Contract
D) Giurisprudenza amministrativa
106. Sui rapporti tra art. 2233, comma 2, c.c. e la previsione deontologica che impone di commisurare il compenso al decoro della professione
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 22 gennaio 2015, n. 238 - Pres. BACCARINI - Est. GIOVAGNOLI
Non si può ritenere che la regola deontologica che impone di prati- care compensi commisurati al decoro della professione possa trovare una copertura normativa nell’art. 2233, comma 2, c.c. che, occupan- dosi del contratto d’opera intellettuale, prevede espressamente che “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’impor- tanza dell’opera e al decoro della professione”. Tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza, infatti, al singolo professionista, discipli- nando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale, senza attribuire alcun potere di vigilanza agli Ordini in merito alle scelte contrattuali dei propri iscritti.
FATTO e DIRITTO
1. Il Consiglio Nazionale dei Geologi (CNG) con due separati ricorsi davanti al Tribunale amministrativo regionale (Tar) Lazio - Roma ha impugnato:
- la delibera dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora innanzi AGCM o Autorità) adottata nell’adunanza del 22 dicembre 2009, con la quale sono stati rigettati gli impegni presentati dal Consiglio nazionale dei geologi nell’ambito del procedimento, avviato in data 14 maggio 2009, volto all’accertamento di eventuali violazioni dell’art. 101 del Trattato sul funzio- namento dell’Unione europea per effetto delle norme contenute nel codice deontologico dei geologi;
- la delibera dell’AGCM adottata nell’adunanza del 23 giugno 2010, con la quale è stato ritenuto che l’Ordine nazionale dei geologi ha posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza ai sensi dell’articolo 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (già art. 81 del Trattato CEE), ordi- nando di assumere misure atte a porre termine all’illecito riscontrato ed irro- gando la sanzione amministrativa pecuniaria nella misura di euro 14.254.
2. Il Tar adito, riuniti i due ricorsi, li ha respinti con la sentenza in epigrafe (Tar Lazio - Roma, sez. I, 25 febbraio 2011 n. 1757), nella quale, peraltro, ri- tiene viziato il provvedimento dell’Autorità nella parte in cui ritiene che il rife- rimento, nel codice deontologico, al “decoro professionale” quale criterio di commisurazione del compenso del professionista, costituisca restrizione della concorrenza.
3. La sentenza è stata appellata dal Consiglio nazionale dei geologi, con appello che ripropone espressamente tutti i motivi del ricorso di primo grado e muove motivate critiche alla sentenza.
4. La sentenza è stata appellata anche dall’AGCM, con riferimento al capo di sentenza che ha ritenuto in parte erronea la motivazione del provvedimen- to dell’Autorità, laddove dispone che il Consiglio dell’ordine debba eliminare dal codice deontologico il parametro del decoro professionale quale criterio di determinazione del compenso del professionista.
5. Nel suo appello, il CNG ha proposto di sollevare dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea alcune questioni pregiudiziali relative alla con- formità di disposizioni nazionali, di natura legislativa o regolamentare, non- ché contenute nel codice deontologico, al diritto dell’Unione in materia di con- correnza.
6. Questa Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza collegiale 5 marzo 2012, n. 1244, dopo aver disposto la riunione dei due appelli (in quanto aventi ad oggetto la medesima sentenza), ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea alcune questioni pregiudiziali.
La Sezione, in primo luogo, pur ritenendo che la maggior parte delle questioni proposte dal CNG fossero in linea di principio rilevanti ai fini della soluzione del procedimento principale, ha affermato, tuttavia, che dette questioni erano formulate in termini vaghi. Inoltre, la Sezione ha rilevato che alcune di tali questioni proposte dal CNG fossero manifestamente prive di rilevanza nel procedimento principale, in particolare quelle che fanno rife- rimento al regolamento (CEE) n. 2137/85 del Consiglio, del 25 luglio 1985, relativo all’istituzione di un gruppo europeo di interesse economico (GEIE) (GU L 199, pag. 1).
La Sezione, pertanto, ha sottoposto alla Corte di giustizia alcune questioni vertenti sulla portata dell’articolo 267, terzo comma, TFUE per quanto con- cerne la sua competenza a scegliere e a riformulare le questioni sollevate da una delle parti nel procedimento principale e il suo eventuale obbligo di effet- tuare una tale scelta e una tale riformulazione.
In tale contesto, la Sezione ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
“I. 1) Se osti o meno all’applicazione dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una par- te in causa, la disciplina processuale nazionale che preveda un sistema di preclusioni processuali, quali termini di ricorso, specificità dei motivi, divieto di modifica della domanda in corso di causa, divieto per il giudice di modifica- re la domanda di parte;
2) se osti o meno all’applicazione dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE, in relazione all’obbligo del giudice di ultima istanza di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario sollevata da una parte in causa, un potere di filtro da parte del giudice nazionale in ordine alla rilevan- za della questione e alla valutazione del grado di chiarezza della norma co- munitaria;
3) se l’articolo 267, [comma] 3, TFUE, ove interpretato nel senso di im- porre al giudice nazionale di ultima istanza un obbligo incondizionato di rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto comunitario solle- vata da una parte in causa, sia o meno coerente con il principio di ragionevo- le durata del processo, del pari enunciato dal diritto comunitario;
4) in presenza di quali circostanze di fatto e di diritto l’inosservanza dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE configuri, da parte del giudice nazionale, una “violazione manifesta del diritto comunitario”, e se tale nozione possa es- sere di diversa portata e ambito ai fini dell’azione speciale nei confronti dello Stato ai sensi della legge 13 aprile 1988, n. 117 per “risarcimento danni ca- gionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie (...)”.
II. Per il caso in cui la Corte (...) dovesse accedere alla tesi del “filtro a maglie larghe” (...), ostativa dell’applicazione delle regole processuali na- zionali in ordine alla specificità dei motivi di ricorso, la pregiudiziale comuni- taria deve essere rimessa alla Corte (...) negli esatti termini in cui è stata formulata da parte appellante [nel procedimento principale], e [qui di se- guito] riportati:
“1) (...) si propone alla Corte (...) domanda di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione dell’articolo 101 del Trattato (...) in relazione alla norma- tiva di legge e deontologica regolante la professione di geologo ed i compiti istituzionali e norme di funzionamento del [CNG], afferente la fattispecie, che di seguito si riporta, al fine di riscontro e coerenza e legittimità con la norma- tiva europea (detto articolo 101 [TFUE]) attinente la disciplina della concor- renza. (...)
(riproduzione dell’articolo 9 della legge n. 112/1963)
(riproduzione degli articoli 14, comma 1, e 17 della legge n. 616, del 25 luglio 1966, recante “Norme integrative per l’applicazione della legge 3 feb- braio 1963, n. 112, contenente norme per la tutela del titolo e della profes- sione di geologo”)
(riproduzione degli articoli 6 e 7 del codice deontologico)
(riproduzione dell’articolo 17 del codice deontologico). In particolare, sul punto, dica la Corte (...) se determina contrasto con l’articolo 101 del Tratta- to [FUE] l’aver indicato, quale vigente norma di legge obbligatoria nel suo in- tero contenuto, il d.l. n. 223/2006 con il sistema numerico-cronologico, unico sistema storico e legittimo, tanto a livello interno che comunitario, che di cer- to non incide minimamente sulla conoscibilità e sulla portata obbligatoria del- la norma giuridica.
(riproduzione degli articoli 18 e 19 del codice deontologico) Considerando che:
- il regolamento (...) n. 2137/85 (...) avente lo scopo di “facilitare o svi- luppare l’attività economica dei suo membri” stabilisce, al suo sesto conside- rando, che le disposizioni di quest’ultimo “non pregiudicano tuttavia l’applicazione, a livello nazionale, delle norme legali e/o deontologiche relati- ve alle condizioni di esercizio di un’attività o di una professione”;
- [riproduzione del considerando 43 della direttiva 2005/36/CE del Parla- mento europeo e del Consiglio, del 7 settembre 2005, relativa al riconosci- mento delle qualifiche professionali (GU L 255, pag. 22)];
- [riproduzione del considerando 115 della direttiva 2006/123/CE del Par- lamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (GU L 376, pag. 36)].
Si esprima infine l’Xxx.xx Corte (...) sulla compatibilità con l’articolo 101 del Trattato [FUE] della delineata distinzione, in punto di diritto e di organiz- zazione ordinamentale, tra impresa professionale ed impresa commerciale, nonché tra concorrenza professionale e concorrenza commerciale.
2) a) Se l’articolo 101 TFUE o altra norma europea vieti e/o inibisca il rife- rimento alle componenti di dignità e decoro del professionista - nella fattispe- cie geologo - nella composizione del compenso professionale;
b) se ai sensi dell’articolo 101 TFUE, o altra norma europea, il riferimento alle componenti di dignità e decoro professionale comportino effetti restrittivi della concorrenza professionale;
c) se l’articolo 101 TFUE o altra norma europea stabilisca o meno che i re- quisiti di dignità e decoro, quali componenti del compenso del professionista in connessione con tariffe definite espressamente come derogabili nei minimi
- atteso l’espresso e formale richiamo, di cui all’articolo 17 del [codice deon- tologico], alla normativa di legge che tale deroga consente [D.L. n. 223/2006 (...)] - possa ritenersi quale induzione a comportamenti restrittivi della con- correnza;
d) se l’articolo 101 TFUE o altra norma europea vieti il riferimento alla ta- riffa professionale - stabilita, per i geologi, da provvedimento statuale, d.m. del Ministro della Giustizia di concerto con il Ministro delle Attività Produttive e derogabile nei minimi per effetto, ripetesi, dell’espresso e formale richiamo al d.l. n. 223/2006 di cui all’articolo 17 del (...) codice deontologico - quale semplice elemento tecnico-professionale di riferimento per la determinazione dei compensi;
e) se l’articolo 101 TFUE o altra norma europea vieti la corrispondenza tra l’importanza delle prestazioni, i requisiti di dignità e decoro così come anche definiti negli articoli 6 e 7 del [codice deontologico] con il compenso profes- sionale, così come previsto dall’articolo 2233 c.c. comma 2 secondo cui “in ogni caso la misura del compenso[“] (n.d.r. professionale) [“]deve essere adeguata all’importanza dell’opera ed al decoro della professione”;
f) se dunque secondo l’articolo 101 TFUE il riferimento all’articolo 2233, comma 2, c.c. possa ritenersi legittimo e non induzione di effetti restrittivi della concorrenza;
g) se l’articolo 101 TFUE, o altra norma europea, stabilisca, nell’ambito della disciplina della concorrenza, l’eguaglianza giuridica tra Ordine Professio- nale, nella specie dei geologi, così come regolato da specifiche norme dello Stato poste per il perseguimento dei fini istituzionali, e le intese e concentra- zioni di imprese commerciali costituenti intesa anticoncorrenziale;
h) se l’articolo 101 TFUE, o altra norma europea, consenta o meno di sta- bilire l’equiparazione tra contributo ordinistico obbligatorio per legge - posto per il perseguimento delle funzioni e fini istituzionali - con l’attività di vendita di beni e servizi e con il profitto economico effettuati ed ottenuti mediante comportamenti anticoncorrenziali da parte di concentrazioni di imprese com- merciali;
i) se l’articolo 101 TFUE, o altra norma europea, giustifichi o meno l’applicazione, nella fattispecie, di sanzione;
j) se l’articolo 101 TFUE, o altra norma europea, legittimi o meno l’assoggettamento a prelievo forzoso su contributo ordinistico, obbligatorio per legge, eguagliando tale contributo a profitto ed entrata frutto di intesa economico-commerciale anticoncorrenziale”.
III. 1) In via subordinata, per il caso in cui la Corte risolva le questioni di interpretazione dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE nel senso della ininfluenza delle regole processuali nazionali e della sussistenza di un dovere di soccorso del giudice nazionale, e la questione pregiudiziale come sollevata dall’appel- lante nel senso della genericità del quesito di parte, la questione pregiudiziale se il diritto comunitario della concorrenza e delle professioni, e in particolare le disposizioni comunitarie invocate da parte appellante nel suo quesito, osti- no o meno all’adozione di codici deontologici professionali che commisurino il compenso al decoro e dignità professionale, alla qualità e quantità del lavoro svolto, con il risultato che compensi che si collocano al di sotto dei minimi ta- riffari (e che pertanto sono concorrenziali) potrebbero essere sanzionati, sul piano disciplinare, per violazione di regole deontologiche;
2) in via subordinata, per il caso in cui la Corte risolva le questioni di in- terpretazione dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE nel senso della ininfluenza delle regole processuali nazionali e della sussistenza di un dovere di soccorso del giudice nazionale, e la questione pregiudiziale come sollevata dall’appellante nel senso della genericità del quesito di parte, la questione pregiudiziale se il diritto comunitario della concorrenza, e in particolare la di- sciplina che vieta le intese restrittive, possa o meno essere interpretato nel senso che una intesa restrittiva può essere configurata da regole deontologi- che stabilite da ordini professionali, laddove tali regole, nell’indicare il decoro e la dignità professionale, nonché la qualità e quantità del lavoro svolto, quali parametri di quantificazione del compenso del professionista, sortiscano l’effetto della inderogabilità dei minimi tariffari, e pertanto anche un effetto restrittivo della concorrenza a causa di detta inderogabilità;
3) in via subordinata, per il caso in cui la Corte risolva le questioni di in- terpretazione dell’articolo 267, [comma] 3, TFUE nel senso della ininfluenza delle regole processuali nazionali e della sussistenza di un dovere di soccorso del giudice nazionale, e la questione pregiudiziale come sollevata dall’appel- lante nel senso della genericità del quesito di parte, la questione pregiudiziale se, laddove il diritto nazionale ponga regole di tutela della concorrenza più severe di quelle comunitarie, in particolare stabilendo che i minimi tariffari delle tariffe professionali possono essere derogati, laddove il diritto comunita- rio sembra invece ancora consentire a certe condizioni la inderogabilità dei minimi tariffari, e conseguentemente laddove una condotta dell’Ordine pro- fessionale che imponga la inderogabilità dei minimi tariffari costituisca, per il diritto nazionale, una intesa restrittiva della concorrenza mentre potrebbe non esserlo per il diritto comunitario, il diritto comunitario della concorrenza, e segnatamente la disciplina comunitaria delle intese restrittive della concor- renza, osti o meno a siffatto risultato di ritenere una data condotta sanziona- bile come intesa restrittiva in base alla disciplina nazionale e non anche in
base alla disciplina comunitaria, ogni qualvolta le regole nazionali di tutela della concorrenza siano più severe di quelle comunitarie”.
7. Con sentenza 18 luglio 2013, C-136/12, la Corte di giustizia si è pro- nunciata sulle questioni pregiudiziali dichiarando che:
1) L’articolo 267, terzo comma, TFUE deve essere interpretato nel senso che spetta unicamente al giudice del rinvio determinare e formulare le que- stioni pregiudiziali vertenti sull’interpretazione del diritto dell’Unione che esso ritiene rilevanti ai fini della soluzione del procedimento principale. Non devo- no essere applicate le norme nazionali che abbiano l’effetto di ledere tale competenza.
2) Le regole come quelle previste dal codice deontologico relativo all’esercizio della professione di geologo in Italia, approvato dal Consiglio na- zionale dei geologi il 19 dicembre 2006 e modificato da ultimo il 24 marzo 2010, che prevedono come criteri di commisurazione delle parcelle dei geolo- gi, oltre alla qualità e all’importanza della prestazione del servizio, la dignità della professione, costituiscono una decisione di un’associazione di imprese ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, che può avere effetti restrittivi del- la concorrenza nel mercato interno. Spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce del contesto globale in cui tale codice deontologico dispiega i suoi effetti, compreso l’ordinamento giuridico nazionale nonché la prassi applicativa di detto codice da parte dell’Ordine nazionale dei geologi, se i predetti effetti si producano nel caso di specie. Tale giudice deve anche verificare se, alla luce di tutti gli elementi rilevanti di cui dispone, le regole del medesimo codice, in particolare nella parte in cui fanno riferimento al criterio relativo alla dignità della professione, possano essere considerate necessarie al conseguimento dell’obiettivo legittimo collegato a garanzie accordate ai consumatori dei ser- vizi dei geologi.
8. In seguito alla sentenza della Corte di giustizia, la causa torna oggi in decisione davanti a questo Consiglio di Stato.
9. In applicazione dei principi affermati dalla Corte di giustizia nella sen- tenza 18 luglio 2013, C-136/12 e all’esito delle valutazioni e delle verifiche che la suddetta sentenza ha demandato al giudice nazionale, il Collegio ritie- ne che l’appello dell’AGCM debba essere accolto e che quello proposto dal CNG debba, invece, essere respinto.
