Lavoratore dipendente e associato in partecipazione: i criteri distintivi della giurisprudenza di legittimità
Lavoratore dipendente e associato in partecipazione: i criteri distintivi della giurisprudenza di legittimità
L’associazione in partecipazione (art. 2549 c.c.: «Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto») va ricompresa tra i rapporti associativi che sono caratterizzati dall’interesse comune al buon andamento di un’attività economica da cui dipende la soddisfazione di
ciascun associato. Questi rapporti sono ben distinti, in linea teorica, dal lavoro subordinato perché vi è una sostanziale diversità, fra le due categorie, degli interessi perseguiti dalle parti. L’associato che presta attività lavorativa, pur se frequentemente riceve direttive ed istruzioni dall’associante, è coinvolto direttamente nella gestione e nell’andamento dell’impresa appartenendogli la proprietà di mezzi di produzione e/o subendo gli effetti del risultato produttivo. Il dipendente, invece, mette a disposizione la propria attività perché sia utilizzata dal datore di lavoro per il perseguimento dei fini imprenditoriali, senza alcun coinvolgimento né collegamento del prestatore di lavoro alla gestione dell’azienda.
Nella prassi, può accadere che il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro venga utilizzato per eludere le norme che tutelano il lavoro subordinato, contrariamente a quanto previsto dalla legislazione. Per questo motivo diventa elemento essenziale individuare la vera natura del contratto in quanto non è sufficiente la qualificazione nominale del contratto stesso, che rappresenta solo uno degli elementi da prendere in considerazione. Ai fini della corretta qualificazione del rapporto occorre prendere in esame l’effettivo comportamento tenuto dalle parti nell’esecuzione del contratto e le concrete modalità di attuazione del rapporto. Le pronunce della Cassazione hanno sottolineato più volte come gli elementi distintivi del contratto in associazione siano i seguenti:
- l’associazione in partecipazione è caratterizzata dalla assunzione del rischio di impresa e, quindi, dall’incertezza rispetto alla percezione del reddito. A fronte dell’attività prestata, non vi è certezza del compenso che è in funzione del risultato dell’affare1;
- l’associato ha un potere di controllo sulla gestione economica dell’impresa e, in particolare, ha diritto al rendiconto;
- per individuare la vera natura del rapporto occorre prendere in esame l’effettivo comportamento tenuto dalle parti nell’esecuzione del contratto e le concrete modalità di attuazione del rapporto;
- l’imprenditore-associante non ha, nei confronti del lavoratore-associato, un potere gerarchico, direttivo e disciplinare, ma solo un generico potere di impartire direttive ed istruzioni2.
Pertanto, se tra l’associato e l’imprenditore associante risulta in concreto intercorrere un vero e proprio vincolo di subordinazione gerarchica e funzionale, il rapporto, benché formalizzato dalle parti in termini di associazione in partecipazione, di fatto potrebbe qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato. In particolare, laddove il contratto di associazione in partecipazione risultasse escludere ogni potere di controllo in capo all’associato o altrimenti prevedesse un esonero dell’associato da ogni rischio di impresa (ancor più nel caso in cui fosse in ogni caso concordata l’erogazione a favore dell’associato di un compenso per l’attività lavorativa), tali circostanze unite ad un inserimento organico del lavoratore nell’organizzazione aziendale, possono ritenersi sintomatiche della effettiva natura subordinata del rapporto di lavoro3.
In questo senso si è espressa anche una sentenza della Cassazione (n. 12261/2005) secondo la quale nell’associazione in partecipazione la mancanza di elementi quali l’esposizione dell’associato al rischio d’impresa ed il diritto ad un rendiconto periodico comporta il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato. La Corte, infatti, dopo aver rilevato che l’osservanza di orari precisi di lavoro e l’assoggettamento alle direttive dell’imprenditore possono assumere (anche) nel rapporto di lavoro
1 Cass. n. 19475/2003.
2 Cass. n. 1420/2002.
3 Cass. n. 1420/2002.
subordinato «sfumature molto attenuate a seconda degli aspetti del concreto rapporto di lavoro, come la natura intellettuale delle mansioni ed il livello (ricoperto dal lavoratore) nell’ambito dell’azienda» ha stabilito che «ai fini della differenziazione con l’associazione in partecipazione assumono rilievo determinante» elementi quali il diritto dell’associato al rendiconto periodico (art. 2552 c.c.) e la sua esposizione al rischio di impresa (anche se nei limiti di cui all’art. 2553 c.c.).
Al riguardo occorre, infatti, rilevare che la mancanza di un rischio di impresa a carico dell’associato fa venire meno la caratteristica della aleatorietà che come detto è, invece, tipica del contratto di associazione in partecipazione.
Inoltre, nell’ipotesi in cui l’associante non assolva all’obbligo del rendiconto e, di conseguenza, l’associato non partecipi in alcun modo alla gestione dell’impresa, né prenda visione del bilancio della società associante, viene di fatto a mancare l’esercizio di uno specifico diritto previsto a favore dell’associato. Con ciò evidenziandosi un ulteriore possibile elemento utile al riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato.
Altri elementi utili a ricondurre la fattispecie in esame nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato si riferiscono, poi, al fatto che gli associati nella loro attività lavorativa si attengano ad un determinato orario di lavoro e/o prestino l’attività quotidianamente, osservando il giorno di riposo coincidente con la domenica o, ancor più, percependo la tredicesima mensilità.
