TESI DI DOTTORATO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO
II
DOTTORATO DI RICERCA IN ‘DIRITTO ROMANO E TRADIZIONE ROMANISTICA: FONDA- MENTI DEL DIRITTO EUROPEO’
XX CICLO
TESI DI DOTTORATO
LEGES, PACTA, CONTRACTUS. L’ESITO BIZANTINO.
Candidata Tutor
Dott Giovanna Palomba Prof. Generoso Melillo
Indice sommario
CAPITOLO I
FONTI E DOTTRINE IN TEMA CONTRATTUALE DAI GLOSSA-
TORI AD OGGI
1.1 – Le fonti pag. 7
1.2 – Le dottrine medioevali: Glossatori, Postglossatori “12
1.3 – Dall’Umanesimo al Giusnaturalismo “25
1.4 – Scuola Storica e Pandettistica; la necessità delle codi- ficazioni “36
1.5 – La storicizzazione dello studio del mondo antico e del diritto di Roma “47
1.6 – Lo studio sociologico del diritto antico e il consensua- lismo nell’opera del Magdelain “60
Capitolo II
NEGOZIALITÀ ARCAICA E LEGES PRIVATAE
2.1 – Varietà delle forme originarie degli scambi onerosi e delle forme negoziali “72
2.2 – La mancipatio: dalle origini alle testimonianze gaiane
“80
2.3 – Le applicazioni della mancipatio “85
2.4 – La nuncupatio nel negozio mancipatorio: caratteristi- che e funzione costitutiva e probatoria “91
2.5 – La in iure cessio: carattere generale rispetto a manci- patio e traditio “97
2.6 – Un vincolo giuridico particolare di Roma antica: la fi- des “105
2.7 – La traditio e il ius naturale: la testimonianza di Gaio
“112
Capitolo III
PACERE, PACTA: ARCAICITÀ, VARIETÀ, RAPPORTI COL CON- TRAHERE
3.1 – Il problema dei pacta nelle fonti romane e nelle dottri- ne medioevali e moderne “119
3.2 – L’etimologia di pacere e di pactum. Recenziorità del
pacisci “127
3.3 – Le XII Tavole e la pactio: origini della pactio nelle i- potesi di delicta? “131
3.4 – In particolare: XII Tab. 1.6-7 “134
3.5 – I pacta conventa nelle dottrine del II e del III secolo
“139
3.6 – Le fonti e la tutela dei pacta: i pacta praetoria “146
3.7 – I pacta praetoria: in particolare la specificità dei re- cepta “151
3.8 – Qualche nota conclusiva. “157
CAPITOLO IV
DAL CONTRAHERE AI CONTRACTUS SINE NOMINE
4.1 – D. 50.16.19 e la definizione labeoniana di contractus
“166
4.2 – D. 50.16.19 e il valore di obligatio “173
4.3 – D. 50.16.19: dal contrahere al contractus “178
4.4 – D. 50.16.19. Note conclusive “185
4.5 – D. 2.14.7 pr. e la conventio ulpianea “189
4.6 – D. 2.14.7 pr : i contractus sine nomine “193
4.7 – D. 2.14.7 pr. Le ragioni storiche dei contratus sine nomine “196
Premessa
La storia del diritto civile non si esaurisce nella storia degli istituti che in esso vivono.
Infatti, in questi confini la storia del civile resta una “storia tutta interna” all’ordinamento: invece, la storia del civile è anche una “storia esterna”, quando guardi alle sue fonti, ai contesti in cui opera, alle metodologie secondo le quali il diritto civile viene interpretato, sistemato e applica- to.
Proprio perché nelle società umane il diritto è il fe- nomeno probabilmente più strettamente connesso alla real- tà, non possono dunque non collocarsi nell’insieme reale del diritto – e in modo né artificioso né semplicemente additivo
– i momenti centrali in cui il diritto opera e i modi della sua sistemazione logica.
La questione è di notevole interesse per lo studioso di diritto romano, che ormai da più di un secolo si è liberato del compito di adattare la casistica e poi le decisioni e le de- finizioni dei giuristi romani alle realtà attuali.
In questa prospettiva, anzi, in particolare, sembra congruo tendere a separare il diritto romano dalle dottrine romanistiche, riconoscibili anche dopo le codificazioni del XIX secolo: le tradizioni, e in primo luogo quella romanisti- ca, che restavano alle spalle delle codificazioni italiane, era- no radici del diritto civile ancora operanti (“i fili culturali usati dai giuristi sono molto resistenti e attraversano varie
epoche” – cfr. Alpa, La cultura delle regole. Storia del dirit- to civile italiano, Roma, 2000), ma, evidentemente, non si trattava del diritto antico, che in quanto tale era caduto con il suo mondo prima delle codificazioni, ma dell’adattamento
– fino alla deformazione – che nel corso dei secoli le dottri- ne avevano operato sui vecchi enunciati normativi, o sulle dogmatiche e le regulae, trasformandone il valore.
Prima di addentrarci nella ricerca storico-giuridica avente ad oggetto la negozialità bilaterale nell’esperienza romana, ci è sembrata pertanto opportuna una preliminare rassegna delle principali dottrine giuridiche succedutesi dal Medioevo ai giorni nostri, i cui esiti, comparati a quelli di dottrine attuali, possono risultare utili allo storico-giurista che, proponendosi la ricostruzione di istituti, di aspetti di un’esperienza giuridica del passato – di cui non è partecipe
–, è consapevole del pericolo sempre incombente di infrut- tuose proiezioni all’indietro di dommatiche odierne.
CAPITOLO I
LE DOTTRINE IN TEMA CONTRATTUALE DAI
GLOSSATORI AD OGGI
1.1 – LE FONTI. Nelle Institutiones1 di Gaio si legge:
3.88. Nunc transeamus ad obligationes, quarum summa divisio in duas species diducitur: omnis enim obliga- tio vel ex contractu nascitur vel ex delicto. 3.89. Et prius vi- deamus de his, quae ex contractu nascuntur. harum autem quattuor genera sunt: aut enim re contrahitur obligatio aut verbis aut litteris aut consensu. 3.90. Re contrahitur obliga- tio velut mutui datione; mutui autem datio proprie in his fere rebus contingit, quae res pondere, numero, mensura constant, qualis est pecunia numerata, vinum, oleum, fru- mentum, aes, argentum, aurum; quas res aut numerando aut metiendo aut pendendo in hoc damus, ut accipientium fiant et quandoque nobis non eaedem, sed aliae eiusdem naturae reddantur. Unde etiam mutuum appellatum est, quia quod ita tibi a me datum est, ex meo tuum fit.....
3.92. Verbis obligatio fit ex interrogatione et respon- sione, velut dari spondes? Spondeo, dabis? Dabo, Promit-
1 Sulle Institutiones di Gaio cfr. The institutes of Gaius, a cura di DE ZULUETA (ristampa), Oxford, 1951; The Institutes of Gaius. Part. 2: commentary, London, 1952; LOWE, Il Codice veronese di Gaio, in Atti del Congresso di Verona 1, Milano, 1953, pp. 1-7; MASCHI, Ca- ratteri e tendenze evolutive delle Istituzioni di Gaio, in Atti del Con- gresso di Verona 1, Milano, 1953, pp. 7-49; MEYLAN, Réflexions sur notre tradition manuscrite des Istitutes de Gaius, in Atti del secondo Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del diritto. La critica del testo, 1971, pp. 467-498; VOLTERRA, La prima edi- zione italiana del Gaio veronese, in BIDR. 83, 1980, pp. 262-283; NICOSIA, Institutiones Iuris Romani. Passi scelti delle Istituzioni di Gaio integrati con passi delle Istituzioni di Giustiniano, Catania, 1985.
tis? Promitto, Fidepromitis? Fidepromito, Fideiubes? Fi- deiubeo, Facies? Faciam…
3.128. Litteris obligatio fit veluti in nominibus tran- sscripticiis fit autem nomen transscripticium duplici modo, vel a re in personam vel a persona in personam.
3.134. Praeterea litterarum obligatio fieri videtur chirografis et syngrafis, id est, si quis debere se aut daturum se scribat, ita scilicet, si eo nomine stipulatio non fiat. quod genus obligationis proprium peregrinorum est.
3.135. Consensu fiunt obligationes in emptionibus et venditionibus, locationibus conductionibus, societatibus, mandatis.
3.136. Ideo autem istis modis consensu dicimus obli- gationes contrahi, quod neque verborum neque scripturae ulla proprietas desideratur, sed sufficit eos, qui negotium gerunt, consentisse.
Il novero delle fonti di obligationes2 è accresciuto in:
2 LOMBARDI, Obligationes iuris gentium, in Ricerche in tema di “ius gentium”, Milano, 1946, pp. 247-272; D’ORS, Re et verbis, in Atti del Congresso di Verona 3, Milano, 1953, pp. 265-303; SOLAZ- ZI, Due note alle Istituzioni di Gaio, in Atti di Verona 3, Milano, 1958, pp. 303-321; VAN OVEN, Le sens des mots obligatio et obliga- re chez ius, in Festschrift Lewald, 1953, pp. 121-131; BETTI, Appunti di teoria dell’obbligazione in diritto romano, Roma, 1958; VOCI, Le obbligazioni romane. Corso di Pandette 1, parte I. Contenuto dell’obligatio, Milano, 1969; LANTELLA, Note semantiche sulle de- finizioni di obligatio, in Studi Grosso, Torino, 1971, pp. 163-232;
D. 2.14.7 pr. (Ulp.4 ad ed.): Iuris gentium conventio- nes quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. 1. Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed tran- seunt in proprium nomen contractus: ut emptio venditio, lo- catio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus. 2. Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso res- pondit esse obligationem. Ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facies : hoc sun£llagma esse et hinc nasci civilem obligationem. Et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a pretore dandam: ille ait civilem incerti actionem, id est praescriptis verbis suffi- cere: esse enim contractum, quod Aristo sun£llagma dicit, unde haec nascitur actio. 3. Si ob maleficium ne fiat promis- sum sit, nulla est obligatio ex hac conventione. 4. Sed cum nulla subest causa, propter conventionem hic constat non posse constitui obligationem: igitur nuda pactio obligatio- nem non parit, sed parit exceptionem.
GALLO, Per la ricostruzione e l’utilizzazione della dottrina di Gaio sulle obligationesex variis causarum figuris, in BIDR. 76, 1973, pp. 171-224; KNÜTEL, In obligatione generis quid est in obligatione?, in Studi Sanfilippo 3, Milano, 1983, pp. 353-380; ALBANESE, Papinia- no e la definizione di obligatio in Inst. 3.13 pr., in SHDI. 50, 1984, pp. 167-178; BISCARDI, La ley Poetelia Papiria y la transfiguracion del concepto primordial de “obligatio”, in Seminarios Complutenses de Derecho romano 2, Madrid, 1990, pp. 1-17.
Lo stesso giurista severiano definisce inoltre la con- ventio3:
D 2.14.3 (Ulp. 4 ad ed.): verbum generale, ad omnia pertinens de quibus negotii contrahendi transigendique cau- sa consentiunt qui inter se agunt. Nam sicuti convenire di- cuntur qui ex diversis locis in unum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis locis in unum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, id est in unam sententiam decurrunt. Adeo autem conventionis
3 Sulle conventiones cfr. GEORGESCU, Causa, contractus, conven- tio. Contribútion à la théorie générale du contracte en droit romain, in Etudes de philologie giuridique e de droit romain 1, Bucarest-Paris, 1940, pp. 309-329; LOMBARDI, Stipulatio e conventiones iuris gen- tium, in Ricerche in tema di ius gentium, Milano, 1946, pp. 173-246; SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani. “Nova nego- tia” e “transactio” da Labeone a Ulpiano, Napoli, 1971; TALA- MANCA, Conventio e stipulatio nel sistema dei contratti romani, in Le droit romain et sa reception en Europe, Varsavia, 1978, pp. 195- 266; SANTORO, Il contratto nel pensiero di Labeone, in Ann. Sem. Giur. Univ. Palermo 37, Palermo, 1983, pp. 5-304; ID., Aspetti formu- lari della tutela delle convenzioni atipiche, in Le teorie contrattuali- stiche romane nella storiografia contemporanea, Napoli, 1991, pp. 83-124; ID., La causa delle convenzioni atipiche, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica 2, Congresso Internazionale ARISTEC, Torino, 1997, pp. 85-130; SACCONI, Conventio e mu- tuum, in Index 15, 1987, pp. 423-438; MELILLO, Contrahere, paci- sci, transigere, Napoli, 1990; GALLO, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, in SHDI. 55, 1989, pp. 123-190; ID., Synallagma e conventionel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria con- trattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano, Torino, 1992; ID., “Agere praescriptis verbis” e edit- to alla luce delle testimonianze celsine, in Labeo 44, 1998, pp. 7 ss.; BURDESE, Sulle nozioni di patto, convenzione e contratto in diritto romano, in Seminarios Complutenses de Der. rom. 5, 1993, pp. 41-66; ID., I contratti innominati, in Miscellanea romanistica. Fundación Seminario de Derecho romano “Ursicino Alvarez”, Madrid, 1994, pp. 225-262; ID., Pacisci, convenire, contrahere, in Publ. Miskolc. Sec. jur. pol. 10, 1995.
verbum generale est ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem quae non habet in se con- ventionem, sive re sive verbis fiat; nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensus, nulla est;
ed asserisce del pactum:
D. 2.14.1.1 (Ulp. 4 ad ed.):...est pactio duorum pluri- umve in idem placitum et consensus4 .
4 La letteratura romanistica sui pacta è vastissima. Si vedano in parti- colare, MANENTI, Contributo critico alla teoria generale dei pacta secondo il diritto romano, in Studi Senesi 7, 1890, p. 85 ss., e 8, 1891,
p. 3 ss; ID., Pacta conventa, in Studi Senesi, 31, 1915, p. 203 ss.; FERRINI, Sulla teoria generale dei pacta, in Filangieri, 17, 1892, p. 65 ss = Opere 3, Milano, 1929, p. 243 ss.; BONFANTE, Sul contrac- tus e sui pacta, in Riv. Dir. Comm., 18, 1920, p. 1 ss. = Scritti giuridici varii 3, Torino, 1926, p. 135 ss.; KOSCHAKER, Bedingte Novatio- nund Pactum im römischen Recht, in Festschrift Hanausek, Graz, 1925, p. 118 ss.; GROSSO, L’efficacia dei patti nei bonae fidei iudi- cia, in Studi Urbinati 1, 1927, fasc. 3-4, p. 29 ss e in Studi Urbinati 2, 1928, p. 1 ss; ID., Efficacia dei patti nei bonae fidei iudicia. Patti e contratti, in Memorie dell’istituto giuridico 3, Torino, 1928; RICCO- BONO, Corso di diritto romano. Stipulationes, contractus, pacta, Mi- lano, 1935; SANFILIPPO, Alla ricerca dei nuda pacta, in Atti del Congresso internazionale di Verona 27-29 settembre 1948, 3, Milano, 1951, p. 333 ss; MAYER MARTINEZ, Los pactos. Su l’eficacia juri- dica en el Derecho romano, Montevideo, 1958; A. MAGDELAIN, Le consensualisme dans l’edit du preteur, Paris, 1958; DIOSDI, Pacta nuda servabo? Nuovi dubbi intorno ad un vecchio problema, in BIDR. 74, 1971, pp. 89-106; ARCHI, Ait praetor: pacta conventa servabo. Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell’Edictum Per- petuum, in De iustitia et de iure, Festgabe von Lübtow, Berlin, 1980, pp. 373-403 = Scritti di diritto romano 1, Milano, 1981, p. 481 ss.; MELILLO, sv. Patti (storia), in ED. 32, Milano, 1982, p. 479 ss.; Pacta in rem, pacta in personam: una divisio classica?, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino 3, Napoli, 1984, p. 1459 ss.; STURM, Il pactum e le sue molteplici applicazioni, in Contractus e pactum, tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo- repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazio- ne della nuova riproduzione dellaLittera Florentina, Copanello 1-4
La problematica che in relazione a tali testi giuridici si è da sempre posta all’interprete è quella della ricostruzio- ne del rapporto conventio – contractus – pacta, ossia, della verifica nell’esperienza giuridica romana della rilevanza e dell’esistenza di limiti della volontà dei privati in ordine alla produzione di effetti giuridici.
1.2 – LE DOTTRINE MEDIOEVALI GLOSSATORI E POSTGLOS- SATORI -. Con la Rinascita giuridica nel XII secolo, si ripro- pose5, al centro delle problematiche sul negozio, nei termini della sistemazione giustinianea, e in rapporto alle dottrine canoniche6, il rapporto contractus – pacta7.
giugno 1988, Napoli-Roma, 1990, p. 149 ss.; GALLO, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria con- trattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano 1, cit., 1992, p. 38 ss.; VEGH, Ex pacto ius, in ZSS 110, 1993, p. 184 ss.; BURDESE, Sulle nozioni di patto, convenzione e contratto in diritto romano, cit., p. 41 ss.; ID., sv. Patto, in NNDI. 12, Torino, 1965, pp. 708-711.
5 La nozione del nudum pactum era diventata un enigma già per gli stessi giuristi bizantini. Cfr. Meditatio de nudis pactis, il cui autore è un anonimo giurista bizntino. Lo scritto è stato pubblicato da PATU- RINI e MONNIER in RHD. 37, 1913, p. 135 ss.; 311 ss.; 474 ss.; 624 ss.; 38, 1914, p. 285 ss.; 709 ss. Una riedizione è stata curata dagli Ze- pos. Cfr. J. ZEPOS e P. ZEPOS, JGR. 7, p. 363 ss.
6 E’ bene precisare però che il diritto canonico medioevale - sistemato su apparati concettuali mutuati anch’essi dal diritto romano ma accor- dante rilevanza, in materia negoziale, alla voluntas, senza obliterare però la distinzione tra contractus e pacta - non era un diritto stretta- mente spirituale, potendo apportare, sia pure nei lmiti della giurisdi- zione ecclesiastica, soluzioni concrete a questioni civili (cause matri- moniali, eredità, contratti, ecc.): solo a partire dal Concilio di Trento (1545-1565) esso ripiega su una sfera strettamente religiosa.
7 Glossa a D. 2.14.7: Casus. In hac l. dicitur quod iuris gentiu(m) con- ventiones sunt, quarum altera parit exceptionem : de qua nihil hic di- cit: altera vero parit actionem, et non vocatur conventio, sed in suo
Secondo la costruzione storiografica, tracciata da Giuseppe Ermini8 e sistemata da Francesco Calasso9, la dot- trina giuridica affermatasi in Italia nel XII secolo, aveva, in- fatti, considerato come diritto vigente nell’Impero medioe- vale il diritto romano giustinianeo, fornendone un’interpretazione originale che lo adeguava alla realtà con- creta della società contemporanea e lo aveva affiancato all’altro diritto universale, quello canonico, nella convinzio- ne che l’Impero, essendo sacro e romano, costituisse un’unità istituzionale bifronte, temporale e, al contempo, spirituale, e pertanto richiedesse la compresenza di due dirit- ti (il c.d. “utrumque ius”) che fossero altrettanto universali - il romano per le questioni temporali, il canonico per quelle spirituali: diritti tra loro inscindibilmente legati. I rapporti tra i due distinti diritti erano, pertanto, disciplinati da una se- rie di regole dirette a conservarne l’intima unità: le lacune dell’uno erano colmate grazie al ricorso alle corrispondenti disposizioni dell’altro. D’altra parte quando la Scuola di Bo- logna10 con Irnerio e i suoi discepoli rilanciò in tutta Europa
proprio nomine speciali remanent, ut emptio, et alia, quae hic ponun- tur…
8 ERMINI, Corso di diritto comune 1: Genesi ed evoluzione storica. Elementi costitutivi. Fonti, Milano, 1943.
9 CALASSO, Medioevo del diritto 1. Le fonti, Milano, 1954.
10 Sui Glossatori e sulla loro opera la bibliografia è vasta: cfr. s. v. Glossatori, in NNDI. 4, Torino, 1938, pag. 430-32; GENZMER, I glossatori, in Archivio Giur., 119, 1938, p. 113-21; SORBELLI, Sto- ria dell’Università di Bologna 1. Il Medioevo, Bologna, 1940, pp. 61- 72; ERMINI, Corso di diritto comune, 1: Genesi ed evoluzione stori- ca, cit., pp. 210-28; RICCOBONO, Interpretatio duplex (Fr. 2, D, De transactionibus, 2, 15), in Miscellanea Mercati 5 (Studi e Testi 125), Città del Vaticano, 1946, pp. 543-68, e ancora in BIDR. 40 – 50, 1947,
lo studio del diritto romano11, essa assunse12 il diritto giusti- nianeo come norma fondamentale del vivere civile, dando avvio ad una delle creazioni più caratteristiche della nostra civiltà, il diritto comune, la cui funzione – secondo le con- clusioni della storiografia13 – era quella di colmare le lacune
pp. 6-29; CALCATERRA, Alma Mater Studiorum. L’Università di Bologna nella storia della cultura e della civiltà, Bologna, 1948, pp. 14-26; GENZMER, Il diritto romano come fattore della civiltà euro- pea, Trieste, 1954; LEICHT, Storia del diritto italiano. Le fonti4, Mi- lano, 1956, pp. 129-138; TORELLI, Tradizione romana e rinascimen- to degli studi di diritto nella vita pratica dei secoli XII e XIII, in Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna 15, 1942, pp. 1-24, ed ora in Scritti di storia del diritto italiano, Milano, 1959, pp. 495- 516; MEIJERS, Sommes. Lectures et Commentaires (1100 à 1250), in Atti del Congresso internazionale di diritto romano (Bologna e Ro- ma,17-27 aprile 1932) – Bologna - 1, Pavia, 1934, pp. 431-490, ed ora in Etudes d’Histoire du Droit 3, Leyde, 1959, pp. 211-260; TO- RELLI, Storia del diritto italiano, Milano, 1959.
11 Già agli inizi del XII secolo, la scuola dei glossatori, con Irnerio,
aveva tracciata la sua strada sicura. Intanto essa aveva compiuto la grande opera del ritrovamento, della ricognizione e della riduzione a miglior lettura dei testi giustinianei, cominciando dal Digesto, che l’epoca alto- medioevale aveva conosciuto soltanto parzialmente e che i glossatori studiavano invece nella sua integrità e diviso nelle tre par- ti: Digestum Vetus, Infortiatum, Digestum Novum, divenue poi tradi- zionali, dopo di averne preparata una lezione uniforme e nuova - chiamata Litera bononiensis e poi Vulgata – dal confronto con cosid- detta Litera vetus communis e la Litera Pisana. Poi aveva diviso in due parti il Codex – con le Institutiones assai più noto del Digesto nell’alto Medioevo -, distaccandone i Tres libri (10, 11, 12), che con le Novellae ed i Libri Feudorum formavano il tomo 5 del Corpus Iuris Civilis, detto per antonomasia Volumen, Volumen parvum ed anche Volumen legum.
