SEZIONE FALLIMENTARE
N. 5/2017 C.P.
IL TRIBUNALE
Il collegio composto dai magistrati:
XXXXXX XXXXXXXXX Presidente rel. XXXXXXX DE XXXXXXX Giudice XXXXXXXXX XXXXX Xxxxxxx
Nella procedura di concordato preventivo di ., ha pronunciato il seguente
DECRETO
In data 27 aprile 2017 ha presentato domanda di concordato ai sensi dell’art. 161, comma 1°, l. fall.: ciò, all’udienza fissata per la trattazione dell’istanza per la dichiarazione di fallimento presentata dalla Procura della Repubblica di Trento a seguito di segnalazione effettuata ex art. 7 l. fall. da questo Tribunale, all’atto della dichiarazione di improcedibilità di una precedente domanda di concordato con riserva pronunciata ai sensi del combinato disposto degli artt. 161, comma 6°, e 173 l. fall.
Poiché, peraltro, il giorno prima la società aveva ricevuto un’offerta migliorativa da parte di , uno dei soggetti che aveva già manifestato interesse all’affitto ed alla cessione di rami di azienda, essa chiedeva ed otteneva un termine onde poter provvedere alle conseguenti modifiche della proposta e del piano.
Allo scadere del termine concesso, il 9 maggio 2017, depositava un atto con il quale, da un lato, esponeva le linee di massima della proposta migliorativa, e, dall’altro, domandava una proroga del termine concesso, in particolare al fine di approfondire le questioni interpretative poste dal nuovo testo dell’art. 182 ter l. fall.
Con provvedimento del 10/16 maggio 2017 il Tribunale, ravvisando nella proposta, nel piano e nella documentazione di corredo già depositati varie criticità, al fine di non allungare ulteriormente i tempi della procedura in una situazione che vedeva l’azienda gravata dalla maturazione di importanti costi in prededuzione, assegnava alla debitrice termine ai sensi dell’art. 162, comma 1°, l. fall.
provvedeva all’integrazione nel termine assegnato. La proposta, così come modificata, si fonda sull’offerta di di acquisto, previo affitto, dell’intera azienda, sì da configurare un
concordato cd. chiuso e con continuità indiretta. Essa prevede il pagamento integrale delle spese e dei crediti in prededuzione; il soddisfacimento integrale dei creditori ipotecari e pignoratizi, salvo il degrado di uno di essi ex art. 160, comma 2°; il pagamento integrale di tutti i crediti con privilegio generale mobiliare, ad eccezione del credito per Iva; il soddisfacimento di quest’ultimo in misura pari a circa il 64,66% circa, con degrado in chirografo dell’importo residuo; la suddivisione dei creditori chirografari in classi ed il loro pagamento in misura variabile a seconda della classe: dallo 0,5% dei crediti delle società di leasing, all’1% della banca il cui credito è assistito da una garanzia esterna, al 10% del creditore ipotecario per la parte degradata del suo credito, al 18% per la generalità dei chirografi, al 19% dei crediti tributari degradati.
Nel frattempo, con decreto del 31 maggio, veniva disposta l’apertura di procedura competitiva ex art. 162 ter l fall. per la concessione in affitto dell’azienda.
Successivamente, con decreto del 22/28 giugno 2017 il Collegio, ritenendo che le integrazioni effettuate non consentissero di superare la maggior parte delle criticità evidenziate, fissava udienza a mente dell’art. 162, commi 2° e 3°, l. fall.
In tale udienza, in cui comparivano, oltre ai legali della debitrice, il dr. Xxxxxxx Xxxxx per la Procura ed il creditore – che aveva nel frattempo depositato istanza per la dichiarazione di fallimento
–, il Giudice Designato, sentite le parti, si riservava di riferire al Collegio.
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Va innanzi tutto disattesa l’eccezione, formulata in udienza da , secondo la quale vi sarebbe stata un’implicita ammissione alla procedura in concordato, in quanto diversamente la procedura competitiva ex art. 163 bis non avrebbe potuto essere disposta.
L’eccezione si fonda sul seguente sillogismo:
- la procedura competitiva ex art. 163 bis l. fall. può essere disposta soltanto a seguito dell’ammissione alla procedura di concordato;
- tale procedura è stata nella specie aperta con decreto del 31 maggio 2017;
- Leali è stata pertanto implicitamente ammessa alla procedura di concordato. Di tale sillogismo, soltanto la premessa minore risulta corretta.
Non lo è, infatti, la premessa maggiore.
L’art. 163 bis non contiene alcun riferimento all’ammissione della procedura di concordato, ma, semmai, al “piano di concordato di cui all’articolo 161, secondo xxxxx, lettera e)”, il quale è presente sin dal momento del deposito della domanda di concordato cd. pieno, ovvero dell’integrazione della domanda di concordato con riserva. La disciplina da esso dettata è poi estesa all’affitto dell’azienda o di suoi rami ed agli atti di straordinaria amministrazione di cui all’art. 161, comma 7°, con ciò chiaramente postulando l’ammissibilità della procedura competitiva sin dalla fase
di preconcordato: sarebbe dunque ben strano, e privo di qualsiasi giustificazione razionale, che ciò che è consentito in tale fase, ed in quella successiva all’ammissione, non lo sia nel periodo che va dal deposito del ricorso all’ammissione. Ulteriore comprova si rinviene nel disposto dell’art. 182, comma 5°, laddove si riferisce “alle vendite, alle cessioni ed ai trasferimenti legalmente posti in essere dopo il deposito della domanda di concordato”, senza distinguere a seconda che si tratti di domanda proposta ai sensi del 1° o del 6° comma dell’art. 161.
Non corretta è inoltre la conclusione, e non solo per la fallacia della premessa maggiore.
Ed invero, se anche fosse vero che l’apertura della procedura competitiva presuppone l’ammissione al concordato, ciò comporterebbe soltanto l’irregolarità di quella procedura.
Inoltre, posto che ai provvedimenti giudiziali sono estranee le regole della libertà delle forme e della manifestazione della volontà per fatti concludenti, il decreto di cui all’art. 163 dovrebbe essere contenuto nel provvedimento con cui venne disposta la procedura competitiva: esso però nulla statuisce circa l’apertura della procedura concordataria, né contiene valutazione alcuna in ordine all’ammissibilità della proposta (oggetto di rilievi nel precedente decreto del 10/16 maggio), né dispone alcunché in ordine alla nomina del giudice delegato, alla fissazione della data dell’adunanza dei creditori, al fondo spese che la debitrice avrebbe dovuto versare, alla consegna al Commissario delle scritture contabili e fiscali obbligatorie. Per altro verso, il costante riferimento di quel decreto al contenuto della proposta e del piano era doveroso, atteso che il potere confermativo spettante al Tribunale ex art. 163 bis non può comportare una modifica dell’una o dell’altro, e ciò vale ovviamente sia dopo l’ammissione che nelle more della relativa decisione.
