L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI LAVORO
DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
Cattedra di diritto della contrattazione collettiva
L’EFFICACIA SOGGETTIVA DEL CONTRATTO COLLETTIVO DI LAVORO
RELATORE:
Xxxxx.xx Prof. Xxxxxxxx Xxxxxxx
CANDIDATO:
Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxx: 097843
CORRELATORE:
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
ANNO ACCADEMICO 2012-2013
INDICE
Considerazioni introduttive IV
CAPITOLO I
LAVORO E CONTRATTO COLLETTIVO
1. Breve storia della contrattazione collettiva… 1
1.1. Il contratto collettivo corporativo 5
1.2. Il contratto collettivo dal dopoguerra ad oggi: l’art. 39 della Costituzione 12
2. Il lavoro, il sindacato ed il contratto collettivo all’interno della Carta costituzionale 21
3. Il contratto collettivo: tipologia e struttura 25
3.1. I soggetti, le procedure di stipulazione, la forma ed i contenuti 33
3.2. L’efficacia del contratto collettivo nazionale… 41
3.2.1. L’efficacia oggettiva 42
CAPITOLO II
LA PROBLEMATICA DELL’EFFICACIA SOGGETTIVA
1. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo nazionale..49
2. Tecniche di estensione dell’efficacia soggettiva: volontà e libertà sindacale 53
2.1. Il dissenso e l’efficacia in nolentes: la legge 14 luglio 1959, n. 741 55
2.2. (Segue) La c.d. legislazione “promozionale” 60
2.3. (Segue) Gli interventi giurisprudenziali 70
2.4. La quaestio voluntatis come requisito dell’erga omnes: la clausola di rinvio 82
2.5. (Segue) L’iscrizione al sindacato 92
2.6. (Segue) L’adesione al contratto 97
3. Brevi cenni alla contrattazione collettiva aziendale 101
CAPITOLO III
LA STAGIONE DEL DISSENSO
1. I nuovi problemi dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo: il conflitto intersindacale e il Protocollo d’intesa del 31 maggio 2013 108
2. L’«aziendalizzazione» del diritto del lavoro 115
3. Gli accordi nazionali separati: validità ed efficacia 120
3.1. Gli accordi separati modificativi 130
3.2. Gli accordi separati sostitutivi 135
3.3. Gli accordi separati aziendali 138
4. Soluzioni al problema 140
5. Il caso Pomigliano d’Arco 147
Osservazioni conclusive 160
Bibliografia 163
Considerazioni introduttive
Una preliminare disamina sul modello italiano delle relazioni industriali si rende necessaria per introdurre un argomento ampio ed articolato come quello relativo al contratto collettivo.
Ogni sistema di relazioni industriali vive in un contesto giuridico fatto di regole più o meno istituzionalizzate. Nelle esperienze note ai paesi occidentali esso presenta solitamente una conformazione trilaterale, in cui lo Stato, l’impresa ed il sindacato sono gli artefici delle dinamiche relazionali.
Se in origine il contratto collettivo riproduceva sostanzialmente l’attenzione degli individui alla mera regolamentazione degli aspetti economici collegati alla prestazione lavorativa, oggi, invece, è divenuto uno strumento completo per la disciplina del rapporto di lavoro.
Uno dei motivi della sua evoluzione contenutistica e funzionale risiede, certamente, nella rapida trasformazione della nostra società (del lavoro) dove, a partire dall’esperienza corporativa sino a giungere alla recente democrazia parlamentare, il focus del legislatore e degli altri interpreti della vita sociale, si è sempre più spostato verso uno sguardo d’insieme.
Per esigenze di organicità, quindi, si ritiene opportuno passare in rassegna l’evoluzione storica ed il modus operandi del contratto collettivo nei suoi aspetti più caratterizzanti e controversi che hanno contraddistinto le diverse fasi della storia italiana.
Il contratto collettivo previsto dalla Carta del Lavoro del regime fascista rappresentava uno strumento di sintesi del superamento della lotta di classe mantenendo un’impostazione di tipo produttivistico.
L’ispirazione sottesa alla promulgazione della Carta era quella del sindacalismo fascista teso, pur con diverse e spesso conflittuali correnti, ad assicurare un processo di inclusione dell’individuo e del lavoratore all’interno delle strutture dello Stato, alla stregua dei sindacati che, dal 1926, divennero enti di diritto pubblico.
Si legge espressamente al punto IV “Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori, e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione”.
Il contratto collettivo stipulato dal sindacato corporativo era, dunque, efficace nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria professionale proprio perché i sindacati agivano come rappresentanti legali di chiunque facesse parte di quest’ultima.
Con la caduta del regime e la conseguente soppressione dell’ordinamento corporativo nel 1944, venne meno anche il contratto collettivo corporativo e, nel 1948, la promulgazione della Carta costituzionale, con particolare riferimento agli articoli 18 e 39, consacrò i principi di libertà di associazione e di libertà di organizzazione sindacale.
L’Italia sopravvissuta all’esperienza del regime fascista iniziava a respirare quell’aria di libertà ed i Costituenti decisero di infondere a “tutto tondo” anche all’organizzazione sindacale i
principi di pluralismo e democrazia attraverso cui intendevano modellare la neonata Repubblica.
Particolare attenzione, all’interno dell’analisi storica, sarà, dunque, dedicata all’avvento della Costituzione che ha avuto il merito di introdurre, oltre alle già citate libertà, il principio lavorista rinvenibile negli articoli 1 e 4, insieme a tutta una serie di norme incentrate sui diritti riconosciuti al lavoratore.
Da allora, tuttavia, l’efficacia soggettiva del contratto collettivo è sempre stato un tema continuamente dibattuto dal momento che la sua interpretazione discende dalla mancata piena applicazione dell’art. 39 della Costituzione.
Essendo i commi 2, 3 e 4 del suddetto articolo privi di efficacia diretta sull’ordinamento giuridico, i sindacati non hanno potuto registrarsi presso gli uffici nazionali, mantenendo la veste giuridica di enti di diritto privato, privi di personalità giuridica. La norma, è bene ricordarlo, conferisce efficacia erga omnes (per gli iscritti alla categoria cui il contratto si riferisce) per quei contratti collettivi stipulati dai sindacati che avessero osservato l’obbligo di registrazione.
Essendo delle vere e proprie associazioni di fatto, i sindacati hanno potuto stipulare dei contratti collettivi con natura di mere convenzioni, accordi vincolanti soltanto per gli iscritti alle associazioni. Ne consegue che i contratti collettivi non generano un’efficacia soggettiva obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce – diversamente dal dettato costituzionale – ma un’efficacia indotta dall’adesione volontaristica degli individui (iscritti) ai sindacati.
Di una legge attuativa del dettato costituzionale neanche l’ombra. O meglio, nessuno degli svariati tentativi del legislatore e della giurisprudenza – basti pensare all’infausta esperienza della Xxxxx Xxxxxxxxx – è stato capace di incidere con forza nelle trame dell’ordinamento sindacale e del lavoro.
A questi tentativi si aggiungano le soluzioni proposte dall’autonomia collettiva ed individuale, volte incessantemente a risolvere l’enigma della “parziale” applicazione delle discipline racchiuse nei contratti collettivi, che spesso non hanno persuaso gli addetti ai lavori.
Il tutto in una aggrovigliata e fittissima rete contrattuale che oggi si articola in diversi livelli (interconfederale, nazionale, territoriale, aziendale), un tempo saldamente ancorati ad un criterio gerarchico, oggi, sempre più in balia di una forza centrifuga che, sulla rotta di un criterio specialistico, li spinge, a vele spiegate, verso i lidi dell’autonomia.
Ma non è tutto. Come se non bastasse, sui delicati equilibri raggiunti faticosamente dagli interlocutori sindacali s’è abbattuta la più violenta tempesta che le relazioni industriali abbiano mai registrato.
Il dissenso che continua ad imperversare tra le maggiori confederazioni sindacali nazionali non aiuta, di certo, a superare l’impasse creatosi di recente ed anche il legislatore, depositario di quelle istanze volte a privilegiare la dimensione locale del fenomeno regolativo collettivo, ha causato non pochi scompensi.
La contrattazione c.d. di prossimità, introdotta con l’art. 8 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (convertito nella legge
14 settembre 2011, n. 148), nell’ambito di quelle misure a
sostegno dell’occupazione, ha inteso snellire le rigidità sistemiche che rendono farraginosa, a volte improba, la soluzione di problematiche strettamente legate a realtà locali o aziendali.
Attraverso la contrattazione di prossimità è possibile raggiungere intese a livello territoriale ovvero aziendale volte a regolare l’organizzazione del lavoro e della produzione e, con ciò, perseguire i fini della maggiore occupazione, dell’incremento della qualità dei contratti di lavoro e della condizione dei lavoratori, nonché della competitività dell’azienda o del polo aziendale.
A prima vista, quindi, l’intervento del legislatore sembrerebbe esonerato da qualsiasi osservazione critica; con un po’ di attenzione in più, però, recuperiamo nella norma la possibilità per le “intese” raggiunte su specifiche (ma non troppo) materie di operare anche in deroga alle disposizioni di legge. La portata della disposizione è, certamente, enorme e ha generato qualche grattacapo anche alle organizzazioni sindacali che, al momento, ne hanno inteso “congelare” gli effetti.
Alla luce di ciò, il compito che si prefigge l’autore di questo elaborato è quello di apportare un modesto contributo alla ricostruzione delle vicende più significative legate all’evolversi della problematica dell’erga omnes, al fine di esaminare quali possano essere le ripercussioni che possono determinarsi nell’attuale sistema delle relazioni industriali.
CAPITOLO I
“LAVORO E CONTRATTO COLLETTIVO”
1. Breve storia della contrattazione collettiva. 1.1. Il contratto collettivo corporativo. 1.2. Il contratto collettivo dal dopoguerra ad oggi: l’art. 39 della Costituzione. 2. Il lavoro, il sindacato ed il contratto collettivo all’interno della Carta costituzionale. 3. Il contratto collettivo: tipologia e struttura. 3.1. I soggetti, le procedure di stipulazione, la forma ed i contenuti. 3.2. L’efficacia del contratto collettivo nazionale. 3.2.1. L’efficacia oggettiva.
1. Breve storia della contrattazione collettiva
Il contratto collettivo, sin dalle sue prime elaborazioni, costituisce principale fonte di regolazione del rapporto individuale di lavoro.
Ci troviamo in presenza di uno strumento giuridico che si rivela assolutamente necessario per la concreta e dettagliata
1 RUSCIANO M., La difficile metamorfosi del contratto collettivo, in Scritti in onore di Xxxxxxx Xxxxx, Bari, 2008.
disciplina dei singoli rapporti di lavoro, nonché per le relazioni sindacali di ogni società industriale avanzata.
Questo delicatissimo compito, oggi, non può essere affidato in via esclusiva allo Stato che è, in quanto Istituzione, notevolmente distante dalle realtà da regolamentare. Motivo questo che ha spinto i principali protagonisti del mondo produttivo (imprese e sindacati) ad optare per l’autoregolamentazione, collocando in tal modo il contratto collettivo come fonte intermedia (dei rapporti di lavoro) tra la legge ed il contratto individuale.
Tutto ciò, però, è il risultato delle trasformazioni politiche, dottrinali e giuridiche che il nostro paese ha conosciuto ed attraversato, per lo più nel corso dell’ultimo secolo.
L’attuale sistema sindacale appare molto diverso, benché ancora in parte influenzato, rispetto a quello che l’ideologia politica del regime fascista aveva plasmato.
La storia ci ha consegnato un’immagine ben nitida del ventennio, dove lo Stato, inteso come nucleo di governo autoritario, era il solo organo a tenere ben salde le redini delle relazioni sindacali ed industriali della nostra penisola.
Il sistema sindacale di stampo corporativo, introdotto nel 1926, prevedeva che ogni categoria di datori di lavoro, lavoratori o professionisti, avesse una propria associazione di categoria, qualificata come persona giuridica di diritto pubblico tramite un provvedimento di riconoscimento da parte dello Stato.
Inoltre, il contratto collettivo corporativo esplicava la propria efficacia nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, iscritti o meno alle rispettive associazioni sindacali.
Xx è già in epoca fascista che la dottrina si preoccupò, sebbene in maniera netta e decisa, di colmare le differenze che storicamente hanno portato a qualificare il prestatore di lavoro quale “contraente debole” in contrapposizione al datore di lavoro.
A tal proposito il legislatore del ’26 (Reg. Sind. 1 luglio, n. 1130) ha previsto che in nessun caso i contratti individuali di lavoro, sottoscritti a livello delle singole imprese dal datore di lavoro e dai rispettivi lavoratori, potevano derogare in pejus alle previsioni del contratto collettivo di categoria.
Al contratto individuale, tuttavia, era data facoltà di stabilire eventuali deroghe migliorative rispetto a quanto già fissato dal contratto collettivo.
Tra l’altro, qualora le parti si fossero dimostrate incapaci di raggiungere un accordo, a ciò suppliva la Magistratura del lavoro (malgrado le esigue pronunce della stessa) con ampi poteri decisionali in merito all’assetto degli interessi da regolare, spogliando in questo modo il sindacato del suo diritto a dettare la disciplina del lavoro.
Questa della Magistratura del lavoro era una palese uscita di sicurezza del sistema, in quanto garantiva una regolamentazione dei rapporti in sintonia con la politica del regime, imperniata sui concetti di produttività dell’impresa, solidarietà economica e di interesse superiore della nazione.
In ragione di quanto appena rilevato, risulta di tutta evidenza come il problema dell’inderogabilità dei contratti collettivi non abbia minimamente impensierito la dottrina e la giurisprudenza dell’epoca, essendo, per l’appunto, obbligatoria la loro osservanza.
Il 1942 è l’anno dell’approvazione del codice civile, nel quale è ancora ben permeata l’ideologia fascista; dimostrazione lampante è data dall'incastro delle norme corporative nel complesso delle fonti del diritto.
Nonostante la successiva soppressione dell’ordinamento corporativo, avvenuta con il D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 369, il contratto collettivo corporativo non verrà abrogato.
Libertà sindacale che, ovviamente, non era assolutamente garantita nell’ordinamento fascista.
La nostra Carta costituzionale, entrata in vigore nel 1948, ha modificato il modello sindacale, pur prendendo spunto dalla precedente esperienza corporativa: il risultato è l’art. 39 della Costituzione, ove è tracciato uno schema che non ha ricevuto, col passare degli anni, una vera e propria attuazione completa.
Per quanti sforzi messi in atto dal legislatore, dalla dottrina, dalla giurisprudenza e dalle stesse parti sociali, non si è mai raggiunto un traguardo comune in grado di recidere il nodo gordiano dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo.
Problema quest’ultimo sempre corrente nel dibattito politico-sociale, vuoi per la centralità dell’argomento “lavoro” all’interno delle varie agende di governo, vuoi per il valore degli interessi confliggenti dei soggetti partecipanti alle dinamiche
2 LASSANDARI A., L’attività contrattuale nel settore privato, in Diritto del lavoro, AA.
XX. (x xxxx xx Xxxx), Xxxxxx, 0000.
sociali, che merita di essere esaminato più analiticamente nelle diverse fasi della storia del nostro paese.
1.1. Il contratto collettivo corporativo
La base dell’ordinamento sindacale e corporativo è costituita dalla legge 3 aprile 1926, n. 563. Si tratta di un’ampia delega legislativa al governo chiamato, all’art. 23, “a dare per regio decreto tutte le disposizioni necessarie per l’attuazione della legge e per il suo coordinamento con ogni altra legge dello Stato”.
Numerosi altri interventi legislativi e regolamentari hanno costituito la spina dorsale dell’ordinamento di stampo fascista; è il caso di menzionare, a proposito, la Carta del lavoro approvata il 21 aprile 1927, la quale connotandosi per una forte propulsione idealistico-programmatica, più che essere un vero e proprio atto giuridico rappresenta un documento politico fondamentale del regime.
La trasformazione giuridica attuata durante il regime fascista, anche attraverso l’emanazione di una corposa legislazione sociale 3, ha contribuito ad accrescere il potere dello Stato (rectius governo), considerato supremo tutore dell’interesse pubblico 4.
3 In riferimento alla legislazione sociale vedi X.X. 000/0000 (xxxxx tutela del lavoro delle donne e dei bambini), X.X. 000/0000 (xxxxx durata massima dell’orario di lavoro), X.X. 0000/0000 (xxxxx assicurazione contro la disoccupazione), X.X. 000/0000 (xxxxx esenzione tributaria per le famiglie numerose), X.X. 000/0000 (xxxx’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali), X.X. 000/0000 (xxxxx creazione dell’I.N.F.A.I.L.), X.X. 0000/0000 (xxxxx istituzione dell’I.N.F.P.S.),
X.X. 0000/0000 (xxxxx introduzione dell’assegno familiare).
4 BARASSI L., Diritto sindacale e corporativo, Milano, 1938.
Il corporativismo, esperienza già nota nel Medioevo quando i lavoratori si riunivano in “corpi sociali” sotto forma di associazioni per la tutela della propria categoria professionale fino ad ergersi quali controllori e garanti di alcuni rami della vita pubblica, assunse una precipua veste durante il ventennio. Proprio in quest’epoca, le corporazioni, che possono essere considerate antenate dei sindacati industriali, agirono nello Stato e per esso.
Il sindacato è considerato come l’ente pubblico cui si affida la tutela professionale della categoria nell’interesse dello Stato; la sua opera ausiliaria nei confronti del potere centrale è stata largamente avvalorata dalla dottrina del tempo, perché importante era tutelare i lavoratori e, pertanto, la produzione, considerata interesse nazionale.
Si può, allora, parlare di collaborazione in senso stretto, in riferimento al rapporto Stato – sindacato?
In uno scenario politico dove lo Stato ha sempre eroso qualsiasi profilo di pluralismo sociale e di libertà, è indubbiamente difficile parlare di collaborazione senza assegnare alla stessa una valenza a dir poco eufemistica.
L’egemonia del potere autoritario ha coinvolto il singolo individuo e, di conseguenza, anche tutti i settori della vita sociale ed associativa.
5 XXXXXXX L., Op. ult. cit, p.10.
Si comprende facilmente il modello del regime fascista, devoto al controllo totale ed assoluto su qualsiasi realtà oggettiva.