12 Dal vivo di siffatto movimento emerge e prende consistenza il pro-
cesso di repulsione dell’elemento germanico operato dalla nuova men- talità che la scuola aveva formato su basi romanistiche e che andava progressivamente penetrando la vita giuridica e insieme gradatamente eliminando, anche dalla legislazione comunale, la rozzezza delle for- me e degli istituti nati nel periodo precedente.
13 Anche i pochi storici che hanno messo in discussione l’esistenza di un ordinato ed unitario sistema di diritto comune, non hanno respinto l’idea della funzione di norma sussidiaria di questo nei riguardi delle
dei diritti propri, statuari o consuetudinari che fossero, ope- rando rispetto ad essi come diritto sussidiario ed a sua volta risultando da questi integrato e completato14.
Data la molteplicità di ordinamenti e di realtà giuridi- che particolari, lo studio del diritto romano apparve indi- spensabile, venendo a svolgere, inoltre, una funzione molto significativa: esso offriva inquadramento e completamento alla disciplina del diritto proprio, garantendo a questa, in tal modo integrata, stabilità e certezza in virtù della propria in- discussa autorità e sistematicità15.
In una prima fase, la forma in cui si manifestò l’attività della scienza giuridica – perfettamente intonata alle
norme particolari. Così, ad esempio, l’Astuti ammetteva che le norme romane, nelle materie in cui erano riconosciute ancora di significativa utilità, fungevano da genus rispetto alle norme di diritto particolare, le quali costituivano le species; e al genus, secondo una regola tradizio- nale dell’interpretazione giuridica, si ricorre quando le species non di- spongono. Da questa impostazione si distingue il Grossi, il quale ha respinto con decisione la nozione di gerarchia delle fonti per l’età me- dioevale, in quanto legata strettamente ad una visione rigidamente monastica dell’ordine giuridico, la quale prospetta lo Stato come unico ente legittimato a produrre diritto. A suo parere gli ordinamenti giuri- dici medioevali erano tutti sullo stesso piano e si integravano a vicen- da, comprimendosi tra loro nella relatività della vita giuridica. In quest’ottica, dovrebbe parlarsi di rapporto di complementarietà. Al ri- guardo cfr. CALASSO, Medioevo del diritto, cit., pp. 453-467; ID., Introduzione al diritto comune, Milano, 1970; ASTUTI, Recezione te- orica e applicazione pratica del diritto romano nell’età del Rinasci- mento giuridico, in Atti del Colloquio ”Le droit romani et sa reception en Europe”. Università di Varsavia 8-10 ottobre 1973, Varsavia 1978, pp. 32-58; GROSSI, L’ordine giuridico medioevale, Roma-Bari 1995, pp. 227-229.
14 In tal senso cfr. da ultimo CARAVALE, Alle origini del diritto eu-
ropeo. Ius commune, droit commun, common law nella dottina giuri- dica della prima età moderna, Roma, 2005, p. 12 ss.
15 CARAVALE, Alle origini del diritto europeo, cit., p. 21.
forme in cui si manifestava la cultura del tempo, specie in- torno ai testi sacri16 – fu quella esegetica: la fede nel dogma del diritto giustinianeo come diritto per antonomasia17 favorì in loro l’ineguagliata capacità di interpreti fedelissimi dei testi giustinianei, da essi considerati come un’unità inscin- dibile che aveva assorbito e adottato tutto il diritto prece-
16 Il parallelismo tra scienza giuridica e teologia, il legame tra raccolta giustinianea, interpretazione della dottrina medioevale e Sacre Scrittu- re è stato approfondito in anni più recenti da PIANO MORTARI, Dogmatica e interpretazione. I giuristi medievali, Napoli, 1976, che a
p.17 ha attribuito ai Glossatori l’idea che “nella codificazione giusti- nianea erano stati tradotti in regole generali di diritto positivo i prin- cipi di giustizia e di equità propri del cristianesimo”; mentre in Aspet- ti del pensiero giuridico medievale, Napoli, 1974, p. 104, nel mettere in evidenza la stretta analogia tra l’esegesi biblica e l’interpretazione giuridica, ha affermatoche entrambe le scienze erano fondate “su un complesso di testi che apparivano di un prestigio e di un valore ecce- zionali”, la prima sulla Sacra Scrittura, la seconda sulla Compilazione giustinianea considerata “tesoro inesauribile della verità giuridica”. La tesi era già stata sostenuta da PIANO MORTARI in Storia del di- ritto italiano. Lineamenti della teoria medievale dell’interpretazione del diritto, Catania, 1964, pp. 18-19. Sul punto cfr. anche BELLOMO, Ius comune, in Rivista internazionale di diritto comune 7, 1996, p. 207.
17 I Glossatori non si posero di fronte alla compilazione giustinianea –
come assai più tardi i giuristi dell’Umanesimo – nell’atteggiamento di chi guarda con occhio di storico, ma di quello di chi è indifferente ad ogni suggestione che non muova dalla fede nella più viva attualità dell’oggetto da guardare: data l’assenza di codificazioni, l’intento principale della scuola non era e non poteva essere rivolto a studiare, in quanto tale, un complesso di norme antiche e perciò morte, ma a considerare quelle norme come la guida sicura e insostituibile che pre- siedeva al movimento rinnovatore della vita giuridica contemporanea. Se, dunque, la scuola non provvide e non tentò nemmeno di restituire i testi giuridici romani alla loro genuina lezione, vi è da precisare, però, che essa non lo fece perché il tempo in cui prosperò non lo consentiva e non lo esigeva. L’ignoranza della storia da parte dei Glossatori, anzi, lungi dal potersi allegare a loro biasimo, fu, d’altra parte, per certo, causa non ultima della salvezza del diritto romano e della sua propa- gazione.
dente, come la lex insomma, viva e vigente18, autonoma e distaccata dalle opere dalle quali originariamente derivava, dalla litera della quale, data l’integrale accettazione della sua autorità19, non potevano distaccarsi20.
Se dapprima questo studio si svolse attraverso “glos- se” o annotazioni, interlineari o marginali, di chiarimento letterale ai singoli testi, nella letteratura successiva si svi- luppa e si perfeziona il metodo d’indagine: si leggeva anzi-
18 La tesi tradizionale secondo la quale i giuristi medievali, a partire dai primi Glossatori, avevano riconosciuto all’intero corpo delle nor- me giustinianee un “valore assoluto ed esclusivo” è messa in dubbio dall’Astuti, secondo il quale, al contrario, i suddetti giuristi non a- vrebbero mai assegnato a quel diritto una tale autorità, né gli avrebbe- ro mai attribuito vigenza in ogni società ed in ogni regione del mondo: all’inverso, essi avrebbero dichiarato esplicitamente di “accettarne ed applicarne le disposizioni secondo il loro discernimento critico, re- spingendo quelle contrarie alla consuetudine e all’equità”. I Glossato- ri avrebbero, allora, avuto il merito di “aver compiuto la necessaria selezione tra ciò che era morto, e privo di interesse attuale, e ciò che ancora poteva costituire elemento vivo e vitale dell’ordine giuridico”. ASTUTI, Recezione teorica, cit. pp. 254-255.
19 Il fondamento dell’autorità superiore riconosciuta nel Medioevo e
nell’età moderna al diritto giustinianeo è tema in discussione: cfr., sul punto CASSANDRO, Lezioni di diritto comune 1, Napoli, 1971, pp. 285-286; PIANO MORTARI, Dogmatica e interpretazione. I giuristi medievali, 1976, p.17; DILCHER, Kaiserrecht, Universalität und Par- tikularitat in der Rechtsordnung des Mittelaters, in Rivista internazio- nale di diritto comune 5, 1994, pp. 221-245; BELLOMO, Condivi- dendo, rispondendo, aggiungendo. Riflessioni intorno al ius comune, in Rivista internazionale di diritto comune 11, 2002, pp. 287-288.
20 Come questo modo di operare intorno ai testi derivasse da un lato dalle stesse prescrizioni di Giustiniano per la salvaguardia della sua Codificazione, sicchè l’attività dei giuristi sui testi in essa compresi, proibita ogni specie di commento, avrebbe dovuto limitarsi a semplici traduzioni letterali, ad indici, ad annotazioni, vedi le costit. premesse al Digesto: Deo autore 12 e Tanta 21.
tutto il testo giustinianeo, esponendone il casus21 e lo si rias- sumeva (summa22) notandone al contempo le regulae23, che eventualmente se ne potessero ricavare, per poi applicarle al caso concreto rilevandone le concordanze, le analogie e le antinomie con altri testi e cercando di spiegarlo o comunque di rendersene ragione, rammentando o proponendo casi pra- tici che potevano trovar regola nel testo esaminato ed infine ancora riassumendo quanto si era rilevato, discusso o ri- chiamato dettando la conclusione emersa e talvolta tentando anche l’indagine sulla ratio legis.
Il lavorio compiuto dalla scuola lungo il corso di un secolo e mezzo perviene al suo coronamento e insieme si esaurisce nella Glossa Accursiana24 o Glossa Magna e più brevemente, per antonomasia, Glossa, un vastissimo appara-
21 I casus erano esempi pratici, dei quali si fecero presto interessanti racolte, che venivano formulati in punto i applicazione della singola norma per meglio chiarirne il significato. Notissimi quelli di Viviano Toschi (1228-59) stampati correntemente, insieme alla Glossa Ordi- naria, nelle edizioni cinquecentine del Corpus Iuris Civilis.
22 Le summae o summulae erano riassunti del contenuto di parte dei testi giustinianei (per es., titoli o libri) o trattazioni di un singolo istitu- to (per es., de actionibus, ecc.). Esse testimoniano, insieme ai più tardi tractatus la capacità di sintesi che la scuola sapeva unire alla sua inar- rivabile capacità di esegesi.
23 Le regulae o brocarda erano principi fondamentali di diritto, redatti concisamente in forma di massime, in modo da prestarsi facilmente alla redazione mnemonica. Famosa la raccolta Aurea brocardica Azo- nis stampata spesso in coda alla celeberrima Summa dello stesso (vedi, per es., la ed. Venetiis, 1596).
24 In quest’opera veramente colossale, che si stende materialmente sui margini dei libri in modo da circondare pagina per pagina l’intero te- sto del Corpus Iuris Civilis sì da costituire un commento completo e continuato, Accursio aveva raccolto e riassunto le glosse dei suoi pre- decessori nonché le loro interpretazioni sparse nelle varie opere, ag- giungendovi poi le proprie personali opinioni.
to destinato a sostituirsi al testo giustinianeo di cui veniva abbandonato l’uso diretto25.
Sugli inizi del XIV secolo, in Italia, in contrasto col pigro ruminamento26 della Glossa Accursiana, la cui autori- tà aveva finito per diventare incombente, si va però affer- mando una nuova metodologia: forma letteraria tipica della nuova scuola fu il commento il cui scopo era la penetrazione del sensus a differenza di quello della glossa che era quello della chiarificazione della litera.
La distinzione è scolastica; il glossatore conosce be- ne27 l’insegnamento di Celso: “scire leges, non est verba eum tenere, sed vim ac potestatem” e sa dunque che dei ver- ba è obbligato a identificare la vis (l’intrinseco contenuto) e la potestas (cioè la capacità normativa che ciascuna disposi- zione di legge possiede dentro di sé, rispetto a tutte le situa- zioni che non contempla, ma che logicamente si riportano ad essa). Il glossatore sillogizza, argomenta, distingue, in-
25 Che la compilazione accursiana avesse sostanzialmente fatto cadere in oblio la letteratura precedente, è fatto che emerge dalla sua stessa fama, dalla autorità ad essa riconosciuta. Baldo (m. 1400) - ad l. 8, C.
6. 26 - infatti ancora sentenziava: “adhaereas glossis ordinariis sicut Bononienses adhaerent caroccio et sicut inducens navem adhaeret ti- moni”; e già nel secolo stesso di Accursio, talune legislazioni cittadine (per es., di Verona e di Bologna) avevano sottolineato la grande auto- rità della Glossa facendo precetto ai giudici – deficientibus statutis – di giudicare secondo il suo dettato.
26 Cfr. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto roma- no, Torino, 1963.
27 Glossa, Scire leges D. 1.3 de legibus senat. consultis, p.17.
nalzandosi alla contemplazione della mens legis (meta natu- rale e costante).
Con i commentatori (tra cui: Cino da Pistoia, Bartolo da Sassofferato, Baldo degli Ubaldi, Riccardo Malombra, Oltrado da Ponte, Alberico da Rosate, Raniero da Forlì, Bar- tolomeo da Saliceto, Andrea d’Isernia, Niccolò Spinelli, Lu- ca da Penna) comunque può dirsi posto in concreto il pro- blema della sistematica (sulla base dei principi dedotti con metodo sillogistico dalle norme scritte si erigono costruzioni teoretiche)28.
Tale tendenza si manifesta nel modo più evidente nel dar vita ad una serie di trattatelli monografici, indipendenti da ogni schema tradizionale, in cui si affrontano i vari istitu- ti e nei quali l’ordine della materia29 (a differenza del com- mento che il più delle volte continua a svolgersi secondo
28 Sui commentatori restano sempre utili per la ricerca i ragguagli bio- grafici e bibliografici del Savigny (ma non sempre i giudizi critici). Cfr. inoltre BRUGI, La riabilitazione dei giuristi accursiani, in Saggi,
p. 113 ss.; ID., Alcune osservazioni sul periodo storico dei Postglossa- tori in Italia, in Arch. Giur., 1881. Per la bibliografia cfr. RICCO- BONO, Roma madre delle leggi, in BIDR. 57-58, 1953; PIANO MORTARI, in ED. 7, Milano, 1960; CHIAZZESE, Vicende e inter- pretazioni delle fonti romane in Occidente, in Annali Sem. Giur. Univ. Palermo 33, 1972; VACCA, La garanzia per evizione e le obbligazio- ni del venditore nel sistema romano del Codice Civile italiano, in Stu- di in onore di G. Gorla 2, Milano, 1994.
29 Con i Glossatori – data la più assoluta subordinazione dell’interpretazione alla litera del testo, addirittura ai suoi verba, sia isolatamente presi, sia nella loro iunctura – l’ordine dello studio veni- va ad essere dato dalla successione dei testi, così come erano stati di- sposti da Giustiniano (ordine legale) .
l’ordine legale dei testi) è a volta a volta determinato dalla costruzione che si cerca di farne.
Sulla base dell’identificazione del diritto con la norma scritta e del conseguente porsi dell’interpretazione come o- pera di svolgimento logico del dato normativo era dunque affrontato il problema del rapporto conventio – contractus – pacta.
Gli interpreti medioevali, educati nella tradizione sco- lastica, con mentalità imbevuta dallo spirito sistematico, at- traverso fini tecniche sillogistiche, ragionamenti per absur- dum, asserivano – piegando le fonti a soluzioni estranee - che principio base del sistema giuridico giustinianeo sareb- be stato quello dell’irrilevanza della voluntas in ordine alla costituzione di rapporti giuridici.
I glossatori infatti distinguevano nettamente i con- tractus, figure tipiche che essendo tutelate da actiones erano capaci di costituire rapporti giuridici, dai pacta atti bilaterali informali (dunque accordi di volontà) che essendo tutelati da sole exceptiones 30, non erano capaci di costituire rappor- ti giuridici (ma solo di estinguerli, e che potevano essere fat- ti valere solo a seguito di iniziativa giudiziale della contro- parte). Contractus erano, dunque, meri atti tipici.
30 Ulp. D. 2.14.7.4: “…igitur nuda pactio obligationem non parit sed parit exceptionem”.
L’orientamento è perfezionato dai postglossatori: la parola pactum è concepita come un Oberbegriff da cui deri- va la nozione del contratto; pactum (conventio), si configura cioè come genus31, caratterizzato dal consensus in idem pla- citum, del quale il contractus è una species caratterizzata dalla capacità di far nascere actiones: il genus pactum, es- sendo tutelato da sole exceptiones, non ha tale capacità.
Limpida è la formulazione del Brachylogus iuris civi- lis: «Contractus autem est pactum, quod parit actionem»32.
Al di là, però, della sussunzione dei contractus nella categoria delle conventiones, le dottrine medioevali non temperano la discriminazione nel regime dei patti: i pacta vengono distinti in pacta vestita (contractus), pacta aventi efficacia ad obligandum et ad agendum (muniti cioè di au- tonoma tutela processuale) e pacta nuda, pacta non aventi efficacia ad obligandum et ad agendum (sforniti di aziona- bilità processuale) quia nudum pactum regulariter non pa- rit actionem sed exceptionem33.
Le connotazioni che trasformano un nudum pactum in pactum vestitum sono le forme tipiche: al di là, dunque, di alcune ipotesi a tipicità causale (emptio-venditio, locatio- conductio, societas, mandatum) - in relazione alle quali
31 Genus (da gignere: generare, di origine indoeuropea) è una classe generale comprensiva di più elementi (species) distinti da altri dello stesso genere per certi comuni caratteri particolari .
32 Brachylogus 3.13.3.
33 SALATIELE, Ars notarie 2, Milano, 1961, 100.
l’ordinamento avrebbe consentito per la tutela in via d’actiones la forma meramente consensuale -, fatto costitu- tivo di rapporti giuridici sarebbero state le forme: orali, scritte, gestuali (obligationes verba, literis, re contractae).
Ancora nella Glossa34 infatti chiaramente si legge:
Convenit inter me e te quod permutaremus codices nostros adinuicem, e ego ante quam darem meu, volo agere adversus te, ut tuum mihi des, nunquid possum?
Et respon. quod non, quia fuit nuda pactio, quae ac- tionem non parit, sed exceptionem, et est in hoc casu verum, quod non parit actionem nec in contractu permutationis nec ullo alio contractu.
Il sistema avrebbe trovato dunque il suo momento d’elezione nel formalismo, escludendo la rilevanza della vo- lontà delle parti in ordine alla produzione di effetti giuridici costitutivi.
Dal momento però che le fonti largamente testimo- niano una serie di figure pattizie (non riconducibili cioè in alcun modo ai tipici moduli contrattuali) eppure tutelati da actiones e non da sole exceptiones, la Glossa separa, in via di specificazione, dal genus pactum un tertium quid: “pacta legis vel praetoris ausilio vestitae35”- pattuizioni (atti infor-
34 Glossa a D. 2.14 lex 8 (= D. 2.14.7 ed. Mommsen).
35 La nomenclatura pacta praetoria non trova riscontro nelle fonti ro- mane; essa è medioevale.
mali) munite di efficacia ad obligandum et ad agendum da un provvedimento normativo (compromissum, pactum dotis, pactum donationis) o dal pretore (ius iurandum volunta- rium, constituta, recepta – pattuizioni a contenuto stretta- mente obbligatorio; pignus conventum, pactiones et stipula- tiones di usufrutto e di servitù prediali – pattuizioni costitu- tive di diritti reali).
E’ chiaro, però, che il diritto civile oggetto dell’attività della scienza giuridica medievale non si identi- ficava col diritto romano che aveva cessato di vivere con la fine della società romana; esso era un prodotto dell’attività dottrinale che aveva plasmato, selezionato, interpretato norme ricavate dai testi giuridici antichi per adeguarle alla concreta prassi giuridica e, di conseguenza, per usarle ai fini della disciplina dei rapporti intersoggettivi e della loro tutela giurisdizionale36. L’interpretatio iniziata dai glossatori e proseguita dalle successive scuole e generazioni di giuristi esprimeva la grande tradizione di pensiero costantemente vivificata dagli apporti della dottrina, che l’adeguava alle necessità di volta in volta emergenti nella vita concreta del diritto e costituiva di conseguenza, il diritto effettivamente
36 Tale funzione creativa della dottrina era chiaramente presente nel secolo XVI ai sostenitori del mos italicus, polemici nei riguardi dei nuovi indirizzi di studio aperti del mos gallicus. In proposito appaiono interessanti le parole di Alberico Gentili (1552-1608) il quale dichia- rava: Quam ob rem discimus ius civile? Eo tantum consilio plurimi, ut vel ad res iudicandas, vel ad caussas agendas in foro instructiores pa- ratioresque reddamur, non ut in grammatica historicave illius cogni- zione oblectemur. ALBERICI GENTILIS, De iuris interpretibus dia- logi sex, a cura di Guido Astuti, Torino, 1937, p. 143.
vigente al quale corti di giustizia e pratici37 dovevano rife- rirsi. Una tradizione interpretativa che aveva fatto conoscere alle norme giuridiche una decisa evoluzione, che al loro in- terno aveva certamente operato una severa selezione, pren- dendo in considerazione solo le norme – la maggioranza – utili alla disciplina della prassi giuridica, e che, quindi, ave- va prodotto, sotto più aspetti, un sensibile mutamento sia nei contenuti della disciplina, sia nella definizione delle catego- rie astratte in cui includere le singole disposizioni. Ne era nato un diritto nuovo rispetto al diritto romano giustinianeo, un diritto che in virtù del fatto di essere radicato in quest’ultimo, ne condivideva la natura di diritto comune.
1.3 – DALL’UMANESIMO AL GIUSNATURALISMO. Nel Basso Medioevo38 nel settore della negozialità e sul piano della prassi giuridica si registra una situazione diversa da quella rigida e formalistica dello ius comune.
L’espandersi dei traffici commerciali e dapprima sul piano internazionale - tra operatori, dunque, aventi lingue e costumanze giuridiche diverse - comincia ad esigere il rico- noscimento di una piena efficacia giuridica delle figure “snelle” (libere da gravami formali) che la realtà mercantile va conoscendo.
37 Cfr. CARAVALE, Alle origini del diritto europeo, cit., p. 25.
38 CORTESE, Il diritto nella storia medioevale, Roma, 1995; per la storia economica cfr. KASER, Il basso medioevo; traduzione di Enri- co Besta, Firenze, 1925.
Tali esigenze sono alla base dell’ampliamento della contrattualità, sorretto dalla teoria dell’aequitas mercato- rum: i negozi mercantili sfuggono agli schemi del diritto comune svolgendosi spesso e con piena efficacia come nuda pacta, trattandosi di negoziazioni tra professionisti del commercio che, per norma generale, si ritengono possessori della formazione adeguata per contrattare in uguaglianza di circostanze.
Più tardi, apprezzandosi sul piano teorico un disequi- librio tra le parti, queste si consolideranno in negozi formali ed astratti.
Già, però, dalla seconda metà del XV secolo - e più ampiamente ancora nel secolo XVI -, in quel generale pro- cesso di revisione da cui in definitiva nasce il mondo mo- derno, anche sul piano dottrinale si assiste ad un movimen- to di rinnovazione che porta ad accentuare sempre più un di- stacco da concezioni e metodi fino allora imperanti.
E’ l’Umanesimo giuridico39, un movimento che in o- rigine è essenzialmente italiano40, ma che troverà poi, du- rante il XVI secolo, le sue maggiori espressioni in Francia,
39 Sull’Umanesimo giuridico cfr. per le opere più recenti: MAFFEI, Gli inizi dell’umanesimo giuridico, Milano, 1956; PIANO MORTA- RI, Cinquecento giuridico francese: lineamenti generali, Napoli, 1970; ASCHERI, I giuristi, l’Umanesimo e il sistema giuridico dal Medioevo all’età moderna, Siena, 1992; CATTANEO, Riflessioni sull’umanesimo giuridico, Napoli, 2004.