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Le criticità evidenziate col provvedimento del 10/16 maggio, che sono state poi richiamate in quello del 22/28 giugno, sono le seguenti:
“con riguardo alla somma di € 2.498.000 per incassi su crediti ceduti salvo buon fine al
avvenuti successivamente alla data di presentazione della domanda di concordato, la debitrice considera tale somma nell’attivo, rettificando correlativamente in aumento la posizione debitoria riferita a tale istituto di credito, in considerazione della mancata notifica della cessione al debitore ceduto, senza che risulti però specificato se l’anticipazione fosse regolata in conto corrente, e se la relativa convenzione contenesse il cd. patto di compensazione o di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto”;
fra le passività “sono in particolare considerate quelle relative ai compensi dei professionisti che hanno assistito nella predisposizione della domanda e del piano, che non è dato pertanto comprendere, anche a cagione della mancata produzione delle relative lettere di incarico, se comprensivi o meno di quelli già in precedenza pattuiti”;
“i compensi del Commissario e del Liquidatore Giudiziale appaiono determinati con ‘estrema prudenza’, in quanto inferiori di circa 500 mila euro all’importo risultante dall’applicazione dei compensi medi ex d.m. n. 30/2012”;
“la relazione giurata redatta ai sensi dell’art. 160, comma 2°, l. fall. ai fini della falcidia dei crediti, aventi privilegio speciale, di e di difetta della specificazione in termini numerici delle spese in prededuzione e, per quel che riguarda l’immobile di , della stessa indicazione del valore del bene in caso di liquidazione; sulla base delle considerazioni svolte nella relazione tale valore risulterebbe oltre tutto assai lontano da quello di € 5.000.000,00 assunto nella tabella delle passività quale credito ipotecario di ., atteso che l’attestatore fa esclusivo riferimento ad un abbattimento del 35% del valore stimato dall’arch. , cosa che porterebbe a determinarlo in cifra prossima ai 7 milioni di euro”;
quanto alle condizioni del degrado dei privilegi generali a mente dell’art. 160, comma 2°, l. fall. “questo Tribunale ha già preso posizione con i decreti del 26 settembre 2013 e 22 dicembre 2016 (il primo confermato dalla Corte d’Appello di Trento), conformemente del resto all’orientamento espresso sul punto dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 9373/2012: allo stato, pertanto, in cui un apporto di finanza esterna è stato solo domandato, ma non ancora deliberato dalla controllante, appare inammissibile la falcidia del credito per Imu, mentre, per quel che concerne quella dei crediti xxxxxxxx, sussistono problematicità ermeneutiche legate al trapianto nel testo dell’art. 182 ter del disposto dell’art. 160, comma 2°, depurato però del paragrafo finale”, problematicità su cui la debitrice era chiamata ad interloquire.
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La principale criticità della proposta riguarda proprio il trattamento dei crediti tributari.
A fronte di un debito verso l’erario di circa 32 milioni di euro, di cui la maggior parte è rappresentata da Iva e relativi accessori (€ 29.225.235,00), ha presentato una proposta ai sensi dell’art. 182 ter
l. fall., nel testo riformato dalla l. n. 232/2016, la quale prevede il pagamento integrale del debito per Irap, Irpef e ritenute, ed il pagamento parziale, nella misura del 64,66% circa, di quello per Iva e accessori, con degrado in chirografo dell’importo residuo di € 10.328.747,00, incluso in apposita classe e reso destinatario di una percentuale di pagamento pari al 19%.
L’intera domanda concordataria si regge su questa proposta, in quanto il patrimonio sociale non è sufficiente a garantire il pagamento integrale di tutti i crediti privilegiati, e la provvista necessaria per attribuire ai creditori chirografari un qualche pagamento deriva dal degrado, non essendo previsto alcun apporto esterno.
La società ritiene infatti che il principio giurisprudenziale per il quale il degrado di privilegi generali, con contestuale pagamento di crediti chirografari, può avvenire solo in presenza della cd. “finanza
esterna”, non sia applicabile ai crediti tributari, in quanto l’art. 182 ter prevede la contemporanea presenza di crediti privilegiati retrocessi al rango di chirografi e di crediti chirografari, il ché, si afferma, “altro non può significare se non che, nel caso di transazione fiscale ai sensi dell’art. 182 ter, è consentito retrocedere a chirografari crediti fiscali in origine privilegiati pur in presenza di altri crediti chirografari”. evidenzia, inoltre, che nel nuovo testo dell’art. 182 ter, comma 1°, non compare l’inciso finale presente nell’art. 160, comma 2° (“Il trattamento stabilito per ciascuna classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di prelazione”); che il trattamento da essa riservato ai crediti tributari non è dissimile da quello conseguibile nell’ipotesi di cd. rottamazione delle cartelle esattoriali; che l’amministrazione finanziaria è chiamata a votare sulla proposta concordataria, sì che esprimendo voto favorevole essa rinuncia al privilegio; che, infine, la nuova norma è intesa a favorire il successo della proposta di transazione fiscale e, con esso, il buon fine della procedura di concordato e la continuazione dell’attività di impresa.
Queste ultime argomentazioni possono essere agevolmente disattese.
Xx xxxxxx, ben la società avrebbe potuto avvalersi della definizione agevolata a mente dell’art. 6 del
d.l. n. 193/2016, in quanto consentita anche ai soggetti che si trovano in procedura concorsuale, ma, a tal fine, avrebbe dovuto presentare domanda nel termine all’uopo stabilito (ed ormai scaduto), considerare le somme occorrenti per aderire alla definizione alla stregua di crediti prededucibili ex art. 6, comma 13°, ed adeguare le previsioni del piano ai tempi di pagamento previsti dal comma 1° del medesimo articolo. Essa ha invece e per l’appunto optato per la presentazione di una proposta ex art. 182 ter l. fall.
Né è esatto dire che la ratio legis di tale articolo si identifichi nell’intento di favorire le soluzioni concordatarie: esso è stato introdotto dopo la sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-546/14, la quale si è limitata ad affermare che non è contraria all’obbligo degli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’Iva nel loro territorio una normativa, qual è quella dettata dalla legge italiana per il concordato preventivo, che, in una situazione in cui il patrimonio dell’imprenditore insolvente non è sufficiente a saldare il proprio debito, consente di pagare parzialmente il credito per Iva, “sulla base di un accertamento di un esperto indipendente, che tale debito non riceverebbe un trattamento migliore nel caso del proprio fallimento” (enfasi nostra), e nell’ambito di una procedura che assicuri allo Stato l’espressione del diritto di voto e la possibilità, in caso di approvazione del concordato malgrado il voto negativo espresso dall’amministrazione, di proporre opposizione, e così provocare un controllo giudiziale sulle contestazioni avanzate.
