L’ACCORDO DI INTEGRAZIONE DELLA LEGITTIMA
Capitolo IV
L’ACCORDO DI INTEGRAZIONE DELLA LEGITTIMA
SOMMARIO. – 1. I processi costitutivi necessari e non necessari. Significato della distinzione. La natura non necessaria del giudizio di riduzione, avuto riguardo all’interesse del legittimario a conseguire la propria riserva, indipendentemente dal mezzo tecnico con cui la ottiene. – 2. La struttura dell’accordo di integrazione: inammissibilità di un atto unilaterale di integrazione. – 3. La natura dell’accordo (in negativo): inidoneità della figura dell’accertamento a spiegare l’essenza del fenomeno e a perseguire lo scopo dell’integrazione. – 4. Tesi proposta: necessità di un atto di trasferimento dal beneficiario al legittimario. La preventiva fase eventuale della chiarificazione. – 5. Liceità di un simile accordo, in generale, sotto il profilo privatistico, vertendo su diritti disponibili e non riguardando questioni di stato. – 6. Enucleazione dei tratti caratterizzanti l’azione di riduzione in relazione alla ricerca di figure affini: l’azione revocatoria e l’azione di annullamento del contratto. – 7. Inammissibilità di un accordo tra privati che possegga le stesse caratteristiche e produca gli stessi effetti delle sentenze di revocazione e di annullamento. – 8. Ammissibilità di un accordo tra privati che realizzi l’interesse dell’attore nei casi indicati. – 9. La causa dell’accordo. – 10. Gli altri elementi e caratteristiche dell’accordo: patrimonialità e bilateralità. – 11. L’accordo di integrazione in rapporto all’eventuale lite. Le reciproche concessioni attraggono la convenzione nell’ambito della transazione. L’adesione all’altrui pretesa e la riformulazione delle reciproche pretese non costituiscono di per sé atti di integrazione, essendo necessaria l’ulteriore fase traslativa dei diritti. – 12. I soggetti. A) Il legittimario come parte necessaria dell’accordo. Impossibilità di ravvisare l’integrazione della legittima in una stipulazione a favore del legittimario ai sensi dell’art. 1411. – 13. L’oggetto. Possibilità di un accordo avente ad oggetto beni non riferibili al defunto. – 14. I soggetti: il beneficiario delle disposizioni lesive quale parte non necessaria dell’accordo. – 15. L’efficacia dell’accordo sotto il profilo temporale: l’irretroattività degli effetti. – 16. Acquisto dal beneficiario e regime patrimoniale del legittimario integrato. – 17. Gli effetti dell’accordo sul piano sostanziale: la funzione subordinata di accertamento e l’efficacia preclusiva. – 18. La forma. – 19. Le figure affini: il patto di famiglia. – 20. Segue: la transazione. La soddisfazione del legittimario con beni non ereditari. –
21. Segue: la rinuncia all’azione di riduzione verso corrispettivo o la sua cessione onerosa. – 22. Profili pubblicitari. – 23. L’accordo stipulato con l’erede apparente. – 24. Profili fiscali.
1. I processi costitutivi necessari e non necessari. Significato della distinzione. La natura non necessaria del giudizio di riduzione, avuto riguardo all’interesse del legittimario a conseguire la propria
riserva, indipendentemente dal mezzo tecnico con cui la ottiene. – Nel capitolo precedente ho detto che la natura del diritto del legittimario ad agire in riduzione per la tutela della propria riserva è quella del diritto potestativo. In particolare, trattasi di un diritto potestativo giudiziale, nel senso che per il suo esercizio non è sufficiente per il titolare manifestare un atto di volontà, dovendo egli avvalersi dello strumento del processo, e quindi ottenere l’attuazione del diritto previsto dalla legge per mezzo di una sentenza del giudice (che innovi la situazione giuridica). Per tale motivo, pur dovendo il giudice accertare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per l’attuazione del diritto (profilo dell’accertamento), la detta modificazione è effetto della sentenza e non della legge (profilo costitutivo). La sentenza di riduzione ha dunque natura costitutiva o, se si preferisce evidenziare anche il primo profilo, di accertamento costitutivo.
A questo punto, tenendo a mente che il discorso si riferisce ai soli diritti potestativi, è il caso di richiamare la distinzione proposta dalla xxxxxxxx0 tra sentenza costitutiva necessaria e sentenza costitutiva non necessaria.
La sentenza costitutiva sarebbe necessaria in tutti i casi in cui il diritto potestativo possa essere fatto valere solamente in via giudiziale; qualora invece fosse anche possibile un suo esercizio stragiudiziale, si parlerebbe di sentenza costitutiva non necessaria.
Nel primo caso, al titolare del diritto potestativo non è dunque concesso di realizzare autonomamente la modificazione della situazione giuridica (o comunque, per coloro che ritengano la modificazione in ogni caso opera del titolare e solo il contenuto dell’effetto oggetto di determinazione giudiziale2, realizzare compiutamente detta modificazione), essendo sempre indispensabile lo strumento del processo. Nel secondo, la modificazione può realizzarsi sul piano sostanziale mediante la semplice manifestazione di volontà del titolare, senza necessità di una pronuncia giudiziale. Peraltro, la dottrina non esclude in questo caso che il diritto potestativo sia esercitato mediante atti processuali; solamente, qui «oggetto del processo sono gli effetti già verificatisi dell’esercizio del potere e non il potere stesso»3. In altre parole, nei processi costitutivi non necessari, l’eventuale sentenza non
avrebbe natura costitutiva, ma di mero accertamento.