Lo Stato si è avvalso dell’apporto del sindacato, rispettandone l’autonoma gestione dell’interesse professionale, ma ne ha anche circoscritto in misura considerevole il raggio d’azione, indirizzandolo verso un obiettivo superiore: l’interesse della nazione.
L’associazione sindacale è inglobata nell’apparato statale, secondo quanto disposto dalla legge 3 aprile 1926, n. 563 (e relativo regolamento attuativo del 1 luglio 1926, n. 1130) 6, ed in seguito al riconoscimento, per mezzo di decreto, diventava così persona giuridica di diritto pubblico, sottoposta sempre ad un accorto controllo centrale.
6 Grazie all’emanazione di questa legge (conosciuta anche come xxxxx Xxxxx, dal nome del ministro dell’epoca) furono istituiti i sindacati fascisti e si garantì loro il monopolio per la rappresentanza dei lavoratori. Le corporazioni, che acquistarono la veste di organi di diritto pubblico, erano investite direttamente dalla legge di alcuni compiti, quali “conciliazione, coordinamento ed organizzazione della produzione”. L’approvazione di questa legge segnò la scomparsa dei sindacati non fascisti lasciando così il campo alle corporazioni, uniche associazioni che i lavoratori avrebbero potuto utilizzare per la tutela dei loro interessi professionali. E sempre a causa della xxxxx Xxxxx lo sciopero e la serrata furono repressi anche penalmente, privando le organizzazioni sindacali di qualsiasi forza di pressione sociale. Per completezza argomentativa è da ricordare come la Carta del lavoro contenesse al suo interno il concetto di “libertà sindacale”, pur inteso in senso autoritario, quindi un’enunciazione quasi superflua. Era teoricamente ammessa la costituzione di sindacati non riconosciuti, che però non furono mai organizzati, non solo per timore del regime fascista, ma anche a causa della mancanza di legittimazione che avrebbero riscontrato confrontandosi con i sindacati riconosciuti dallo Stato. La stessa Carta del lavoro acquistò pieno valore giuridico dopo oltre dieci anni (legge 30 gennaio 1941, n.14); le dichiarazioni al suo interno divennero
«principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato» con la funzione di «criterio direttivo per l’interpretazione e per l’applicazione della legge». Cfr. XXXXXXX L., Diritto corporativo e diritto del lavoro, Op. cit., e cfr. XXXXXXX M., La fase corporativa, in Persiani (a cura di), I, Padova, 2010.
Prima dell’emanazione della legge sindacale del regime, la disciplina del contratto collettivo seguiva le norme del diritto privato; pertanto esso non produceva effetti che nei confronti delle associazioni stipulanti.
Il 1926 rappresenta un crocevia fondamentale per la problematica dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo.
7 Per un’analisi dettagliata sulle trasformazioni del sindacato durante il periodo corporativo cfr. XXXXXXX-XXXXXXXXXX F., Norme corporative, autonomia collettiva, autonomia individuale, in Il diritto dell’economia, 1958, p.1187 ss. . Sui caratteri propri del sistema corporativo e sindacale cfr. anche GRECO P., Le idee fondamentali del sistema corporativo, Milano, 1935.
8 La Carta del lavoro prevedeva che al contratto collettivo spettasse la conciliazione
«(de)gli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione» (IV).
9 L’art. 10 della legge 3 aprile 1926, n. 563 prevede che «i contratti collettivi di lavoro stipulati dalle associazioni di datori di lavoro, di lavoratori […] hanno effetto rispetto a tutti i datori di lavoro, di lavoratori […]della categoria a cui il contratto collettivo si riferisce». In ragione di ciò era previsto che l’accordo collettivo fosse pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Ma v’è di più.
Altre peculiarità riguardano le interazioni tra contratto collettivo di categoria e contratto individuale di lavoro.
Facciamo riferimento al principio dell’automatica inserzione nei singoli contratti individuali delle clausole presenti nel contratto collettivo.
In buona sostanza, stante l’automatismo del procedimento, era del tutto preclusa la possibilità di una deroga operata dai contratti individuali.
10 Il capo quarto del regolamento d’attuazione, intitolato «vigilanza e tutela delle associazioni sindacali», prevede diverse forme di controllo sull’azione sindacale. L’art.7 modifica l’elezione dei rappresentanti da parte degli iscritti con la nomina governativa dei vertici, che, fra l’altro, possono essere revocati in ogni tempo dall’esecutivo. L’art. 8 sottopone alla vigilanza del ministero, ovvero del prefetto e della giunta provinciale l’operato dei sindacati. L’art. 9 conferisce al governo il potere di revocare il riconoscimento giuridico. L’art. 29 autorizza il governo ad ordinare ispezioni ed indagini, richiedere documenti sull’andamento delle organizzazioni sindacali, con la possibilità di annullare in ogni tempo tutte le delibere sindacali contrarie alle leggi, ai regolamenti, agli statuti ed alle finalità dell’ente.
11 È nell’art. 54 c. 2, del Reg. Sind. 1 luglio 1926, n. 1130, che si fa riferimento all’effetto reale dell’inserzione automatica delle clausole. «le clausole difformi […] sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo il caso in cui siano più favorevoli ai lavoratori».
Non era, dunque, ammessa la reformatio in pejus delle condizioni dei lavoratori ad opera del contratto individuale.
Tuttavia occorre prestare attenzione ad un aspetto; le condizioni più favorevoli ai lavoratori potevano essere sacrificate ai princìpi della solidarietà corporativa, ovvero si demandava alle associazioni stipulanti di valutare concretamente se la sopravvivenza delle clausole più favorevoli ai lavoratori fosse compatibile con l’interesse pubblico tutelato dal contratto collettivo.
Vero è, altresì, che le norme corporative erano disposte gerarchicamente al di sotto della legge e dei regolamenti non potendovi, così, derogare.
12 Cfr. XXXXXXX L., Diritto sindacale e corporativo, Op. cit., p. 242 ss., circa le diverse teorie prospettate sul testo dell’art. 54.
13 Cfr. gli artt. 1 e 5 delle disposizioni preliminari del codice civile, in merito alle fonti. Cfr. artt. 2067-2077 cod. civ. circa la disciplina relativa al contratto collettivo. Giova ricordare come il X.Xxx. 14 settembre 1944, n.287 abbia “defascistizzato” il codice civile, espungendo qualsiasi riferimento alla Carta del lavoro e togliendovi valore giuridico. Per alcuni interessanti spunti x. XXXXXXX-XXXXXXXXXX X., Xxxxxxxxxxxx xxx xxxxxx, Xxxxxx, 0000.
E veniamo al problema della natura giuridica del contratto collettivo corporativo che ha di certo tenuto occupati i giuristi dell’epoca.
Il dibattito vedeva di fronte i sostenitori della teoria soggettiva e quelli della teoria oggettiva.
Altro nodo da sciogliere era quello concernente la natura privata o pubblica dell’accordo corporativo.
14 Per un esame approfondito delle varie teorie v. DE SEMO G., Natura giuridica del conrtatto collettivo di lavoro nel diritto sindacale italiano, Xxxxxx, 0000.
15 Le posizioni di questa parte della dottrina (x. XXXXX X.) furono accreditate anche dalla Cassazione (SS.UU. 14 aprile 1934)
16 Cfr. CARNELUTTI F., Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Padova, 1936, il quale, com’è noto, ha sostenuto che il contratto collettivo avesse «il corpo del contratto e l’anima della legge».
È noto, tuttavia, che sul fronte della natura giuridica del contratto collettivo corporativo la dottrina non fu mai concorde, sebbene si debba sviluppare un’ultima considerazione.
Come mostrato da illustri giuristi, alla caduta del fascismo, lo scontro sulla natura del contratto collettivo aveva una sua ragion d’essere se si fosse afferrato il “dualismo” di fondo proprio del regime.
In coerenza con quanto illustrato, da questa riflessione consegue il «rebus di un contratto collettivo privatistico con gli effetti tipici di un atto normativo» 18.
1.2. Il contratto collettivo dal dopoguerra ad oggi: l’art. 39 della Costituzione
Brevissimo è il lasso di tempo intercorso tra l’emanazione del codice civile (marzo 1942) e la fine del regime fascista (luglio 1943), nonostante l’ordinamento corporativo conobbe la sua
17 Secondo il pensiero di VALLEBONA A., in ROMAGNOLI U., Il contratto collettivo di lavoro nel Novecento italiano, in AIDLASS, Milano, 2000.
18 Cit. TREU T., in ROMAGNOLI U., Op. cit. .
definitiva soppressione grazie al D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 369.
Sebbene all’alba della caduta del regime e ripristinate le libertà politiche, si pose l’interrogativo su “cosa fare del precedente sistema corporativo”, non si giunse agilmente ad una scelta univoca.
C’è da dire però come la vera preoccupazione del legislatore fu, in primis, di evitare il vuoto di tutela per i lavoratori, i quali continuavano a beneficiare degli apparati previsti dai contratti corporativi.
Ed ecco che all’art. 43 del D. Lgs. Lgt. 23 novembre 1944,
n. 369 fu apprestato un regime transitorio in grado di contrastare l’horror vacui, secondo il quale “Per i rapporti collettivi ed individuali, restano in vigore, salvo le successive modifiche, le norme contenute nei contratti collettivi, negli accordi economici, nelle sentenze della Magistratura del lavoro e nelle ordinanze corporative […]”.
Gli accordi di lavoro stipulati durante il periodo corporativo, grazie a questo provvedimento, continuarono ad
19 Preme ricordare come durante il governo Xxxxxxxx, con X.X. 0 agosto 1943, n.721, nonostante lo scioglimento delle istituzioni corporative, si mantenne intatta la struttura sindacale di diritto pubblico. Tutte le organizzazioni sindacali di diritto pubblico furono affidate a dei commissari espressione dell’antifascismo. Inoltre merita menzione la proposta di legge dell’On. Di Napoli volta a reintrodurre la libertà sindacale con la previsione di una contrattazione collettiva generalmente obbligatoria. Per approfondire la proposta x. XXXX X., Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Milano, 1960, p. 29 ss. .
essere validi ed a spiegare piena efficacia, assicurando così la tutela dei lavoratori 20.
Eppure in un primo momento fu lo stesso governo, al fine di garantire la generale osservanza del contratto collettivo, ad inserire all’interno di un provvedimento legislativo il testo del contratto stesso.
Questo fu un espediente che, tuttavia, non ebbe lunga vita e portò poco per volta all’avvicendamento dei vecchi accordi corporativi con i contratti c.d. di diritto comune, appellativo affibbiato in ragione della mancanza di una disciplina specifica che spingeva a servirsi delle norme comuni dei contratti.
Con l’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana lo scenario del sistema sindacale è destinato a cambiare.
Il fulcro del nuovo sistema sindacale è concentrato all’interno dell’art. 39 della Carta fondamentale, dove anzitutto si sancisce la libertà di organizzazione sindacale. E non è un'assicurazione che da sola è in grado di stravolgere la tradizione lasciata in eredità dall’esperienza del fascismo.
La libertà sindacale esige un ordinamento nel quale sia affermata e garantita la libertà politica, prerogativa vitale che
20 La questione che più ha tormentato dottrina e giurisprudenza concerneva l’interpretazione dell’inciso “salvo le successive modifiche”. La controversia è stata risolta nel senso di mantenere ferma l’efficacia erga omnes dei contratti siglati durante il periodo corporativo. Altra questione riguardava le fonti in grado di apporre modifiche in questione. Chi optava per fonti di grado superiore al contratto, quindi legge e regolamento, x. XXXXXXXX, XXXXXX. Chi invece con quell’affermazione vedeva consacrato il ritorno all’autonomia collettiva del potere di stabilire la disciplina del rapporto di lavoro con lo strumento del contratto collettivo, x. XXXXXXX-XXXXXXXXXX F.
consente al sindacato di vivere in maniera compiuta la propria esperienza 21.
Questo spazio di libertà politica entro il quale deve operare la nuova associazione sindacale, pone delicati problemi in ordine all’eventualità che lo stesso sindacato travalichi gli ambiti ad esso destinati, finendo magari per invadere il terreno riservato alle istituzioni pubbliche.
Xxxxxxxx in dottrina è stato l’assunto secondo il quale sarebbe stato opportuno mirare ad una netta distinzione tra azione sindacale ed azione politica. Ed era altrettanto pacifico che qualsiasi limitazione legislativa dell’attività sindacale avrebbe indubbiamente rievocato i tristi e plumbei fantasmi degli anni appena trascorsi.
Risulterebbe antistorico e indubbiamente antisindacale un atteggiamento legislativo volto a circoscrivere le nuove peculiarità attribuite dalla Costituzione per le associazioni sindacali.
In uno Stato democratico rifondato sulle libertà più ampie, è difficile isolare il sindacato, che per antonomasia ha quale compito preciso quello di tutelare l’interesse professionale, dalle vicende sociali e politiche sempre più connesse al tema lavoro.
Questi ultimi sono i dilemmi sorti a proposito dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39 ove si prevede che “Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei
21 Sul rapporto tra sindacato e politica nell’accezione della compenetrazione dei rispettivi ambiti v. MORTATI C., L’organizzazione professionale, Atti della XXIV settimana sociale dei cattolici italiani, 1951.
sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”.
Il sistema appena illustrato richiederebbe l’intervento di una legge attuativa in grado di configurare il contratto collettivo con efficacia obbligatoria per i lavoratori della categoria cui il contratto si riferisce.
Sulla legge di attuazione la dottrina ha allestito diverse possibili configurazioni a seconda che si prediligano aspetti formali o sostanziali del dettato costituzionale.
Ma andiamo con ordine.
Innanzitutto l’attenzione degli operatori del diritto si è concentrata sul concetto di “obbligo di registrazione”; se debba intendersi come obbligo in senso specifico necessario per l’inserzione del sindacato all’interno dell’organizzazione dello Stato, ovvero se tale registrazione sia necessaria al fine di evitare la costituzione delle associazioni segrete (art. 18 comma
2 della Costituzione) in virtù di un più generico obbligo di pubblicità, ovvero ancora se alla stessa procedura debba assegnarsi la qualifica di mera facoltà.
La stragrande maggioranza degli interpreti ha considerato la registrazione come semplice onere delle organizzazioni sindacali, se ed in quanto le stesse vogliano essere comprese nel novero delle associazioni legittimate a dire
la loro parola nel processo di formazione della contrattazione collettiva generalmente obbligatoria 22.
Il dettato del comma 2, tuttavia, non esclude l’esistenza dei sindacati non registrati o “di fatto”; anzi, ad oggi, nel nostro ordinamento abbiamo la possibilità di conoscere solo questi ultimi.
Altro aspetto posto sotto i riflettori è stato quello concernente la “base democratica dell’ordinamento interno delle associazioni sindacali”, espressamente necessario ai fini della registrazione.
Generalmente quella di democrazia è una delle più controverse e tartassate nozioni 23, e ciò si è senz'altro riversato negli alvei dell’articolo 39 della Costituzione, rendendo problematica l’individuazione degli estremi del concetto di democraticità.
Provando ad abbozzare i tratti comuni delle più importanti democrazie occidentali, ci s’imbatte in quelle testimonianze che riconoscono la sovranità derivante direttamente dal popolo, inteso come nucleo di individui dotati per natura di taluni diritti fondamentali, ovvero ancora in altre che individuano su base maggioritaria il sistema di determinazione della volontà collettiva.
22 Per dirla con XXXX X., Problemi costituzionali, Op. cit., p. 72 ss. .Cfr. X’XXXXXX X, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in DLRI, 1998, 4, p. 665 ss. . Qui l’A. ritiene che la seconda parte dell’art. 39 richiede il «riconoscimento giuridico dei sindacati – ancor prima che per dilatare ed estendere l’efficacia dei contratti collettivi – per fondare un potere di rappresentanza sociale che consiste nell’abilitazione ex lege a stipulare contratti collettivi con efficacia erga omnes. La seconda parte dell’art. 39 non garantisce efficacia legale ai contratti sottoscritti dai sindacati rappresentativi, ma rende rappresentativi i sindacati registrati in quanto garantisce l’efficacia legale dei contratti che essi sono abilitati a sottoscrivere».
23 Cfr. XXXXXXX G., Democrazia e definizioni, Bologna, 1957.
Xxxxxxx vedeva nella democraticità «quell’elemento caratteristico non solo della forma di governo ma della complessiva forma di Stato, onde essa deve uniformare tutte le istanze e tutti i possibili centri di potere della comunità nazionale».
In ambito sindacale, per dirla con Xxxx Xxxxxxxxxxx, ciò significa «derivazione della volontà dell’organizzazione dal basso e riconoscimento e tutela di certi diritti fondamentali».
Compito decisivo della legge di attuazione sarà quello di eliminare i possibili e rischiosi spazi lasciati all’arbitrio dell’interprete, prestando attenzione ai possibili sviluppi determinati da atteggiamenti volti, da una parte ad una generica enunciazione del concetto di democraticità, e dall’altra, tendenti ad una pronuncia più articolata in grado di specificare ed approfondire questo requisito.
Nel primo caso la legge garantirà maggiore libertà statutaria alle organizzazioni sindacali ma, di contro, richiederà un accertamento sostanziale della democraticità.
24 Circa le varie configurazioni del concetto di “democraticità” dell’organizzazione sindacale x. XXXXX X., il quale accennava alla parità nei diritti e negli obblighi degli associati, all’elettorato attivo e passivo, alla libertà di pensiero, di voto, di critica e di opposizione. Cfr. MORTATI C., che esprimeva la preferenza per una legge che si fosse limitata alla predisposizione dello stretto indispensabile, evitando così, eccessive influenze sulla vita dei sindacati. Ancora v. XXXX XXXXXXXXXXX X., la quale delinea l’elettività delle cariche e il principio secondo il quale «la maggioranza, pur obbligando la minoranza, ne riconosce la funzione di opposizione e la possibilità che essa possa trasformarsi in maggioranza». V. anche COMBA M., che rivolge l’attenzione alle non discriminazioni nell’ammissione all’associazione.
Sorge a questo punto il problema che, probabilmente più di ogni altro, ha ostacolato l’emanazione della legge attuativa della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione.