Neppure è predicabile un’equivalenza tra l’assenso dell’amministrazione finanziaria alla proposta e la rinuncia al privilegio: nessuno ha mai pensato di sostenere che il creditore privilegiato, degradato ai sensi dell’art. 160, comma 2°, l. fall., subisca la falcidia se ed in quanto esprima voto favorevole alla
proposta, giacché il degrado opera per effetto dell’incapienza dei beni e/o diritti su cui il privilegio insiste, debitamente attestata nelle forme prescritte, indipendentemente da quella che potrà essere la manifestazione di voto. Così è oggi anche per i crediti tributari privilegiati, nella misura in cui il nuovo art. 182 ter collega la possibilità della loro falcidia all’insufficienza del patrimonio del debitore, ed elimina inoltre gli aspetti dell’istituto di impronta in senso lato transattiva. Del resto, una rinuncia pura e semplice cozzerebbe contro il principio di indisponibilità della potestà di imposizione, il quale discende dai principi costituzionali di capacità contributiva e di uguaglianza tributaria, oltre che con la regola comunitaria che impone agli Stati membri di garantire il prelievo integrale dell’Iva nel loro territorio. Certamente, quel principio e quella regola conoscono dei temperamenti, e la Corte di Giustizia ci ha in particolare insegnato che la regola eurocomunitaria della riscossione integrale ne implica una, derivata e implicita, “secondo cui gli Stati membri, ove non sia possibile il prelievo integrale, possono/devono garantire il miglior prelievo possibile” (così Trib. Pistoia, 26 aprile 2017), ma né la sentenza del giudice europeo, né l’attuale disposto dell’art. 182 ter consentono agli uffici fiscali di abdicare sic et simpliciter alla riscossione dell’Iva e delle imposte in genere.
È qui opportuno fare un passo indietro, ricordando da dove e perché quella sentenza, e di rincalzo l’intervento legislativo del 2016, traggono origine.
La questione del trattamento del credito per Xxx nel concordato preventivo è stata invero oggetto, come noto, di annosa querelle, che ha visto contrapposti il giudice di legittimità, e quello delle leggi, da un lato, e la dottrina prevalente, e parte della giurisprudenza di merito, dall’altro.
Ripercorrendone “a volo d’uccello” gli snodi principali si ricorda: il riconoscimento da parte della Corte di Cassazione del carattere meramente facoltativo del ricorso alla transazione fiscale; la contestuale affermazione della natura sostanziale della regola, dettata dall’art. 182 ter, l. fall., della infalcidiabilità dell’Iva, e la sua conseguente estensione a qualunque tipo di concordato, anche se privo di transazione fiscale (Cass., n. 22931/2011; Cass., 22932/2011; Cass., 7667/2012; Cass., 9541/2014; 14447/2014; Cass., 18561/2016); l’avallo di questa tesi da parte della Corte Costituzionale (Corte Cost., 25 luglio 2014, n. 215); lo “scardinamento” del principale postulato su cui tale indirizzo si fondava – quello cioè della indisponibilità a livello nazionale del credito per un’imposta di natura eurounitaria – ad opera della sentenza del 7 aprile 2016 pronunciata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-546/14; il revirement della Suprema Corte, che ha infine riconosciuto, a Sezioni Unite, il carattere eccezionale della previsione dell’infalcidiabilità del credito Iva e la sua applicabilità nella sola ipotesi di proposta di concordato accompagnata da una transazione fiscale (Cass., S.u., 27 dicembre 2016, n. 26988).
Pur nella divergenza delle tesi proposte, la questione aveva dunque sin qui riguardato il solo concordato senza transazione fiscale, e, dopo la pronuncia della Corte di Giustizia e le puntualizzazioni
della Corte di Cassazione, pareva destinata ad avviarsi a soluzione nell’ambito di un sistema binario: l’imprenditore avrebbe cioè potuto scegliere se trattare i propri debiti verso l’erario secondo le speciali regole dettate dall’art. 182 ter, e quindi proponendo un concordato con transazione fiscale, ovvero senza transazione, e quindi secondo le regole valevoli per la generalità dei debiti, tra cui in particolare quella dettata dall’art. 160, comma 2°; la scelta sarebbe stata verosimilmente compiuta in base alla composizione dell’indebitamento complessivo, e quindi al “peso” del debito per Iva e ritenute (da pagarsi integralmente in caso di transazione fiscale), e/o al “peso” del voto dell’erario, ma altri fattori avrebbero potuto giocarvi un ruolo: il consolidamento del credito erariale, o comunque un suo accertamento in termini di maggiore certezza; la definizione di contenziosi tributari pendenti; la possibilità che debiti tributari diversi da quelli per Iva e ritenute potessero falcidiarsi alle sole condizioni previste dall’art. 182 ter, comma 1°, secondo periodo, e non anche a quelle di cui all’art. 160, comma 2°.
A questo punto, tuttavia, è intervenuto il legislatore, che con l’art. 1, comma 81, della l. n. 232/2016, ha profondamente modificato l’art. 182 ter.
La radicalità dell’intervento è dimostrata dal fatto che esso ha investito l’articolo nella sua interezza, a partire dalla rubrica, che non è più “Transazione fiscale”, bensì “Trattamento dei crediti tributari e contributivi”.
Il comma 1°, inoltre, risulta così riformulato: “Con il piano di cui all’articolo 160 il debitore, esclusivamente mediante proposta presentata ai sensi del presente articolo, può proporre il pagamento, parziale o anche dilazionato, dei tributi e dei relativi accessori amministrati dalle agenzie fiscali, nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza ed assistenza obbligatorie e dei relativi accessori, se il piano ne prevede la soddisfazione in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali sussiste la causa di prelazione, indicato nella relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d). Se il credito tributario o contributivo è assistito da privilegio, la percentuale, i tempi di pagamento e le eventuali garanzie non possono essere inferiori o meno vantaggiosi rispetto a quelli offerti ai creditori che hanno un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di assistenza e previdenza obbligatorie; se il credito tributario o contributivo ha natura chirografaria, il trattamento non può essere differenziato rispetto a quello degli altri creditori chirografari ovvero, nel caso di suddivisione in classi, dei creditori rispetto ai quali è previsto un trattamento più favorevole. Nel caso in cui sia proposto il pagamento parziale di un credito tributario o contributivo privilegiato, la quota di credito degradata al chirografo deve essere inserita in un’apposita classe”.
Ulteriori modifiche riguardano i commi successivi, ed in particolare il 2°, ove viene soppresso il riferimento al consolidamento del debito fiscale, ed il 5°, che non prevede più, quale conseguenza dell’omologazione del concordato, la cessazione della materia del contendere nei giudizi sui tributi oggetto di transazione.
Per effetto di tali modifiche viene innanzi tutto meno la strada del doppio binario: l’avverbio “esclusivamente”, contenuto nel comma 1°, chiarisce che non potrà esservi un degrado o una dilazione di pagamento di debiti tributari se non nell’ambito del modulo procedurale congegnato dall’art. 182 ter.
Al tempo stesso, tuttavia, questo modulo, pur presentando ancora tratti di specialità, conduce ad una maggiore assimilazione dei crediti tributari alla generalità degli altri crediti: si pensi ad es. alle modalità di espressione del voto, o all’eliminazione dei profili che consentivano di ricondurre l’istituto, se non ad un accordo transattivo, ad un pactum ut minus solvatur.
Soprattutto, poi, l’assimilazione concerne le condizioni e modalità di degrado dei crediti tributari privilegiati, che il legislatore omogenizza a quelle degli altri crediti, trasponendo all’interno del comma 1° dell’art. 182 ter la medesima disposizione che compare nell’art. 160, comma 2°.
