineare infine che è la stessa disciplina comunitaria a definire i criteri di computo degli addetti. Si prevede infatti che il numero degli occupati si calcola in termini di unità lavorative-anno (ULA), sommando il numero degli occupati a tempo pieno per l’intero anno, a quello degli stagionali e degli occupati a tempo parziale, contabilizzati in frazioni di ULA. Gli effettivi dell’impresa, ai fini del calcolo degli occupati, sono: i dipendenti, le persone che lavorano per l’impresa e sono considerate dalla legislazione nazionale come dipendenti dell’impresa, i proprietari gestori, i soci che svolgono un’attività regolare nell’impresa e beneficiano dei vantaggi finanziari da essa forniti. Non sono contabilizzati come effettivi gli apprendisti con contratto di apprendista o gli studenti con contratto di formazione. Non sono contabilizzati i congedi di maternità o parentali.
9 Per le imprese familiari il legislatore non fissa alcun criterio dimensionale, deducendosi quindi l’operatività dell’esonero in questione anche in presenza di una azienda con più di 10 addetti. Da sottolineare, inoltre, nonostante sul punto le circolari ministeriali siano piuttosto contradditorie, che le disposizioni legislative trovano applicazione anche nei confronti dei collaboratori famigliari ex art. 230-bis c.c. Cfr. al riguardo P. Soprani, Impresa familiare e sicurezza del lavoro, in ISL, 1997, 609 ss.
10 Cfr. sul punto X. Xxx, op. cit., 503, secondo il quale, l’autocertificazione si distinguerebbe dal più completo documento di valutazione dei rischi “principalmente per la mancanza del programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza”. Cfr. sul punto anche le considerazioni di C. Timellini, Obbligo di sicurezza nelle piccole imprese, in DPL, 2006, 955.
11 Cfr. rispettivamente l’art. 3, d.lgs. n. 368/2001, e l’art. 20, comma 5, d.lgs. n. 276/2003.
12 Il rapporto ha monitorato 9.000 aziende in tutto il territorio nazionale ed è stato promosso dal coordinamento delle Regioni e Province autonome nel 2003.
13 La legge specifica che in tale caso gli addetti devono essere assunti a tempo indeterminato.
14 In questo senso cfr. in particolare X. Xxxxxxx, Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza: attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), op. cit., 133.
15 Disposizione questa in linea con l’assetto legislativo vigente che prevede le rappresentanze sindacali aziendali solo nelle unità produttive con più di 15 dipendenti. Non sembra peraltro da escludersi che laddove una RSA sia comunque costituita il rappresentante per la sicurezza possa essere scelto al suo interno, “in virtù del tendenziale legame posto dal legislatore tra rappresentanza specifica per la sicurezza e rappresentanza sindacale” (Così X. Xxx, La sicurezza nel lavoro tra legge e contrattazione collettiva, Xxxxxxxxxxxx, Bologna, 2002, 209, il quale
richiama X. Xxxxxxxx, La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), op. cit., Xxxxxxx, Milano, 1996, 114.
16 Sui contenuti della contrattazione collettiva si rinvia al § 3.
17 Sul punto cfr. in dottrina: X. Xxxxxxxx, La delega di funzioni nella sicurezza sul lavoro: ammissibilità e configurazione, in LPO, 2004, 2; X. Xxxxxxx, Delega di funzioni e responsabilità in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, in ISL, 2002, 9; X. Xxxxx, La delega di funzioni in materia prevenzionistica, in XXX, 0000, 14; X. Xxxxxx, Problemi e prospettive della responsabilità penale nell’impresa e della delega di funzioni alla luce dei d.lgs. 626/1994 e 242/1996 in materia di sicurezza sul lavoro, in Arch. Giur.,1997, IV; X. Xxxxxxxxxxx, Delega di funzioni e soggetti esterni all’impresa, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), op. cit.; X. Xxxxxxx, op. cit.
18 Cfr. in particolare Cass. pen. 22 marzo 1985, in Giust. pen. 1986, II, 703; Cass. pen. 2 agosto 1994, in Riv. pen. Economia, 1996, 8.
19 Cfr. recentemente Cass. pen. 15 luglio 2005 n. 26122, in ISL, 2006, 329.
20 Cfr. in particolare X. Xxxxxxxx, Il trasferimento di funzioni nel diritto penale dell’impresa, Xxxxxxx, Firenze, 1985; X. Xxxxxxxx, Diritto penale del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1983, 73; X. Xxxxxx, Il reato omissivo improprio, 1983, Xxxxxxx, Milano, 435.