In questa prospettiva è intervenuto il d.lgs. n. 276/2003 che all’art. 85, comma 2, al fine di evitare elusioni della disciplina di legge e contratto collettivo, ha stabilito come, in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi senza effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni a chi lavora, il lavoratore abbia diritto ai trattamenti retributivi, contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, o in mancanza di contratto collettivo, in una corrispondente posizione secondo il contratto di settore analogo4. E ciò a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi, con idonee attestazioni o documenti, che la prestazione rientra in una delle tipologie di lavoro previste dal decreto medesimo, ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, ovvero in un contratto nominato di lavoro autonomo o altro contratto espressamente previsto dall’ordinamento.
La norma, quindi, introduce una presunzione legale di subordinazione, non assoluta, con inversione dell’onere della prova contraria in capo all’imprenditore associante, qualora nel rapporto di lavoro si verifichi la mancanza di «effettiva partecipazione» ed «adeguate erogazioni a chi lavora». Sarà l’associante, dunque, a dover dare la dimostrazione che, secondo il consolidato criterio di prevalenza, il rapporto di lavoro aveva i caratteri del lavoro autonomo o parasubordinato, piuttosto che quelli tipici del lavoro subordinato. A tal proposito si è sostenuto che tali mezzi di prova non potrebbero ritenersi limitati alle idonee attestazioni o documentazioni cui si riferisce l’art. 85 del predetto decreto legislativo. Infatti, se il nomen iuris non preclude al giudice la diversa qualificazione del contratto stesso, laddove emergano indici in tal senso, non sarebbe logico escludere per l’associante, cui a seguito dell’inversione dell’onere probatorio spetta provare la mancata ricorrenza del lavoro subordinato, la possibilità di avvalersi dei mezzi di prova che egli ritiene utili allo scopo, in primis anche la prova testimoniale.
La norma, pertanto, incide anche sui criteri di riparto dell’onere della prova esaminati. Xxxxxx, deve ritenersi che l’attore che rivendica il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato non è più onerato dalla dimostrazione dei fatti costitutivi il vincolo di dipendenza, potendosi limitare a dimostrare di non avere effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni. In tal caso il giudice dovrà attribuirgli un trattamento economico e normativo identico a quello del lavoratore subordinato. La disposizione, quindi, agevola l’onere della prova gravante sull’attore, spostando l’oggetto dell’indagine probatoria dai fatti costituivi di un rapporto di lavoro subordinato alla verifica (della carenza) dei requisiti indispensabili per il contratto di associazione in partecipazione (partecipazione agli utili e adeguate erogazioni). Sarà, invece, il datore di lavoro interessato a dimostrare la ricorrenza di ulteriori tipologie contrattuali rispetto al lavoro subordinato, a doverne fornire la relativa prova.
4 Art. 86, comma 2, d.lgs. n. 276/2003.
In sostanza, il d.lgs. n. 276/2003 rilevava che gli elementi di prova della genuinità del contratto stipulato fra le parti sono l’effettiva partecipazione agli utili e l’esistenza di adeguate erogazioni a chi lavora.
Per quanto concerne il primo punto si può presumere che se ciò non avviene l’associazione sia fittizia e simulata quando la partecipazione agli utili, pur formalmente promessa, non sia stata concretamente realizzata. Pertanto, l’associato (magari precedentemente già lavoratore subordinato presso la stessa impresa, oppure associato chiamato a sostituire altri lavoratori dipendenti per le stesse mansioni e con identiche modalità lavorative) potrebbe essere stato compensato con una retribuzione in misura fissa per il lavoro svolto. L’effettiva partecipazione, inoltre, deve identificarsi con quanto viene riconosciuto dalla legge all’associato in partecipazione e quindi non soltanto con la suddetta reale partecipazione agli utili dell’impresa ma soprattutto con il diritto all’effettiva verifica del rendiconto e alle altre eventuali forme di controllo previste dal contratto.
La presunzione che l’associazione mascheri un rapporto di lavoro subordinato sarà tanto più forte quanto più la quota di utili sia modesta o addirittura irrisoria. Infatti, si ritiene che quando la norma fa riferimento alle
«adeguate erogazioni a chi lavora» queste debbano derivare dalla sola partecipazione agli utili dell’impresa e non da altre forme di remunerazione minima garantita, anche perché si tratta di una clausola non espressamente prevista dal contratto di associazione in partecipazione (argomento molto dibattuto nelle sentenze, sebbene molte pronunce considerano tale minimo garantito un indice rivelatore del vincolo di subordinazione, che assieme agli altri indici di subordinazione individuati dalla giurisprudenza, può portare ad un giudizio di prevalenza dei caratteri tipici del lavoro subordinato su quelli propri dell’associazione in partecipazione). Comunque, non è da escludere in assoluto, nell’ipotesi di perdite o assenza di utili, che l’associante possa erogare delle somme di denaro all’associato: tale circostanza potrà verificarsi solo in virtù di una ragione giuridica diversa dall’apporto conferito. Infatti, un ulteriore principio di diritto, fissato dalla Cassazione5, prevede che «nel contratto di associazione di cui all’art. 2549 c.c., non ostandovi alcuna incompatibilità con il suddetto tipo negoziale, la partecipazione agli utili ed alle perdite da parte dell’associato può tradursi, per quanto attiene ai primi, nella partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quelli di singoli affari, sicché sotto tale versante non assume alcun rilievo ai fini qualificatori il riferimento delle parti contrattuali agli utili dell’impresa o viceversa ai ricavi per singoli affari; e per quanto attiene alle seconde – in ragione del rischio proprio della causale associativa del rapporto contrattuale – in un corrispettivo volto a prevedere, oltre alla cointeressenza negli utili, anche una quota fissa (da riconoscersi in ogni caso all’associato), di entità non compensativa della prestazione lavorativa e, comunque, non adeguata rispetto ai criteri parametrici di cui all’art. 36 della Costituzione».