Ed invero, il dibattito degli ultimi anni, tutto incentrato sul trattamento dell’Iva, ha fatto dimenticare che la specialità dell’art. 182 ter l. fall. non stava, o non stava soltanto, nella regola – che, come detto, la Cassazione aveva poi reso di portata generale, estendendone l’applicazione anche al di fuori della transazione fiscale – della infalcidiabilità di tale imposta, quanto piuttosto in quella della falcidiabilità degli altri crediti tributari privilegiati. Regime speciale, innanzi tutto, al momento in cui l’art. 182 ter venne promulgato, giacché la disciplina del concordato preventivo non conosceva, all’epoca, la possibilità di degradare i crediti privilegiati; specialità rimasta anche dopo il d.l. n. 273/2005, convertito con modificazioni dalla l. n. 51/2006, al quale si deve il testo attuale dell’art. 160, comma 2°, atteso che, a differenza di quanto stabilito da tale norma, nell’art. 182 ter la falcidia dei crediti privilegiati non era ancorata ad alcun criterio, e sottoposta al solo obbligo di assicurare una sorta di graduazione “attenuata” (v. quanto previsto dal secondo periodo del comma 1°, rimasto immutato). Essa era dunque, in definitiva, lasciata alla discrezionalità degli uffici fiscali, e la amministrazione aveva tentato di colmare tale lacuna precisando, con la circolare n. 40/E dell’aprile 2008, che gli uffici avrebbero dovuto valutare l’eventuale effettiva possibilità di una migliore soddisfazione del credito erariale in sede di accordo transattivo rispetto all’ipotesi dell’avvio di una procedura fallimentare, tenendo altresì conto degli altri interessi coinvolti nella gestione della crisi, quali la difesa dell’occupazione, la continuità dell’attività produttiva, la complessiva esposizione debitoria dell’impresa, la sua complessiva situazione finanziaria e patrimoniale; in dottrina vi era invece chi aveva auspicato che l’esercizio di tale discrezionalità venisse ancorato, piuttosto che a generiche ed
arbitrarie valutazioni dei riflessi occupazionali ed economici del salvataggio aziendale, ad istanze di maggiore efficacia, proficuità, economicità e rapidità della riscossione dei crediti fiscali, riconoscendo pertanto il valore della conservazione dell’azienda solo ove il piano concordatario fosse atto ad assicurare la sopravvivenza di un soggetto in grado di produrre un futuro gettito fiscale, così da evitare un indiscriminato arretramento del principio di indisponibilità della pretesa tributaria e da realizzare un più ponderato contemperamento dei vari interessi in gioco (lavoro, impresa, ragioni dell’erario).
Il legislatore del 2016 ha tuttavia preferito una diversa soluzione, e, sebbene l’intervento ne sia stato occasionato dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’aprile 2016, che non riguardava imposte diverse dall’Iva, la scelta ha investito tutti i crediti tributari privilegiati, con la conseguenza di rendere maggiormente oggettivi i criteri per il loro degrado, ma, al tempo stesso, di irrigidirne le modalità di trattamento, espungendo ogni valutazione afferente all’alea dei giudizi tributari eventualmente pendenti, ovvero, e per converso, al rischio del consolidamento del debito fiscale.
A fronte di questa chiara scelta del legislatore, la tesi della proponente si articola nelle seguenti proposizioni:
a) in presenza di un patrimonio insufficiente al pagamento dei crediti privilegiati generali è possibile il degrado di tali privilegi;
b) nella stessa situazione, è altresì possibile il pagamento dei creditori chirografari senza bisogno di apporti esterni;
c) il pagamento dei creditori con privilegio generale è attestabile come non inferiore rispetto a quello conseguibile nell’alternativa fallimentare.
Tuttavia, mentre le proposizioni sub a) e b) possono essere fra loro non incompatibili (è infatti immaginabile un sistema che, nella situazione descritta, scelga di “sacrificare” almeno in parte i crediti privilegiati), quella sub c) è invece in insanabile contrasto con le prime due, e contraddittorio è altresì sostenere, da un lato, la falcidiabilità dei crediti tributari privilegiati in assenza di apporti esterni, e dall’altro produrre l’attestazione ex art. 182 ter, comma 1°, l. fall.
Ed invero, dire che i crediti assistiti da una causa di prelazione possono essere degradati, in tutto o in parte, solo se soddisfatti nel concordato in misura non inferiore a quella assicurata, nel fallimento o nel diverso scenario liquidatorio in concreto praticabile, dal ricavato della liquidazione dei beni o dei diritti su cui la prelazione insiste, significa escludere che quel ricavato possa essere “sottratto” al creditore ipotecario, pignoratizio o privilegiato, per essere destinato al pagamento di altri creditori.
Sia nel caso dei privilegi speciali, sia in quello dei privilegi generali – ma con effetti maggiormente dirompenti nel secondo caso –, ciò comporta altresì che il pagamento dei creditori con privilegio di grado inferiore, ed a maggior ragione quello dei crediti chirografari, non potrà avvenire se non ove quel ricavato sia stato sufficiente a pagare integralmente i privilegi di grado anteriore: la regola
stabilita dall’inciso finale del comma 2° dell’art. 160 è quindi già insita in quella dettata nel periodo precedente, ed il fatto che il legislatore del 2006 abbia preferito esplicitarla si ricollega ad un intento chiarificatore, volto ad evitare che la novità rappresentata dalla facoltà della suddivisione dei creditori in classi potesse essere interpretata come possibilità di alterare l’ordine delle cause di prelazione. Nessun significato assume pertanto la sua mancata riproduzione nel nuovo 1° comma dell’art. 182 ter. Nel concordato vige infine la regola per la quale tutti i crediti devono essere “trattati”, sì che anche i creditori chirografari, tali ab origine o per effetto di degrado, debbono ricevere un qualche soddisfacimento (“minimale”, secondo l’espressione adoperata dalle Sezioni Unite della Cassazione, ed oggi col limite del 20% dell’ammontare complessivo di tali crediti nei concordati liquidatori): la “contemporanea presenza di crediti privilegiati retrocessi al rango di chirografi e di crediti chirografari”, prevista dall’art. 182 ter, è necessaria conseguenza dell’applicazione di questa regola, ed in sé nulla dice circa le modalità della sua attuazione. È, invece, il combinarsi di detta regola con le due in precedenza enunciate a condurre alla conclusione che, nel caso di insufficienza del patrimonio mobiliare del proponente a soddisfare integralmente i crediti privilegiati, la falcidia di quelli muniti di privilegio generale potrà avvenire solo nell’ipotesi (pressoché di scuola) di una massa immobiliare eccedentaria, ovvero in presenza di apporti esterni.
La scelta del legislatore trascina quindi inevitabilmente con sé la tematica della cd. finanza esterna, e la questione diviene, semmai, quella della definizione del relativo concetto.
