Tema di diritto e procedura civile.
Tema di diritto e procedura civile.
Il recupero del contratto invalido. Tratti in particolare il candidato della convalida tacita del contratto annullabile e della sua rilevabilità d’ufficio.
Svolgimento di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
In certi casi a e a certe condizioni il contratto invalido può essere recuperato.
Di regola, il contratto invalido non produce effetti (nullità) o produce effetti non stabili (annullabilità). Recuperarlo significa salvare o stabilizzare tutti o alcuni dei suoi effetti, tra le parti o nei confronti dei terzi.
Il recupero del contratto invalido si atteggia diversamente a seconda dei diversi tipi di invalidità che possono affliggerlo.
In genere, il recupero dei contratti annullabili opera con ampiezza e intensità superiori a quelle che caratterizzano il recupero dei contratti nulli.
Rispetto al contratto annullabile (che produce provvisoriamente i suoi effetti sino al passaggio in giudicato della sentenza di annullamento), il recupero consiste, in primo luogo, nella stabilizzazione di tali effetti e, quindi, nella conseguente preclusione, per la parte legittimata, a far valere l’annullabilità.
La principale forma di “recupero” è rappresentata dalla convalida. La convalida è il mezzo di recupero più potente: con essa il contratto invalido è reso intaccabile e diventa, pienamente e stabilmente, produttivo di tutti i suoi effetti.
Il principale risultato pratico è che, intervenuta la convalida, il contratto non può essere annullato (né l’annullabilità può essere fatta valere in via di eccezione). Secondo la migliore dottrina (Xxxxx), la convalida non deve essere qualificata solo in senso negativo come una rinuncia all’azione di annullamento: essa ha un valore positivo, che guarda al contratto concluso e non all’azione per il suo annullamento, ed esprime la volontà della parte di tenere vivo il contratto.
Si distinguono una convalida espressa e una convalida tacita.
La convalida espressa è l’atto con cui la parte (che deve essere in condizione di concludere validamente il contratto) dichiara di convalidare il contratto annullabile. È un atto negoziale unilaterale, che deve contenere la menzione del contratto e del motivo di annullabilità.
La convalida tacita si ha quando il contraente al quale spettava l’azione di annullamento ha dato volontariamente esecuzione, conoscendo il motivi di annullabilità.
Controversa è la natura giuridica della convalida tacita: secondo una prima tesi, è un negozio giuridico compiuto mediante comportamento concludente. Il dare esecuzione al contratto
rileverebbe, pertanto, in quanto vi sia la corrispondente volontà di convalidarlo. Rileverebbe, pertanto, qualsiasi atto esecutivo (anche, in ipotesi, diverso dall’adempimento) purché idoneo (e solo se idoneo) a manifestare la corrispondente volontà di convalida. Non avrebbero, invece, valore convalidante gli atti che non esprimano con chiarezza tale volontà o che siano accompagnati dall’esternazione di una contraria volontà.
Secondo altra tesi, invece, la convalida è un atto giuridico in senso stretto, privo di valore negoziale. Secondo questa impostazione, l’esecuzione di cui all’art. 1444, co. 2, c.c. è solo l’adempimento, che produce l’effetto convalidante a prescindere da una corrispondente volontà (con conseguente irrilevanza di una eventuale protestatio contra factum).
Un altro strumento di recupero del contratto annullabile (per errore) è la rettifica. È l’atto con cui la parte non in errore offre all’errante, prima che a questo possa derivarne pregiudizio, di eseguire il contratto “in modo conforme al contenuto e alle modalità” secondo cui l’errante intendeva contrarre. L’effetto delle ratifica è quello di impedire alla parte in errore di ottenere l’annullamento del contratto.
Mentre il contratto annullabile può essere recuperato con la convalida, per il contratto nullo questo mezzo di recupero non può generalmente operare. Ai sensi dell’art. 1423, infatti, il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente.
Il fatto che il contratto nullo non possa essere, di regola, convalidato non toglie, tuttavia, che in alcuni casi, anch’esso possa essere recuperato, a determinati effetti, dall’ordinamento.