«Il principio sopra enunciato – commentano i giudici della Suprema Corte - finisce per rappresentare un rilevante criterio differenziale tra le due figure contrattuali dell’associato in partecipazione e del rapporto di lavoro subordinato, nella misura in cui rimarca una diversa omogeneità di interessi tra associato e lavoratore subordinato, in ragione di un distinto e meno diretto coinvolgimento nelle fortune dell’impresa del secondo rispetto al primo, in considerazione principalmente delle sue ricadute in termini economici».
Rimarcata la distinzione tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato (da cogliersi, essenzialmente, nel diverso coinvolgimento del lavoratore rispetto alle vicende e all’andamento dell’impresa), la sentenza n. 9264/2007 rammenta che l’associato non può dolersi dell’esiguità dell’ammontare degli utili conseguiti, in quanto inidonei ad assicurare a lui ed alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. Nel caso di pattuizione di un compenso minimo garantito (possibilità ammessa dall’art. 86 del d.lgs. 276/2003) si ritiene che tale compenso vada rapportato in proporzione non solo all’entità dell’apporto versato ma altresì all’andamento della gestione. Xxxxxx, deve ritenersi che l’esiguità delle erogazioni percepite dall’associato attesterà l’intento fraudolento solamente nella misura in cui risulti assolutamente sproporzionato (in senso inverso) ai risultati gestionali.
Si evidenzia, a tal proposito, che improntare un giudizio di non genuinità dell’associazione in partecipazione sull’assenza di adeguate erogazioni rispetto a quanto normalmente viene riconosciuto ai lavoratori subordinati, risulterebbe distonico rispetto alla natura della tipologia contrattuale in esame.
5 Cass. sez. lav., n. 9264/2007.
Il compenso riconosciuto al vero associato, infatti, per sua natura, non può essere parametrato alla contrattazione collettiva6. Pertanto autorevole dottrina sostiene che «il requisito delle adeguate erogazioni è decisamente innovativo, imponendo un giudizio di congruità tra i proventi dell’associato e il valore dell’apporto lavorativo, che in precedenza rilevava solo come limite della partecipazione alle perdite.
Tuttavia la valutazione di adeguatezza non può prescindere dall’andamento della gestione, che può essere tale da imporre sacrifici anche al lavoratore associato. Sicché la modestia delle erogazioni equivale ad inadeguatezza attestante la frode solo laddove il risultato della gestione avrebbe consentito l’attribuzione di proventi più congrui»7.
La sentenza n. 9264/2007 offre lo spunto per effettuare una ricognizione sulla evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia di elementi distintivi tra fattispecie di lavoro autonomo, o parasubordinato, ed attività lavorativa di natura subordinata.
Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità
Qualsiasi tipo di prestazione lavorativa può ricadere tanto nel genus del rapporto di lavoro autonomo quanto in quello del lavoro subordinato: tale principio è stato ritenuto generalmente valido anche nell’ambito del rapporto di associazione in partecipazione. Pertanto, pur se la volontà delle parti è stata consacrata in un contratto avente forma scritta, sarà necessario verificare nel concreto se tale volontà sia o meno genuina ovvero sia invece frutto di un contratto simulato oppure se quanto dedotto contrattualmente si sia effettivamente realizzato nel corso del rapporto. Inoltre, occorre ricordare che la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nella iniziale stipulazione del contratto non è da sola determinante ai fini della qualificazione del primo, atteso che nei rapporti di durata il comportamento delle parti nel corso dello stesso può esprimere tanto una diversa effettiva volontà contrattuale, quanto una nuova diversa volontà.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale è centrale l’assolvimento all’onere di rendicontazione da parte dell’associante all’associato, mentre per il resto la Cassazione utilizza i noti criteri qualificatori nella distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato8.
Nel 1991 la Cassazione civile, con la sentenza n. 9671 – in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa – ha sancito il seguente principio: “la riconducibilità del rapporto all’uno o all’altro degli schemi predetti esige un’indagine del giudice del merito (il cui accertamento, se adeguatamente e correttamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità) volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro), il rapporto di lavoro subordinato implica un effettivo vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato9.
Successivamente10 la Corte ha affermato che la qualificazione formale del rapporto effettuata dalle parti al momento della conclusione del contratto, pur non essendo decisiva, non è tuttavia irrilevante e pertanto, qualora a fronte della rivendicata natura subordinata del rapporto venga dedotta e documentalmente provata l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, l’accertamento del giudice di merito deve essere molto rigoroso (potendo anche un associato essere assoggettato a direttive ed istruzioni nonché ad una attività di coordinamento latamente organizzativa) e non trascurare nell’indagine aspetti sicuramente riferibili all’uno o all’altro tipo di rapporto, quali, per un verso, l’assunzione di un rischio economico e
6 X. Xxxxxxxxx, Il lavoro nell’associazione in partecipazione, in Approfondimenti di Diritto e Pratica del Lavoro, 2009, n. 17.
7 X. Xxxxxxxxx, Istituzioni di diritto del lavoro, Padova, 2005, 85.
8 Cass. n. 2693/2001; Cass. n. 1188/2000; Cass. n. 290/2000; Cass. n. 8578/1999; Cass. n. 655/1999; Cass. n. 11222/1998).