Questione che, come noto, registra attualmente soluzioni non uniformi: dalle tesi che ne accolgono una nozione più o meno ampia (ricomprendendovi di volta in volta l’apporto lavorativo offerto gratuitamente dai soci, o il maggior valore ricavabile dalla dismissione degli assets in virtù di un supporto all’attività di vendita fornito da altra società dello stesso gruppo, al maggior importo, rispetto a quello attestato come conseguibile in sede fallimentare, offerto da un soggetto determinato per l’acquisto di singoli beni o dell’azienda, ai flussi di cassa derivanti dalla prosecuzione dell’attività, etc.), all’indirizzo più rigoroso, espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 9373 dell’8 giugno 2012, secondo il quale l’apporto del terzo si sottrae al divieto di alterazione della graduazione dei crediti privilegiati solo allorché risulti neutrale rispetto allo stato patrimoniale della società, non comportando né un incremento dell’attivo patrimoniale della società debitrice, sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro grado, né un aggravio del passivo della medesima, con il riconoscimento di ragioni di credito a favore del terzo, indipendentemente dalla circostanza che tale credito sia stato postergato o no.
Pur prescindendo dall’adesione all’uno o all’altro indirizzo, questo Xxxxxxxx ritiene che il confronto fra la soluzione concordataria e lo scenario liquidatorio debba essere sempre compiuto non in maniera aprioristica e astratta, ma in termini di stretta aderenza alle caratteristiche ed alla peculiarità della
situazione concreta; non, dunque, in base allo stereotipo del fallimento quale procedura votata ad una liquidazione atomistica di beni e diritti – stereotipo che non corrisponde, ed è anzi contrario, al modello consegnatoci dalla riforma del 2006 –, ma avendo riguardo alle prospettive liquidatorie che si presentano nel singolo caso, verificando, pertanto, se le modalità che la legge fallimentare mostra di prediligere, in quanto atte a preservare valori – tipicamente, quello rappresentato dall’azienda, quale complesso di beni e rapporti organizzati per l’esercizio di un’attività di impresa –, possano essere praticate in concreto. Già nel 2009, ne “La relazione giurata estimativa del professionista nel concordato preventivo e nel concordato fallimentare” del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili si osservava, infatti, come “la liquidazione fallimentare all’indomani della riforma imponga al curatore un percorso ben preciso, volto alla massimizzazione del ricavato. In questa prospettiva, pertanto, il curatore, in presenza di un compendio aziendale, ha l’obbligo di esperire prima dei tentativi di vendita dell’azienda nel suo complesso, poi di tentare il realizzo dei beni e rapporti giuridici individuali in blocco e, in caso di infruttuoso esperimento dei suddetti tentativi di vendita, può procedere alla vendita atomistica dei beni. Xxxxxx, in tali ipotesi, si avranno altrettante valutazioni di stima del realizzo prevedibile in caso di fallimento. È presumibile che, in tali casi, lo stimatore proponga non un solo valore ma una serie di valori condizionati al verificarsi delle fattispecie sopra descritte. Si ritiene, tuttavia, che lo stimatore, anche in presenza di ipotesi subordinate, debba esprimere una sola valutazione, valutando anche in termini probabilistici l’ipotesi che ragionevolmente risulta realizzabile in concreto”.
Nella fattispecie in esame, va allora considerato che:
- sebbene l’attività produttiva della proponente sia cessata nel novembre 2016, l’azienda non si è disgregata; tutti i lavoratori sono rimasti alle dipendenze di , e lo sono stati proprio nella prospettiva di una prossima ripresa della produzione;
- il tipo di attività esercitata è tale da richiedere l’impiego di macchinari costosi nonché, e soprattutto, una pluralità di autorizzazioni amministrative, il cui rilascio non è sempre agevole e comporta comunque dispendio di tempo, sì da rendere appetibile l’acquisizione di stabilimenti già esistenti;
- tale appetibilità è confermata dal fatto che sin dalla precedente procedura di concordato con riserva si sono avuti interessamenti di più soggetti aventi ad oggetto l’acquisto, previo affitto, dell’intera azienda o di suoi rami, che hanno infine portato alla formalizzazione di offerte irrevocabili da parte di tre di essi, offerte oltretutto via via migliorative, con rilanci di prezzo effettuati ora dall’uno ed ora dall’altro, ancor prima ed indipendentemente dallo svolgimento di una procedura competitiva;
- la circostanza che le offerte contengano clausola che ne condiziona l’efficacia all’omologa del concordato non appare tale, in questo contesto, da destare preoccupazione, anche perché non se ne ravvisa una giustificazione razionale (nel concordato, come nel fallimento, l’azienda o i suoi rami sono comunque destinati ad essere venduti mediante procedura competitiva); la clausola è oltre tutto assente in ben due delle offerte formulate da , a comprova dell’indifferenza dello scenario concorsuale in cui la cessione andrà a realizzarsi.
Ne deriva che nel caso di specie il raffronto tra la proposta concordataria e l’alternativa fallimentare non poteva e non può essere credibilmente compiuto postulando, per l’ipotesi di fallimento, una liquidazione atomistica e disgregata dei beni componenti l’azienda.
Ne deriva altresì l’inattendibilità delle relazioni ex artt. 160, comma 2°, 182 ter, comma 1°, l. fall., e 186 bis, comma 2°, lett. b), prodotte dalla debitrice, del resto inficiate a monte da una metodologia errata, nella misura in cui operano un raffronto non già fra la soluzione concordataria e l’alternativa fallimentare, bensì fra quest’ultima ed una libera contrattazione di mercato (cfr. le pagg. 26 e 27 della relazione ex artt. 182 ter, ove si afferma che la cessione in sede fallimentare avverrà “con valori presumibilmente inferiori a quelli ottenibili in una libera contrattazione di mercato, non foss’altro che per il ‘naturale’ effetto delle aste giudiziali e per l’assenza di garanzia sui vizi della cosa ex art. 1490
c.c. che le vendite concorsuali comportano”, ovvero che la “prassi delle procedure fallimentari dimostra come la valorizzazione in caso di ‘vendita forzata’ sia inferiore, rispetto all’ipotesi di poter perfezionare la vendita in un arco temporale più ampio e con le dovute efficienze che un imprenditore in bonis riuscirà sicuramente a gestire nell’ambito della propria vendita imprenditoriale”). Tanto, con una singolare inversione di prospettiva: è l’alternativa liquidatoria, richiamata dall’art. 160, comma 2°, e dall’art. 182 ter, comma 1°, che potrebbe in ipotesi non corrispondere con il fallimento (come sarebbe nel caso di una domanda di concordato presentata da un debitore che si trovi in stato di crisi, e non di insolvenza), non invece il fatto che non sia un imprenditore in bonis e si trovi in concordato, che non è un’ipotesi bensì una certezza; altrettanto certo è che, come appena osservato, le vendite avverranno nel concordato e nel fallimento con le medesime modalità e nel rispetto delle medesime regole.
La proposta concordataria di , degradando crediti privilegiati e destinando le risorse frutto del degrado al pagamento di crediti chirografari, presenta pertanto un primo, pregnante profilo di inammissibilità.
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La debitrice, dopo aver falcidiato il credito per Iva e relativi accessori per circa 10,3 milioni di euro, prevede il pagamento integrale del credito per Imu, pari a circa 415 mila euro.