10. La Corte di giustizia ha, infatti, chiaramente affermato che il CNG co- stituisce un’associazione di imprese ai sensi e per gli effetti di cui al’art. 101, par. 1, TFUE, posto che, relativamente all’elaborazione di regole deontologi- che come quelle di cui trattasi nel contenzioso in esame il CNG non esercita né una funzione sociale fondata sul principio di solidarietà, né perogative tipi- che dei pubblici poteri”.
La Corte ha, inoltre, rilevato la natura di “decisione” ai sensi dell’art. 101 TFUE, di tali regole deontologiche, sottolineando il loro carattere vincolante rispetto ai geologi, nonché alla possibilità di infliggere a questi ultimi sanzioni in caso di inosservanza del predetto codice.
Ritenuto, infine, che la decisione in questione sia idonea a “pregiudicare il commercio tra gli Stati membri”, la Corte ha chiaramente affermato che “le regole deontologiche che indicano come criteri di commisurazione delle par-
celle del professionista la dignità della professione nonché la qualità e l’importanza della prestazione sono idonee a produrre effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno”.
I riportati passaggi motivazionali della sentenza della Corte di giustizia valgono chiaramente a superare le doglianze fatte valere dal CNG secondo cui i principi comunitari a tutela della concorrenza non troverebbero applica- zione nei confronti dei professionisti intellettuali, non potendosi equiparare la concorrenza commerciale alla concorrenza professionale.
La tesi del CNG, volta a sostenere la necessità di operare una distinzione tra concorrenza commerciale e concorrenza professionale, trova una netta smentita nella citata sentenza della Corte di giustizia, che riafferma, confor- memente, peraltro, ad una giurisprudenza consolidata, il principio secondo cui la nozione eurounitaria di impresa include anche l’esercente di una pro- fessione intellettuale, con la conseguenza che il relativo Ordine professionale può essere qualificato alla stregua di un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101 TFUE.
11. La Corte di giustizia, ha, tuttavia, rilevato che non ogni decisione di un’associazione di imprese che restringa la libertà d’azione delle parti o di una di esse ricade necessariamente sotto il divieto sancito all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE. Infatti, ai fini dell’applicazione di tale disposizione al caso di specie, occorre anzitutto tenere in considerazione il contesto globale nel quale la decisione controversa dell’associazione di imprese in questione è sta- ta adottata o dispiega i suoi effetti e, in particolare, i suoi obiettivi, che consi- stono, nel caso di specie, nel fornire le garanzie necessarie ai consumatori fi- nali dei servizi di cui trattasi. Occorre poi verificare se gli effetti restrittivi del- la concorrenza che ne derivano ineriscano al perseguimento di detti obiettivi.
In tale contesto, secondo il giudice comunitario, si deve verificare se le re- strizioni così imposte dalle regole di cui trattasi siano limitate a quanto ne- cessario al conseguimento di obiettivi legittimi.
La sentenza europea ha evidenziato che, alla luce del fascicolo di cui di- spone, la Corte di giustizia non è in grado di valutare se l’esistenza del crite- rio relativo alla dignità della professione possa essere considerata necessaria al conseguimento di un obiettivo legittimo, come quello collegato alle garan- zie accordate ai consumatori finali dei servizi dei geologi, in quanto, in parti- colare, detto criterio si aggiunge ad altri criteri di commisurazione delle par- celle strettamente collegati alla qualità del lavoro di detti geologi, quali l’importanza e la difficoltà del lavoro, le conoscenze tecniche e l’impegno ri- chiesti.
Ha, di conseguenza, demandato al giudice del rinvio il compito di valutare, alla luce del contesto globale nel quale il codice deontologico dispiega i suoi effetti, compreso l’ordinamento giuridico nazionale nonché la prassi applicati- va di tale predetto codice da parte dell’Ordine nazionale dei geologi, se vi sia un effetto restrittivo della concorrenza nel mercato interno. Il giudice del rin- vio, sempre secondo le indicazioni provenienti dalla Corte di giustizia, deve anche verificare se, alla luce di tutti gli elementi rilevanti di cui dispone, le regole di detto codice, in particolare nella parte in cui fanno riferimento al cri- terio relativo alla dignità della professione, possano essere considerate ne-
cessarie al conseguimento del predetto obiettivo legittimo collegato a garan- zie accordate ai consumatori.
12. Il Collegio ritiene che, alla luce del contesto globale nel quale il codice dentologico dispiega i suoi effetti, le regole deontologiche in esame, in parti- colare quella secondo cui a garanzia della qualità delle prestazioni il geologo deve sempre commisurare il compenso al decoro professionale, siano restrit- tiva della concorrenza e non possano essere considerate necessarie al perse- guimento di legittimi obiettivi collegati alla tutela del consumatore.
13. In primo luogo, nel corso dell’indagine conoscitiva svolta dall’Autorità per valutare lo stato di recepimento dei principi della concorrenza nei codici deontologici a seguito della c.d. legge Bersani è emerso che “secondo la pro- spettiva ordinistica, una prezzo inferiore alla tariffa minima non risulterebbe decoroso per la professione” (par. 57). È emerso, quindi, che l’obbligo conte- nuto nei codici deontologici di rispettare il decoro della professione nella de- terminazione del compenso induca di fatto, e per prassi consolidata, gli iscritti a ritenere vincolanti le tariffe professionali.
In altri termini, l’obbligo di commisurare il compenso al decoro professio- nale si traduce, nella prassi, in una surrettizia reintroduzione dei minimi tarif- fari, eludendo così l’abolizione degli stessi disposta dal legislatore (art. 2 de- creto legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248;
art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito in legge 24 marzo 2012, n. 27), con i conseguenti effetti restrittivi della concorrenza.
I geologi, infatti, in virtù della suddetta regola deontologica si trovereb- bero obbligati a commisurare i compensi ai minimi tariffari, rischiando, al- trimenti, l’irrogazione di sanzioni disciplinari da parte dell’Ordine di appar- tenenza.
14. Né si può ritenere che tale regola deontologica (e il collegato effetto restrittivo della concorrenza che ne deriva) sia necessaria per garantire l’obiettivo della tutela del consumatore, assicurandogli una prestazione di qualità.
Il fine di tutelare il consumatore viene adeguatamente perseguito dall’ordinamento nazionale tramite altri strumenti, che trovano il loro princi- pale ambito di applicazione nella disciplina del singolo rapporto tra professio- nista e cliente, e si traducono nella previsione di rimedi civilistici, la cui piena operatività non richiede l’attribuzione di alcun potere di vigilanza all’Ordine professionale.
15. Parimenti non si può ritenere che la regola deontologica che impone di praticare compensi commisurati al decoro della professione possa trovare una copertura normativa nell’art. 2233, comma 2, cod. civ. che, occupandosi del contratto d’opera intellettuale, prevede espressamente che “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al de- coro della professione”.
Tale norma, contenuta nel codice civile, si indirizza, infatti, al singolo pro- fessionista, disciplinando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale, senza attribuire alcun potere di vigilanza agli Ordini in merito alle scelte contrattuali dei propri iscritti.
Va pienamente condivisa, quindi, sotto questo profilo la posizione dell’AGCM, secondo cui la citata disposizione del codice civile non attribuisce all’Ordine alcun potere, né tanto meno alcun dovere di vigilare sul comporta- mento dei propri iscritti nella determinazione del compenso, non potendo quindi l’Ordine controllare che il compenso liberamente pattuito sia comunque adeguato al decoro della professione.
16. L’art. 2233, comma 2, cod. civ. non solo non può essere legittima- mente invocata come sostegno normativo della regola deontologica in esame, ma, anzi, finisce per indebolire ulteriormente la posizione del CNG, costituen- do una ulteriore riprova della non necessità della regola al fine di assicurare la qualità della prestazione e, quindi, in ultima istanza, la protezione dei con- sumatori.
Ed invero, anche in assenza della citata regola deontologica, la previsione di compensi professionali in ogni caso adeguati all’importanza dell’opera e al decoro della professione è assicurata, nell’ordinamento nazionale, dalla citata disposizione del codice civile, che di per sé già rappresenta, quindi, una ade- guato strumento a garanzia della qualità della prestazione e degli interessi dei consumatori.
In tale contesto normativo, a fronte di un preciso obbligo civilistico che già àncora il compenso professionale al decoro della professione e all’importanza dell’opera, l’introduzione di una regola deontologica volta a ribadire tale ob- bligo, riservando la vigilanza circa il suo rispetto all’Ordine, e prevedendo l’eventualità di sanzioni disciplinari in caso di inosservanza, appare evidente- mente estranea o, comunque, manifestamente non proporzionata, rispetto all’esigenza di fornire al consumatore adeguata tutela.
17. In definitiva, quindi, non sussistono i presupposti per ritenere che nel caso di specie la riscontrata restrizione della concorrenza possa essere consi- derata necessaria al conseguimento dell’obiettivo legittimo collegato a garan- zie accordate ai consumatori dei servizi dei geologi.
18. Alla luce delle considerazioni che precedono deve, pertanto, essere ac- colto l’appello proposto dall’AGCM (diretto a contestare il punto della motiva- zione in cui il T.A.R. ha ritenuto che l’Autorità non avesse fornito elementi sufficienti a provare la tesi secondo la quale l’aver fatto riferimento alla digni- tà della professione come uno degli elementi da prendere in considerazione nella commisurazione delle parcelle dei geologi implicasse il carattere obbli- gatorio della tariffa professionale). Deve, invece, essere respinto l’appello proposto dal CNG.
19. La complessità delle questioni esaminate giustifica l’integrale compen- sazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamen- te pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti:
- ne dispone la riunione;
- accoglie l’appello proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (ric. n. 4710/2011);
- respinge l’appello proposto dal Consiglio Nazionale dei Geologi (ric. n.
4584/2011).
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 novembre.
Depositata in segreteria il 22 gennaio 2015.
Nota a sentenza di Xxxxxx Xxxxxxxxx
L’“ANTICONCORRENZIALITÀ“ DEL DECORO NELLA COMMISURAZIONE DEL COMPENSO PROFESSIONALE
Sommario: 1. Il caso. - 2. Il principio del decoro nell’art. 2233, comma 2, c.c. - 3. Il prin- cipio del decoro e la tutela del consumatore. - 4. Il principio del decoro e l’autonomia deontologica degli ordini professionali. - 5. Conclusioni.
1. IL CASO
Nel giugno del 2010 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sanzionato il Consiglio nazionale dei geologi per intesa restrittiva della con- correnza ex art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. In particolare l’Antitrust, all’esito del procedimento nei confronti del citato Con- siglio, ha accertato e sanzionato un’intesa avente ad oggetto una fissazione di “prezzo”, consistente nel richiamo, contenuto nel codice deontologico1 della professione, al principio del “decoro” nella commisurazione dei compensi e all’art. 2233, comma 2, c.c., il quale prevede appunto che «in ogni caso la
1 In dettaglio, ai sensi dell’art. 17 del codice deontologico, intitolato ai parametri tariffari, «Nella determinazione dei compensi professionali il geologo deve attenersi a quanto stabilito dal d.l. n. 223/2006; al principio di adeguatezza di cui all’art. 2233 comma 2 codice civile e, comunque, al complesso delle vigenti disposizioni di legge regolanti la materia. La tariffa professionale approvata con d.m. 18 novembre 1971 e la tariffa in materia di lavori pubblici approvata con d.m. 4 aprile 2001 per la parte applicabile ai geologi, costituiscono legittimo ed oggettivo elemento di riferimento tecnico-professionale nella considerazione, determinazione e definizione dei compensi tra le parti». Analogo rilievo viene formulato con riferimento al richiamo al decoro contenuto nell’art. 18 codice deontologico, intitolato alla commisurazione della parcella, il quale stabilisce che «Nell’ambito della normativa vigente, a garanzia della qualità delle prestazioni, il geologo che esercita attività professionale nelle varie forme (...) deve sempre commisurare la propria parcella all’importanza e difficoltà dell’incarico, al decoro professionale, alle conoscenze tecniche e all’impegno richiesti». Il medesimo richiamo al decoro è contenuto anche nell’art. 19, dedicato all’evidenza pubblica, il quale prevede che «Per le procedure ad evidenza pubblica, ove la pubblica amministrazione legittimamente non utilizzi quale parametro compensativo la tariffa professionale, il geologo dovrà comunque commisurare la propria offerta all’importanza e difficoltà dell’incarico, al decoro professionale, alle conoscenze tecniche ed all’impegno richiesti».
misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al de- coro della professione».
In sostanza si è ritenuto che le norme del Codice deontologico relative alla determinazione del compenso inducano i geologi a non assumere condotte autonome nell’individuazione dei prezzi delle proprie prestazioni professionali, spingendoli all’applicazione della ormai abrogata tariffa professionale, così determinando una restrizione della concorrenza, in violazione dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Il Consiglio nazionale dei geologi ha impugnato la decisione di fronte al Tar Lazio, che, pur respingendo il ricorso presentato, ha ritenuto viziata la parte della delibera dell’Antitrust in cui si afferma che il riferimento, nel codi- ce deontologico dei geologi, al “decoro” professionale come criterio di deter- minazione del compenso possa rappresentare “restrizione della concorrenza”. I giudici amministrativi, infatti, con la sentenza del 25 febbraio 2011, n. 1757 hanno chiarito che il provvedimento dell’Antitrust è legittimo in quanto il co- dice deontologico dei geologi non avrebbe indicato in maniera chiara l’abolizione dei minimi tariffari inderogabili, sottolineando, tuttavia, che il provvedimento dell’Autorità è viziato nella parte in cui sostiene che il riferi- mento, nel codice del Consiglio nazionale, al “decoro professionale” quale cri- terio di commisurazione del compenso possa avere una portata anticoncor- renziale. Il Consiglio nazionale dei geologi ha, quindi, impugnato la sentenza, riproponendo espressamente tutti i motivi del ricorso di primo grado e muo- vendo motivate critiche alla sentenza. La sentenza è stata appellata anche dall’AGCM con riferimento al capo di sentenza che ha ritenuto in parte erro- nea la motivazione del provvedimento dell’Autorità, laddove dispone che il Consiglio debba eliminare dal codice deontologico il parametro del decoro professionale quale criterio di determinazione del compenso del professioni- sta.
Nel ricorso in appello il Consiglio nazionale dei geologi ha chiesto al Consi- glio di Stato di sottoporre, in via pregiudiziale ex art. 267 TFUE, alcune que- stioni alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Fra l’altro, con l’ordinanza 5 marzo 2012, n. 1244 il giudice amministrativo italiano ha chiesto di chiarire se l’art. 101 TFUE o altra norma europea vieti e/o inibisca il riferimento alle componenti di dignità e decoro del professionista - nella fattispecie geologo - nella composizione del compenso professionale; e se il riferimento alle com- ponenti di dignità e decoro professionale comporti effetti restrittivi della con- correnza.
2. IL PRINCIPIO DEL DECORO NELL’ART. 2233, COMMA 2, C.C.
Il decoro della professione è contemplato dal codice civile come criterio di commisurazione del compenso professionale non suscettibile di deroghe. «In ogni caso», afferma l’art. 2233, comma 2, c.c. «la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione».
Nel calcolo del compenso professionale, dunque, il parametro del decoro della categoria di appartenenza dovrebbe essere considerato un elemento imprescindibile. Aspetto di non poco rilievo che l’Antitrust trascura di osserva- re è che la riforma Xxxxxxx, pur avendo modificato il terzo comma dell’art.
2233 c.c., non ha leso l’integrità del secondo comma2 dello stesso articolo, che continua a disporre: «In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione»3.
Il secondo comma dell’art. 2233 c.c. è rimasto, quindi, un punto di riferi- mento nella parte in cui prevede che la misura dell’onorario, seppur rimessa alla libera contrattazione delle parti, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione.
Il disposto prospetta un criterio non mercantile di determinazione del compenso, il “decoro professionale”, che assume, in verità, un significato più ampio, da interpretare come strumento di tutela della persona stessa del la- voratore intellettuale.
L’art. 2233, comma 2, c.c. - riferendosi all’importanza dell’opera - pone in rilievo la proporzionalità oggettiva al risultato utile dell’opera prestata, princi- pio immanente alla disciplina generale del lavoro autonomo4. Il legislatore, infatti, ha avuto cura di sancire sia la corrispondenza tra quantità e qualità del lavoro prestato - il sostantivo importanza sottolinea soprattutto l’aspetto qualitativo, il pregio dell’opera e la correlativa utilità potenziale per il cliente - ed il compenso, sia la proporzione tra la misura della prestazione e la capaci- tà lavorativa globale del professionista, in modo tale che gli sia garantita un’esistenza decorosa5, tanto sull’assunto secondo cui la norma contenuta nel comma 2 dell’art. 2233 c.c. non può essere ritenuta una mera affermazione di principio. Non lasciano spazio a dubbi sia, come già accennato, l’incipit del- la norma («In ogni caso») sia la sua collocazione6.
