L’ARBITRATO SI FA IN QUATTRO.
Xxxxxxxxx Xxxxxx
L’ARBITRATO SI FA IN QUATTRO.
Problemi (tanti) e prospettive (poche) dopo la l. n. 183/2010.
SOMMARIO: Premessa - 1. L’arbitrato “amministrativo” (l'equità e l'impugnazione) - 2. L’arbitrato intersindacale - 3. L’arbitrato “certificato”.. 4. L’arbitrato “selvaggio” (e la clausola compromissoria).
Premessa. La legge 4 novembre 2010 n. 183, il cd. Collegato Xxxxxx, ha introdotto nel nostro ordinamento giuslavoristico ben quattro nuovi tipi di arbitrato, definito irrituale1, alcuni dei quali divergono nettamente dagli orientamenti legislativi previgenti che, come è noto, rimettevano l’autorizzazione e la regolamentazione dell’istituto alla contrattazione collettiva, affidando sostanzialmente a quest'ultima (peraltro con numerosi condizionamenti) il compito di predisporre adeguate garanzie procedurali e sostanziali a tutela del lavoratore.
Il Collegato, invece, sebbene mantenga anche un arbitrato di fonte intersindacale, disattende sostanzialmente questi principi in quanto legittima, contemporaneamente, anche altre forme di arbitrato che hanno scarsi o nulli collegamenti col sistema di relazioni industriali; ma, quel che più conta, uno di questi arbitrati viene addirittura interamente rimesso all'autonomia individuale delle parti, sovvertendosi così completamente lo stesso principio, di derivazione costituzionale2, secondo cui il lavoratore in quanto contraente debole deve essere assistito e tutelato nelle sue manifestazioni di volontà aventi carattere potenzialmente dismissorio dei suoi diritti. In questo modo, la L. 183/2010 determina un
1 Esiste un ampio dibattito sulla permanente distinzione tra arbitrato rituale e irrituale. Ne riassumono i termini BOVE, 2010, 65 e XXXXXXXXX, 2006, 867, spec. nota 1.
2 Sui principi ispiratori della normativa che regolava l'arbitrato in materia di lavoro prima della L. 183/2010, v., ex plurimis, XXXXXXXXX, 1968, 631; XXXX, 0000, p. 221 ss.; XXXXXXXXX, 1999, 121; XXXXXX, 1997, 99; XXXXXXX, 2003, 613; PIZZOFERRATO, 2003, p. 118; BORGHESI, 2006, 821.
vero e proprio vulnus nel sistema giuslavoristico italiano, così come delineato dalla Carta costituzionale, dalla legislazione speciale e dalla giurisprudenza degli ultimi sessant’anni.
Duole dover formulare un giudizio così severo sulle nuove forme di arbitrato volute dal legislatore del 2010, specie da parte di chi, come chi scrive, ha sempre creduto nell'opportunità di una ponderata apertura ai privati anche nell’amministrazione del "servizio Giustizia" sia nell’ambito dei rapporti individuali3 che nelle relazioni collettive di lavoro4. Ma il dato testuale e l’analisi che segue non lasciano soverchi dubbi su quelli che potrebbero essere gli effetti concreti delle nuove norme.
1.- L’arbitrato “amministrativo”. L’art. 31, dopo aver riformato le procedure di conciliazione ex art. 410 c.p.c., rendendole facoltative5 e gravandole di una rigida procedimentalizzazione (di cui non si sentiva proprio il bisogno), al comma 5, intervenendo nuovamente sul testo dell’art. 412 c.p.c., ha stabilito che “In qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in xxx xxxxxxxxx xx xxxxxxxxxxxx”.
La formulazione testuale usata appare ridondante e atecnica6. Desta, innanzitutto, perplessità la ripetizione del concetto secondo cui le parti si accordano per la risoluzione 3 VENEZIANI-XXXXXX, 1987; XXXXXX, 1998.
4 XXXXXX, 2004.
5 Solo il tentativo di conciliazione delle controversie concernenti gli atti certificati, di cui all’art. 80, comma 4, del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, resta, invece, obbligatorio (art. 31, co. 2). È curioso ed evidenzia, in definitiva, la scarsa lucidità della attuale politica legislativa in materia di giustizia, il fatto che questa abrogazione della conciliazione obbligatoria in materia di lavoro coincida temporalmente con l’introduzione, invece, dell’istituto della mediazione obbligatoria nel processo civile.
6 Per critiche analoghe alla formulazione testuale della norma x. XXXXX XXXXXX, 0000, nota 1.
della lite affidando alla Commissione il mandato a risolvere la controversia. Difficoltà di non poco conto si incontrano, poi, nel comprendere per quale ragione le medesime parti dovrebbero decidere di devolvere agli arbitri la controversia prima ancora che il tentativo di conciliazione abbia avuto esito; né, infine, particolarmente utile appare la precisazione secondo cui la devoluzione arbitrale può avvenire, al termine di tale tentativo, solo in caso di mancata conciliazione. Ulteriori perplessità desta l’uso dell’espressione “accordarsi per la risoluzione della controversia” quando si parla della devoluzione della stessa alla cognizione arbitrale. A queste ruvidezze tecniche la legislazione nazionale di questo primo scorcio del nuovo secolo ci ha ormai abituato; finchè esse possono essere risolte in via esegetica, poco male.
Per quanto riguarda le regole sostanziali dettate per questo primo tipo di arbitrato, salta subito agli occhi la possibilità di conferire agli arbitri anche il potere di decidere secondo equità purchè “nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento e dei princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari”; un’altra formula, questa, oltremodo contorta, frutto delle stratificazioni testuali nell’impervio iter parlamentare e destinata a creare non pochi problemi interpretativi8.
7 DELLA PIETRA, 2011.
8 Per una prima rassegna di tali problemi, v. XXXXXXXX, 2011, 31 ss.; XX XXXXXXX, 2011, 20, aggiunge che "nell'elaborazione lavoristica manca, allo stato, una riflessione sufficiente al riguardo". RIVERSO, 2011, 58, rileva opportunamente che la formulazione testuale della legge nella sua versione definitiva, conseguendo
Il divieto di decidere secondo equità le liti arbitrali irrituali in materia di lavoro era già stato eliminato da tempo9 ma nella formulazione previgente era comunque necessario che ciò venisse comunque autorizzato dalla contrattazione collettiva. Fa specie constatare, invece, che ora le parti possono “liberamente” autorizzare gli arbitri a decidere la controversia in via equitativa. E deve ritenersi - attesa la distinzione operata dal legislatore fra arbitrato amministrativo e arbitrato intersindacale - che ciò possa avvenire, in sede amministrativa, anche in presenza di un espresso divieto sancito dal contratto collettivo (che varrebbe solo per l'arbitrato intersindacale).
È opinione comune che la decisione secondo equità non possa completamente
disattendere le norme inderogabili10 ed è noto che, in materia di lavoro, è inderogabile,
all'intervento del Capo dello Stato che nel suo messaggio aveva rilevato l'eccessiva ampiezza della formulazione originaria, non può che essere intesa dall'interprete con portata restrittiva.
9 La modifica dell’art. 808 c.p.c. introdotta dall'art. 20 d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, a far data dal 2 marzo 2006, lo ha eliminato persino dalle clausole compromissorie. In precedenza, si era autorevolmente ma minoritariamente sostenuto che permanendo il divieto del giudizio equitativo nell’arbitrato rituale ciò dovesse valere, a maggior ragione, per quello rituale: x. XXXX, 0000, 359.