1 Sull’argomento, X. XXXXX, Profili dell’accertamento costitutivo, Padova, 1970, p. 58 ss., cui si rinvia per le citazioni; XXXXXXX, op. cit., pp. 112-113.
2 E’ l’opinione di XXXXXXX, op. cit., p. 112.
3 X. XXXXX, op. cit., p. 59.
Un tipico esempio di sentenza costitutiva necessaria sarebbe quello del c.d. divorzio (cfr. legge 1° dicembre 1970, n. 898), in cui l’effetto costituito dallo scioglimento del vincolo matrimoniale, sottratto alla disponibilità delle parti, è perseguibile solamente per mezzo del processo4.
Sarebbe invece una sentenza costitutiva non necessaria quella prevista all’art. 1032 in tema di servitù coattive5: la servitù, recita la norma, «in mancanza di contratto, è costituita con sentenza» (si suppone naturalmente l’adesione alla teoria, largamente prevalente, per cui la natura del diritto del proprietario del fondo dominante sarebbe quella di diritto potestativo e non di diritto di credito6). Qui si assiste ad una situazione giuridica che può essere modificata per il tramite della sentenza, ferma restando la possibilità, normativa sancita, di raggiungere lo stesso risultato in virtù di una pattuizione tra le parti interessate.
Si tratta ora di vedere se il diritto potestativo di chiedere ed ottenere la propria riserva in via giudiziale sia o meno esclusivo: bisogna cioè stabilire se quella di riduzione sia una sentenza costitutiva necessaria o meno. Il problema naturalmente nasce dal fatto che il legislatore, a differenza di quanto ha fatto nell’ipotesi di cui all’art. 1032, non ha espressamente menzionato la possibilità per i privati di accordarsi in merito alla integrazione della legittima.
Per evitare di rendere il problema più complicato di quanto effettivamente non sia, è bene chiarire subito il particolare significato che, nell’ambito della presente trattazione, mi sembra produttivo assegnare al concetto di “sentenza necessaria”. Infatti, detto concetto può assumere differenti connotazioni a seconda del profilo della sentenza che l’interprete preferisca esaltare: un conto infatti è ragionare sul modo in cui il diritto è attuato (in particolare sugli effetti costitutivo-estintivi spiegati dal rimedio giudiziale in parola sull’atto impugnato); altro è sottolineare il risultato avuto di mira dal titolare del diritto (e cioè, nel caso del legittimario, la rimozione degli effetti lesivi).
Con riferimento al primo aspetto (il modo in cui il diritto è attuato), può osservarsi che il processo di riduzione si articola secondo schemi assimilabili a quelli dell’annullamento o della risoluzione dei
4 Cfr. XXXXXXX, op. cit., p. 113.
5 XXXXXXX, op. cit., p. 113.
6 In quest’ultimo senso, invece, BRANCA, Servitù prediali (art. 1027-1099), in Comm. x.x.
x xxxx xx Xxxxxxxx x Xxxxxx, Xxxxxxx-Xxxx, 1967, p. 79.
contratti, per citare alcuni esempi7. In questi casi il soggetto a cui spetta l’azione (il legittimario o il contraente in cui favore è predisposto il rimedio) può provocare, ricorrendone i presupposti, il mutamento della situazione giuridica per mezzo dell’intervento del giudice, similmente a quanto avviene nel caso della riduzione.
Sebbene in dottrina non manchi chi ammette che le parti si possano accordare per dichiarare l’annullamento o la risoluzione del contratto, personalmente trovo che l’orientamento preferibile sia quello negativo. Nelle figure menzionate, infatti, qualora si ritenesse possibile porre in essere un atto dalle caratteristiche e dagli effetti analoghi a quelli che si verificherebbero con la sentenza, esso avrebbe in definitiva ad oggetto l’accertamento delle condizioni richieste dalla legge per l’eliminazione dell’atto stesso. Qui cioè l’effetto costitutivo-estintivo del contratto annullabile o risolubile non sarebbe perseguito per mezzo di un’attività dispositiva, che la legge ha accordato ai privati, ma grazie ad un potere di accertamento e di attuazione della legge che è assai dubbio possa spettargli.
Consapevole che l’argomento richiederebbe un’adeguata trattazione, che dovrebbe coinvolgere anche il delicato problema dell’accertamento negoziale8 e che esula dal presente lavoro, mi sembra qui sufficiente aver richiamato i seri problemi teorici che l’accoglimento di una simile tesi comporterebbe. Avrei dunque molte perplessità a giudicare valido un accordo teso a dichiarare l’annullamento o la risoluzione di un contratto. Si tratterebbe infatti di un compito riservato dalla legge esclusivamente al giudice.
Allo stesso modo, e per gli stessi motivi, sarei restio ad ammettere che le parti possano stipulare un accordo teso a ridurre l’efficacia delle disposizioni lesive, sulla falsariga di quanto accadrebbe nel caso di riduzione giudiziale.
Si consideri poi, in base a quanto detto al Cap. precedente, che l’inopponibilità dell’atto lesivo che sarebbe determinata da un simile tipo
7 Nel caso della risoluzione, si intende escludere quella dipendente, ad esempio, da clausola risolutiva espressa, dato che essa si verifica “di diritto”. Pertanto, l’eventuale sentenza che dovesse pronunciarsi sul punto sarebbe di mero accertamento e non costitutiva. A noi interessa invece qui evidenziare la somiglianza tra azioni tese a modificare la situazione giuridica preesistente.