Queste ipotesi di recupero del contratto nullo le troviamo sia nell’ambito della disciplina generale del contratto, sia in riferimento a determinati tipi di contratto.
In sintesi, e volendo schematizzare, le principali ipotesi di recupero del contratto nullo sono le seguenti:
a) la conversione del contratto nullo: il contratto nullo è suscettibile di conversione ai sensi dell’art. 1420; può quindi produrre gli effetti del diverso contratto di cui possieda i requisiti di forma e di sostanza e sempre che ciò corrisponda all’ipotetica volontà delle parti se avessero conosciuto la nullità;
b) la c.d. pubblicità sanante della nullità ex art. 2652, n. 6 c.c. (che costituisce, in realtà, solo un’ipotesi di inopponibilità della nullità ai terzi sub-acquirenti in buona fede);
c) la c.d. conferma della donazione nulla (art. 799 c.c., che ricalca la disciplina delle clausole testamentarie nulle): anche qui, si parla a volte, impropriamente di sanatoria della nullità, ma, in realtà, il negozio nullo, più che sanato, rappresenta solo il presupposto che integra la causa di un successivo negozio (posto in essere da soggetti diversi rispetto all’autore della donazione nulla: gli eredi o gli aventi causa del donante) a favore del beneficiario della donazione (o del testamento) nullo;
d) la fattispecie descritta dall’art. 2126 x.x., xx xxxxx xxx xxxxx, xx xxxxxxx del contratto di lavoro subordinato che non dipenda da illiceità dell’oggetto e della causa non produce effetto per il periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione (il che implica che la nullità opera ex nunc e che il lavoratore ha comunque diritto alla retribuzione);
e) la particolare disciplina riservata dall’art. 2332 c.c. alla nullità del contratto di società: avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese la nullità della società può essere dichiarata solo in ipotesi testuali e circoscritte e, comunque, la nullità non pregiudica gli atti compiuti in nome della società e non libera i soci dall’obbligo di effettuare i conferimenti.
Nella legislazione speciale troviamo ancora:
f) la c.d. conferma (mediante indicazione successiva degli estremi del titolo edilizio) dei contratti (aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali, esclusi i diritti reali di garanzia e di servitù), nulli per difetto della c.d. menzione urbanistica (art. 40, co. 4, legge n. 47/1985 e art. 46, co. 4, d.P.R. n. 380/2001);
g) la sanatoria, mediante la registrazione tardiva, della nullità (ex art. 1, co. 346, L. n. 311/2004) del contratto di locazione immobiliare non tempestivamente registrato. Come hanno recentemente chiarito le Sezioni Unite, il contratto di locazione ad uso non abitativo (non diversamente, peraltro, da quello abitativo), contenente ab origine la previsione di un canone realmente convenuto e realmente corrisposto (e dunque, in assenza di qualsivoglia fenomeno simulatorio), ove non registrato nei termini di legge, è nullo ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 346, ma, in caso di sua tardiva registrazione, da ritenersi consentita in base alle norme tributarie, la nullità è sanata ex tunc. Si tratta di una di una sanatoria “per adempimento” coerente con l'introduzione nell'ordinamento di una nullità (funzionale) "per inadempimento" (entrambi i termini da intendersi, come ovvio, in senso diverso da quello tradizionalmente riservato al momento esecutivo del rapporto negoziale).
Un altro caso di “recupero del contratto nullo, si rinviene con riferimento alla fattispecie disciplinata dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 122 del 20 giugno 2005. La disposizione, com’è noto, prevede che all’atto della stipula di un contratto, che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente, il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio ed a consegnare all’acquirente una fideiussione di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento.