10 Cfr. BORGHESI, 2011, 29: “E’ infatti pacifico in dottrina e in giurisprudenza che l’arbitro irrituale non può disapplicare le norme inderogabili”. Sul tema v. anche, FINOCCHIARO, 2001, p. 112 ss. e soprattutto SPEZIALE, 2010, 139 ss. e 2011, 53 ss. (cui si rinvia per una più ampia e approfondita trattazione dell’argomento) il quale, prendendo le mosse da C. Cost. 6 luglio 2004 n. 206 (in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), intervenuta sui poteri decisionali del giudice di pace, rileva che nel nostro ordinamento non ha spazio l’equità sostitutiva bensì solo quella integrativa; il giudizio equitativo non può, quindi, disattendere le norme di diritto ma deve semplicemente, nel medesimo solco normativo da esse tracciato, adeguarne l’applicazione alle specificità del caso concreto. Prendendo ad esempio le norme limitative del potere di licenziamento, l’A. rileva che il giudizio equitativo non potrebbe mai portare alla eliminazione della tutela reale, sostituendola con quella risarcitoria, ma solo a una precisazione delle nozioni di giusta causa o di giustificato motivo. In senso non dissimile, x. XXXXXXXXXX, 0000X: "la sola funzione che alla giurisdizione di equità può riconoscersi – in un sistema caratterizzato dal principio di legalità a sua volta ancorato al principio di costituzionalità, nel quale la legge è dunque lo strumento principale di attuazione dei principi costituzionali – è quella di individuare l’eventuale regola di giudizio non scritta che, con riferimento al caso concreto, consenta una soluzione della controversia più adeguata alle caratteristiche specifiche della fattispecie concreta, alla stregua tuttavia dei medesimi principi generali dell’ordinamento cui si ispira la disciplina positiva: principi che non potrebbero essere posti in discussione dal giudicante, pena lo sconfinamento nell’arbitrio, attraverso una contrapposizione con le proprie categorie soggettive di equità e ragionevolezza. Il giudizio di equità, in altre parole, non è e non può essere un giudizio extra-giuridico. Esso deve trovare i suoi limiti in quel medesimo ordinamento nel quale trovano il loro significato la nozione di diritto soggettivo e la relativa garanzia di tutela giurisdizionale". Nello stesse senso v. anche ZOPPOLI, 2010, 1 ss.;
RIVERSO, 2011, 59. Sembra superare tali limiti XXXXXXX, 1999, 385, secondo cui l’equità fonda
essenzialmente un potere arbitrale di correggere la norma da applicare alla luce di "valori oggettivi, già emersi nel contesto sociale di cui si tratta, ma non ancora tradotti in termini di legge scritta ". La giurisprudenza, sia pure senza particolari approfondimenti, ribadisce il principio della inderogabilità sostanziale: x. Xxxx. SS.UU., 1° dicembre 2009 in “Giust. civ. mass.” 2009, 12; Cass., 4 maggio 0000, x.
0000, xx “Xxx. xxx.”, 0000, p. 499.
11 Nel senso che le clausole della contrattazione collettiva pubblica siano inderogabili anche in meljus per il prestatore, v., ex plurimis, BORGHESI, 2011, 16 che si richiama anche agli orientamenti giurisprudenziali espressi da Xxxx., 4 novembre 2009, n. 23329 e Cass., 14 ottobre 2009, n. 21744, ivi citt..
12 Anche SPEZIALE, 2011, 48, sottolinea: "nessun accostamento è possibile, sotto il profilo strutturale tra decisione arbitrrale - assunta da terzi imparziali, nell'ambito di un procedimento fissato nei tempi, nelle cadenze e nel rispetto del contraddittorio e che sfocia in un provvedimento a contenuto decisorio - e l'atto dispositivo compiuto personalmente dal singolo lavoratore"; e, in nota, aggiunge che ipotizzare un'affinità dei due istituti significherebbe sminuire completamente il carattere giudiziario dell'arbitrato irrituale. Nello stesso
v. anche XXXXXXXX M.G., 2006, 320-321. Contra, sembrerebbero, invece, esprimersi XXXXXXX,
possa essere rigido (nell'arbitrato secondo diritto) o, entro certi limiti, elastico (nell'arbitrato secondo equità); non consente, invece, che esso possa essere illimitato e arbitrario. Non pare affatto casuale, del resto, che la L. 183/2010 prescriva sempre al ricorrente di specificare nell'atto introduttivo le norme invocate, in alternativa alla richiesta di decisione secondo equità13. È entro questi limiti, quindi, che il potere dispositivo delle parti viene conferito agli arbitri e il richiamo all'art. 2113, quarto comma, vale semplicemente a sancire la validità anche del lodo così adottato, in deroga alle prescrizioni del primo comma della medesima norma codicistica14.
Ciò rileva anche ai fini dell'impugnazione del lodo ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c.. Il tribunale, infatti, pur non potendo sindacare nel merito la pronuncia arbitrale15, non potrà, però, esimersi dal verificare se essa abbia applicato le norme giuridiche inderogabili, puntualmente (in caso di giudizio secondo diritto) o in linea di massima, nel rispetto cioè
TIRABOSCHI, 2010, 46-47.
13 L'art.412, II comma, n. 2, nuovo testo, prescrive: "Le parti devono indicare: ... 2) le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l'eventuale richiesta di decidere secondo equità ". L'art. 412-quater, al comma 3, nuovo testo: "Il ricorso deve contenere il riferimento alle norme invocate dal ricorrente a sostegno della sua pretesa e l'eventuale richiesta di decidere secondo equità".
14 In tal senso v. anche DE ANGELIS, 2011, 22. Il richiamo all'art. 2113, quarto comma, cod. civ. sembra, in definitiva, rispondere semplicemente alla preoccupazione, forse eccessiva, del legislatore di evitare che il lodo contrattuale venga assoggettato al regime di invalidità e di impugnazione di cui ci ai primi comma del medesimo art. 2113 che l'originario testo dell'art. 5, L. 533/1973 espressamente richiamava in tema di arbitrato. Danno la stessa spiegazione, pur con sfumature diverse, anche SPEZIALE, 2011, 51 e BOVE, 2011, 20.
15 Il tribunale non potrà, ad esempio, sindacare la valutazione operata dal collegio arbitrale delle prove o dei fatti di causa ovvero del comportamento delle parti, dovendosi limitare a svolgere il ruolo di "giudice delle regole". Sostanzialmente nello stesso senso, v. XX XXXXXXX, 2011, 23. Sostengono l’impugnabilità del lodo irrituale per violazione delle norme di diritto BIAVATI, 2007, 174; XXXXXXXXX, 2010, 415 ss.; BOVE, 2011, 20. Sembra, invece, orientato in senso parzialmente diverso SPEZIALE, 2011, 49, secondo cui “la norma … consente di impugnare anche la violazione delle disposizioni di diritto o comunque di quelle attinenti il merito della controversia”.
dei principi generali dell’ordinamento (in caso di giudizio equitativo)16. Il n. 4 della norma codicistica prevede, infatti, l'annullabilità del lodo irrituale "se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo". Rientra quindi nei poteri del giudice dell'impugnazione la verifica del rispetto delle norme inderogabili applicabili alla fattispecie oggetto di devoluzione arbitrale che rientrano fra le regole fissate agli arbitri dalle parti o (implicitamente, in via sostitutiva) dalla legge17.