Il pagamento ne sarebbe effettuato dal sig. , Presidente del Consiglio di Amministrazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1180 c.c., con impegno a rinunciare “alla prelazione per una parte corrispondente al 40% del credito vantato verso ”, e la conseguenza che “il Sig. verrà equiparato ai creditori chirografi di limitatamente a tale quota oggetto della rinuncia sopra indicata”. Nella tabella delle passività delle pagg. 80 e segg. del ricorso l’Imu compare, infatti, fra i crediti privilegiati per 249.476,00, e fra i crediti chirografari per € 166.318,00.
Tale prospettazione postula un diritto di regresso o surroga che, in realtà, non sorge per il semplice fatto dell’adempimento del terzo (cfr. Cass., 1° agosto 2002, n. 11417, e Cass., 20 luglio 1976, n. 2872), e richiederebbe pertanto che il sig. si facesse surrogare dalla o dalle amministrazioni comunali al momento del pagamento, ai sensi dell’art. 1203, n. 3, c.c.
A parte ciò, l’intricato meccanismo congegnato dalla debitrice muove dal presupposto, che si è visto essere errato, che la falcidia di crediti per imposte muniti di privilegio generale soggiaccia a regole diverse a seconda che si tratti o meno di crediti riconducibili al disposto dell’art. 182 ter, e quindi a seconda che si tratti o meno di tributi amministrati dalle agenzie fiscali (e, in effetti, l’Imu non lo è). Poiché, infatti, nella prospettiva della debitrice le risorse destinate al pagamento dell’Imu e dei creditori chirografari derivano da una falcidia dell’Iva attuata in mancanza di apporti esterni, e quindi in definitiva dal patrimonio della società, essa si è trovata “costretta” a prevedere il pagamento integrale del credito per Imu, e ciò ha ritenuto di fare mediante “finanza esterna”.
In tal modo, però, viene ad essere violata la regola dettata dal secondo periodo del comma 1° dell’art. 182 ter. Prima della novella del 2016 tale regola era intesa ad assicurare un rispetto “attenuato” dell’ordine delle cause di prelazione, nel senso che i crediti tributari privilegiati diversi da quelli per Iva e ritenute potevano sì essere falcidiati indipendentemente dalla capienza del patrimonio mobiliare, ma dovevano esser trattati meglio di quelli aventi “un grado di privilegio inferiore o a quelli che hanno una posizione giuridica e interessi economici omogenei a quelli delle agenzie e degli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”; oggi, invece, che il (pieno) rispetto dell’ordine delle cause di prelazione è già imposto dalla regola dettata nel periodo precedente, essa importa che in relazione a tali crediti anche l’uso della finanza esterna non può essere del tutto libero, ma tale da assicurare il rispetto di questa ulteriore condizione. Nella specie, il credito per Iva, avente privilegio anteriore rispetto a quello per Imu, verrebbe trattato peggio, in quanto del primo si prevede un degrado nella misura del 35,34%, e del secondo un pagamento integrale.
Inoltre, l’apporto del sig. non può in alcun modo essere qualificato come “finanza esterna”: il riconoscimento di ragioni di credito in suo favore comporta infatti la semplice sostituzione di un creditore ad un altro (cfr. la già citata Xxxx., n. 9373/2012, che esclude che l’apporto del terzo possa in
tal caso sottrarsi al divieto di alterazione della graduazione dei crediti, indipendentemente dalla circostanza che il credito riconosciutogli sia stato o meno postergato).
Piuttosto può osservarsi come la circostanza che il sig. fosse pronto ad effettuare un pagamento di 415 mila euro non pare essere stata considerata dal professionista attestatore nel momento in cui, riconoscendone una responsabilità per aver ritardato la gestione della situazione di crisi, ha poi concluso per l’insussistenza di (o la mancanza di certezza su) una sua capacità patrimoniale.
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A seguito della riforma dell’estate 2015 questo Tribunale ha rimeditato la questione interpretativa relativa alla riconducibilità delle ipotesi di cd. continuità indiretta nell’alveo dell’art. 186 bis l. fall.
Le disposizioni dettate dagli artt. 160, comma 4°, e 163, comma 5° – entrambe, come noto, introdotte in sede di conversione del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 – disvelano, infatti, un atteggiamento di particolare favore nei confronti del concordato con continuità aziendale, e di disfavore invece per quello liquidatorio, in qualche modo anticipando le linee di politica legislativa alla base del disegno di legge governativo di delega al Governo per la riforma delle procedure concorsuali. Si tratta di atteggiamento che non si presta ad essere spiegato in forza di caratteristiche intrinseche del concordato in continuità, ed anzi, al contrario, esso presenta notoriamente un grado di aleatorietà ed un rischio maggiore del concordato liquidatorio, per il carattere tipicamente prognostico delle valutazioni poste a fondamento dell’elaborazione di un business plan, ed il pericolo che le risorse a disposizione dei creditori concorsuali siano erose dalle obbligazioni contratte nell’esercizio dell’impresa: la ragione giustificatrice può dunque rinvenirsene soltanto nell’intento di preservare la continuità aziendale, di conservare il valore azienda in quanto tale, cosa che porta a ricomprendere nell’ambito di applicazione dell’art. 000 xxx, x xxxxxxxxx così all’obbligo di rispetto della soglia del 20%, anche le ipotesi di continuità indiretta.
Al tempo stesso, il Tribunale ha tuttavia osservato che l’aggiunta del comma 4° al testo dell’art. 160 l. fall. ha una valenza non limitata alla fissazione di una soglia minima di soddisfacimento dei creditori chirografari, ma legata all’uso della locuzione “deve assicurare”, valenza che, avuto riguardo al significato proprio del termine adoperato (“assicurare” nella lingua italiana sta per “rendere sicuro”, “rendere certa una persona riguardo ad un determinato fatto”, “affermare con sicurezza”) deve individuarsi nella necessità che l’attuazione del piano concordatario sia prospettata dal debitore, ed attestata dal professionista, in termini di ragionevole certezza. Analogamente, nel regime del testo originario dell’art. 160, si affermava che “il giudizio concernente la sufficienza dei beni offerti dal debitore ad assicurare il soddisfacimento dei crediti nella misura prevista dalla legge, non deve muovere da mere congetture o da ipotesi arbitrarie e più o meno ottimistiche, ma deve poggiare su elementi seri e concreti, capaci di far sorgere la ‘fondata opinione’, intesa come ‘quasi certezza’, che
in base all’id quod plerumque accidit la liquidazione dei beni stessi fornirà i mezzi necessari al predetto soddisfacimento” (cfr. Cass., 13 dicembre 1969, n. 3936; Cass., 19 giugno 1971, n. 1921;
Cass., 9 aprile 1988, n. 2809; Cass., 23 luglio 2007, n. 16215).
Xxxxxx, mentre la soglia di sbarramento opera per i soli concordati con cessione dei beni, la regola della ragionevole certezza dell’attuazione del piano concordatario ha, invece, portata generale.