Una consistente opzione interpretativa, riferendosi all’art. 2233 c.c., prefi- gura - in parallelo con quella offerta dall’art. 36 Cost. - la garanzia di un compenso che consenta al professionista intellettuale la conduzione di un’esistenza libera e dignitosa.
Non è mancata, infatti, dottrina che ha ravvisato l’analogia7 tra la norma in esame e l’art. 36, comma 1, Cost., ed è stato anche affermato che il decoro e l’indipendenza della professione costituiscono l’equivalente nell’ambito del-
2 X. XXXXXXXXXXXX, La nuova disciplina dei compensi professionali per gli avvocati, in Corr. giur., 2007, 450; X. XXXXXXXXX, Compenso professionale e autonomia privata il patto di quota lite: problemi civilistici, in Compenso professionale e patto di quota lite, a cura di X. XXXXXX, Milano, 3.
3 X. XXXXXXX, Onorario, in Enc. dir., Milano, 1980, 181.
4 X. XXXXXXX, Il lavoro autonomo, in Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 1996, 388 ss. L’autore sostiene tra le altre cose che, contrariamente a quanto affermato da parte del- la giurisprudenza, è applicabile anche ai professionisti non appartenenti a professioni protette la norma dell’art. 2233 c.c., la quale, adeguando «in ogni caso» la misura del compenso «all’importanza dell’opera e al decoro della professione» non sembra presupporre l’iscrizione all’albo.
5 XXXXXXXX, Lavoro autonomo, in Enc. dir., Milano, 432 ss.
6 X. XXXXXXX, Onorario, cit., 182.
7 C. LEGA, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 686 ss.; contra TORRENTE, Del lavoro, in Commentario al codice civile, Torino, 1962, 150; RIVA XXXXXXXXXXX, Del lavoro, in Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 1963, 223.
le attività professionali, dell’esistenza libera e dignitosa di cui alla norma costituzionale e che, quindi, l’art. 36 Cost. è applicabile anche al lavoro au- tonomo8.
3. IL PRINCIPIO DEL DECORO E LA TUTELA DEL CONSUMATORE
Con la sentenza del 18 luglio 2013 la Corte di giustizia UE è intervenuta sulle questioni pregiudiziali poste dal Consiglio nazionale dei geologi così co- me riformulate dal giudice del rinvio9, volte a chiarire se l’art. 101 TFUE osti all’adozione da parte di un ordine professionale di regole deontologiche che prevedono come criteri di commisurazione delle parcelle, oltre alla qualità e all’importanza della prestazione del servizio, la dignità della professione, con la conseguenza che la commisurazione delle parcelle al di sotto di un certo li- vello, circostanza assimilabile al caso dell’istituzione di tariffe minime, possa essere sanzionata in ragione della violazione di dette norme10.
Come già in altre pronunce11, la Corte ha affrontato, in primo luogo, la questione riguardante l’assimilazione di un’organizzazione professionale, co- me il Consiglio nazionale dei geologi, ad un’associazione di imprese ai sensi dell’art. 101, par. 1, TFUE, ponendosi l’obiettivo di verificare se, quando adotta disposizioni di natura deontologica come quelle in considerazione, un ordine professionale debba essere considerato un’associazione di imprese o, invece,
8 «Il decoro è canone normativo riferibile al più ampio valore della dignità, che la Costituzione della Repubblica non manca di richiamare nella norma fondamentale che disciplina i criteri generali di retribuzione del lavoro (di tutto il lavoro, non solo di quello dipendente), l’art. 36 della Costituzione, certamente riferibile anche ai professionisti quando richiama l’esigenza che il compenso sia parametrato alla quantità e qualità del lavoro e comunque sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e (appunto) dignitosa», in X. XXXXXXXXX, Passi da compiere ed errori da evitare nel contratto d’opera professionale, in Guida Normativa n. 4, Sole 24 Ore, Milano, 2012, 19.
11 Corte giust., 19 febbraio 2002, causa C-35/99, Arduino; Corte giust., 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Macrino - Cipolla.
un’autorità pubblica la cui attività è collegata all’esercizio di prerogative dei pubblici poteri. Pur confermando l’ormai nota assimilazione tra professionisti e imprese nonché tra ordini professionali e associazioni di xxxxxxx00 i giudici hanno ritenuto che le regole deontologiche involgenti il decoro nella determi- nazione del compenso non sono contrarie all’art. 101, par. 1, TFUE, o meglio lo sono solo potenzialmente.
Il concetto di intesa restrittiva della concorrenza nelle pronunce giurispru- denziali della Corte di giustizia è certamente molto ampio e può, quindi, es- servi ricondotta anche una raccomandazione di prezzo, indipendentemente dalla sua precisa natura giuridica13. Il carattere vincolante del codice deonto- logico e la possibilità di infliggere sanzioni nel caso di inosservanza potrebbe condurre a considerare le disposizioni come una decisione ai sensi dell’art. 101 TFUE. Inoltre un’intesa estesa a tutto il territorio di uno Stato membro avrebbe, per sua stessa natura, l’effetto di consolidare la compartimentazione dei mercati a livello nazionale, ostacolando l’integrazione economica voluta dal Trattato, effetto che potrebbe avere anche la decisione di un’associazione di imprese come il Consiglio nazionale dei geologi data l’appartenenza obbli- gatoria disposta dal diritto italiano su tutto il territorio nazionale dei geologi all’ordine professionale.
La Corte ritiene, tuttavia, che solo il giudice nazionale possa valutare se concretamente le regole deontologiche, che indicano come criteri di commi- surazione delle parcelle del professionista la dignità della professione nonché la qualità e l’importanza della prestazione, producano effetti restrittivi della concorrenza nel mercato interno, affidando al giudice del rinvio il compito di verificare, alla luce del contesto globale nel quale il codice deontologico di- spiega i suoi effetti, compreso l’ordinamento giuridico nazionale nonché la prassi applicativa di tale predetto codice da parte del Consiglio nazionale dei geologi, se vi sia in concreto un effetto restrittivo della concorrenza nel mer- cato interno e se, alla luce di tutti gli elementi rilevanti di cui dispone, le re- gole di detto codice, in particolare nella parte in cui fanno riferimento al crite- rio relativo alla dignità della professione, possano essere considerate neces- sarie per garantire gli utenti delle prestazioni dei geologi.
Del resto la stessa Corte di giustizia14, insegna che la tutela dei consuma- tori rientra tra i motivi imperativi di interesse pubblico, in grado di giustificare una restrizione della libera prestazione dei servizi, alla duplice condizione che
12 La Corte, per valutare se una certa entità possa essere effettivamente qualificata come associazione di imprese, ha adottato alcuni criteri distintivi, ritenendo necessario che i membri rappresentino direttamente i professionisti e che nessuna disposizione della normativa nazionale li obblighi a tener conto di criteri di interesse pubblico ovvero impedisca loro di agire nell’esclusivo interesse del corretto esercizio della professione (Corte giust., 30 gennaio 1985, causa 123/83, Xxxxx, in Racc., 1985, 391). Sulla base di questi criteri la Corte di giustizia ha in più occasioni qualificato gli enti rappresentativi delle categorie professionali come associazioni di imprese.
13 Corte giust., 27 gennaio 1987, causa C-45/85, Verbandder Sachversicherer/ Commissione, in Racc., 405.
14 Corte giust., 5 dicembre 2006, cause riunite C-94/04 e C-202/04, Macrino -
Cipolla.
la misura restrittiva sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo per- seguito e non vada oltre quanto necessario per raggiungere l’obiettivo mede- simo. Anche nella sentenza Cipolla-Macrino, infatti, la Corte ha affermato che spetta al giudice nazionale valutare le ragioni di interesse pubblico che in astratto possono giustificare un regime di minimi tariffari siano rinvenibili in concreto in ciascun Paese, sottolineando che il legislatore può prevedere mi- nimi inderogabili senza per questo violare il diritto comunitario, poiché i fe- nomeni di offerte al ribasso, che la rimozione dei minimi inevitabilmente comporta, possono incidere negativamente sulla qualità del servizio, in danno dell’utente consumatore. La Corte in questo caso ha anche specificato che sebbene una tariffa che fissi onorari minimi non sia in grado di impedire la prestazione di servizi di qualità mediocre, non si possa neppure escludere a priori che tale tariffa consenta di evitare che gli avvocati siano indotti, in un mercato contrassegnato dalla presenza di un numero estremamente elevato di professionisti iscritti ed in attività, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell’offerta di prestazioni al ribasso, con il rischio di un peggioramen- to della qualità dei servizi forniti.
Peraltro anche la Corte di Cassazione italiana ha recepito senza difficoltà i principi poco sopra richiamati e, analizzando la nullità di una convenzione, che prevedeva compensi inferiori ai minimi tariffari, intercorsa tra alcune so- cietà commerciali e alcuni legali avente ad oggetto attività stragiudiziali e giudiziali per il recupero di crediti rimasti insoddisfatti, ha riconosciuto che la garanzia della qualità della prestazione professionale a tutela dei consumatori e la buona amministrazione della giustizia sono «le ragioni imperative di inte- resse pubblico» che giustificano una limitazione del principio di libera presta- zione dei servizi ad opera di una norma interna che fissi minimi inderogabili15. La Cassazione, sviluppando l’iter logico dei giudici del Lussemburgo nella sen- tenza Xxxxxxx Xxxxxxx, ha affermato che «pur non essendo una garanzia della qualità dei servizi, non si può certo escludere - e anzi deve affermarsi - che nel contesto italiano, caratterizzato da un’elevata presenza di avvocati, le ta- riffe che fissano onorari minimi consentano di evitare una concorrenza che si traduca nell’offerta di prestazioni al ribasso, tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio»16.
4. IL PRINCIPIO DEL DECORO E L’AUTONOMIA DEONTOLOGICA DEGLI ORDINI PROFESSIONALI
La questione sulla compatibilità tra il diritto della concorrenza e il principio del decoro è, quindi, tornata al Consiglio di Stato, chiamato ad effettuare la valutazione in concreto richiesta dai giudici europei.
Con sentenza 22 gennaio 2015, n. 238, i giudici di Palazzo Spada hanno rigettato l’appello del Consiglio nazionale dei geologi e accolto invece quello dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, sostenendo che, alla
15 Cass. civ., sez. lav., 22 settembre 2010, n. 20269.
16 X. XXXXXXXXX, Nell’offerta di servizi legali al ribasso il settore rischia un peggioramento, nota a Cass. civ., sez. lav., 27 settembre 2010, n. 20269, in Guida dir., 2010, 46, 23 ss.
luce del contesto globale nel quale il codice deontologico dispiega i suoi effet- ti, le norme esaminate, in particolare quella secondo cui, a garanzia della qualità delle prestazioni, il geologo deve sempre commisurare il compenso al decoro professionale, sono restrittive della concorrenza e non possano essere considerate necessarie al perseguimento di legittimi obiettivi collegati alla tu- tela del consumatore.
Come poco sopra evidenziato, il rinvio di merito al giudice nazionale è sta- to motivato con la necessaria acquisizione di concreti elementi di valutazione desumibili dal contesto globale, costituito dal complesso dell’ordinamento giu- ridico e dalla prassi applicativa della normativa deontologica.
Nella sentenza in commento non si rinviene, però, un accertamento in punto di fatto e di diritto circa gli elementi valutativi espressamente richiama- ti dalla Corte di giustizia come necessari. Il Consiglio di Stato piuttosto acco- glie totalmente le affermazioni dell’AGCM, riportando in sentenza un passag- gio dell’indagine conoscitiva IC 34 svolta dalla stessa Authority a seguito dell’entrata in vigore della c.d. legge Bersani per verificarne lo stato di rece- pimento, dalla quale emergerebbe che «secondo la prospettiva ordinistica, un prezzo inferiore alla tariffa minima non risulterebbe decoroso per la profes- sione»17. In sostanza l’obbligo contenuto nei codici deontologici di rispettare il decoro della professione nella determinazione del compenso indurrebbe di fatto, e per prassi consolidata, gli iscritti a ritenere vincolanti le tariffe profes- sionali.
Unica fonte di prova alla base della decisione è, quindi, il convincimento espresso dall’Antitrust, che non ha, però, concretamente dimostrato che i re- quisiti di dignità e decoro abbiano costituito, o possono costituire presupposto causale determinativo di fattispecie restrittive della concorrenza. Il Consiglio di Stato ha ritenuto le astratte deduzioni dell’Antitrust, meramente assertive degli effetti anticoncorrenziali, prova sufficiente per arrivare alle sopra men- zionate conclusioni.
I supremi giudici amministrativi fanno propria l’affermazione secondo la quale l’obbligo di commisurare il compenso al decoro professionale si tradur- rebbe, nella prassi, in una surrettizia reintroduzione dei minimi tariffari con conseguente elusione dell’abolizione degli stessi disposta dal legislatore e produzione di effetti restrittivi della concorrenza. Tutto ciò varrebbe in con- creto anche per i geologi, che, in virtù della regola deontologica del decoro, si troverebbero obbligati a commisurare i compensi ai minimi tariffari, rischian- do, altrimenti, l’irrogazione di sanzioni disciplinari da parte dell’Ordine di ap- partenenza.
L’affermazione è, tuttavia, del tutto indimostrata, non essendovi nessuna correlazione tra le tariffe ormai abrogate e il principio del “decoro”. È vero anzi il contrario. Sia la riforma Bersani, che pure ha modificato il terzo com- ma dell’art. 2233 c.c., sia tutti gli interventi normativi successivi in materia di
17 Indagine conoscitiva riguardante il settore degli ordini professionali chiusa il 15/01/2010 (IC 34), AGCM, in xxx.xxxx.xx (par. 57).
liberalizzazione delle professioni hanno mantenuto l’integrità del secondo comma18 dell'articolo in questione.
L’autonomia deontologica degli ordini professionali dovrebbe potersi libe- ramente esplicare almeno nei casi in cui riproduce disposizioni presenti nel codice civile. Xx, invece, proprio l’argomento che avrebbe dovuto “salvare” la norma deontologica viene considerato negativamente dai supremi giudici amministrativi, i quali, ancora una volta recependo in pieno le considerazioni dell’AGCM, affermano che «l’art. 2233, comma 2, cod. civ. si indirizza al sin- golo professionista, disciplinando i suoi rapporti con il cliente nell’ambito del singolo rapporto contrattuale, senza attribuire alcun potere di vigilanza agli Ordini in merito alle scelte contrattuali dei propri iscritti». Non solo, quindi, l’articolo del codice civile non potrebbe essere legittimamente invocato come sostegno normativo della regola deontologica in esame, ma finirebbe per in- debolire ulteriormente la posizione del Consiglio nazionale dei geologi, costi- tuendo prova della mancanza di necessità della regola al fine di assicurare la qualità della prestazione e, quindi, in ultima istanza, la protezione dei consu- matori.
In assenza della norma deontologica in questione, afferma il Consiglio di Stato, la previsione di compensi professionali in ogni caso adeguati all’importanza dell’opera e al decoro della professione sarebbe assicurata, nell’ordinamento nazionale, dalla più volte citata disposizione codicistica, che di per sé già rappresenterebbe un adeguato strumento a garanzia della quali- tà della prestazione e degli interessi dei consumatori.
Non possono, quindi, le norme deontologiche, che pure sono vere e pro- prie norme giuridiche19, fare riferimento ad articoli del codice civile anche se, nel punto in cui afferma che l’art. 2233, comma 2, c.c. è già sufficiente a ga- rantire la qualità della prestazione e degli interessi dei consumatori, il Consi- glio di Stato ammette che il riferimento a tale principio nella commisurazione del compenso è necessario allo scopo individuato dalla Corte di giustizia.
Appare invero a dir poco singolare far derivare l’anticoncorrenzialità della norma contestata dall’avere ribadito un principio, che per stessa ammissione dei giudici, già esiste nell’ordinamento giuridico italiano, limitando ingiustifi- catamente l’autonomia deontologica ordinistica.
Ma vi è di più. Non si comprende a chi potrà essere rimessa la valutazione della conformità del compenso al principio del decoro. Alla luce della pronun- cia può ritenersi che la valutazione dell’elemento “decoro professionale” quale elemento obbligatoriamente compositivo del compenso sia ora rimessa esclu- sivamente al professionista. Ma chi potrà controllare? Se il consumatore può valutare la componente “importanza della prestazione”, non ha in nessun ca- so specifici elementi né attitudini valutative circa la componente “decoro”,
18 X. XXXXXXXXXXXX, La nuova disciplina dei compensi professionali per gli avvocati, cit., 450; X. XXXXXXXXX, Compenso professionale e autonomia privata il patto di quota lite: problemi civilistici, cit., 3.