Da più parti in dottrina, si è rilevato correttamente che qualora la fideiussione venga rilasciata in un momento successivo alla conclusione del contratto non v’è più ragione di ritenere che il contraente protetto possa fare valere la originaria nullità, giacché il vizio e/o la carenza strutturale della fattispecie negoziale sono venuti meno, così come d’altra parte è soprattutto venuto meno l’interesse prioritario del contraente destinatario della normativa di protezione a fare valere la nullità. La consegna della garanzia prima della proposizione dell’azione di nullità fa, in definitiva, venire meno l’interesse all’azione da parte del promittente acquirente unico legittimato, ciò anche nella considerazione che la nullità in questione consegue da un comportamento inadempiente del soggetto obbligato ex lege, di qui la contaminazione tra regole di comportamento e regole di validità] e l’interesse finale protetto dalla norma è stato appieno rispettato Di qui il determinarsi anche in tal caso, come nell’ipotesi di fideiussione rilasciata successivamente alla stipulazione del preliminare, di una sorta di "sanatoria" automatica del contratto preliminare originariamente nullo, sia pure attraverso una procedura cronologica differente da quella tipizzata.
Sempre nell’ambito delle nullità previste dalla legislazione speciale, ci si chiede, inoltre, se sia consentita la “convalida” delle c.d. nullità di protezione, specie di quelle previste dal Cod. cons. a favore del consumatore. In ordine al regime processuale di tali nullità, la giurisprudenza ha chiarito che il giudice ha il potere-dovere di rilevarla d’ufficio (indicando alle parti la questione di nullità della clausola vessatoria), ma non può dichiarare la nullità della clausola se il consumatore si oppone. In questo senso viene letta la previsione di cui all’art. 35 co. 3, cod. cons. secondo cui la nullità è rilevabile d’ufficio, ma opera solo a vantaggio del consumatore. In sede di giudizio, quindi, il consumatore (assistito dal difensore e, pertanto, ritenuto non più bisognoso di protezione) ha la disponibilità di questa nullità, potendo impedire al giudice di dichiararla. Questa disponibilità riconosciuta in sede processuale al consumatore rappresenta, in senso lato, una forma di recupero della clausola nulla.
Alcuni Autori, proprio prendendo spunto dal fatto che, almeno in sede processuale, la nullità di protezione è rimessa alla disponibilità del consumatore, giungono alla conclusione secondo cui, anche prima del giudizio, il consumatore potrebbe, con un atto di volontà, convalidare la clausola affetta da nullità di protezione, dando così corpo alla previsione di cui all’art. 1423 c.c., che nel prevedere che il contratto nullo non può essere convalidato, fa salva l’ipotesi che la legge disponga diversamente.
In queste ipotesi il possibile recupero avverrebbe attraverso una negoziazione postuma rispetto alla conclusione del contratto, negoziazione nella quale, però, il contraente protetto, nel disporre della nullità ad esempio della clausola vessatoria, non è più in una posizione di sudditanza
rispetto al professionista predisponente, bensì, essendo l’unico legittimato a fare valere la nullità, ha “in mano” le sorti del regolamento contrattuale
Del resto, con riferimento alla c.d. lista grigia di cui all’art. 34, co. 2, si è ulteriormente precisato che visto che il legislatore ricollega la nullità delle singole clausole al solo fatto che non vi sia stata trattativa individuale sul punto, non è difficile immaginare che si possa ammettere che una trattativa posteriore alla formazione del contratto sia di per sé sola idonea a condurre ad una sanatoria del vizio.
In senso contrario alla possibilità di convalidare in sede extra processuale le clausole vessatorie affette da nullità di protezione, si è tuttavia, replicato che tale ipotizzata possibilità, da un lato, introdurrebbe un agevole strumento volto ad eludere la protezione offerta dalla legge alla parte debole, e, dall’altro, troverebbe comunque ostacolo nell’art. 143 c. cons. La norma, situata nella parte VI del cod. cons., tra le disposizioni finali ed avente valenza generale riguardo ai rapporti di consumo, infatti, non “dispone diversamente” rispetto all’art. 1423 c.c., bensì sancisce che «I diritti attribuiti al consumatore dal codice sono irrinunciabili», nonché la nullità di «ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni del codice».