40 Sulla lunga preparazione che porta al movimento del XVI secolo e sul suo significato nel quadro del Rinascimento, v. CALASSO, Intro- duzione al diritto comune, cit., cap. 5.
con la cosiddetta “Scuola dei Culti” e il suo orientamento verrà perciò indicato come “mos gallicus” in contrapposto al “mos italicus” cioè in contrapposto al metodo dei commen- tatori e alla tradizione bartolista.
Le più antiche forme d’interpretazione verbale o ra- zionale dei testi si mutano in una più ampia esegesi filologi- ca e storica41: tali humaniores literae vengono, infatti, in misura sempre più larga, impiegate come mezzo per una migliore conoscenza critica del Corpus Iuris, del quale si tende a rivalutare il fondo classico42, contro le manipolazio- ni di Giustiniano e dei suoi collaboratori e contro le inter- pretazioni dei Glossatori e le elaborazioni dei Commentato- ri, gli uni e gli altri oggetto delle più violente accuse.
Sotto l’impulso delle varie e contrastanti necessità di un mondo avviato alle più profonde trasformazioni, in tutti i campi e sotto tutti gli aspetti, e che perciò aveva comunque
41 Va qui avvertito che il problema della storicità del diritto, inteso come problema della concezione storica del diritto – sul quale ci si fermerà in seguito -, trascende di gran lunga il problema dello studio della storia giuridica. In particolare, non si può commisurare la “pre- senza” e l’intensità della concezione storica del diritto al quantum di indagini storiche di cui si circondi e con le quali operi una scienza giu- ridica, potendosi avere manifestazioni di una concezione e di una co- scienza storica del diritto anche senza alcun corredo di nozioni ed in- dagini storiche, e, per converso abbondanza di nozioni e indagini sullo svolgimento del diritto senza che ciò implichi una concezione storici- stica.
42 Su ciò vedi RICCOBONO, Mos italicus e mos gallicus
nell’interpretazione del Corpus iuris civilis, in Acta Congr. Iur. In- tern. 2, Roma, 1935, p. 377 ss. Com’è noto furono gli Umanisti ad i- niziare la critica interpolazionistica delle fonti romane: su ciò cfr. PA- LAZZINI FINETTI, Storia della ricerca delle interpolazioni nel Cor- pus Iuris giust., Milano, 1953.
bisogno di nuovi assetti normativi, le fonti, sottoposte a cri- tica-interpretativa, vengono poi investite da un processo di elaborazione e costruzione che man mano ne risolve, tra- sforma e rinnova tutte le connessioni.
Al di là della Francia, però, il movimento umanistico trova scarso seguito. Ciò non meraviglia se si pone mente al fatto che attaccando la letteratura giuridica dei Glossatori e dei Commentatori per la rozzezza del loro stile o per i loro errori di interpretazione lessicale o storica, si rifiuta in bloc- co tutta una tradizione che comprendeva quattro secoli di giurisprudenza medievale; e che quando dalle critiche ai bartolisti e agli accursiani si passa ad esaltare la tradizione classica contro l’opera personale dei compilatori del VI se- colo, si fa saltare per aria l’autorità del Corpus Iuris, nel suo valore di monumento legislativo unitario e ci si apre la via alla considerazione storica del diritto, alla valorizzazione delle tradizioni giuridiche nazionali e in definitiva a porre l’istanza sempre più pressante di nuove codificazioni43.
Mentre la Francia, infatti, per la sua stessa storia, po- teva cercare la certezza di un suo diritto attraverso nuove
43 Saranno poi giusnaturalismo e razionalismo che condurranno prima alle Consolidazioni e poi alle Codificazioni. Tralasciando una nume- rosa serie di tentativi, di progetti e di raccolte precedenti, ricordiamo soprattutto il Codice prussiano del 1794, il Codice francese del 1804, il Codice austriaco del 1811, il Codice italiano del 1865, che apriranno una nuova pagina nella storia del diritto europeo continentale. Sul punto cfr. MELILLO, Personae e status in Roma antica, Napoli, 2006, pp. 22-30
forme44, altrove45, le condizioni storiche facevano sì che il mantenere ferma la tradizione del Corpus Iuris fosse il prin- cipale, se non l’unico modo per assicurare stabilità e certez- za al diritto sottraendolo alle tumultuose vicende che conti- nuavano a sconvolgere gran parte dell’Europa.
Un radicale rinnovamento dottrinale si avrà invece dagli inizi del XVII secolo con il giusnaturalismo46 e il ra-
44 Si pensi che già dal secolo XVI, oltre a redazioni del droit coutu- mier regionale e locale e alle loro réformations, cominciano anche le grandi ordonnances regie, che nonostante le difficoltà di applicazione rappresentavano i primi sforzi per una legislazione uniforme di quel Regno.
45 MAZZACANE, Sistematiche giuridiche e orientamenti politici e religioso nella giurisprudenza tedesca del secolo XVI, estratto da Stu- di di Storia del diritto medioevale e moderno a cura di F. Lotta, Bolo- gna, 1999, p. 233.
46 Dall’amplissima storiografia specifica sull’argomento si segnalano qui le opere più recenti e di carattere generale. LE FUR, Histoire du droit naturel depuis le XIIème siecle, La Haye, 1927; SAUTER, Die philosopischen Grundlagen des Naturrechts. Untersuchungen zur Geschichte der Rechts- und Staatslehre, Wien, 1932; LOTTIN, Psico- logie et morale aux XIIème et Xiième siècles 6., Louvain, 1942-1960; DODD, Natural Law in the Bible, London, 1946; STADTMÜLLER, Das Naturrecht im Lichte der geschichttlichen Erfahrunfg, Reckling- hausen, 1948; BRUNI ROCCIA, La dottrina del diritto naturale in America, Milano, 1950; AMBROSETTI, Il diritto naturale della ri- forma cattolica, Milano, 1951; WOLF, Grosse Rechtsdenker der deutsche Geistesgeschichte, Tübingen, 1951; VOGGENSPENGER, Der Begriff de ius naturale im römischen Recht, Basel, 1952; FLÜC- KIGER, Geschichte des Naturrechts 1. Alterum und Frühmittellater, Zürich, 1954; GALAN Y GUTIERREZ, Ius naturale, Valladolid, 1954; HARDING, Origins of the Natural Law Tradition, Dallas, 1954; THIEME, Das Naturrecht und die europäische Privatrechtsge- schichte, Basel, 1954; STRAUSS, Diritto naturale e storia, Venezia, 1957; SOLARI, Individualismo e diritto privato3, Torino, 1959; PIO- VANI, Giusnaturalismo ed etica moderna, Bari, 1961; PASSERINI D’ENTREVES, La dottrina del diritto naturale2, Milano, 1962; FAS- SO’, La legge della ragione, Bologna 1964; VILLEY, La formation de la penséè juridique moderne, Paris, 1968; BOBBIO, Locke e il di-
zionalismo, che saranno tra i più forti elementi conducenti alle Codificazioni47.
Ispirato ad una concezione essenzialmente individua- lista e ponendosi, almeno nelle principali correnti, come movimento diretto a risolvere lo Stato negli individui che lo compongono, l’utilità pubblica nell’utilità privata, il giusna- turalismo faceva perno sul diritto privato per fondare un si- stema di diritti soggettivi, quali attributi innati e insopprimi- bili dell’individuo48 e tendendo a porli fuori d’ogni discus- sione si proponeva di svincolarli il più possibile dai rapporti politici, affermando che, in quanto innati, competerebbero all’individuo a titolo originario e perciò non solo sarebbero anteriori e superiori allo Stato ma indipendenti da esso.
Si comprende, pertanto, che i principali artefici di queste nuove correnti – dall’Olanda Grozio e Spinoza, dalla
ritto naturale, Torino, 1963. Da ultimo cfr. TODESCAN, Etiamsi da- remus: studi sinfonici sul diritto naturale, Padova, 2003.
47 In Francia, Les loix civiles dans leur ordre naturel (1689) di DO- MAT saranno dette «la prefazione al Codice Napoleonico»; il Droit commun de la France et la coutume de Paris reduit en principe (1747) di BOURJON, a quel codice forniranno gli elementi fondamentali del suo schema; le Pandectae Justinianeae in novum ordinem digestae (1748) di POTHIER, ad esso forniranno gran parte del suo materiale. Sul punto cfr. ORESTANO, Introduzione allo studio storico, cit., p. 73 ss.
48 L’individuo è posto al centro di tutta la costruzione giuridica in ve- ste di subiectum (l’espressione subiectum iuris in questo significato, non risale oltre il XVII secolo. Fino allora si era operato attraverso la nozione di persona. Quando le fonti romane parlano di subiecti, è nel senso di “persone assoggettate”) e intorno a lui viene fatto ruotare il sistema giuridico, il quale sembra risolversi in una serie i “predicati” del soggetto stessa, risultanti dalle sue “qualità”, dalle sue “attribuzio- ni” e dalle sue “attività”.
Francia il Cartesianismo e Domat, in Inghilterra Hobbes e Locke, in Germania49 Pufendorf, Leibniz, Thomasius e Wolff –, con diversi punti di partenza e di arrivo, si muova- no in un’unica orbita: l’esaltazione della ragione come fonte suprema da cui fluisce il diritto naturale, avente posizione di preminenza su ogni legislazione positiva.
La speculazione giuridica positiva aspira pertanto in maniera sempre più forte all’esplorazione di un ordine natu- rale delle cose, alla ricerca del costante e dell’universale, all’individuazione dei principi generali ed assoluti del diritto di natura da cui trarne i propri e sui quali modellare i propri schemi.
49 La situazione tedesca era del tutto particolare. Dal XV sec. il Cor- pus Iuris, per quanto riguardava il diritto privato, era stato considerato in complexu come legislazione vigente: il fenomeno prese il nome di “recezione”. Per effetto di essa il Corpus Iuris si inserì tra le fonti del diritto privato tedesco, assumendovi una posizione di preminenza sul diritto locale, in gran parte consuetudinario e perciò considerato ius incertum. Questa funzione di legge vigente attribuita alle fonti roma- ne, anzi, ancora più precisamente alle sole fonti conosciute dalla Scuo- la di Bologna e annotate dai Glossatori, fece sì che si perpetuassero, insieme agli scritti dei Glossatori e dei Commentatori, le forme di stu- dio che questi avevano seguito; ed in realtà sussistevano le stesse ra- gioni storiche che avevano portato in Italia all’attività dei Commenta- tori. La scienza giuridica tedesca, come quella italiana dei secoli pre- cedenti, doveva raggiungere il duplice obbiettivo di tener ferma la cer- tezza del testo giustinianeo e al tempo stesso compiere un progressivo adattamento delle norme e principi romani alle concrete esigenze della vita di quei secoli: da qui un incessante lavorio di interpretazione casi- stica condotto da generazioni di giuristi, tutti rivolti a realizzare quello che si diceva l’usus modernus Pandectarum in foro germanico.
La prima fonte di questi principi permane il Corpus Iuris50, la cui tradizione appare essa stessa una conferma dell’universalità ed assolutezza dei principi che vi si tra- mandavano. Gli assalti dell’Umanesimo, infatti, avevano scalfito solo in piccola misura l’autorità di quella tradizione e la pratica e gran parte della didattica continuavano ad es- servi ancorate.
Si sviluppa in tal modo quel movimento che farà con- sistere la validità del diritto romano soprattutto nel suo con- tenuto razionale, sicchè per spiegarne il valore nella scienza giuridica e la sua particolare vigenza si dirà che esso si im- poneva da solo, non già ratione imperii, ma imperio ratio- nis.
Il nuovo orientamento, con un impegno ancora mag- giore di quello dei Commentatori, risale anch’esso nello studio del diritto romano dalle norme ai principi; a differen- za di questi ultimi, però, che vi risalivano per una migliore interpretazione ed applicazione delle norme stesse, ora lo sforzo è orientato all’individuazione di principi per costruire ed operare soprattutto attraverso questi ultimi.
50 In effetti la tradizione romanistica incombeva su tutta la formazione del pensiero giusnaturalistico; persino chi in tutto o in parte voleva di- staccarsene o comunque assumeva un atteggiamento critico era pur sempre condizionato dalla problematica delle fonti romane e dal loro valore di norma positiva, in particolare in Germania. Dato ciò, una delle vie per rendere operante il pensiero giusnaturalistico era di intro- durlo nell’elaborazione delle fonti romane.
Per altro verso se, fino ad allora, la sistematica era in- tesa come ordine di esposizione, cioè come collocazione materiale dei diversi argomenti in una successione volta per volta stabilita da affinità di materia, da connessioni logiche, da progressive partizioni, deduzioni e via dicendo, ora essa si risolve nella costruzione di un vero e proprio “sistema”, inteso quest’ultimo come complesso di elementi vincolato in tutte le sue parti ed in ogni senso ad un postulato ordinan- te, nel quale da ogni punto si può procedere e retrocedere verso ogni punto51.
La conoscenza del diritto naturale si ottiene pertanto movendo da un principio52 fondamentale e traendo da esso deduttivamente53, per via di una successione ininterrotta di
51 Il postulato da cui muovono i giusnaturalisti e che si esplica nell’idea che i giuristi romani avessero costruito “un sistema” giuridi- co con procedimento deduttivo, analogo a quello geometrico, si coglie pienamente nell’affermazione del LEIBNIZ: Dixi saepius post scripta geometrarum nihil extare quod vi ac subtilitate cum Romanorum iuri- sconsultorum scriptis comparari possit, tantum nervi inest, tantum profunditatis (Opera omnia 4, ed. Dutens, Ginevra, 1768, p. 254).
52 Principio ordinante e nucleo essenziale del sistema è il problema dell’individuo, considerato nella sua capacità, nei suoi rapporti e nei suoi atti. Per ciò stesso i punti fondamentali d’ogni trattazione sono la teoria del soggetto di diritto (subiectum iuris), la teoria dei diritti sog- gettivi (iura et obligationes) ed infine quella teoria degli atti giuridici (actus iuridici), intesi soprattutto come nudae assertiones et disposi- tiones, da cui nasce la teoria del negozio giuridico, quale riconosci- mento dell’autonomia individuale e attuazione della volontà del priva- to nella sfera del diritto.
53 E’ stato notato come il concetto di negozio giuridico più che ricava-
to dall’osservazione dei fenomeni giuridici sembra dedotto con proce- dimento astrattamente schematico dal concetto di persona, per cui il rapporto persona – cosa – azione non sarebbe che l’analogia della proposizione grammaticale soggetto – oggetto – predicato. Cfr. PAS- SERIN D’ENTREVES, Negozio giuridico, Torino, 1934, p. 6, nota.
dimostrazioni, tutta la materia: in questo modo, però, quella che fino alla seconda metà del XVIII secolo era stata essen- zialmente speculazione filosofica venne a penetrare di sé la scienza giuridica.
In campo negoziale, in particolare, si consacra a prin- cipio dogmatico del diritto naturale “solus consensus obli- gat”, derivandosene che contractus e pacta non si distin- guessero per la forza obbligante54, ma per una questione di forme, che non avrebbero pertanto funzione costitutiva, ma soddisferebbero l’esigenza di certezza giuridica.
Nel Trattato delle obbligazioni di Pothier chiaramente si legge:
“I principi del diritto romano sulle differenti specie di patti, e su la distinzione de’ contratti e de’ semplici patti, non essendo appoggiati al diritto naturale, anzi essendo to- talmente contrari alla sua semplicità, sono aboliti dalla nuova legislazione… Da ciò ne segue che noi non possiamo adottare la definizione del contratto che ci somministrano gl’interpreti del diritto romano, cioè Conventio nomen ha- bens a jure civili, vel causam: ma dobbiamo piuttosto defi- nirlo, una convenzione mediante la quale due persone pro- mettono e si obbligano reciprocamente, o l’una soltanto di
54 PUFENDORF, De jure naturae et gentium, Lausanne-Genève, 1744, p. 367 ss.; DOMAT, Le lois civiles dans leur ordre naturel. Des conventions en général, titre 1, Paris, 1745, p. 19 ss.
esse verso l’altra, a dare, a fare o a non fare qualche co- sa55”.
Ancora,
“Se le nostre leggi vogliono che siano ridotte in iscrit- to quelle l’oggetto delle quali eccede le 150 lire, con ciò non hanno altro in vista che di regolare il modo in cui de- vono essere provate qualora sia negata la esistenza: ma non intendono che la scrittura sia un oggetto sostanziale della convenzione; poiché senza ciò ella è valida, e i contraenti che ne ammettono la esistenza possono essere obbligati ad eseguirla. Oltre di ciò si può sempre deferire il giuramento decisorio a colui che la nega: la scrittura è necessaria per la prova, non già per la sostanza della convenzione56”.
Sicuramente vi è adesso un più vivo e cosciente sen- timento del valore creativo, ad opera del giurista, degli schemi che egli si accinge ad escogitare e ad impiegare. La fonte da cui trarre il principium cognoscendi appare sempre costituita dalla realtà oggettiva, ma la scelta di un princi- pium piuttosto che un altro è considerata ormai come una determinazione compiuta dalla scienza giuridica57.
Ma da questa coscienza non derivano, per la scienza giuridica di quei secoli tutte le conseguenze che da essa ci si
55 POTHIER, Trattato delle obbligazioni secondo le regole tanto del foro della coscienza quanto del foro civile, Paris, 1745, pp. 13-14.
56 POTHIER, Trattato delle obbligazioni, cit., p. 26.
57 Cfr. PUTTER, Elementa iuris naturae, Gottinga, 1753, par. 230, p. 73: “Principium cognoscendi disciplinae cuiusdam est propositio, ex qua aliae propositiones eiusdem disciplinae concipi possunt”.
sarebbe potuti attendere. Anzi, in particolare, movendo dal presupposto dell’unità, immutabilità ed autonomia della ra- gione, si postula un valore di universalità per gli schemi ra- zionalmente creati e, dunque, storicamente condizionati58.
E comunque, al superamento in qualche modo di quel dualismo tra scienza ed oggetto, proprio della visione ogget- tivistica tradizionale, si perviene solo al costo di trasportare la “scienza del diritto” sul piano filosofico, col risultato di scavare un solco sempre più profondo tra “scienza” e “prati- ca” e di allontanare sempre di più la “scienza” dal concreto operare del suo oggetto e dalla vita cui questo inerisce. Sciolta dalla tradizionale subordinazione ai propri dati, la scienza del diritto tende a porsi come pura attività razionale e a fondarsi sull’a priori.
1.4 – SCUOLA STORICA E PANDETTISTICA; LA NECESSITÀ DELLE CODIFICAZIONI -. Con il giusnaturalismo del XVII secolo e, ancora di più, col razionalismo del XVIII secolo, nella scienza giuridica si registra un parziale sganciamento dai dati testuali, che porta ad identificare il diritto con qual- cosa di più ampio delle norme scritte; d’altra parte, tuttavia, in essa si consolida una maniera sempre più astratta di con- cepire il fenomeno giuridico.
58 Qualsiasi schema si adottasse, esso si poneva – nell’opinione del suo creatore o dei suoi seguaci – come un assoluto; e appunto perché ritenuto tale, come necessariamente idoneo nella sua generalità ed a- strattezza a sussumere ed inquadrare permanentemente qualunque “di- ritto”.
Contro tali orientamenti si oppone nel XIX secolo la Scuola Storica di F. C. von Savigny59.
La Scuola Storica tedesca, seppure legata a motivi contigenti del suo tempo e del suo luogo d’origine60, ha fra i suoi meriti principali quello di aver spostato il fulcro della speculazione giuridica dall’accertamento astratto di postulati razionali alla concreta indagine della realtà storica critica-
59 Tra le diverse interpretazioni del Savigny, qui si cita quella offerta da ORESTANO, Introduzione allo studio storico, cit., p. 113. Sul Sa- vigny cfr. più recentemente: DE MARINI, Antologia di scritti giuridi- ci. Friedrich Karl von Savigny, a cura di Franca De Marini, Bologna, 1980; MANTELLO, A proposito di Savigny: una riflessione sulle ri- flessioni, Milano, 1981; SCHIAVONE, Alle origini del diritto borghe- se: Hegel contro Savigny, Bari, 1984; MAZZACANE, Savigny e la storiografia giuridica tra storia e sistema con un’appendice di testi2, Napoli, 1976; ID., Vorlesungen über juristische Metodologie 1802- 1842. Friedrich Carl von Savigny; herausgegeben und eingeleitet von Aldo Mazzacane, Frankfurt am Main, 2004; MARINI, La polemica sulla codificazione: A. F. J. Thibaut, F. C. Savigny; a cura di Giuliano Marini, Napoli, 1992; DE MARINI AVONZO, Diritto romano e dirit- to privato: letture da F. K. Von Savigny per il corso di storia del dirit- to romano: Genova, a.a. 1994/95, Torino 1995; MOSCATI, Italiani- sche Reise: Savigny e la scienza giuridica della Restaurazione, Roma, 2000; DOMINGO: Juristas universales, Madrid, 2004;
60 In particolare fu stimolata dalla polemica intorno all’opportunità o
meno che la Germania si desse anch’essa una propria codificazione sul modello di quelle che si andavano moltiplicando nell’Europa con- tinentale e nelle quali il razionalismo giuridico del XVII e del XVIII secolo aveva finito per trovare la forma più rispondente al suo ideale di un diritto di ragione, logicamente sistemato e articolato. E in effetti, quello che venne considerato il “manifesto” programmatico della Scuola storica tedesca, cioè il celebre opuscolo del SAVIGNY, Ueber den Beruf unserer Zeit fur Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, edi- to per la prima volta ad Heidelberg nel 1814 e più volte ristampato (trad. it., Verona, 1857) è tutta una fiera appassionata polemica contro uno scritto pubblicato in quello stesso anno da A.F.J. THIBAUT, Ue- ber die Nothwendigkeit eines allgemeinen burgelichen Rechts fur Deutschland (Sulla necessità di un diritto civile generale per la Ger- mania), nel quale si era sostenuto si dovessero unificare tutte le leggi vigenti nei vari statitedeschi, formando un solo Codice.
mente accertata e, con ciò stesso, di aver riaperto la via ad un vasto (anche se non totale) rinnovamento delle concezio- ni del diritto e della sua scienza.
Alla concezione metafisica ed assoluta del diritto se ne sostituisce, dunque, una eminentemente storica e relativi- stica, che contro le astrazioni e le unità logiche, tende ad in- terpretare i fatti giuridici nella loro individualità e continuità storica, come organismi che costantemente divengono e si accrescono nel tempo61.
In questa nuova visione del fenomeno giuridico, alla scienza del diritto è attribuita una funzione centrale e pre- ponderante perché da un lato la scienza è l’interprete neces- saria della volontà popolare62 e rendendolo così oggetto di legislazione, e, dall’altro è la scienza stessa che elabora il prodotto della legislazione, ponendosi quale tramite neces- sario perché questo possa trasfondersi nella vita reale63.