19 Cass. civ., SS.UU., 6 giugno. n. 8225, in Rass. for. con nota di X. XXXXXX, Regole deontologiche e canoni complementari: un sistema efficace per la difesa della profes- sione; Cass. civ., SS.UU., 20 dicembre 2007, n. 26810, in Foro it., I, c. 3167.
scisso da qualsiasi valutazione ordinamentale-professionale. Il decoro, in con- clusione, se rimesso esclusivamente alla valutazione del professionista, cessa di avere qualsivoglia natura ed effetto di garanzia anche per il consumatore.
5. CONCLUSIONI
Si prospettano, poi, sempre più frequentemente casi in cui il professionista è parte sostanzialmente debole del contratto22. Se è vero, infatti, che il pro- fessionista agisce nel quadro della sua attività professionale per uno scopo economico, il suo cliente potrebbe non essere sempre un semplice consuma- tore. Si può, ad esempio, rivolgere ad un avvocato anche un altro professio- nista, magari titolare di un'impresa, che voglia tutelare i propri interessi eco- nomici. Tra le due parti si stipula il relativo contratto di mandato in cui l'av- vocato non è parte forte in quanto il cliente non conferisce incarico al legale per esigenze estranee alla sua professione, o meglio «scopo estraneo all'atti- vità professionale», né tantomeno per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana avulse dall'esercizio di dette attività. Tale contratto risulta fuori dalle coordinate legislative e giurisprudenziali richieste per la qualifica di con- sumatore. Si tratta, in effetti, di due professionisti, dotati di differente potere economico e negoziale, con relativa predominanza dell'uno sull'altro, ravvi- sandosi conseguentemente uno squilibrio di forze determinante una debolez- za contrattuale di uno dei due contraenti, anche se professionista23.
20 Corte cost., 6 ottobre 2014, n. 228, in Rass. for., 2014, 3-4, 814, con nota di X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXXXXXX, Professionista e imprenditore: una distinzione necessaria.
21 X. XXXXXXX, I codici deontologici come tutela essenziale del mercato, in Contr. e impr., 2015, 2, 293.
22 Cass., sez. lav., 22 settembre 2010, n. 20269.
23 C.E. XXXXX, Tutela del consumatore e foro applicabile. Il terzo contratto, in Resp. civ. prev., 2013, 1, 202.
I professionisti sono sicuramente parti sostanzialmente deboli del contrat- to in tutti quei casi in cui - ne sono esempio sempre più frequente gli avvo- cati - hanno clienti contrattualmente forti come banche ed assicurazioni e ri- cevono da questi un flusso di lavoro che non potendo essere facilmente so- stituito li spinge spesso ad accettare condizioni giugulatorie. In almeno tutti questi casi non può essere trascurato che il professionista è sempre più par- te solo formalmente forte di fronte al cliente, che invece si trova nella posi- zione di dettare le condizioni del contratto. Il principio del decoro, oltre ad essere un principio contenuto in una norma imperativa, rappresenta l’unico indispensabile limite alla libertà negoziale delle parti, in grado di salvaguar- dare l’indipendenza del professionista. Nel settore delle professioni il riferi- mento al principio del decoro nella commisurazione del compenso non è fine a se stesso, ma mira ad evitare che una concorrenza selvaggia ed indiscri- minata possa produrre danni irreparabili su beni fondamentali della persona e della società.
107. Sulla tutela di posizioni soggettive proprie o di interessi unitari della categoria da parte degli ordini professionali
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 23 febbraio 2015, n. 883 - Pres. MARUOTTI - Est. SALTELLI
Gli ordini professionali sono legittimati ad agire per la tutela di po- sizioni soggettive proprie o di interessi unitari della collettività da loro istituzionalmente tutelata, potendo in tale seconda ipotesi sia reagire alla violazione delle norme poste a tutela della professione, sia perse- guire vantaggi, anche strumentali, riferibili alla sfera della categoria nel suo insieme, con il solo limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non soggette alla disciplina o potestà de- gli ordini medesimi.
FATTO
1. Con la delibera n. 96 del 9 luglio 2012, la Giunta comunale del Comune di Torri del Benaco forniva “...i necessari indirizzi operativi al Responsabile dell’Area Edilizia Privata e del responsabile dell’istruttoria, relativi ai procedi- menti amministrativi in materia edilizia chiarendo che, tra le competenze pro- fessionali dei geometri e dei geometri laureati iscritti al Collegio professiona- le, possa rientrare la progettazione e direzione dei lavori di modeste costru- zioni almeno fino a mc. 1500 adottando quindi il criterio tecnico - qualitativo in relazione alle caratteristiche dell’opera da realizzare che deve avere carat- teristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi sia pur con la presenza del cemento armato, che non richiedano competenze tecniche, particolari e spe- cifiche, riservate per legge ad un diverso professionista, con esclusione di ogni ulteriore aggravio procedimentale a carico del richiedente”.
2. Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez. I, con la sen- tenza n. 1312 del 20 novembre 2013, nella resistenza dell’intimata ammini- strazione comunale e del Collegio dei geometri e dei geometri laureati della Provincia di Verona, ha respinto il ricorso proposto dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia per l’annullamento della predetta delibera.
In particolare, respinta preliminarmente l’eccezione di difetto di giurisdi- zione e prescindendo dalle altre eccezioni di rito sollevate dalle parti resisten- te, l’adito tribunale ha innanzitutto escluso che la delibera impugnata fosse affetta da nullità per difetto assoluto di attribuzione, in quanto con essa non erano state esercitate funzioni a carattere normativo in materia di competen- ze professionali, bensì erano state solo impartite ai competenti uffici dell’amministrazione direttive di carattere generale, prive peraltro di vincola- tività, per il corretto svolgimento delle funzioni istituzionali.
Il TAR ha quindi rilevato che, diversamente da quanto prospettato dall’Ordine ricorrente, la normativa vigente nella materia de qua non esclu- deva del tutto la competenza del geometra in ordine alla progettazione delle costruzioni civili, essendo stato abrogato il r.d. 16 novembre 1939, n. 2229,
per effetto del d. lgs. 13 dicembre 2010, n. 212, ed ha infine negato che il provvedimento impugnato fosse viziato per difetto di motivazione, emergen- do dalla sua lettura le ragioni che lo avevano giustificato.
3. L’Ordine degli ingegneri di Verona e Provincia ha ritualmente appellato la predetta sentenza alla stregua di tre motivi di gravame, con cui sono state specificamente contestate le motivazioni poste dai primi giudici a fondamento del loro convincimento, asseritamente erronee, lacunose e superficiali.
Ha resistito al gravame il Comune di Torri del Benaco, che, oltre a dedurne l’inammissibilità e l’infondatezza e a chiederne il rigetto, ha proposto un ap- pello incidentale con cui ha riproposto le eccezioni di inammissibilità del ricor- so di primo grado per carenza di interesse e difetto di legittimazione, dal cui esame i primi giudici avevano ritenuto di poter prescindere.
Anche il Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provincia di Ve- rona, oltre ad insistere per il rigetto del gravame per infondatezza, ha propo- sto un appello incidentale condizionato, sostenendo l’inammissibilità del ricor- so di primo grado per difetto di interesse e difetto di legittimazione ad agire dell’Ordine degli ingegneri di Verona e Provincia.
Con atto ritualmente notificato, è intervenuto in giudizio - ad adiuvandum dell’appello principale proposto dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provin- cia - il Consiglio nazionale degli ingegneri.
Con controricorso, anch’esso notificato, il Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati ha proposto contestualmente intervento ad opponen- dum nei confronti dei motivi dell’appello principale dell’Ordine degli ingegneri di Verona e Provincia e dell’atto di intervento del Consiglio nazionale degli in- gegneri e a posizione dell’appello principale e ad adiuvandum nei confronti delle difese e dei motivi degli appelli incidentali condizionati proposti dal Co- mune di Torre del Benaco e del Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provincia di Verona.
4. All’udienza in camera di consiglio dell’8 luglio 2014, fissata per la deci- sione sull’istanza cautelare di sospensione della sentenza impugnata, sull’accordo delle parti la causa è stata rinviata all’udienza pubblica del 26 ot- tobre 2014 per la decisione nel merito.
Nell’imminenza dell’udienza di trattazione, le parti hanno ampiamente illu- strato le proprie rispettive tesi difensive, replicando anche a quelle avverse.
All’udienza pubblica del 26 ottobre 2014, dopo la rituale discussione, la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
5. Ai fini della soluzione delle questioni prospettate con i motivi degli ap- pelli, principale ed incidentali, la Sezione osserva preliminarmente quanto se- gue.
5.1. Secondo l’art. 117, comma 3, della Costituzione, la materia delle pro- fessioni rientra nell’ambito della legislazione concorrente tra Stato e Regioni.
Al riguardo, tuttavia, la Corte Costituzionale ha più volte precisato che la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio invalicabile di ordine generale, secondo cui l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili ed ordinamenti,
è riservata allo Stato, potendo la potestà legislativa regionale disciplinare quei soli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà re- gionale (Corte Cost, 12 dicembre 2003, n. 353; 26 luglio 2005, n. 319; 25
novembre 2005, n. 424; 8 febbraio 2006, n. 40; 23 maggio 2013, n. 98; 18
giugno 2014, n. 178).
Nessun potere normativo in materia, neppure a livello regolamentare, è rinvenibile in capo ai comuni, in quanto la competenza attribuita dall’articolo 42 del d.lg. 18 agosto 2000, n. 267, ai consigli comunali si deve intendere circoscritta agli atti fondamentali dell’ente ivi espressamente indicati (laddove la giunta comunale ha una competenza residuale, potendo compiere tutti gli atti che dalla legge non sono riservati al consiglio comunale ovvero che non ricadono, secondo le previsioni legislative o dello statuto, nelle competenze del sindaco): ex multis, tra le più recenti, Cons. St., sez. V, 13 dicembre 2005, n. 7058; sez. V, 23 giugno 2014, n. 3137; 20 dicembre 2013, n. 6115;
20 agosto 2013, n. 4192; 15 luglio 2013, n. 3809; 2 febbraio 2012, n. 539).
5.2. In ordine alla delimitazione delle competenze tra l’attività dei geome- tri e quella degli ingegneri, possono riportarsi le puntuali e condivisibili cui è giunta la giurisprudenza, come si evincono dalla sentenza di questa stessa Sezione n. 2537 del 28 aprile 2011, nella quale si precisa quanto segue: “A norma dell’art. 16, lett. m), r.d. 11 febbraio 1929, n. 274, e come si desume anche dalle ll. 5 novembre 1971, n. 1086, e 2 febbraio 1974, n. 64, che han- no rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le co- struzioni in zone sismiche, nonché dalla l. 2 marzo 1949, n. 144 (recante la tariffa professionale), esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l’importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali.
Solo le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie rientrano nella competenza dei geometri, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
In buona sostanza, la competenza dei geometri è limitata alla progettazio- ne, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l’adozione - anche parziale - di strutture in cemento armato; solo in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274 cit., purché si tratti di piccole co- struzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agri- xxxx, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro de- stinazione non comportino pericolo per le persone.
Per il resto, la suddetta competenza è comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progetta- zione e direzione, qualunque ne sia l’importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali; sotto tale angola- zione deve escludersi che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l’inclusione tra le materie di studio di alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi.
I limiti posti dall’art. 16, lett. m) cit. alla competenza professionale dei geometri:
a) rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evidenti ragioni di pubblico interesse, che lascia all’interprete ristretti margini di di- screzionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della co- struzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dell’assenza di implicazioni per la pubblica incolumità;
b) indicano, di contro, un preciso requisito, ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di impiego di cemento armato.
È pertanto esclusa la possibilità di un’interpretazione estensiva o “evoluti- va” di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme - art. 2, l. 5 novembre 1971, n. 1086, e art. 17,
l. 2 febbraio 1974, n. 64 - che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle compe- tenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professio- nale.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta - e quindi se la sua progettazione rientri nella competenza professionale dei geometri - consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di es- so), assume significativa rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona si- smica, con conseguente assoggettamento di ogni intervento edilizio alla nor- mativa di cui alla l. n. 64 cit., la quale impone calcoli complessi che esulano dalle competenze professionali dei geometri.
È stata inoltre esclusa l’illegittimità e quindi la disapplicabilità delle dispo- sizioni dettate dall’art. 16 r.d. 274/29, avente natura regolamentare, il quale non contrasta con norme costituzionali o ordinarie, essendo aderente ai crite- ri della disposizione legislativa cui ha dato attuazione (l’art. 7 l. 24 giugno 1923, n. 1395) e comportando una razionale delimitazione delle attività pro- fessionali consentite ai geometri, in rapporto alla loro preparazione.
In ordine alle prestazioni ulteriori (comprese in astratto nella competenza dei geometri, affidate loro insieme con quella della progettazione di costru- zioni civili in cemento armato), si estende - o meno - la nullità del contratto, secondo che siano strumentalmente connesse con l’edificazione e implichino la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, come la redazione di un piano di lottizzazione, oppure siano autonome e distinte dalla realizzazione delle strutture in cemento armato, come l’individuazione dei confini di pro- prietà, la costituzione di servitù, lo svolgimento di pratiche amministrative”.
Anche secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione l’art. 16 del r.d. 11 febbraio 1929, n. 274, ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con de- stinazione agricola, che non comportino pericolo per l’incolumità delle perso- ne, mentre per le costruzioni civili, che adottino strutture in cemento armato,
sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi del r.d. 16 novembre 1939, n. 2229, agli ingegneri e agli architetti iscritti all’albo, senza che nulla sia stato modificato dalle leggi 5 novembre 1971, n. 1086, e 2 febbraio 1974,
n. 64 (Cass. civ., sez. II, 2 settembre 2011, n. 18038), con conseguente nul- lità del contratto d’opera professionale intercorso con un geometra, che abbia avuto ad oggetto una costruzione per civile abitazione, il cui progetto abbia richiesto l’adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato (Cass. civ., sez. II, 25 maggio 2007, n. 12193; 26 luglio 2006, n. 17028; 25 maggio 2007).
5.3. In ordine alla legittimazione ad agire degli ordini professionali, la giu- risprudenza ha più volte affermato che essi sono legittimati ad agire per la tutela di posizioni soggettive proprie o di interessi unitari della collettività da loro istituzionalmente espressa, nel secondo caso potendo sia reagire alla vio- lazione delle norme poste a tutela della professione, sia perseguire vantaggi, anche strumentali, riferibili alla sfera della categoria nel suo insieme (Cons. St., sez. V, 12 agosto 2011, n. 4776; Cons. Stato, sez. V, 18 dicembre 2009, n. 8404, e 7 marzo 2001, n. 1339; Sez. VI, 22 settembre 2004 n. 6185), con il solo limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni relative ad attività non soggette alla disciplina o potestà degli ordini medesimi, aggiungendo che sussiste, in particolare, in capo all’ordine professionale di appartenenza l’interesse all’impugnazione di un diniego al rilascio di un permesso di costrui- re, motivato in base alla presunta incompetenza del progettista, dal momento che è apprezzabile la perdurante lesività dell’atto stesso per il credito, il pre- stigio e l’estimazione sociale della parte ricorrente (Cons. St., sez. V, 30 set- tembre 2013, n. 4854),
6. Sulla base dei delineati indirizzi giurisprudenziali, dai quali non vi è ra- gione di discostarsi, i motivi dell’appello principale sono fondati.
6.1. Sussiste innanzitutto il dedotto vizio di incompetenza da cui è affetta la delibera impugnata, giacché, come rilevato nel paragrafo 5.1. gli enti locali non hanno alcun potere normativo, neppure a livello regolamentare, nella materia disciplinare.
Al riguardo deve rilevarsi che, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici ed è stato sostenuto dalle difese del Comune di Torri del Benaco e del Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provincia di Verone, oltre che dal Consiglio nazionale dei geometri e dei geometri laureati, la delibera impugnata non impartisce affatto ai competenti uffici comunali alcune ‘mere direttive interne di natura organizzativa’, volte ad agevolare e semplificare, nel rispetto delle vigenti disposizioni normative di rango legislativo, l’istruttoria delle richieste di titoli edilizi ed il loro sollecito rilascio, incidendo invece, limitatamente al campo dell’attività edilizia, proprio sulla disciplina delle professioni di geometra ed ingegnere.
In tal senso è significativo non solo che, come si legge dalla motivazione della predetta delibera, la sua emanazione trova origine nell’annosa contrap- posizione tra i rispettivi ordini professionali interessati in ordine alla corretta individuazione della rispettiva competenza sui progetti di opere edili, per quanto l’amministrazione sul dichiarato (ma errato, sulla scorta di quanto os- servato al punto 5.2.) presupposto che “...nel quadro normativo vigente nes-
sun provvedimento normativo espresso riserva in favore degli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali la progettazione di costruzioni civili con strutture di cemento armato” e sull’altrettanto errato presupposto (su cui infra par. 6.2.) dell’abrogazione del r.d. 16 novembre 1939, n. 2229, da parte del d. lgs. 13 dicembre 2010, n. 212, finisce col disciplinare auto- nomamente (nell’apparente forma di direttiva agli uffici) i limiti della compe- tenza dei geometri in materia edilizia, facendovi rientrare “la progettazione e direzione di modeste costruzioni almeno fino a mc. 1.500, adottando quindi il criterio tecnico - qualitativo in relazione alle caratteristiche dell’opera da rea- lizzare che deve avere caratteristiche strutturali semplici con moduli ripetitivi, sia pur con la presenza del cemento armato, che non richiedano competenze tecniche, particolari e specifiche, riservate per legge ad un diverso professio- nista”, così sostituendosi inammissibilmente al legislatore statale nell’eser- cizio di un potere di cui essa non è titolare, neppure nell’ipotesi in cui fosse effettivamente esistito un vuoto normativo (evenienza che non ricorre).