Ancora, sembra configurare una forma di recupero del contratto nullo, rimessa alla disponibilità di una parte, la possibilità, riconosciuta talvolta dalla giurisprudenza, di utilizzare in maniera selettiva la nullità del contratto-quadro di investimento finanziario tra cliente ed intermediario finanziario. Si fa riferimento, appunto, all’ipotizzata possibilità di far valere, da parte del cliente, la nullità del contratto-quadro solo con riferimento ad alcuni ordini di acquisto (economicamente dannosi) e non rispetto agli altri. La questione è stata recentemente alle Sez. Un. da Cass., sez. I, ord. n. 23927/2018, che ha rilevato come l’uso selettivo della nullità possa determinare una forma di abuso (o la violazione del divieto del venire contra factum proprium).
Così individuate, sul terreno sostanziale, le principali ipotesi di recupero del contratto invalido, ci si deve a questo punto interrogare sul regime processuale della fattispecie “sanante”.
Il problema non può essere affrontato in maniera unitaria, in quanto la soluzione è destinata a mutare a seconda delle caratteristiche della fattispecie che determina il recupero degli effetti del contratto valido.
Ad es. con riferimento alle conversione del contratto nullo, le Sezioni Unite (con le sentenze “gemelle” n. 26422 e 26423/2014) hanno escluso il potere officio di rilevazione.
Secondo le Sezioni Unite, i poteri officiosi di rilevazione di una nullità negoziale non possono estendersi alla rilevazione (non più di un vizio radicale dell’atto, ma anche) di una possibile conversione del contratto in assenza di esplicita domanda di parte. È decisivo, in tal senso, il dato testuale dell’art. 1424 c.c., a mente del quale il contratto nullo può (non deve) produrre gli effetti di
un contratto diverso. La rilevazione della eventuale conversione, difatti, esorbiterebbe dai limiti del potere officioso di rilevare la nullità (i.e. di rilevare la inattitudine genetica dell’atto alla produzione di effetti), ma si estenderebbe, praeter legem, alla rilevazione di una diversa efficacia, sia pur ridotta, di quella convenzione negoziale
È stato cosi superato il contrario indirizzo secondo cui, in presenza dei presupposti della conversione, ove il giudice dichiari la nullità del contratto, le parti resterebbero spogliate della facoltà di avvalersi dell’art. 1424 c.c., vedendosi così precluso il risultato di conseguire l’assetto di interessi dapprima divisato.
Rispetto all’eccezione di convalida (espressa o tacita) deve, invece, ammettersi la rilevabilità d’ufficio.
Va premesso che, in senso tecnico, l’eccezione identifica una particolare difesa consistente nella contrapposizione di fatti ai quali la legge attribuisce immediatamente e direttamente una autonoma identità modificativa, impeditiva o estintiva degli effetti del rapporto sul quale si fonda la domanda: l’attività difensiva a ciò diretta è considerata espressamente dall’art. 2697 cod. civ., sia pure con specifico riguardo alla distribuzione dell’onere della prova e, quindi, per fini che rilevano sul piano della fissazione di una regola finale di giudizio, non già su quello della possibilità o meno, per il giudice, di valutare fatti del tipo suddetto indipendentemente dall’istanza di parte.
Infine, ed in senso ulteriormente ristretto, l’eccezione comprende soltanto la contrapposizione di quei fatti che senza escludere la sussistenza del rapporto implicato dalla domanda, sono, tuttavia, tali che, in loro presenza, risulti accordato al convenuto e disciplinato dal diritto sostanziale un potere rivolto ad impugnandum jus, ossia una potestà esercitabile al fine di far venir meno il diritto dell’avversario.