21 Virgolettati da X. Xxxx, Sicurezza del lavoro: contrattazione e partecipazione, in RGL, 2000, 619.
22 Sul punto per una valutazione del ruolo della contrattazione cfr. in particolare X. Xxxxx, Lavoro e contrattazione. Xxxx cambia con il lavoro “non standard”?, in DRI, 2005, n. 1, 35 ss.
23 Sui numerosissimi rinvii alla contrattazione collettiva ex d.lgs. n. 66/2003 in materia di orario si vede in q. volume il contributo di……
24 Cfr. in particolare il d.lgs. n. 53/2000 sui congedi parentali, che, nel promuovere un equilibrio tra tempi di lavoro, di cura, di formazione e relazione , introduce incentivi di natura economica per favorire l’applicazione di accordi contrattuali che prevedano azioni positive per la flessibilità dell’orario e per definire progetti o programmi a tutela della maternità o della paternità.
25 Così X. Xxx, op. cit., 95. Cfr. in questo stesso senso A. Lo Faro, Xxxxxx collettiva e tutela dell’ambiente di lavoro in Europa, in DLRI, 1991, 176.
26 Cfr. in particolare il Ccnl tessili (industria) del 28 maggio 2004.
27 Da evidenziare che, a livello di contrattazione nazionale diversi sono i contratti che individuano il rappresentante per la sicurezza territoriale così, ad esempio, il Ccnl 11 gennaio 1999 Commercio (aziende e cooperative con un numero di dipendenti fino a 50), il Ccnl 8 aprile 1998 Terziario (servizi), il Ccnl del 16 gennaio 2001 Centri elaborazione dati, i quali prevedono che i compiti e le attribuzioni dei rappresentanti per la sicurezza possano essere demandati ad un dirigente sindacale con funzioni di rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza nel territorio, chiamato a svolgere le attribuzioni di legge del Rls per un insieme di aziende ricomprese in uno specifico territorio.
28 Cfr. in particolare Ccnl industria tessile del 28 maggio 2004
29 Cfr. in particolare Ccnl industria tessile del 28 maggio 2004; Ccnl Commercio (aziende e cooperative con un numero di dipendenti sino a 50).
30 Cfr. in particolare l’accordo di rinnovo del Ccnl dipendenti industrie chimiche del 17 dicembre 2003.
31 Cfr. in particolare Ccnl per le piccole e medie imprese Edili del 10 settembre 1997 (allegato d); Ccnl metalmeccanici dell’8 giugno 1999.
32 Tra i tantissimi cfr. in particolare Ccnl Chimici del 12 febbraio 2002.
33 Così X. Xxxxxxxx, Azione sindacale e contrattazione collettiva nella tutela delle condizioni di lavoro, in RGL, 2001, I, 571.
34 Numerosissime sono le opinioni dottrinali in materia. Nel solo 2006 cfr. Aa.Vv., Mobbing, Organizzazione, Malattia Professionale, in QDLRI, 2006, n. 29; X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, Il mobbing. Dal disagio al benessere lavorativo, Xxxxxxx, Roma, 2006; X. Xxxxxxxxx, Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi, in MGL, /2006, n. 1-2, 8; X. Xxxxxxxxxxxx, Mobbing: profili civilistici e giuslavoristici, in MGL, 2006, n. 1-2, 2; X. Xxxxx, La Consulta “salva” la legge sul mobbing della Xxxxxxx Xxxxxxx, xx XX, 0000, n. 3, 261; X. Xx Xxxxx, Il mobbing tra competenza statale e regionale, in GLav, 2006, n. 8, 18; X. Xxxxxxx, Mobbing, straining ed altre etichette, in DRI, 2006, in corso di pubblicazione; X. Xxx Xxxxx, Diritti della persona e contratto di lavoro, e X. Xxxxxxx, Il danno non patrimoniale alla persona del lavoratore: un excursus su responsabilità e tutele, Relazioni presentate al convegno nazionale promosso dall’AIDLASS, il 31 marzo 2006, su Il danno alla persona del lavoratore (pubblicate su Boll. Adapt n. 30/06).
35 Cfr. in particolare l’allegato 4 al verbale di accordo 21 febbraio 2005 di rinnovo del Ccnl tessile (piccole e media industria) del 1° giugno 2000; Protocollo VII del Ccnl ombrellifici del 2 luglio 2004; Protocollo XX del verbale di accordo Ccnl industrie filiera ittica e retifici del 15 giugno 2004.
36 Cfr. in particolare l’Alleagto 4 al verbale di accordo 21 febbraio 2005 di rinnovo del Ccnl tessile (piccole e media industria) del 1° giugno 2000.