Tali osservazioni rendono prive di rilevanza le deduzioni delle parti appel- late sul preteso carattere non vincolante delle predette direttive, dovendosi precisare, per un verso, che a condividere il loro asserito carattere non vinco- lante per gli uffici comunali non sarebbe neppure comprensibile la necessità e l’opportunità della loro emanazione (venendo meno la stessa finalità di sem- plificazione e chiarimento cui sarebbero state ispirate), e per altro verso che la violazione di una direttiva da parte degli uffici è quanto meno possibile fon- te di una responsabilità disciplinare per i funzionari cui le stesse sono imparti- te e contemporaneamente può rendere invalido l’atto adottato sotto il profilo dell’eccesso di potere.
6.2. Sussiste poi anche la dedotta violazione dell’articolo 16 del r.d. n. 274 del 1929, che individua l’oggetto ed i limiti dell’esercizio della professione di geometra, potendo al riguardo rinviarsi alle osservazioni già svolte al par.
5.2. e dovendo ancora aggiungersi ancora che “i limiti posti dall’art. 16, lett. m), del r.d. 11 febbraio 1929, n. 274, alla competenza professionale dei geometri rispondono ad una scelta inequivoca del legislatore, dettata da evi- denti ragioni di pubblico interesse, che lascia all’interprete ristretti margini di discrezionalità, attinenti alla valutazione dei requisiti della modestia della co- struzione, della non necessità di complesse operazioni di calcolo e dall’assenza di implicazioni per la pubblica incolumità, indicando invece un preciso requisito ovverosia la natura di annesso agricolo dei manufatti, per le opere eccezionalmente progettabili dai predetti tecnici anche nei casi di im- piego di cemento armato. È pertanto esclusa la possibilità di un’interpretazione estensiva o “evolutiva” di tale disposizione, che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendo per- venire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme - art. 2 l. 5 novembre 1971, n. 1086, e art. 17 l. 2 febbraio 1974, n. 64 - che disciplina- no le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geome- tri della vigente normativa professionale” (Cass. civ., sez. II, 7 settembre 2009, n. 19292).
Ciò rende irrilevante, diversamente da quanto ritenuto dai primi giudici, la disposta abrogazione del r.d. n. 2229 del 1929, dal momento che essa è sta- ta disposta dal D. Lgs. 13 dicembre 2010, n. 212, in attuazione del meccani- smo legislativo introdotto dalla legge n. 246 del 2005 volto alla riduzione del numero delle legge presenti nell’ordinamento (c.d. taglia leggi), senza che perciò da detta abrogazione possa ricavarsi una sia pur implicita intenzione del legislatore di equiparare, quanto all’attività edilizia, le competenze dei geometri e quelli degli ingegneri.
6.3. La fondatezza degli esaminati motivi di gravame, cui consegue la ille- gittimità della delibera impugnata, consente di prescindere dall’esame del terzo motivo di gravame, con cui l’appellante ha dedotto l’erroneità della sen- tenza impugnata anche nella parte in cui era stato rigettato il terzo motivo di censura imperniato sul difetto di motivazione del provvedimento impugnato, potendo peraltro convenirsi con l’appellante sulla circostanza che i primi giu- dici non hanno adeguatamente apprezzato la censura, limitandosi ad un mero riscontro esterno e formale dell’obbligo di motivazione.
7. La fondatezza dell’appello principale impone l’esame degli appelli inci- dentali proposti dal Comune di Torre del Benaco e dal Collegio dei geometri e dei geometri laureati della province di Verona, imperniati su due identici due motivi concernenti la dedotta inammissibilità del ricorso introduttivo del giu- dizio di primo grado per difetto di legittimazione ad agire e difetto di interes- se dell’Ordine degli ingegneri della provincia di Verona.
Tali motivi sono infondati.
7.1. Diversamente da quanto ritenuto dagli appellanti, infatti, ed in ragio- ne dell’effettivo contenuto della delibera impugnata, così come indicato nel paragrafo 6.2., non può dubitarsi della sussistenza della legittimazione ad agire dell’Ordine degli ingegneri della provincia di Verona, che con la richiesta di annullamento della ricordata delibera n. 96 del 9 luglio 2012 della Giunta comunale del Comune di Torri del Xxxxxx ha inteso tutelare gli interessi uni- tari della collettività dei professionisti ad esso appartenenti, incisi o quanto meno esposti a pericolo per effetto di una erronea interpretazione delle nor- mativa vigente ovvero dall’inammissibile interpretazione da parte dell’ente lo- cale di una autonoma disciplina diversa da quella stabilita dalla legge stessa.
7.2. D’altra parte la delibera impugnata, in quanto immediatamente ope- rativa per gli uffici dell’amministrazione comunale, era anche dotata del ca- rattere dell’immediata lesività, il che rendeva concreto ed attuale l’interesse alla sua immediata impugnazione, non essendo necessario attendere la sua concreta applicazione per la sua impugnabilità.
8. In conclusione, deve essere accolto l’appello principale proposto dall’Ordine degli ingegneri di Verona, mentre devono essere respinti gli ap- pelli incidentali condizionati formulati dal Comune di Torri del Benaco e dal Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provincia di Verona, col conseguente accoglimento del ricorso di primo grado.
Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza e sono li- quidate come in dispositivo quanto ai rapporti tra l’appellante principale e quelli incidentali, potendo invece disporsi la compensazione per quelle con- cernenti le parti intervenute.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamen- te pronunciando sull’appello principale (NRG. 4691/2014) proposto dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia e sugli appelli incidentali spiegati dal Comune di Torre del Benaco e dal Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provinciali di Verona avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sez. I, n. 1312, 20 novembre 2013, così provvede:
a) accoglie l’appello principale e respinge gli appelli condizionati;
b) per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso proposto in primo grado dall’Ordine degli ingegneri di Verona e provincia ed annulla la delibera della Giunta comunale n. 96 del 9 luglio 2012 del Comune di Torri del Benaco;
c) condanna il Comune di Torri del Benaco ed il Collegio dei geometri e dei geometri laureati della provincia di Verona, in solido, al pagamento in favore dell’Ordine degli ingegneri della provincia di Verona delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate complessivamente in €. 16.000,00 (sedicimila), ol- tre IVA, CPA ed altri accessori di legge, nonché alla restituzione del contribu- to unificato per i due gradi di giudizi, se versato;
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 ottobre 2014. Depositata in segreteria il 23 febbraio 2015.
108. Sull’annullamento in xxx xxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxx x. 0000/0000 xxx X.X.X. Xxxxx nella parte in cui prevede che non siano dovute le spese di avvio della procedura di me- diazione
Consiglio di Stato, sez. IV, ordinanza 22 aprile 2015, n. 1694 - Pres. NUMERICO - Est. GRECO
Il Consiglio di Stato con ordinanza n. 1694 del 22 aprile 2015, nel sospendere parzialmente l’esecutività della sentenza del T.A.R. Lazio
n. 1351/2015, ha affermato che sono dovute, per il primo incontro di mediazione, le spese di avvio e le spese vive documentate.
Omissis
Per la riforma della sentenza del T.A.R. del Lazio nr. 1351/2015, notificata in data 5 marzo 2015.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l’art. 98 cod. proc. amm.;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC) e gli atti di intervento dei soggetti in epigrafe indicati;
Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa;
Vista la domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza del Tribunale amministrativo regionale di parziale accoglimento del ricorso di primo grado, presentata in via incidentale dalla parte appellante;
Relatore, alla camera di consiglio del giorno 21 aprile 2015, il Consigliere Xxxxxxxx Xxxxx;
Uditi gli avv.ti per la appellata, gli avv. ti per gli intervenienti ad adiuvan- dum e l’avv. per le Amministrazioni appellanti;
Ritenuto, quanto al profilo della legittimazione processuale della ricorrente in primo grado, che l’indicazione di quest’ultima nell’epigrafe della sentenza impugnata è frutto di evidente fraintendimento, essendo fuori discussione il carattere nazionale (e non meramente locale), e conseguentemente la rap- presentatività, dell’associazione che ha proposto il ricorso introduttivo del giudizio;
Ritenuto, nei limiti della sommaria delibazione propria della fase cautelare, che l’appello risulta assistito da sufficiente fumus nella parte in cui censura l’integrale annullamento dei commi 2 e 9 dell’art. 16 del d.m. 18 ottobre
2010, nr. 180, atteso che:
- l’uso del termine “compenso” nel comma 5-ter dell’art. 17 del d.lgs. 4 marzo 2010, nr. 28 (introdotto dalla “novella” del 2013), è manifestamente generico e improprio, non trovando detta terminologia riscontro in alcuna al- tra parte della normativa primaria e secondaria de qua, nella quale si parla
invece di “indennità di mediazione”, che a sua volta si compone di “spese di avvio” e “spese di mediazione” (art. 16, d.lgs. nr. 28/2010);
- ciò premesso, nulla quaestio essendovi per le spese di mediazione, nelle quali è ricompreso “anche l’onorario del mediatore per l’intero procedimento di mediazione” (art. 16, comma 10), il problema si pone per le spese di av- vio, le quali in virtù del decisum qui contestato sarebbero anch’esse del tutto non dovute per il primo incontro di cui all’art. 8, comma 1, del medesimo d.lgs. nr. 28/2010;
- quanto alle spese di avvio - le quali a tenore del censurato comma 2 dell’art. 16 comprendono, a loro volta, da un lato le “spese vive documenta- te” e dall’altro le spese generali sostenute dall’organismo di mediazione - queste ad avviso della Sezione effettivamente non appaiono prima facie ri- conducibili alla nozione di “compenso” di cui alla disposizione di fonte prima- ria dianzi citata;
- quanto sopra, in particolare, è di palmare evidenza quanto alle spese vi- ve documentate, ma vale anche per le residue spese di avvio, che sono quan- tificate in misura forfettaria e configurate quale onere connesso all’accesso a un servizio obbligatorio ex lege per tutti i consociati che intendano accedere alla giustizia in determinate materie, come confermato dal riconoscimento in capo alle parti, ex art. 20 del d.lgs. nr. 28/2010, di un credito di imposta commisurato all’entità della somma versata e dovuto - ancorché in misura ri- dotta - anche in caso di esito negativo del procedimento di mediazione (e, quindi, anche in ipotesi di esito negativo del primo incontro per il quale le spese di avvio sono dovute);
Ritenuto, pertanto, che l’istanza cautelare è meritevole di accoglimento limitatamente all’esclusione del rimborso delle spese di avvio, le quali per le ragioni dette non sono riconducibili al concetto di “compenso” ex art. 17, comma 5-ter, d.lgs. nr. 28/2010, potendo invece essere devoluta alla sede del merito la trattazione di tutti i residui profili oggetto di causa (ivi comprese le questioni di legittimità costituzionale riproposte dall’originaria ricorrente con l’appello incidentale);
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) accoglie in parte l’istanza cautelare (Ricorso numero: 2156/2015) e la respinge per il re- sto, e, per l’effetto, sospende l’esecutività della sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione.
Tenuto conto della complessità e della novità delle questioni esaminate, compensa tra le parti le spese della presente fase del giudizio d’appello.
La presente ordinanza sarà eseguita dall’Amministrazione ed è depositata presso la segreteria della Sezione che provvederà a darne comunicazione alle parti.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 aprile 2015. Depositata in Segreteria il 22 aprile 2015.
109. Sull’illegittimità dell’art. 4, comma 3, lett. b) del D.M. n. 180/2010 in materia di mediazione e conciliazione in am- bito civile e commerciale
T.A.R. Lazio, sez. I, sentenza 23 gennaio 2015, n. 1351 - Pres. XXXXX
- Est. XXXXXXXXXXX
Sono illegittime le disposizioni di cui all’art. 16, commi 2 e 9, del
d.m. 180/2010 per sopravvenuto contrasto con l’art. 17, comma 5- ter, del d.lgs. 28/2010 laddove prescrivono il versamento di spese di avvio del procedimento a fronte della gratuità del primo incontro pre- scritto dalla fonte legislativa.
È illegittimo l’art. 4, comma 3, lett. b) del d.m. 180/2010 ove in- terpretato nel senso di estendere anche agli avvocati - mediatori di diritto ai sensi dell’art. 16, comma 4-bis, del d.lgs. 28/2010 - gli ob- blighi di formazione e aggiornamento previsti in generale per i media- tori non avvocati, atteso che per i primi “la formazione in materia di mediazione viene regolata con precipue disposizioni”.
Sono manifestamente inammissibili o manifestamente infondate le ulteriori questioni sollevate.
FATTO
1. La direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale. L’art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69, ha de- legato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di media- zione e di conciliazione in ambito civile e commerciale, prescrivendo, tra altro, al legislatore delegato di disciplinare la mediazione nel rispetto ed in coerenza con la normativa comunitaria (comma 2; comma 3, lett. c). La delega è stata esercitata con il d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28. Con l’atto introduttivo della con- troversia all’odierna trattazione la ricorrente Unione Nazionale delle Camere Ci- vili (UNCC) di Parma, associazione non riconosciuta, costituita tra associazioni di avvocati civilisti, ha interposto azione impugnatoria avverso alcune disposi- zioni del decreto18 ottobre 2010, n. 180, adottato dal Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, che, in forza della previ- sione di cui all’art. 16 del citato d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, ha regolamentato la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti ai suddetti organismi. Parte ri- corrente deduce avverso l’atto gravato tre censure. Con la prima doglianza (il- legittimità derivata dalla illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 17 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente so- stiene che il legislatore delegato è incorso in eccesso di delega laddove ha in- trodotto l’obbligatorietà della mediazione e l’improcedibilità del giudizio interpo-
sto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega. Con la seconda doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che, poiché nella logica del decreto delegato, le scelte che la parte è chiamata ad effettuare nel procedimento di mediazione sono suscettibili di condizionare l’esito del successivo processo, per un verso la mancata previsione nel procedimento stesso della obbligatorietà dell’assistenza del difensore viola l’art. 24 della Costituzione (nonché favorisce le classi più abbienti, facoltizzate ad avvalersene), per altro verso l’introduzione della possibilità di acquisire elementi di prova in assenza di difesa tecnica, non prevista dalla legge delega, concreta eccesso di delega ex art. 76 Cost. Con il terzo motivo di gravame [violazione dell’art. 60, comma III, lett. b) della l. n. 69 del 2009 e dell’art. 16 del d. lgs. 20/2010 - eccesso di potere per irragione- volezza - illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 76 e 77 della Costituzione] la ricorrente la- menta che, laddove la legge delega pone il requisito dell’indipendenza sia in capo agli organismi di mediazione sia in capo ai singoli mediatori, l’art. 4 del decreto impugnato assicura tale indipendenza in misura molto minore, riferen- dola esclusivamente “allo svolgimento del servizio di mediazione”. Esaurita l’illustrazione delle illegittimità rilevate a carico dell’atto gravato, la ricorrente ha domandato l’annullamento del provvedimento impugnato e la dichiarazione di non manifesta infondatezza delle spiegate questioni di legittimità. 2. Si sono costituiti in resistenza il Ministero della giustizia e il Ministero dello sviluppo economico, che hanno eccepito il difetto di legittimazione attiva della ricorren- te, per carenza in capo alla stessa della rappresentanza istituzionale degli inte- ressi della categoria degli avvocati, spettante solo al Consiglio Nazionale Foren- se e agli ordini esponenziali. Le resistenti amministrazioni hanno poi confutato analiticamente le argomentazioni difensive di parte ricorrente, domandando il rigetto del gravame. 3. Con ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202, questa Sezione, ritenendo alcune questioni di legittimità costituzionale proposte dalla ricorrente rilevanti ai fini del decidere e non manifestamente infondate, ha sospeso il pro- cesso e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per l’esame della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, in parte, del d.lgs.
n. 28 del 2010, disponenti, rispettivamente, l’obbligatorietà del previo esperi- mento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determi- nate materie e i soli requisiti di serietà ed efficienza degli enti pubblici e privati abilitati a costituire gli organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione. 4. Con ordinanze 10 giugno 2011, n. 2167 e 20 dicembre 2011, n. 4911 non è stata accolta la domanda di sospen- sione interinale degli effetti dell’atto gravato, incidentalmente formulata dalla parte ricorrente. 5. La Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, nel pronunziare in ordine alla citata ordinanza della Sezione n. 3202 del 2011, nonché in relazione a successive ordinanze di rimessione di altre autorità giudiziarie, sempre vertenti sulla materia della mediazione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in rela- zione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente
strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., e di una serie di disposizioni dello stesso decreto a esso stretta- mente correlate. Parte ricorrente ha presentato indi istanza ex art. 80 c.p.a. per la prosecuzione del giudizio sospeso. 6. Pendente il giudizio dinnanzi al Giudice delle leggi, il legislatore, con l’art. 12, comma 1, lett. a), del d.l. 22 di- cembre 2011, n. 212, aveva modificato in alcune parti la formulazione dell’art.