8 Giustapporre il tema dell’accertamento a quello del negozio potrebbe essere errato. L’accertamento negoziale sarebbe infatti veramente tale qualora perseguisse una funzione di accertamento per mezzo dell’esercizio di un potere dispositivo (il negozio infatti è atto di autonomia dispositiva). Qualora invece si sostenesse che esso abbia unicamente effetti dichiarativi, non potrebbe più predicarsene la natura negoziale.
di accordo avrebbe l’effetto di considerare il legittimario un successore del defunto. Si porrebbe dunque, per coloro che vedono nella legittima il diritto ad ottenere una «quota d’eredità» in senso proprio, cioè come diritto a subentrare al defunto a titolo universale, un serio problema di liceità, alla luce del principio di cui all’art. 457, comma 1 («L’eredità si devolve per legge o per testamento»)9. Se fosse ammissibile un accordo di integrazione della legittima simile per natura ed effetti a quello di riduzione, il legittimario acquisterebbe l’eredità per effetto di un contratto10. In conclusione, non ritengo ammissibile un accordo tra privati che sia pienamente sostitutivo, sul piano effettuale, del giudizio di riduzione.
Ciò tuttavia non mi conduce ad affermare la natura costitutiva necessaria del giudizio di riduzione. Mi riferisco ora al secondo modo di intendere il concetto di “sentenza necessaria” cui sopra facevo cenno (anticipando in parte le conclusioni cui giungerò in prosieguo circa la natura dell’accordo di integrazione).
Al legittimario interessa rimuovere gli effetti lesivi degli atti compiuti dal proprio congiunto, inter vivos o mortis causa, senza che tale risultato debba necessariamente essere raggiunto colpendo gli atti lesivi stessi. Il legittimario tende a soddisfare la propria legittima ottenendo (diritti su) beni già appartenuti al defunto, secondario essendo il loro immediato dante causa (se cioè lo stesso defunto o il beneficiario delle disposizioni lesive). Sarebbe una lettura troppo artificiosa pretendere che tale interesse del legittimario possa essere soddisfatto solamente in virtù di un acquisto proveniente direttamente dal defunto. E’ vero che questa, secondo l’impostazione prevalente, cui nel presente lavoro ho prestato adesione, è la natura dell’acquisto che consegue al vittorioso esercizio dell’azione di riduzione, per il modo in cui detta azione è strutturata; ma nulla autorizza a sostenere che tale caratteristica sia l’essenza, il momento centrale imprescindibile, per così dire, dell’acquisto della legittima, sì che ogni altro atto che non la possegga sia inidoneo ad essere qualificato come satisfattivo della legittima.
9 Il profilo sarà nuovamente trattato al successivo §5.
10 Non varrebbe qui obiettare che l’investitura nell’eredità sarebbe direttamente opera della legge, libera di operare essendo stata rimosso l’elemento dell’incertezza vertente sull’an e sul quantum della lesione. I motivi per cui il legittimario non subentra nella legittima per immediato effetto di legge, una volta riscontrate in giudizio le condizioni per l’accoglimento dell’azione, ma proprio in conseguenza della sentenza di riduzione, che rende inopponibili al legittimario le disposizioni lesive, e quindi consente (per così dire, in seconda battuta) alle norme della c.d. successione necessaria di operare in suo favore, sono stati spiegati nel Cap. precedente, cui si rinvia.
Si vuole cioè dire che l’effetto che si determina con la riduzione delle disposizioni lesive è per legge idoneo al soddisfacimento della sua riserva; ma che ciò non esclude che il legittimario stesso, trattandosi, come vedremo in seguito, di materia disponibile, possa ritenersi soddisfatto per mezzo di un acquisto dalle caratteristiche differenti rispetto a quello che consegue alla riduzione.
In definitiva, qui la situazione è diversa da quella che si presenta ai coniugi che intendano divorziare. In quest’ultimo caso, l’interesse delle parti, costituito dallo scioglimento del vincolo matrimoniale e del conseguente status coniugale, può essere soddisfatto solamente per mezzo dell’intervento del giudice. Non è nemmeno pensabile un accordo che possa supplire alla sentenza, perché v’è coincidenza tra gli effetti prodotti da questa e l’interesse delle parti. Nel caso della riduzione, invece, il legittimario può alternativamente pretendere, per motivi morali o per una capricciosa ostinazione a chiedere puntuale applicazione della legge, di ottenere il valore di cui sia stato privato, e di ottenerlo direttamente dal defunto, in modo simile a quanto sarebbe accaduto se costui avesse in tal senso disposto per testamento; oppure può accontentarsi di ottenere il valore della propria riserva, disinteressandosi del mezzo tecnico con cui la ottiene. Nel primo caso, l’interesse del legittimario può essere soddisfatto solamente dall’azione di riduzione; nel secondo, anche fuori del processo.
In conclusione, inteso il diritto alla legittima nel modo indicato da ultimo, e cioè come interesse ad ottenere la soddisfazione della propria legittima acquistando diritti su beni già appartenuti al defunto, indipendentemente da chi ne sia l’immediato dante causa, affermo la natura non necessaria del processo di riduzione.