Se ne rinviene conferma nell’uso del medesimo verbo “assicurare” nell’art. 161, comma 2°, lett. e) – applicabile a qualsiasi tipo di concordato –, nonché nell’art. 161, comma 5° – che si riferisce espressamente al concordato con continuità –. A proposito di quest’ultimo articolo si è infatti giustamente osservato che, diversamente opinando, “si perverrebbe alla conclusione che esistono due tipologie di concordato in continuità: quella con percentuale solo prevista e quella con percentuale assicurata, il che davvero non sembra ragionevole. E poiché quest’ultima esiste tanto da essere considerata dal comma 5° dell’art. 163, se ne deve desumere che l’altra non esista più” (Trib. Pistoia 29 ottobre 2015).
Per altro verso, non vi è sotto questo profilo alcuna ragione atta a giustificare la sottoposizione del concordato con continuità ad un diverso regime, atteso che la prosecuzione dell’attività di impresa è favorita non in quanto tale, ma in quanto funzionale al “miglior soddisfacimento dei creditori”, e la regola della ragionevole certezza di attuazione del piano concordatario è anch’essa regola di tutela del ceto creditorio.
In questa prospettiva va dunque esaminato, in primo luogo, il rilievo del Tribunale relativo alla posta dell’attivo rappresentata da crediti ceduti, e già incassati, dal .
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Nel rispondere a tale rilievo non allega il contratto concluso con il , né precisa se esso contiene il cd. patto di compensazione, ma rinvia ad un approfondimento, prodotto sub n. 85, che ciò presuppone.
Si tratta di un documento a firma del prof. – che è uno degli advisor legali di , ma che qui compare nelle vesti del professionista che rende un parere al cliente. In esso si afferma che “…Per effetto del combinato disposto dell’art. 45 l. fall. e degli artt. 1265 e 2914 c.c., si deve dunque ritenere che, in caso di anticipazioni bancarie garantite da cessione dei crediti, la banca finanziatrice non possa trattenere, a decurtazione del proprio credito da finanziamento, gli importi pagati dai creditori ceduti, a meno che la cessione dei crediti nei loro confronti non si sia perfezionata, e non sia stata notificata o accettata dagli stessi debitori, con atto (stando alla giurisprudenza maggioritaria, di data certa) anteriore alla presentazione della domanda di concordato. D’altra parte, per effetto dell’art.
56 l. fall., in caso di anticipazioni bancarie su fatture con mandato all’incasso alla banca finanziatrice, quest’ultima non potrà portare a decurtazione del proprio credito da finanziamento,
sorto anteriormente alla presentazione dell’istanza di concordato (decurtazione che si discute se sia riconducibile a un fenomeno di compensazione in senso tecnico), il debito – avente ad oggetto la restituzione delle somme pagate dai debitori dell’imprenditore concordatario – sorto dopo la presentazione di detta istanza; dovendo la banca adempiere per intero il proprio debito e subire, in relazione al proprio credito, la falcidia concordataria”. Al tempo stesso, nel parere si dà atto di una diversa tesi secondo la quale, “ove il sopra descritto meccanismo satisfattivo (c.d. pactum de compensando) sia previsto da un contratto pendente alla data della domanda di concordato, lo stesso possa operare, ad onta dell’art. 56 l. fall., in attuazione di detto contratto”, e si conclude infine nel senso che “ può sostenere, con fondate possibilità di vedere accolte le proprie tesi, che gli importi incassati da dopo la presentazione della domanda di c.p. in bianco, anche se prima della presentazione dell’istanza di c.p. in pieno, sorto in epoca anteriore al deposito della prima domanda, non possono essere portati a decurtazione del credito da finanziamento della Banca, sorto in epoca anteriore al deposito della prima domanda”.
Sennonché, ai fini della predisposizione di una domanda di concordato, le opinioni dottrinarie su questioni opinate e/o opinabili, quand’anche autorevoli, rivestono nulla o scarsa utilità, nella misura in cui il debitore ed i suoi professionisti non sono chiamati a discettare della minore o maggiore persuasività di una tesi piuttosto che di un’altra, ma a compiere valutazioni improntate a rigorosa prudenza, sì da azzerare le poste dubbie – che, se eventualmente conseguite in seguito, costituiranno una sopravvenienza attiva che andrà a migliorare la percentuale di soddisfacimento dei creditori.
Nella specie, non vi era neanche bisogno di compiere opera di particolare prudenza.
La tesi contraria a quella espressa nel parere, ed alla quale si dedica nulla più che un accenno, è sostenuta ormai da decenni dalla Suprema Corte di Cassazione, tant’è che già in una sentenza del 1997 essa parlava di un proprio radicato orientamento nel senso della piena efficacia del cd. patto di compensazione nelle procedure concorsuali minori (cfr. Cass., 5 agosto 1997, n. 7194). Né si tratta di indirizzo risalente nel tempo, o non consolidato, e/o suscettibile di revisione in quanto formatosi in un diverso contesto normativo: nel senso indicato si sono altresì espresse Cass., 7 marzo 1998, n. 1998, Cass., 23 marzo 2001, n. 4205, Cass., 1° settembre 2011, n. 17999, nonché la recentissima Cass., 19 febbraio 2016, n. 3336; nessuna decisione di segno contrario è stata mai pronunciata dalla Corte: tale non è, infatti, la sentenza n. 18437/2010 richiamata nel parere, la quale riguardava la diversa questione della consecutio fra procedure concorsuali, né la sentenza citata in udienza n. 10548 del 7 maggio 2009, ove veniva in considerazione un mandato all’incasso (sulla distinzione fra tale ipotesi e quella del patto di compensazione cfr. Xxxx., 23 luglio 1992, n. 1994); il principio da cui la Corte muove è quello per il quale i rapporti di conto corrente non si sciolgono nelle procedure concorsuali minori – principio che era e resta valido per il concordato preventivo –, con la conseguenza che “la
prosecuzione attiene al rapporto nella sua interezza e, dunque, si estende a tutte le clausole pattizie che lo regolano, ivi compresa quella con la quale le parti abbiano attribuito alla banca il diritto di ‘incamerare le somme riscosse’. Il patto, infatti, è essenzialmente interdipendente al negozio di credito connesso al mandato a riscuotere, nel senso che attenendo esso alla regolamentazione delle modalità di satisfazione del credito della banca, in sua carenza l’operazione non sarebbe stata posta in essere, sicché negozio e patto non possono che rimanere inscindibilmente connessi. In simile prospettiva, però, risulta inammissibile, prima ancora sul piano logico che su quello giuridico, qualsiasi costruzioni giuridica incentrata sulla prosecuzione – nel corso di una procedura concorsuale minore – del complesso unitario del rapporto di conto corrente bancario, compresa l’obbligazione di dar esecuzione al mandato all’incasso, ma con esclusione del patto (va ribadito, inscindibile rispetto a quel rapporto) della c.d. ‘compensazione’ attraverso il mezzo tecnico della annotazione in conto delle somme riscosse ad elisione delle partite di debito verso la banca” (così la già citata Cass., 7194/1997).