5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale modifica non veniva però confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10. Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della media- zione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84, comma 1, lett. b), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e altre modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposi- zioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della concilia- zione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune ma- terie. 7. Parte ricorrente ha interposto atto di motivi aggiunti. In particolare, parte ricorrente formula anche avverso il novellato d.lgs. 28/2010, nonché av- verso l’art. 84, comma 1, d.l. 69/2013 e l’art. 1, comma 1, della legge di con- versione 98/2013, censure di illegittimità costituzionale in riferimento all’art. 77 Cost., sostenendo l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, ca- renza che ritiene testimoniata dalla previsione che la nuova disposizione si ap- plichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “decreto del fare”). Parte ricorrente ritiene inoltre costitu- zionalmente illegittima anche la nuova previsione di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. 28/2010, laddove prevede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comporta- mento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di pro- cedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”. Parte ricorrente ri- tiene tale previsione, soprattutto in relazione alla facoltà concessa anche al giudice di appello, di carattere discrezionale, di disporre l’esperimento del pro- cedimento di mediazione, illogica nonché violativa della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost. Parte ricorrente denunzia poi l’incostituzionalità dell’art. 13 del d.lgs. 28/2010 (“Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stes- sa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”), ritenuta una forzatura e un indebito ostacolo all’accesso alla giustizia, in violazione dell’art. 24 Cost., nonché incompatibile con un sistema che non garantisce l’adeguata configurazione della professionalità del mediatore. Parte ricorrente, infine, in relazione alle nuove previsioni normative, deduce ulteriori
profili di illegittimità a carico del d.m. 180/2010. In particolare, parte ricorrente sottolinea che le disposizioni di cui all’art. 16, commi 2 e 9, e all’art. 4, comma 3, lett. b), del decreto impugnato siano del tutto in contrasto, rispettivamente, con i novellati artt. 17, comma 5-ter e 16, comma 4-bis del d.lgs. 28/2010. Parte ricorrente ha conclusivamente ribadito le domande demolitorie già intro- dotte avverso il decreto n. 180 del 2010 e ha domandato la dichiarazione della non manifesta infondatezza delle proposte questioni di legittimità costituziona- le. 8. Parte ricorrente ha affidato a memorie lo sviluppo delle proprie tesi difen- sive. Le amministrazioni resistenti hanno depositato ulteriori memorie, soste- nendo l’infondatezza delle nuove questioni di costituzionalità dedotte dalla ri- corrente. 9. Il ricorso è stato indi trattenuto in decisione alla pubblica udienza dell’8 ottobre 2014.
DIRITTO
1. Il Collegio non può esimersi dall’illustrazione del quadro normativo della controversia, per quanto di interesse.
2. In forza dell’invito formulato agli Stati membri dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16 ottobre 1999, delle conclusioni adottate dal Consiglio nel maggio 2000 sui metodi alternativi di risoluzione delle con- troversie in materia civile e commerciale, nonché del Libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile del 2002, relativo ai modi alternativi di risolu- zione delle controversie nelle predette materie, la direttiva 21 maggio 2008,
n. 2008/52/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea ha disciplinato alcuni aspetti della mediazione in materia civile e commerciale. Come sempre in tema di diritto comunitario, i “considerando” della direttiva delineano la generale impostazione conferita all’oggetto della regolazione, sia quanto alle finalità, sia quanto alle caratteristiche. La direttiva chiarisce in- nanzitutto che l’obiettivo di garantire un miglior accesso alla giustizia sia giu- diziale che extragiudiziale, e, segnatamente, la disponibilità del servizio di mediazione, nel contesto della politica dell’Unione europea volta a istituire uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, è un importante contributo al cor- retto funzionamento del mercato interno (quinto considerando). Alla luce del sesto considerando della direttiva, la mediazione è, infatti, ritenuta una riso- luzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civi- le e commerciale, poiché le relative procedure sono concepite in base alle esigenze delle parti, e gli accordi risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati volontariamente, oltre a preservare più facil- mente una relazione amichevole e sostenibile tra le parti, benefici che diven- tano anche più evidenti nelle questioni di portata transfrontaliera. La direttiva intende indi delinearne gli elementi chiave, per rendere certo il relativo con- testo giuridico (settimo considerando). Sotto il profilo sostanziale, in positivo, si afferma che la direttiva dovrebbe applicarsi alle controversie transfrontalie- re, ma che nulla dovrebbe vietare agli Stati membri di estenderla ai “proce- dimenti di mediazione interni” (ottavo considerando). In negativo, si afferma che la mediazione non dovrebbe applicarsi: “ai diritti e agli obblighi su cui le parti non hanno la facoltà di decidere da sole in base alla pertinente legge applicabile. Tali diritti ed obblighi sono particolarmente frequenti in materia di
diritti di famiglia e del lavoro” (decimo considerando); “alle trattative precon- trattuali o ai procedimenti di natura arbitrale quali talune forme di concilia- zione dinanzi ad un organo giurisdizionale, i reclami dei consumatori, l’arbitrato e la valutazione di periti o i procedimenti gestiti da persone od or- ganismi che emettono una raccomandazione formale, sia essa legalmente vincolante o meno, per la risoluzione della controversia” (undicesimo conside- rando). Quanto agli elementi chiave della mediazione, vengono in evidenza, sempre tra i considerando, la differenza tra mediatore e giudice (dodicesimo considerando), la possibilità di rendere il ricorso alla mediazione obbligatorio ovvero soggetto a incentivi o sanzioni, purché non venga impedito alle parti “di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario” (quattordicesimo considerando) ovvero non si impedisca alle parti, nell’incoraggiare la media- zione, in relazione ai termini di prescrizione e di decadenza, “di adire un or- gano giurisdizionale o di ricorrere all’arbitrato in caso di infruttuoso tentativo di mediazione” (ventiquattresimo considerando), la fissazione di un termine al processo di mediazione (tredicesimo considerando), la riservatezza del re- lativo procedimento, anche in relazione all’eventuale successivo procedimen- to giudiziario od arbitrale (ventitreesimo considerando), l’esecutività dell’accordo scritto raggiunto, fatta salva l’ipotesi di contrasto tra lo stesso e il diritto nazionale ovvero quella che l’obbligo contemplato nell’accordo non possa essere per sua natura reso esecutivo (diciannovesimo considerando); ai fini erariali, la tendenziale neutralità finanziaria in relazione agli stati mem- bri della mediazione, che può includere “il ricorso a soluzioni basate sul mer- cato”(diciassettesimo considerando). Viene inoltre in rilievo l’assistenza del mediatore (decimo considerando), la sua formazione e l’introduzione di effi- caci meccanismi di controllo della qualità della fornitura del servizio (sedice- simo considerando), la flessibilità del procedimento di mediazione e l’autonomia delle parti, nonché l’efficacia l’imparzialità e la competenza della mediazione (diciassettesimo considerando). La direttiva 2008/52/CE regola indi la materia con 14 articoli. In particolare: - l’art. 1 enuncia l’obiettivo della regolazione (“…facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controver- sie e di promuovere la composizione amichevole delle medesime incorag- giando il ricorso alla mediazione e garantendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario”) e ne delinea il campo di applicazione [“…controversie transfrontaliere, in materia civile e commerciale tranne per i diritti e gli obblighi non riconosciuti alle parti dalla pertinente legge applicabi- le. Essa non si estende, in particolare, alla materia fiscale, doganale e ammi- nistrativa né alla responsabilità dello Stato per atti o omissioni nell’esercizio di pubblici poteri (acta iure imperii)]; - l’art. 3, dedicato alle definizioni, di- spone che per mediazione, al di là della denominazione, si intende un proce- dimento strutturato ove “…due o più parti di una controversia tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore. Tale procedimento può essere avviato dalle parti, suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o pre- scritto di diritto da uno Stato membro”; - lo stesso art. 3 esplicita che per mediatore si intende “…qualunque terzo cui è chiesto di condurre la media- zione in modo efficace, imparziale e competente, indipendentemente dalla
denominazione o dalla professione di questo terzo nello Stato membro inte- ressato…” (lett. b), che comunque incoraggia “…la formazione iniziale e suc- cessiva dei mediatori allo scopo di garantire che la mediazione sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in relazione alle parti” (par. 2); - l’art. 5, dedicato al ricorso alla mediazione, esplicitando l’intendimento già anticipato dal preambolo, prevede che “L’organo giurisdizionale investito di una causa può, se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di dirimere la controversia…” e che “La presente direttiva lascia impregiudicata la legisla- zione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure sog- getto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giu- diziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”; - l’art. 6 delinea la esecutività degli accordi risultanti dalla mediazione, che è, peraltro, esclusa laddove “…il contenuto dell’accordo è contrario alla legge dello Stato membro in cui viene presentata la richiesta o se la legge di detto Stato membro non ne prevede l’esecutività”; - l’art. 8 dispone che “Gli Stati membri provvedono affinché alle parti che scelgono la mediazione nel tentativo di dirimere una controversia non sia successivamente impedito di avviare un procedimento giudiziario o di arbitrato in relazione a tale controversia per il fatto che durante il procedi- mento di mediazione siano scaduti i termini di prescrizione o decadenza”; Con la legge 18 giugno 2009, n. 69, titolata “Disposizioni per lo sviluppo eco- nomico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo ci- vile”, e, segnatamente, con l’art. 60, il legislatore nazionale ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di mediazione e di conciliazione in ambito civile e commerciale (comma 1), nel rispetto e in coe- renza con la normativa comunitaria e in conformità ai principi e criteri diretti- vi enunciati al comma 3 (comma 2). Tra questi ultimi, sono attinenti alla ma- teria dell’odierno contendere i principi e criteri direttivi dettati dalle lettere: “a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per og- getto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giusti- zia; b) prevedere che la mediazione sia svolta da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del servizio di conciliazione;
c) disciplinare la mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria, anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gen- naio 2003, n. 5, e in ogni caso attraverso l’istituzione, presso il Ministero del- la giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un Regi- stro degli organismi di conciliazione…; d) prevedere che i requisiti per l’iscrizione nel Registro e per la sua conservazione siano stabiliti con decreto del Ministro della giustizia; e) prevedere la possibilità, per i consigli degli or- dini degli avvocati, di istituire, presso i tribunali, organismi di conciliazione che, per il loro funzionamento, si avvalgono del personale degli stessi consi- gli; f) prevedere che gli organismi di conciliazione istituiti presso i tribunali siano iscritti di diritto nel Registro; g) prevedere, per le controversie in parti- colari materie, la facoltà di istituire organismi di conciliazione presso i consigli degli ordini professionali; h) prevedere che gli organismi di conciliazione di cui alla lettera g) siano iscritti di diritto nel Registro; n) prevedere il dovere
dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio, del- la possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione; p) prevedere, nei casi in cui il provvedimento che chiude il processo corrisponda interamente al contenuto dell’accordo pro- posto in sede di procedimento di conciliazione, che il giudice possa escludere la ripetizione delle spese sostenute dal vincitore che ha rifiutato l’accordo successivamente alla proposta dello stesso, condannandolo altresì, e nella stessa misura, al rimborso delle spese sostenute dal soccombente… e, inoltre, che possa condannare il vincitore al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di contributo unificato...; q) prevedere che il procedimento di conciliazione non possa avere una durata eccedente i quattro mesi; r) prevedere, nel ri- spetto del codice deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità, l’indipendenza e l’imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle sue funzioni; s) prevedere che il verbale di conciliazione abbia efficacia esecutiva per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e costituisca titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale”. La delega in parola è stata esercitata con il d. lgs. 4 marzo 2010, n. 28.
3. Nell’ambito dell’appena menzionato decreto legislativo 28/2010, viene in particolare rilievo l’art. 5. Come riferito in narrativa, in seguito all’ordinan- za di rimessione della Sezione 12 aprile 2011, n. 3202, che ha rilevato, tra altro, come l’obbligatorietà del ricorso alla mediazione in alcune materie non fosse prevista in alcun principio e criterio direttivo dettato dall’art. 60 delle l. 69/2009, e travalicasse, pertanto, i limiti della delega legislativa, la Corte Co- stituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, ha dichiarato costituzio- nalmente illegittimo il comma 1 della disposizione, unitamente ad altre norme correlate della decretazione delegata, in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost.. Il Giudice delle leggi, in particolare, ha dichiarato: - l’illegittimità costituzionale “dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attua- zione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di media- zione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali)”; - “in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n.
28 del 2010, limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è con- dizione di procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limita- tamente alla frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitata- mente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d) dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo
del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo
«computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitata- mente al periodo «Prima della formulazione della proposta, il mediatore in- forma le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del detto decreto legislativo”. Come pure già precedentemente rilevato, pendente il giudizio dinnanzi al Giudice delle leggi, il legislatore, con l’art. 12, comma 1, lett. a), del d.l. 22 dicembre 2011, n. 212, aveva tentato di modificare in alcune parti la formulazione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010. Tale modifica non veniva però conferma- ta dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10. Successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del comma 1-bis e varie mo- difiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni del- la legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie. È bene a questo punto illustrare il comma 1 (dichiarato costituzionalmente il- legittimo con la pronunzia n. 272 del 2012 della Corte Costituzionale) e il comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, allo stato vigente. La dispo- sizione dichiarata illegittima prevedeva che: ”1. Chi intende esercitare in giu- dizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veico- li e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finan- ziari, è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e succes- sive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedimen- to di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando conte- stualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legi-
slativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”. Il comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 prevede ora che: ”1-bis. Chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di condominio, di- ritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, como- dato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, è tenuto, assi- stito dall’avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia banca- ria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, e suc- cessive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento del procedi- mento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di en- trata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monito- raggio degli esiti di tale sperimentazione. L’improcedibilità deve essere ecce- pita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termi- ne di cui all’articolo 6. Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e succes- sive modificazioni”. Viene altresì in rilievo nell’ambito dell’odierno contenzioso l’art. 16 dello stesso d.lgs. 28/2010, in forza del quale è stato adottato il re- golamento 18 ottobre 2010, n. 180, ovvero l’atto gravato in questa sede. An- che l’art. 16 ha subito modifiche per effetto dell’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla l. n. 98 del 2013. La disposizione prevede al comma 1 che “Gli enti pubblici o privati, che diano garanzie di serietà ed efficienza, so- no abilitati a costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione nelle materie di cui all’articolo 2 del presente decreto. Gli organismi devono essere iscritti nel registro” Il comma 2 stabilisce che “La formazione del registro e la sua revisione, l’iscrizione, la sospensione e la cancellazione degli iscritti, l’istituzione di separate sezioni del registro per la trattazione degli affari che richiedono specifiche competen- ze anche in materia di consumo e internazionali, nonché la determinazione delle indennità spettanti agli organismi sono disciplinati con appositi decreti del Ministro della giustizia, di concerto, relativamente alla materia del consu- mo, con il Ministro dello sviluppo economico. Fino all’adozione di tali decreti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei decreti del Ministro della giustizia 23 luglio 2004, n. 222 e 23 luglio 2004, n. 223. A tali disposizioni si conformano, sino alla medesima data, gli organismi di composizione extra- giudiziale previsti dall’articolo 141 del codice del consumo, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni”. Il comma 3
recita che “L’organismo, unitamente alla domanda di iscrizione nel registro, deposita presso il Ministero della giustizia il proprio regolamento di procedura e il codice etico, comunicando ogni successiva variazione. Nel regolamento devono essere previste, fermo quanto stabilito dal presente decreto, le pro- cedure telematiche eventualmente utilizzate dall’organismo, in modo da ga- rantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati. Al regolamento devono essere allegate le tabelle delle indennità spettanti agli organismi costituiti da enti privati, proposte per l’approvazione a norma dell’articolo 17. Ai fini dell’iscrizione nel registro il Ministero della giustizia va- luta l’idoneità del regolamento”. Il comma 4 dispone che “La vigilanza sul re- gistro è esercitata dal Ministero della giustizia e, con riferimento alla sezione per la trattazione degli affari in materia di consumo di cui al comma 2, anche dal Ministero dello sviluppo economico”. Il comma 4-bis, novella - si sottoli- nea - inserita dall’art. 84 del d.l. n. 69 del 2013, convertito dalla l. n. 98 del 2013, stabilisce che “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere adeguatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria preparazione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel rispetto di quan- to previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense. Dall’attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a ca- rico della finanza pubblica. Il comma 5 prevede che “Presso il Ministero della giustizia è istituito, con decreto ministeriale, l’elenco dei formatori per la me- diazione. Il decreto stabilisce i criteri per l’iscrizione, la sospensione e la can- cellazione degli iscritti, nonché per lo svolgimento dell’attività di formazione, in modo da garantire elevati livelli di formazione dei mediatori. Con lo stesso decreto, è stabilita la data a decorrere dalla quale la partecipazione all’attività di formazione di cui al presente comma costituisce per il mediatore requisito di qualificazione professionale”. Il comma 6 detta infine una disposizione di carattere finanziario.