Uno degli apporti più fecondi del Savigny al pensiero giuridico è nelle vie attraverso le quali la scienza del diritto
61 SOLARI, Storicismo e diritto privato, Torino, 1940, p. 160.
62 Postulato fondamentale della Scuola Storica tedesca è la formazione spontanea e collettiva del diritto positivo, come prodotto del Vol- ksgeist (spirito del popolo), vivente e operante in tutti coloro che ap- partengono ad un medesimo popolo, ad una medesima nazione. Cfr. Beruf, cit., trad. it. Verona, 1857, p. 102.
63 SAVIGNY, System des heutigen römischen Rechts 1, Berlino, 1840 (trad. it. Scialoja, Torino, 1886), p. 70 ss.
deve operare: operando un rovesciamento delle posizioni ra- zionaliste, egli sostituisce l’induzione alla deduzione64.
Metodo della conoscenza giuridica è considerato, quindi, il metodo storico inteso quale conoscenza ed accer- tamento dei fatti; e non perché questi abbiano un valore in sé, ma per il processo storico che essi rappresentano e do- cumentano, sicchè la loro conoscenza si risolve nella cono- scenza dello spirito popolare che in essi rileva.
Si fa strada, dunque, un significato di metodo storico nuovo rispetto all’uso che se ne faceva nelle precedenti for- me di studio giuridico: esso non consiste più in un una mera raccolta di materiale storiografico ed in una sua più o meno vaga considerazione, ma nel cogliere attraverso i fatti e le loro cause immediate i bisogni, le esigenze, i contesti che li producono65.
Nel pensiero del Savigny il metodo storico non esau- risce il problema dei procedimenti della scienza giuridica: se
64 Con ciò si vengono a modellare i procedimenti della scienza giuri- dica su quel metodo sperimentale che aveva avuto in Galileo il suo fondatore e in Bacone il suo teorizzatore. Ed in effetti il richiamo del Savigny allo studio della realtà empirica per muovere da questa nella conoscenza del diritto è di chiara ispirazione baconiana. Sul punto cfr. SOLARI, Storicismo, cit. p. 223 con sviluppi e riferimenti.
65 Si è già detto nel paragrafo precedente che tra l’asserire che cono- scenze ed indagini siano strumenti necessari, con i quali debba operare la scienza del diritto e l’asserire la storicità del diritto il passo sia lun- go. Nel primo caso, infatti la storia viene a svolgere una funzione ac- cessoria, strumentale; nel secondo caso, la storia si pone come il fon- damento, il motore del diritto che viene inteso come organismo che in essa vive. Alla base vi è una diversa concezione del diritto.
esso studia i fatti nella loro successione temporale come modi di esistenza dello spirito popolare, il cooperante meto- do sistematico opera sui fatti nella loro coesistenza spaziale e li deve riordinare secondo il loro principio informatore66.
La concezione sistematica cui si riferiscono il Sa- vigny ed i suoi seguaci, però, non ha nulla a che fare (alme- no nelle intenzioni) con le costruzioni dommatiche dell’indirizzo razionalistica, nelle quali da principi astratta- mente e aprioristicamente posti si procedeva per via di de- duzione all’elaborazione del sistema. Anzitutto, i principi ordinatori devono essere individuati ed accertati induttiva- mente movendo dalla concretezza storica; ancora, la siste- matica più che apparire come una costruzione operata dalla scienza, è ritenuta scoperta di un ordine strutturale insito nella realtà stessa del diritto concepito come organismo67.
66 Cfr SAVIGNY in recensione ad uno scritto di Gonner, 1815, riedita in Vermisheten Schriften, Berlino, 1850, p. 141. Nel pensiero del Sa- vigny metodo storico e metodo sistematico non si contrappongono, ma si integrano: se il primo deve condurre alla conoscenza scientifica del diritto, il secondo permette di realizzare quella conoscenza ordinata per principi in cui si concreta l’ideale di ogni scienza.
67 “Io pongo l’essenza del metodo sistematico nel riconoscimento e nell’esposizione dell’intimo legame o delle affinità, per cui i singoli concetti giuridici e le singole regole sono connesse in una grande uni- tà” (Sistema 1, cit. , trad. it., p. 20 ss.). In questa idea della sistematica come elemento intrinseco del diritto vi sono alcune intuizioni felici. Anzitutto si veniva a storicizzare la sistematica; inoltre si veniva a ri- conoscere il nesso da cui sono strutturalmente legati taluni elementi di ogni ordinamento giuridico (inteso quale organizzazione in concreto di uomini appartenenti ad una determinata società), elementi che pos- sono essere storicamente i più diversi, ma tra i quali intercorre una certa solidarietà funzionale, che può essere rappresentata in termini di logica interna di quell’ordinamento considerato nel suo insieme.
In relazione alla problematica contrattuale, alla luce, di tali posizioni gli storici asserivano che solo nel diritto romano più antico la forza (Wirkung) di produrre tra i con- traenti un’obbligazione fornita d’azione fosse riconosciuta in contratti68 del tutto determinati e distinti per la loro forma e per la loro funzione (contractus) e negata del tutto a tutti gli altri contratti (nuda pacta). In seguito, estesisi i traffici commerciali conformemente all’esigenze di una società mercantile, tutta una serie di accordi di volontà informali (nuda pacta) furono muniti dalla giurisprudenza di diritti d’azione, entrando a far parte del novero dei contractus.
Salvo che per il diritto più antico, dunque, contractus e pacta - per essi - non differivano né per la forza obbligante né per le forme: contractus erano sì accordi di volontà tipici, ma la tipicità era una mera tipicità di funzioni economico- sociali69 .
Ecco quanto scrive il Savigny a commento di D.
2.14.1.2-3-470:
“Ulpiano cerca di fissare il concetto di contratto in generale e sceglie prima l’espressione pactio…: Pactio est duorum pluriumve in idem placitum consensus. Poi è usata l’espressione Conventio evidentemente soltanto come de-
68 Vertrag: concorde dichiarazione di volontà di due o più persone di- retta a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico.
69 La funzione (causa) era concepita come elemento estrinseco alla struttura della fattispecie negoziale, che non aggiungeva nulla alla for- za obbligante della conventio.
70 Cfr. System, cit., trad. it. Scialoja 3, Torino, 1891, pp. 412-413.
nominazione equivalente, non come se dovesse significare qualche cosa di diverso, di più stretto o di più ampio. Que- sta conventio viene da principio definita in modo altrettanto generale, ma poi inavvertitamente il concetto generale sva- nisce e si riduce alla specie singola dei contratti obbligato- ri. Tuttavia si potrebbe attribuire a questa divergenza di o- pinioni un’importanza maggiore di quella che ha in realtà. Ma così non è…. Infatti le regole giuridiche che valgono per i contratti, si riferiscono ai concetti più generali, che ne sono alla base”.
La riaffermazione del collegamento tra società e dirit- to, l’assimilazione di quest’ultimo ad un organismo vivente, la rivendicazione della funzione della giurisprudenza, con- nessione tra storia e sistematica, sono, più che il risultato di una compiuta concezione storica del diritto, le maggiori in- tuizioni della Scuola storica: questo messaggio non fu, però, interamente ascoltato e attuato, persino nelle dottrine dei suoi maggiori rappresentati71, né poteva essere diversamen- te.
In assenza di codificazione (la Germania è lo stato che da ultimo è pervenuto alla codificazione – il BGB è en- trato in vigore solo nel 1900), lo studio del diritto romano - avente funzione di legge vigente – era mosso, infatti, dalla necessità di estrapolarne principi e norme che ben rispon-
71 A cominciare dallo stesso Savigny, che progressivamente finirà per allontanarsene fino a meritare le rampogne dello Jhering.
dessero alle concrete esigenze della vita tedesca di quei se- coli.
Inoltre, nel XIX secolo in Germania, la scienza del di- ritto trova il suo tratto caratteristico nel “culto” della siste- matica; culto che, col diffondersi degli insegnamenti della Pandettistica72, diverrà anche il tratto caratteristico e predo- minante della scienza giuridica di gran parte dell’Europa continentale, compresa quella italiana che fortemente ne sentì l’influsso73.
Tale culto trova la sua ragione d’essere da un lato, in ciò che la scienza va pensando di se stessa74 e del suo rap-
72 Con questa espressione si suole designare quell’ulteriore elabora- zione dottrinaria del diritto comune, potenziata da un nuovo rigore dommatico e che toccò il suo culmine durante la seconda metà del se- colo XIX, con le successive edizioni nelle quali BERNHAR WIN- DSCHEID (1817-1892) andò progressivamente elevando ed affinando il suo monumentale Lehhrbuch des Pandektenrechts, cominciato ad apparire nel 1862. Sarà l’opera più altamente rappresentativa di tutta l’elaborazione pandettistica, nei suoi pregi e nei suoi difetti, tanto da far disegnare il suo autore alla compilazione del Progetto del Codice Civile per l’Impero, con la promulgazione della quale si concluderà la Pandettistica, le sue dottrine e i suoi schemi, trasfondendosi e trasfor- mandosi nel moderno diritto civile e nella sua scienza. Per le notizie sui vari giuristi e le loro opere, LANDSBERGG in STINTZING UND LANSBERG, Geschichte der deutschen Rechtswissenchaft 2, Mün- chen-Berlin, 1910. Cfr. poi i vari scritti di SCHWARZ in Rechtsge- schichte und Gegenwart, a cura di THIEME e WIEACKER, Karlsru- he, 1960; KOSCHAKER, Europa und das römischen Recht, Mün- chen-Berlin, 1947.
73 Cfr. ALLORIO, Scienza giuridica europea, in Ius 4, 1952, dove si
mette in luce come l’elemento distintivo della scienza giuridica euro- pea rispetto agli indirizzi della scienza giuridica anglo-americana, sia appunto il metodo sistematico.
74 Tale modo di pensare è stato a sua volta fortemente influenzato dal crescente anelito della scienza giuridica del XIX sec. alla sua “scienti- ficità”. Nel corso dei millenni, infatti, comunque si considerassero e
porto con la storia; dall’altro dall’esigenza di enucleare schemi giuridici nei quali potessero idoneamente essere sus- sunti i moltiplicati e complessi rapporti giuridici scaturenti dai traffici dell’Europa industriale.
classificassero le varie forme di attività speculativa, si è sempre finito per assegnare una certa posizione di preminenza a quelle che con e- spressione di risalente tradizione di pensiero si dissero “teoretiche” in contrapposto alle “pratiche” e, fra le prime, a quelle che oggi si dicono “scienze esatte”, cioè in primo luogo la matematica e poi anche geo- metria e meccanica, sulla base del convincimento alquanto arretrato che non si avesse scienza se non laddove vi fosse scoperta di leggi co- stanti, fondazione di principi assoluti, costruzione sistematica di con- cetti disposti in ordine piramidale di crescente generalità e universali- tà, e che anzi questo fosse il compito precipuo della scienza. Per que- sto motivo, la scienza giuridica (tenuta fuori dal novero delle “vere” scienze nella concezione tradizionale di queste, degradata a mera tec- nica secondo altre, vagamente situata tra le scienze dello spirito nella concezione del Dilthey, tenuta al margine della classificazione del Windelband e del Rickert, mal collocata in tutte, e di continuo dubbio- sa essa stessa di essere una “scienza”) nel XIX sec. si era resa essa stessa scienza, dandosi veste, struttura e procedimenti scientifici, as- sumendo quel carattere teoretico. Sul punto cfr. ANDRIETTI – GE- NERALI, Stotia e storiografia della scienza: il caso della sistematica, Milano, 2002.
Infatti, assegnando alla sistematica75 non più una me- ra funzione ordinatrice e coordinatrice dei concetti ma po- nendola quale strumento di conoscenza, la scienza, per via di deduzioni logiche, veniva a trarre la regolamentazione dei nuovi rapporti, non espressamente disciplinati, che via via potevano insorgere dalla prassi, colmando le eventuali e possibili lacune del sistema giuridico.
Ancora; per quel che concerne il rapporto contractus- pacta, il problema che si poneva era dato dalla circostanza che, nei fatti, l’adozione di schemi più o meno fedelmente ricalcati sull’eredità romana non offriva garanzie sufficienti: in particolare un ruolo forte della volontà poteva apparire contraddittorio rispetto al bisogno dell’affidamento delle controparti o dei terzi, bisogno al quale veniva invece in-
75 Al sistema organico-logico Jhering dà il nome di dommatica. E’ del 1857 la fondazione da parte dello Jhering di una rivista dal titolo Ja- hrbucher fur Dogmatik des heutigen und deutschen Privatrechts (An- nali per la dommatica del diritto romano odierno e tedesco) destinata ad essere l’organo di combattimento del dommatismo giuridico. Sullo IHERING v. per notizie e bibliografia, cfr. WOLF, Grosse Rechtsden- ker3, Tubinga, 1951, p. 616 ss.; WIEACKER, Privatrechtsgesch, der Neuzeit, Gottinga, 1952; PASINI, Saggio sul Ihering, Milano, 1959; ID., Ihering e il suo tempo, in Jus, 1961; cfr. anche l’introduzione di VASSALLI alla tr. it. Di IHERING, Serio e faceto nella giurispru- denza, Firenze, 1954 e l’introduzione del PIOVANI alla riedizione della tr. it. di IHERING, La lotta per il diritto, Bari, 1960.
75 L’astratto concetto, opportunamente sviluppato, permetteva di af-
frontare e risolvere le problematiche che la negozialità, nel contesto dei moltiplicati e complessi traffici dell’Europa industriale, poneva sul piano teorico. In particolare, pure accordando prevalenza alla volontà sulla formaquale lo Jhering richiamava la scienza giuridica verso quel- le esigenze di concretezza da cui si era sempre più discostata, richia- mando l’attenzione sulla necessità che i concetti giuridici fossero ela- borati movendo dalla considerazione della realtà e dunque ricercando le cause reali, fonti delle regole giuridiche.
contro la teoria della “dichiarazione”. Sicchè la sostanza del negozio, particolarmente di quello bilaterale, poteva sem- brare consistere meno nel contenuto di consenso che nell’affidabile e riconoscibile dichiarazione.
Posta, pertanto, in secondo piano la millenaria con- trapposizione tra contractus e pacta, Jhering76 e i Pandettisti rivolsero innanzitutto i loro sforzi verso l’obiettivo di deli- neare tipologie di contratti moderni ed efficienti, anche a ri- schio di sacrificare la storicità del fenomeno77.
Concentrando i propri obiettivi, orientati da una vo- lontà sistematica, nell’individuazione di un “concetto” di contratto quale cardine dell’intero ordinamento privatistico, superando le pagine del Savigny, che poneva in luce due so- li, ma centrali elementi – il comune consenso dichiarato e l’idoneità dell’atto a creare rapporti tra i contraenti –, lo i- dentificarono, dunque, nella conventio cum iusta causa, da intendersi quale riconoscimento da parte dell’ordinamento
76 Sullo IHERING v. per notizie e bibliografia, cfr. WOLF, Grosse Rechtsdenker3, Tubinga, 1951, p. 616 ss.; WIEACKER, Privatre- chtsgesch, der Neuzeit, Gottinga, 1952; PASINI, Saggio sul Ihering, Milano, 1959; ID., Ihering e il suo tempo, in Jus, 1961; cfr. anche l’introduzione di VASSALLI alla tr. it. Di IHERING, Serio e faceto nella giurisprudenza, Firenze, 1954 e l’introduzione del PIOVANI al- la riedizione della tr. it. di IHERING, La lotta per il diritto, Bari, 1960.
77 Ihering afferma che come il mondo fisico è retto dalla legge di cau- salità, così il mondo giuridico è retto dalla legge di finalità, sicchè il fine è il vero creatore del diritto, la fonte delle regole giuridiche. La tesi è particolarmente sviluppata in un’opera dell’età matura: Der Zweck im Recht di cui il volume 1 fu pubblicato nel 1877 e il volume 2 nel 1883. Sul legame delle sue concezioni con il contesto storico in cui operava, cfr. gli scritti, citati alla nota precedente di Pasini e di Pa- resce.
giuridico di ogni accordo di volontà realizzante una fun- zione economico-sociale ritenuta dallo stesso meritevole di tutela.
Il problema del ruolo della volontà in ordine alla co- stituzione di rapporti giuridici era dunque risolto, a mò di formula geometrica, con l’asserirne la rilevanza, ma come elemento concorrente con la iusta causa78.
1.5. – LA STORICIZZAZIONE DELLO STUDIO DEL MONDO ANTICO E DEL DIRITTO DI ROMA -. La Pandettistica fu l’epigono di una lunga tradizione elaboratrice del Corpus Iuris rivolta ad attribuire una funzione normativa alle fonti romane e quindi ad attualizzarne di secolo in secolo i conte- nuti precettivi.
Anche dopo le codificazioni i romanisti hanno conti- nuato a seguire per qualche tempo lo studio del diritto ro- mano con gli stessi intenti79. Il diritto romano era, quindi, da
78 L’astratto concetto, opportunamente sviluppato, permetteva di af- frontare e risolvere le problematiche che la negozialità, nel contesto dei moltiplicati e complessi traffici dell’Europa industriale, poneva sul piano teorico. In particolare, pure accordando prevalenza alla volontà sulla forma, si temperava il ruolo forte della prima che poteva apparire contraddittorio, rispetto al bisogno di affidamento della controparte e dei terzi; d’altra parte, sul piano politico, permetteva di rispettare la libertà contrattuale senza ridurre il compito dello Stato a mero osse- quiente della volontà dei singoli.
79 Ciò dipendeva dalla circostanza che i romanisti non sapessero ras- segnarsi alla circostanza che dalle orgogliose posizioni di preminenza di un passato, nel quale gli studiosi del Corpus Iuris erano al centro del movimento ascensionale della scienza giuridica (e vi sono stati per secoli) essi si trovassero proiettati nel passato, fuori dal pulsare della vita attuale, distaccati dal processo del divenire giuridico e costretti a rinunziare agli scopi pratici e di utilità immediata per la quale si erano
essi trattato come diritto vagamente positivo, quasi ancora vigente fuori dal tempo e dallo spazio, una specie di diritto naturale universale: insomma un quid di astratto vivente una sua vita del tutto speciale, indipendentemente dai singoli di- ritti positivi80.
Nell’impossibilità di mantenerlo in questa posizione che veniva a disconoscere la natura del diritto – assunta co- me storica – il diritto romano venne trascinato nel passato, nel contesto storico ad esso peculiare81.
battuti. Cfr. AJELLO, Arcana juris: diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli, 1976.
80 Questo modo del tutto ingiustificato di considerare il diritto romano era colto con molta esattezza agli inizi del XX sec. dal SAILLES, Dr. Rom. et démocratie, in Studi Scialoja 2, Milano, 1905, pag. 713, dove si osserva che esso era studiato “comme s’il fuf agi d’une legislation ancore en viguer, sans se domander, ou sans expliquer à ceux qui su- bissaient cette discipline, quel profit pareil archaisme pouvoit avoir pour le présent”.
81 Cambiando l’angolo visuale, tutto l’insieme si va trasformando in una rappresentazione nuova. Sulle prospettive che man mano si sono aperte e sui rinnovamenti della problematica romanistica, nell’impossibilità di un’ampia rassegna bibliografica, ci si limita a ri- chiamare alcuni scritti, tra i più significativi: WENGER, Der heutige stand der rom. Rechtswissenschaft, Monaco, 1927; CHIAZZESE, Nuovi orientamenti nella storia del diritto romano, in Arch. Giur., 1930; BIONDI, Prospettive romanistiche, Milano, 1933; SCHULTZ, Prinzipien des röm. Rechts, Monaco, 1934 (tr. it. I principi del diritto romano, Firenze, 1949); ALBERTARIO, Introduzione allo studio del dir. rom. giustinianeo, Milano, 1935; LAURIA, Indirizzi e problemi della romanistica, in Foro italiano, 1936; GROSSO Premesse genera- li al corso di diritto romano, Torino, 1940 (4a ed. 1960); D’ORS, Pre- supuestos criticos para el estudio del Derecho romano, Salamanca, 1943; ALVAREZ SUAREZ, Horizonte actual del derecho romano, Madrid, 1944; RICCOBONO, Lineamenti della storia delle fonti e del diritto romano, Milano, 1949; DE FRANCISCI, Punti di orientamen- to per lo studio del diritto romano, in Riv it. scienze giur., 1949; GROSSO, Problemi e visuali del romanista, in Ius, 1950; VOLTER-
Superando la tradizionale identificazione del diritto con la norma, anzitutto, la scienza giuridica moderna ha ri- solto il concetto di diritto in quello di esperienza giuridica82, di un’organizzazione in concreto di uomini appartenenti ad una determinata società, nella totalità dei suoi elementi (senza esclusione o amputazione, dunque della sua fenome- nologia) e dei suoi svolgimenti, in ogni suo aspetto e mo- mento, in qualsivoglia delle sue concrete manifestazioni, in ciò che ha di molteplice e di unitario, di continuo e di di- scontinuo.
Ancora il Corpus Iuris non apparve più soltanto come un sistema di norme, ma come il documento il dato, dal qua- le risalire alla miriade di dati particolari nel quale si era con-
RA, Storia del diritto romano e storia dei diritti orientali, in Riv. it. scien. giur., 1951; FEENSTRA, Interpretatio multiplex, Zolle, 1953; SANCHEZ DEL RIO, Notas sobre los temas generales del derecho romano, Saragozza, 1955; VAN OVEN, A la recherche du droit clas- sique romani, in Rev. internaz. dr. antiq., 1956; NOCERA, Il pensiero pubblicistico romano, in Studi De Francisci 2, Milano, 1956; ORE- STANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano, cit.
82 Sulla formazione di questa concezione come reazione di più tenden- ze agli estremismi del formalismo e dell’antiformalismo e come af- fermazione della necessità, da più parti sentita, di dirigersi verso l’esperienza giuridica come tale e di approfondirla nei suoi distinti a- spetti, ma anche di studiarla nella sua varietà e dinamica unità, v. TREVES, Diritto e cultura, Vienna-Lipsya, 1921, pp. 9-28, con cenni sulla letteratura tedesca da SANDER, Rechtsdogmatik oder teorie der rechtserfahrung, a GURVITCH, L’experience juridique et philosophie pluraliste du droit, ed ampio ragguaglio dei contributi fondamentali della dottrina italiana.
cretato il processo storico che dalle origini di Roma aveva portato alla Compilazione del VI secolo83.
A tal fine si spezzò l’unità legislativa del Corpus Iu- ris e dei suoi materiali, onde risalire nel tempo, cercando di ridare ai singoli testi la loro “collocazione” originaria per conoscere lo stato del “diritto romano” nelle varie età cui appartengono o di cui forniscono notizie.