2. La struttura dell’accordo di integrazione: inammissibilità di un atto unilaterale di integrazione. – Come si è visto nel Cap. precedente, il legittimario, per la tutela delle proprie ragioni, ha a disposizione un diritto potestativo ad esercizio giudiziale. Esso si attua dunque con l’azione di riduzione, all’esito vittorioso della quale le disposizioni lesive sono rese inopponibili al legittimario procedente, per la parte necessaria ad integrare il proprio diritto. E’ dunque evidente che il diritto del legittimario non possa essere unilateralmente esercitato in altro modo. Il fatto cioè che si tratti di un diritto potestativo ad esercizio giudiziale esclude che esso possa determinare la modificazione della situazione giuridica per effetto della sola volontà del suo titolare (il legittimario).
Ci si deve anche chiedere se una simile possibilità sia concessa alla controparte, e cioè al beneficiario delle disposizioni lesive, che sarebbe il soggetto passivo dell’azione e quindi il soggetto nella cui sfera si produrrebbe la detta modificazione. Anche in questo caso la risposta è negativa. Se, come si è visto sopra, la caratteristica di rendere relativamente inefficace l’atto lesivo è propria ed esclusiva del giudizio di riduzione, al punto che non sarebbe ammissibile un accordo, tra legittimario e beneficiario, teso a conseguire lo stesso risultato che scaturirebbe dalla sentenza (si ripete, inefficacia relativa sopravvenuta dell’atto lesivo al legittimario, che acquisterebbe il bene direttamente dal defunto), tale conclusione deve a maggior ragione valere per un atto che si pretendesse provenire da una sola delle parti del rapporto11: il beneficiario.
Nemmeno sembra sostenibile ricorrere a schemi come quello previsto dall’art. 1333 perché, anche ammettendo che la norma non supponga un vero e proprio contratto, nel caso dell’integrazione il legittimario dovrebbe conteggiare il valore dei diritti trasferiti a scomputo del valore della propria riserva, precludendosi la possibilità, per il valore corrispondente, di soddisfare il proprio interesse agendo in riduzione ed ottenendo che sia pronunciata l’inopponibilità degli atti lesivi nei propri riguardi. In definitiva, sarebbe il beneficiario delle disposizioni lesive a scegliere quale strumento soddisfi l’interesse del legittimario, rendendo deteriore la posizione di quest’ultimo. Costui infatti, se fosse contrario, avrebbe l’onere di «rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi» (art. 1333, comma 2), il che non è sostenibile. Senza considerare poi che, sebbene gli aspetti menzionati non costituiscano obbligazioni in senso tecnico, mentre la norma parla di
«proposta diretta a concludere un contratto con obbligazioni del solo proponente», mi sembra che così sia ugualmente tradita la sua ratio ispiratrice.
Infine, pur ammettendo la suggestione esercitata dell’apparente similitudine dell’atto di integrazione con la riduzione ad equità del contratto (o della divisione) rescindibile (cfr. artt. 1450 e 767) e pur preferendo la tesi di chi vi ravvisa un atto unilaterale che non richiede
11 E’ appena il caso di notare che l’esistenza del diritto potestativo ad esercizio giudiziale in capo al legittimario suppone quella del rapporto giuridico suscettibile di essere modificato. In passato, si è dubitato che quelli che oggi sono definiti diritti potestativi (secondo la definizione chiovendiana) avessero come oggetto un rapporto giuridico (cfr. la dottrina citata da XXXXXXX, L’acquisto, cit., p. 78, nota 34).
l’accettazione della controparte12 (se si trattasse di un nuovo accordo bilaterale, il legislatore non avrebbe certo sentito il bisogno di prevedere questa possibilità espressamente; la previsione discende invece dalla considerazione che il principio di conservazione del contratto consente ad una delle parti, ancorché sotto il controllo del giudice, di mantenere in vita il rapporto), non può sfuggire innanzitutto la diversità strutturale tra il giudizio rescissorio e quello di riduzione. La natura di quest’ultimo è quella di un’impugnativa negoziale tesa a far dichiarare l’inopponibilità parziale del titolo di acquisto. Inoltre, un simile atto di trasferimento dal beneficiario delle disposizioni lesive al legittimario soddisferebbe la riserva del legittimario, come si è già detto, in un modo differente rispetto a quello che conseguirebbe dall’accoglimento della sentenza di riduzione. Anche per tale motivo non si potrebbe prescindere dal consenso del legittimario.
3. La natura dell’accordo (in negativo): inidoneità della figura dell’accertamento a spiegare il fenomeno e a perseguire lo scopo dell’integrazione. – Analizzate la natura del giudizio di riduzione, della relativa sentenza, del diritto del legittimario e la posizione del beneficiario delle disposizioni lesive, abbiamo posto le basi per affrontare in modo cosciente il tema della natura dell’accordo di integrazione della legittima.
Scartato lo schema della transazione, che a modo di vedere della dottrina prevalente entrerebbe in crisi qualora mancasse il requisito delle reciproche concessioni (mentre, come si è visto, esso è in ogni caso inidoneo a spiegare il fenomeno, non avendo ad oggetto l’integrazione della legittima), la dottrina prevalente ritiene che esso sia quello del negozio di accertamento: le parti, cioè, verificherebbero l’esistenza e l’ammontare della lesione, dissipando il dubbio circa la piena efficacia delle disposizioni inter vivos e mortis causa e dunque accerterebbero che le disposizioni del defunto eccedettero, in tutto o in parte, la porzione disponibile.