9 Così anche Xxxx. 16 febbraio 1989 n. 927.
10 Cass. n. 20002/2004.
l’approvazione di rendiconti e, per altro verso, l’effettiva e provata soggezione al potere disciplinare del datore di lavoro. Alla stregua di quanto affermato, la Suprema Corte, con la suddetta pronuncia, ha fissato il seguente principio di diritto – “di generale portata applicativa e di frequente operatività nell’area giuslavoristica e che il giudice di rinvio dovrà, pertanto, tenere presente nella rivalutazione dell’intero materiale probatorio” – secondo cui “il riferimento al nomen iuris dato dalle parti al negozio, risulta di maggiore utilità rispetto alle altre – in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due (o più) figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili, non potendosi negare che quando la volontà negoziale si è espressa in modo libero (in ragione della situazione in cui versano le parti al momento della dichiarazione) nonché in forma articolata, sì da concretizzarsi in un documento, ricco di clausole aventi ad oggetto le modalità dei rispettivi diritti ed obblighi, il giudice deve accertare in maniera rigorosa se tutto quanto dichiarato nel documento si sia tradotto nella realtà fattuale attraverso un coerente comportamento delle parti stesse. La valutazione del documento negoziale, tanto più rilevante quanto più labili appaiono i confini tra le figure contrattuali astrattamente configurabili, non può, dunque, non assumere un’incidenza decisoria anche allorquando tra dette figure vi sia quella del rapporto di lavoro subordinato”.
Xx xxxxxxxxx xxx 0000 xxxxxxxx xx xxxx che attribuisce valore significativo alla formale qualificazione del rapporto di lavoro operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale.
La giurisprudenza di legittimità più risalente attribuiva valore esclusivo alle risultanze probatorie emerse in giudizio concernenti le modalità concrete di svolgimento del rapporto, senza far riferimento al nomen iuris attribuito dalle parti al contratto11. Secondo la giurisprudenza consolidata gli elementi qualificanti il rapporto di lavoro subordinato, in sede di valutazione comparativa con altre fattispecie caratterizzate dall’autonomia della prestazione, consistevano nell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro (con la conseguente limitazione della sua autonomia) e nel suo inserimento nell’organizzazione aziendale.
La giurisprudenza più recente ha confermato i tratti caratteristici del vincolo di subordinazione così come enucleati dal pregresso orientamento ma ha, altresì, attribuito rilevanza alla qualificazione del rapporto così come stabilita dalle parti con il contratto di lavoro, ritenendo imprescindibile una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale quale voluto dalle parti e quale, in concreto, posto in essere.
Secondo questo orientamento giurisprudenziale, la formale qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale va tenuta in considerazione anche se non può essere ritenuta determinante e non esime il giudice dal puntale accertamento del comportamento in concreto tenuto nell’attuazione del rapporto, posto che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo al fine di eludere la disciplina legale in materia, ovvero, pur esprimendo al momento della conclusione del contratto una volontà autentica, potrebbero, nel corso del rapporto (trattandosi di rapporto di durata), aver manifestato, con comportamenti concludenti, una diversa volontà12.
È stato recentemente rilevato che13 «…la valorizzazione dell’assetto negoziale stabilito originariamente dalle parti deriva, linearmente, dall’applicazione della regola legale in materia di riparto degli oneri probatori dettata dall’art. 2697 codice civile. Invero, quando una parte agisca in giudizio per ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro di natura subordinata, nonostante la stipulazione di un contratto di associazione in partecipazione (o di altro contratto di lavoro autonomo), dovrà provarne gli elementi costitutivi indispensabili per la produzione dell’effetto perseguito. Qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria circa le modalità concrete di esecuzione del contratto stipulato tra le parti, il giudice deve ritenere che l’onere della prova a carico dell’attore non sia stato assolto, e, muovendo dalla documentazione versata in atti, dovrà escludere che sia intervenuta una simulazione o una modifica, nel corso del rapporto, dell’assetto negoziale così come stabilito con l’atto iniziale14. A fronte di risultanze
11 Cass. n. 12052/1992; Cass. n. 9671/1991; Cass. n. 927/1989.
12 Cass. n. 4500/2007; Cass. n. 15327/2006; Cass. n. 13872/2004; Cass. 10043/2004.
13 E. Boghetich, Commento a Cass. sez. lavoro, n. 9264/2007 in MGL. 2007, 780.
14 Cfr. in tal senso Cass. n. 21028/2006 in NGL, 2006, 737 e Cass. NN. 20361/2005; in parziale contrasto sembrerebbe Cass. n. 24781/2006 secondo la quale «ove la prestazione lavorativa (dell’associato in partecipazione) sia inserita stabilmente nel contesto
probatorie insufficienti a dimostrare l’iniziale simulazione del contratto o il sopravvenuto mutamento di intenti delle parti, e, quindi, in assenza di concreti elementi concernenti il vincolo di soggezione che di fatto avrebbe astretto il lavoratore nel corso del rapporto di lavoro, il giudice non potrà sottrarsi dall’attribuire valore determinante ai documenti (ritualmente) acquisiti al processo e tesi a provare la natura autonoma del rapporto, con conseguente soccombenza dell’attore».
In conclusione, la sentenza n. 9264/2007 conferma l’orientamento giurisprudenziale già formatosi precedentemente, in particolare richiamando la sentenza n. 20002/2004, specificando la rilevanza da attribuire alla qualificazione formale del rapporto data dalle parti in tutte quelle fattispecie ove si controverte sulla natura (autonoma o subordinata) della prestazione lavorativa resa. “Il contratto stipulato tra le parti deve rappresentare l’oggetto della valutazione del giudice congiuntamente (e comparativamente) alle risultanze probatorie circa le modalità concrete di svolgimento del rapporto di lavoro, al fine di verificare se la pattuizione stipulata sia stata effettivamente eseguita ovvero abbia costituito un mero schermo fittizio per eludere la disciplina legale vigente in materia di lavoro subordinato (ovvero sia stata rimeditata in corso di esecuzione). La valutazione del documento si rivela tanto più importante quanto più si presenta difficile il compito di rintracciare gli elementi distintivi tra le fattispecie giuridiche, posto che deve ritenersi espressione di volontà esplicitate in una fase in cui i contraenti erano liberi di determinarsi secondo assetti che più ritenevano consoni ai loro interessi. Inoltre, la presenza di una pattuizione elaborata, articolata in più clausole che regolino i vari aspetti e momenti del rapporto di lavoro da realizzare, è sintomo di specifico e più ampio interesse dell’associato all’andamento dell’impresa piuttosto che ad un mero apporto di attività lavorativa. In assenza di elementi probatori sufficienti a dimostrare l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato appare determinante la pattuizione stipulata tra le parti, dovendosi ritenere che le parti non hanno inteso modificare quell’assetto di interessi originariamente concordato”15.