Per altro verso, l’indirizzo in parola è talmente radicato che esso costituisce il presupposto teorico del dibattito sviluppatosi a seguito dell’introduzione dell’art. 169 bis nel corpo della legge fallimentare, dibattito che ha pressoché monopolizzato, nelle riviste giuridiche e nelle pronunce giudiziali, la discussione concernente tale nuova disposizione: le istanze di sospensione e/o scioglimento di contratti pendenti hanno in questi anni prevalentemente riguardato contratti bancari, e al nuovo istituto è stato affidato il compito di “neutralizzare” il patto di compensazione (che, come noto, ricorre sistematicamente nella modulistica contrattuale delle banche), sì da consentire una ridistribuzione in favore della generalità dei creditori di risorse altrimenti destinate al solo ceto bancario – obiettivo che nella specie non è più conseguibile, non avendo la debitrice presentato istanza ai sensi dell’art. 169 bis
l. fall.
È infine appena il caso di osservare che nessun rilievo riveste il fatto che il non abbia sin qui rivendicato il diritto che le spetta, e pare anzi ignorarne l’esistenza: nella procedura di concordato non esiste una fase di accertamento che porti ad una cristallizzazione del passivo o dell’attivo, di talché il predetto diritto potrà essere fatto valere dalla banca sia in corso di procedura che successivamente alla sua chiusura. Né può in alcun modo parlarsi, come fatto dalla debitrice in udienza, di un onere probatorio (dell’esistenza del patto di compensazione) gravante sull’istituto di credito, quasi che la presente fosse la causa di cognizione ordinaria promossa contro il e non già la procedura di concordato di , in cui è essa a dover dimostrare, in termini di ragionevole certezza, l’esistenza di poste dell’attivo considerate nel piano, in particolare se così rilevanti come quella che ne occupa.
La conseguenza ne è che l’importo di € 2.498.000,00 non è computabile fra l’attivo, ovvero che il suo appostamento andrebbe controbilanciato dalla previsione di un fondo rischi, in prededuzione, di
identico importo, sì che viene a mancare più di un terzo della somma che la debitrice destina al pagamento dei crediti chirografari.
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Nella stessa prospettiva va altresì osservato che le rimanenze di magazzino sono considerate nel piano con un valore di circa 8 milioni di euro, sulla base di stime effettuate da perito incaricato dalla società, il quale peraltro compie anche altra valutazione (di circa 6,340 milioni di euro), per l’eventualità in cui le rimanenze siano vendute nel lungo periodo ovvero “non in continuità”.
Sennonché, malgrado l’affitto e la cessione dell’azienda o suoi rami abbiano suscitato l’interesse di più soggetti, per le rimanenze di magazzino nessuno ha confermato il valore indicato a piano, atteso che e hanno formulato proposte di acquisto prive di una precisa quantificazione del corrispettivo offerto, e, , una offerta per un acquisto in blocco al corrispettivo di € 3.000.000,00.
Nella medesima prospettiva va inoltre evidenziato che nella relazione ex art. 161, comma 3°, l. fall. il professionista attesta la fattibilità del piano in termini di semplice probabilità, e non di ragionevole certezza.
*** Altre criticità residuati all’integrazione sono le seguenti:
- quanto alle spese in prededuzione incidenti sul valore di beni incapienti, nella nuova relazione ex art. 160, comma 2°, ci si limita ad indicare alcune spese, concludendo nel senso che esse sono “complessivamente stimabili nella misura del 5% del valore di realizzo dei beni”: dette spese sono peraltro solo elencate, ma non quantificate, e nell’elenco compaiono esclusivamente spese specifiche, nulla dicendosi circa la quota parte di quelle generali ex art. 111 ter, comma 3°, l. fall.;
- il rilievo concernente l’insufficienza degli importi stanziati per il compenso degli organi della procedura è stato superato semplicemente espungendo il compenso del Liquidatore Giudiziale, sull’assunto che tale figura non è prevista in un concordato qualificabile come concordato in continuità (indiretta), trascurando di considerare che il d.l. n. 83/2015 ha mutato la rubrica dell’art. 182 (da “Provvedimenti in caso di cessione di beni” a “Cessioni”), ed introdotto un nuovo comma 5°, applicabile ad ogni tipo di concordato, con ciò confermando l’assunto, già in passato sostenuto da parte della dottrina, per il quale la nomina del Liquidatore è necessaria tutte le volte che il piano concordatario preveda delle cessioni;
- sebbene la precedente procedura di preconcordato fosse stata dichiarata improcedibile ai sensi del combinato disposto degli artt. 161, comma 6° e 173 l. fall. sul rilievo, tra l’altro, dell’eccedentarietà dei compensi pattuiti per i professionisti, dell’esorbitanza degli acconti, pagati o programmati, rispetto all’entità delle prestazioni rese alle scadenze previste per i
singoli pagamenti, dell’affidamento di incarichi via via ad altri professionisti, malgrado l’ampiezza del mandato originario, con conseguente aumento dei costi complessivi – malgrado ciò le condizioni contrattuali dei professionisti originari non sono mutate, e, appena una dozzina di giorni prima del deposito della domanda di concordato, è stato conferito l’ennesimo incarico di assistenza ad ulteriore professionista.
***
Un’ulteriore criticità è emersa successivamente: l’istanza depositata da Leali il 22 giugno 2017 onde ottenere l’autorizzazione al trasferimento delle quote di CO2 dal ramo d’azienda di a quello ed all’acquisto di ulteriori quote sul mercato fa emergere il rischio dell’insorgenza di passività,
legato alla violazione di alcuni obblighi sanzionati con sanzione amministrativa pecuniaria (la mancata comunicazione, entro il 31 marzo 2017, delle emissioni rilasciate dall’impianto durante l’anno 2016, e la conseguente mancata restituzione, entro il 30 aprile 2017, delle quote di emissioni rilasciate dall’impianto durante l’anno 2016), in alcun modo considerate nel piano, malgrado che al momento del suo deposito il rischio si era ormai concretizzato.
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All’udienza del 6 luglio 2017, fissata ex art. 162, commi 2° e 3°, l. fall., ha infine riferito di una disponibilità del di apportare al concordato, in caso di omologa, la somma di € 1.000.000,00, e, a comprova di ciò, nel pomeriggio ha depositato telematicamente una mail: si tratta peraltro di mail proveniente dallo stesso , sì che nessun impegno formale al conferimento è stato assunto da o da qualche società del gruppo (da tempo inutilmente invitati all’apporto di finanza esterna).
In ogni caso, l’apporto consentirebbe di porre rimedio al solo rilievo concernente l’operata falcidia di crediti privilegiati in difetto di finanza esterna, e non agli altri, e l’importo è meno di 1/7 di quello previsto in piano per il soddisfacimento dei crediti chirografari, tale quindi da portare a percentuali di pagamento non solo diverse ed inferiori rispetto a quelle oggi indicate, ma che sarebbero per lo più irrisorie.
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Va dunque in definitiva dichiarata l’inammissibilità della domanda di concordato presentata da
Sulle istanze di fallimento presentate dalla Procura della Repubblica e da si provvede come da separata sentenza.
P.Q.M.
Dichiara l’inammissibilità della domanda di concordato presentata da Si comunichi.
Trento, 6 luglio 2017
Il Presidente est. Dr. Xxxxxx Xxxxxxxxx