In questi casi il legislatore costruisce la fattispecie in modo tale che la presenza di determinate circostanze non ha una autonoma efficacia produttiva della nuova situazione sostanziale, ma la consegue solo per il tramite di una manifestazione di volontà dell’interessato, che da sola o, a seconda delle ipotesi, previo accertamento giurisdizionale dell’avvenuta costituzione della fattispecie medesima, si inserisce all’interno di questa. Per conseguire il risultato difensivo, non basta qui l’allegazione del fatto, ma occorre che l’interessato scelga se conservare la situazione giuridica esistente ovvero ottenere che, secondo la norma di previsione, si produca quella nuova: ciò che, in ipotesi affermativa, postula il compimento di un apposito atto di manifestazione di volontà in tale senso, non diversamente da quanto accadrebbe qualora la parte, in luogo dell’esercizio in via di eccezione della potestà conferitagli dalla legge, vi provvedesse in via di azione.
Tanto si verifica con riguardo a tipiche azioni costitutive: si vedano ad esempio gli artt. 1442, ultimo comma e 1449, secondo comma cod. civ., ove si prevede la facoltà del convenuto di proporre,
rispettivamente, un’eccezione di annullamento e di rescissione del contratto. Ed è opinione diffusa in dottrina che analoga situazione sia configurabile con riguardo ad eccezioni di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità; revocatoria; di riduzione di disposizioni testamentarie; ecc.
Ciò detto per quanto riguarda le possibili diversificazioni strutturali delle difese riconducibili al concetto di eccezione, passando all’esame della concreta disciplina processuale, viene immediatamente in rilievo, sotto un profilo generale, il disposto dell’art. 112 cod. proc. civ., secondo il quale il giudice “non può pronunciare di ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti”. Va evidenziato che la fondamentale norma di previsione di cui al citato art. 112 e quelle che ne costituiscono sviluppo ed applicazione si limitano a presupporre questa distinzione, senza fissare esse stesse le coordinate della linea di discrimine, onde il problema esegetico che si pone all’interprete è quello di determinare i casi nei quali la fattispecie impeditiva, modificativa o estintiva può essere rilevata "soltanto" dalla parte.
Di qui l’alternativa: o l’art. 112 è una norma di rinvio alle disposizioni che prevedono caso per caso l’indispensabile iniziativa della parte, senza che sia necessario o possibile per l’interprete la ricerca di un principio unitario che informi quei casi; oppure, affermando l’esistenza di eccezioni "che possono essere proposte soltanto dalle parti" la norma richiama un criterio generale di individuazione che resta in essa inespresso e che dovrebbe desumersi da altra norma o dall’intero sistema.
Secondo una consolidata giurisprudenza, si deve accordare preferenza alla prima alternativa, ancorché con uno specifico correttivo, che nasce dal raccordo fra la norma “in bianco” dettata dall’art. 112 e la surriferita rilevazione sistematica delle diverse categorie di eccezioni, in relazione alle possibili diversificazioni strutturali.
In effetti, nei casi di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva, identificandosi, per le già esposte ragioni, la manifestazione di volontà dell’interessato come elemento integrativo della fattispecie difensiva, è da escludere che, avvenuta l’allegazione dei fatti rilevanti, possa il giudice desumere l’effetto, senza l’apposita istanza di parte.
Ma, rispetto ad ogni altra allegazione, la necessità o meno di un’istanza siffatta non può che derivare da una specifica previsione di legge.
Con particolare riferimento alla convalida tacita, va evidenziato che, quale che sia la natura giuridica che ad essa si riconosce (negozio unilaterale o atto giuridico in senso stretto), non vi è dubbio sul fatto che l’effetto convalidante (che estingue il diritto all’annullamento) si produca come conseguenza immediata del perfezionamento della relativa fattispecie, senza che occorra una manifestazione di volontà ulteriore rispetto a quella che (almeno secondo la tesi negoziale) occorre per perfezionare la convalida tacita.
In altri termini, la parte, una volta che, ai sensi dell’art. 1440, co. 2, ha dato volontaria esecuzione al contratto conoscendo la causa di nullità, perde ipso iure il diritto all’annullamento, sanando il vizio e quindi stabilizzando definitivamente gli effetti del contratto.
Tale conclusione è coerente con i principi elaborati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità in ordine ai criteri per distinguere eccezione in senso stretto e eccezione in senso lato.