37 Cfr. art. 35 del Ccnl commercio del 2 luglio 2004.
38 Così X. Xxxxxxx, Mobbing e contrattazione collettiva nel settore privato e pubblico, in QDLRI, Mobbing, Organizzazione, malattia professionale, 2006, 211.
39 Cfr. sul punto X. Xxxxxxx, op. cit., 208, il quale rileva “come l’accertamento dell’eventuale antisindacalità del comportamento datoriale produrrebbe scarsi effetti sul piano della disciplina positiva, e, potrebbe, in ipotesi, condurre solo all’apertura coattiva del confronto, senza alcuna garanzia circa i suoi esiti in assenza di un obbligo a contrarre”.
40 Sulle specifiche disposizioni nel settore pubblico cfr. X. Xxxxxxx, op. cit., 212-215.
41 Sul punto cfr. in particolare X. Xxxxxxxx, Il mobbing fra contrattazione collettiva e sistemi di prevenzione, dattiloscritto, 2005, 3, il quale rileva l’importanza di tale funzione, soprattutto nella prospettiva di evitare al lavoratore l’esposizione a gravi conseguenze sanzionatorie conseguenti a segnalazioni infondate o, comunque, non adeguatamente dimostrabili. Sulla gravità di denuncie indimostrate cfr. recentemente in giurisprudenza Trib. Modena 18 febbraio 2004, in LG, 2004, 685.
42 L’accordo specifica che per la presente procedura si fa riferimento a quanto previsto al punto 8 comma d) del Protocollo nazionale di relazioni sindacali sottoscritto tra le parti in data 5/4/1990.
43 Qualche dubbio è stato avanzato in dottrina sulla carenza in detta procedura di una idonea attività istruttoria. Cfr. in particolare X. Xxxxxxx, op. cit., 201 ss., il quale ritiene che “qualora il lavoratore sporga denuncia senza l’assistenza del consigliere di fiducia sia opportuno, per in assenza di una esplicita previsione, che il datore di lavoro operi una preliminare e rapida valutazione della fondatezza della denuncia al fine di evitare l’attivazione di un procedimento disciplinare nei confronti di un soggetto palesemente incolpevole il quale potrebbe a propria volta lamentare di essere destinatario di un comportamento vessatorio da parte del denunciante”.
44 Cfr. in particolare Ccnl aziende chimiche (industria) del 12 febbraio 2002 in cui si prevede le Parti aziendali (Direzione aziendale, CA/RLS e R.S.U.) definiranno i termini e le modalità per la corretta informazione ai lavoratori, nel rispetto delle esigenze di riservatezza e in relazione alle caratteristiche delle imprese, anche mediante la formulazione di un idoneo documento congiunto o una apposita riunione annuale congiunta che abbia l’obiettivo del coinvolgimento di tutti i lavoratori nell’impegno sui temi della sicurezza e dell’ambiente.
45 Cfr. recentemente l’art. 113 Ccnl commercio fino a 50 dipendenti del 20 luglio 2005.
46 Cfr. in particolare art. 12 Ccnl commercio del 20 settembre 1999.
47 Cfr. in particolare art. 45 Ccnl aziende chimiche (industria) del 12 febbraio 2002 in cui si prevede che “la sicurezza dei lavoratori e la salvaguardia degli impianti devono essere in ogni occasione garantite. A tal fine le Parti concordano sull’esigenza di realizzare accordi a livello aziendale che consentano altresì di evitare sprechi energetici e di materie prime”.
48 Cfr. in particolare l’art. 27 Ccnl metalmeccanici (industria) del 7 maggio 2003.
49 Tra le poche eccezioni cfr. l’accordo aziendale Gruppo ceramiche Saicis Spa (Sassuolo) del 1° marzo 2001.
50 Tra le poche eccezioni cfr. l’accordo aziendale Vulcaflex del 1° gennaio 2001, in cui si prevede la realizzazione da parte dell’azienda “di due interventi specialistici: il primo affidato ad un’equipe di medicina del lavoro con il compito di verificare la salubrità degli ambienti di lavoro, individuando eventuali punti critici; il secondo affidato a tecnici esperti in condizionamento degli ambienti di lavoro, con lo scopo di affrontare il problema delle alte temperature riscontrate in alcune postazioni di lavoro. Sulla base dei risultati delle ricerche suddette saranno programmati gli interventi necessari sia a livello informativo relativo alla diffusione dei dati relativi al primo punto (entro luglio), sia quelli impiantistici relativi alle postazioni individuate”.
51 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Barilla Spa del 20 settembre 2003.