L’ultimo capoverso dell’art. 39 accoglie il contratto collettivo con efficacia obbligatoria, ove si rispettino tutte le condizioni dettate dai precedenti commi.
Sul presupposto dell’esistenza nel tessuto sociale di una pluralità di sindacati che concorrono nelle diverse categorie, la nozione di “rappresentanza unitaria” doveva concretarsi nella creazione di un organismo comune a partecipazione proporzionale, in ragione della consistenza degli stessi sindacati rispetto a tutti gli appartenenti alla categoria iscritti alle varie sigle sindacali.
25 In tal senso, sull’imprescindibilità di una legge attuativa della seconda parte dell’art. 39 onde evitare frustrazioni al sistema x. XXXXX P., XXXXX M., XXXXXXX C., XXXXX C. e XXXXXXX L.. Meritano però attenzione alcuni spunti proposti da autorevole dottrina come ad esempio XXXXXXX-XXXXXXXXXX F., Esperienze e prospettive giuridiche dei rapporti tra i sindacati e lo Stato, in Riv. Dir. Lav., 1956, I, p. 1 ss.. Cfr. inoltre le posizioni di dissenso dei sindacati, messe in evidenza in sede di assemblea costituente dagli on. Assennato e Xx Xxxxxxxx (seduta del 15 ottobre 1946, res. n. 29).
Il contratto collettivo generalmente obbligatorio, così come inquadrato dall’ultimo comma dell’art. 39, sarebbe sostanzialmente identico (per la qualificazione e per l’efficacia) a quello già conosciuto durante l’esperienza corporativa con la xxxxx Xxxxx del 1926.
La differenza più rilevante, tuttavia, risiederebbe nel modus della sua stipulazione; ad opera dei sindacati unici di diritto pubblico nel regime corporativo, ad opera delle rappresentanze unitarie dei liberi sindacati registrati oggi 27.
Certamente risulta complicata la convivenza tra il modello pluralistico-conflittuale tracciato dal comma 1, ed il modello istituzionalizzato e riconosciuto, intriso fra l’altro di elementi cari al corporativismo fascista, di cui ai successivi commi dell’art. 39.
26 Il libero consenso della maggioranza sembrerebbe rendere necessaria l’imposizione della regola democratica all’interno degli statuti dei sindacati. Sul punto x. XXXX X, Problemi costituzionali, Op. cit.,p. 86 ss., dove l’A. prende in considerazione le diverse possibilità di controllo. Affermando inizialmente la necessità di un controllo di mera legittimità in sede di procedimento di registrazione, si interroga sull’autorità competente ad effettuare tale controllo; se amministrativa o se giudiziaria. Tuttavia, si ritiene che il sistema di controllo sia destinato a non attuarsi a causa dei conflitti che potrebbero generarsi tra autorità di controllo e sindacato. Ed anche sull’art. 7 del disegno di legge Xxxxxxxxx (il quale prevedeva la sola possibilità di revoca della registrazione, escludendo quindi qualsiasi sistema di controllo) la dottrina non fu mai concorde ed unanime. Di fronte a tutte queste circostanze l’A., tra la dottrina maggioritaria, ha posto l’attenzione sulla spontaneità del processo associativo, evidenziando come non sia indispensabile un rigoroso sistema di controllo. La fiducia riversata nei riguardi della genuinità del sistema di relazioni interne, fondato sulla spontaneità, sulla semplice e libera adesione quantitativa al sindacato, è da sola bastevole a segnare la rappresentatività del sindacato rispetto alla categoria, evitando tra l’altro le complicazioni derivanti da un’ingerenza da parte dei pubblici poteri. Cfr. inoltre XXXXXX B., Nella bottega del maestro: «il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi» (sapere, tecnica e intuizione nella costruzione di un saggio), in DLRI, 2009, 1,
p.53 ss. .
27 Come ritenuto da XXXX X., Problemi costituzionali, Op. cit., p. 108.
Ed ancora oggi risentiamo di questo duro conflitto, a cui si affiancano le vicende storico-politiche del nostro paese, determinanti per la mancata attuazione del dettato costituzionale 28 29.
2. Il lavoro, il sindacato ed il contratto collettivo all’interno della Carta costituzionale
L'ingresso del lavoro nella Costituzione avviene attraverso la porta principale dei principi fondamentali 30 (consacrati nei
28 Ragioni di ordine tecnico hanno certamente impedito l’attuazione. Si pensi, per quanto riguarda la formazione delle rappresentanze unitarie, alla determinazione del numero degli iscritti ai singoli sindacati. Ma le dinamiche che più hanno influito sulla mancata attuazione sono prettamente inerenti ai timori dei sindacati: la paura dei controlli da parte delle istituzioni pubbliche in grado di vincolare l’operato delle associazioni, la paura per la CISL di non ottenere, in sede di rappresentanze unitarie, un numero di iscritti tali da poter contrastare l’assoluta preminenza della CGIL dell’epoca, i dubbi circa lo status e la disciplina da riservare ai sindacati non registrati. Cfr. XXXXXXX G.F., Libertà sindacale e contratto collettivo “erga omnes”, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1963, p. 570 ss., dove l’A. definisce l’art.
39 «una norma sbagliata» e la mancanza di una legge di attuazione addirittura
«provvidenziale». C’è chi ha ritenuto il fallimento del progetto costituzionale derivante «(dal)l’ingenuità illuministica insita nella pretesa di coniugare pluralismo sindacale ed unicità dell’agente negoziale collettivo attraverso la trasposizione di un classico strumento della democrazia politica in un contesto, quello sindacale appunto, strutturalmente inidoneo a recepirne regole e riti», XXXXXXX S., Sistema sindacale “di fatto”, crisi dell’unità sindacale e rinnovi contrattuali separati: prime verifiche giudiziali, in ADL, 2011, III, p. 484.
29 Merita senz’altro un accenno, il disegno di legge costituzionale n. 2520 (presentato al Senato l’11 gennaio 2011) per la modifica dell’art. 39 della Costituzione su iniziativa dei senatori Ceccanti, Xxxxxx, Xxxxxx, Xx Xxxx, Giai, Incostante, Xxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxx, Xxxxxxxxx, Xxxxxx. All’art. 1 del suddetto disegno di legge si riporta la modifica all’art.39 sostituito dal seguente:
«L’organizzazione sindacale è libera. L’ordinamento interno e l’attività dell’organizzazione sindacale si ispirano al metodo democratico. I requisiti del contratto collettivo che produca effetti ulteriori rispetto a quelli previsti dal diritto comune dei contratti sono stabiliti con legge, che a tal fine determina i criteri per l’accertamento della rappresentatività delle associazioni sindacali».
30 SCOGNAMIGLIO R., La Costituzione repubblicana, in Trattato di diritto del lavoro, a cura di Persiani M., I, Padova, 2010, p. 113.
primi dodici articoli): all’art. 1, infatti, è stabilito che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
All’art. 2 è sancito che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità […]”.
Pur non menzionando espressamente il lavoro, emerge qui la visione della persona umana, considerata non solo nella dimensione individuale ma anche in quella sociale, tenendo in considerazione il reticolo di rapporti sociali entro il quale maturano le condizioni per lo sviluppo della sua personalità.
Ancora, nell’art. 3, cuore della Costituzione, è riconosciuto il principio di uguaglianza; “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Il secondo comma assegna alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese.
31 È noto come la Costituzione fu il frutto di un compromesso storico tra le varie forze politiche riunite nell’assemblea costituente. Sostanzialmente avevamo da una parte la Democrazia Cristiana, la quale difendeva a spada tratta i valori di giustizia sociale; dall’altra il Partito Comunista Italiano fermamente convinto del ruolo predominante della classe operaia. Questo dibattito s’incentrò principalmente sulla formula «Repubblica fondata sul lavoro» sostenuta dai primi, e su quella di
«Repubblica dei lavoratori» supportata invece dai secondi. Per una più completa analisi x. XXXXXXXXXXXX R., Op. cit., p. 115 ss.
Infine all’interno dell’art. 4 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere […] un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Altra questione riguarderebbe le tipologie di lavoro ricomprese in quel diritto.
L’opinione dominante è per un pieno riconoscimento nei confronti di ogni attività lavorativa svolta dalla persona secondo una libera scelta, compreso il lavoro autonomo, ma escluderebbe coloro i quali cominciano a svolgere un’attività economica, avvalendosi dei propri mezzi.
Compiuta l’analisi dei principi fondamentali dedicati al lavoro, concentriamo l’attenzione sul Titolo III, intitolato “Rapporti economici”.
L’art. 35 tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, sebbene in questo caso il riferimento è rivolto alle forme di lavoro subordinato.
I successivi articoli 36, 37, 38 e 40 rispettivamente approntano una tutela generale per quel che riguarda la retribuzione proporzionata e sufficiente, la durata massima
32 Tale opinione è più che pacifica. X. XXXXXXXX M., Il lavoro come diritto, in RGL, 1999, p. 25.; XXXXXXXXX M., Il diritto al lavoro, Milano, 1956; CRISAFULLI D., Appunti preliminari sul diritto al lavoro nella Costituzione, in RGL, 1951, 1, p. 97.
della giornata lavorativa, il riposo settimanale e le ferie annuali retribuite; la tutela della donna lavoratrice anche al fine di conciliare la funzione familiare e la tutela del lavoro minorile; diritto per il cittadino inabile al lavoro all’assistenza sociale e ad un sistema previdenziale in caso di infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia; la tutela del diritto di sciopero.
Il Titolo III comprende anche l’art. 39, in precedenza già esaminato, dove è menzionato l’ente sindacato con la relativa libertà sindacale, ed il contratto collettivo quale strumento destinato a regolare i diversi aspetti del rapporto di lavoro.
33 Al riguardo x. XXXXXXX S., I sindacati nella Costituzione e nel governo, in Profili giuridici della libertà sindacale in Italia, 3 seminari, Padova, 1986, p. 96, dove l’A. ritiene che «l’art. 39 comma 1 va riferito al fenomeno organizzativo come tale e, quindi, contiene una garanzia di terzo grado, perché l’organizzazione viene dopo la libertà di associazione e la libertà della associazione».
34 Interessante lo spunto di CASSESE S., Op. ult. cit., p.97, «Potrebbe darsi che i sindacati assolvono lo stesso compito dei partiti. Con la differenza, però, che alla libertà di non aderire ai partiti fa riscontro il diritto di voto, mentre la libertà di non aderire al sindacato non è accompagnata da nessun correttivo (salvo quello dell’ordinamento interno democratico, che, però, è inattuato)».
3. Il contratto collettivo: tipologia e struttura
Il contratto collettivo può essere considerato il principale strumento dell’azione sindacale.
Quello che oggi rappresenta il perno attorno al quale ruotano le vicende del rapporto di lavoro, affonda le sue radici nella Torino del lontano 1848, quando la società dei tipografi richiese ufficialmente la prima negoziazione per la tariffa, di fatto, il primo contratto collettivo.
Alle origini, dunque, l’attenzione era focalizzata esclusivamente sui trattamenti economici minimi ed a causa dell’assenza di un quadro normativo su cui fare riferimento, si aveva riguardo al diritto comune dei contratti.
Come abbiamo già avuto modo di osservare, tuttavia, l’evoluzione dei contenuti del contratto collettivo ha risentito delle dinamiche politiche che hanno interessato l’Italia dal periodo liberale, passando per l’epoca corporativa, fino ai giorni nostri.
In un Paese caratterizzato da forti contrasti ideologici all’interno delle organizzazioni sindacali, da un’ossatura bipolare del contratto collettivo, in bilico tra centralizzazione e decentramento, dalle ricorrenti crisi delle compagini politiche succedutesi nel tempo, il modus operandi del sistema di contrattazione collettiva risente costantemente di tutti questi scompensi 35.
35 Alcuni Autori hanno ricostruito varie fasi della storia contrattuale italiana dal dopoguerra ai giorni nostri. Basti pensare che dalla ricostruzione (anni ’50) fino al 2008 (anno in cui si interrompe tale studio) sono state individuate ben sei diverse fasi in cui, su uno sfondo politico in continua evoluzione, i sistemi di relazioni industriali e di contrattazione collettiva si influenzavano reciprocamente. Cfr. CELLA
Sotto il profilo strutturale, la contrattazione collettiva si articola nei seguenti livelli: accordi interconfederali, contratti nazionali di categoria, contratti provinciali, contratti d’impresa, contratti della singola unità produttiva.
L’Accordo interconfederale, sottoscritto dalle diverse confederazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, presente già nell’immediato dopoguerra, disciplinava uniformemente i minimi retributivi e alcuni istituti del rapporto di lavoro (licenziamenti individuali e collettivi, composizione delle commissioni interne).
Il contratto nazionale di categoria rivestì un ruolo decisivo solo a metà degli anni cinquanta – quando subentrò nel fissare i trattamenti economici per ogni singolo ramo d’industria
– prevedendo dopo poco tempo una dettagliata regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro.
Gli anni sessanta (Protocollo Intersind-Asap del luglio 1962) e settanta sancirono il progressivo affermarsi della contrattazione articolata, nella forma del contratto aziendale, grazie agli spazi ad esso destinati dal contratto nazionale di categoria.
G.P., XXXX T., Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Bologna, 2009, p. 77 ss.. Cfr. inoltre GALANTINO L., Diritto sindacale, Torino 2012, p. 159 ss.
36 I frutti della concertazione furono racchiusi all’interno del Protocollo Xxxxxx, siglato da CGIL, CISL e UIL e Confindustria con la mediazione del governo, ove si gettarono le basi per combattere la forte spirale inflattiva che in quel periodo affliggeva l’Italia. Dopo un decennio abbiamo altri di questi accordi “triangolari”: il 31 luglio 1992 l’allora governo Xxxxx siglò con le parti sociali un “protocollo sulla politica dei redditi, lotta all’inflazione ed il costo del lavoro” volto al definitivo
Come prima anticipato, le vicende politiche hanno influenzato i modelli di gestione delle relazioni industriali; per questo motivo la concertazione, nei primi anni del nuovo millennio, è destinata a lasciare il campo al nuovo modello del dialogo sociale.
Attraverso il dialogo sociale non s’è di certo incoraggiata la ricomposizione dell’azione sindacale, spesso e volentieri frantumata e disarticolata a causa delle nette posizioni ideologiche dei maggiori sindacati nazionali.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al fenomeno dell’inquadramento della contrattazione collettiva mediante un criterio gerarchico, dove il contratto aziendale assume la veste integrativa ed ausiliaria del contratto nazionale.
E tutto ciò è affermato all’interno dell’Accordo interconfederale del 15 aprile 2009, sottoscritto da tutte le associazioni sindacali, eccezion fatta per la CGIL.
Con tale Accordo si prevede, dunque, una ripartizione di competenze tra i vari livelli contrattuali, secondo la quale il contratto di secondo livello può disciplinare determinate materie
abbandono dell’indennità di contingenza (c.d. scala mobile); il 3 luglio del 1993 governo e parti sociali si impegnarono per un disegno di governo concernente il mercato del lavoro, la politica dei redditi, l’occupazione e il rinnovamento del sistema contrattuale; del 1996 è invece il Patto per il lavoro sempre volto ad incentivare sviluppo ed occupazione; il 1998 è l’anno del Patto di Natale, dove si introduce una formalizzazione del metodo concertativo.
37 Il libro bianco del 2000 definisce il dialogo sociale come quel «confronto basato su accordi specifici, rigorosamente monitorati nella loro fase implementativa». Il primo frutto di questa stagione è costituito dal Patto per l’Italia siglato dal governo e da CISL e UIL il 5 luglio 2002, non sottoscritto dalla CGIL in quanto l’accordo proponeva la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Tale metodo tuttavia presenterà il grosso limite di esporre l’ambiente sociale al fenomeno degli accordi separati.
espressamente delegate, in tutto o in parte, dal contratto nazionale o dalla legge.
Il contratto nazionale se da una parte svolge una funzione livellatrice, assicurando la certezza dei trattamenti economici e normativi di tutti i lavoratori del settore di riferimento, dall’altra auspica tutti gli interventi utili ad incoraggiare la contrattazione di secondo livello che preveda la ripartizione di incentivi economici al raggiungimento di obiettivi legati al miglioramento della competitività delle imprese (produttività, efficienza, efficacia, redditività).
Il quadro normativo è però destinato a cambiare con l’entrata in vigore della legge 14 settembre 2011, n. 148, recante “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”, che converte il decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138.
All’interno del testo merita particolare attenzione l’art.
8 39, nel quale viene alterato il tradizionale equilibrio esistente tra le fonti dell’ordinamento giuridico del lavoro.
38 Nell’Accordo del 2009 la contrattazione aziendale, in caso di crisi o per incoraggiare lo sviluppo economico ed occupazionale, poteva «modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria» (consentendo, di fatto, una deroga anche peggiorativa se ed entro i limiti imposti dal contratto nazionale). Con l’Accordo del 2011 si rinnova tale possibilità, con l’aggiunta che «i contratti collettivi aziendali […] al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro».
39 Così dispone l’art. 8: «I contratti collettivi sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul
Sul canovaccio dei precedenti accordi interconfederali del 2009 e del 2011, che sebbene avessero ribadito la centralità e la preminenza della contrattazione nazionale finendo peraltro con l’identificare nel contratto aziendale il luogo idoneo alla predisposizione di deroghe in pejus al contratto di primo livello con l’osservanza dei limiti e delle procedure imposte dallo stesso, l’art. 8 della suddetta legge ammette non solo la possibilità di derogare alla contrattazione centrale ma anche alla legge, salvi i diritti quesiti 40.
piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione di crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolamentazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione, con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e all’introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti ad orario ridotto, modulato o flessibile, al regime di solidarietà negli appalti ed ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino a un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore e il licenziamento in caso di adozione o affidamento. Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. Le disposizioni contenute nei contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce, a condizione che esso sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori».