E' noto che sono compromettibili in arbitri solo le controversie che abbiano a oggetto diritti disponibili delle parti (art. 806 c.p.c.). Al riguardo, torna utile la nota distinzione operata dal De Xxxx Xxxxxx secondo cui le norme inderogabili, poste dalla legge o dalla contrattazione collettiva a sancire diritti in favore dei prestatori di lavoro, impediscono all’autonomia individuale di regolare difformemente i reciproci rapporti fra le parti ma non
impediscono loro di disporre dei relativi diritti una volta che questi siano stati acquisiti al
16 BORGHESI, 2011, 14 ss. si limita a rilevare che il regime di impugnazione di cui all’art. 808-ter riguarderebbe solo le ipotesi di nullità del lodo (in particolare i casi in cui esso fissi disposizioni in futuro) e non quelle di mera annullabilità che resterebbero precluse dall’applicabilità dell’art. 2113, IV comma, c.p.c.. La soluzione si scontra, però, anche con il testo e la ratio dell’art. 808-ter che espressamente si riferisce a ipotesi di annullabilità del lodo. Anche BOVE, 2011, sostiene che quelle di cui all’art. 808-ter sono ipotesi di annullabilità del lodo.
17 Alcuni autori (VALLEBONA, 2010A, TIRABOSCHI, 2010B) hanno sostenuto che il combinato disposto costituito dagli articoli del codice di procedura civile riformati dal Collegato e dall'art. 808-ter non consentirebbero mai l'impugnazione del lodo per violazione di legge e di contratto collettivo ma, al più, per aver deciso secondo equità invece che secondo diritto o viceversa; il testo della norma però è sufficientemente chiaro e sancire l'inimpugnabilità significherebbe riconoscere agli arbitri un potere dispositivo troppo ampio che non può ritenersi insito nel mandato arbitrale (almeno nel vigente ordinamento).
18 Sul punto, DELLA PIETRA, 2011, sembra propendere, invece, per l’applicazione analogica del termine annuale previsto per l’arbitrato rituale.
patrimonio dei creditori, a seguito dell'esaurimento dei relativi rapporti19. Per questo, tali diritti (che proprio in quanto disponibili, sono soggetti alle specifiche limitazioni procedurali imposte dall’art. 2113 cod. civ.) possono costituire oggetto di arbitrato. Da ciò deriva però un importante corollario. Il lodo arbitrale, specie se intervenuto nell'ambito di un rapporto ancora in corso, non può in alcun modo condizionarne lo svolgimento futuro poichè le parti non potranno trarne una regolamentazione difforme dalle norme imperative, legislative o contrattuali. Il lodo, quindi, pur potendo disporre, entro i limiti anzidetti, dei diritti già acquisiti dalle parti, non farà minimamente stato fra loro, con la conseguenza che eventuali controversie che dovessero insorgere successivamente potranno essere liberamente decise, da giudici togati o privati, senza essere influenzate dalla decisione arbitrale irrituale assunta nella precedente fase del rapporto20.
Questo è il primo tipo di arbitrato introdotto dal Collegato Xxxxxx. Le prospettive di una sua effettiva diffusione nella realtà delle relazioni di lavoro, quale strumento di deflazione e definizione del contenzioso appaiono, in verità, piuttosto scarse21. Innanzitutto, il venir meno della obbligatorietà dell’istituto della conciliazione ha ridotto drasticamente l’afflusso
delle controversie alle Commissioni di Conciliazione costituite presso le DPL e ciò si
19 Ci si riferisce ovviamente alla nota ricostruzione di DE XXXX XXXXXX, 1976, passim, richiamata, in sintesi, anche da SPEZIALE, 2011, 47.
20 Ci si perdoni la pedanteria esemplificativa: un lodo che abbia riconosciuto o negato un inquadramento superiore, ad esempio in relazione agli anni 2000-2011, potrà ben essere smentito da una decisione (pubblica o privata) che intervenga negli anni successivi, ad esempio in relazione al periodo 2012-2015, e che, con riguardo a tale medesimo inquadramento, potrà ben decidere diversamente. Anche secondo XXXXXXX,TIRABOSCHI, 2010, condizione di validità del lodo è che "non incida anche sulla regolamentazione generale per il futuro del rapporto"; diversamente esso sarebbe radicalmente nullo.
21 Le aspettative delle sedi periferiche del Ministero del Lavoro sembrano, invece, di segno diverso se alcune di esse si sono persino, meritoriamente, peritate di predisporre, sin dal 24 novembre 2010, le prime indicazioni operative (si veda quelle a cura della unità operativa “Relazioni Sindacali e Conflitti di Lavoro” della D.P.L. di Bari, consultabile nel sito del ministero).
ripercuoterà inevitabilmente sulla diffusione dell’arbitrato amministrativo. In secondo luogo, questo primo tipo di arbitrato presenta un rilevante limite strutturale poichè la composizione del collegio non è in grado di fornire adeguate garanzie di imparzialità e indipendenza. Tale specifica e particolarissima garanzia, essenziale per ogni organo giudicante, può derivare, infatti, esclusivamente o dalle caratteristiche istituzionali della magistratura togata o dal fatto che la composizione del collegio sia definita consensualmente fra le parti. La composizione della commissione di conciliazione ex art. 410 c.p.c che, come è noto, deriva da una procedura amministrativa di nomina previa designazione delle parti sociali, non possiede certo tali caratteristiche e, proprio per questo, non pare in grado di rappresentare una valida alternativa alla magistratura togata. In terzo luogo, un limite gravissimo di questo come anche di tutti gli altri arbitrati introdotti dal Collegato, è rappresentato dal fatto che l’esecutività del lodo non può essere ottenuta se non al termine del giudizio di impugnazione (art. 412, IV comma, c.p.c.) la cui eventualità, a questo punto, è solo teorica. Tutti i datori di lavoro soccombenti in sede arbitrale saranno, infatti, indotti a proporre l’impugnazione non solo per giocarsi le proprie chance anche dinanzi al giudice togato ma anche per rinviare - anche di diversi anni - l’esecutività del lodo. Non si comprendono proprio le ragioni che hanno indotto il legislatore, sin dal 1998, ad adottare tale soluzione. Se c'è un motivo per cui le parti dovrebbero preferire l'arbitrato al giudizio pubblico è la brevità dei tempi entro i quali è possibile ottenere un provvedimento esecutivo. Rinviarlo alla conclusione del giudizio di opposizione significa semplicemente rinunciare a ogni vantaggio del fattore tempo ed esprime, in definitiva, un
residuo di diffidenza legislativa verso l'istituto arbitrale di cui neanche il legislatore del Collegato ha saputo o voluto spogliarsi.