52 Così X. Xxxxxxxxxx, Il contratto collettivo aziendale e decentrato, Xxxxxxx, Milano, 2001, 95. In questo stesso senso cfr. anche X. Xxxxxxxx,
Azione sindacale e contrattazione collettiva nella tutela delle condizioni di lavoro, cit., 572.
53 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Cementir Spa del 13 luglio 2005. 54 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Moto Spa del 30 gennaio 2006. 55 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Gruppo Hera del 26 marzo 2006. 56 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Baxi Spa del 28 maggio 2004.
57 Cfr. in particolare l’accordo aziendale AXA del 2 dicembre 2005.
58 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Piaggio Spa del 3 giugno 2004 in cui si prevede che l’azienda effettui, “con preventiva informazione agli R.L.S., un monitoraggio delle temperature estive ed invernali al fine di verificare che non si determini il superamento dei valori di “non discomfort termico” per il freddo e di “stress termico” per il caldo, predisponendo in questa eventualità interventi utili a ridurre le condizioni di disagio”.
59 Si tratta, in linea generale, di sistemi di verifica di carattere ispettivo – affidati a enti terzi specificamente accreditati: i c.d. Organismi di certificazione (in Italia, un esempio di organismo di certificazione è il CISE: Centro per l’Innovazione e lo Sviluppo Economico, Azienda Speciale della Camera di Commercio di Forlì-Cesena) – ispirati a strategie sperimentate di garanzia di qualità con l’aggiunta peraltro di numerosi elementi di valutazione di specifici requisiti sociali attinenti alla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo. Tali requisiti attengono in particolare al: lavoro infantile, lavoro obbligato, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva, discriminazione, procedure disciplinari, orario di lavoro, retribuzione. Da evidenziare, peraltro, che il sistema di gestione salute e sicurezza di più elevato standard qualitativo, nonché più noto a livello europeo è OHSAS 18001, certificazione di qualità non prevista in nessun degli accordi aziendali esaminati. Del resto, in Italia, tale standard qualitativo, in virtù degli eccessivi costi aziendali che comporta, è stato adottato solo dai grandi gruppi multinazionali. Tra le aziende di medio grandi dimensioni si segnala peraltro l’accordo aziendale Baxi Spa del 28 maggio 2004. Al riguardo, per comprendere il livello di qualità richiesto da tale standard, il suddetto accordo nella definizione delle procedure inerenti la certificazione OHSAS 18001 ha previsto una accurata e dettagliata strategia di prevenzione. In particolare si prevede che la stesura del “Rapporto interno d’infortunio” avvenga con coinvolgimento dell’RLS per singolo infortunio; che mensilmente sia effettuato un incontro tra il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione – R.S.P.P. e R.L.S. per analizzare le cause degli infortuni avvenuti nel mese precedente e per verificare possibili accorgimenti e/o soluzioni tecniche atti ad evitare il ripetersi degli stessi; che annualmente si effettuino prove di evacuazione.
60 Cfr. in particolare l’accordo aziendale Gruppo Hera Spa. Per un commento a tale accordo vedi X. Xxxxxxxxx, Contrattazione integrativa e RSI: il caso Hera, in DPL, 2006, n. 20, inserto.
61 A livello comunitario cfr. in particolare il Libro Verde sulla responsabilità sociale del 2001 COM (2001) 366. Cfr., anche la Comunicazione della Commissione su Corporate Social Responsibility: a business contribution to Sustainable Development del luglio 2002 COM (2002) 347. In dottrina con particolare riferimento alla tutela e sicurezza del lavoro cfr. in particolare Aa. Vv., La responsabilità sociale nell’impresa e nell’assicurazione contro gli infortuni, in ISL, 2005, fasc. 8S; X. Xxxxxxxx, La responsabilità sociale delle imprese e il dovere di salute e sicurezza, in ISL, 2005, n. 1, 31 ss.
62 Cfr. sul punto in particolare X. Xxxxxx, X. Xxxxxx, L’impresa eccellente socialmente capace, in Impresa e Stato, 2002, n. 58. Più recentemente cfr. X. Xxxxxxxx, Responsabilità sociale d’impresa (rsi): momenti interpretativi, in Non profit, 2005, fasc. 1.
63 Vedi sul punto in particolare X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, Le Nouvel Esprit du Capitalisme, Nrf essais, Xxxxx, 0000. Cfr. anche X. Xxxxxxx, La responsabilità degli imprenditori, paper in progress, febbraio 2003, che rileva come la “flessibilità sociale e la flessibilità di mercato possono essere considerate come due dimensioni in comunicazione e in tensione fra loro, ma sono anche strategie con due diverse razionalità sociali e due diverse prospettive temporali”.