A questo punto, come già accennato il precedenza, la dottrina si divide tra coloro che sostengono che il legittimario ottenga l’investitura nei beni ereditari per effetto della legge13 e coloro che invece ritengono
12 XXXXXXX, La rescissione del contratto, artt. 1447-1452, in Comm. cod. civ. diretto da Xxxxxxxxxxx, Milano, 2000, p. 96 ss..
13 Cfr. le posizioni di NAPPA, XXXXXXX-AUCIELLO, DE XXXXX e XXXXXXX, tutti citati alla nota 11, §1, Cap. III.
che la fonte dell’acquisto sia lo stesso accordo14, sulla base della considerazione che il potere di accertamento dei privati non possa prescindere da un profilo dispositivo.
A) Cominciamo analizzando criticamente la prima impostazione, che a sua volta si può articolare in due diversi modi.
α) Innanzitutto, si può ritenere che l’accordo si limiti a dare atto di un effetto legale già prodottosi, ferma restando la necessità o l’opportunità che sia rimossa l’incertezza in ordine alla effettiva consistenza della lesione. In questo senso all’accordo si potrebbe assegnare natura di accertamento, perché si limiterebbe a dare atto di una situazione preesistente al momento della stipula.
In senso contrario, tuttavia, depone quanto è stato detto nel capitolo precedente a proposito della la sentenza con la quale è accolta la domanda di riduzione. Essa infatti ha natura di accertamento costitutivo, nel senso che il giudice non si limita ad accertare l’esistenza e l’ammontare della lesione, ma attua la legge pronunciando una sentenza che innova la situazione giuridica preesistente, rimuovendo l’efficacia delle disposizioni lesive (sentenza costitutivo-estintiva).
Non si tratta quindi di una decisione di mero accertamento, come sarebbe se il giudice si limitasse a dire che la situazione giuridica corrisponde a quella creatasi per effetto dell’apertura della successione, mercè le norme sulla successione c.d. necessaria. Ciò perché, come si è ampiamente detto, le disposizioni lesive non sono ipso iure inefficaci al momento dell’apertura della successione, ma al contrario sono valide ed efficaci; in particolare sono efficaci fino alla loro eventuale riduzione.
Per sostenere il contrario, e cioè che la decisione del giudice sia di mero accertamento (di una modificazione già prodottasi giuridicamente), occorrerebbe postulare la nullità delle disposizioni lesive o la loro risoluzione ex tunc in dipendenza di una condizione risolutiva avente ad oggetto la manifestazione del legittimario di voler conseguire la propria legittima (o, secondo altri, la vittoria nel processo di riduzione). La prima alternativa è esclusa per definizione, non potendo definirsi lesiva una disposizione nulla (quod nullum est, nullum producit effectum); a parte la considerazione che se si trattasse di nullità l’azione di riduzione sarebbe imprescrittibile. La seconda lo è per i motivi già indicati al §1 del Cap. III, tra cui la mancata menzione legislativa di un simile congegno condizionante l’efficacia della disposizione.
14 XXXXXXX, op. cit., p. 414; XXXXXXXXXX, op. cit., pp. 493-494; XXXXXXXXX, op. cit., p.
216. Ambigua, invece, la posizione di XXXXXXXX (si veda la nota 8, §1, Cap. III).
β) Più sottile è il ragionamento sotteso alla seconda delle impostazioni ora in esame, per la quale, lo ripeto, la fonte dell’acquisto del legittimario non sarebbe l’accordo, ma direttamente la legge. Con l’accordo, le parti si limiterebbero a dissipare i dubbi sull’esistenza e sulla consistenza della lesione ai danni del legittimario. A tale accertamento conseguirebbe di diritto l’investitura nell’eredità15.
In senso contrario, si deve richiamare l’attenzione sulla natura della sentenza di riduzione, che si è visto essere costitutiva. Ne discende pertanto che la fonte immediata dell’acquisto del legittimario è la sentenza e non la legge. Infatti, quando l’effetto giuridico non è conseguenza automatica della violazione di una norma di legge (come ad esempio nel caso della nullità) o dell’esercizio di un diritto potestativo (sostanziale) da parte del suo titolare (come il riscatto nella vendita di cui agli artt. 1500 ss., l’affrancazione del fondo enfiteutico, la dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva espressa, ecc…)16, ma richiede l’esperimento vittorioso di un giudizio, detto effetto è frutto immediato del processo e scaturisce dalla pronuncia del giudice. Tale conclusione è confermata dall’art. 2908 (rubricato «Effetti costitutivi delle sentenze»), per cui «Nei casi previsti dalla legge, l’autorità giudiziaria può costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici, con effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa»: non v’è ragione dunque di stravolgere il significato che emerge dalla lettera della norma ed affermare che la situazione giuridica sia modificata dalla legge. Pur con i dovuti distinguo, il tema sembra echeggiare l’annosa questione che si agitava, nel campo delle successioni testamentarie, intorno all’individuazione della fonte del fenomeno successorio, le alternative essendo da un lato la legge e dall’altro il testamento; questione da tempo risolta in favore del secondo17.