2.- L’arbitrato intersindacale. Il secondo tipo di arbitrato è previsto dal nuovo art. 412- ter, modificato dal sesto comma dell’art. 31, il quale si limita laconicamente a disporre che l’arbitrato potrà altresì svolgersi “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”. Si tratta di un rinvio "in bianco" alla contrattazione collettiva - operato, peraltro, senza neanche individuare il livello contrattuale competente - quindi ben diverso dal vecchio testo della medesima norma che, invece, fissava una serie di condizioni di validità all’arbitrato sindacale: esso doveva essere autorizzato dal contratto nazionale che doveva fissare la procedura di devoluzione della controversia al collegio arbitrale, il termine per l'adesione dell'altra parte, la composizione del collegio, la procedura per la nomina del presidente e dei componenti, le forme e i modi di espletamento dell'eventuale istruttoria, il termine per la pronuncia del lodo e l'obbligo di comunicazione alle parti interessate nonchè i criteri per la liquidazione dei compensi degli arbitri. In pratica, si trattava di una delega fortemente condizionata che esprimeva tutta la diffidenza del legislatore del 1998 verso l’istituto stesso dell’arbitrato. Su questo versante, tutto sommato, l'ampia e incondizionata delega ora conferita dal Collegato all’autonomia collettiva pare esprimere una netta svolta negli orientamenti legislativi.
Il contratto collettivo (di primo o di secondo livello), stipulato da organizzazioni sindacali la cui rappresentatività può essere misurata anche a livello locale (se non aziendale), può quindi anche autorizzare gli arbitri a decidere secondo equità e stabilire liberamente le
norme procedurali, anche semplificandole di molto, salvi solo i limiti desumibili dall’art. 808-ter c.p.c. (necessità di rispettare il principio del contraddittorio e le regole di cui all’art. 812 nella nomina degli arbitri).
Quando regola la possibilità di apporre al contratto individuale di lavoro la clausola compromissoria (co. 10), l’art. 31 non fa riferimento all’arbitrato intersindacale di cui all’art. 412-ter. Ciò tuttavia non può portare a escludere che la contrattazione collettiva possa autorizzare le parti a orientare tale clausola proprio verso questo tipo di arbitrato la cui regolamentazione le è interamente rimessa. Xxxx, proprio l’ampiezza della delega conferita alla contrattazione collettiva deve portare a ritenere che essa possa non solo disciplinare l’arbitrato in se’ ma anche autorizzare la stipula delle clausole compromissorie. Di fatto è proprio ciò che sta avvenendo nei primi rinnovi contrattuali successivi al Collegato che, anzi, come si vedrà più oltre, autorizzano la clausola compromissoria solo negli arbitrati intersindacali.
Solo per questo tipo di arbitrato il Collegato (v. art. 412, IV co., c.p.c., nuovo testo) omette anche di disciplinare il regime di impugnazione e di esecutività del lodo. Xxxxxxx autore ne deduce drasticamente che il lodo resti assoggettato al regime generale di impugnazione di cui all’art. 808-ter c.p.c. e che non sia possibile attribuirgli efficacia esecutiva22. In realtà, considerando i limiti di cui si è detto, l'omissione non rappresenta un gran danno poichè il lodo arbitrale intersindacale (che, fra quelli introdotti dal Collegato, offre maggiori garanzie, pare meglio coerente con i principi costituzionali e presenta anche maggiori prospettive di diffusione nella realtà effettuale) resterebbe assoggettato alla
22 BORGHESI, 2011, 3 ss.
disciplina generale dell'arbitrato irrituale, salva sempre restando la possibilità di fissare anche in sede contrattuale il termine di impugnazione. Per renderlo esecutivo la parte vincitrice potrebbe richiedere immediatamente (cioè senza attendere l’esito del giudizio di impugnazione) al giudice un provvedimento monitorio23. Resterebbe, ovviamente, la possibilità per il soccombente di proporre opposizione al decreto ingiuntivo, sempre però soltanto per i motivi di cui all’art. 808-ter. In definitiva, quindi, anche per questo tipo di arbitrato, i tempi di conseguimento del titolo esecutivo sarebbero analoghi a quelli previsti in generale dove, come si è visto, la parte vincitrice deve attendere la conclusione del giudizio di impugnazione. Nell’arbitrato intersindacale vi sarebbe in più la possibilità di ottenere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo.
Anche per l'arbitrato sindacale, tuttavia, le prospettive di successo non appaiono particolarmente rosee, sol che si consideri che esso era già previsto in forme analoghe dalla disciplina previgente, era stato tempestivamente autorizzato e disciplinato dalla contrattazione collettiva24, senza tuttavia riscuotere alcun successo nè incidere
concretamente sui grami destini del contenzioso del lavoro25.
23 Nell’ambito del procedimento monitorio il giudice dovrebbe, peraltro, concedere la provvisoria esecuzione ex art. 642 c.p.c. dovendo equipararsi il lodo arbitrale contrattuale alla dichiarazione confessoria della parte
24 Il disegno del legislatore del 1998, a dire il vero, era stato tempestivamente completato dalle organizzazioni sindacali nazionali che si sono subito peritate di dare attuazione all'art. 412-ter c.p.c. emendando le disposizioni dedicate all'arbitrato nei vari contratti collettivi di categoria oppure stipulando accordi interconfederali istitutivi di procedure o di vere e proprie camere arbitrali cui potevano e possono fare ricorso lavoratori e datori di lavoro (o amministrazioni pubbliche datrici di lavoro) indipendentemente dalla categoria di appartenenza (Confindustria, Confservizi Cispel, Aran, Confapi) sui quali v., per tutti, BORGHESI, 2001,
p. 165 ss. Addirittura nell’ambito di un precedente accordo interconfederale applicabile alle aziende aderenti a Confindustria del 25.1.1990, le maggiori parti sociali avevano già autorizzato in generale la devoluzione arbitrale prevedendo al punto 2.2. dell’allegato, per tutte “le controversie giuridiche individuali e plurime” che, una volta esaurito il tentativo di conciliazione, venissero deferite a un collegio arbitrale irrituale.
25 L'effettiva devoluzione in sede arbitrale delle controversie di lavoro potrebbe aver incontrato una certa diffidenza delle strutture periferiche delle organizzazioni sindacali che sono poi quelle che assistono concretamente i lavoratori nella proposizione delle controversie e, quindi, scelgono anche il giudice (privato o
3.- L’arbitrato “certificato”. Il terzo arbitrato previsto dal Collegato è il più strano fra i primi tre26 perché ne rimane oscura la ratio. Il legislatore, infatti, in modo inusitato, ha attribuito a enti poco omogenei fra loro la funzione di costituire sedi arbitrali qualificate e di fornire le garanzie minime di funzionamento: assistenza del lavoratore, imparzialità e affidabilità del collegio arbitrale, correttezza delle procedure. Il comma 12 dell’art. 31 si limita, infatti, a conferire a tutti gli organismi di certificazione la possibilità di costituire camere arbitrali e disciplinarne l’attività. A parte il caso degli enti bilaterali intersindacali, viene così rimessa la gestione del procedimento arbitrale in materia di lavoro a organismi pubblici, come le università, le province o i consigli provinciali dei consulenti del lavoro, privi di qualsiasi collegamento istituzionale, diretto o indiretto, con le organizzazioni sindacali. La norma, peraltro, non fissa alcuna condizione o regola per l'esecuzione di tale impegnativa delega, rimettendosi interamente all’autodeterminazione dei medesimi organismi di certificazione. Si limita, infatti, a estendervi l’applicazione del terzo e del quarto comma dell’art. 412 c.p.c. che disciplinano rispettivamente la validità ed efficacia del lodo nonché il suo regime di impugnazione e la procedura di esecutività. Non vengono, invece, richiamate né le disposizioni del secondo comma che contengono alcune regole procedurali minimali né tantomeno quelle più minuziose che, come vedremo, assistono il quarto tipo di arbitrato. Gli organismi di certificazione, quindi, possono disciplinare questo terzo tipo di arbitrato anche in modo molto diverso rispetto agli altri tre, ferme restando solo le regole minimali desumibili indirettamente dall’art. 803-ter c.p.c.. Potrebbero, ad
pubblico) cui presentarle. Potrebbe aver inciso anche la tradizionale ostilità dei avvocati componenti dei collegi legali verso qualsiasi forma di gestione del contenzioso potenzialmente in grado di escluderli.