40 Da notare come l’elaborazione dell’art. 8 si sia posta nel solco della più recente giurisprudenza sul tema del rapporto tra contratto nazionale e contratto aziendale, ove si sostiene la tesi secondo la quale il contratto aziendale sia un atto di autonomia privata con l’efficacia tipica del contratto nazionale. Cfr. Cass. 2 aprile 2001, n. 4839, in MGL, 2002; Cass. 8 giugno 2007, n. 13092, in GLav, 2007, n. 38;
I contratti aziendali così stipulati acquisterebbero efficacia erga omnes in presenza dei requisiti previsti dallo stesso art. 8, sebbene parte della dottrina ritenga che le associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale abbiano la facoltà di realizzare solamente delle mere “intese”, che acquisterebbero efficacia generale solo dopo che le rappresentanze sindacali operanti in azienda le abbiano recepite 41.
Tralasciando l’analisi dei profili di costituzionalità che la norma in questione ha suscitato 42, preme rilevare sul punto che il fulcro del sistema di relazioni industriali si sia spostato in maniera netta dal livello nazionale al livello territoriale o aziendale.
Nonostante l’art. 8 comma 1 richiami espressamente l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, in realtà tra la legge e quest’ultimo a prevalere sono più le differenze che le affinità.
In primo luogo, l’art. 8 prende in esame la doppia fattispecie della contrattazione territoriale ed aziendale, che invece l’Accordo non prevede in quanto fa riferimento al solo livello aziendale.
Cass. 18 settembre 2007, n. 19531, ivi, n.43; Cass. 26 maggio 2008, n. 13544, in
OGL, 2009.
41 XXXXXXXXX L., Op. cit., p. 170. Cfr. anche XXXXXXX S., Sistema sindacale “di fatto”, efficacia del contratto collettivo (aziendale) e principio di effettività, in ADL, 2011, XX, x.0000 ss., dove l’A. si sofferma sull’«inedito riconoscimento legislativo, per la prima volta formulato in termini così espliciti, di un’efficacia generalizzata agli accordi sindacali di livello decentrato (territoriale o aziendale) la cui sottoscrizione da parte sindacale sia avvenuta nel rispetto di un non meglio precisato “criterio maggioritario”» (p.1293).
42 Si rimanda a XXXXXXX G., Il contratto collettivo. Dopo l’art. 8 del decreto n. 138/2011, in ADL, 2011, XX, x.0000 ss.; ALES E., Dal caso FIAT al “caso Italia”. Il diritto del lavoro “di prossimità, le sue scaturigini e i suoi limiti costituzionali, in DRI, 2011, IV, p.1061 ss.; XXXXXXX S., Op. cit., in ADL, 2011, VI, p. 1281.
In secondo luogo, gli obiettivi contenuti nell’art. 8, che consentono alla contrattazione aziendale di derogare in pejus, sono di gran lunga più ampi dei due specifici (situazioni di crisi o presenza di investimenti significativi) fissati dall’Accordo.
Diverge, inoltre, l’ambito operativo del contratto aziendale, che nell’Accordo può derogare al contratto nazionale nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti nazionali, e in attesa di questi, per gli istituti della prestazione lavorativa, degli orari e dell’organizzazione del lavoro.
Diversamente l’art. 8, affermando apertis verbis il rispetto della Costituzione, delle normative comunitarie e delle convenzioni internazionali, consente di derogare anche alla legge, su determinate materie e con riferimento ad una spropositata serie di istituti.
Le parti sociali, tuttavia, non hanno mostrato interesse nei confronti delle enormi potenzialità contenute dall’art. 8, tant’è vero che al momento della ratifica dell’Accordo, avvenuta il 21 settembre 2011 e pertanto dopo l’entrata in vigore dell’art.8, hanno deciso di aggiungere in calce la seguente postilla applicativa: “Confindustria, CGIL, CISL e UIL concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti. Conseguentemente Confindustria, CGIL, CISL e UIL si impegnano ad attenersi all’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, applicandone compiutamente le norme e a far sì che le rispettive strutture, a tutti i livelli, si attengano a quanto concordato nel suddetto Accordo interconfederale” 43.
43 Da notare come nell’accordo e nella postilla applicativa le parti sociali ad essere vincolate siano Confindustria, per quel che riguarda il versante datoriale, e CGIL,
Tutto questo non significa che la disposizione non possa, in futuro, dispiegare i propri effetti, così com’è altrettanto chiaro che la postilla applicativa non vada ad incidere sulla validità e sull’efficacia dell’art. 8.
E cosa ancor più importante, l’eventuale “disobbedienza” alle direttive confederali da parte delle associazioni sindacali territoriali potrebbe comportare l’applicazione di sanzioni endoassociative, senza per questo incidere sull’efficacia degli accordi siglati da soggetti muniti di una certa rappresentatività.
Allo scopo di rendere quanto più completa ed aggiornata la trattazione dell’argomento, mi preme ricordare come, in fase di ultimazione di questo lavoro, sia intervenuto, in data 31 maggio 2013, un Protocollo d’intesa tra le parti sociali per mezzo del quale si è dichiarata la volontà di dare applicazione all’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei contratti collettivi nazionali di lavoro, fissando i principi ai quali ispirare la regolamentazione attuativa e le necessarie convenzioni con gli enti interessati.
Al Protocollo in questione prometto di ritagliare la parte conclusiva dell’elaborato.
CISL e UIL, in riferimento ai lavoratori. Vi sono, dunque, spazi di intervento per associazioni datoriali diverse da Confindustria, e per sigle sindacali dei lavoratori diverse da CGIL, CISL e UIL.
44 Cit. XXXXXXX A., SPEZIALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E., 132/2011, p. 63.
3.1. I soggetti, le procedure di stipulazione, la forma ed i contenuti
È opportuno, adesso, illustrare gli aspetti della disciplina giuridica del contratto collettivo con riferimento ai soggetti, alle procedure di stipulazione, alla forma ed ai contenuti.
Com’è già stato anticipato, l’Accordo interconfederale, strumento politico 45 caro ai modelli concertativi atto a definire importanti obiettivi nel campo della legislazione sociale, può intervenire tra le confederazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro e, in casi particolari, anche con la partecipazione del governo.
È un congegno che consente alle diverse confederazioni di prendere parte nella definizione delle riforme del lavoro, mediante un contributo in termini di sostegno alle politiche del governo.
Si concreta, di fatto, nella predisposizione di regole generali che interessano i lavoratori a prescindere dal settore merceologico di appartenenza.
Sotto il profilo strettamente giuridico l’Accordo interconfederale è un comune contratto, a libera sottoscrizione, che vincola esclusivamente i soggetti firmatari.
Il contratto collettivo nazionale, invece, è siglato dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e da quelle dei datori di lavoro, in un contesto in cui la legge non prevede alcun criterio volto ad attestare la rappresentatività dei vari soggetti.
45 Cfr. la sentenza della Corte Costituzionale del 7 febbraio 1985, n. 34 con la quale si è riconosciuta la natura meramente politica e non giuridica degli accordi in questione, negando il valore tipico dei contratti collettivi.
Eppure, l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011 ha previsto un meccanismo di certificazione della rappresentatività simile 46 a quello previsto per il pubblico impiego privatizzato.
Al punto 1, infatti, è stabilito che “ai fini della certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali per la contrattazione collettiva nazionale di categoria, si assumono come base i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori. […] I dati così raccolti e certificati, trasmessi complessivamente al CNEL, saranno da ponderare con i consensi ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie da rinnovare ogni tre anni, e trasmessi dalle Confederazioni sindacali al CNEL. Per la legittimazione a negoziare è necessario che il dato di rappresentatività così realizzato per ciascuna organizzazione sindacale superi il 5% del totale dei lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro”.
Sussiste, perciò, uno sbarramento per avere accesso al tavolo delle trattative, ma non è individuata una soglia per la stipulazione del contratto di categoria, così da poter assistere a contratti siglati anche da sindacati minoritari, a volte anche sostitutivi dei precedenti accordi stipulati da una coalizione maggioritaria.
Il punto 2 dello stesso Accordo interconfederale ove è dichiarato che “Il contratto collettivo nazionale di lavoro ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque
46 Benché nel lavoro pubblico privatizzato sia previsto un meccanismo in grado di conferire efficacia generale al contratto di comparto se sottoscritto dalle organizzazioni sindacali che rappresentino nel loro complesso almeno il 51%, come media tra dato associativo e dato elettorale nel comparto di riferimento, o almeno il 60% del solo dato elettorale nello stesso comparto.
impiegati nel territorio nazionale”, non conferisce efficacia erga omnes al contratto nazionale.
Concentrando l’attenzione sul contratto aziendale dobbiamo tenere presente l’Accordo interconfederale del 2011 e l’art. 8 della legge n. 148 del 2011.
Seguendo l’Accordo interconfederale, al punto 5 è previsto che possono stipulare il contratto aziendale sia le RSA, che da sole o insieme ad altre siano destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali, con possibile richiesta di referendum, sia le RSU che lo devono approvare a maggioranza dei componenti.
Con l’art. 8 si introducono due criteri affinché il contratto aziendale abbia “efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati”: il contratto aziendale o territoriale deve essere siglato dalle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero territoriale e, in aggiunta, la sottoscrizione deve rispettare un fin troppo generico criterio maggioritario 47.
47 Sul punto x. XXXXXXX A., SPEZIALE V., L’articolo 8 della legge 14 settembre 2011, n. 148 e la “rivoluzione di Agosto” del Diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E., 132/2011, p. 33 ss. dove gli A. mettono in luce le difficoltà interpretative di numerosi concetti esposti nella norma. Circa l’ambito territoriale ritengono che «La legge non definisce in che modo debba essere considerato l’ambito territoriale. […] La disposizione, comunque, anche se attualmente non sembra essere tale da modificare l’assetto dei sindacati abilitati alla stipula dei contratti territoriali, potrebbe comunque favorire fenomeni di “localismo sindacale”, consentendo la diffusione di soggetti di dubbia rappresentatività». Inoltre, sul criterio maggioritario «la legge non stabilisce i contenuti e le caratteristiche della “regola maggioritaria”, che sono quindi rimesse alla competenza esclusiva delle organizzazioni sindacali abilitate alla stipula delle intese (questa conclusione è suffragata dal fatto che la disposizione parla di “criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali”, con una formulazione che lascia intendere che sono queste ultime a doverlo definire, anche in assenza di un parametro alternativo stabilito per legge). In questo caso la legge ha voluto quantomeno rispettare l’autonomia delle parti sociali nella definizione di regole democratiche, evitando di imporre soluzioni predefinite dall’ordinamento statuale». V. anche CARINCI F., Al capezzale del sistema contrattuale: il giudice, il sindacato, il legislatore, in WP C.S.D.L.E., 133/2011, p. 28 ss. dove l’A. analizza l’assenza di un qualsiasi riferimento alla controparte datoriale «Sembrerebbe
Per quel che riguarda le procedure di stipulazione occorre rifarsi all’Accordo interconfederale del 15 aprile 2009, che ha rimpiazzato il precedente Protocollo del 23 luglio 1993.
Dopo aver ribadito il doppio livello di contrattazione, nazionale ed aziendale, si prevede una durata unitaria per entrambi i livelli pari a tre anni, sia per la parte economica che per la parte normativa.
Volendo contrastare le lungaggini delle trattative, l’Accordo interconfederale demanda alla contrattazione nazionale la definizione delle tempistiche e delle procedure per la presentazione di proposte di modifica e per l’apertura e lo svolgimento delle trattative.
In ogni caso le proposte di rinnovo del contratto nazionale devono essere presentate almeno sei mesi prima della sua scadenza, mentre per il contratto aziendale due mesi prima della scadenza.
Infine l’Accordo sostituisce l’indennità di vacanza contrattuale, introduce un meccanismo che alla scadenza del contratto collettivo stabilisce un tetto economico, da indicare nei diversi contratti collettivi, nei confronti dei lavoratori in servizio alla data in cui è raggiunto l’accordo.
trattarsi solo di una dimenticanza dovuta dall’aver privilegiato il livello aziendale; […]. Una tentazione da respingere, perché non è una dimenticanza, bensì la logica, se pur forse inconsapevole, conseguenza dell’aver affrontato la problematica dell’efficacia in una sorta di rincorsa alla minaccia di una “fuga” della Fiat».
48 Cfr. Cass. 1 luglio 1998, n. 6427, in GLav, 1998, n. 34.
E tuttavia la Suprema Corte ha statuito che la scadenza di un contratto collettivo non comporta l’automatico venir meno delle clausole contenenti la retribuzione, poiché – intaccando esse un bene di rilevanza costituzionale quale la rassicurazione di un’esistenza libera e dignitosa – la loro efficacia perdura fino a quando non intervengano fattori incompatibili.
Altro nodo da sciogliere riguarda la forma del contratto collettivo.
La prevalente dottrina, seguita da una certa giurisprudenza della Suprema Corte, richiede la forma scritta a pena di nullità.
Pur non essendo espressamente prevista dal legislatore, è presupposta da diverse norme che rinviano al contratto
49 Cfr. Cass. 17 gennaio 0000, x. 000, xx XXxx, 0000, x. 0; Cass. 9 maggio 2008,
n. 11602, ivi, 2008, n. 27.
50 Cfr. Cass. 10 novembre 2000, n. 14613, in Contratti e contrattazione collettiva,
2001, n. 5; Cass. 20 giugno 0000, x. 0000, xx XXXX, 0000, II, p. 8; Cass. 18 ottobre
2002, n. 14827, in XX, 0000, n. 48.
51 Circa l’applicazione del CCNL nei confronti dei lavoratori italiani all’estero x. XXXXXXXXX X., Xxxxxxx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 184.
E comunque, altra parte della dottrina d'accordo con altra giurisprudenza della Suprema Corte, rimarcando il principio della libertà di forma, ammette la stipulazione del contratto collettivo in qualsiasi forma, considerando, di conseguenza, la forma scritta ad substantiam una deroga a tale principio 53.
Venendo ora allo studio dei contenuti del contratto collettivo, prendiamo come punto di partenza il rilievo della ricchezza di funzioni, incrementata nel tempo, che lo stesso contratto assolve, grazie al ruolo istituzionale assegnato all’autonomia sindacale dall’ordinamento giuridico.
Possiamo affermare come all’interno della contrattazione collettiva siano affrontate e ricomprese potenzialmente tutte le vicende del rapporto di lavoro, dall’instaurazione all’estinzione.
52 Cfr. Cass. 3 aprile 1993, n. 4032, in DPL, 1993, n. 23.
53 Riferendosi al contratto aziendale cfr. Cass. 18 febbraio 1998, n. 1735, in DPL, 1998, n. 22.
54 Per un’accurata analisi dei contenuti della contrattazione collettiva v. DE XXXX XXXXXX X., L’evoluzione dei contenuti e delle tipologie della contrattazione collettiva, in Profili giuridici della libertà sindacale in Xxxxxx, Xxxxxx, 0000. V. anche CELLA G.P., TREU T., Relazioni industriali e contrattazione collettiva, Op. cit.
Con l’avvento degli anni settanta si assiste all’articolazione del sistema contrattuale, che riscopre le proprie radici aziendali.
Ed i contenuti sono sempre più complessi ed incisivi, caratterizzati da forti spinte egualitarie: il riferimento è all’ambiente di lavoro in tutti i suoi profili, dalla tutela della salute alla contestazione del metodo di produzione, passando per l’inquadramento professionale fino a giungere ai diritti d’informazione sulle politiche d’impresa.
Quella che va sotto il nome di funzione normativa consiste nella predisposizione dei contenuti dei contratti individuali perseguendo il fine di uniformare i trattamenti, onde evitare situazioni aziendali in cui il lavoratore, contraente debole, sia in balia del proprio datore.
Gli aspetti della parte normativa, inizialmente rappresentata solo da elementi retributivi, sono oggi più numerosi: si pensi alle ferie, all’orario di lavoro, alle sanzioni disciplinari, all’inquadramento e alla qualifica del lavoratore, alla disciplina del lavoro straordinario.
La funzione obbligatoria è realizzata, invece, attraverso un impianto di clausole che prevedono diritti ed obblighi da
55 Cfr. Cass. 15 gennaio 2003, n. 530, ove la Suprema Corte, sulla funzione gestionale del contratto collettivo, definisce clausole normative quelle destinate a regolare i rapporti riconducibili al contratto, e clausole obbligatorie quelle che disciplinano esclusivamente i rapporti tra le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti medesimi, creando obblighi e diritti per le parti stipulanti e non per i singoli lavoratori.
rispettare nel rapporto fra le parti stipulanti, comprese le loro organizzazioni interne minori.
Sono clausole obbligatorie quelle che si riferiscono ai diritti ed obblighi di informazione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori per quel che riguarda le scelte più delicate operate dall’impresa; quelle che si riferiscono all’amministrazione del contratto collettivo, che istituiscono e regolano gli organi di conciliazione ed arbitrato; quelle che disciplinano il conflitto collettivo (clausole di tregua sindacale); le c.d. clausole “istituzionali” che prevedono la creazione di enti bilaterali, commissioni paritetiche, fondi assistenziali e simili.
Più di recente il contratto collettivo si è arricchito di un’ulteriore funzione, quella c.d. gestionale.
56 Si pensi alle clausole contrattuali che stabiliscono impegni in capo alle parti stipulanti e contemporaneamente obblighi del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori (vedi quelle clausole che prevedono delle particolari procedure sindacali che sono condizione per l’esercizio di alcuni poteri datoriali, quali licenziamenti, trasferimenti, conciliazioni…).
57 Cfr. Cass. 22 giugno 2004, n. 11634, in MGL, 2004; Cass. 27 settembre 2004, n.
19271, in GLav, 2004, n. 43; Cass. 7 luglio 2006, n. 15500, in XX, 0000, n. 37.
A titolo esemplificativo possiamo ricordare i criteri di rotazione dei lavoratori sospesi, i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, i criteri per la collocazione del personale in cassa integrazione.
3.2. L’efficacia del contratto collettivo nazionale
Il problema dell’efficacia è forse quello che più di tutti coinvolge legislatore, dottrina e giurisprudenza in tema di contrattazione collettiva.
È bene chiarire come l’efficacia del contratto collettivo sia da intendere nella duplice accezione di efficacia oggettiva e soggettiva.