In ordine all’elemento distintivo rappresentato dalla partecipazione agli utili quale corrispettivo per l’apporto lavorativo prestato (soggetto ad un apprezzabile rischio) si segnala, in primis, la decisione del 9 novembre 1992, n. 12052 con la quale si specificava che per l’associazione in partecipazione con apporto della sola attività lavorativa non trova applicazione il principio della retribuzione sufficiente sancito dall’art. 36 della Costituzione con esclusivo riguardo al lavoro subordinato. Fra le pronunce più o meno recenti si cita la n.
1420/2002 con la quale viene confermata la sussistenza della subordinazione di due lavoratrici che, addette insieme ad altri lavoratori in posizione di minore responsabilità, ad un negozio di abbigliamento ricevevano
– in contrasto con quanto stabilito nel contratto – una retribuzione fissa, erano tenute al rispetto di un orario rigido corrispondente a quello di apertura del negozio, rimanevano assoggettate a direttive e istruzioni impartite da persona delegata dal datore di lavoro. In particolare, nel corso di un’ispezione effettuata dall’Inps nei confronti di una ditta di abbigliamento veniva contestata la validità di alcuni contratti di associazione in partecipazione stipulati dalla ditta con due lavoratrici. La simulazione del contratto veniva ritenuta dall’ente previdenziale sia alla luce della retribuzione fissa percepita dalle lavoranti sia per effetto del loro inserimento organico nel ciclo produttivo con assoggettamento alle direttive dei preposti della ditta. All’esito del giudizio di opposizione all’ingiunzione per il pagamento dei contributi evasi richiesti dell’ente previdenziale, il Pretore di Ferrara rigettava la domanda con sentenza confermata in sede di appello. Nel rigettare il ricorso avverso la sentenza di appello, la Corte di Cassazione, ha ritenuto che correttamente la sentenza di secondo grado aveva escluso l’esistenza di un valido contratto di associazione in partecipazione stante l’erogazione fissa e periodica di compensi legati agli incassi anziché agli utili unitamente al mancato riconoscimento di un diritto di accesso alla contabilità dell’impresa accompagnato da una sottoposizione a pregnanti direttive da parte del titolare.
Xxxxxxx, infatti, la Suprema Corte – disattendendo un precedente contrario – che nel contratto di associazione in partecipazione, che mira nel quadro di un rapporto sinallagmatico con elementi di aleatorietà, al perseguimento di finalità in parte analoghe a quelle dei contratti societari, è elemento
dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio di impresa e senza ingerenza nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favore accordato dall’art. 35 Cost. che tutela il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”».
15 E. Boghetich, Commento a Cass. sez. vavoro, n. 9264/2007 in MGL, 2007, 780.
costitutivo essenziale la pattuizione a favore dell’associato di una prestazione correlata agli utili di impresa e non ai ricavi i quali ultimi rappresentano in sé un dato non significativo circa il risultato economico effettivo. La Corte, pertanto, ha ritenuto la validità dell’iter logico della sentenza del Tribunale di Ferrara che, in presenza di un contratto di associazione invalido, ha ritenuto sussistente una fattispecie di lavoro subordinato una volta verificato che la prestazione delle lavoranti era caratterizzata da un inserimento organico con soggezione ai poteri gerarchico-organizzativi del titolare dell’impresa.
Interessante è la pronuncia n. 1935/2003 la quale ha affermato che per rivendicare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato è necessario che il dipendente sia sottoposto al potere organizzativo, gerarchico e disciplinare dell’imprenditore, mentre non è sufficiente la mera ricezione di indicazioni e suggerimenti. Il datore di lavoro può impartire direttive in ordine allo svolgimento dell’attività anche ai lavoratori autonomi, ai soci di fatto e agli associati in partecipazione, senza che scatti il rapporto di subordinazione, quando è necessario sopperire alla loro minore esperienza o risulti opportuno per coordinare al meglio le attività produttive.
Altra sentenza è la n. 12261/2005. Nella fattispecie la Suprema Corte si è pronunciata sul caso di un biologo analista che aveva stipulato un contratto di associazione in partecipazione con la stessa società di cui era stato in precedenza dipendente con qualifica di direttore tecnico. La stipula del contratto di associazione in partecipazione era seguita al licenziamento del dipendente stesso alcuni anni addietro. Nel caso esaminato dalla Corte il lavoratore aveva integralmente mantenuto le proprie mansioni avendo il compito, sia durante il rapporto di lavoro subordinato sia in vigenza del contratto di associazione in partecipazione, di sovrintendere al funzionamento del laboratorio di analisi della società. In seguito al successivo recesso comunicato dalla società il lavoratore si era, quindi, rivolto al giudice per il riconoscimento della natura subordinata del suo rapporto anche per il periodo susseguente la stipula del contratto di associazione. La Corte, dopo aver rilevato che l’osservanza di orari precisi di lavoro e l’assoggettamento alle direttive dell’imprenditore possono assumere (anche) nel rapporto di lavoro subordinato sfumature molto attenuate a seconda degli aspetti del concreto rapporto di lavoro, come la natura intellettuale delle mansioni ed il livello (ricoperto dal lavoratore) nell’ambito dell’azienda, ha stabilito che “ai fini della differenziazione con l’associazione in partecipazione assumono rilievo determinante” elementi quali il diritto dell’associato al rendiconto periodico (articolo 2552 c.c.) e la sua esposizione al rischio di impresa (anche se nei limiti di cui all’articolo 2553 c.c.). Nel caso di specie la Corte avendo ravvisato che, dopo la stipula del contratto di associazione, le concrete modalità di esplicazione dell’attività lavorativa del lavoratore non erano mutate, che allo stesso non era mai stato reso un rendiconto periodico e che la sua retribuzione non aveva mai subito modifiche, pur in presenza di consistenti variazioni di bilancio, ha respinto il ricorso della società riconoscendo la natura subordinata del rapporto di lavoro.