26 Il quarto, come si vedrà, presenta caratteristiche talmente peculiari da non consentire alcuna comparazione.
esempio, istituire arbitri unici, invece che collegi, fissare liberamente i compensi degli arbitri e disciplinare minuziosamente la procedura o lasciare, invece, gli arbitri liberi di regolarsi secondo buon senso, ecc.. Non essendo ciò previsto espressamente, è dubbio se in questo arbitrato, che la dottrina non ha ancora esplorato (come anche in quello di tipo sindacale) le parti possano conferire agli arbitri il potere di decidere secondo xxxxxx.
Questa discrezionalità amplissima riconosciuta agli organismi di certificazione è mitigabile, in xxx xxxxxxxxxxxxxx (xxx. 00, xx. 0, xxx. c-ter, del D. Lgs. 276/2003), solo nel caso delle commissioni di certificazione costituite presso i consigli provinciali dei consulenti del lavoro i quali sono, infatti, tenuti ad adottare i relativi regolamenti sulla base di intese stipulate a livello nazionale con il ministero e sotto il coordinamento del proprio consiglio nazionale. Tale intesa è intervenuta il 18 febbraio 2011 e sulla base di essa il Consiglio nazionale ha elaborato un regolamento, poi diffuso con la circolare CNCL del 14/4/2011 n. 1056 che reca allegata anche una bozza di regolamento provinciale27. Chi pensasse, tuttavia, di trovare in questi testi lumi per lo svolgimento dell'attività arbitrale vi resterebbe deluso poichè essi si occupano prevalentemente dell’attività di certificazione limitandosi solo nell’articolo 22 della bozza allegata, intitolato “Competenza della Commissione in Funzione Arbitrale”, a prevedere che “Le parti possono accordarsi per la risoluzione della lite affidando alla Commissione, anche in occasione dello svolgimento del tentativo di conciliazione, il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia, ai sensi dell’art. 31, comma 12, legge n. 183/2010”.
27 Sono consultabili, rispettivamente, sul sito del Ministero e su quello del consiglio nazionale dei consulenti del lavoro (xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx)
Anche questa terza tipologia presenta notevoli difficoltà applicative e prospettive di successo non particolarmente rosee. In primo luogo, infatti, gli organismi di certificazione – salvo il caso delle università - non sembrano preparati a istituire e regolare organismi così
28 Tale soluzione non è esclusa nell’intesa intervenuta tra il Ministero del Lavoro e il Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro il 18 febbraio 2011 né nel conseguente regolamento-tipo a essa allegato. Il “mandato” con cui le parti affidano all’organismo di certificazione il potere di risolvere in via arbitrale la controversia può, infatti, ben essere inteso nel senso di devolvere la decisione della controversia a un collegio arbitrale costituito presso la commissione di certificazione, secondo le regole di composizione e procedurali da questa definite (ad es. nella designazione degli arbitri e soprattutto del presidente), con la sua assistenza amministrativa e sotto la sua vigilanza.
delicati e complessi come le camere arbitrali. In secondo luogo, è proprio la mancanza di collegamenti con il mondo sindacale a costituire il più serio ostacolo alla diffusione di questo tipo di arbitrato perché – come si è più volte rilevato - sono le organizzazioni dei lavoratori a promuovere le controversie e a scegliere il giudice da adire. Le camere arbitrali costituite presso gli organismi di certificazione avranno, quindi, la possibilità di svolgere il loro ruolo solo se costituite dagli enti bilaterali intersindacali ovvero se sapranno, comunque, coinvolgere i sindacati, guadagnandosi la loro fiducia e creando organismi giudicanti autorevoli e realmente indipendenti.
In ogni caso, queste tre prime forme di arbitrato sembrano poter offrire, al limite e nella migliore delle ipotesi (e ovviamente non sarebbe poco), una valvola di sfogo al contenzioso minore connesso all'applicazione dei contratti collettivi (ad esempio: quello per differenze retributive, per l’impugnazione di sanzioni disciplinari conservative, sul corretto inquadramento del lavoratore ecc.) mentre il contenzioso più delicato, come quello concernente, ad esempio, i licenziamenti o la qualificazione dei rapporti, difficilmente potrà essere sottratto ai giudici togati.
4.- L’arbitrato “selvaggio” (e la clausola compromissoria). Vi è infine un quarto tipo di arbitrato che non pare eccessivo definire “selvaggio”. Come altrimenti potrebbe dirsi, infatti, una tipologia che, disattendendo orientamenti legislativi consolidatisi negli ultimi sessant’anni, rimette interamente all’autonomia individuale delle parti sia l’an che il contenuto del compromesso, senza prevedere alcuna assistenza nè amministrativa nè sindacale per il lavoratore?
Le regole poste dalla riforma a questo tipo di arbitrato, pur divenendo a tratti tanto minuziose da apparire quasi incompatibili con la sua natura irrituale, purtuttavia non implicano alcuna significativa forma di tutela della parte debole del rapporto.
Si tratta, con tutta evidenza, di un quarto modello, ben distinto da quelli innanzi descritti, come si evince dalla lettura del nuovo testo dell’art. 412-quater, introdotto dai comma 8 e seguenti dell’art. 31 della L. 183/2000, secondo cui “ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l'autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dalla legge, le controversie di cui all'articolo 409 possono essere altresì
proposte innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale costituito secondo quanto previsto dai commi seguenti”.
Nei primi tre tipi il legislatore, più o meno nel solco della tradizione giuridica italiana, si era preoccupato di fissare limiti, garanzie e competenze all’intervento arbitrale, tutti evidentemente finalizzati, appunto, a garantire la genuinità delle manifestazioni di volontà del lavoratore insite nella procedura arbitrale, aventi portata potenzialmente dismissoria dei suoi diritti (o presunti tali). Si tratta, in particolare, di accettazione dell’arbitrato, stipula del compromesso e nomina degli arbitri. Dalla disciplina di questi primi tre tipi emerge, in altre parole, ancora chiara la tradizionale preoccupazione del legislatore di impedire che la debolezza contrattuale del lavoratore possa indurlo ad accettare un arbitrato privo delle necessarie garanzie di imparzialità e indipendenza. Non può spiegarsi diversamente il fatto che questi primi tre tipi si debbano svolgere in sedi pubbliche o sindacali qualificate. Quando però passa a disciplinare il quarto, quello stesso legislatore, contraddicendosi vistosamente, abbandona, invece, il lavoratore a se’ stesso in tutte le manifestazioni di
volontà tipiche della procedura arbitrale. È fin troppo agevole rilevare, allora, che delle due l’una: o quelle preoccupazioni, che costituiscono parte integrante della ratio dei primi tre tipi, erano eccessive e ingiustificate ovvero, ed è questa certamente l’ipotesi più convincente, questo quarto tipo di arbitrato apre una falla gigantesca nel nostro sistema giuslavoristico, potenzialmente in grado di vanificarlo dalle fondamenta. In particolare, viene messa in grave rischio - e scusate se è poco – da un lato, la principale forma di garanzia dei crediti del lavoratore, costituito dal sistema di validità condizionata delle rinunce e delle transazioni introdotto quasi quarant’anni fa nel nostro ordinamento con la riforma dell’art. 2113 cod. civ. operata dall’art. 6 della L. 533/73, dall’altro, il diritto del lavoratore di accedere alla tutela giurisdizionale pubblica.