4. Può ora passarsi alla disamina delle questioni poste dal gravame all’odierna trattazione.
5. Va, com’è d’uopo, prioritariamente esaminata la questione di carattere pregiudiziale spiegata dai resistenti Ministero della giustizia e Ministero per lo sviluppo economico, che ritengono l’Associazione ricorrente priva di legittima- zione attiva, per carenza in capo alla stessa della rappresentanza istituzionale degli interessi della categoria degli avvocati, spettante solo al Consiglio Na- zionale Forense e agli ordini esponenziali. Al riguardo, osserva il Collegio che è principio giurisprudenziale pacifico che un’associazione professionale, se e in quanto ne sia comprovato un apprezzabile grado di rappresentatività, può essere legittimata ad impugnare provvedimenti lesivi, oltre che di interessi propri, di interessi collettivi della categoria, non anche di singole posizioni giuridiche degli associati (C. Stato, V, 22 ottobre 2007, n. 5498; Tar Lazio, Roma, I, 5 dicembre 2008, n. 11015). Applicando le predette coordinate er- meneutiche al caso di specie, l’eccezione in esame non risulta persuasiva. Al- la luce dello statuto dell’UNCC, la ricorrente risulta essere associazione non riconosciuta costituita tra associazioni di avvocati civilisti, avente scopo, tra altri, di promuovere iniziative dirette a conseguire un miglior funzionamento
della giustizia, con particolare riguardo a quella civile (art. 2, lett. a) e di rap- presentare a livello nazionale le istanze degli avvocati civilisti e degli iscritti alle Camere Civili aderenti all’Unione, nei rapporti con gli organi istituzionali dell’Avvocatura, i rappresentanti dei pubblici poteri, l’Ordine Giudiziario, le al- tre Associazioni forensi (art. 2, lett. g), senza che lo statuto stesso preveda una qualche limitazione dei mezzi mediante i quali realizzare i detti scopi. Ri- ferisce, inoltre, la ricorrente, senza essere smentita dalle eccepenti, di conta- re circa settemila iscritti sull’intero territorio nazionale, e di essere stata rico- nosciuta dal Congresso Nazionale Forense tra le associazioni maggiormente rappresentative dell’Avvocatura nel suo complesso. Infine, va anche tenuto conto della materia investita dalla controversia, che, come rilevato dalla Cor- te Costituzionale nella citata sentenza n. 272/2012, attiene a giudizi (tra cui quello che occupa) nell’ambito dei quali “i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense”. L’eccezione in esame va per tutto quanto sopra respinta.
6. Si passa all’esame del merito del ricorso.
7. I due primi motivi dedotti nell’atto introduttivo del giudizio possono es- sere congiuntamente trattati. Con la prima doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale degli artt. 5 e 17 del d. lgs. 28/2010 in rela- zione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che il le- gislatore delegato è incorso in eccesso di delega laddove ha introdotto l’obbligatorietà della mediazione e l’improcedibilità del giudizio interposto senza il previo esperimento della mediazione, entrambi non previsti dalla leg- ge delega. Con la seconda doglianza (illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 8 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 24, 76 e 77 della Costituzione) la ricorrente sostiene che, poiché nella logica del decreto delegato, le scelte che la parte è chiamata ad effettuare nel procedimento di mediazione sono suscettibili di condizionare l’esito del successivo processo, per un verso la mancata previsione nel procedimento stesso della obbligato- rietà dell’assistenza del difensore viola l’art. 24 della Costituzione (nonché fa- vorisce le classi più abbienti, facoltizzate ad avvalersene), per altro verso l’introduzione della possibilità di acquisire elementi di prova in assenza di di- fesa tecnica, non prevista dalla legge delega, concreta eccesso di delega ex art. 76 Cost..
7.1. Osserva al riguardo il Collegio che le censure di cui si discute, più che evidenziare l’illegittimità del decreto 18072010 per violazione degli artt. 5 e 16 del d.lgs. 180/2010, sono volte a contestare la stessa disciplina normativa recata dai predetti articoli, ritenuta antinomica rispetto alla direttiva comuni- taria 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE, e alla legge delega, art. 60 della l. 18 giugno 2009, n. 69. Come già ampiamente riferito, la Sezione ha ritenuto persuasive la più parte di tali censure, rilevando anche come le stesse rac- chiudessero i tratti salienti dell’interesse azionato in giudizio dalla ricorrente, finalizzato sostanzialmente, per il tramite dell’impugnativa del d.m. 180/2010, allo scrutinio di costituzionalità degli artt. 5 e 16 del d.lgs. 28/10. E infatti, con la più volte richiamata ordinanza 12 aprile 2011, n. 3202, la Se- zione ha sospeso il processo e rimesso gli atti alla Corte Costituzionale per
l’esame della questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16, comma 1, in parte, del d.lgs. n. 28 del 2010, disponenti, rispettivamente, l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie e i soli requisiti di serietà ed ef- ficienza degli enti pubblici e privati abilitati a costituire gli organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di mediazione. Al contempo, nella stessa ordinanza n. 3202 del 2011, la Sezione ha ritenuto che l’eccezione di costituzionalità relativa alla mancata previsione nel proce- dimento di mediazione obbligatoria dell’assistenza del difensore si profilasse non rilevante ai fini del presente giudizio, in quanto priva di qualsiasi colle- gamento diretto od indiretto con la domanda demolitoria del regolamento im- pugnato avanzata innanzi a questa sede. Come già detto, successivamente alla ridetta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, che, acco- gliendo parzialmente la prospettazione di cui alla predetta ordinanza, ha di- chiarato costituzionalmente illegittimo il comma 1 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 e altre disposizioni a esso correlate, per violazione degli artt. 76 e
77 Cost., la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, mediante l’inserimento del comma 1-bis nel corpo dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 e varie modifiche appor- tate sia allo stesso art. 5 che ad altre disposizioni del decreto. La novella legi- slativa, rispetto all’angolo visuale in cui si è situato il ricorso, ha apportato ri- levanti modifiche all’istituto della mediazione. Basti osservare sul punto, co- me meglio si dirà in seguito, che se è vero che l’esperimento della mediazio- ne è stato ancora una volta configurato quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie, comunque rivisitate rispetto alle precedenti, è altresì vero che il nuovo testo del d.lgs. 28/2010 ha prescritto l’assistenza dell’avvocato. Inoltre, gli stessi ricorrenti, a seguito delle modifi- che normative di cui sopra, hanno spiegato avverso l’art. 84 del d.l. n. 69/2013, convertito dalla l. 98/2013, le nuove doglianze di costituzionalità, di cui ai motivi aggiunti. Ne consegue che, allo stato, le censure in parola, affi- date a un impianto argomentativo complessivo non più coerente con l’attuale quadro normativo, vanno dichiarate improcedibili.
8. Con il terzo motivo di gravame [violazione dell’art. 60, comma 3, lett.
b) della l. n. 69 del 2009 e dell’art. 16 del d. lgs. 20/2010 - eccesso di potere per irragionevolezza - illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale dell’art. 16 del d. lgs. 28/2010 in relazione agli artt. 76 e 77 della Costituzio- ne] la ricorrente lamenta che, laddove la legge delega pone il requisito dell’indipendenza sia in capo agli organismi di mediazione sia in capo ai sin- goli mediatori, l’art. 4 del decreto impugnato assicura tale indipendenza in misura molto minore, riferendola esclusivamente “allo svolgimento del servi- zio di mediazione” [comma 2, lett. e)]. Nella ridetta ordinanza n. 3202 del 2011, la Sezione ha ritenuto che anche tale censura si profilasse estranea alle sollevate questioni di costituzionalità, perché afferente esclusivamente allo scrutinio di legittimità dell’art. 4 del regolamento 180/2010. La tematica de- ve, indi, essere ora affrontata.
8.1. L’art. 60, comma 3, lett. b), della l. delega n. 69 del 2009 indica tra i principi e criteri direttivi la previsione che la mediazione sia svolta da organi- smi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all’erogazione del ser- vizio di conciliazione. L’art. 4 del d.m. 180/2010, censurato dalla ricorrente, ha subito modifiche per effetto dei decreti ministeriali 6 luglio 2011, n. 145 e 4 agosto 2014, n. 39. Ma, già dalla originaria formulazione, come all’attualità, la disposizione prevede al comma 2 che, ai fini dell’iscrizione nel registro, siano verificati a carico degli organismi di mediazione: - i requisiti di onorabi- lità dei soci, associati, amministratori o rappresentanti dei predetti enti, con- formi a quelli fissati dall’articolo 13 del decreto legislativo 24 febbraio 1998,
n. 58 [lett. c)]; - la trasparenza amministrativa e contabile dell’organismo, ivi compreso il rapporto giuridico ed economico tra l’organismo e l’ente di cui eventualmente costituisca articolazione interna al fine della dimostrazione della necessaria autonomia finanziaria e funzionale [lett. d)]; - le garanzie di indipendenza, imparzialità e riservatezza nello svolgimento del servizio di mediazione, nonché la conformità del regolamento alla legge e decreto, an- che per quanto attiene al rapporto giuridico con i mediatori [lett. e)]. La nor- ma quindi prescrive, nell’ordine di cui sopra: - in capo ai soci, associati, am- ministratori o rappresentanti degli organismi, per effetto dell’espresso richia- mo all’art. 13, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il possesso dei requisiti previsti per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo pres- so SIM, società di gestione del risparmio, SICAV e Sicaf. Tra tali requisiti, ol- tre la professionalità e l’onorabilità, figura l’indipendenza; - l’autonomia (fi- nanziaria e) funzionale dell’organismo; - l’indipendenza, l’imparzialità e la ri- servatezza nello svolgimento del servizio di mediazione. Tali prescrizioni de- clinano a carico degli organismi di mediazione, sotto i profili personali, strut- turali e funzionali, e indi compiutamente, il concetto sostanziale di indipen- denza assunto nella legge delega. La censura è, pertanto, infondata.
9. Conclusivamente, alla luce di tutto quanto sopra, l’atto introduttivo del giudizio va dichiarato in parte improcedibile e per il restante respinto.
10. Come ampiamente sopra riferito, con pronunzia n. 272 del 2012 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., e di una serie di disposi- zioni dello stesso decreto a esso strettamente correlate. In particolare, il Giu- dice delle leggi, al fine di verificare il rispetto dei principi posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010, ha rilevato come né la direttiva comu- nitaria 2008/52/CE sopra illustrata, né gli altri atti comunitari presi in consi- derazione dalla pronunzia, né, infine, la legge delega pure illustrata (art. 60 della legge n. 69 del 2009), esplicitassero in alcun modo la previsione del ca- rattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione assunto dal menzionato art. 5, comma 1, della legge delegata. Successivamente alla ri- detta pronunzia della Corte Costituzionale n. 272 del 2012, la materia della mediazione obbligatoria è stata ridisciplinata dall’art. 84, comma 1, lett. b),
del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. “decreto del fare”), convertito, con xxxx- ficazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, che, mediante l’inserimento del com- ma 1-bis e altre modifiche apportate sia all’art. 5 del d.lgs. 28/2010 che ad altre disposizioni della legge, ha nuovamente regolamentato l’esperimento della conciliazione quale condizione di procedibilità per la domanda giudiziale in alcune materie. Mediante atto di motivi aggiunti parte ricorrente ha formu- lato anche avverso la predetta novella censure di illegittimità costituzionale, che si passa a esaminare.
11. Parte ricorrente assume in primo luogo che il novellato d.lgs. 28/2010, nonché l’art. 84, comma 1, del d.l. 69/2013 e l’art. 1, comma 1, della legge di conversione 98/2013, violino l’art. 77 Cost., sostenendo l’incompatibilità dell’introduzione a regime del nuovo sistema di accesso alla giustizia con lo strumento del decreto-legge, stante la carenza del carattere di straordinaria necessità e urgenza che ne legittima l’utilizzo, carenza che ritiene testimonia- ta dalla previsione che la nuova disposizione si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (art. 84 del “de- creto del fare”).