Un cenno merita la sentenza n. 45257/2005 della terza sezione penale della Cassazione, attraverso la quale il legale rappresentante di una s.r.l. viene condannato per il reato di cui all’art. 37, l. n. 689/81. La pronuncia sottolinea che commette il reato di cui all’art. 37, l. n. 689/81 colui che, al fine di non versare i contributi previdenziali ed assistenziali, abbia omesso di denunciare all’Inps il rapporto di lavoro subordinato di fatto instaurato con i lavoratori, nonostante che con essi risulti formalmente stipulato un contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato.
La questione riguarda il mancato versamento contributivo per dieci dipendenti (con i quali è stato stipulato un contratto di associazione in partecipazione) per i quali la Corte ha accertata la natura del rapporto subordinato tra la società e le lavoratrici. La Corte ha rilevato la presenza di particolari indici altamente sintomatici quali: l’erogazione di una retribuzione fissa pari a ottomila lire l’ora, la mancata partecipazione agli utili e alle perdite dell’impresa; l’esercitare il potere gerarchico attraverso l’organizzazione ed il controllo del lavoro; lo stabilire l’orario di lavoro attraverso un preposto di fiducia della società stessa.
La Corte ha ricordato che per distinguere tra rapporto di lavoro subordinato ed associazione in partecipazione con apporto della prestazione lavorativa occorre, in concreto, riferirsi agli elementi caratterizzanti dell’una o dell’altra tipologia. Seguendo l’indirizzo delle Sezioni Civili, l’elemento caratterizzante che distingue l’associazione in partecipazione dalla prestazione subordinata è dato dal rischio d’impresa che, nella seconda, grava solo sul datore di lavoro, mentre nell’associazione non è limitato
all’associante, ma si estende anche all’associato, il quale partecipa agli utili ed alle perdite dell’impresa. Da ciò ne consegue che “se da una parte l’associante conserva il potere di gestione dell’impresa, dall’altro l’associato ha un potere di controllo, al quale corrisponde un obbligo di rendiconto da parte del primo (articolo 2552 c.c.) e che, quindi, il rapporto tra associante ed associato è di tipo collaborativo più che di tipo gerarchico, potendo il primo solo impartire generiche direttive ed istruzioni in ordine alla gestione dell’attività imprenditoriale, ma non disporre sanzioni disciplinari”. Al contrario nel rapporto di lavoro subordinato al datore di lavoro compete, in dipendenza del suo esclusivo rischio d’impresa, un vero e proprio potere gerarchico e disciplinare, mentre al lavoratore, che essenzialmente non partecipa agli utili e alle perdite, compete una retribuzione in senso tecnico, come corrispettivo delle sue prestazioni lavorative.
Da quanto sopra la terza Sezione penale ha accertato gli estremi materiali e psicologici del reato ed ha ritenuto che l’imputato, nella sua qualità di datore di lavoro, fosse tenuto a denunciare il rapporto di lavoro subordinato agli istituti previdenziali.
La giurisprudenza più recente
In genere, quindi, la giurisprudenza ritiene che al fine di stabilire se lo svolgimento della prestazione lavorativa sia riconducibile ad un rapporto di lavoro subordinato o ad un contratto di associazione in partecipazione, è necessario compiere un’approfondita indagine, in quanto il rapporto di associazione in partecipazione implica una serie di obblighi.
Le pronunce fra il 2006 ed il 2007 non fanno altro che confermare quanto sin qui più volte esposto, ovvero:
- l’obbligo del rendiconto periodico da parte dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa; diversamente, nel lavoro subordinato l’elemento fondamentale è dato dal vincolo di subordinazione, più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive ed istruzioni all’associato all’xxxxxxx00;
- se risulta complessa la valutazione della partecipazione al rischio economico, così come l’individuazione degli elementi di cui al punto precedente, un aiuto, secondo la giurisprudenza, potrebbe arrivare dal regolamento pattizio voluto dalle parti e concretamente posto in essere;17
- la linea di demarcazione tra l’associazione in partecipazione ed il lavoro subordinato nella presenza, in seno al secondo, di un vincolo personale di maggiore intensità tra le parti rispetto a quello derivante dal generico potere dell’associante di impartire istruzioni all’associato18.
Ritornando all’aspetto legato alla partecipazione agli utili si rammenta che la giurisprudenza, mentre appare consolidata nel ritenere che la partecipazione al rischio di impresa da parte degli associati caratterizza la causa tipica dell’associazione in partecipazione, risulta invece diversamente orientata quanto alla necessità, per configurare la medesima fattispecie legale, dell’associazione in partecipazione, la divisione delle perdite. Ed infatti, mentre la citata sentenza n. 19475/2003 afferma che l’associato lavoratore deve partecipare sia agli utili che alle perdite, viceversa Cassazione n. 24871/2008 afferma che – in tema di distinzione fra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell’impresa – la causa del primo è ravvisabile nello scambio tra l’apporto dell’associato all’impresa dell’associante ed il vantaggio economico che quest’ultimo si impegna a corrispondere all’associato medesimo. Non costituiscono elementi caratterizzanti del contratto, invece, sia la partecipazione alle perdite, atteso che l’associato che lavori in un’impresa con risultati negativi comunque è soggetto in senso lato ad un rischio economico19.