Tutto ciò emerge ancor più chiaramente dall’analisi di dettaglio della normativa.
L’unica garanzia per il lavoratore contraente debole è quella posta dal secondo comma del nuovo art. 412-quater laddove sancisce espressamente che il presidente del collegio arbitrale deve essere un professore universitario di materie giuridiche o un avvocato cassazionista. Si tratta, con tutta evidenza, di una tutela davvero blanda non solo perché né i professori universitari né gli avvocati cassazionisti, per quanta stima si possa nutrire verso queste categorie, possono di per se’ stessi garantire l’indipendenza del collegio, ma soprattutto per l’ovvia considerazione, di cui meglio si dirà più oltre, che il lodo può essere anche approvato a maggioranza dai due membri di parte col dissenso del presidente.
Ovviamente nessuna garanzia per il lavoratore può essere rappresentata neanche dalla “libertà” assicurata alle parti di adire l’autorità giudiziaria e, quindi, dal fatto che l’arbitrato può svolgersi solo col consenso del prestatore, posto che il rischio da cui tutelarsi è che le
manifestazioni di volontà di quest’ultimo siano adottate in carenza di effettiva libertà o consapevolezza.
Dal punto di vista strettamente procedurale salta subito agli occhi un’altra particolarità: solo la parte convenuta in sede arbitrale ha l’obbligo di farsi rappresentare da un avvocato (V comma) mentre l’attore, quindi di solito il lavoratore, può stare nel giudizio personalmente. La legge introduce, così, uno strano patrocinio legale obbligatorio nell’ambito di una procedura arbitrale irrituale ma, contro ogni ragionevolezza, non opera questa forzatura al fine di introdurre una sia pur tenue tutela antielusiva29 della parte debole del rapporto tant’è che lo impone solo al datore di lavoro. Non constano precedenti del genere nel nostro ordinamento processual-civilistico né in ordine al patrocinio legale obbligatorio in ambito arbitrale né in ordine al fatto che ne sia gravata solo una delle parti.
Le ragioni di una simile regolamentazione restano davvero oscure30. Di fatto, questa strana norma finisce per favorire ulteriormente il possibile uso distorto ed elusivo di questo quarto tipo di arbitrato.
Non mancano, peraltro, nella riforma refusi o errori testuali che, nell’ambito delle norme processuali, sono sempre fonte di notevoli disagi per le parti. Curiosamente, ad esempio, si prevede che l’obbligo di depositare la memoria con cui il convenuto prende posizione sui fatti e sugli aspetti giuridici della controversia, sorga solo dopo che questi abbia nominato il proprio arbitro e si sia, quindi, proceduto al tentativo di concordare la scelta del presidente e
29 Per realizzare un arbitrato fraudolento ai danni del lavoratore si sarebbe dovuto trovare, infatti, un avvocato disponibile a svolgere un patrocinio fittizio in suo favore.
30 Secondo BORGHESI, 2011, 23, “bisogna concludere che in uno dei due punti il legislatore si è sbagliato (e non può certo essere l’interprete a stabilire in quale)”.
della sede dell’arbitrato. Xxxx, assurdamente, tale obbligo (rectius: onere) sembrerebbe sorgere solo in caso di scelta concorde del presidente e della sede. Se così fosse, resterebbe da chiedersi come si dovrebbe procedere, invece, nel caso opposto, quando, cioè, pur avendo la parte convenuta accettato l’arbitrato e nominato il suo arbitro, i due membri di parte non siano riusciti a trovare alcuna intesa e la nomina del presidente del collegio sia stata rimessa al presidente del tribunale. A questo refuso, figlio probabilmente dell’iter tanto travagliato di questa legge, dovrà porre rimedio un “correttivo” o la prassi esegetica. Ad una prima analisi, pare potersi sostenere che, in caso di mancato accordo sulla scelta del terzo arbitro, il termine di trenta giorni per il deposito della memoria del convenuto decorra dalla comunicazione dell’avvenuta nomina da parte del presidente del tribunale.
Certo sono applicabili anche a questo quarto modello di arbitrato le osservazioni già innanzi svolte (con riferimento al primo tipo) sulla possibilità di impugnare il lodo dinanzi al tribunale, ai sensi dell’art. 808-ter, n. 4 anche per violazione di legge o dei principi generali. Ma non è chi non veda come tale “rimedio” si presenti vistosamente spuntato proprio a causa del ruolo eccessivo che la legge qui riserva all’autonomia individuale. Anche in questo caso, infatti, l’impugnazione va presentata entro il termine breve (trenta giorni dalla notifica del lodo)31 il che finisce per condizionarla a una determinazione che il lavoratore deve adottare e manifestare in tempi brevi. Xxxxxx, è di tutta evidenza che, se il datore di lavoro fosse riuscito a indurre o costringere il lavoratore a sottoscrivere un
31 La fissazione di questo termine di impugnazione, che del resto era già nel precedente testo dell’art. 412- quater, si pone in vistosa deroga rispetto alla disciplina generale dell’arbitrato irrituale ex art. 808-ter che, invece, in maggior coerenza con la natura contrattuale del lodo, non prevede alcun termine di impugnazione e questo può essere sottoposto al sindacato del giudice statale nell’ordinario termine di prescrizione.
compromesso vessatorio, potrebbe allo stesso modo ottenere che egli firmi anche l’accettazione del lodo o che lasci inutilmente decorrere detto termine.
Insomma, al di là di ogni ulteriore considerazione in ordine alla articolata procedura prevista dalla legge32, ciò che deve essere soprattutto sottolineato è il fatto che questo quarto tipo di arbitrato si presta sin troppo agevolmente a una utilizzazione elusiva, volta all’aggiramento della disciplina in materia di atti dismissori dei diritti del lavoratore, fissata dall’art. 2113 cod. civ. e, quindi, indirettamente, di larga parte del nostro sistema giuslavoristico di tutela del contraente debole33.
A parte questa possibile (e probabile) utilizzazione, se ci limitiamo cioè a considerare le sue possibili applicazioni corrette, neanche siffatto arbitrato pare in grado di svolgere quella funzione deflattiva del processo pubblico che il legislatore parrebbe attribuirgli, ciò
32 Per una più dettagliata disamina degli aspetti procedurali di questo quarto tipo di arbitrato si rinvia a BORGHESI, 2011 e a DELLA PIETRA, 2011.