11.1. La censura non persuade. Va, al riguardo, considerato primariamen- te come la Sezione, nell’ordinanza di remissione 3202/2011 più volte citata, non abbia mai dubitato della possibilità, insita nella già illustrata direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE [espressamente finalizzata a facilitare l’accesso alla risoluzione alternativa delle controversie e a promuovere la composizione amichevole delle medesime incoraggiando il ricorso alla mediazione e garan- tendo un’equilibrata relazione tra mediazione e procedimento giudiziario (art. 1, comma 1)], concessa agli Stati membri: - di estendere, o meno, il campo di applicazione delle disposizioni comunitarie sulla mediazione in materia civi- le e commerciale da quello privilegiato, costituito dalle controversie tran- sfrontaliere ai “procedimenti di mediazione interni” (ottavo considerando e art. 1); - di renderlo, o meno, obbligatorio (art. 5, comma 2: “La presente di- rettiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impe- disca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”). La Sezione ha, piuttosto, rilevato che il grado di valorizzazione della mediazione, quale strumento tendenzialmente generale di risoluzione delle controversie, mediante l’esercizio delle predette opzioni discrezionali estensive dell’istituto
- comportante, la prima, la scelta di renderla applicabile a rapporti che rica- dono interamente nell’ambito degli ordinamenti interni degli Stati membri, la seconda, la scelta di renderla obbligatoria e in quale misura - inerisse, atte- nendo ai massimi livelli del sistema nazionale del settore “giustizia” in mate- ria civile, secondo le attribuzioni proprie dell’ordinamento nazionale vigente, alla fonte normativa primaria [art. 111 Cost.; art. 117, lett. l) e m) Cost.]. La Sezione ha negato, quindi, e a ragione (come attestato dalla sentenza costi- tuzionale n. 272/2012), che la seconda di tali scelte potesse essere legitti- mante esercitata dal Governo in sede di legge delegata (d.lgs. 28/2010), in assenza nella legge delega (art. 60, l. n. 69 del 2009) di uno specifico princi- pio e criterio direttivo. Nel tema ora in discussione si versa in una fattispecie
completamente diversa. Non vi è dubbio, invero, che la scelta di rendere ob- bligatoria la mediazione nelle materie delineate dal nuovo comma 1-bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010 sia stata ora compiuta in esercizio di funzione legislativa, e ciò sia in sede di adozione del decreto-legge n. 69 del 2013, sia in sede di conversione del decreto, con la l. n. 989 del 2013. Tanto premesso, e passando alla questione, posta dalla ricorrente, se lo strumento della decre- tazione d’urgenza sia idoneo a normare la materia, deve rammentarsi che la Corte Costituzionale, con giurisprudenza costante sin dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costitu- zionalità. Tuttavia, la Corte Costituzionale (sentenza n. 171 del 2007) ha al riguardo chiarito che il relativo giudizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento, in sede di conversione, dovendosi svolgere su un piano diverso, con la funzione di pre- servare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tute- la dei quali detto compito è predisposto, con l’effetto di riconoscere ai requisi- ti di necessità e urgenza cui l’art. 77 Cost. subordina il potere straordinario del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasti- cità. In tal modo il Giudice delle leggi ha ritenuto, per un verso, che la straor- dinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una di- sciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici pote- ri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi, per altro verso, che l’eventuale difetto dei presupposti di legitti- mità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente. Nella specie, la Sezione non ravvisa nella fattispecie in esame l’evidenza richiesta per sollevare nuovamente la questione di costi- tuzionalità della mediazione obbligatoria, dedotta dalla ricorrente. Invero, non può essere fondatamente posto in dubbio come il riconoscimento, da parte della sentenza della Corte Costituzionale n. 272/2012, dell’illegittimità costi- tuzionale dell’articolo 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010 in relazione al carattere obbligatorio dell’istituto della mediazione e alla conseguente strutturazione della relativa procedura come condizione di procedibilità della domanda giudi- ziale nelle controversie ivi previste, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., ovvero per l’accertata carenza nella legge delega di cui all’art. 60 della l. 69/09 di criteri e principi direttivi legittimanti tale scelta da parte del legisla- tore delegato, abbia frustrato le chiare finalità deflattive del contenzioso giu- diziario che il legislatore delegato stesso ha riconnesso all’intero sistema deli- neato dallo stesso d.lgs. 28/2010. E ciò in un contesto di nota evidenza della necessità di riforme in materia di giustizia civile, sottolineato anche dalla “Raccomandazione del Consiglio [Europeo, n.d.r.] sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul program- ma di stabilità dell’Italia 2012-2017” del 29 maggio 2013. Tale raccomanda- zione, invero: - all’undicesimo considerando, ha rilevato come “Per migliorare il contesto in cui operano le imprese occorre completare la riforma della giu- stizia civile dando rapidamente attuazione alla riorganizzazione dei tribunali,
abbreviando la durata eccessiva dei procedimenti e riducendo il volume dell’arretrato e il livello di contenzioso”, ritenendo specificamente che “A se- guito della sentenza della Corte costituzionale dell’ottobre 2012 sulla media- zione, è necessario intervenire per promuovere il ricorso a meccanismi extra- giudiziali di risoluzione delle controversie”; - al punto 2, ha raccomandato all’Italia di “abbreviare la durata dei procedimenti civili e ridurre l’alto livello di contenzioso civile, anche promuovendo il ricorso a procedure extragiudiziali di risoluzione delle controversie. È parimenti indubitabile che gli organismi di mediazione venuti a esistenza e iscrittisi nel registro degli organismi di me- diazione nel non breve periodo decorrente tra l’entrata in vigore del d.lgs. 28/10, e segnatamente dell’art. 5 vecchia formulazione, e la pronunzia del Giudice delle leggi n. 272 del 2012, si siano necessariamente strutturati sulla base di tutte le previsioni originarie del decreto, ivi comprese quelle relative all’obbligatorietà della mediazione in determinate materie, risultando, in tal modo, interamente portata a compimento l’organizzazione strutturale cui il legislatore delegato intendeva far ricorso, anche coattivo, per introdurre la detta modalità di risoluzione delle controversie alternativa al sistema giudizia- rio. Applicando a tale contesto le predette coordinate ermeneutiche, deve ri- conoscersi la sussistenza di quella straordinarietà del caso, tale da legittima- re, ai sensi dell’art. 77, come interpretato dalla Corte Costituzionale, la ne- cessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito. Nulla muta, al ri- guardo, considerando che previsione che l’art. 84 del “decreto del fare” ha previsto che la novella si applichi decorsi trenta giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto. Si tratta, infatti, per un verso, di una opportuna disposizione di cautela, che rimanda alla conversione del decreto- legge l’operatività del sistema introdotto. Non va invero dimenticato che, co- me già precedentemente riferito, pendente il giudizio conclusosi con la sen- tenza 272/2012 dinnanzi al Giudice delle leggi, con d.l. 22 dicembre 2011, n. 212 (art. 12, comma 1, lett. a), il Governo aveva tentato di modificare in al- cune parti la formulazione originaria dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma tale modifica non è stata confermata dalla legge di conversione 17 febbraio 2012, n. 10. Per altro verso, poi, la disposizione è inidonea a confermare l’assunto dei ricorrenti in ordine alla insussistenza dell’urgenza, atteso che, in ogni caso, il “decreto del fare”, approvato il 21 giugno 2013, non avrebbe comunque potuto determinare l’immediata ripresa della mediazione, stante la sospensione feriale dei termini giudiziari e l’eventualità che gli organismi di mediazione necessitassero, successivamente alla ridetta sentenza n. 272/2012, di una ripartenza organizzativa
12. Parte ricorrente ritiene inoltre costituzionalmente illegittima anche la nuova previsione di cui all’art. 5, comma 2, del d.lgs. 28/2010, laddove pre- vede che “il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può dispor- re l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”. Parte ricorrente, in particolare, ritiene che la facoltà, di carattere discrezionale, concessa al giudice di appello, di di- sporre l’esperimento del procedimento di mediazione, sia illogica nonché vio-
lativa della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost.. La Sezio- ne non ritiene di poter aderire a tale prospettazione. Basti osservare, al ri- guardo, che la direttiva 2008/52/CE illustrata in premessa, al fine di incorag- giare la risoluzione alternativa e amichevole delle controversie costituita dal ricorso alla mediazione, per le precipue finalità già sopra descritte: - all’art. 3, precisato il concetto di mediazione, chiarisce che tale procedimento, oltre che essere avviato dalle parti, può essere anche “suggerito od ordinato da un or- gano giurisdizionale”; - all’art. 5, stabilisce che “L’organo giurisdizionale inve- stito di una causa può, se lo ritiene appropriato e tenuto conto di tutte le cir- costanze del caso, invitare le parti a ricorrere alla mediazione allo scopo di di- rimere la controversia…”. Quindi, per la citata direttiva, che non precisa in quale segmento della causa già pendente l’organo giurisdizionale può sugge- rire o ordinare il ricorso alla mediazione, la eventuale ricorrenza di un siffatto provvedimento in fase di appello non contrasta ex se con gli scopi principali assunti dalla direttiva, ravvisabili nella garanzia di un miglior accesso alla giustizia (quinto considerando), sulla base di una risoluzione extragiudiziale conveniente e rapida (sesto considerando). Inoltre, l’eccezione oblitera che la diposizione prevede che la remissione giudiziale delle parti al procedimento di mediazione, anche in appello, è subordinata alla valutazione della “natura della causa”, dello “stato dell’istruzione” e del “comportamento delle parti”, apprezzamenti tutti da effettuarsi da parte del giudice, proprio nell’ambito di un procedimento giudiziale rispondente ai requisiti del giusto processo di cui all’invocato art. 11 Cost.. Anche tale questione va quindi respinta.
13. Parte ricorrente denunzia ancora l’incostituzionalità dell’art. 13 del d.lgs. 28/2010, che prevede che “ Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta, il giudice esclude la ripe- tizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso pe- riodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”. La disposi- zione viene qualificata come una costrizione finalizzata a imporre il ricorso alla mediazione e un indebito ostacolo all’accesso alla giustizia, in violazione dell’art. 24 Cost., nonché incompatibile con un sistema che non garantisce l’adeguata configurazione della professionalità del mediatore. La tesi non ha pregio. Si rammenta che la Corte Costituzionale, nella ridetta sentenza 272/2002, nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010, per contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost., ha assorbito ogni questione, pure sollevata, relativa alla eventuale incostituzionalità della mediazione obbli- gatoria per violazione dell’art. 24 Cost.. La questione, quindi, è aperta, e non può ora che essere affrontata alla luce delle novelle apportate in materia dal “decreto del fare”. La nuova mediazione obbligatoria introdotta dall’art. 5, comma 1-bis, del d.lgs. 28/2010, per effetto delle complessive modifiche ap- portate alla disposizione e al decreto legislativo nel suo complesso, è profon- damente difforme dalla precedente. È peraltro anche vero che la stessa si ca- ratterizza per la presenza di numerose discrepanze. Ne costituiscono esempio le contraddizioni ravvisabili nel testo di legge in punto di assistenza
dell’avvocato nella procedura di mediazione. Essa va ritenuta senz’altro obbli- gatoria ai sensi del comma 1 dell’art. 8, stante l’inequivocabile formulazione letterale della norma e la circostanza che l’art. 8 è precipuamente dedicato al procedimento di mediazione, con la conseguente centralità sul punto della di- sposizione, che, però, non coincide perfettamente né con l’art. 5, comma 1-bis, che riferisce l’assistenza dell’avvocato al mero atto di impulso della conciliazio- ne obbligatoria, né con l’art. 12, comma 1, che prevede che solo ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvocati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Ta- li contraddizioni, peraltro, potranno essere risolte in sede di rivisitazione del te- sto del decreto delegato 28/2010, già programmato. L’art. 5, comma 1-bis, chiarisce, infatti, che “La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore. Al termine di due anni dalla medesima data di entrata in vigore è attivato su iniziativa del Ministero della giustizia il monitoraggio degli esiti di tale sperimentazione”. Ma, anche tenuto conto di quanto appena sopra, è certo che non sono riproducibili nei confronti della “nuova” conciliazione obbligatoria quei rilievi critici cui aveva dato luogo il previgente sistema, poggianti sul combinato disposto di alcune previsioni, poi modificate, che hanno fatto fondatamente dubitare della suscettibilità della “vecchia” mediazione obbligatoria di consentire l’esercizio effettivo del diritto di difesa in giudizio e la possibilità di condurre a una composizione delle contro- versie in conformità all’alto rango dei principi che caratterizzano la materia nell’ordinamento nazionale vigente. Xxxxx, infatti, osservare che: - le materie per cui la mediazione è obbligatoria e costituisce condizione di procedibilità del- la domanda giudiziale sono state rivisitate in senso diminutivo, non essendovi più tra le stesse il risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti (art. 5, comma 1-bis); - la condizione di procedibilità è ora assolta senza che sia necessario esperire un vero e proprio tentativo di conciliazione, ovvero con la mera partecipazione a un primo incontro (art. 5, comma 2-bis); - nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro, da svolgersi non oltre trenta giorni dalla domanda di mediazione (art. 8, comma 1), nessun compen- so è dovuto per l’organismo di mediazione (art. 17, comma 5-ter); - si prevede l’assistenza dell’avvocato per promuovere la conciliazione obbligatoria (art. 5, comma 1-bis); - si prevede l’assistenza dell’avvocato fino al termine della pro- cedura (art. 8, comma 1); - la proposta del mediatore interviene soltanto all’avverarsi delle relative condizioni, dopo il primo incontro, nell’ambito del quale il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione e invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibi- lità di iniziare la procedura di mediazione, procedendo nel caso positivo (art. 8, comma 1); - solo ove tutte le parti aderenti alla mediazione siano assistite da un avvocato, l’accordo che sia stato sottoscritto dalle parti e dagli stessi avvo- cati costituisce titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, l’esecuzione per consegna e rilascio, l’esecuzione degli obblighi di fare e non fare, nonché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12, comma 1); - al fine di sottrarsi alle conseguenze pregiudizievoli, in tema di argomenti di prova e di sanzioni, deri-
vanti nel successivo giudizio dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione laddove obbligatorio, possono essere addotti giustificati motivi (art. 8, comma 4-bis); - gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori (art. 16, comma 4-bis). A ciò si aggiunga che le modifiche medio tempore apportate al
d.m. 180/2010 hanno rafforzato la qualità del servizio di mediazione. Basti ri- chiamare, al riguardo, le nuove disposizioni ora vigenti in tema di formazione, aggiornamento e tirocinio dei mediatori (art. 4), nonché la prescrizione che il regolamento dell’organismo di mediazione contenga criteri inderogabili per l’assegnazione degli affari di mediazione predeterminati e rispettosi della speci- fica competenza professionale del mediatore designato, desunta anche dalla ti- pologia di laurea universitaria posseduta [art. 7, comma 5, lett. e)]. Considera- zioni tutte, queste appena elencate, che fanno escludere che il sistema in esa- me, allo stato vigente, possa sostanziare il pericolo di una indebita restrizione dell’accesso alla giustizia, ravvisabile (e ravvisato dalla Sezione con l’ordinanza 3202/11) in occasione dell’esame delle originarie formulazioni del d.lgs. 28/2010 e del d.m. 180/2010. Ne consegue che, nell’ambito della rimodulazio- ne incisiva dell’istituto - anche mediante la previsione dell’assistenza tecnica del difensore, la più ragionevole regolazione del primo incontro della mediazio- ne, finalizzata all’illustrazione alle parti degli scopi che le sono propri e alla veri- fica della disponibilità di entrambe le parti a pervenire in via generale a un ac- cordo conciliativo, la rimessione della proposta conciliativa a una fase eventua- le e successiva, condizionata al previo accertamento della volontà espressa in tal senso dalle parti - le norme di cui si discute, incentrate sulla già venuta a esistenza di una “proposta”, si qualificano come strumenti volti indirettamente a favorire, più che il ricorso alla conciliazione, la partecipazione diligente e in buona fede al relativo procedimento, come conseguenza dell’atto di assenso inizialmente prestato. È evidente, infatti, che l’inveramento della fattispecie di cui si discute e le relative conseguenze pregiudizievoli previste dalla disposizio- ne richiedono la presenza di una proposta conciliativa, e, quindi, ora, presup- pongono che vi sia stata l’adesione delle parti alla possibilità della risoluzione conciliativa. La norma in parola, pertanto, ha più che altro la finalità di sanzio- nare il mancato assolvimento dell’onere di ponderare il contenuto della propo- sta, onere che trova esclusiva fonte nell’assenso alla conciliazione prestato dall’onerato. Si versa, pertanto, in una ipotesi che, rimarcando il carattere ne- goziale del procedimento di conciliazione, risulta del tutto estranea all’art. 24 Cost..
14. Le questioni di legittimità costituzionale spiegate dai ricorrenti avverso il d. lgs. n. 28 del 2010, come modificato nelle more del giudizio dall’art. 84 del d.l. 21 giugno 2013, n. 79, convertito dalla l. 9 agosto 2013, n. 98, in ri- ferimento agli artt. 24 e 77 Cost. risultano, per quanto sopra, infondate.
15. Restano da esaminare i nuovi profili di illegittimità dedotti con i mezzi aggiunti a carico del d.m. 180/2010.
15.1. Parte ricorrente sottolinea il sopravvenuto contrasto tra il novellato art. 17, comma 5-ter, del d.lgs. 28/2010 e la disposizione di cui all’art. 16, commi 2 e 9, del d.m. 180/2010. L’art. 5-ter in parola prescrive che “Nel ca- so di mancato accordo all’esito del primo incontro, nessun compenso è dovu- to per l’organismo di mediazione”. Il comma 2 dell’art. 16 del d.m. 180/2010
prevede che “Per le spese di avvio, a valere sull’indennità complessiva, è do- vuto da ciascuna parte per lo svolgimento del primo incontro un importo di euro 40,00 per le liti di valore fino a 250.000,00 euro e di euro 80,00 per quelle di valore superiore, oltre alle spese vive documentate che è versato dall’istante al momento del deposito della domanda di mediazione e dalla parte chiamata alla mediazione al momento della sua adesione al procedi- mento. L’importo è dovuto anche in caso di mancato accordo”. A sua volta, il comma 9 dello stesso art. 16 prevede che “Le spese di mediazione sono cor- risposte prima dell’inizio del primo incontro di mediazione in misura non infe- riore alla metà”. È evidente che entrambe le disposizioni regolamentari si pongono in contrasto con la gratuità del primo incontro del procedimento di conciliazione, previsto dalla legge laddove le parti non dichiarino la loro di- sponibilità ad aderire al tentativo. La censura è pertanto fondata e va accolta.
15.2. Parte ricorrente sottolinea ancora il sopravvenuto contrasto tra il novellato art. 16, comma 4-bis del d.lgs. 28/2010 e la disposizione di cui all’art. 4, comma 3, lett. b), del decreto n. 180/2010. L’art. 16, comma 4-bis, del d.lgs. 28/2010 prevede che “Gli avvocati iscritti all’albo sono di diritto mediatori. Gli avvocati iscritti ad organismi di mediazione devono essere ade- guatamente formati in materia di mediazione e mantenere la propria prepa- razione con percorsi di aggiornamento teorico-pratici a ciò finalizzati, nel ri- spetto di quanto previsto dall’articolo 55-bis del codice deontologico forense”. L’art. 4, comma 3, lett. b) del d.m. 180/2010 prevede il “il possesso, da par- te dei mediatori, di una specifica formazione e di uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti presso gli enti di formazione in base all’articolo 18, nonché la partecipazione, da parte dei mediatori, nel biennio di aggiornamen- to e in forma di tirocinio assistito, ad almeno venti casi di mediazione svolti presso organismi iscritti”. Anche tale norma si profila palesemente in contra- sto con le nuove disposizioni, nella misura in cui è suscettibile di essere appli- cata in via generale, ovvero anche nei confronti degli avvocati iscritti all’albo, che la legge dichiara mediatori di diritto, e la cui formazione in materia di mediazione viene regolata con precipue disposizioni. 16. In definitiva, le do- glianze di cui al ricorso e ai motivi aggiunti in esame vanno dichiarate in par- te improcedibili, e in parte accolte, nei sensi e nei limiti di cui sopra. L’andamento della controversia, la complessità e la novità delle questioni trattate giustificano l’integrale compensazione tra le parti costituite delle spe- se di lite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) definiti- vamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe, lo dichiara in parte im- procedibile e in parte lo accoglie, nei sensi e nei limiti di cui al punto 15 della motivazione, disponendo, per l’effetto, l’annullamento degli artt. 16, commi 2 e 9, e 4, comma 3, lett. b), del decreto n. 180 del 18 ottobre 2010 e s.m.i., adottato dal Ministro della giustizia di concerto con il Ministro dello sviluppo economico. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.