Sono entrambi problemi che riguardano la parte normativa dell’accordo collettivo, ma se nel primo caso è da interpretarsi nel senso di ricercare il meccanismo attraverso il quale il contratto collettivo influisce giuridicamente sulla disciplina dei singoli rapporti individuali di lavoro (efficacia in senso verticale), nel secondo caso essa è da riferire all’individuazione dei soggetti vincolati dallo stesso contratto collettivo (efficacia in senso orizzontale).
3.2.1. L’efficacia oggettiva
Riservando al capitolo successivo la trattazione dell’efficacia soggettiva, approfondiamo in questa sede il tema dell’efficacia oggettiva, argomento strettamente connesso con quello dell’inderogabilità del contratto collettivo, tratto qualificante dell’intero diritto del lavoro.
Il contratto collettivo di diritto comune è dotato di un’efficacia soggettiva limitata, ed è connotato da alcune peculiarità che consentono di affiancarlo alla famiglia delle fonti del diritto, pur senza essere considerato tale sotto il profilo tecnico-giuridico.
Nel corso dell’esperienza corporativa, come abbiamo già visto, il problema dell’inderogabilità del contratto collettivo era stato risolto senza troppe difficoltà, adottando la soluzione contenuta nell’art. 2077 c.c., il quale prevedeva la sostituzione automatica delle clausole 58 collettive a quelle individuali difformi, sancendo così la regola dell’inderogabilità del contratto collettivo corporativo da parte del contratto individuale, fatta eccezione per quelle clausole che avessero previsto condizione di favore per il prestatore di lavoro.
La dottrina dell’epoca configurò il contratto collettivo corporativo come fonte eteronoma di regolazione dei contratti individuali di lavoro.
58 Il codice civile contiene altre norme che prevedono la sostituzione automatica della norma imperativa alla pattuizione individuale difforme. Si veda l’art. 1339 (“inserzione automatica di clausole”) secondo il quale “Le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti”. Si veda anche il comma 2 dell’art. 1419 che disciplina il regime di nullità parziale del contratto, ove si prevede che “La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.
Discorso analogo non può farsi a proposito del contratto collettivo di diritto comune, non essendo presente una norma dello stesso calibro dell’art. 2077, che in modo diretto ed esplicito fissi l’inderogabilità del contratto collettivo nazionale.
La dottrina, criticando l’impostazione giurisprudenziale e preferendo un approccio privatistico, ha elaborato diverse teorie atte a comprendere l'ambiguità dell’efficacia del contratto collettivo, da alcuni ritenuta immediata, cioè operante nei confronti del singolo rapporto di lavoro, da altri considerata, di contro, mediata dal contratto individuale.
Chi supportava la teoria della rappresentanza 60 che si concreta nell’assoggettamento dell’autonomia individuale all’autonomia collettiva, traendo spunto dall’art. 1388 c.c., sosteneva che il contratto collettivo fosse dotato di efficacia unicamente obbligatoria; chi, invece, qualificava il contratto collettivo come atipico ex art. 1322 comma 2 c.c., gli attribuiva
59 Tra le prime pronunce favorevoli all’applicazione dell’art. 2077 rintracciamo Cass. Civ. 12 maggio 1951, n.1184. In tale sentenza si evidenzia come la negazione dell’inderogabilità riferita al contratto collettivo corrisponda a “distruggere l’istituto nella sua essenza e nella sua forza economico-sociale”. Anche in periodi più recenti è possibile trovare qualche sentenza applicativa dell’art. 2077. Si vedano Cass. Civ. 5 agosto 2000, n. 10349; Cass. Civ. Sez. Lav. 21 febbraio 2007, n. 4011.
60 Fra gli altri x. XXXXXXX, CATAUDELLA, BRANCA, GRANDI, XXXXXXX, RIVA XXXXXXXXXXX, SIMI.
un’efficacia di tipo dispositivo, dunque immediata, nei confronti del contratto individuale.
La celebre teoria del mandato irrevocabile, formulata da Xxxxxxxxx Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, scartando l’idea che il contratto collettivo fosse dotato di un’efficacia normativa, ammetteva l’esistenza di un mandato tra rappresentato e rappresentante, di guisa che il contratto concluso dal rappresentante fosse in grado di esplicare i propri effetti obbligatori direttamente nella sfera giuridica del rappresentato.
L’Autore basò il suo studio sull’art. 1723 comma 2 c.c., che prevede l’ipotesi del mandato conferito nell’interesse di terzi, e sull’art. 1726 c.c. che, invece, regola l’ipotesi del mandato collettivo.
Applicando i due articoli sopra citati alle parti in causa, cioè la parte individuale del rapporto di lavoro (mandante - rappresentato) e la parte del contratto collettivo (mandatario - rappresentante), si giunse al risultato della irrevocabilità del mandato.
Grazie alla circostanza che vede i singoli soggetti conferire all’associazione professionale, attraverso l’iscrizione, il mandato a provvedere alla tutela dell’interesse collettivo, mandato che, essendo conferito anche nell’interesse di altri individui, non può essere revocato, ne consegue, oltre alla prevalenza dell’interesse collettivo su quello individuale, l’inderogabilità del contratto collettivo.
Pur negando formalmente l’esistenza dell’efficacia normativa del contratto collettivo, l’Autore attribuisce allo stesso contratto un’efficacia che, di fatto, poteva benissimo misurarsi con quella del contratto ad efficacia normativa.
In seguito, tuttavia, parte della dottrina, criticando la teoria del mandato irrevocabile, ritenne maggiormente rilevante l’atto di adesione al sindacato da parte del singolo individuo, al fine di dimostrare l’inderogabilità del contratto collettivo.
Ne discendeva che fino al recesso del singolo dal sindacato, quest’ultimo manteneva tale riserva di competenza, con la conseguenza di poter stipulare contratti collettivi con effetti immediati nella sfera del singolo individuo.
Un’ulteriore posizione dottrinale affonda le radici nell’idea che i poteri di autonomia individuale e collettiva, non sono suscettibili di duplicazione.
In altre parole, il singolo con l’atto di adesione al sindacato si spogliava delle proprie potestà contrattuali attribuendole all’autonomia collettiva, così da evitare un contrasto tra le due sfere di autonomia - competenza.
Come acutamente rimarcato da Xxxxxxxx «la difformità di un contratto individuale dal contratto collettivo può rilevare al massimo sul piano dei rapporti associativi tra organizzazione sindacale e singoli aderenti, importare cioè una responsabilità di quest’ultimi nei confronti dell’associazione per aver contratto individualmente in difformità dal contratto collettivo, ma non può certo produrre l’invalidità del contratto individuale difforme
61 CATAUDELLA A., Adesione al sindacato e prevalenza del contratto collettivo sul contratto individuale, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1966, p. 559 ss.
con sostituzione automatica delle clausole di quello collettivo» 62.
La non idoneità dei suddetti tentativi ermeneutici di attribuire al contratto collettivo l’attributo dell’inderogabilità, corroborò l’idea che il contratto collettivo fosse assimilabile alla legge, se non sotto l’aspetto dell’erga omnes, quantomeno sotto quello dell’inderogabilità.
Xxxxxx, infatti, riteneva che attraverso la configurazione del contratto collettivo come fonte integrativa del contratto di lavoro, si potesse comunque arrivare al risultato dell’inderogabilità.
In conclusione, l’efficacia normativa e l’inderogabilità del contratto collettivo sono comprese nella legge 11 agosto 1973, n.
533 che ha modificato l’art. 2113 del codice civile, laddove la norma stabilisce che “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide”.
L’articolo lascia chiaramente intendere che le clausole dei contratti collettivi attribuiscono diritti ed obblighi alle parti del rapporto di lavoro.
Tuttavia, la norma sembra dare per presupposta l’inderogabilità delle disposizioni dei contratti o accordi collettivi, senza, per questo, affermarla apertis verbis.
Per giungere a tale soluzione appare necessario integrare lo stesso art. 2113 c.c. con l’accostamento di altre norme.
62 RUSCIANO M., Contratto collettivo e autonomia sindacale, Torino, 2003, p. 89.
Senonché l’art. 1339 c.c., come d’altra parte lo stesso art. 2077 c.c., vanta vere e proprie radici corporative; pertanto sarebbe necessaria la prova pratica di applicazione nei confronti degli attuali contratti collettivi allo stesso modo in cui dovrebbe procedersi con riferimento all’art. 2077 c.c.
A questo punto sarebbe più facile percorrere la strada che porta alla dimostrazione dell’applicabilità dell’art. 2077 c.c. nei confronti del contratto collettivo di diritto comune.
Xxxxxxx ha interpretato la disposizione contenuta nell’art. 2113 c.c. ricavandovi un’analogia tra la forza regolativa del contratto collettivo e l’efficacia delle norme di legge, salvo il diverso grado gerarchico.
D’Xxxxxx, più esplicitamente, ha affermato che l’art. 2113 conferisce al contratto collettivo, nonostante la sua natura pur sempre negoziale, il potere di attribuire, così come la legge, diritti ed obblighi direttamente alle parti del rapporto.
63 Per quanto riguarda la prima norma v. supra nota 58. L’art. 1374 c.c. dispone che “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità”.
A parere di Xxxxxxx «emerge una connotazione del contratto collettivo: come atto normativo prodotto da soggetti privati autonomamente qualificati nell’assetto costituzionale; come atto indirizzato a operare dall’esterno dei contratti individuali di lavoro secondo un meccanismo analogo a quello prescritto dall’art. 1374 c.c.; come atto tendenzialmente unitario ed esclusivo per ciascuna categoria professionale come documentato da una consolidata esperienza storica; e come atto la cui efficacia giuridica tendenzialmente generale può essere delimitata dall’esterno soltanto attraverso atti collettivi che ne limitano l’operatività 65 ».
64 Cfr. Cass. 23 luglio 0000, x. 0000, xx XXX, 0000; Cass. 12 settembre 1995, n.
9646, ivi, 1996; Cass. 5 febbraio 2000, n. 1298, ivi, 2000; Cass. 18 dicembre 1998,
n. 12716, ivi, 1999; Cass. 22 novembre 1996, n. 10304, ivi, 1997.
65 XXXXXXX G., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, in RGL, 2011, IV, p. 751. 66 Ancora XXXXXXX G., Op. ult. cit, p. 757, secondo il quale la funzione tariffaria e normativa del contratto collettivo non sono al momento compromesse, nonostante le forti tensioni sociali ed una frammentazione della rappresentanza sindacale,
«perché fortemente radicate nella tradizione storica del nostro sindacalismo e nella
CAPITOLO II
“LA PROBLEMATICA DELL’EFFICACIA SOGGETTIVA”
1. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo nazionale. 2. Tecniche di estensione dell’efficacia soggettiva: volontà e libertà sindacale. 2.1. Il dissenso e l’efficacia in nolentes: la legge 14 luglio 1959, n. 741.
2.2. (Segue) La c.d. legislazione “promozionale”. 2.3. (Segue) Gli interventi giurisprudenziali. 2.4. La quaestio voluntatis come requisito dell’erga omnes: la clausola di rinvio. 2.5. (Segue) L’iscrizione al sindacato. 2.6. (Segue) L’adesione al contratto.
1. L’efficacia soggettiva del contratto collettivo nazionale
Con l’emanazione dell’art. 39 della Costituzione, la vicenda del contratto collettivo, più precisamente quella della sua efficacia soggettiva, sembrava destinata a risolversi.
Come in precedenza già ricordato, tale articolo avrebbe dovuto (o dovrebbe) consentire la trasformazione del contratto collettivo corporativo, dotato ex se di efficacia erga omnes, in contratto collettivo dotato di efficacia erga omnes in quanto stipulato da un determinato organo e da una determinata procedura 67.
connotazione istituzionale del contratto collettivo nell’attuale ordinamento giuridico quale fonte tipica di produzione di regole economiche e comportamentali con una naturale proiezione egemonizzante».
67 Cfr. LUNARDON F., Efficacia soggettiva del contratto collettivo e democrazia sindacale, Torino, 1999, p. 17.
A causa dei diversi ostacoli alla piena attuazione di tale articolo e forse in ragione dell’apprezzamento del legislatore nei confronti dell’assetto scaturitone che si fonda sull’autonomia privata, il nostro sistema sindacale ha seguito itinerari diversi da quelli tracciati nel quarto comma dello stesso art. 39.
Efficacia erga omnes, considerata nella dimensione categoriale del contratto nazionale, che dunque si esplica nel vincolo di tutti i soggetti di quella medesima categoria al contratto nazionale siglato.
Fondamentale, per ricercare la legittimazione dei sindacati, è la nozione di interesse collettivo, la cui elaborazione ha contribuito a rafforzare il ruolo assunto dall’autonomia privata collettiva.
68 GIUGNI G., Diritto sindacale, Op. cit., p. 137.
69 Cit. XXXXXXX-XXXXXXXXXX G., Efficacia soggettiva del contratto collettivo: accordi separati, dissenso individuale e clausola di rinvio, in RIDL, 2010, III, p. 488-489.
Una nozione che, sebbene abbia trovato una definizione “ufficiale” solamente negli anni sessanta 70 , ha da sempre coinvolto i giuristi fin dal periodo liberale.
E già durante il periodo corporativo Galizia riteneva che
Con l’emanazione della Costituzione l’interesse collettivo era dapprima considerato quale mero complemento nei confronti del modello delineato dall’art. 39 ma, a causa della persistente inerzia del legislatore verso l’attuazione del dettato
70 La definizione e l’elaborazione del concetto è opera di XXXXXXX-XXXXXXXXXX F., Autonomia collettiva, giurisdizione, diritto di sciopero, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 177-178. L’insigne giurista intendeva l’interesse collettivo come
«l’interesse di una pluralità di persone a un bene idoneo a soddisfare non già il bisogno individuale di una o di alcune di quelle persone, ma il bisogno comune di tutte. In questo senso l’interesse collettivo è indivisibile, non diversamente dall’interesse generale, che è l’interesse collettivo per eccellenza, l’interesse di tutta la comunità giuridicamente organizzata».
71 LUNARDON F., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, Op. cit., p. 34-35. Secondo XXXXXX X., La funzione giuridica del contratto collettivo di lavoro, in AIDLASS, Milano, 1968, si trattava «non di una realtà ontologica, ma di un modo di guardare ad essa: è cioè il prodotto di un giudizio di valore, di una qualificazione». 72 AA. VV., Diritto del lavoro, in Carinci (diretto da), Diritto del lavoro, I, Le fonti, il diritto sindacale, Torino, 2007.
73 GALIZIA A., Il contratto collettivo di lavoro, Napoli, 1907.
costituzionale, il principio in questione seguì un processo di istituzionalizzazione tale da affermarlo come concetto alternativo sia agli schemi codicistici sia alle coordinate offerte dal legislatore costituente.
In questo modo l’interesse collettivo, che nel diritto positivo non aveva ancora concreta esistenza, divenne l’humus per foggiare realmente il nucleo del sindacato.
Il concetto in questione, sebbene affrontato e studiato da numerosi Autori, non ha mai trovato un riscontro nel diritto positivo, anche a causa del forte valore idealistico con cui è stato elaborato, così da non incidere sul problema dell’erga omnes ma risultando utile, piuttosto, nel fornire un contributo in maniera del tutto indiretta alla tesi della indivisibilità degli interessi.
Pragmaticamente l’interesse collettivo, se da solo non è stato determinante nella risoluzione della questione dell’efficacia soggettiva, ha senza dubbio rafforzato la concezione di superiorità ed alterità della dimensione del gruppo rispetto al singolo individuo.
Il discorso dell’efficacia erga omnes ha attraversato varie fasi in cui il legislatore ha cercato di trovare una soluzione quanto più stabile: partendo dalla legge Vigorelli del 1959, per
74 Cfr. XXXXXX X., Rappresentanza sindacale e consenso, Milano, 1992; PERSIANI M., Saggio sull’autonomia privata collettiva, Xxxxxx, 0000.
passare alla legislazione di sostegno culminata con l’emanazione dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), continuando con il diritto del lavoro c.d. “della crisi” di metà anni settanta, fino ad arrivare alla contrattazione aziendale gestionale di tipo ablativo.
2. Tecniche di estensione dell’efficacia soggettiva: volontà e libertà sindacale
All’interno delle varie tecniche volte a dilatare lo spettro di efficacia soggettiva del contratto collettivo, è opportuno discernere il principio di libertà e di autodeterminazione sindacale sancito nel primo comma dell’art. 39 della Costituzione, inteso tanto nella sua accezione positiva, quanto in quella negativa.
Altra chiave di lettura del problema può essere individuata ponendo al centro dell’indagine l’elemento della volontà, senza, per ciò stesso, dimenticare che esistono meccanismi di estensione dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo che trascendono la volontà dei soggetti del rapporto di lavoro.
Ad oggi il contratto collettivo di diritto comune spiega la sua efficacia solamente nei confronti degli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti, in virtù di un mandato rappresentativo conferito dal datore di lavoro e dal lavoratore all’atto di adesione alle rispettive organizzazioni sindacali.
Dall’emanazione della Costituzione sono stati molteplici i tentativi messi in atto dal legislatore, dalla giurisprudenza e dalla dottrina, tutti volti a colmare il vuoto causato dalla mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39.
Dei vari disegni di legge costituzionale 75 che si sono succeduti nel tempo, tratto comune a tutti è rappresentato dalla volontà di lasciare intatto il primo comma dell’art. 39, contenente il principio di libertà dell’organizzazione sindacale.
Inoltre, in tutte le proposte di revisione dell’impianto tracciato dall’art. 39, si è cercato di evitare la cristallizzazione del concetto di “sindacato rappresentativo” all’interno di una norma costituzionale, a causa della mutevolezza dello stesso in relazione alle vicende evolutive del sistema di relazioni industriali.