Con la pronuncia del febbraio 2009 la Corte di Cassazione ha ritenuto di dare continuità a questo orientamento, così argomentando: «in primo luogo la divisione delle perdite non viene considerato dalla legge quale elemento imprescindibile per la configurazione della fattispecie, dal momento che l’art. 2553 c.c., pur prevedendola in via generale, ammette che le parti possano derogarvi, limitando la divisione ai soli
16 Cass. n. 8465/2007.
17 Cass. n. 24781/2006.
18 Cass. n. 12357/2007.
19 Cass. sez. lav., n. 3894/2009.
utili, il che non fa venir meno il carattere aleatorio del contratto, dal momento che, in caso di mancanza di utili, l’apporto lavorativo dell’associato è destinato a rimanere senza compenso. Non vi è possibilità di confusione con il rapporto in regime di subordinazione, in cui la partecipazione agli utili eventualmente pattuita tra le parti, non può considerarsi come integralmente satisfattoria della prestazione lavorativa, nel senso che, in mancanza di utili, il lavoratore avrà pur sempre diritto alla retribuzione congrua e sufficiente ex art. 36 Cost.».
La pronuncia è emessa nell’ambito di un giudizio di opposizione a sanzione amministrativa in materia di lavoro: il Tribunale accoglieva l’opposizione proposta dall’impresa – sanzionata per il mancato versamento dei contributi assicurativi relativi ad alcuni soggetti individuati come suoi dipendenti dall’Ufficio del lavoro
– ritenendo che dal contesto istruttorio emergesse la prova non di un rapporto di subordinazione, ma di un rapporto di associazione in partecipazione, caratterizzato dalla partecipazione ai ricavi (ma non anche alle perdite), mentre il rispetto di un orario di lavoro e la garanzia di un guadagno minimo, in assenza di un vincolo di subordinazione, non valgono ad escludere un rapporto di tipo associativo. Proponeva ricorso per Cassazione la competente Direzione provinciale del lavoro, sostenendo che nel caso di specie sarebbe da escludere l’associazione in partecipazione, in quanto i presunti associati avevano diritto ad una percentuale non degli utili dell’impresa, ma dei ricavi mensili del singolo punto vendita, e non partecipavano alle perdite. La Corte rigetta il ricorso.
Sotto l’aspetto che qui si vuole esaminare la recente sentenza contrasta con la pronuncia risalente al febbraio 2002 (n. 1420) con la quale si è affermato che nel contratto di associazione in partecipazione è elemento costituivo essenziale la pattuizione a favore dell’associato di una prestazione correlata agli utili dell’impresa, e non ai ricavi, i quali ultimi – afferma la Corte – rappresentano un dato non significativo circa il risultato economico effettivo dell’attività di impresa. «Viceversa con la già citata sentenza 24871/2008 si è affermato che non costituisce elemento caratterizzante del contratto la circostanza che la partecipazione possa essere commisurata al ricavo dell’impresa anziché agli utili netti, in quanto l’art. 2553 c.c., consente alle parti di determinare la quantità della partecipazione dell’associato agli utili20». «Ed ancora – si legge nel testo della pronuncia – con la sentenza n. 9264 del 18 aprile 2007 si è affermato che nel contratto di associazione di cui all’art. 2549 c.c., non ostandovi alcuna incompatibilità con il suddetto tipo negoziale, la partecipazione agli utili ed alle perdite da parte dell’associato può tradursi, per quanto attiene ai primi, nella partecipazione ai globali introiti economici dell’impresa o a quelli di singoli affari, sicché sotto tale versante non assume alcun rilievo ai fini qualificatori il riferimento delle parti contrattuali agli utili dell’impresa o viceversa ai ricavi per singoli affari. Il Collegio condivide l’orientamento da ultimo citato, giacché essendo le parti libere di determinare la partecipazione economica dell’associato, questa può ben essere commisurata ai soli ricavi, perché in tal caso l’associato, da un lato corre sicuramente il rischio di impresa, e, dall’altro, non viene meno quella omogeneità di interessi tra le parti contraenti che la contraddistingue e la differenzia dal rapporto di lavoro subordinato, non essendovi dubbio che, anche con la partecipazione ai ricavi, sussiste pur sempre un diretto coinvolgimento dell’associato nelle fortune dell’impresa». Nella fattispecie oggetto della predetta pronuncia (un giudizio di opposizione a sanzione amministrativa in materia di lavoro), la Corte ha affermato che la concreta attuazione di un rapporto di associazione in partecipazione, una volta verificatane la corrispondenza con l’assetto contrattuale voluto dalle parti, è derivata dalla dimostrazione della presentazione di un regolare rendiconto in relazione al fatturato del negozio e dalla mancanza di direttive riguardo all’orario di lavoro e all’organizzazione dell’attività. Ha, quindi, pronunciato la seguente massima:
«E’ associazione in partecipazione anche quando il guadagno dell’associato è collegato al fatturato. E l’assenza di direttive sull’orario e sull’organizzazione dell’attività escludono il rapporto subordinato con retribuzione connessa agli utili dell’impresa. La partecipazione dell’associato, infatti, può essere commisurata anche ai soli ricavi».
Recentissima è Cassazione civile, sez. lav, n. 7586/2009 che ha pronunciato la seguente massima: «In tema di distinzione fra contratto di lavoro subordinato e contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato,
20 Cass. n. 3894/2009.
l’elemento differenziale risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione lavorativa dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa, dovendo egli partecipare sia agli utili che alle perdite».