In sintesi, nell’ambito del giudizio di riduzione si ravvisano due momenti: quello cognitivo (di accertamento), concretantesi nella verifica dell’esistenza delle condizioni richieste dalla legge affinché la modificazione giuridica si possa produrre, e quello attuativo del diritto ad ottenere detta modificazione (momento costitutivo). All’attuazione della legge, dunque, il giudice perviene analizzando la situazione reale, della
15 Ciò naturalmente a patto di ritenere che il legittimario abbia diritto ad una quota in senso proprio, e cioè di una frazione di attivo e passivo in cui si subentra a titolo universale (come erede). Sul punto, la mia opinione è opposta.
16 Cfr. anche XXXXXXX XXXXXXXXXX, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, nona ed. (rist. 1989), p. 72.
17 Sul punto, già trattato, rinvio alla nota 40, §2, Cap. III.
quale deve essere a conoscenza: l’accertamento, cioè, è funzionale all’emanazione della sentenza costitutiva.
Il passo è breve allora per comprendere che un accordo privato che si limitasse ad accertare le sole condizioni richieste dalla legge per l’ottenimento del diritto (nella specie, il diritto alla legittima) non sarebbe in grado di determinare l’investitura del legittimario nei beni che costituirebbero oggetto di riduzione18. Esso infatti, valendo in tesi come mero atto di accertamento, sarebbe privo di efficacia dispositiva (mancherebbe la volontà dell’effetto traslativo, che si assumerebbe derivare direttamente dalla legge), avendo come unico effetto allora solo quello di dissipare ogni dubbio sul modo di essere della situazione giuridica.
D’altra parte, deve giungersi alla stessa conclusione se l’accordo fosse inteso come meramente preparatorio del meccanismo legale: infatti, si è poc’anzi dimostrato che l’accertamento dei presupposti richiesti dalla legge (l’an ed il quantum della lesione), sia quando esso è condotto dal giudice, sia quando è espletato dai privati, non è sufficiente, senza un ulteriore atto, a determinare l’effetto traslativo. Mutando ciò che deve essere mutato, qui occorrerebbe che l’attività delle parti non solo avesse ad oggetto la lesione, ma la superasse mediante un atto dotato di efficacia dispositiva.
La conclusione allora è che non può condividersi la tesi di chi ritiene che, con l’accordo di integrazione, il legittimario ottenga l’investitura nei beni ereditari per effetto della legge.
B) Resta ora da analizzare la seconda ricostruzione proposta dalla dottrina, per cui la fonte dell’acquisto del legittimario sarebbe l’accordo di integrazione, supposta la sua natura di negozio di accertamento e proprio a causa dei profili dispositivi che sarebbero propri di quest’ultima figura. E’ qui necessario svolgere un ragionamento più articolato.
Relativamente all’annoso problema dell’accertamento privato, che non può essere affrontato ex professo nel presente lavoro, a noi ora interessa in primo luogo il profilo effettuale: al riguardo, in dottrina si parla sia di effetti dichiarativi che di effetti costitutivi.
1) La tesi dell’efficacia dichiarativa del negozio di accertamento si avvale della considerazione per cui, essendo lo scopo delle parti
18 Qui parlo di oggetto in senso descrittivo e mediato, dal momento che l’oggetto in senso proprio del giudizio (in questo caso, di riduzione) è piuttosto il diritto al mutamento giuridico (sul punto, si vedano CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, I, sec. ed., Xxxxxx, 0000-00 [rist. 1947], p. 184 e, da ultimo TOMMASEO, Lezioni di diritto processuale civile. I. Disposizioni generali, sec. ed., Padova, 2005, p. 286).
illuminare la situazione giuridica incerta, gli effetti dell’accertamento sarebbero esplicativi o ricognitivi, e cioè non innoverebbero la situazione giuridica preesistente, limitandosi invece a darne contezza.
Il rilievo è esatto, ma a parte il fatto che potrebbero avanzarsi serie riserve circa la natura negoziale di una simile attività (tra l’altro, l’efficacia dichiarativa non è propria del negozio giuridico), esso implicherebbe la soccombenza di detto atto di accertamento rispetto alla situazione giuridica reale che dovesse per avventura riscontrarsi divergente. In altri termini, l’accertamento, così inteso, varrebbe se e fino a quando non si potesse dimostrare il contrario. Considerato però che la funzione di accertamento richiede la necessità che, laddove sia riscontrata una difformità tra situazione preesistente come tale e come invece accertata dalle parti, sia data preferenza a quest’ultima, la tesi dichiarativa pura è minoritaria. Piuttosto, essa, nella sua evoluzione meno intransigente, è costretta a teorizzare, in misura più o meno ampia, l’idoneità del negozio di accertamento a produrre effetti dispositivi19. In questa variante, parlare di efficacia dichiarativa, al di là del nome, sostanzialmente equivale a parlare di efficacia (eventualmente) dispositiva del negozio di accertamento.
2) La tesi da preferire senz’altro è quest’ultima, e cioè quella di chi ritiene che il negozio di accertamento sia dotato, sia pure eventualmente, di efficacia dispositiva. Le parti cioè non solo accerterebbero il modo di essere della situazione giuridica incerta, ma prenderebbero in considerazione anche l’ipotesi della divergenza rispetto alla situazione effettivamente esistente, opportunamente disponendo della propria sfera giuridica in maniera tale da conformare in questo caso la situazione giuridica all’esatto modo in cui essa è stata accertata dalle parti. Esemplificando: le parti accertano che il confine tra i rispettivi fondi passa sulla linea x e, ove dovesse risultare il contrario, dispongono in favore della controparte dell’eccedenza dell’uno o dell’altro fondo, in modo che il confine passi pur sempre per la linea x.