64 Così X. Xxxxxxx, Globalizzazione economica, in Gli argomenti umani, 2002, n. 4, 30 ss. (citato da Semenza, op. cit., 1).
65 Art. 19, comma 1, lett. b), c), d), d.lgs. n.626/1994.
66 Vedi art. 18, comma 3, secondo periodo, d.lgs. n. 626/1994.
67 In questo senso cfr. X. Xxxxxxxx, Xxxxxx sindacale e contrattazione collettiva nella tutela delle condizioni di lavoro, cit., 559.
68 Cfr. in giurisprudenza Trib. Milano 20 dicembre 1997, in D&L, 1998, 347, secondo cui “l’’art. 18, comma 3, d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, che disciplina il rappresentante per la sicurezza nelle aziende o unità produttive con più di 15 dipendenti, allorquando fa riferimento alle “rappresentanze sindacali in azienda” indica le rappresentanze sindacali aziendali ex art. 19 Stat. lav.”. Nella fattispecie, era stato conseguentemente ritenuto che non costituisse condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro, che, applicando un accordo aziendale, aveva escluso, dalle elezioni per il rappresentante per la sicurezza, la lista di un sindacato che non aveva costituito Rsa.
69 Cfr. in particolare X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, La sicurezza del lavoro nel decreto legislativo attuativo delle direttive CEE, in RGL, 1995, I, 51.
70 Da ricordare, peraltro, come già precedentemente accennato, che l’accordo interconfederale Confindustria del 22 giugno 1995, ha esteso a tutte le imprese, indipendentemente dal loro livello dimensionale, la possibilità per il rappresentante della sicurezza di richiedere la convocazione della riunione ogni volta che si presentino gravi e motivate situazioni di rischio o di significative variazioni delle condizioni di prevenzione in azienda.
71 Il comma 2 dell’art. 11, d.lgs. n. 626/1994, prevede che: “nel corso della riunione il datore di lavoro sottopone all’esame dei partecipanti: a) il documento, di cui all’art. 4, commi 2 e 3; b) l’idoneità dei mezzi di protezione individuale; c) i programmi di informazione e formazione dei lavoratori ai fini della sicurezza e della protezione della loro salute”.
72 Con riferimento alla specificazione e il coordinamento dei soggetti della sicurezza è dubbio che un accordo aziendale possa prevedere la coincidenza dei ruoli tra RSL e RSPP. Sul punto la più recente giurisprudenza ha sostenuto l’incompatibilità del cumulo delle due cariche in quanto figure antagoniste che pur non essendo espressione di interessi necessariamente configgenti, eserciterebbero prerogative e funzioni
diverse (vedi App. L’Aquila 7 novembre 2002 che ha riformato la decisone del Trib. di Vasto 23 maggio 2001). Resta peraltro il fatto, che, sia pure solo con riferimento alle imprese con meno di 16 dipendenti alcuni Ccnl prevedono espressamente la duplicazione dei ruoli.
73 Solo in un accordo del campione esaminato si rileva l’impegno aziendale a mettere a disposizione dei lavoratori un’ora di assemblea retribuita otre alle dieci previste annualmente a condizione che ad essa partecipi la RSSP, che il tema dell’ordine del giorno sia esclusivamente quello della sicurezza ed ambiente, che l’ordine del giorno sia preventivamente comunicato con 48 ore lavorative di anticipo alla Direzione, e che, infine, tale assemblea sia stata preceduta in corso d’anno da analoga assemblea a carico del monte ore di dieci ore annuali, con gli stessi temi e con le stesse modalità.
74 Si tratta di indumenti ordinari non specificatamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore. Non sembra quindi applicabile l’orientamento giurisprudenziale che pone a carico del datore di lavoro il mantenimento dello stato di efficienza degli indumenti di protezione forniti ai dipendenti. Cfr. in particolare Cass. 14 novembre 1995 n. 22929, in MGC, 2005, fasc. 7/8; App. Bari 30 settembre 2004, in Giurisprudenza locale, Bari, 2004.
75 Cfr. l’accordo aziendale Monte Paschi Siena del 6 febbraio 2001.
76 Cfr. l’accordo aziendale Gruppo AXA del 2 dicembre 2005.
77 Cfr. l’accordo aziendale Gruppo Electrolux Zanussi del 10 novembre 2000.
78 Criteri presenti in alcuni accordi aziendali di grandi o medio grandi imprese. Cfr. in particolare l’accordo aziendale Baxi Spa del 28 maggio 2004.