Allorché ci si propone deliberatamente uno studio sto- rico, il carattere e il valore di quei testi, o, almeno della maggior parte di essi, cambia radicalmente84: infatti, almeno rispetto a buona parte del diritto romano, le documentazioni a noi pervenute sono per lo più costituite da elaborazioni di giuristi, il che non consente di attribuire loro, in sé per sé, valore normativo; in essi elementi di fatto, elementi norma- tivi e loro concettualizzazioni si presentano compenetrati e fusi in un unico contesto: assumendo ad oggetto d’indagine
83 La fondazione di Roma è collocata dalla tradizione verso la metà dell’VIII sec. a.C. : sull’argomento v. BARBAGALLO, Il problema delle origini di Roma dal Vico a noi, Milano, 1926; LEVI, Roma negli studi storici italiani, Torino, 1934, ALTHEIM, Epochen der rom. Ge- schichte 1-2, Francoforte, 1934-35 e Italien und Rom, Amsterdam, 1941. Con la consapevolezza che i limiti cronologici hanno molto di artificioso, si viene notando, per la data iniziale, che in tal modo si viene a separare il “diritto romano” da tutta una rete di tradizioni ante- riori, le quali se sono di difficile e spesso, allo stato delle nostre cono- scenze, d’impossibile esplorazione, nondimeno, sono quelle che hanno fornito il sostrato alle prime formazioni della tradizione giuridica della nuova città. Cfr. DE FRANCISCI, Primordia civitatis, Roma, 1959.
84 Considerate fuori del legame legislativo, cessano di essere “norme”
della legislazione positiva giustinianea per tornare ad essere ciò che erano in origine: frammenti di un’elaborazione giurisprudenziale seco- lare.
l’esperienza giuridica romana nel suo divenire storico, si pone la necessità di distinguere e collocare ognuno nella giusta posizione.
Lo strumento mediante il quale fu condotta la rottura della compagine giustinianea fu la critica interpolazionisti- ca85, sviluppatasi negli ultimi decenni del XIX secolo, e mi- rante alla ricostruzione, dapprima, degli scritti e del pensiero degli antichi giureconsulti attraverso frammenti dei Digesta giustinianei, estendendosi poi alle costituzioni del Codex e man mano anche alle fonti pregiustinianee, e infine inve-
85 Con quest’espressione si intende l’insieme dei procedimenti e dei criteri miranti ad individuare ogni sorta di alterazione (designate col nome generico di interpolazioni, quale ne fosse il genere) nei testi contenuti nel Corpus Iuris, per riportarli al loro dettato genuino, reale o supposto. [Giustiniano medesimo non aveva taciuto le profonde ma- nipolazioni cui essi erano stati sottoposti, per suo ordine, dai commis- sari incaricati della redazione del Codex e dei Digesta (per il Codice v. const. Haec quae necessario, del 528 a. C. par. 2 e const. Cordi, del 534 a. C., par. 3; per il Digesto, v. const. Deo autore, 530 a. C., par. 7 e const. Tanta, 533 a. C., pr. 10). Inoltre una serie di confronti effet- tuabili fra passi contenuti nella stessa compilazione o fra questi ed al- tre redazioni degli stessi, pervenuti a noi attraverso testimonianze pre- cedenti, consentono di rilevare agevolmente in qual modo e in qual misura molti testi siano stati alterati]. Per gli esponenti cfr. – tra gli al- tri – GRADENWITZ, Interpolationen in den Pandekten, in ZSS. 7, 1886 e Berlino, 1887; ID., Interpolationen in Codex Theodosianus?, in ZSS. 34, 1913, p. 274 ss.; ID., Selbstinterpoationen, in Acta congr. Iur. Inter. 1, Roma, 1935, p. 499 ss.; EISELE, Zür Diagnostik der In- terpolationen in den Digesten und im Codex, in ZSS. 7, 1886; AL- BERTARIO, A proposito di interpolationenjagd: risposta a una criti- ca di Otto Lenel, Milano, 1925; ID., Ancora sugli elementi postgaiani nelle Istituzioni di Gaio, Milano, 1928; ID., Glossemi e interpolazioni pregiustinianee, Pavia, 1934; SCHULZ, Interpolationen in den justi- nianischen Reformgesetzen des Codex Justinianus vom Jahre 534, in Studi Bonfante 1, Milano, 1930, p. 335 ss.; BESELER, Römisches Recht heute?, in Rigasche Zeitschr. Für deutsch. Recht 1935-36; SO- LAZZI, Glossemi e interpolazioni nel Codice Teodosiano, in SHDI. 10, 1944, p. 208 ss.
stendo tutto il problema della tradizione testuale della giuri- sprudenza romana e delle varie vicende della sua trasmis- sione86.
Superata una prima fase, essenzialmente filologica, la critica interpolazionistica pretese però di condurre l’opera di revisione logica delle fonti, proiettando nel passato il pro- prio ideale e la propria concezione della scienza del diritto, della sua funzione, dei suoi metodi, dei suoi obiettivi. Per lungo tempo operò e si svolse, infatti, al servizio di quella particolare dommatica che sotto il nome di Pandettistica prendeva in Germania il diritto giustinianeo come punto di partenza per un’attività costruttiva e che appartiene più alla storia e sostanza del diritto moderno che non allo studio del diritto romano; ancora, per vari decenni l’opera del nuovo studio romanistico si svolse con l’intento di arrivare, attra- verso un approfondimento storico, alla chiarificazione ai problemi che la dommatica andava ponendo, procedendo così senza un’avvertita e precisa distinzione fra elaborazione moderna e studio del pensiero antico.
A convalidare e corroborare questa opera di elimina- zione, influì molto il presupposto della perfezione logica della giurisprudenza romana. Anche se, come diceva il Bon-
86 Cfr. SCHULTZ, History of roman legal science2, Oxford, 1953; WIEACKER, Ueber das Klassische in der römischen Iurisprudenz, Tübingen, 1950; ID., Lebensläufe Klassischer Schriften in nachklassi- scher Zeit, in ZSS. 67, 1950, p. 360 ss.; ID., Vulgarismus und Klassi- zismus im Recht der Spätantike, Heidelberg, 1955.
fante, “si tendeva a ricercare la personalità dei singoli giuri- sti entro quella che appariva una nebulosa di splendore uni- forme87”, in pratica si finiva per non ammettere nel loro pensiero oscillazioni e zone d’ombra e tanto meno contrad- dizioni o formulazioni viziate dalla minima menda concet- tuale e sistematica88.
Eliminare le asimmetrie, cancellare le disarmonie, reductio ad unitatem era il compito perseguito nella rico- struzione del diritto classico, con la conseguenza, pertanto, che, assunto un principio a parametro fondamentale della soluzione classica, i testi con esso non congruenti dovevano perciò stesso essere considerati come interpolati, posti a ca- rico dei compilatori giustinianei o di anonimi glossatori e rielaboratori giustinianei.
Per quel che concerne la tematica negoziale, infatti, il Bonfante89, sulla linea dello studio non carente da apriorismi e ipercritica testuale del Perozzi90 - nel quale si sostenne che contahere e contractus non indicavano né presuppone-
87 Cfr. BONFANTE, Storia del diritto romano4, Torino, 1920, p. 371. 88 Cfr. ALBERTARIO, La scienza del diritto romano nei suoi recenti metodi e nei suoi recenti studi, 1913, p. 50: “le disarmonie, le incon- gruenze, le imperfezioni, le contraddizioni che le fonti presentano, ab- bisognano tutte quante di in daini nuove”. Cfr. poi PEROZZI, Istitu- zioni 1, p. 78: “L’ interpolazione prima si intuisce mediante un certo senso storico ed un giudizio sintetico, poi si dimostra”.
89 Sulla genesi e l’evoluzione del contractus, in Scritti giuridici vari 3, Torino, 1926, 107 ss.
90 Le obbligazioni romane, Bologna, 1903, ora in Scritti giuridici 2, Milano, 1948, p. 311 ss. Cfr. anche: ID., Dalle obbligazioni da delitto alle obbligazioni da contratto, ibid., p. 443 ss.; ID., Il contratto con- sensuale classico, ibid. , p. 565 ss.
vano necessariamente l’accordo, ma che contractus desi- gnasse un “affare lecito”, capace di determinare un’obligatio, indipendentemente da una accordo – ritenne che il contractus, almeno per essenza, non avrebbe avuto necessariamente un contenuto positivo, ma di mera opposi- zione al delictum: l’importanza della voluntas nelle fonti romane non sarebbe stata, dunque, che il risultato del lavo- rio dei maestri bizantini.
La reazione della romanistica, in particolare quella i- taliana, non mancò e fu anzi tempestiva. Dal 1917, a partire da un suo scritto, intitolato “Dal diritto romano classico al diritto moderno”, in cui seguì il corso di alcune fondamenta- li dottrine nel loro svolgimento storico, Salvatore Riccobo- no91 si fece banditore di una vera e propria crociata contro l’interpretazione interpolazionistica. In opposizione a tutte le concezioni allora dominanti, egli prospettò un’interpretazione diversa dalla trasformazione del diritto nelle sue ultime fasi, richiamando l’attenzione su numerosi altri “fattori” e soprattutto sugli sviluppi e germi già operan- ti nell’età classica, che avrebbero portato ad una sua modifi- cazione principalmente interna, allorché, cadute le forme so- lenni e scomparsa la procedura formulare su cui si basava il
91 Sull’opera del Riccobono, v. BAVIERA, Riccobono e l’ opera sua, in Studi Riccobono 1, Palermo, 1936, p. 21-180; CHIAZZESE, L’opera scientifica di S. R. , in Annali Palermo 18, 1939; BRASIEL- LO, S. R. , in SDHI. 24, 1958; BIONDI, Commemorazione, in Rendi- conti Accademia Lincei 14, sc. mor., serie 8, 1959, con completa bi- bliografia; v. anche alcune pagine di SANFILIPPO, in IURA 9, 1958,
p. 123 ss.
dualismo tradizionale ius civile-ius honorarium, si venne at- tuando una progressiva “fusione” fra i vari ordini giuridici espressi dall’esperienza romana nel corso della sua storia92.
Sulla scia dello Scialoja93, che nel Corso di diritto romano del 1892-93 aveva ribadito il ruolo determinante della volontà nelle dottrine romane, il Riccobono94 pose pertanto in rilievo come la voluntas lungi dall’essere frutto dell’opera bizantina fosse la chiara escogitazione dei giuristi classici.
In realtà, il problema sotteso - particolarmente agitato nella romanistica - era quello dei rapporti tra studio storico e dommatica95.
92 Cfr. Interpretazione del Corpus Iuris, in BIDR. 42, 1934, p. 41 ss.; ID., Fine e conquiste delle indagini interpolazionistiche, in BIDR. 55, 1952, p. 396 ss
93 SCIALOJA, Per le critiche delle Pandette, in Atti Congr. Interna- zionale Scienze Storiche 9, Roma, 1903. Sullo Scialoja – che a buon diritto può dirsi il fondatore dell “nuova Scuola storica” – e sull’importanza della sua opera nella scienza del diritto, v. le rievoca- zioni del RICCOBONO, in BIDR. 42, 1934, p. 1 ss.
74 RICCOBONO, La formazione della teoria generale del contractus nel periodo della giurisprudenza classica, in Studi in onore di Bonfan- te, 1, Milano, 1929, p. 123 ss.; ID., Corso di diritto romano. Stipulati- ones, contractus, pacta, Milano, 1935; ID., Der Wille als Entwick- lungsfaktor im römischen Rechte, in Scritti Ferrini 4, Milano, 1949, 55 ss.
75 Una precisa impostazione del problema agitato in sede di studio sto- rico del diritto a proposito della legittimità o meno dell’impiego della dommatica odierna nella ricostruzione dei diritti del passato fu merito del BETTI, Diritto romano e dogmatica odierna, in Archivio giuridi- co, 99-100, 1928; ID., Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Riv. it. scien. giurid., 1948; sul pensiero del Betti v. l’esame del DE FRANCISCI, Emilio Betti e i suoi studi intorno all’interpretazione, in Riv. it. scien. giurid., 1951.
Si ribadiva, infatti, che se si assume una concezione storica del diritto non può essere dubbio che ogni diritto ab- bia la sua dommatica e per converso ogni dommatica si at- tagli ad un proprio diritto; per ciò, in sede di studio storico, la dommatica corrispondente ad un determinato diritto o fa- se di esso rappresenta e va considerata un elemento del dato che si vuole conoscere, cioè un dato essa stessa di quell’esperienza, la quale comprende appunto anche le con- cettualizzazioni e le correlative sistemazioni che ne possano essere state fornite e che nel momento in cui si pongono, si acquisiscono a quell’esperienza come dati da essa inscindi- bili. Ciò postula ed esige che gli schemi concettuali impie- gati debbano essere il più possibile pertinenti alle testimo- nianze assunte come dato, per una loro concettualizzazione che, sarà opera del giurista odierno, ma costruita e svolta in funzione dei dati cui si intende applicarla.
Sulla base di queste osservazioni la moderna romani- stica respingeva le impostazioni della critica interpolazioni- stica e le sue conclusioni in merito alla sistemazione gaiana dei contratti civilistici.
Si sottolineava che l’impostazione facesse un eccessi- vo uso di un ragionare per schemi astratti e per tanto non potesse essere accolta considerando che la quadripartizione deve essere stata abbastanza antica e che la giurisprudenza romana, almeno fino alla prima metà del principato, nella prospettiva che le è propria, risulta aver affrontato la temati-
ca negoziale approcciandola nella sua rilevanza eminente- mente pratica; risultava, pertanto, verosimile ipotizzare che Gaio nella ricerca di un’impostazione sistematica elementa- re avesse attinto ad un impostazione che aveva origini empi- riche e concrete, sorta cioè da un’immediata visione del processo storico96.
I fondamentali contributi del Grosso e dell’Orestano ebbero dunque il merito di chiudere definitivamente la sta- gione della caccia alle interpolazioni e di creare, sotto l’angolo della “concretezza”, un punto di riferimento per le indagini successive, segnando l’avvio di uno studio storica- mente impostato della contrattualità romana.
Nei risultati delle più recenti indagini romanistiche, questa però comunque restava circoscritta alle figure di ne- gozi bilaterali designati dagli antichi giuristi quali contrac- tus, cioè solo a quella categoria che ha le sue origini all’inizio del I secolo e si limita alle obligationes iuris gen- tium consensu contractae.
La decisa svolta sul piano delle impostazioni e del metodo si rifletteva, cioè, solo parzialmente sul piano delle conclusioni delle indagini.
Si continua a ritenere, dunque – con una vistosa ana- logia dei risultati a quelli delle interpretazioni medioevali
96 GROSSO, Il sistema romano dei contratti, Torino, 1963, cap. 1 e p. 73 ss., al quale si rinvia per l’ulteriore bibliografia.
delle stesse fonti – che nel diritto quiritario le forme solenni abbiano rappresentato la sostanza medesima degli atti97 e l’energia unica da cui promanano gli effetti giuridici, data la forte compenetrazione, nella Roma arcaica, del diritto con altri elementi che, nella storia della civiltà, precedono l’elemento giridico, quali il fas, la religione, il costume98.
L’escogitazione della voluntas come fonte di obliga- tio si ritiene invece merito della sola giurisprudenza classi- ca99 che, spinta dalle esigenze proprie di una società mer- cantile, avrebbe munito una serie di figure causali informali,
77 Per tutti cfr. in tal senso: TALAMANCA, La tipicità nei contratti romani fra conventio e stipulatio fino a La beone, in Contractus e pac- tum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo repubblicana, in Atti del Convegno di diritto romano e della nuova riproduzione del- la lettera Fiorentina, Copanello giugno 1988, Napoli-Roma 1990, p. 36 ss.
78 Alla radice del formalismo esclusivistico arcaico sarebbero da rav- visare le credenze magiche, le pratiche rituali religiose, da cui Roma primitiva fu profondamente pervasa: HAGERSTROM, Der römische Obligationsbegriff, 1941; ID., Das magistratische “ius” in seinem Zu- sammenhang mit dem Sakralrechte, 1927; KASER, Das altrömische ius, 1949; GIOFFREDI, Diritto e processo nelle antiche forme giuri- diche romane, 1955, p. 16 ss; ORESTANO, Dal ius al fas, in BIDR. 46, 1940; NOAILLES, Du droit sacré au droit civil, 1946.
79 L’impiego del sostantivo, ricorre in D. 50.16.19 (Ulp. 11 ad ed.). Per la communis opinio il giurista avrebbe avanzato una definizione concettuale di contractus identificandolo col nostro contratto bilatera- le obbligatorio. Per la letteratura v. infra, capitolo 4. Per ora va ricor- dato il merito del WUNNER, Contractus. Sein Wortgebruch und Wil- lensgehalt im klassichen romischen Recht, Koln-Graz, 1964, che si oppose in termini articolati alla tradizionale ipercritica nei confronti del testo (centrale in tema di origine delle dottrine romane) e di altre fonti che contraddicevano la pretesa monoliticità del “diritto classico”.
consolidatesi nella prassi, di tutela piena, oltre che diretta100. Abolita con la costituzione di Leone del 432 d.C. la forma solenne della stipulatio, sarebbe emersa la rilevanza giuridi- ca generale della conventio, posta alla base di tutto il siste- ma contrattuale, costituendone l’elemento comune e la forza generatrice interna dell’obbligazione.
80 Sui bonae fidei iudicia: BIONDI, s.v. Iudicium bonae fidei, in NNDI.; LOMBARDI, Dalla fides alla fides bona, 1961, p. 249 ss.; CARCATERRA, Intorno ai bonae fidei iudicia (1964); TURPIN, B.
F. Iudicia, in Cambr. Law Jornal, 1965. Sul problema delle origini: KNUTEL, Fides als schöpferischesElement im röm. Schuldrecht, in On. Koschaker 2, 1939, p. 1 ss.; WIEACKER, Zum Ursprung der bo- nae fidei iudicia, in ZSS. 80, 1963, p. 9 ss.; GROSSO, Spunti e rifles- sioni su Cic. Pro Roscio com. 5.15, sui iudicia legitima da Cicerone a Gaio e sull’origine dei b. f. iudicia, in On. Segni 2, 1967, p. 483 ss.; HONSELL, Quod interest im bon. fid. Iudicia. Studien zum röm. Schadensersatzrecht, 1969; CERVENCA, Contributo allo studio delle usurae c.d. legali nel diritto romano, 1969, p. 217 ss.; WILINSKI, Zur litis aestimatio in den bon. fid. iudicia, in Index 3, 1972, p. 443 ss.; CASTRESANA, Fides, bona fides: un concepto para la creacion del derecho, 1991. L’elenco dei bonae fidei iudicia in età classica è de- sumibile con molta e incertezze da Cic de off. 3.70 e da Gai 4.62: ex empto et venditio, locati conducti, negotiorum gestorum, mandati, de- positi, fiduciae, pro socio, tutelae, commodati, rei uxoriae (?), aesti- matoria (?). Giustiniano, I. 4.6.28, aggiunge le azioni pigneraticia, familiae erciscundae, communi dividundo, de permutatione, hereditas petitio. Nei giudizi di buona fede le parti in causa non ebbero l’oppressiva preoccupazione di dover sintetizzare tutte le loro ragioni in uno scheletrico iudicium (regola di giudizio alla quale si perveniva a tre a termine del procedimento dinnanzi al giusdicente- in iure- e sulla base della quale il giudice investito della causa- col iussum iudi- candi- doveva decidere), e il convenuto fu esentato, in particolare del- la necessità di inserire le sue difese in corrispondenti exceptiones e dal rischio di perdere la lite apud iudicem se alla formulazione di quelle exceptiones non avesse provveduto a tempo debito. Il rovescio della medaglia era che il giudice privato, ove mancasse di una profonda co- noscenza del diritto, pasticciasse in malo modo la sentenza; ma si ten- ga presente che egli veniva estratto da un album iudicum di persone specializzate, e veniva opportunamente orientato nella sua attività dal- le parti, dai loro difensori tecnici, dai responsa dei giuristi e dai re- scripta principum di cui le parti si fornivano.
Inoltre, sebbene anche il sistema giustinianeo restasse tipico101 dal momento che è riprodotta l’antica massima
81 In questo senso cfr. Per tutti BETTI, Der Typenzwang bei den roe- mischen Rechtsgeschaeften u. Die sogenannte Typenfreiheit des heuti- gen Rechts in Festschrift Wenger 1, p. 265: “Anche il dir. giustinianeo tiene ferma la tipicità dei negozi e delle azioni, salvo che muta la rigi- da rete dei tipi in una rete elastica. Resta fermo il principio fonda- mentale che ogni concreto negozio giuridico o azione devono corri- spondere quanto più è possibile a un particolare tipo legislativamente stabilito, ma tuttavia le parti possono arrecare mutamenti, aggiunte e soppressioni, finchè questi siano compatibili con la natura contractus e la natura actionis. Fuori da questi casi, tuttavia il negozio è possi- bilmente salvato dal diritto, in quanto assunto sotto il tipo dei contrat- ti innominati e tutelato con un’actio praescriptis verbis o con una condictio generalis. In tal modo il diritto giustinianeo concilia la clas- sica rigidità dei tipi col principio della libertà privata”. Contra SAN- FILIPPO, i cui termini del dissenso risultano dal testo della comunica- zione svolta dallo stesso al Congresso internazionale di Diritto romano e Storia del diritto, tenutosi a Verona nel 1948. Per il romanista, nel sistema contrattuale giustinineo la massima nudum pactum obligatio- nem non parit significa che solo la convenzione priva di causa, in quanto tende ad un fine illecito o, comunque non meritevole di tutela giuridica alla stregua delle convinzioni sociali, non ha forza costitutiva di un rapporto giuridico. Si tratterebbe cioè dello stesso concetto e- spresso dal nostro legislatore nell’art. 1322 comma 2 c.c., alla stregua della quale non sembra ammissibile si possa ancora negare la comple- ta atipicità dei contratti e la libertà delle parti al di sopra e al di fuori dei tipi legislativamente stabiliti. Che le parti non possano costruire una nuova figura di convenzione se questa non tende a realizzare un interesse economico sociale ritenuto meritevole di tutela giuridica è cosa ben diversa (asserisce SANFILIPPO in dissenso dalle osserva- zioni svolte dal BETTI in relazione al diritto moderno – p. 270 o.c., per dedurne la necessità, ai fini della regolamentazione giuridica, di ricondurre tutti i rapporti sociali entro schemi astratti tipici) dall’affermare che esse siano vincolate a una serie, sia pure elastica di tipi negoziali. Il limite posto dall’ordinamento è puramente negativo. Dunque, se per tipicità si intende rispondenza ad uno schema preordi- nato dall’ordinamento giuridico, il sistema contrattuale moderno è as- solutamente atipico. Se per tipicità si può intendere invece mancanza di assoluto arbitrio delle parti e quindi anche la sola impossibilità di creare figure contrattuali che non siano socialmente meritevoli di tute- la il sistema contrattuale moderno è tipico. Cfr. SANFILIPPO, Alla ricerca dei nuda pacta, in ACIV., 1951, nota 11.
massima nudum pactum obligationem non parit, la portata reale della regola fu decisamente svuotata. Furono infatti muniti di azione da costituzioni imperiali accanto ai contrat- ti nominati (consensuali e reali), ai contratti sine nomine concorrenti con una iusta causa obligationis, ai pacta prae- oria, anche alcuni residui nudi patti causali, prescelti per la loro importanza sociale, come il pactum transactionis, do- nationis, dotis.
1.5 – LO STUDIO SOCIOLOGICO DEL DIRITTO ANTICO E IL CONSENSUALISMO NELL’OPERA DEL MAGDELAIN - L’apporto di una concreta visione storica ha trasformato la disciplina romanistica da studio prevalentemente dommati- co in uno studio essenzialmente storico, che investe ogni a- spetto dell’esperienza giuridica romana, nei suoi dati struttu- rali, nei suoi processi costitutivi, nelle sue rappresentazioni scientifiche.