Partendo da questo punto, e calando le conclusioni nel caso che ci occupa, mi sembra allora coerente che chi ravvisa nell’accordo di integrazione di legittima la natura del negozio di accertamento sostenga anche che il primo abbia effetti dispositivi e che si ponga quale fonte dell’acquisto del legittimario.
Tuttavia, affermare la coerenza del ragionamento non ne implica necessariamente l’accoglimento, almeno nei termini in cui è formulato.
19 X. XXXXXXX, Gli atti con funzione transattiva, Milano, 2002, p. 539.
Infatti, occorrerebbe dimostrare che lo schema dell’accertamento sia in grado di spiegare la natura del fenomeno. Che cioè per mezzo di un’attività di accertamento concordemente condotta dalle parti interessate, le medesime possano raggiungere l’effetto di integrare la riserva del legittimario. Conviene quindi tornare nuovamente sul tema dell’accertamento.
Secondo la dottrina, il negozio di accertamento ha la funzione di rendere certa una situazione giuridica pregressa incerta. E’ questo un dato fondamentale dal quale non può prescindersi, almeno se si vuole riconoscere un significato univoco alla categoria del negozio di accertamento come tradizionalmente inteso dalla dottrina. Essa infatti aggiunge che, qualora le parti fossero a conoscenza dell’entità della situazione giuridica pregressa e ciononostante intendessero procedere alla stipula di un negozio di accertamento, il loro scopo non sarebbe più di accertamento, inteso questo come rimozione di uno stato psicologico di incertezza, ma, semmai, di migliore documentazione della situazione giuridica reale (che può consistere sia nel supplire alla perdita o distruzione del documento originario che nel moltiplicarlo per vari fini), ciò che dovrebbe ricondursi a quello che è definito atto di riproduzione, dotato di effetti meramente probatori20. Questo requisito è talmente radicato che la dottrina prevalente ritiene nullo il negozio di accertamento che difettasse dell’elemento dell’incertezza (e semmai valido come atto diverso, sussistendone gli estremi).
Dalle poche righe che precedono possiamo trarre una prima conclusione: non sarebbe corretto parlare di negozio di accertamento relativamente all’accordo con cui legittimario e beneficiario, essendo pienamente consapevoli dell’esistenza e dell’ammontare della lesione, intendessero eliminarla. Mancherebbe qui infatti il necessario requisito dell’incertezza.
Tralasciamo adesso il requisito dell’incertezza e proseguiamo nell’analisi del negozio di accertamento, questa volta sotto il profilo della corrispondenza tra situazione giuridica pregressa e situazione giuridica affermata dalle parti.
Ciò che accomuna le ricostruzioni proposte dalla dottrina, e che costituisce una conseguenza immediata del superamento dello stato psicologico di incertezza, è il fatto che, sia per coloro che sostengono la natura dichiarativa del negozio di accertamento, sia per coloro che invece ritengono non potersi prescindere dal momento (eventualmente)
20 X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, dodicesima ed., Napoli, 2006, p. 927.
dispositivo, il contenuto del negozio di accertamento deve, almeno formalmente (nel senso che la realtà potrà essere diversa) e nell’intenzione delle parti, rispecchiare la situazione giuridica preesistente. Le parti cioè, in seguito al processo conoscitivo teso ad accertare la situazione giuridica pregressa, raggiungono il convincimento che essa abbia un certo assetto e quindi è logico che esse lo dichiarino, al momento della stipula, in maniera conforme al passato. Esemplificando, se i proprietari di due fondi finitimi ignorano dove passi esattamente il confine e, in seguito ad indagini, acquisiscano contezza che esso giaccia in corrispondenza della linea x, nel relativo negozio di accertamento non potrà dirsi allora che il confine è stabilito altrove, ad esempio nel punto y. Diversamente, non di un negozio di accertamento si tratterebbe,
ma di un negozio traslativo, e precisamente di una donazione, qualora fosse presente l’animus donandi, o di un negozio dispositivo atipico qualora, oltre al corrispettivo, mancasse anche lo spirito di liberalità. In quest’ultimo caso, per evitare la nullità del negozio, dovrebbe però dimostrarsi la meritevolezza dell’interesse (cfr. art. 1322).
L’aver chiarito questo punto (necessità che, per aversi un negozio di accertamento, la situazione giuridica sia dichiarata dalle parti secondo le risultanze dell’attività conoscitiva cui le parti stesse sono giunte), è molto importante ai fini del presente lavoro, perché esclude la ricorrenza di un negozio di accertamento in tutti i casi in cui le parti muovono dalla certezza che la situazione giuridica sia diversa da quella che le medesime intendono esternare. Mi scuso per l’apparente banalità e tautologia dell’affermazione e mi affretto subito a chiarirne il significato.
E’ un dato ormai acquisito all’esperienza giuridica e non contestato in alcuna delle trattazioni dedicate agli accordi di integrazione della legittima (anzi, in alcune esso è espressamente affermato) che le disposizioni lesive, come più volte detto, sono valide ed efficaci fino alla loro riduzione. Xxxx, lo si ripete, perché possa esservi lesione e quindi riduzione è necessario supporre l’efficacia delle disposizioni lesive. Il punto di partenza di tutte le teorie menzionate, quindi, non è la nullità o comunque l’inefficacia delle disposizioni lesive, al momento dell’apertura della successione (momento rilevante per la verifica della lesione) o della dichiarazione del legittimario di voler conseguire quanto riservatogli dalla legge, ma appunto la loro efficacia.