Secondo la Suprema Corte il sinallagma del contratto è costituito dalla partecipazione agli utili (e quindi al rischio d’impresa, di norma esteso anche alla partecipazione alle perdite) a fronte di un «determinato apporto» dell’associato, che può consistere anche nella prestazione lavorativa del medesimo. In tal caso l’associato che offre la propria prestazione lavorativa si inserisce nell’assetto organizzativo aziendale e quindi – essendo la gestione dell’impresa nella disponibilità dell’associante (art. 2552, c.c., comma 1) – si sottopone al potere direttivo di questi. È ben possibile quindi che l’espletamento della prestazione lavorativa assuma caratteri in tutto simili a quelli della prestazione lavorativa svolta nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato. Ed allora – chiarisce il Collegio di Cassazione – l’elemento differenziale tra le due fattispecie risiede essenzialmente nel contenuto effettivo del rapporto stesso, piuttosto che nella previsione pattizia prevista dalle parti; e tale accertamento implica necessariamente una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale dichiarato dalle parti e quale in concreto posto in essere. Ed anzi la possibilità che l’apporto della prestazione lavorativa dell’associato abbia connotazioni in tutto analoghe a quelle dell’espletamento di una prestazione lavorativa in regime di lavoro subordinato comporta che il fulcro dell’indagine si sposta soprattutto sulla verifica dell’autenticità del rapporto di associazione. Dai principi così enunciati dalla Suprema Corte, consegue la necessità dell’esatta identificazione delle connotazioni del rapporto intercorso in concreto tra le parti, avendo il Collegio evidenziato che ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro, come autonomo o subordinato, è necessario avere riguardo al contenuto effettivo del rapporto stesso, indipendentemente dal nomen iuris usato dalle parti. Ciò non comporta che la dichiarazione di volontà di queste in ordine alla fissazione del contenuto del detto rapporto debba essere stralciata nell’interpretazione del precetto contrattuale e che non debba tenersi conto della disciplina giuridica del rapporto prevista dalle parti nell’esercizio della loro autonomia contrattuale; tuttavia il nomen iuris utilizzato non ha rilievo assorbente, poiché nell’interpretazione della volontà delle parti, deve tenersi altresì conto del loro comportamento complessivo, anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362 c.c., comma 2), e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità delle prestazioni, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi, dato che la tutela relativa al lavoro subordinato non può essere elusa per mezzo di una configurazione pattizia non rispondente alle concrete modalità di esecuzione del rapporto.
Aspetti previdenziali ed assicurativi
Il d.l. n. 269/2003, convertito nella l. n. 326/2003, stabiliva, all’art. 43, comma 1 che, a partire dal 1° gennaio 2004, gli associati in partecipazione che percepiscono reddito da lavoro, devono versare ad un’apposita gestione Inps i contributi validi ai fini pensionistici alla stessa stregua dei collaboratori continuati e coordinati.
Successivamente l’art. 1, comma 157, l. n. 311/2004, ha disposto l’obbligo di iscrizione degli associati nella gestione separata istituita dalla l. n. 335/1995, sempre che l’associato non sia iscritto ad un albo professionale.
L’obbligo previdenziale scatta solo per chi apporta esclusivamente lavoro. L’aliquota contributiva è stata di recente rideterminata dalla circolare Inps n. 13/2009 nella misura del 25,72% per i soggetti non assicurati presso altre forme pensionistiche obbligatorie; 17% per i soggetti titolari di pensione o provvisti di altra tutela pensionistica obbligatoria.
È invece rimasta immutata la ripartizione dell’onere contributivo tra associato e associante: il primo concorrerà a tale adempimento nella misura del 45% mentre il secondo per il 55%.
Il versamento dei contributi deve essere eseguito dall’associante entro il 16 del mese successivo a quello in cui è avvenuta la corresponsione del compenso.
Anche per gli associati che apportano lavoro manuale o sovrintendono al lavoro altrui è prevista
l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. A partire dal 23 luglio 199221 la posizione assicurativa degli associati in partecipazione è stata equiparata a quella dei soci d’opera. Tuttavia, a differenza di quanto accade per i soci d’opera, l’associante sarà tenuto a denunciare all’Inail la posizione lavorativa dell’associato attraverso la comunicazione obbligatoria telematica ai Servizi per l’Impiego e non con la denuncia nominativa. Il calcolo dei premi va effettuato considerando, in particolare, la retribuzione dei prestatori d’opera della stessa qualifica e professione e della stessa località22.
Per quanto concerne gli adempimenti legati all’entrata in vigore del libro unico del lavoro, la circolare del Ministero del lavoro n. 20/2008, in ossequio a quanto previsto dall’art. 39, l. n. 133/2008, precisa che l’iscrizione degli associati in partecipazione sul libro unico del lavoro, andrà effettuata anche nell’ipotesi di apporto misto di capitale/lavoro; il chiarimento ministeriale prevede, infine, l’obbligo di annotazione sul libro unico della causale relativa alle assenze dei collaboratori autonomi (e quindi anche degli associati in partecipazione), quando queste hanno dei riflessi sugli istituti legali o prestazioni previdenziali.
Xxxxxxxx Xxxxxxxx
Ispettore del lavoro Direzione provinciale del lavoro di Frosinone
* Le considerazioni contenute nel presente intervento sono frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione alla quale appartiene.
21 Data di pubblicazione della sentenza n. 332/1992 della Corte costituzionale che sanciva il contrasto dell’art. 4, n. 7, del d.P.R. n. 1124/1965 con gli artt. 3 e 38 della Costituzione nella parte in cui non prevedeva l’assicurabilità degli associati/lavoratori.
22 X. Xxxxxxxxx, Adempimenti a tutela dell’associato, in Diritto e Pratica del Lavoro, 2009, n. 17.