Sebbene immersa nella crisi102 dei “questionari”103 e delle stesse modalità di trasmissione e di utilizzazione, la ri-
102 A parte la letteratura in un certo senso tradizionale, vi è da rilevare che negli ultimi anni i consueti motivi della crisi del diritto romano nella cultura europea sono venuti strettamente intrecciandosi con le riflessioni sui problemi nelle Università, della ricerca e degli insegna- menti storico-giuridici: cfr. A. POLÁČEK, Prospettive romanistiche, in Studi in onore di G. Grosso 4, Torino, 1971, p. 145 ss., AA.VV., Conversazioni sul metodo, Labeo 19, 1973, p. 42 ss., 185 ss.; GUA- RINO, Conversazioni sul metodo. Bilancio di un’inchiesta, ibidem, p. 339 ss. Sotto il profilo di un’utilizzazione ideologica della storia giu- ridica, in particolare del diritto romano, cfr. SCHIAVONE, Storiogra- fia giuridica e apologia del diritto moderno, in Democrazia e diritto 13, 1973, n. 2, p. 65 ss.; ARCHI, Storia del diritto romano e dei diritti
cerca romanistica non ha mancato, pertanto, di tentare di rinnovarsi in direzione di una migliore consapevolezza del rapporto diritto-società nel mondo romano, cercando nella pluralità delle angolazioni una risposta positiva ai limiti.
E gli esiti di tale riflessione sono largamente ricono- scibili nell’affievolirsi del filologismo – che aveva rischiato di isolare le testimonianze dal mondo che le aveva prodotte
-, dell’evoluzionismo – con la possibilità, e non è piccolo vantaggio, di accettare la discontinuità e la coesistenza di fenomeni contraddittori –, e nella sempre maggiore emer- sione del problema dei limiti e del modo di utilizzazione delle fonti in particolare in settori, come quello storico- giuridico, in cui con apparente naturalità la storia sembra of- frirsi come “storia dei precedenti”.
E’ naturale che un acuito senso storico, una più piena coscienza della storicità del diritto abbia moltiplicato pro- blemi ed interrogativi, rendendo più ardue le spiegazioni.
Per quel che concerne l’indagine sulle categorie con- cettuali appartenenti all’area negoziale, nel 1959 il Magde- lain, proponendosi una rilettura dell’intero materiale testuale
antichi da Wenger a noi, in St. in memoria di G. Donauti 1, Milano, 1973, p. 39 ss.
103 Sui questionari che le motivazioni ideologiche forniscono alla ri- cerca giuridica e storico-giuridica, cfr. G. TARELLO, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista interprete, in L’uso alternativo del diritto (a cura di P. Barcellona) 1, Bari, 1973, p. 65 ss.
giuridico supportata di testimonianze intorno a profili es- senziali del contesto sociale, avanzò una tesi innovativa104.
Se, infatti, la posizione tradizionale riconosceva ai pacta unicamente la capacità di dimettere diritti e di paraliz- zare actiones per via soprattutto della exceptio pacti conven- ti, il Magdelain, attraverso un’acuta ricerca testuale105, so- stenne che originariamente l’edictum de pactis dovette pre- vedere una piena tutela pretoria – come lasciava pensare la formula edittale “pacta conventa servabo”106 -; in particola- re la categoria pattizia sarebbe stata assistita dall’istituto pretorio dell’oportere ex fide bona107, e dalle conseguenti azioni di buona fede108. In questa prospettiva, almeno fino al primo secolo109, l’edictum de pactis avrebbe coperto una va-
104 Cfr. MAGDELAIN, Le consensualisme dans l’édicte du preteur, cit.
105 MAGDELAIN, Le consensualisme, cit., p. 5-48.
106 D. 2.14.7.7 (Ulp. 4 ad ed.): Ait praetor: “pacta conventa quae ne- que dolo malo, neque adversus leges plebis scita senatus consulta de- creta edita principum, neque quo fraus cui eorum fiat, facta erunt, servabo”. Sul testo cfr. anche ARCHI, Ait praetor: “pacta conventa servabo”. Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell’Edictum Perpetuum, cit. = Scritti di diritto romano 1, Milano, 1981, p. 480 ss.
107 Posto che tra le azioni si dovessero escludere quelle extra-edittali e quelle le cui formule sono precedute da un proprio editto, con la pro- messa finale iudicium dabo, essendo impossibile per l’autore che un’azione potesse dipendere contemporaneamente da due editti, da ri- collegare all’editto de pactis non restavano che le azioni le cui formu- le erano affisse nell’albo senza editto. Del resto, le azioni contrattuali di buona fede erano inoltre tutte raggruppate, ad eccezione dell’actio comodati, nella rubrica de bonae fidei iudiciis dell’editto giulianeo.
108 All’editto de pactis il Magdelain rcollega inoltre l’actio serviana, ugualmente affissa senza alcuna precedente esplicita promessa editta- le.
109MAGDELAIN, o.c., p. 6 ss., 51 ss., in particolare p. 58 ss.
stissima gamma di negozi consensuali, esplicanti nel diritto pretorio effetto pieno e creativo, ben al di là, dunque, della pura e semplice attitudine a rimuovere diritti per via di e- xceptiones.
Nel corso dell’età del Principato110 si sarebbe invece compiuto il processo di decadenza dei pacta111, innanzitutto a causa del passaggio delle actiones ex fide bona nella sfera delle actiones civiles.
La suggestiva ipotesi del Magdelain ha però rcevuto poche adesioni112, essendosi obiettata da un lato la tenuità delle testimonianze di Cicerone113 e di Seneca114, su cui si fonda in buona misura la dimostrazione, e, d’altra parte, l’incapacità della tesi rispetto all’esigenza di spiegare il re- gime processuale delle singole fattispecie115.Difficilmente, infatti, si inquadra nel sistema proposto dall’autore, la pre- senza di formulae in factum del deposito e del comodato, nonché del pegno, e, per le prime, dei rispettivi editti. Anco- ra, problematica appare la circostanza che constitutum debiti
110 L’autore accenna all’intimidazione subita dal pretore ad opera del potere imperiale ed al conseguente inaridimento delle sue innovazioni. MAGDELAIN, o.c., pp. 177-180
111 MAGDELAIN, o.c., pp. 49-124.
112 Cfr. le recensioni di BRASIELLO, in SHDI. 25, 1959, p. 465 ss.; BURDESE, in IURA 10, 1959, p. 207 ss.; AMIRANTE, in BIDR. 63, 1960, p. 297 ss.; TALAMANCA, in Labeo 6, 1960, p. 289 ss. Non di- versa la posizione del GROSSO, Il sistema, cit., p. 173 nt. 2.
113Cic., De off. 3.24.92, sul quale Magdelain, o.c., 51 ss. e TALA- MANCA, recensione, in Labeo 6, 1960, p. 280 ss.
114 Sen., Controv. 9.3, thema.
115 Cfr. la recensione di TALAMANCA, cit. nt. 87.
e recepta non rientrino nella previsione geneale dell’edictum de pactis, in quanto preceduti da apposita clausola edittale.
Si è sottolineata inoltre la manchevolezza del fonda- mento primo di tutta la dimostrazione e cioè l’asserito carat- tere pretorio dell’oportere ex fide bona116, che si sarebbe an- cora mantenuto nel I sec. d.C., così come l’inverosimiglianza, sotto il profilo dell’evoluzione storica, della perdita di coscienza di tale origine da parte dei romani. Tuttavia, l’ attestazione delle fonti di “pattuizioni” (figure non riconducibili in alcun modo agli schemi tipici dei contractus e non altrimenti tipizzabili che come accordi di volontà) capaci di costituire situazioni giuridiche – il cui tipo di effetti e di regime processuale non si avvicina in al- cun modo a quelli degli schemi del contractus, anzi ricevo- no tutela e configurazione nell’editto pretorio – sembra la- sciare intravedere manifestazioni negoziali in zone divese dai contractus, spingendo a ricercare la negozialità romana in particolare nella variante dei pacta, indipendentemente dal ricorrere di terminologie differenziate, come accade per i
recepta.
Proprio partendo da tali considerazioni e sottolineato che quanto si asserisce dalla dottrina a proposito dei c.d. pacta praetoria - vale a dire che non si tratterebbe di pacta, ma di tipici atti sorti e sviluppatisi nella loro individualità117
116 La tesi sostenuta da Magdelain, nelle sue Actiones civiles, è stata oggetto di effecaci e convincenti critiche dal PUGLIESE, in SDHI. 20, 1954 p. 373 ss.
117 Cfr. GROSSO, Il sistema romano dei contratti, cit. p. 171.
-, oltre a non profilarsi come soluzione soddisfacente, sem- bra – piuttosto ovviare alla soluzione del problema, e pre- messo che, ove le fonti siano approcciate in una prospettiva storica, la sussistenza di apposite clausole edittali non com- porta ut sic l’esclusione delle figure negoziali che ne sono oggetto dall’ambito dell’editto de pactis – restando, caso mai, a testimoniare un processo continuo e parcellare di stratificazione dei pacta -, la tesi del Magdelain è sostan- zialmente ripresa, sulla scia del Santoro, da Melillo118.
Anzitutto l’autore premette che non osta alla tesi della rilevanza del consensualismo119 la circostanza che la genera- lità degli atti dispositivi antichi fosse governata da formulari certi e rigidi: tale elemento, da solo, non basta infatti per as- serire che la volontà non avesse rilevanza. Al contrario, in una comunità sufficientemente ristretta, l’uso di formulari più o meno rigidi e fissi doveva conferire all’agente la mas- sima certezza possibile intorno al valore – e alle conseguen- ze del comportamento, verbale o gestuale che fosse. Né può attribuirsi gran peso al fatto che non pochi, tra i negozi so- lenni, trovassero sanzione o garanzia nei precetti religiosi o nelle solennità comiziali e testimoniali; anche in questo ca-
118 Cfr. MELILLO, Contrahere, pacisci, transigere, cit., p.143 ss.
119 In via pregiudiziale pare alla dottrina dominante che osti a tale tesi il formalismo tipico dell’arcaico regime negoziale: l’uso di formulari rigidi e fissi, in cui le parti riversavano le loro pretese, alla luce delle credenze religiose, delle pratiche rituali, è da essa interpretata nel sen- so della irrilevanza della volontà in ordine alla produzione di effetti giuridici. Cfr infra cap. 1, p. 53.
so, colui che operava non poteva ignorare il senso delle pa- role e gli effetti vincolanti che ne sarebbero scaturiti120.
Se si considera poi che, prevalendo rapporti interni al- la comunità cittadina, non potevano validamente e diffusa- mente porsi esigenze121 di più acute verifiche degli interes- si122 che presiedevano alle negoziazioni, si comprende anche per l’autore, in conclusione, che tutto ciò non basta ad e- scludere per le fasi più risalenti la normale coincidenza tra manifestazione e volontà negoziale.
Pur convenendo, poi, con la dottrina comune sull’impossibilità di fornire un’incontrovertibile prova posi- tiva, l’autore sottinea come l’ipotesi che i pacta costituisse- ro la fascia obsolescente della negozialità romana, sembra consolidarsi ove si consideri che i contractus tipici afferma- tisi nel I sec. d.C.123 sono comprensibili, almeno nella rego-
120 Solo le ipotesi di insania mentale, di violenza o di altre circostanze eccezionali potrebbero, ove se ne mostrasse la rilevanza, far immagi- nare nei certa verba un formalismo assorbente la volontà.
121 Tali esigenze dovettero porsi dopo il III sec. con l’ampliarsi dei traffici esterni alla penisola, dunque tra soggetti non aventi comunanza di lingua e costumanze giuridiche. In tale contesto i commerci con gli stranieri sarebbero statiestremamente frenati da prassi e teorie che non tenessero debitamente in conto che i comportamenti e le forme rituali non potevano esaurire la tutela di rapporti con radici in interessi di scambio economico. Il rilievo dato alla fides bona e al dolus malus confermano questo dato.
122 S è ripetutamente accennato alla inseparabilità, nella storia del ne- gozio romano, tra volontà e interessi di fondo nel processo di sviluppo dell’autonomia dei privati: bibl. in GUARINO, Diritto privato, cit,. p. 392 ss.
123 Costituenti la categoria gaiana delle obligationes consensu contrac- tae
larità del loro funzionamento sullo sfondo di un economia124 in cui circola normalmente il mezzo monetario, sporadico e difficoltoso nelle zone periferiche125: può, dunque, ritenersi estremamente probabile l’esistenza in gran parte del territo- rio periferico, ancora a cavallo dell’età di Augusto, di stru-
menti diversi destinati alla realizzazione della consensuali- tà126.
Quanto alla tesi evolutiva dei pacta, l’autore si distac- ca da alcuni passaggi della tesi del Magdelain, che gli ap- paiono poco verosimili; in particolare per l’ipotesi che il progressivo ridursi dei pacta agli accordi rinunciativi fosse dovuto all’assorbimento delle actiones ex fide bona tra le
124 Basti qui pensare – asserisce l’autore - che l’economia romana, nell’urbs e negli altri centri cittadini strutturalmente analoghi – diver- samente che nelle zone sociali e territoriali periferiche, legate a forme economiche meno evolute -, fosse caratterizzata da forme economiche di notevole complessità, con una ragguardevole presenza di grandi at- tività commerciali e speculative: in tale contesto, si comprendono per- fettamente i contractus idonei a soddisfare esigenze legate ad una no- tevole mobilità di uomini e di risorse economiche (valga come es: il mandato, che presuppone figure sociali cittadine che, gestendo una pluralità di attività economiche, si servono di sostituti più o meno temporanei; MELILLO, Contrahere, pacisci, transigere, cit., p.. 138 ss; sul mandato ampia bibl in PROVERA, s.v. Mandato (Storia), in ED. 25, Milano, 1975, p. 311 ss.
125 Tac., Ann. 6.16; cfr FRANK, Rome and Italy of the Empire, Balti-
more, 1940, p. 32 ss, 65, 270 ss;.CRAWFORD, Money and exchange in the roman word, in JRS. 66, 1966, p. 128 ss.; CRACCO RUGGINI, Esperienze economiche e sociali nel mondo romano, in Nuove que- stioni di storia antica, Milano, 1968, p. 748 ss.
126 In questa prospettiva, l’emergere tra il I e il II sec., della disputa sui nova negotia tra Sabiniani e Proculiani potrebbe stare ad indicare non una disputa tutta teorica su forme giuridiche (in questo senso sembra condurre la dottrina comune) ma la difficoltà di collocare nel quadro levigato delle obligationes la multiforme realtà dei pacta. Sui nova negozia, SCHIAVONE, Studi sulle logiche dei giuristi romani. Nova negotia e transactio da Labeone ad Ulpiano, Napoli, 1971, p. 103 ss.; HORAK, rec. a Schiavone, in Labeo 19, 1973, p. 212 ss.
actiones civiles127. Sotto un profilo storico gli appare infatti più credibile l’imputazione dei fenomeni a processi più so- stanziali, come il naturale estendersi dell’applcazione dei contractus nella prassi di un’economia che sempre di più si apriva a forme di scambio in moneta e l’effetto incentivante che la riflessione teorica dei giuristi può aver avuto nel pro- gredire dei più aggiornati schemi contrattuali.
Aderendo alla tesi del Santoro128 della classicità dell’agere praescriptis verbis129, cioè di un procedimento at- traverso il quale i giuristi classici avrebbero suggerito al pretore di munire di tutela contrattuale convenzioni atipiche, ricorrendo ad una praescriptio antecedente la formula nella quale fossero descritti gli estremi concreti della fattispecie su cui fondare la pretesa130, l’autore ipotizza dunque a parti-
127 MAGDELAIN, o. c., p. 121 ss.,177 ss; contra GROSSO, Schemi giuridici e società, cit ., p. 420 ss.
128 Cfr. SANTORO, Aspetti formulari della tutela delle convenzioni atipiche, in Le teorie, cit., p. 93 ss; SANTORO, Il contratto nel pen- siero di Labeone, cit., p. 5-304 estr. Alla tesi del Santoro aderisce (so- stanzialmente) da ultimo BURDESE, Sul riconoscimento civile dei contratti innominati, cit., p. 226 ss., cui si rinvia per un ampio quadro della questione con relativa bibliografia.
129 E’ opportuno ribadire che ciò che si asserisce non è la classicità di una azione così denominata, che abbia la funzione di proteggere ogni convenzione atipica. Questo è il risultato cui è pervenuto il diritto giu- stinianeo (cfr. DE FRANCISCI, Sunallagma, cit., 12 ss.; LOMBAR- DI, BIDR., 63, 1960, cit., p. 140 ss.- che asseriscono però anche l’origine compilatoria dell’espressione “actio civilis in factum”, soste- nendo i risultati risalenti alla critica interpolazionistica-). Classico è solo il procedimento dell’agere praescriptis verbis, volto ad applicare di volta in volta alla fattispecie concreta l’azione con un determinato adattamento.
130 Soccorre all’uopo il richiamo di un rescritto di Alessandro Severo
del 230 d.C. (C. 2.4.6.1) ove è riconosciuta, in ipotesidi transazione, la spettanza di un utilis actio, quae praescriptis verbis rem gestam de- monstrat e lo scolio maqîn a Bas. 11.1.7 (corrispondente a D. 2.17.7),
re dal I sec. d.C. l’aprirsi di una linea di confronto e di ten- denziale unificazione tra ius honorarium e ius civile.
Radicatasi la negozialità negli schemi del contractus (accresciuto attraverso procedimenti di generalizzazione si- stematica di nuove ipotesi) i pacta, anche per l’esaurirsi del ius honorarium, nel corso dell’età classica subirono un pro- cesso di arretramento vedendo ridursi il loro raggio d’azione: tendenzialmente131 declinarono verso l’efficacia estintiva.
in cui il maestro bizantino Stefano descrive l’actio incerta o prae- scriptis verbis, a tutela di una convenzione innominata, con riferimen- to a elementi strutturali dell’antica formula, che sarebbe costituita da una iniziale descrizione del factum (pr£gma) çj ™n demonstratièni, da una intentio incerta e da una condemnatio. Ora tenendo conto che la descrizione del fatto normalmente contenuta nella demonstratio del- la formula, come è detto in Gai 4.134 (in praescriptione de facto qua- eritur, qod secundum naturalem significationem verum esse debet), e tenendo conto della trasformazione parallela delle praescriptiones pro reo in exceptiones inserite nel contesto della formula (v. Gai 4.133), il Santoro ipotizza un fenomeno di trasformazione, avvenuto nel corso del tempo delle praescriptiones in demonstrationes.
131 Melillo ritiene, discostandosi da altri sostenitori della teoria con-
sensualista (cfr. Da ultimo GALLO, Synallagma e conventio,cit, p. 109), che l’affermarsi dei contractus non avrebbe effettivamente de- terminato la difendibilità dei pacta solo estintivi e solo per via di e- xceptiones, nel senso che si trattò di una linea di tendenza, mai giunta a compimento, considerato che ancora la Compilazione di Giustiniano richiama e regolamenta una vasta serie di pacta e altri negozi bilaterali non riconucibili allo schema del contractus.
CAPITOLO II
Negozialità arcaica e leges privatae
2.1 – VARIETÀ DELLE FORME ORIGINARIE DEGLI SCAMBI ONEROSI E DELLE FORME NEGOZIALI. In un notissimo pas- so132 di Paolo (33 ad edictum) – che rappresenta l’introduzione al suo commento dell’editto in tema di com- pravendita – il giurista imposta e svolge storicamente la trat- tazione133.
D. 18.1. pr. Origo emendi vendendique a permutatio- nibus coepit. olim enim non ita erat nummus neque aliud merx, aliud pretium vocabatur, sed unusquisque secundum necessitatem temporum ac rerum utilibus inutilia permuta- bat, quando plerumque evenit, ut quod alteri superest alteri desit. sed quia non semper nec facile concurrebat, ut, cum tu haberes quod ego desiderarem, invicem haberem quod tu accipere velles, electa materia est, cuius publica ac perpe- tua aestimatio difficultatibus permutationum aequalitate quantitatis subveniret. eaque materia forma publica percus- sa usum dominiumque non tam ex substantia praebet quam ex quantitate nec ultra merx utrumque, sed alterum pretium vocatur. Sed an sine nummis venditio dici hodieque possit, dubitatur, veluti si ego togam dedi, ut tunicam acciperem.
132 Sulla sostanziale attendibilità filologica del passo cfr. SCIALOJA, Corso sulla compravendita, Roma, 1907, p. 22, nt. 1; ARANGIO- RUIZ, La compravendita in diritto romano, Napoli, 1952; MASCHI, Il diritto romano 1. La prospettiva storica della giurisprudenza classi- ca, Milano, 1966, p. 572 ss. Contra BESELER, Beiträge zum Kritik der röm. Rechtsquellen, fasc. 3, Tübingen, 1913, p. 13.
133 Tutto il pensiero di Paolo è impostato sulla contrapposizione olim- hodie. Tali contrapposizioni sono tipiche degli excursus storici, e fre- quentissime in Gaio il quale di solito contrappone olim-nunc e una so- la volta (Gai 2. 195) usa hodie – in relazione proprio ad un’altra cele- bre disputa tra Sabiniani e Proculiani.
sabinus et cassius esse emptionem et venditionem putant: nerva et proculus permutationem, non emptionem hoc esse. sabinus Homero teste utitur, qui exercitum graecorum aere ferro hominibusque vinum emere refert, illis versibus: œnqen
¢r’ o„nizonto karykomÒwntes /Acaio…, §lloi m□n calkù, ¥lloi d’ a†qwni sid»rw, §lloi d□ hrino‹j, ¨lloi d’ aÙtÍsi bÒessi, ¨lloi d’ ¢ndrapÒdessin. sed hi versus permutationem significare videntur, non emptionem, sicuti illi: œnq’ aàte GlaÚkw Kron…dhj fršnaj exšleto zeÚj, h×j prÕj Tude…dhn Diom»dea teÚce/ ¥meiben. magis autem pro hac sententia illud dicere- tur, quod alias idem poeta dicit: pr…ato kte£tessin h˜oŒsin. sed verior est nervae et proculi sententia: nam ut aliud est vendere, aliud emere, alius emptor, alius venditor, sic aliud est pretium, aliud merx: quod in permutatione discerni non potest, uter emptor, uter venditor sit.
Il giurista dichiara che l’origo dell’istituto risale alla permuta, caratterizzata dalla indifferenziazione tra merx e pretium, tipica del baratto, e spiega come l’introduzione del- la moneta “comune denominatore” e “materia terza” degli scambi che consente l’ “eguaglianza delle quantità”134 per- metta di eliminare difficoltà inevitabili di quel sistema. Il baratto, infatti, non consente l’equilibrio giuridico- economico che è proprio della compravendita poiché la di-
134 La lezione qui accolta circa la traduzione dell’espressione “aequa- litate quantitatis” è quella di MELILLO, Categorie economiche nei giuristi romani, cit., p. 52.; ARANGIO-RUIZ, La compravendita in diritto romano, cit., p. 5, traduce invece “con valore proporzionale al- la quantità” – ma, ci sembra che la prima traduzione colga pienamente il senso dell’espressione.
sponibilità delle merci e la loro utilità cambiano secondo “necessitas temporum”.