33 Proprio grazie a questo arbitrato “selvaggio” sono ipotizzabili scenari di questo genere: al momento dell’assunzione, unitamente agli altri documenti, un datore di lavoro disonesto, valendosi del potere di ricatto che possiede soprattutto al momento della costituzione del rapporto, potrebbe farsi firmare dal lavoratore un paio di fogli in bianco. Al termine del rapporto quel lavoratore potrebbe scoprire: 1) di aver, con il primo foglio, sottoscritto quello che la legge definisce “ricorso” in via arbitrale con cui egli ha già rivendicato tutti i suoi crediti maturati nel corso del rapporto e rimasti inadempiuti, nominando come proprio arbitrato un Xxxxx Xxxxxxx qualsiasi (ovviamente uomo di fiducia aziendale) e proponendo anche un altro nominativo (avvocato cassazionista o professore universitario) come presidente; 2) che, a sua totale insaputa, il collegio arbitrale, completato dall’arbitro di parte aziendale, ha deciso la causa in senso per lui totalmente sfavorevole, magari con deliberazione adottata a maggioranza e quindi con il voto contrario del presidente (che in tal modo sarebbe esente da responsabilità); 3) scoprirebbe, inoltre, che con il secondo xxxxxx ha preso atto del lodo e lo ha definitivamente accettato precludendosene l’impugnazione; 4) potrebbe persino scoprire di essere debitore delle spese arbitrali. Questo, naturalmente, è lo scenario peggiore; ma sono ipotizzabili anche una serie di scenari intermedi che comportino una maggiore partecipazione del lavoratore, sempre tuttavia fortemente condizionata dalla sua debolezza contrattuale. E chi conosce la realtà economica italiana sa bene che non si tratta certo di ipotesi di scuola. Non bisogna dimenticare che la Corte Costituzionale ha più volte ribadito che “il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti” (in mancanza della quale non sarebbe consentita la deroga ai principi di cui agli art. 24 e 102 Cost.) e che requisito essenziale, ai fini di un corretto esercizio della giustizia arbitrale, è che le parti si trovino “in una posizione di relativo equilibrio” (C. Cost. 4 luglio 1977, n. 127, xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx). PIVETTI, 171, segnala opportunamente che, secondo la giurisprudenza costituzionale “l’arbitrato non solo deve essere volontario, ma che deve anche trattarsi di una volontà liberamente formatasi: di una volontà effettiva”.
soprattutto a causa dei tempi non brevi in cui è possibile ottenere, anche in questa ipotesi, l’esecutività del lodo. È difficile, inoltre, immaginare che un lavoratore possa proporre o accettare un compromesso arbitrale senza consultarsi con un legale o con una organizzazione sindacale; ma in tal caso è altamente probabile che quel legale o quel sindacato lo dirottino verso il giudizio statuale o verso una forma arbitrale dotata di maggiori garanzie.
Forse proprio nella consapevolezza dello scarso appeal che questa tipologia di arbitrato è in grado di sviluppare nei confronti dei lavoratori, il legislatore del Collegato ha addirittura previsto la possibilità di introdurre nei contratti individuali di lavoro clausole
compromissorie che, in pratica, lo rendano obbligatorio. L’inusitata gravità dei rischi connessi a questa operazione legislativa sono di tutta evidenza e hanno suscitato reazioni critiche da ogni parte, determinando infine il rinvio del primo testo della legge alle Camere, da parte del Presidente della Repubblica. L’apposizione della clausola compromissoria era sottoposta, già nella prima versione, a una serie di condizioni e limitazioni che, ora, in quella entrata in vigore, sono state anche rafforzate, senza tuttavia che la pericolosità
34 XXXXXX, 2010: "perché volete espandere l’arbitrato nella direzione sbagliata, facendo in modo che le parti individuali possano compromettere in arbitri materie che sono disciplinate inderogabilmente dalla legge, e non consentite invece che l’arbitrato svolga la funzione che gli è riconosciuta in tutti i Paesi più avanzati e civili del nostro, cioè la funzione di voce del contratto collettivo sulle materie su cui il contratto collettivo stesso opera in modo sovrano?". XX XXXXXXX, 2011 aderisce a questa impostazione rilevando che si tratta della "classica visione di Giugni".
dell’istituto ne risulti del tutto depotenziata35. Attualmente, la clausola compromissoria deve essere preventivamente autorizzata dalla contrattazione collettiva36, deve venire certificata e non può essere stipulata al momento della costituzione del rapporto.
Il legislatore ha previsto anche la possibilità di intervenire con normativa regolamentare in caso di inerzia della contrattazione collettiva, un aspetto questo su cui aveva espresso perplessità anche il Presidente della Repubblica nel suo messaggio alle Camere. In realtà, la possibilità di intervento ministeriale pare limitato alla sola ipotesi in cui non sia stata formulata alcuna regolamentazione dalla contrattazione collettiva. Laddove, invece, quest’ultima abbia introdotto una disciplina qualsiasi, anche molto restrittiva, al ministro resta preclusa ogni possibilità di intervento sostitutivo. Pare anzi di poter escludere tale possibilità anche nell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva si sia semplicemente limitata a negare l’apponibilità della clausola compromissoria, magari sulla base di considerazioni legate alla peculiarità della prestazione lavorativa nella specifica categoria di riferimento. Ciò perché la legge dispone espressamente (co. 10 dell’art. 31) che “le parti contrattuali
possono pattuire clausole compromissorie … solo ove ciò sia previsto da accordi
35 Il difetto maggiore che essa presentava nel testo licenziato dalla Camere in prima lettura era quello di poter essere inserita anche nel contratto di lavoro sin dal momento della sua stipula, quando il lavoratore sarebbe stato posto di fronte all’alternativa fra accettare tale clausola o perdere l’occasione di lavoro. Sul fatto che tale prima formulazione integrasse una sorta di arbitrato obbligatorio, in quanto tale incostituzionale, x. XXXXXXXX, 0000, 8. Anche con le modifiche intervenute in seconda lettura, dopo il rinvio alle Camere, tuttavia, essa conserva tutto il suo potenziale elusivo. La parte debole del rapporto di lavoro potrebbe, infatti, comunque essere indotta ad accettarla per ragioni non commendevoli: si pensi, in particolare, a tutti i rapporti di lavoro non assistiti da stabilità reale (lo sottolinea soprattutto SPEZIALE, 2010, 139 ss.; ID, 2011, 59 ss.; sul punto v. anche RIVERSO, 2011, 50.
36 Neanche in questo caso (come già segnalato per l'autorizzazione all'arbitrato sindacale di cui all'art. 412 ter c.p.c.) il legislatore fornisce indicazioni in ordine al livello della contrattazione collettiva abilitato ad autorizzare l’inserimento delle clausole compromissorie nei contratti individuali di lavoro con la conseguenza che questa delicata materia diventa terreno di intervento anche del contratto di secondo livello. In questo caso
- a differenza di quanto accade nell’art. 412-ter in tema di arbitrato intersindacale - la norma precisa, almeno, che la maggiore rappresentatività delle organizzazioni sindacali firmatarie deve essere (comparativamente) verificata a livello nazionale.
interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Con tale formulazione il legislatore pare implicitamente ma chiaramente presupporre anche la possibilità che il contratto collettivo non autorizzi l’apposizione delle clausole compromissorie. A conferma di tale ipotesi esegetica, nel comma successivo, si prevede espressamente che il decreto ministeriale possa intervenire solo “In assenza degli accordi interconfederali o contratti collettivi”. Qualunque intervento della contrattazione collettiva inibisce quindi l'intervento sostitutivo ministeriale, indipendentemente dal suo contenuto.