Secondo la Suprema Corte, le eccezioni sono, di regola, rilevabili d’ufficio, tranne casi eccezionali da individuarsi: a) nella espressa previsione di legge (che testualmente riserva l’eccezione all’istanza di parte); b) nella circostanza che all’eccezione corrisponda un’azione costitutiva di impugnativa negoziale.
È evidente che nel caso della convalida tacita difettano i presupposti di entrambe le suddette eccezioni: non vi è, invero, alcuna previsione di legge che escluda la rilevabilità d’ufficio, né essa corrisponde ad un’azione costitutiva ad impugnandum jus. Al contrario, la convalida (anche tacita) estingue il diritto ad impugnandum jus. Da qui la conclusione secondo cui, a differenza dell’eccezione di annullabilità (non rilevabile d’ufficio perché corrispondente ad un’azione costitutiva ad impugnandum jus, che richiede necessariamente la manifestazione di volontà della parte legittimata), l’eccezione di convalida (anche tacita) è rilevabile d’ufficio. Se così non fosse, del resto, il giudice sarebbe “costretto”, in assenza di eccezione di parte, ad accogliere una domanda basata su un diritto (il diritto potestativo all’annullamento) che, per effetto della convalida si è definitivamente estinto.
Né vale, in senso contrario, opporre la circostanza che, secondo le richiamate sentenze delle Sezioni Unite, non è, invece, rilevabile d’ufficio la conversione del negozio nullo. Le differenze tra conversione del negozio nullo e convalida del negozio annullabile sono evidenti e giustificano il diverso trattamento processuale delle relative eccezioni. La conversione è un istituto in forza del quale si producono gli effetti di un diverso contratto e sorgono nuovi diritti (che il contratto nullo non ha mai fatto nascere). Rilevare d’ufficio la conversione significherebbe, quindi, accertare diritti che la parte non ha mai azionato in giudizio, con la conseguenza che il giudice andrebbe a pronunciare su una domanda non proposta.
La convalida, al contrario, produce il solo effetto di far venir meno il diritto all’annullamento: rilevarla d’ufficio nel giudizio di annullamento è funzionale al rigetto della domanda proposta dall’attore (o eventualmente al rigetto dell’eccezione di annullabilità opposta dal convenuto).
Non appare persuasiva, pertanto, la soluzione accolta da un isolato precedente giurisprudenziale (Cass. Sez. III, 8 marzo 2017, n. 5794), in cui, con succinta motivazione, si afferma la non rilevabilità d’ufficio della convalida tacita sul presupposto che essa non costituisca effetto automatico di una previsione di legge, ma conseguenza della manifestazione volontà della parte
(richiamando, peraltro, due precedenti non pertinenti, in quanto non affrontano affatto il tema della convalida e del suo regime processuale).
Anche ad ammettere che la convalida tacita richieda una manifestazione di volontà, ed abbia quindi natura negoziale (tesi, peraltro, minoritaria in giurisprudenza, che predilige la qualificazione in termini di atto giuridico in senso stretto), ciò, tuttavia, non toglie, come si è già detto, che una volta che tale volontà sia stata tacitamente manifestata, l’effetto di produce ed estingue, a questo punto ipso iure, il diritto potestativo all’annullamento. La conclusione accolta dalla su menzionata sentenza, non tiene conto, inoltre, dell’orientamento consolidato, più volte ribadito dalla Sezioni Unite, a partire dalla sentenza 3 febbraio 1998, n. 1099, che sancisce il carattere tassativo (nel senso sopra precisato) delle eccezioni in senso stretto (cfr. Cass. Sez. Un. n. 25 maggio 2001 n. 226, in tema di rilevabilità d’ufficio dell’eccezione di giudicato esterno, nonché dalle sentenze 1° aprile 2004 n. 6450, 8 aprile 2004 n. 6943 e 21 agosto 2004 n. 16501., 27 luglio 2005, n. 15661; 3 giugno 2015, n. 11377, con riferimento all’eccezione di difetto di potere rappresentativo in capo al falsus procurator).