Nel brano il giurista, utilizzando nozioni e concetti maturati all’interno di una storia di per sé non giuridica ma economica135, e trattando in maniera sufficientemente espli- cita dei nessi tra le caratteristiche specifiche del denaro e la configurazione delle strutture negoziali136, sorprende, sotto un profilo di storia giuridica, un legame tra lo sviluppo dell’economia monetaria e attitudini economico giuridiche dell’emptio venditio137 e coglie la sostanza del rapporto teo- rico tra moneta e compravendita nella idoneità della prima, quale bene intermedio, di consentire a chi percepisce danaro di acquisire o presso terzi, o in un tempo successivo presso la stessa controparte, il bene che egli avrebbe voluto in cambio di quello ceduto: è il valore costante e pubblico del- la moneta che consente l’eguaglianza dei valori scambiati.
Nel testo che, secondo l’ipotesi di Lenel, era stretta- mente contiguo al precedente nell’originale paolino138:
135 Questo profilo è accentuato da MASCHI, Il diritto romano 1. La prospettiva storica della giurisprudenza classica, Milano, 1966, p. 572 ss.; sotto il profilo della storia della moneta cfr. TOZZI, Economi- sti greci e romani. Le singolari istituzioni di una scienza moderna nel mondo classico, Milano, 1961, p. 442 ss., cui si rinvia per ulteriori in- dicazioni bibliografiche.
136 Sull’interesse di Paolo per le tematiche economiche nel discorso giuridico, cfr. TOZZI, o.c., p. 490 ss.
137 Cfr. MELILLO, Categorie economiche, cit., p. 54.
138 LENEL, Paling. 1, Leipzig, 1889, col. 1034, Paul. Fr. 502 e nt. 2. Va ricordato che secondo la Littera Fliorentina la inscriptio attribui- rebbe a D. 19.4.1 al libro 32 e non 33 del commentario edittale di Pao- lo. L’emendamento, logicamente giustificato, è stato generalmente ac- cettato dalla dottrina, a causa della stretta continuità tematica: v. A-
D. 19.4.1 pr.. Sicut aliud est vendere, aliud emere, a- lius emptor, alius venditor, ita pretium aliud, aliud merx. at inpermutatione discerni non potest, uter emptor vel uter venditor sit, multumque differunt praestationes. emptor e- nim, nisi nummos accipientis fecerit, tenetur ex vendito, venditori sufficit ob evictionem se obligare possessionem tradere et purgari dolo malo, itaque, si evicta res non sit, nihil debet: in permutatione vero si utrumque pretium est, utriusque rem fieri oportet, si merx, neutrius. sed cum debe- at et res et pretium esse, non potest permutatio emptio ven- ditio esse, quoniam non potest inveniri, quid eorum merx et quid pretium sit, nec ratio patitur, ut una eademque res et veneat et pretium sit emptionis. Unde si ea res, quam acce- perim vel dederim, postea evincatur, in factum dandam ac- tionem respondetur. 2. Item emptio ac venditio nuda con- sentientium voluntate contrahitur, permutatio autem ex re tradita initium obligationi praebet: alioquin si res nondum tradita sit, nudo consensu constitui obligationem dicemus, quod in his dumtaxat receptum est, quae nomen suum ha- bent, ut in emptione venditione, conductione, mandato. 3. Ideoque pedius ait alienam rem dantem nullam contrahere permutationem139
RANGIO-RUIZ, La compravendita, cit., p. 149; MASCHI, La pro- spettiva storica della giurisprudenza classica, cit., p. 572, nt. 1.
139 Sul frammento non sono mancati alcuni (marginali) dubbi. Cfr. BESELER, Unklassische Wörter, in SHDI. 1, 1935, p. 284; ARAN- GIO-RUIZ, La compravendita, cit., p. 136; MASCHI, La prospettiva storica, cit., p. 598 ss.
il discorso è invece dominato dall’intento di separare sotto un profilo sistematico la compravendita dalla permuta: il giurista severiano richiama – dal lato delle situazioni dei contraenti – il diverso regime di responsabilità e la differen- za tra merx e pretium, e – sotto un profilo strutturale – la differenza tra il modo di perfezionamento (traditio rei nella permuta, nudus consensus nella compravendita).
Il quadro delle discriminanti tracciato da Paolo ha tut- tavia, in definitiva il suo momento centrale nella presenza dei nummi essendo la differenza strutturale tra la coppia compratore-venditore da un lato e quella dei permutanti dall’altro solo il risvolto di diritto, sotto il profilo dei sog- getti, delle connotazioni essenziali di un negozio, come la compravendita, specificata dall’oggetto-moneta.
Il contenuto dei due brani in cui il giurista pone un collegamento tra strutture negoziali e moneta riprende inve- ro risalenti dibattiti dottrinali140 di cui tracce significative sono in:
Gai 3.141: Item pretium in numerata pecunia consi- stere debet. nam in ceteris rebus an pretium esse possit, ve- luti homo aut toga aut fundus alterius rei pretium esse pos- sit, valde quaeritur. nostri praeceptores putant etiam in alia re posse consistere pretium; unde illud est, quod vulgo pu- tant per permutationem rerum emptionem et venditionem
140 La disputa sembra aver avuto una certa risonanza teorica, com’è testimoniato da Inst. Iust. 3.23.2, sotto la rubrica De empitone et ven- ditione.
contrahi, eamque speciem emptionis venditionisque vetu- stissimam esse; argumentoque utuntur Graeco poeta Home- ro, qui aliqua parte sic ait:
œnqen ¢r’ o„nizonto karykomÒwntes /Acaio…, §lloi m□n calkù,
¥lloi d’ a†qwni sid»rw, §lloi d□ hrino‹j, ¨lloi d’ aÙtÍsi bÒessi,
¨lloi d’ ¢ndrapÒdessin. (Hom. II. 7. 472-475) et reliqua. di- versae scholae auctores dissentiunt aliudque esse existimant permutationem rerum, aliud emptionem et venditionem; a- lioquin non posse rem expediri permutatis rebus, quae vide- atur res venisse et quae pretii nomine data esse, sed rursus utramque rem videri et venisse et utramque pretii nomine datam esse absurdum videri. sed ait Caelius Sabinus, si rem tibi venalem habenti, veluti fundum, [acceperim et] pretii nomine hominem forte dederim, fundum quidem videri ve- nisse, hominem autem pretii nomine datum esse, ut fundus acciperetur.
Il testo gaiano a ben vedere presenta elementi che sembrano deporre nel senso di una tradizione più articolata di quella poi raccolta da Paolo. Nel tenore del riferimento gaiano, infatti, la posizione sabiniana è meglio motivata che in Paolo: soprattutto in Gai 3.141 risalta il fondo economico sostanziale della disputa.
Per i Sabiniani l’equiparazione tra permuta e compra- vendita è giustificata dal fatto che in ogni caso, si scambia- no cose venali. Diversamente i Proculiani insistono su moti- vazioni giuridico-formali, asserendo l’impossibilità di equi-
parare merx e pretium, permutanti da una parte e venditore e compratore dall’altra141.
Quello che comunque in questa sede si vuole partico- larmente sottolineare è che mentre Paolo in un’impostazione evoluzionistica parla della permuta come origo della com- pravendita142, sopravvenuta con l’invenzione della moneta, Gaio aveva posto su un piano sincronico compravendita e permuta, dicendo di quest’ultima che si tratta di una vetu- stissima species143 : tesi chiara nella direzione di mostrarne il comune sostrato economico – funzionale.
Il rilievo di Paolo “origo emendi vendendique a per- mutatione coepit” e la definizione di Gaio della permuta quale vetustissima species della compravendita sono osser- vazioni storiche notevoli in quanto riportano ad un’età anti- chissima di cui di solito mancano tracce nei testi pervenuti- ci. Essi si inquadrano nell’arcaica indifferenziazione giuri-
141 In realtà, le dispute tra le due scuole rinviano ad un campo assai più vasto, con motivazioni che nella romanistica vanno dalla ipotesi di una contrapposizione politica a quella della diversità di scuole gram- maticali e retoriche. Sul punto cfr. SCHULZ, Storia della giurispru- denza romana, trad. it., Firenze, 1968, p. 214; BONFANTE, Storia del diritto romano 4, Milano, 1959, p. 262 ss.
142 Il taglio storicizzante della trattazione paolina è efficacemente illu- strato da MASCHI, La prospettiva storica, cit., p. 572 ss. La parola origo ricorre inoltre in molti altri testi di Paolo: cfr. Voc. Iur. Rom. s.v. origo, vol. 4, coll. 460-461 (l’osservazione è di MELILLO, Categorie, cit., p. 64, nt. 49).
143 TALAMANCA [Lo schema genus-species nelle sistematiche dei giuristi romani, in La filosofia greca e il diritto romano, in Accademia nazionale dei Lincei 374, 1977, Quaderno 221, Tomo 2, Roma, 1977,
p. 268, nt. 734] ritiene che in Gai 3.141 – come in altri testi – Gaio adoperi species per individuare una figura all’interno di un insieme più vasto.
dica degli istituti dei quali è netta soltanto, nell’età più anti- ca la funzione economica.
Anteriormente all’introduzione della moneta e, quin- di, alla possibilità di stabilire il pretium, permuta e vendita si confondono giuridicamente anche se poteva essere chiara l’idea, dal punto di vista economico e da parte dei soggetti del rapporto, che la controprestazione, avente ad oggetto un’ alia res, era data non perché l’accipiente si proponesse di ottenere proprio quella (ipotesi di permuta), ma perché l’accettava quale compenso (ipotesi di vendita) – come nell’episodio riferito da Paolo e descritto da Omero144 in re- lazione al quale i Sabiniani, diversamente dal giurista Seve- riano ravvisano un’ipotesi di scambio espressione di com- pravendita in natura.
L’antichissima assenza di netti contorni giuridici in quelli che, nell’età storica, diverranno istituti della permuta e della compravendita, si scorge nella stessa etimologia dei rispettivi vocaboli. Emo, emere originariamente significa “prendere”, non ha il significato di comprare. Questo antico significato, che ancora attestano i glossari romani145 è quello accolto dalle moderne etimologie146. Se emere nel suo signi- ficato più risalente equivale ad accipere, su mere, in esso non si scorge altro che l’azione di prendere; in altri termini
144 Iliade, 7, p. 472 ss.
145 Fest. sv. Redemptores: antiquitus “emere” pro “accipere” poneba- tur; sv. Abemito: significat “demito” vel auferto; “emere” enim anti- qui dicebant pro “accipere”; s.v. Emere: quod nunc est “mercari” antiqui accipiebant pro “sumere”.
146 ERNOUT-MEILLET, Dictionnaire etym. 3, s.v. Emo.
il significato generico non consente di distinguere il prende- re in seguito a permuta oppure a causa di vendita.
Infatti è soltanto nell’epoca storica che emere appare termine specifico uguale a “prendere in seguito a pagamento di un prezzo” (e viene contrapposto a vendere, venum dare) che è attestato dalle fonti dopo Plauto (e allora il significato di prendere è stato assunto da capere147).
Altrettanto può dirsi di permutare (per-mutare), che ha anticamente il significato generico di scambiare. Solo quando lo scambio di una cosa contro prezzo verrà a confi- gurare l’emptio-venditio anche la permutatio si circoscriverà allo scambio di una cosa contro altra cosa.
2.2 - LA MANCIPATIO: DALLE ORIGINI ALLE TESTIONIANZE GAIANE. Nel più antico diritto romano la compravendita, in- tesa quale struttura giuridica che si caratterizza per la pre- senza dei nummi, trova la sua espressione nella mancipa- tio148.
147 ERNOUT-MEILLET, l.c.
148 Sull’istituto cfr. BETTI, La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo, Filangieri, 1915, 40, pp. 321-368; KUNKEL, in Pauly-Wissowa, voce mancipatio (Re- al-Enciclopädie, vol. 27, col. 998-1009); DE FRANCISCI, Il trasferi- mento della proprietà, Padova, 1924; BONFANTE, Corso di diritto romano 2, Roma, 1928, pp. 135-148; ARCHI, Il trasferimento della proprietà nella compravendita romana, Padova, 1934; LEVY- BRUHL, La formule vindicatoire; Nexum et mancipation (Quelques problèmes du très ancien droit romain, Paris, 1934, pp. 95-113, 139- 151); DE VISSCHER, Mancipium et res mancipi, in SDHI. 2, 1936, pp. 263-324; NOAILLES, L’auctoritas dans la loi des douze Tables (Fas et jus, Paris, 1948, pp. 223-282); MAGDELAIN, Auctoritas rerum in Mélanges De Visscher 4, 1950, pp. 127-153; VOCI, Modi di acquisto della proprietà, Milano, 1952, pp. 27-59; ARANGIO-RUIZ,
Sebbene quella a noi meglio nota sia la mancipatio dell’età classica, così come la descrive Gaio, possiamo dire di conoscere indirettamente la sua struttura qual’era al più tardi al tempo delle XII Tavole, dal momento che l’istituto dell’età avanzata ne porta le stimmate.
Gai 1.119. Est autem mancipatio, ut supra quoque di- ximus, imaginaria quaedam venditio: Quod et ipsum ius proprium civium Romanorum est; eaque res ita agitur: A- dhibitis non minus quam quinque testibus civibus Romanis puberibus et praeterea alio eiusdem condicionis, qui libram aeneam teneat, qui appellatur libripens, is, qui mancipio accipit, rem tenens ita dicit: HUNC EGO HOMINEM EX IURE QUIRITIUM MEUM ESSE AIO ISQUE MIHI EM- PTUS ESTO HOC AERE AENEAQUE LIBRA; deinde aere
percutit libram idque aes dat ei, a quo mancipio accipit, quasi pretii loco.
Il mancipio accipiens dichiara di comprare quell’uomo col bronzo e la stadera di bronzo; poi però si li- mita a percuotere con un pezzetto o una verghetta di bronzo (aes) la stadera tenuta dal libripens, e a dare quell’aes alla controparte come simbolo di un prezzo che in realtà non pa- ga (seduta stante149). Da ciò il nome di immaginaria vendi-
La compravendita, cit.; MEYLAN, Essai d’explication sémantique du mot emancipare, in Studi De Francisci 1, pp. 63-73; DE VISSCHER, Auctoritas et mancipium, in SDHI. 22, 1956, pp. 87-112; GALLO, Studi sulla distinzione tra res mancipi e res nec mancipi, Torino, 1958.
149 Qualche maggiore precisione circa lo svolgimento delle operazioni nell’epoca della imaginaria venditio si ricava da un passo di Varrone
tio, col quale Gaio vuol dire che un atto originariamente ap- prestato a scopo di vera compravendita è stato successiva- mente adoperato, con adattamenti, per raggiungere un risul- tato diverso – in questo caso il trasferimento su cose o per- sone, qualunque ne fosse la causa.
E’ abbastanza chiaro che dietro quelle parole e quei gesti, del tutto inconciliabili con una vendita il cui prezzo fosse da pagare in pecunia numerata, traspaia una compra- vendita il cui prezzo dovesse essere pesato.
Ai tempi delle XII Tavole, dunque – com’è noto – il comune denominatore monetario degli scambi non era anco- ra forma publica percussa, né aveva publica et perpetua ae- stimatio, ma era aes rude, rame (oppure lega di rame, stagno e piombo che si pesava); né assolveva la funzione di mezzo di pagamento150: si trattava di una materia terza degli scam- bi che consentiva la stima del bene da scambiare.
Invero presto fu impresso una specie di bollo sui pani di rame151 (da cui la denominazione di aes signatum152) ma
(de lingu. Lat., 5.163) e da uno di Festo (voce Rodus), da cui risulta che nell’occasione della mancipatio si pronunciavano le parole raudu- sculum libram ferito, precisando che il raudusculum (o rodus) era un piccolo pezzo di bronzo, certamente identico all’aes di Gaio.
150 Sebbene in dottrina è stata sostenuta l’ipotesi che dal primitivo si- gnificato di bestiame la parola pecunia sia passata a quella di patrimo- nio mobiliare, come risulterebbe dalla nota espressione famiglia pecu- niaque, l’uso del bestiame come mezzo di pagamento sembra confer- mato dalla legge Atenia Tarpeia, attribuita al 454 a.C., la quale avreb- be fissato come limite massimo della multa da infliggersi a discrezio- ne del magistrato trenta buoi e dieci pecore.
151 Secondo la tradizione sin dai tempi di Servio Tullio.
ciò sembra dovesse servire a garantire soltanto la composi- zione della lega, il che non escludeva la necessità di pesare il rame: d’altra parte i ritrovati archeologici provano che ac- canto all’aes signatum153 si continuasse ad adoperare l’aes rude. La vera e propria moneta coniata che si conta fu isti- tuita probabilmente poco più tardi della legge decemvirale, e quelle di argento154 e di oro155 solo nel III secolo a notevole distanza l’una dall’altra.
La storia della moneta romana lascia supporre che, nelle fasi più risalenti, la mancipatio non avesse un’estesa applicazione.
La congettura risulta avallata allorquando si consideri la ristretta sfera dei soggetti legittimati a porla in essere e quella, altrettanto limitata dell’oggetto.
152 Gaio si riporta invero proprio all’età dell’aes signatum, ma si può facilmente pensare che l’intervento del libripens e della sua stadera fossero stati ancora più essenziali nello stato primordiale.
153 Il bronzo, foggiato in sbarre è munito di un’impronta; l’insegna della prora sulle monete è indice della prima fondazione di colonie marittime sulla costa latina, che non è anteriore al IV secolo. Tale cor- rispondenza, insieme con la interessante coincidenza del trattato di commercio con Cartagine, attribuito a quest’epoca, induce a supporre che l’inizio dei commerci marittimi abbia dato spinta alla coniazione. Sul punto cfr. BONFANTE, Lezioni di storia del commercio, parte I, Milano, 1982, p. 157 ss.
154 La moneta d’argento era il fondamento del regime monetario gre- co. Una legge romana del 269 ne ordinò la coniazione evidentemente sotto la spinta dell’irradiarsi dei traffici verso l’Italia meridionale e verso la Grecia. Questa moneta si chiamò nummus da noummoj voce dialettale greca corrispondente a nomoj, moneta. In occasione fu isti- tuita una speciale magistratura “tres viri monetales” che sovrintende- vano alla coniazione.
155 Queste ultime in età repubblicana non si coniarono se non ad inter- valli regolari a datare dal 218. Soltanto con Cesare (49-48) incomincia il conio regolare della moneta d’oro.
Le fonti classiche attestano che soggetto ne è un citta- dino romano o un peregrinus munito di commercium156; ac- quirente può essere però oltre che un pater familias, pure un filius o uno schiavo157 (che non acquistano pro se).
Oggetto di mancipatio in età risalente sono solo le res mancipi158mobili: i fondi, infatti, sono inalienabili, sicchè tra le res mancipi ha prevalenza lo schiavo (che appunto anto- nomasticamente è chiamato mancipium).
Effetto della mancipatio in età classica era la garan- zia159 che il mancipante doveva prestare all’acquirente (auc-
156 Ulp. 19.4.
157 In questi casi naturalmente muta la formula, e lo schiavo dirà:
Hanc rem ex i. Q. Lucii Titii domini mei esse aio (Gai 3.167).
158 Nella categoria delle res mancipi Gaio ricomprende un elenco chiuso e tassativo di beni (Gai 1.119): personae liberae et serviles, bovi, muli, equini, asini, praedia (rustica urbanaque). Per il DE VIS- SCHER, Mancipium et res mancipi, 1936 (contra BONFANTE, Res mancipi e res nec mancipi, in Scr. 2, 1918, p. 14 ss.) res mancipi era- no quelle oggetto della signoria tipica della situazione di paterfami- lias, denominata mancipium (signoria non collegata soltanto alle esi- genze agricole, ma anche a quelle della guerra, dei trasporti ecc.). Det- ta categoria, peraltro, si chiuse assai per tempo, confinando nel novero delle res nec mancipi sia beni sconosciuti all’epoca del suo formarsi, quali i fondi provinciali (Gai 2.21), nonché gli elefanti e i cammelli (Gai 2.20). Il CORBINO, Osservazioni in tema di res mancipi e di stabilizzazione del regime della mancipatio, in Scritti in onore di Au- letta 2, Milano, 1988, p.531 ss., ritiene non si possano considerare le categorie gaiane (anche quelle relative ad istituti risalenti) come cate- gorie corrispondenti all’antico: si tratterebbe, per l’autore, del frutto della rielaborazione e del riadattamento della materia da lui operato. La categoria delle res mancipi sarebbe dunque, nell’ampiezza conte- nutistica in cui Gaio la descrive, una categoria recente.
159 L’auctoritas è intesa come garanzia dal MOMMSEN, De auctori-
tate, Inaug.–Diss, 1843; e da GIRARD, L’actio auctoritas, in RH 1882, p. 180. Per il DE VISSCHER, Le role de l’auctoritas dans la mancipatio, in RH 1933, p. 603, l’auctoritas è da intendersi come atto di approvazione (si asserisce che la mancipatio consterebbe di un atto unilaterale compiuto dall’acquirente ed al quale l’alienante dà la sua
toritas) concretatesi nell’obbligo di assistenza giudiziale (periculum iudicii praestare) qualora un terzo avesse conte- stato la proprietà al mancipio accipiens e comportante re- sponsabilità (penale) per il doppio del prezzo pagato, qualo- ra l’acquirente fosse stato evitto.
2.3 - LE APPLICAZIONI DELLA MANCIPATIO. Il meccanismo formale con il quale veniva attuato il negozio librale, pur es- sendo di portata ed applicazione generale, conobbe ben pre- sto delle diversificazioni, onde adattarsi a talune esigenze specificamente volute dalle parti,in funzione della necessità di realizzare risultati giuridici particolari.
In tal modo l’assetto formale dell’atto si modificava parzialmente e la solenne rigidità del gestum veniva, in certa misura “alterata” dalla stessa flessibilità funzionale dello schema tipico160.
E’ il caso della mancipatio familiae161.
Gai 2.102: Accessit deinde tertium genus testamenti, quod per aes et libram agitur: qui enim neque calatis comi-
approvazione, con atto formalmente distinto). Secondo MAGDE- LAIN, Auctoritas rerum, in Hist. De Visscher 4, 1950, p. 127, invece, auctoritas significherebbe così titolo di proprietà, come garanzia.
160 Sul punto cfr. RABEL, Nachgeformte Rechtsgeschäft. Mit Beiträ- gen zu den Lehren von der Injurezession und vom Pfandrecht, in ZSS. 27, 1906, p. 290 ss. e 28, 1907, p. 311 ss.; CORBINO, Il formalismo negoziale nell’esperienza romana. Lezioni, Torino, 1994 p. 16 ss.