Per comprendere meglio la dimensione del problema è opportuno prendere in considerazione due punti fermi: anzitutto, la libertà sindacale, che costituisce un fondamentale principio dello Stato democratico contemporaneo, ed in secondo luogo, l’esigenza sociale di garantire la generale obbligatorietà
75 Cfr. la proposta di legge costituzionale n. 3768 presentata alla Camera dei Deputati il 30 marzo 1989, la quale, auspicando una revisione costituzionale con annessa risoluzione della problematica inerente all’efficacia soggettiva, conteneva una prescrizione di democraticità dell’ordinamento interno delle organizzazioni sindacali insieme ad un rinvio al legislatore per quel che riguarda la definizione dei criteri di accertamento della rappresentatività sindacale effettiva, oltre all’individuazione di linee guida per orientare i metodi di accertamento ed i criteri di rilevazione della rappresentatività stessa (consistenza associativa rilevabile tramite le deleghe rilasciate ai datori di lavoro ed il consenso espresso nelle elezioni delle rappresentanze in azienda). Cfr. inoltre il disegno di legge costituzionale n. 1508/s presentato al Senato su iniziativa di Xxxxxx ed altri. In tale proposta si demandava al legislatore la determinazione dei criteri per l’individuazione dei sindacati rappresentativi. La differenza con il disegno di legge costituzionale proposto alla camera sta nel fatto che qui non si fa alcun riferimento ai principi guida cui il legislatore deve attenersi per fissare le condizioni richieste per l’attribuzione della rappresentatività.
Una volta afferrate tali premesse, è possibile scindere i tentativi di risoluzione della questione dell’erga omnes in due macro aree, l’una che tiene conto della volontà dei soggetti come condizione di efficacia del contratto collettivo, l’altra che, invece, prescinde dall’elemento volitivo, così da cercare soluzioni al dissenso individuale prodotto dalla crisi e dalla rottura del sistema sindacale.
2.1. Il dissenso e l’efficacia in nolentes: La legge 14 luglio 1959, n. 741
Osserviamo da vicino tutti quei tentativi, operati perlopiù dal legislatore e dalla giurisprudenza, che, prescindendo dall’elemento volitivo di una delle parti del rapporto di lavoro di applicare il contratto collettivo, hanno cercato di «aggirare il problema dell’erga omnes» 77.
Ravvisiamo come non si sia trattato di un vero e proprio raggiro ai danni dell’art. 39 della Costituzione, in quanto l’assetto sindacale, che si era già delineato nei primissimi anni successivi all’emanazione della Carta fondamentale, godeva di una sua stabilità ben precisa che il legislatore voleva evitare di infrangere.
76 Come osservato da XXXX X., Problemi costituzionali, Op. cit., p. 142.
77 Cit. LUNARDON F., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, Op. cit., p. 78.
Si è cercato, allora, di escogitare una serie di soluzioni utili a minare il meno possibile la sfera di autonomia propria dei sindacati, che fungessero da meccanismo di superamento della volontà negativa individuale.
L’obiettivo che s’intendeva perseguire con la legge Xxxxxxxxx era quello di offrire un valido sostegno alla contrattazione attraverso la forza propria di un provvedimento come il decreto legislativo, favorendone, conseguentemente, un suo ulteriore sviluppo.
Venendo al cuore della legge Xxxxxxxxx, nell’emanazione di tali decreti, il governo era però vincolato ad uniformarsi a tutte le clausole dei contratti collettivi che fossero stati stipulati anteriormente all’entrata in vigore della legge (cioè prima del 3 ottobre 1959); le norme delle leggi delegate, inoltre, non potevano essere in contrasto con norme imperative di legge; i
78 Per approfondire l’elaborazione della legge Xxxxxxxxx, seguendo anche il suo iter di approvazione, x. XXXX X., Problemi costituzionali, Op. cit., p. 321. Cfr. anche XXXXXXX-XXXXXXXXXX F., La disciplina transitoria dei rapporti di lavoro, Roma, 1961; PERSIANI M., Natura e interpretazione delle norme delegate sui minimi di trattamento ai lavoratori, in RDL, 1963, I, p. 245 ss.
79 Questa legge vede la luce in un contesto in cui sia la CGIL (che già negli anni cinquanta era favorevole ad un intervento del legislatore in tal senso) sia la CISL sono pienamente favorevoli ad un provvedimento legislativo volto ad estendere l’efficacia dei contratti collettivi di diritto comune senza, per questo motivo, operare discriminazioni tra le varie associazioni sindacali.
trattamenti minimi previsti nelle leggi delegate si sostituivano di diritto a quelli in atto, salvo condizioni, anche di carattere aziendale, più favorevoli ai lavoratori; le norme, infine, erano derogabili solo in senso più favorevole al lavoratore.
Attraverso questo procedimento delegato il contratto collettivo si trasformava in legge e poteva finalmente esprimersi con efficacia generale.
Da notare il caso in cui il contratto aziendale avesse previsto norme più favorevoli ai lavoratori rispetto al contratto collettivo efficace erga omnes.
Questa possibilità pose il problema dell’individuazione del trattamento “più favorevole” per il lavoratore, e malgrado un iniziale tentennamento della giurisprudenza, si è giunti ad un’individuazione nel senso di considerare il rapporto con riferimento “alla complessiva disciplina di ciascun istituto, conforme a quello utilizzato sul piano dei rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale di lavoro” 80.
La durata iniziale della delega legislativa era di un anno ma, grazie alla legge 1 ottobre 1960, n. 1027 81 , essa fu successivamente prorogata di ulteriori quindici mesi, con la previsione per il governo di uniformarsi anche a quegli accordi collettivi sottoscritti nei dieci mesi successivi all’entrata in vigore della legge Vigorelli.
80 In questo senso Cass. 16 giugno 1977, n. 2516, in MGL, 1978, 12, p. 478; Cass.
2 dicembre 0000, x. 00000, xx XXXX, 0000, II, p. 883; Cass. 7 maggio 2001, n.
6348, in MGL, 2001, p. 803; Cass. 13 giugno 0000, x. 0000, xx XXXX, 0000, II, p.
491; Cass. 4 giugno 2002, n. 8097, in OGL, 2002, p. 214 ss.; Cass. 1 settembre 2003, n. 12760, in NGL, 2004, p. 325, secondo la quale la valutazione per determinare il trattamento più favorevole deve effettuarsi complessivamente nell’ambito dei singoli istituti contrattuali; Cass. 18 agosto 2004, n. 16191, in RIDL, 2005, II, p. 321.
81 Le ragioni che spinsero il Parlamento ad optare per la proroga furono molteplici, sia per il crescente numero dei contratti collettivi depositati, sia per consentire la recezione dei contratti collettivi stipulati successivamente.
In caso di conflitto tra i contratti collettivi attuali e quelli recepiti nei decreti delegati – stabilisce la legge di proroga – si applicheranno le disposizioni contenute nei primi se più favorevoli ai lavoratori.
Con la legge Xxxxxxxxx il legislatore ha confermato che il principio della derogabilità in melius è ad oggi divenuto un principio generale dell’ordinamento, per la cui esclusione è necessaria un’espressa previsione di legge.
La disciplina della legge Xxxxxxxxx, plasmata nel segno della transitorietà ed eccezionalità, avrebbe rischiato, per mezzo di continui rinnovi, di diventare permanente, eludendo, così, il disegno previsto dal costituente.
Puntuale e decisivo fu l’intervento della Corte Costituzionale, la quale con la sentenza 19 dicembre 1962, n.
106 82 ha accolto l’eccezione di incostituzionalità sollevata in relazione alla legge di proroga del 1 ottobre 1960, n. 1027, lasciando intatta, invece, la legge Xxxxxxxxx.
La Corte ha ritenuto incostituzionale il primo articolo della legge di proroga, affermando che “anche una sola reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della transitorietà ed eccezionalità che consentono di dichiarare insussistente la pretesa violazione del precetto costituzionale e
82 Cfr. Corte Cost. 19 dicembre 1962, n. 106, dove la Corte ravvisa un contrasto con i commi 2,3 e 4 dell’art. 39 della Costituzione. Vedi i relativi commenti di CRISAFULLI V., Su alcuni aspetti problematici della delega contenuta nella legge 14 luglio 1959, n. 741e i relativi decreti delegati, in GCost, 1962, p. 1414 ss.; PERA G., Le norme transitorie per garantire i minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori nel giudizio della Corte Costituzionale, in Foro it., 1963, I, p. 648; GHERA E., Note sulla legittimità della disciplina legislativa per l’estensione dei contratti collettivi, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1963, p. 1117 ss.
finisce col sostituire al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costruito dal legislatore e pertanto illegittimo” 83.
La sentenza, inoltre, asserì che l’art. 39 della Costituzione non sottintendeva una riserva normativa o contrattuale a favore dei sindacati, per regolamentare i rapporti di lavoro; in tal caso, lampante sarebbe stata la violazione degli artt. 3 comma 2, 35 commi 1,2 e 3 e 37 della Costituzione che presuppongono un intervento del legislatore “al fine di tutelare la dignità personale del lavoratore ed il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato”.
L’art. 39, a parere della Corte, prevede una particolare procedura alla quale possono partecipare solo i sindacati muniti di determinati requisiti che attribuisce efficacia erga omnes ai contratti collettivi così stipulati, per cui “una legge, la quale cercasse di conseguire questo medesimo risultato […] in maniera diversa da quella stabilita dal precetto costituzionale, sarebbe palesemente illegittima”.
Ciò nonostante, la Corte dichiarò costituzionalmente legittima la legge Vigorelli, poiché presentava finalità e caratteristiche squisitamente transitorie, che avrebbero dovuto regolare la materia in attesa della legge attuativa dell’art. 39 della Costituzione.
La conseguenza più importante di questa pronuncia investì i decreti delegati entro i quali si recepivano i contratti collettivi.
Ebbene, i decreti emanati ai sensi della legge Vigorelli furono ritenuti validi, continuando ad esplicare efficacia anche
83 Cfr. XXXXXXXXX X., Diritto sindacale, Torino, 2012, p. 136 ss.
nei confronti dei datori di lavoro non iscritti ad alcuna sigla sindacale.
Dall’altra parte, invece, tutti i decreti emanati ai sensi della legge di proroga, contenenti i contratti collettivi siglati dopo il 3 ottobre 1959, furono caducati.
Con il passare degli anni, la Corte Costituzionale si trovò nuovamente a doversi pronunciare sulla legge Vigorelli, stavolta, tacciandola di incostituzionalità.
Ed infatti, la Corte, con la sentenza 6 luglio 1971, n. 156, ritenne la legge Vigorelli costituzionalmente illegittima nella parte in cui non consente al giudice di dare applicazione all’art. 36 della Costituzione.
2.2. (Segue) La c.d. legislazione “promozionale”
Col passare degli anni il legislatore, nell’affrontare il quesito dell’erga omnes, ha mostrato anche un approccio di carattere incentivante, predisponendo una legislazione conosciuta come “promozionale”, sviluppatasi grazie all’emanazione dello Statuto dei lavoratori.
84 PERSIANI M., Diritto sindacale, Padova, 2011, p. 110.
In dottrina s’è proposta una tripartizione dei blocchi normativi in questione: il primo sorto attorno (prima e dopo) all’art. 36 St. lav.; il secondo relativo alla legislazione c.d. di fiscalizzazione degli oneri sociali; il terzo, infine, più recente, dei
c.d. contratti di riallineamento 85.
Tuttavia tale suddivisione non è poi così assoluta, giacché è opportuno osservare come già nei primissimi anni sessanta, attraverso il d.p.r. 22 novembre 1961, n. 1192 ed il
Ed è su questa falsariga che il legislatore decide di operare, realizzando l’art. 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, (da qui Statuto dei lavoratori).
In questo articolo, racchiuso nel titolo VI - “Disposizioni finali e penali”, si prevede che “Nei provvedimenti di concessione di benefici accordati ai sensi delle vigenti leggi dallo Stato a favore di imprenditori che esercitano professionalmente un’attività economica organizzata e nei capitolati di appalto attinenti all’esecuzione di opere pubbliche, deve essere inserita la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario o appaltatore di applicare o di far applicare nei confronti dei lavoratori dipendenti condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona”.
85 La classificazione offerta è opera di LUNARDON F., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, Op. cit., p. 96.
86 Per un elenco maggiormente esaustivo contenente le disposizioni di carattere “promozionale” x. XXXXXXX X., Ordinamento, ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Padova, 1981, p. 269 ss.
Tale obbligo, si specifica nel secondo comma, è da rispettare non solo nella fase in cui l’appaltatore realizza le opere, gli impianti o i servizi che gli sono stati commissionati, ma anche per tutto il periodo seguente in cui l’imprenditore continua a beneficiare di quei vantaggi ed agevolazioni finanziarie e creditizie concessi dallo Stato secondo le disposizioni di legge.
Nel caso in cui l’obbligo di cui al primo comma sia violato, le pubbliche amministrazioni concedenti l’appalto o il beneficio “adotteranno le opportune determinazioni fino alla revoca del beneficio, e nei casi più gravi o nel caso di recidiva potranno decidere l’esclusione del responsabile, per un tempo fino a cinque anni, da ulteriore concessione di agevolazioni finanziarie o creditizie ovvero da qualsiasi appalto”.
A questo punto, il problema forse più delicato è stato quello di individuare la natura giuridica della clausola sociale che, come abbiamo visto, obbliga l’imprenditore ad applicare condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro nella zona.
Nel dettaglio il dubbio consisteva nella possibilità di configurare la clausola come un contratto a favore di terzi, ex art. 1411 c.c., in caso contrario come un mero vincolo, in capo all’imprenditore, verso la pubblica amministrazione.
87 La giurisprudenza, specie di legittimità, ha affermato che la pubblica amministrazione, attraverso la concessione di benefici o di appalti, persegue
Alla stregua di tale impostazione, l’obbligo di far rispettare il contratto è riferito solo ed esclusivamente all’ente pubblico concedente, risolvendosi di conseguenza in una semplice regola che investe il rapporto tra imprenditore e pubblica amministrazione.
Un ulteriore interrogativo si è posto in riferimento alle eventuali conseguenze causate dalla mancata inserzione della clausola sociale che, come oramai sappiamo, obbliga all’osservanza del contratto collettivo.
La dottrina ha risolto in maniera unanime la questione, ritenendo quale responsabile dell’omessa inserzione la sola pubblica amministrazione, malgrado qualche voce isolata abbia ritenuto che tale responsabilità sussista ugualmente in capo all’imprenditore secondo quanto disposto dall’art. 1374 c.c.
L’art. 36 St. lav. garantisce l’osservanza dei contratti collettivi soltanto per via mediata, proprio perché non è
l’interesse “alla regolare esecuzione dei lavori […], altrimenti compromessa dalla litigiosità dei lavoratori, motivata da un loro trattamento meno favorevole di quello stabilito dalla contrattazione collettiva”. Cfr. Cass. 5 giugno 1981, n. 3640, in MGL, 1982, p. 335; Cass. 21 dicembre 1991, n. 13834, in GI, 1993, I, p. 640; Cass. 13
agosto 1997, n. 7566; Cass. 25 luglio 1998, n. 7333.
88 Cfr. VALLEBONA A., Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in DLRI, 1997, p. 381 ss. Cfr. anche Cass. 28 novembre 1986, n. 7041, in GC, 1987, I, p. 865.
indirizzato agli imprenditori, ma pone un obbligo a carico della pubblica amministrazione 89.
Il meccanismo dell’art. 36, se da una parte assoggetta l’imprenditore al rispetto della clausola, quando questa sia stata apposta nel provvedimento concessorio, dall’altra parte, nell’eventualità in cui la clausola sociale manchi, fa sorgere un corrispondente diritto soggettivo dei dipendenti dell’imprenditore stesso nei confronti della pubblica amministrazione, con possibile pretesa risarcitoria in caso d’inadempimento.
È necessario, in ultima analisi, specificare che il concetto di “rispetto delle condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria o della zona”, non esprime la necessità di un’applicazione tout court dei contratti collettivi.
In questa sede la rilevanza e la funzione del contratto collettivo possono essere pacificamente accostate al ruolo che lo stesso assolve nella determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente prevista dall’art. 36 della Costituzione, ovverosia un criterio-guida, un punto di riferimento per stabilire il trattamento economico spettante ai lavoratori.
Questo scenario ha però subito un mutamento introdotto attraverso il d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163, il c.d. codice dei contratti pubblici, il quale ha stabilito che l’imprenditore che abbia stipulato con la pubblica amministrazione un contratto per la fornitura di servizi, lavori, prodotti ed opere sia tenuto “ad
89 In tal senso BORTONE R., L’efficacia soggettiva del contratto collettivo e le sue forme di estensione, in Bortone-Curzio, Il contratto collettivo (diretto da Xxxxxx X.), Torino, 1984, p. 206 ss.
osservare integralmente il trattamento economico e normativo stabilito dai contratti collettivi nazionali e territoriali in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni”.
La Corte di Giustizia della Comunità Europea ha però messo un argine a questa tendenza normativa pronunciandosi sul caso Xxxxxxx il 3 aprile 2008, censurando la normativa di un Land tedesco che prevedeva come condizione per l’aggiudicazione di un appalto pubblico, il rispetto delle tariffe salariali previste dai contratti collettivi (che come in Italia, sono privi di efficacia erga omnes) 91.
Secondo la pronuncia della Corte la normativa tedesca violava l’art. 56 del TFUE (ex art. 49 TCE) 92, relativo alla libera prestazione dei servizi all’interno del territorio dell’Unione
90 X. XXXXXX G., Diritto sindacale, aggiornato da Bellardi X., Xxxxxx P., Xxxxxxxx M.G., Bari, 2010, p. 144. È importante leggere tale intervento avendo riguardo al panorama internazionale. La convenzione OIL n. 94 del 1949 (in Italia, resa esecutiva grazie alla legge 2 agosto 1952, n. 1305) prevede che i contratti con le pubbliche amministrazioni debbano contenere apposite clausole sociali in grado di garantire ai lavoratori condizioni di lavoro e salari non inferiori a quanto previsto dai contratti collettivi dello stesso settore merceologico e della stessa area territoriale.
91 Xxxxx xx Xxxxxxxxx 0 aprile 2008, n. 346/06, Presidente e Relatore Xxxxxxxxxx, in RIDL, 2008, con nota di XXXXX X., Gli equilibrismi della Corte di Giustizia: il caso Xxxxxxx, p. 479.
92 L’art. 56 del TFUE così stabilisce: “Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno dell’Unione”.
Europea, in quanto non consente all’impresa di uno Stato membro di continuare ad applicare ai propri dipendenti le condizioni di lavoro previste nel paese d’origine, nel caso in cui i lavori debbano eseguirsi sul territorio di un qualsiasi altro Stato membro, sprecando così il vantaggio di poter svolgere quella attività beneficiando di costi della manodopera inferiori.