È il caso di sottolineare che, nei suoi primi interventi, la contrattazione collettiva ha inteso autorizzare l’apposizione di clausole compromissorie ma solo con riferimento all’arbitrato disciplinato dal medesimo contratto collettivo37. Alla luce di tali primi testi contrattuali, resta, quindi, implicitamente ma chiaramente esclusa la possibilità di apporre clausole compromissorie che impongano la devoluzione delle controversie agli altri tipi di arbitrato previsti dalla legge e, in particolare, a quello di quarto tipo).
Il decreto ministeriale, ancora per espressa disposizione legislativa, dovrà comunque tener conto “delle risultanze istruttorie del confronto tra le parti sociali”, potrà intervenire solo “in via sperimentale” e con salvezza della “possibilità di integrazioni e deroghe derivanti da eventuali successivi accordi interconfederali o contratti collettivi”.
Non è chiaro se, nel silenzio della legge, la clausola compromissoria possa riferirsi anche all’arbitrato dinanzi agli organi di certificazione. Ad onta del dato testuale, però, è quello
37 Cfr. i rinnovi stipulati da UILTUCS-UIL e FISASCAT-CISL per le aziende del Commercio (con Confcommercio il 26 febbraio 2011e con Confesercenti il 15 marzo 2011) e per le Agenzie Immobiliari (il 27 luglio 2011), sempre, peraltro, con il dissenso e la mancata sottoscrizione della FILCAMS-CGIL.
sistematico che orienta verso la soluzione positiva poiché non si comprenderebbe la ragione di una simile esclusione38. In ogni caso, anche tale clausola resterebbe sottoposta alle medesime autorizzazioni (della contrattazione collettiva) e condizioni previste, in linea generale, dal comma 10.
Chi ha seguito con attenzione la contrastata vicenda parlamentare del Collegato e il dibattito che ne è scaturito ha avuto, in verità, la strana sensazione che la clausola compromissoria abbia quasi svolto il ruolo di una sorta di … “specchietto per le allodole”. Tanto il dibattito parlamentare39 quanto lo stesso messaggio della Presidenza della Repubblica40, infatti, si sono molto concentrati su questo istituto – che certo meritava attenzione - lasciando, però, un po' troppo in ombra l’arbitrato selvaggio che ha finito per mantenere, anche nel testo definitivo, tutti i suoi rischi elusivi, senza alcuna attenuazione.
Un’ultima notazione merita il fatto che le controversie in materia di licenziamento siano state escluse solo dalle clausole compromissorie ma non dai compromessi arbitrali. In realtà non pare questo uno degli aspetti più preoccupanti della riforma in quanto il lavoratore licenziato, proprio perché non teme più di perdere il proprio lavoro né è più sottoposto al potere direttivo datoriale, non si trova in quella condizione di debolezza contrattuale che potrebbe indurlo a sottoscrivere compromessi vessatori. In ogni caso va segnalato che la
38 Nello stesso senso sembra orientato anche BOVE, 2011, nota 27;
39 Se ne possono seguire gli interventi salienti, oltre che nel sito del Paramento, anche su xxx.xxxxxxxxxxxx.xx
40 Nel suo messaggio alle Camere, il Presidente della Repubblica, dopo aver correttamente richiamato la giurisprudenza della Corte Costituzionale in tema di tutela del lavoratore in quanto contraente debole, passa a sottolineare l’inopportunità della sola clausola compromissoria omettendo, tuttavia, di considerare che quella stessa debolezza del lavoratore potrebbe indurlo a sottoscrivere anche un compromesso arbitrale vessatorio nel corso del rapporto di lavoro. Analoghe considerazioni possono svolgersi esaminando il testo del dibattito parlamentare sul punto.
In conclusione, non è dato proprio comprendere per quale ragione il legislatore abbia imboccato questa strana e tortuosa via che, più o meno consapevolmente, sembra mirare soprattutto a rendere più “agevoli” e meno tutelati gli atti dispositivi dei diritti del lavoratore dipendente42. Non pare certo questa la strada migliore per introdurre maggiore flessibilità nel nostro ordinamento giuslavoristico. Se si ritiene che alcuni vincoli posti all’autonomia privata siano eccessivi o superati, occorre, infatti, seguire la via maestra della riforma legislativa, preferibilmente sulla base di un dialogo leale e corretto con le forze sociali.
Oltretutto, è appena il caso di segnalare come l’adozione di simili avventate soluzioni, al limite dell’ipocrisia normativa, rischiano di creare non pochi problemi alle stesse aziende
che volessero utilizzarne gli istituti, in quanto il testo legislativo appare fortemente esposto
41 In giurisprudenza, sulla libera disponibilità del diritto alla impugnativa del licenziamento, v. da ultimo Cass., 19 ottobre 2009, n. 22105, in “Diritto & Giustizia”, 2009 che, in motivazione richiama anche Xxxx., 3 ottobre 2000, n. 13134; Cass., 24 marzo 2004, n. 5940; Cass.14 gennaio 1998, n. 304; Cass. civ., 28 marzo 2003, n. 4780. Questo, naturalmente, restando nei limiti di una utilizzazione fisiologica dell’arbitrato. Se si considerasse, invece, il caso patologico (e penalmente rilevante) del datore di lavoro che abusi della firma apposta dal lavoratore su un foglio bianco, così come innanzi descritto (v. nota n. 33), resterebbe il rischio che uno di quei fogli venga “utilizzato” anche dopo il licenziamento. Anche in relazione a questa ipotesi, però, il Collegato non ha abbassato gli attuali livelli di tutela poiché quel medesimo rischio era sussistente anche nel regime previgente in virtù della asserita libera disponibilità della impugnativa del licenziamento. In altre parole, anche prima del Collegato un datore di lavoro che si fosse fatto firmare un foglio in bianco e ne volesse abusare poteva (illecitamente) riempirlo con una semplice rinuncia del lavoratore all’impugnazione del licenziamento. Cosa (illecitamente) possibile anche oggi senza che sia stata resa più agevole dall’introduzione dell’arbitrato “selvaggio”.
42 SPEZIALE, 2011, 28, parla opportunamente di "volontà" del legislatore "di riformare il diritto del lavoro in via indiretta aggirando l'ostacolo delle norme inderogabili".
43 Le prime avvisaglie dei dubbi di costituzionalità sono rinvenibili nello stesso Messaggio alle Camere che peraltro richiama anche copiosi e consolidati orientamenti della Corte Costituzionale nei quali, come è noto, si attribuisce rilevanza costituzionale al principio della tutela del contraente debole; la Consulta non potrà certo ignorare questa netta presa di posizione della Presidenza della Repubblica. Ritiene altamente probabile la declaratoria di incostituzionalità PIVETTI, 2011, 171, cui si rinvia per ulteriori richiami alla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
44 Non rientra nell’economia di questo lavoro, ma sarebbe molto utile, se non altro al fine di affinare le tecniche legislative in materia, analizzare le ragioni del successo dell’arbitrato in questi due settori specifici. Probabilmente si scoprirebbe che le parti, e soprattutto il lavoratore, sono indotti a preferire l’arbitrato solo se questo è in grado di offrire qualcosa in più rispetto al giudizio pubblico: nel caso delle sanzioni disciplinari quel quid pluris è costituito dall’effetto immediatamente sospensivo della sanzione, connesso alla mera proposizione dell’impugnazione; nel caso del licenziamento dirigenziale l’arbitrato intersindacale è preferito semplicemente in ragione della carenza di tutela legale. A ciò si aggiunga, naturalmente, anche la brevità dei tempi del giudizio.
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