161 La dottrina è ormai concorde nell’ammettere l’alta antichità dell’istituto. Per una sintesi sul complesso dibattito sull’origine pre o postdecemvirale dell’istituto, cfr. CORBINO, Osservazioni in tema di res mancipi e di stabilizzazione del regime della mancipatio, in Scritti in onore di Auletta 2, Milano, 1988, p. 546 ss.
tiis neque in procinctu testamentum fecerat, is, si subita morte urguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum, mancipio dabat eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet. quod testamentum dicitur per aes et libram, scilicet quia per mancipationem peragitur. 103. Sed illa quidem duo genera testamentorum in desuetudinem abierunt; hoc vero solum, quod per aes et libram fit, in usu retentum est. sane nunc aliter ordinatur, quam olim solebat; namque olim familiae emptor, id est, qui a testatore fami- liam accipiebat mancipio, heredis locum optinebat, et ob id ei mandabat testator, quid cuique post mortem suam dari vellet; nunc vero alius heres testamento instituitur, a quo e- tiam legata relinquuntur, alius dicis gratia propter veteris iuris imitationem familiae emptor adhibetur.
Utilizzando l’archetipo della mancipatio, il pater fa- milias che si trovava nella necessità di diporre dei suoi beni
– essendo in imminente pericolo di morte e non potendo al- tresì ricorrere alle forme testamentarie calatis comitiis o in procintu – trasferiva inter vivos il proprio patrimonio ad un terzo fiduciario, detto familiare emptor, affinché questi lo destinasse dopo la morte del disponente alle persone pre- scelte e con le modalità indicate da quest’ultimo.
Il sistema della mancipatio familiae, presentando il vantaggio di svincolare il disponente dalla necessità di ricor- rere al testamento comiziale – non sussistendo le particolari circostanze che gli avrebbero consentito di testare in procin- tu – venne ad assumere sempre maggiore rilievo pratico e si
affermò evolvendosi sino a costituire il sistema fondamenta- le per attuare la propria volontà successoria:
Gai 2.104: Eaque res ita agitur: qui facit testamen- tum, adhibitis, sicut in ceteris mancipationibus, V testibus ciuibus Romanis puberibus et libripende, postquam tabulas testamenti scripserit, mancipat alicui dicis gratia familiam suam; in qua re his verbis familiae emptor utitur: Familiam pecuniamque tuam endo mandatela tua custodelaque mea esse aio, eaque, quo tuo iure testamentum facere possis se- cundum lege publicam, hoc aere, et ut quidam adiciunt, ae- neaque libra, esto mihi empta; deinde aere percutit libram idque aes dat testatori velut pretii loco; deinde testator ta- bulas testamenti manu tenens ita dicit: haec ita ut in his ta- bulis cerisque scripta sunt, ita do ita lego ita testor, itaque vos, Quirites, testimonium mihi pehibetote; et hoc dicitur nuncupatio: nuncupare est enim palam nominare, et sane quae testator specialiter in tabulis testamenti scripserit, ea videtur generali sermone nominare atque confirmare.
Per poter porre rimedio agli inconvenienti connessi alla circostanza che la mancipatio era un atto a struttura bi- laterale e ad efficacia immediata162 probabilmente si innestò sul modello rituale della mancipatio familiae una solenne
162 Gai 2.103: …hoc vero solum, quod per aes et libram fit, in usu re- tentum est. Sane nunc aliter ordinatur, quam olim solebat. Nacque o- lim familiare emptor, id est qui a testatore familiam accipiebat man- cipio, heredis locum optinebat, et obi dei mandabat testator quid, cui- que post mortem suam dari vellet; nunc vero alius heres testamento instituitur, a quo etiam legata relinquuntur, alius dicis gratia propter veteris iuris imitationem familiare emptor adhibetur.
dichiarazione verbale, che successivamente acquista i carat- teri della nuncupativo testamenti, con la quale il disponente designava pubblicamente e direttamente l’erede163; il testa- mento dunque diventava atto nuncupativo, la cui novità ri- spetto al normale meccanismo mancipatorio di trasferimento delle res risiedeva nella circostanza che a parlare era anche il mancipio dans.
La mancipatio familiae attestata da Gaio presenta dunque un elemento formale particolare costituito dalla pro- nuncia del mancipio accipiens – familiae emptor a cui si salda, nel modello più evoluto del testamentum per aes et libram, una formula specifica, formale e solenne, provenien- te dal mancipio dans (nuncupatio testamenti) che ha l’effetto di rendere il gestum funzionalmente idoneo al rag- giungimento dello scopo, nella specie successorio, persegui- to dal testatore.
I formulari gaiani della mancipatio familiae costitui- scono esempi evidenti di atti che tendono a realizzare, attra- verso una speciale utilizzazione dei verba innestati sul for- malismo del gestum per nulla alterato164 effetti peculiari ti- pici, conseguenti alle specifiche dichiarazioni165 delle parti.
163 Gai 2.104: Nuncupare est palam nominare.
164 Il risultato non alterava il formalismo del gestum, richiedendo l’intervento dei testimoni e del libripens, sicut in ceteris mancipatio- nibus (Gai 2.104), mantenendo l’intervento, sia pure dicis gratia, del familiare emptor – ma non più loco heredis – e prevedendo il compi- mento degli atti solenni idonei a completare, sul piano gestuale, il formalismo orale delle dichiarazioni.
165 Elaborate dalla giurisprudenza pontificale allo scopo di superare i problemi che comportava il ricorso al testamento comiziale o, in alter-
Anche se quella del testamentum per aes et libram è la sola descrizione completa di un meccanismo rituale che, utilizzando il modulo formale tipico della mancipatio (op- portunamente integrato) – riuscisse a realizzare particolari effetti giuridici (ab origine non conseguibili in altro modo), si può ritenere che meccanismi analoghi operassero in altre situazioni.
Anzitutto il pensiero corre alla coemptio166 che si at- tuava per mancipationem, pur non attuandosi iisdem ver- bis167.
Gai 1.113: Coemptione vero in manum conveniunt per mancipationem, id est per quandam imaginariam vendi- tionem: nam adhibitis non minus quam V testibus civibus Romanis puberibus, item libripende, emit vir mulierem, cuius in manum convenit.
Di una tale applicazione della mancipatio ci si poteva avvalere tanto per la coemptio matrimonii causa fatta col marito, quanto per quella fiduciae causa, che poteva avveni- re anch’essa col marito ovvero cum extraneo, ma per finalità diversa (Gaio fa l’esempio della coemptio tutelae evitandae causa)168.
nativa a quello in procintu, legati a vincoli di tempo. A questa causa può aggiungersi probabilmente il caso della donna sui iuris che non avendo capacità di partecipare ai comizi, non poteva fare ricorso al te- stamento calatis comitiis ed ancor meno a quello in procintu.
166 L’economia e il taglio isagocico dell’opera gaiana potrebbero giu- stificare la mancata menzione del cerimoniale della coemptio. Sul punto cfr. CORBINO, Il formalismo negoziale, cit., p. 16 ss.
167 Gai 1.123
168 Gai 1.114 ss.
Sull’originario sostrato della mancipatio si innestava- no, dunque, con una modifica dei verba del formulario169 due varianti distinte, tali da produrre effetti giuridici diffe- renziati, finendo in tal modo per caratterizzare in definitiva anche atti giuridici diversi.
Che i peculiari effetti giuridici che le parti si erano prefissate di ottenere ricorrendo all’atto negoziale, dovesse far seguito alla pronuncia dei verba particolari è del resto at- testato da Gaio, che asserisce che, allorquando si ricorreva alla mancipatio per l’attuazione della coemptio, essa rive- stisse una forma diversa da quella adoperata per il trasferi- mento delle res mancipi:
Gai 1.123: Ea quidam quae coemptionem facit, non deducitur in servilem condicionem; a parentibus autem et a coemptionatoribus emancipati mancipataeve servorum loco constituuntur, adeo quidem, ut ab eo cuius in mancipio sunt, neque hereditatem neque legata aliter capere possint, quam si simul eodem testamento liberi esse iubeantur, sicut iuris est in persona servorum. Sed differentiae ratio manifesta est, cum a parentibus et a coemptionatoribus isdem verbis
169 Ad epoca predecemvirale riporta l’istituto il CORBINO, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica, in La proprietà e le proprietà. Atti del Conv. Di Pontignano a cura di Cor- tese, Milano, 1988, p. 30. Anche TALAMANCA, Forme negoziali e illecito, in ACOP. 1982, p. 131, sottolinea il carattere predecemvirale della conventio in manu attuata con la coemptio, quindi attraverso un gestum per aes et libram, per la quale lo studioso parla di un modo di porre in essere il matrimonio in alternativa alla confarreatio.
mancipio accipiantur, quibus servi; quod non similiter fit in coemptione170.
2.4- LA NUNCUPATIO DEL NEGOZIO MANCIPATORIO: CA- RATTERISTICHE E FUNZIONE COSTITUTIVA E PROBATORIA.
La flessibilità del rituale, realizzata – come si è visto – at- traverso l’adozione di particolari parole solenni e, dunque, l’accoglimento nella mancipatio di dichiarazioni che danno sostanzialmente rilevanza alla volontà171 e all’accordo de- pongono nel senso di escludere che il rituale mancipatorio fosse un involucro astratto tale da assorbire e mortificare la volontà delle parti; sembrerebbe trattarsi piuttosto di uno strumento concreto in cui la forma è espressione della vo- lontà, e al tempo stesso mezzo per far acquistare ad essa ri- lievo giuridico172.
La forma assolve, dunque, un’esigenza certamente “simbolica”.
L’esigenza che però a questo punto si impone è quella di verificare se tale simbolismo rappresenti la stilizzazione
170 Il testo del frammento è riportato con le integrazioni apportate da
171 Al riguardo GIOFFREDI, Su XII TAB. 6.1, in SHDI. 27, 1961, p. 347 ss., 349: “è per attuare quest’idea della parola, cioè della volontà che crea il diritto che al mihi emptus esto si è aggiunta la formula meum esse aio ex iure Quiritium: l’ita ius esse consegue direttamente alla nuncupatio”.
172 KASER, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali Catania 3, 1949, p. 95: La differenza tra il simbolismo primitivo e quello dei tempi più evoluti è questa. Nei tempi più evoluti l’atto simbolico era soltanto una raffigurazione sintetica degli effetti previsti dalla norma giuridica. In epoca arcaica, invece, nel compimento del simbolo era la stessa raffigurazione degli effetti. Contra, MAGDELAIN, Le ïus ar- chaïque, in MEFRA. 98, 1986.
di autonomi interessi delle parti oppure l’espressione di un intento che è giuridico nel senso di riconosciuto dall’ordinamento.
In altri termini ci si chiede se lo scopo materiale per- seguito dalle parti fosse quello di realizzare un diritto ovve- ro un di porre in essere un negozio di per sé idoneo a pro- durre effetti giuridici immediatamente vincolanti173.
A tal fine essenziale è la comprensione del significato dell’espressione “lingua nuncupare” alla quale le XII Tavo- le eziologicamente connettono effetti giuridici174 (ius175), nonché un’indagine circa il ruolo assolto dalla nuncupatio in un “sistema” di rapporti giuridici improntato dalle forme.
Essenziale al riguardo è il noto passo di Festo176 rela- tivo al nuncupare e da cui è tratta la norma decemvirale suddetta:
173 Sulla essenzialità che acquistano gli elementi verbali e gestuali per il conseguimento degli effetti propri della mancipatio cfr. da ultimo CORBINO, La struttura della dichiarazione d’acquisto nella manci- patio e nell’in iure cessio, in Etudes déd. H. Ankum 1, Amsterdam, 1995, p. 85.
174 La valenza “ritualistica” e, dunque, in primo luogo processuale dell’espressione ius nel linguaggio delle XII Tavole, non impedisce di attribuire ad essa un significato (sia pure embrionale, in fieri) di “dirit- to oggettivo”. Cfr. NICOSIA, Il processo privato romano. Le origini, Catania 1980, rist. Torino, 1986, p. 74 ss. Osserva altrove (Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma 1, Catania, 1971, rist. 1989, p. 98 ss.) lo stesso autore: “In formulazioni di questo tipo non può in linea di massima intendersi ius che come comportamento che merita approvazione in quanto conforme ad una valutazione del gruppo”.
175 Circa l’attendibilità del passo di Festo, cfr. RICCOBONO, Origine
e sviluppo del domma della volontà nel diritto, in Atti del Congr. In- ternaz. di dir. Rom.1, Roma, 1934, p. 185 ss.
176 Sull’opera festina cfr. BONA, Contributo allo studio della compo- sizione del “de verborum significatu” di Valerio Flacco, Milano 1964;
de verb. sign. s.v. nuncupata pecunia (L. 176.3): Nuncupata pecunia est, ut ait Cincius in lib. II de officio iu- risconsulti, nominata, certa, nominibus propriis pronuntiata (lex XII tab. 6.1): “cum nexum facies mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto” id est ut nominarti, locutu- sve erit, ita ius esto. Vota nuncupata dicuntur quae consu- les, praetores, cum in provinciam proficiscuntur, faciunt: ea in tabulas praesentibus multis referuntur. At Santra lib. II de verborum antiquitate, satis multis nuncupata conligit, non directo nominata significare, sed promissa, et quasi tes- tificata, circumscripta, recepta, quod etiam in votis nuncu- pandis esse convenientius.
Nell’unitario frammento del de verborum significatu lo scrittore riferisce due accezioni del verbo nuncupare o- rientandoci verso una lettura funzionale all’esigenza dello stesso di porre in rilievo il significato complessivo e sostan- ziale di “nuncupare”.
Mentre nella parte iniziale, con riferimento all’espressione nuncupata pecunia e richiamandosi a XII Tab. 6.1, Festo fornisce una definizione di nuncupare quale pronuncia di certa verba, nominata, nominibus propriis pronuntiata, cioè di espressioni proclamate in forma solen- ne, con parole esattamente rispondenti a quelle predetermi- nate dai pontifices, e quindi dichiarazioni testimoniabili, in quanto rese alla presenza di testes secondo l’accezione di
ID., Alla ricerca del “De verborum, quae ad ius civile pertinent, si- gnificatione” di C. Elio Gallo. 1. La struttura dell’opera, in BIDR. 90, 1987, p. 119 ss.
Gaio “palam nominare”177; nella seconda parte con riferi- mento ai vota nuncupata, richiama la definizione di Santra “non derecto nominata…sed promissa et quasi testificata, circumscripta, recepta”, sebbene suscettibile di diverse ap- plicazioni (satis multis).
Alla distinzione e al contempo all’intima affinità fra le accezioni di nuncupare si richiama Varrone:
l. l. 6.60: ab eo nuncupare , quod tunc <pro> civitate vota nova suspiciuntur. Nuncupare nominare valere apparet in legibus, ubi “nuncupatae pecuniae” sunt scriptae.
L’autore rilevando l’identità del termine nell’espressione votiva e nel documento in cui erano scrip- tae le pecuniae, cioè la somma di danaro nuncupata, dichia- rata solennemente, distingue tra vota nuncupata e nuncupa- tae pecuniae.
Ove si consideri che in età antica le norme si presen- tano da un lato come precetti giuridici cogenti, eteronomi ed applicabili ai rapporti inter homines, e dall’altro assumono caratteri di precetti religiosi in virtù di un necessario e co- stante rapporto col divino178, appare storicamente viziato il tentativo179 di riferire le diverse accezioni della nuncupatio a
177 Gai 2.104. Nominare etimologicamente è composto da nomen o
nomine capere.
178 La conoscenza delle norme umane è affidata infatti ai pontifices
che le concepiscono e le interpretano.
179 Cfr. RANDAZZO, Leges mancipii. Contributo allo studio dei limi- ti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, Catania, 1998, cui si rinvia per l’accurata rassegna di nuncupationes e leges, peraltro ritenute dall’autore non inquadrabili unitariamente; nella stes- sa direzione cfr. LONGO, La mancipatio 1. Firenze, 1887; contra
due campi limitati e distinti, quello della religione e quello del diritto, facendosene derivare che il significato tecnico della nuncupatio sia quello riferito nel richiamarsi a XII Tab. 6.1; viceversa è allo ius sacrum che occorre rifarsi per costruire il significato giuridico di nuncupare.
Sulla base di tale presupposto, dal passo festino deve desumersi – a nostro avviso – che esiste un’accezione ampia di nuncupatio (valevole tanto per l’ambito giuridico, quanto per quello religioso180 - come si è detto) per la quale essa si identifica con una dichiarazione formale, dall’oggetto speci- fico, accettata dalla controparte; ed un’accezione più ristret- ta (altrettanto valevole in entrambi i campi) come quella ri- chiamata dalle XII Tavole, propria delle dichiarazioni a forma vincolata da rendersi in cerimonie pubbliche o davan- ti a testes.
Certo le fonti181 a nostra disposizione relative ai vota
nuncupata, attestano dichiarazioni espresse mediante certa
VOIGHT, Die XII Tafeln 2, Leipzig, 1883; GEORGESCU, Essai d’une Théorie générale des leges privatae, Paris, 1932, che opera un inquadramento dogmatico e generale delle cosiddette leges privatae, considerando unitariamente il profilo della “force obligatoire”, e le ac- costa concettualmente alle stesse leges publicae. A tal proposito va rilevato che è abbastanza diffusa in dottrina la tendenza volta a rin- tracciare - muovendo dall’idea di lex come comando unilaterale – pro- fili comuni tanto alla lex publica, quanto alla lex privata.
180 I due termini sono intercambiabili; cfr. FIORI, Homo sacer, dina- mica giuridico – costituzionale di una sanzione politica-religiosa, Na- poli, 1996, p. 168.
181 Cfr. Cic., Ph., 3.4.11; Verr., 2.13.94 e Verr. 13.34; Livio, 31.63.7;
31.14.1; 15.10.5; 1.10.7; 40.46.8-9; Svet., Oct., 97; Plinio, Paneg.,
67.3.
verba, nell’ambito di una cerimonia pubblica fissa ed immu- tabile, produttive di effetti predeterminati.
Ciò non consente però, a nostro avviso, di escludere ut sic la cittadinanza giuridica - che sembra risultare dal te- sto festino e da quello varroniano – di dichiarazioni formali non solenni che, evidentemente dovevano essere rese al di fuori di una procedura formale e predeterminata (qual’era ad es. quella della mancipatio) e dovevano essere legate agli scambi di beni di consumo e di cose di minore valore, dando vita a rapporti di cui potevano essere titolari aventi uno sta- tus diverso da quello che consentiva la titolarità di rapporti civilistici.
Si pensi, ad esempio, alla negoziazione di scambio re- lativa a res nec mancipi, che verosimilmente dovette neces- sitare - a nostro parere – di nuncupationes (leges) che ac- compagnassero la traditio specificando l’intento che la parte intendesse perseguire nel caso concreto.
Del resto, non va dimenticato che Giove, potenza co- smica ed etica, una delle divinità più venerate del calendario di Numa, presiede alla santità delle promesse pubbliche e private ad esso rivolte ed alla salvaguardia dell’ordine socia- le.
In questa prospettiva acquista spessore la congettura che dalla promessa non solenne derivasse per il soggetto
pronunziante un vincolo, e non soltanto tra questi e la divi- nità, ma anche tra questi e l’intera comunità182.
Sotto questo profilo, la tradizionale e netta esclusione dell’autonomia privata per la fase più antica dell’esperienza romana sembrerebbe risentire della proiezione metodologi- camente scorretta della concezione moderna del processo civile come struttura necessaria dell’ordine pubblico.
2.5 – LA IN IURE CESSIO: CARATTERE GENERALE RISPETTO A MANCIPATIO E TRADITIO. Come si è visto, dal formulario gaiano della mancipatio emerge che essa consta di una so- lenne dichiarazione del mancipio accipiens con cui questi rem tenens183, afferma un potere attuale sulla res184 che sarà
182 Poiché il rispetto dovuto alla pronuncia della formula è uno dei cri- teri che individuano il ruolo politico-religioso del soggetto anche all’interno della società, colui che non lo rispetta è come lo spergiuro: “pone sub condizione anche la conservazione del proprio caput, ossia della propria condizione giuridico - religiosa all’interno del gruppo”. Cfr. FIORI, cit., p. 224.
183 La lezione del codice di Verona differisce da quella che dello stes- so passo dà Boezio (ad Cicer. Top. 5.28); anzicchè rem tenens, Boezio ha aes tenens. Nella descrizione che Gaio fa della solennità praticata al suo tempo (l’accipiens doveva adprehendere id ipsum quod ei man- cipio datur), comunque, le parole rem tenens sono quelle che meglio si giustificano. Sul punto cfr. ARANGIO RUIZ, La compravendita, cit., p. 31 ss.; contra, da ultimo Corbino, Il rituale della mancipatio nella descrizione di Gaio, “Rem tenens” in I. 1.119 e 2.24, in SHDI., 1976, p. 151 ss.
184 “Aio, hanc rem meam esse ex iure Quiritium”. La dichiarazione si ritrova tale e quale nella dichiarazione dei rivendicanti in giudizio (le- gis actio sacramenti in rem). In dottrina si è spesso sottolineato che se la dichiarazione appare a suo posto nella rei vindicatio perché il pro- cesso viene iniziato allo scopo di ottenere il riconoscimento di un po- tere che è si in contestazione, ma nell’assunto di chi parla è già in es- sere; nella mancipatio è in contraddizione con la frase che segue e che accenna a comprare la cosa. La contraddizione risulterebbe però solo
da lui comprata; e del tacito consenso del mancipio acci- piens, che dando atto del prezzo pagato, integra la pretesa della controparte.
Ancora, le formule erano assunte dalle parti alla pre- senza di testimoni, Quiriti e puberi, che garantivano la pub- blicità dell’atto e fornivano nel processo la garanzia dell’assunto impegno reciproco delle parti sullo scambio di prestazioni.
Diversa è apparentemente la situazione nell’ipotesi dell’in iure cessio:
Gai 2. 24. In iure cessio185 autem hoc modo fit: apud magistratum populi Romani velut praetorem urbanum [aut praesides provinciae] is, cui res in iure ceditur, rem tenens ita dicit: hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio; deinde postquam hic vindicaverit, praetor interrogat eum, qui cedit, an contra vindicet; quo negante aut tacente tunc ei, qui vindicaverit, eam rem addicit; idque legis actio vocatur. hoc fieri potest etiam in provinciis apud praesides earum.
apparente ove si accettasse la tesi – in questa sede accolta – che il po- tere concreto sulla res (quanto meno inter partes) era già passato con la traditio all’acquirente in forza dell’accordo di volontà. A nostro av- viso, cioè, la mancipatio più che forma costitutiva, doveva profilarsi quale mezzo di pubblicità atta a fornire certezza giuridica.
185 Sul punto cfr. KIPP, in Pauly Wissowa, Real-Enciclopädie 3 voce Cessio in iure, 1899, c. 2000 ss.; RABEL, in Zeit. Sav. Stift.27, 1906; MITTEIS, Röm. Privatrecht, Leipzig, 1908, p. 276; BESELER, Bei- träge zur Kritik der römischen Rechtsquellen 2, Tübingen, 1911, p. 149; BONFANTE, Corso di diritto romano, Introduzione: Diritti rea- li, 1933, p. 260.