La Corte nell’elaborazione della decisione si rifaceva alla direttiva 96/71/CE relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, ritenendo che l’unica imposizione applicabile da parte dello Stato ospitante nei confronti delle imprese di altri Stati membri fosse quella che derivi direttamente da norme di legge, regolamenti o anche contratti collettivi purché dichiarati di applicazione generale.
Alla sentenza hanno fatto seguito non poche critiche da parte della dottrina e dello stesso Parlamento europeo nella risoluzione n. 2085 del 22 ottobre 2008.
Secondo tali critiche non si riteneva esistente alcuna discriminazione, e pertanto non si rientrerebbe nel campo di applicazione dell’art. 56 del TFUE, quando lo Stato membro, nel territorio dove devono essere prestati i servizi, impone all’impresa straniera di rispettare delle regole applicate a tutte le imprese locali.
In dottrina s’è perfino parlato di “paradosso” cui porterebbe la sentenza Xxxxxxx, in quanto la normativa che impone l’osservanza del contratto collettivo non sarebbe applicabile alle imprese straniere in virtù dell’art. 56 TFUE, mentre sarebbe applicabile alle imprese nazionali le quali,
Seguendo la tripartizione sopra riportata, concentriamo adesso l’attenzione sul secondo blocco della legislazione promozionale, quello della c.d. fiscalizzazione degli oneri sociali.
I provvedimenti legislativi in questione furono emanati a partire dalla seconda metà degli anni settanta.
La legge 8 agosto 1977, n. 573 al comma 2 dell’art. 2 prevedeva la riduzione degli oneri contributivi alla condizione che fossero applicati “i contratti collettivi nazionali e gli accordi aziendali vigenti per il settore di appartenenza dell’impresa”.
Questa formulazione richiedeva la totale applicazione dei contratti collettivi, e risultando fin troppo rigida, si cercò di attenuarla fin dalla successiva legge 5 agosto 1978 n. 502.
Quest’ultima, all’art. 4, ammetteva la possibilità di ottenere le esenzioni contributive esclusivamente per quelle imprese che garantivano ai propri dipendenti “trattamenti non
00 Xxx. XXXXXXXXX X., Xxxxxx, Xxxxx e Xxxxxxx: i riflessi sul diritto di sciopero e sull’autonomia collettiva nell’ordinamento italiano, in Vimercati A. (a cura di), Il conflitto sbilanciato, Bari, 2009.
94 In proposito x. XXXXXXX X., Fiscalizzazione degli oneri sociali e sgravi contributivi, in RIDL, 1989, I, p. 66 ss.; FONZO F., Fiscalizzazione degli oneri sociali e osservanza delle norme collettive, in RGL, 1984, III, p. 59 ss.
inferiori a quelli minimi previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”.
Come sostenuto da Xxxxxxx, con questa disposizione si eliminava qualsiasi «riferimento al contratto collettivo nel suo complesso», oltre ai riferimenti relativi alla contrattazione aziendale, generalizzando, in un certo senso, la previsione del beneficio fiscale a tutte le imprese che applicassero ai lavoratori trattamenti economici non inferiori ai minimi.
In ultimo, occorre citare i c.d. contratti di riallineamento, recentemente introdotti dal legislatore 96, il quale ha previsto la sospensione della condizione dell’osservanza dei contratti collettivi per le imprese che, operando nelle aree ad alto tasso di disoccupazione e di evasione fiscale, si impegnino, mediante l’applicazione di contratti di zona c.d. di riallineamento, a
95 Si vedano l’art. 00 xxx x.x.x. 0 xxxxx 0000, x. 000; il d.l. 30 dicembre 1985, n.
787; il d.l. 20 febbraio 1986, n. 34; il d.l. 26 novembre 1986, n. 123; il d.l. 3 luglio 1986, n. 328. Per gli anni novanta si considerino la legge 21 marzo 1990, n. 52; la legge 19 luglio 1994, n. 451; la legge 28 febbraio 1997, n. 30.
96 La legge 24 giugno 1997, n. 196 (“norme in materia di promozione dell’occupazione”) all’art. 23 introduce i c.d. contratti di riallineamento, il campo di applicazione e i soggetti stipulanti.
colmare gradualmente il trattamento dei propri dipendenti rispetto a quello previsto dai contratti nazionali di categoria.
I soggetti incaricati di stipulare tali contratti sono le organizzazioni imprenditoriali insieme alle organizzazioni sindacali locali aderenti o comunque legate con le associazioni nazionali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di riferimento.
Come sostenuto da Vallebona, dalla stipulazione di tale contratto sorgerebbe il diritto del lavoratore a pretendere la
«lievitante retribuzione cui l’imprenditore si è obbligato» 97.
È bene rammentare come i contratti c.d. di riallineamento debbano essere tenuti distinti sia dai patti territoriali contenuti nella legge 8 agosto 1995, n. 341, sia dai contratti d’area previsti dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662.
97 VALLEBONA A., Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in DLRI, 1997, p. 381 ss.; Seguendo tale impostazione si dovrebbe ammettere, anche in questo caso, la possibilità di ricondurre la fattispecie allo schema civilistico del contratto a favore del terzo.
98 XXXXXXXXXXX V.P., Contratti di riallineamento, contratti d’area, xxxxx xxxxxxxxxxxx, voce in Enc. Giur. Treccani, 1998.
2.3. (Segue) Gli interventi giurisprudenziali
Accanto agli interventi che il legislatore ha apprestato per tentare di risolvere la questione dell’erga omnes del contratto collettivo, scorgiamo un’ampia serie di esercizi giurisprudenziali orientati nella ricerca di un saldo sostegno oggettivo dell’effetto estensivo.
L’elaborazione giurisprudenziale s’è innestata nel periodo immediatamente successivo all’emanazione del testo costituzionale, anticipando, quindi, la legge Vigorelli di circa un decennio, senza fra l’altro subirne in seguito alcun effetto deviante.
Durante la vigenza della legge Xxxxxxxxx i giudici non solo potevano condannare il datore di lavoro reo di non aver rispettato i trattamenti minimi, ma per esigere il pagamento delle differenze retributive non era necessario rifarsi all’art. 36 della Costituzione, giacché si trattava della violazione di un obbligo previsto dalla legge.
Tali tentativi sono stati storicamente suddivisi in tre momenti.
La giurisprudenza in questione, in primis, ha fondato la propria opera attorno al principio sancito dall’art. 36 della
99 Vedi supra paragrafo 2.1. in riferimento alla sentenza 6 luglio 1971, n. 156 della Corte Costituzionale.
Costituzione, secondo il quale è riconosciuto al lavoratore il “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Nel caso in cui si fosse verificato un contrasto tra le pattuizioni individuali che stabilivano una retribuzione al di sotto della sufficienza, si riteneva, quindi, la nullità della clausola non conforme, secondo i principi generali dei contratti (art. 1418 c.c.).
Il secondo momento è incentrato sull’ingresso in campo dell’art. 2099 c.c., secondo cui “in mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali”101.
Proprio quest’ultima norma è dettata in ossequio al principio di conservazione del contratto che, in mancanza dell’oggetto, sarebbe affetto da nullità (art. 1346 e art. 1418
100 PERSIANI M., Diritto sindacale, Op. cit., p. 106.
101 Il riferimento alle “norme corporative” è privo di oggetto, a seguito dell’abrogazione dell’ordinamento corporativo. Anche il riferimento alle “associazioni professionali” è privo di oggetto, a seguito della loro soppressione per effetto del d. lgs. lgt. 25 novembre 1944, n. 369.
c.c.), ed opera esclusivamente nel caso in cui le parti non abbiano stabilito la retribuzione.
I giudici, in tal modo, hanno equiparato il caso in cui le parti non abbiano determinato la retribuzione al caso in cui le parti l’abbiano determinata in maniera illegittima.
Non sono certo mancati disappunti avverso il modus operandi dei giudici, come fatto notare da Xxxx, il quale parla di
«anomalia attuativa», ma ben presto si è preferito abbandonare la strada della critica per rivolgere, invece, l’attenzione sui limiti di tale espediente giurisprudenziale.
102 PERSIANI M., Diritto sindacale, Op. cit., p. 107, ove l’A. rileva come ancora una volta si possa parlare di giurisprudenza in funzione normativa, poiché siamo in presenza di un orientamento seguito in maniera costante da oltre quarant’anni.
103 RUSCIANO M., Contratto collettivo e autonomia sindacale, Op. cit, p. 61.
Ciò che merita di essere sottolineato è senza dubbio l’approccio puramente individuale, più che collettivo, che ha accompagnato la vicenda attuativa dell’art. 36, approccio che presta il fianco ad un «soggettivismo decisionale, che non rispecchia né le esigenze di certezza del diritto e dei rapporti economici, né quelle di un’economia di massa, dove il salario tende nelle sue grandi linee verso valori standards» 105.
C’è da dire, comunque, che la giurisprudenza, nell’applicare il procedimento ex art. 36 Cost., ha adottato un metodo che ne ha ridotto la portata; molto spesso, infatti, le pronunce hanno stabilito trattamenti retributivi che si
104 Cfr TREU T., Commento all’art. 36 Cost., in Commentario della Costituzione, a cura di Xxxxxx X., Bologna, 1979, p. 86, dove l’A. prende in esame la possibilità che l’art. 36 sia svuotato delle sue potenzialità di sostegno indiretto alla contrattazione collettiva.
105 GIUGNI G., Prefazione, in De Cristofaro M., La giusta retribuzione, Bologna, 1971.
106 A riguardo cfr. tra le più recenti pronunce Cass. 20 settembre 2007, n. 19467, in Foro it., 2007, n. 1198 secondo la quale, nel determinare la giusta retribuzione, il giudice «ben può, nella scelta del parametro contrattuale, far riferimento agli importi previsti da un contratto collettivo locale o anche aziendale, pur se peggiorativo rispetto al contratto collettivo nazionale e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro di cui trattasi»; Cass. 13 luglio 2009, n. 16340, in Foro it., 2009, n. 21; Cass. 29 marzo 2010, n. 7528, in Foro it.,
2010, n. 785; Cass. 15 ottobre 2010, n. 21274, in OGL, 2010, p. 574. Per delle considerazioni dottrinali x. XXXXXXX S., Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino, 2002; XXXXXXX G., Retribuzione e assetto della contrattazione collettiva, in RIDL, 2010, III, p. 693 ss.
discostavano, in negativo, rispetto alle tariffe fissate nei contratti collettivi 107.
Gran parte delle sentenze emanate ex art. 36 Cost. hanno precisato il nucleo del giudizio di adeguatezza della retribuzione, ovverosia il “complessivo corrispettivo composto dalla paga base e da tutte le attribuzioni patrimoniali accessorie di natura retributiva” 108.
Se analizziamo la questione rapportandola esclusivamente al problema dell’erga omnes, individuiamo, però, come il procedimento ex art. 36 Cost., applicato dai giudici, mostri dei limiti intrinseci difficilmente superabili.
La parzialità dell’estensione riguarda non soltanto i soggetti del rapporto di lavoro, ma opererà anche in relazione all’oggetto del contratto collettivo, interessando unicamente la parte economica, e non anche la parte normativa.
107 Come sostenuto da TREU T., Commento all’art. 36 Cost., Op. cit., p. 81.
108 Cfr. Cass. 6 luglio 1977, n. 3000, in GI, 1977, I, p. 1298; Cass. 30 luglio 1980,
n. 4896, in RGL, 1981, II, p. 80; Cass. 19 dicembre 0000, x. 0000, xx XXXX, 0000,
II, p. 375.
109 Cfr. Cass. 16 luglio 1987, n. 6273, in GC, 1987, n. 1772.
110 Sulla questione x. XXXXXXXX M., Diritto sindacale, Op. cit., p. 107.
Altro problema investe la questione del riferimento alle tariffe dei contratti collettivi e, nello specifico, se le stesse siano da considerarsi parametro vincolante ed idoneo di sufficienza; in questo caso, come sopra riportato, la possibilità per i giudici di discostarsi, perlopiù in negativo, dalle tabelle salariali previste dai contratti collettivi, porta a considerare come soltanto eventuale e discrezionale il riferimento a tali tariffe, valendo, di conseguenza, in modo relativo e non assoluto.
Pur in presenza dei limiti sopra citati è stato, tuttavia, sostenuto che il meccanismo giurisprudenziale che estende i minimi tariffari abbia funzionato a tal punto che quello dell’erga omnes sarebbe stato, perfino, un falso problema 112.
Eppure, non sono mancati ammonimenti provenienti “dall’esterno”.
La Corte di Giustizia della Comunità Europea ha, difatti, dichiarato inadempiente l’Italia per quel che riguarda l’obbligo
111 Importante, a mio avviso, tra le diverse pronunce Cass. 21 gennaio1985, n. 237, in RIDL, 1985, II, p. 593, secondo la quale il giudice deve accertare sia la natura che l’intensità qualitativa e quantitativa della prestazione lavorativa del dipendente, nonché le esigenze effettive del medesimo al fine di un’esistenza libera e dignitosa, facendo riferimento al contratto collettivo di categoria “solo come espressione parametrica delle condizioni di mercato e degli equi corrispettivi di lavoro, allo scopo di motivare l’eventuale nullità della retribuzione corrisposta al lavoratore e per determinare la misura della giusta e sufficiente retribuzione spettantegli, indicando nella motivazione della sentenza i criteri di valutazione concretamente utilizzati”. Cfr. AA. VV., Diritto del lavoro, in Carinci (diretto da), Diritto del lavoro, I, Le fonti, il diritto sindacale, Torino, 2007, p. 373-374.
112 Cfr. SUPPIEJ G., La contrattazione collettiva tra crisi economica e riforme istituzionali, in RIDL, 1986, I, p. 215 ss.; PERSIANI M., Contratti collettivi normativi e contratti collettivi gestionali, in Scritti in onore di Xxxx Xxxxxx, Bari, 1999.
di adeguarsi alla disciplina racchiusa nella direttiva 75/129/CEE in materia di licenziamenti collettivi.
La Corte ritenne non sufficiente l’esistenza dell’Accordo interconfederale del 1960, il quale prevedeva, in capo al datore di lavoro, tutta una serie di obblighi d’informazione e consultazione per un certo verso simili a quelli della direttiva, dichiarando che questo non era dotato di efficacia erga omnes 113.
La giurisprudenza s’è anche cimentata in un altro tentativo di estensione dell’efficacia del contratto collettivo, che merita di essere ricordato.
Si tratta di un sistema fondato sull’art. 2070 c.c., disposizione ereditata dal periodo corporativo, secondo il quale “l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore. Se l’imprenditore esercita distinte attività aventi carattere autonomo, si applicano ai rispettivi rapporti di lavoro le norme dei contratti collettivi corrispondenti alle singole attività”.
113 Cfr. Xxxxx xx Xxxxxxxxx xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx, 0 giugno 1982, n. 91/81, in
Foro it., 1982, IV, p. 353.
114 I giudici hanno a lungo sostenuto, ovviamente, l’applicabilità dell’art. 2070 c.c. nei confronti del contratto collettivo corporativo, ricomprendendo poi anche il contratto collettivo c.d. di diritto comune, sottolineando come la norma ben s’innesti nella cornice di libertà dell’organizzazione sindacale. Cfr. Cass. 2 luglio 1984, n. 3877, in GC, 1985, I, p. 1442; Cass. 23 novembre 1984, n. 6063, in Foro
it., 1985, I, p. 1766.
Il punto nevralgico di tutto lo schema interpretativo risiede nel concetto di categoria, essenziale per comprendere al meglio le modalità d’estensione.
Al datore di lavoro, coerentemente con tale impostazione, si applicherebbe il contratto collettivo relativo alla categoria professionale di appartenenza, da determinarsi secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore.
In questo periodo la Suprema Corte, pur in presenza di forti critiche da parte della dottrina, ha attribuito all’art. 2070
c.c. “natura di disciplina pubblicistica, come tale inderogabile dalle parti” 116.
Gli anni novanta segnano un mutamento d’indirizzo nella giurisprudenza, quando si rispolvera l’idea di autonomia individuale, con la consapevolezza che «le categorie professionali hanno rilevanza giuridica non in base a prefissate autoritative classificazioni, bensì in quanto entità risultanti dalla spontanea organizzazione sindacale e dall’autonomia collettiva» 117.
Nello stesso arco temporale la giurisprudenza cambia nuovamente prospettiva affermando che le parti non possono
115 Cfr. Cass. 1 giugno 1988, n. 3712, in RGL, 1989, II, p. 314; Cass. 10 novembre
1987, n. 8289, in MGL, 1988, p. 88; Cass. 23 novembre 1984, n. 6063, in Foro it.,
1985, I, p. 1766; Cass. 2 luglio 1984, n. 3877, in GC, 1985, I, p. 1442.
116 In tal senso Cass. 9 novembre 0000, x. 0000, xx XXX, 0000, I.
117 Cfr. Cass. 9 giugno 0000, x. 0000, xx XXXX, 0000, II, p. 293; Cass. 26 gennaio
1993, n. 928, ivi, 1993, II, p. 692; Cass. 30 gennaio 1992, n. 976, ivi, 1992, II, p.
531; Cass. 4 dicembre 1989, n. 701, ivi, 1991, II, p. 61.
Grazie a tale ultimo indirizzo si è sostanzialmente riconosciuta la totale incompatibilità tra il principio di libertà sindacale e l’art. 2070 c.c.
La Suprema Corte ha giustificato la propria decisione sulla base di due motivazioni sostanziali 120.
In primo luogo, l’incessante applicazione dell’art. 2070
c.c. rappresenta “una frattura sistematica nell’ordinamento lavoristico, quale si è formato proprio attraverso la giurisprudenza di legittimità”, e su tale traccia la categoria merceologica intesa “come elemento preesistente e prevalente rispetto alle scelte dell’autonomia privata”, non può oggi essere tollerata perché si troverebbe in netta contraddizione con l’impostazione civilistica maggioritaria del concetto di categoria contrattuale.
118 Cass. 6 novembre 1995, n. 11554, in Foro it., 1996, I, p. 1325.
119 Tra le tante Xxxx. 5 maggio 0000, x. 0000, xx XXXX, 0000, II, p. 80; Cass. 22
agosto 2003, n. 12352; Cass. 7 agosto 2000, n. 10374; Cass. 5 novembre 0000, x.
00000, xx XXX, 0000, I.
120 Cass. SS.UU. 26 febbraio 1997, n. 2665, in NGL, 1997, p. 163; Cass. 30
gennaio 0000, x. 000, xx XXXX, 0000, II, p. 531.
Tutto ciò porta alla conclusione che le parti non possono essere obbligate a rispettare i contenuti di un determinato contratto collettivo sulla base della sola attività svolta dall’imprenditore, bensì devono essere libere di poter scegliere soluzioni differenti.
La seconda motivazione abbracciata dalla Corte riguarda il caso del datore di lavoro non iscritto all’associazione sindacale stipulante il contratto collettivo di categoria ed in tale ipotesi come l’art. 2070 c.c. non possa obbligare l’imprenditore ad applicare il contratto stesso.
Sul piano individuale tutto questo implica che “nell’ipotesi di rapporto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dall’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale”.
Volendo, infine, osservare il residuale ambito d’applicazione dell’art. 2070 c.c., registriamo attualmente uno spazio notevolmente ridimensionato nonostante la norma possa ancora essere utilizzata in via del tutto suppletiva, ovverosia come parametro interpretativo nel caso in cui il contratto individuale operi un generico rinvio al contratto collettivo e sussistano dubbi su quale sia l’oggetto di tale rinvio.
121 In tal senso XXXXX G., GAMBACCIANI M., Il contratto collettivo di diritto comune, in Persiani-Carinci, Trattato di diritto del lavoro, Padova, 2011.
Nel dettaglio, l’articolo in questione può essere invocato dal lavoratore, sempre nel caso in cui il datore di lavoro non sia obbligato all’applicazione del contratto collettivo perché non iscritto al sindacato stipulante, al fine di individuare il contratto dal quale poter trarre riferimento per i minimi di trattamento idonei a stabilire la retribuzione sufficiente ex art. 36 della Costituzione 122.
Una riflessione personale dell’estensore viene rassegnata in relazione a questo espediente giurisprudenziale che ha cercato (riuscendovi, di fatto, per quasi vent’anni) di estendere l’efficacia soggettiva del contratto collettivo di diritto comune.
L’appiglio normativo dell’art. 2070 c.c. è stato a lungo saldo e resistente grazie anche ad una pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza 26 giugno 1969, n. 105), che ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità dell’articolo sopra richiamato se rapportato ai contratti collettivi recepiti in decreto ai sensi della legge Xxxxxxxxx.
In tale decisione la Corte ha dichiarato la compatibilità dell’art. 2070 c.c. con la libertà di organizzazione sindacale, offrendo una via agevole ai giudici di legittimità che, come abbiamo visto, ha spesso e volentieri riconosciuto natura pubblicistica alla disposizione in esame, come tale inderogabile dalle parti, e fornendo una distinzione tra “categoria merceologica” e “categoria contrattuale”, anteponendo la prima alla seconda.
122 Cfr. Cass. 8 maggio 2008, n. 11372, in MGL, 2008, p. 624; Cass. 4 giugno 2008, n. 14791, in Foro it., 2008, n. 1295. Su tale argomento le Ss. Uu., nella pronuncia del 1997, hanno avuto modo di precisare come “l’adeguamento della retribuzione ex art. 36 può salvaguardare i diritti costituzionalmente rilevanti del lavoratore […] e comporta anche l’applicazione di clausole del contratto collettivo non riguardanti la retribuzione in senso stretto ma indirettamente necessarie al detto adeguamento”.
La categoria contrattuale non può essere imposta, così come avveniva durante l’esperienza corporativa, ma, al contrario, è adesso configurata dalle parti stipulanti.
Ragion per cui, oggi, per ovviare al problema dei datori non iscritti ad alcuna associazione sindacale, si fa riferimento al criterio dell’adesione implicita od esplicita al contratto stesso.
A prevalere è, dunque, l’elemento volitivo, sia che si tratti di un rinvio materiale alla normativa collettiva (adesione esplicita), ovvero che tali accordi siano recepiti implicitamente mediante comportamenti concludenti non episodici, univoci e prolungati.
E se osserviamo il meccanismo dell’equa retribuzione, la stessa è da determinarsi secondo i criteri stabiliti dalla contrattazione di categoria che, di fatto, gode di una presunzione di equità.
Conseguentemente, sia che la parte richieda l’applicazione di un contratto collettivo ad hoc, sia che invochi, seppur implicitamente, il meccanismo ex art. 36, sarà suo onere produrre in giudizio il contratto collettivo che ritiene applicare; in mancanza, potrà scaturire una pronuncia che rigetta nel merito la pretesa a causa dell’impossibilità, per il giudice, di stabilire l’an ed il quantum della domanda fatta valere in giudizio.
Questo esperimento tentato dalla giurisprudenza, insieme al timore dei sindacati di ritrovarsi attanagliati dai poteri pubblici, hanno procrastinato (rectius impedito) l’attuazione del sistema sindacale previsto dall’art. 39 della Costituzione.
2.4. La quaestio voluntatis come requisito dell’erga omnes:
la clausola di rinvio
La caduta dell’ordinamento corporativo ha consentito alla giurisprudenza della Suprema Corte di elaborare un nuovo principio, alla stregua del quale “i contratti collettivi […] possono avere efficacia soltanto in volentes” 124.
Quando ci troviamo in presenza di tale clausola, si è soliti distinguere un rinvio formale ed un rinvio materiale.
123 Cit. XXXXXXX-XXXXXXXXXX G., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, Op. cit., p. 489.
124 Cass. SS.UU. 26 febbraio 1997, n. 2665, cit. supra in nota 120.
125 La letteratura a riguardo è copiosa. Fra tutti cfr. EMILIANI S.P., L’efficacia del contratto collettivo tra iscrizione al sindacato e adesione individuale, in ADL, 2000, p. 725 ss.; XXXXXXXXX M., Clausole di rinvio al contratto collettivo e libertà di associazione, in Diritto e libertà. Studi in onore di Xxxxxx Xxxx’Xxxx, I, Torino, 2008, p. 934 ss.; NOGLER L., Note in tema di schemi innominati di rinvio al contratto collettivo da parte del contratto individuale, in RIDL, 1991, II, p. 539 ss.; XXXXXXX-XXXXXXXXXX G., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, Op. cit. e, più di recente, L’impatto del conflitto intersindacale sui livelli contrattuali nella categoria dei metalmeccanici. Note minime su questioni ancora molto controverse, in ADL, 2011, p. 219 ss.
Nel caso di rinvio formale, quindi, le parti, attraverso la sottoscrizione della clausola di rinvio, manifestano la chiara volontà di indirizzare il rapporto di lavoro, anche per il futuro, nei binari predisposti dalle associazioni sindacali in sede di trattative collettive.
Ogni volta che s’imbatte in una clausola di rinvio, l’interprete avrà il compito di risolvere due questioni di particolare importanza.
Anzitutto, come segnalato dalla Suprema Corte, dovrà inevitabilmente sciogliere quel dualismo essenziale per stabilire se la clausola ricalca l’ipotesi del rinvio formale o materiale.
Una volta risolta la prima questione, si porrà il problema di appurare se la clausola di rinvio rispetti, o meno, il requisito di determinatezza o determinabilità dell’oggetto ai sensi dell’art. 1346 c.c. 128 ; ed ancora, si consideri la diversità degli
126 X. Xxxx. 20 settembre 2010, n. 19840, in OGL, 2010, p. 557; Cass. 1 dicembre
0000, x. 0000, xx XX, 0000, II, p. 117.
127 In tal senso Cass. 23 aprile 1999, n. 4070, in NGL, 1999, p. 495.
128 Sulla vicenda si è pronunciato XXXXXXX-XXXXXXXXXX G., Efficacia soggettiva del contratto collettivo, Op. cit., p. 505 ss., il quale parte dalla differente operatività della clausola di rinvio a seconda che la stessa, contenuta nel contratto individuale, richiami il contratto nazionale, ovvero, all’interno del contratto nazionale, rimandi alla contrattazione aziendale. L’A., nel dettaglio, ritiene che il rinvio contenuto nel contratto individuale debba necessariamente avere un oggetto determinato o quantomeno determinabile, dovendosi, quindi, trattare di un rinvio ad un contratto
interrogativi susseguenti a seconda della tipologia della clausola di rinvio.
Difatti, nel caso di rinvio materiale bisognerà stabilire se il contratto collettivo che le parti hanno inteso recepire è individuato con precisione o individuabile.
Viceversa, la questione che si pone al cospetto di un rinvio formale sarà quella di stabilire se il c.d. sistema contrattuale rispetta il requisito della determinatezza previsto dall’art. 1346 c.c. con il riferimento agli agenti contrattuali o, addirittura, soltanto ad una parte di essi.
Le differenze tra le due tipologie di rinvio non riguardano unicamente l’oggetto che le parti si propongono di richiamare, mediante l’inserzione della clausola di cui si discute, bensì involgono anche i diversi interessi che con l’una o l’altra si intendono perseguire.
Scomponendo la pronuncia, scorgiamo come attraverso la clausola di rinvio materiale le parti manifestano solo la
esistente o, comunque, il lavoratore dovrà essere messo in grado di conoscere il contenuto del futuro contratto. Nel caso contrario, ovverosia, quando il rinvio non abbia un oggetto determinato o determinabile, il lavoratore, di certo, non potrebbe considerarsi assoggettato alle successive modifiche del contratto collettivo, e tale clausola sarebbe affetta da invalidità per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto.
129 Fra tutte cfr. Cass. 1 dicembre 1989, n. 5285, come supra citata in nota 126.
volontà di “recettiziamente inglobare come regola dei singoli rapporti soltanto le clausole collettive (sia nazionali che integrative) vigenti nel dato momento storico di conclusione del contratto individuale (alla cui natura pertanto parteciperebbero)”.
All’opposto, con il rinvio formale si esprime “la volontà dei contraenti individuali […] di assoggettarsi preventivamente ad una normativa collettiva […] come tale avente carattere di generalità ed astrattezza, oltre che di «dinamicità», nel senso di adeguamento, anche nel tempo futuro, al mutevole equilibrio che gli organi di categoria avrebbero raggiunto in sede di contrattazione sindacale”.
E ancora, a proposito della clausola di rinvio materiale, Xxxx ha ritenuto che, attraverso di essa, le parti esprimano l’intenzione «di accogliere nel loro singolo contratto le clausole di
130 Cfr. Cass. 20 settembre 2010, n. 19840, v. supra nota 126.
131 X. XXXXXXXX S.P., L’efficacia del contratto collettivo, Op. cit.
Pertanto, sempre secondo la Cassazione (1 dicembre 1989, n. 5285) nel caso di rinvio materiale, le clausole del contratto collettivo recepite a livello individuale assumono “natura individuale”, mentre, nell’ipotesi di rinvio formale, resiste la loro “natura collettiva” e non vengono assimilate nel contenuto del contratto individuale.
Con il rinvio formale le parti non fanno altro che affidare la disciplina dei propri interessi individuali alle determinazioni raggiunte dall’autonomia collettiva, “sacrificando”, quindi, l’interesse del singolo per l’interesse collettivo del gruppo.
Sarà imprescindibile, allora, individuare e selezionare quelle condotte dalle quali evincere la chiara volontà delle parti di assoggettare il rapporto individuale di lavoro alla disciplina contrattuale.
E, a tal punto, bisognerà chiedersi se le parti possono conseguire, oppure no, interessi diversi attraverso l’inserzione di una clausola di rinvio nel contratto individuale, nel momento in cui hanno già reso nota quella volontà negoziale tramite altri comportamenti, magari attraverso l’iscrizione all’associazione sindacale.
In altre parole, sperando di essere più chiaro, sarà necessario chiedersi se una clausola di rinvio contenuta nel
000 X. XXXX X., Il contratto collettivo di lavoro, Padova, 1980, p. 132 ss. Secondo la teoria in esame, l’effetto estensivo dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo che ne discende non corrisponde, se si considera la forza del vincolo, a quello che deriverebbe nel caso di un soggetto iscritto al sindacato firmatario, quindi rappresentato nella trattativa contrattuale, in quanto il vincolo riguardante la recezione non lega il singolo individuo nei confronti della controparte. Al vincolo derivante dall’associazione si sostituisce la mera obbligatorietà del contratto individuale, derogabile con il comune accordo delle parti e, di conseguenza, non tutelata dallo scudo dell’art. 2113 c.c.
contratto individuale sia in grado, oppure no, di esprimere chiaramente una volontà negoziale ulteriore e diversa rispetto a quella già manifestata da ambedue le parti attraverso l’iscrizione al sindacato.
Ebbene, in presenza di un rinvio materiale nel contratto individuale, possiamo comodamente asserire che le parti intendono conseguire un interesse ulteriore e diverso rispetto a quello che otterrebbero in conseguenza dell’iscrizione al sindacato stipulante.
In tal caso, le parti non hanno l’intenzione di vedere il proprio rapporto di lavoro in balìa delle mutevoli circostanze derivanti dall’autonomia sindacale, piuttosto, per dirla con Xxxxxxxx, esprimono la volontà di «cristallizzare» le determinazioni assunte con uno specifico contratto collettivo all’interno del contratto individuale.
Se, invece, ci soffermiamo sul rinvio formale, notiamo come a riguardo sussistano diverse opinioni.
Un secondo orientamento, invece, ritiene che, considerando sempre l’effetto estensivo dell’efficacia soggettiva, l’interesse perseguito dal datore di lavoro, mediante
133 La teoria prospettata è di VALLEBONA A., Autonomia collettiva e occupazione, Op. cit., p. 400, «in tutti i casi in cui il datore esprima, per espresso o per fatti concludenti, la volontà di applicare il contratto collettivo ed il lavoratore accetti, non è più consentito uno svincolo unilaterale né dall’una né dall’altra parte, sicché questo tipo di legame è più resistente di quello derivante dall’iscrizione che, come si è visto, può cessare con il recesso dall’associazione».
Iscrivendosi ai sindacati, infatti, le parti subordinano l’interesse individuale all’interesse collettivo della categoria professionale, esternando la precisa volontà di conformare la disciplina del proprio rapporto di lavoro all’attuale assetto contrattuale, nonché a tutte quelle regole di futura emanazione.
Perciò, quid iuris nel caso di un datore di lavoro già iscritto all’associazione firmataria, che apponga ai contratti individuali di lavoro una clausola di rinvio?
La preoccupazione, per chi sostiene questa tesi, risiede nel fatto che la clausola di rinvio possa rappresentare un ostacolo alla libertà sindacale anche quando il mutare degli agenti contrattuali ha accertato che i sindacati esistenti hanno perso la rappresentanza.
134 Questa impostazione è propria di EMILIANI S.P., L’efficacia del contratto collettivo, Op. cit., p. 740.
135 Cfr. Pret. Trento 10 giugno 1999, in ADL, 2000, III, p.805 ss; Trib. Trento 11
febbraio 2000, ivi, p. 815 ss.
136 Cfr. XXXXXXXX S.P., L’efficacia del contratto collettivo, Op. cit., p. 741.
Proprio secondo tale impostazione dottrinale, la clausola di rinvio può fungere da strumento per estendere l’efficacia soggettiva del contratto collettivo erga omnes solo quando sussiste l’unità sindacale sulla quale si fonda il nostro sistema sindacale di fatto.
Nel 2006 la Corte di Giustizia della Comunità Europea 138 si è pronunciata accogliendo questa visione affermando che in tema di trasferimento di imprese, stabilimenti o parte di essi, qualora il contratto individuale dei lavoratori ceduti rinvii ad un contratto collettivo che vincola il cedente, il cessionario che non è parte del contratto collettivo non sarà vincolato dai contratti collettivi successivi a quello vigente al momento del trasferimento dell’azienda.
La pronuncia della Corte è scaturita da una questione interpretativa sollevata dal Tribunale del lavoro di Düsseldorf in relazione alla compatibilità con l’art. 3, comma 1, della direttiva 2001/23/CE del “fatto che, in caso di trasferimento d’azienda, il cessionario non vincolato a contratti collettivi sia tenuto a rispettare un accordo concluso tra il cedente – vincolato invece alla contrattazione collettiva – ed il lavoratore, in base al quale sia stata convenuta l’applicabilità degli accordi salariali collettivi di volta in volta vincolanti per il detto cedente, qualora il
137 Cfr. ancora XXXXXXX-XXXXXXXXXX G., Efficacia soggettiva, Op. cit.
138 X. Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 0 marzo 2006, Xxxxxx, in xxx.xxxxxx.xx.xxx
menzionato obbligo di rispetto dell’accordo pregresso comporti l’applicabilità dell’accordo salariale collettivo in vigore al momento del trasferimento dell’azienda, ma non quella di analoghi accordi salariali entrati in vigore in un momento successivo”.
Sul punto la Corte ha affermato che “la libertà di associazione, che comprende altresì il diritto di non far parte di un sindacato è sancita dall’art. 11 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata in Roma il 4 novembre 1950, e fa parte dei diritti fondamentali che, secondo la costante giurisprudenza della Corte, sono oggetto di tutela nell’ordinamento giuridico comunitario”.
Di conseguenza, la Corte, fondando il ragionamento su una interpretazione “statica” della detta clausola, ha concluso argomentando che “il cessionario dell’azienda, che non è parte del contratto collettivo” non può essere “vincolato alle future evoluzioni di quest’ultimo. Il suo diritto di non associarsi è così pienamente garantito”.
Alla luce di questa recente pronuncia, pertanto, pare addirittura rinsaldata la tesi che considera tanto la clausola di rinvio formale contenuta nel contratto individuale di lavoro, quanto l’iscrizione al sindacato, entrambe idonee a soddisfare lo stesso interesse, quello alla libertà sindacale sancito dalla Corte di Giustizia della Comunità Europea quale principio fondamentale dell’ordinamento comunitario.
Nondimeno, partendo dal presupposto che la preoccupazione della dottrina di cui sopra, rinfrancata dalla pronuncia sul caso Xxxxxx, sia indubbiamente condivisibile, la