La conseguenza del ragionamento è evidente: gli «accordi di reintegrazione», che si assumerebbero avere natura di accertamento, nelle intenzioni delle parti si basano proprio su un concetto inconciliabile con il negozio di accertamento, e cioè la convinzione che le disposizioni del
defunto siano efficaci e dunque lesive della legittima. La domanda (retorica) è dunque la seguente: è corretto sostenere la natura di accertamento di un negozio il quale suppone l’esistenza di una certa situazione giuridica (la lesione della legittima) ed i cui effetti essenziali consistono, si badi bene, certamente (e non semplicemente in via eventuale, come nel negozio di accertamento in senso proprio in cui le parti intendano fissare la situazione come accertata anche per il caso di divergenza da quella reale) nella modifica di detta situazione? La risposta è negativa. Un conto è prefigurarsi la possibilità che la situazione giuridica diverga dal modo in cui essa fu dichiarata dalle parti, quando le medesime erano invece convinte della coincidenza; altro è muovere dalla consapevolezza che l’assetto dichiarato è diverso da quello esistente ed a conoscenza delle parti. Nel primo caso, l’efficacia dispositiva del negozio, sorretta da una causa di accertamento meritevole di tutela, consente di ricondurre la situazione giuridica a quella dichiarata dalle parti; nel secondo, la causa di accertamento mancherebbe e, per sostenere la validità del negozio, occorrerebbe reperirne una diversa.
Dunque, la necessità che per aversi negozio di accertamento la situazione giuridica dichiarata debba coincidere, almeno nelle intenzioni delle parti, con il reale assetto della situazione giuridica oggetto di incertezza esclude che la natura dell’accordo di integrazione della legittima (nel suo momento centrale costituito appunto dalla integrazione), il quale ha come presupposto l’esistenza di una situazione lesiva e come obiettivo l’eliminazione di detta lesione, sia quella di un negozio di accertamento. Infatti, se veramente si trattasse di un negozio di accertamento, esso avrebbe sì la capacità di rimuovere, ove vi fosse, l’incertezza sulla lesione, ma non aggiungerebbe nulla alla fattispecie, nel senso che non sarebbe di certo in grado di determinare l’insorgere, in capo al beneficiario, di un’obbligazione restitutoria verso il legittimario e, ancora meno, di produrre un trasferimento (integrativo) in suo favore.
Perché una simile attività di accertamento possa determinare l’effetto integrativo, dovrebbe teorizzarsene l’idoneità a risolvere, in tutto o in parte, verso il legittimario, gli effetti della disposizione lesiva (il che peraltro si trova affermato in alcune delle trattazioni in materia, che dunque almeno non possono essere criticate negativamente per difetto di coerenza21). Ciò significherebbe affermare che l’accordo abbia natura
21 Così DE XXXXX, op. cit., p. 394, per il quale l’effetto che si realizza con la sentenza che abbia riconosciuto la lesione o preterizione del legittimario è di accertamento costitutivo,
«mirando, in esito alla verifica della lesione o preterizione, a modificare, innovandola, la realtà giuridica: l’effetto costitutivo è proprio in ordine alla risoluzione della disposizione
simile alla sentenza di riduzione. La critica a tale modo di ragionare è stata esposta al §1 di questo Cap., sotto il profilo dell’inammissibilità, per i privati, di porre in essere un’attività che si appunti direttamente sull’atto giuridico lesivo (come accade, fuori del caso della riduzione, in quelli già esaminati dell’annullamento e della risoluzione del contratto). Inoltre, si cadrebbe nel paradosso di cui si diceva: non si può accertare la inefficacia relativa di una disposizione lesiva che, prima dell’accordo, si affermava valida ed efficace. Ripeto: l’accertamento potrebbe semmai palesare la mancata originaria efficacia della disposizione lesiva, come accadrebbe se la medesima fosse viziata da nullità (ma abbiamo visto non esserlo); sarebbe invece un controsenso “accertare” una situazione in maniera certamente diversa dal suo modo di essere pregresso.
In conclusione, la natura dell’accertamento non può spiegare il fenomeno dell’accordo di integrazione, riguardato nel suo momento centrale costituito appunto dal soddisfacimento dei diritti di riserva del legittimario.
Infatti, riassumendo, se si ritenesse che l’accertamento cada sulla situazione giuridica pregressa, dissipando il dubbio sulla lesione prodotta dalle disposizioni donative o mortis causa, si potrebbe obiettare che le disposizioni lesive, al momento dell’apertura della successione, sono valide ed efficaci. Il richiamo alla figura dell’accertamento, intesa come idonea a rimuovere l’incertezza su una certa situazione, il cui modo di essere non risulterebbe modificato, ma solo chiarito, non sarebbe allora pertinente (ipotesi sub A, α).
Qualora invece si intendesse affermare che l’accertamento abbia ad oggetto l’an ed il quantum della lesione e le altre condizioni dettate dalla legge per accordare la riduzione, fermo restando che l’effetto integrativo sarebbe imputabile alle norme sulla successione c.d. necessaria, libere di operare, una volta rimossa l’incertezza su tale aspetto, si dovrebbe replicare lamentando che, anche nel caso della riduzione giudiziale, l’integrazione è effetto immediato della sentenza costitutiva (o di accertamento-costitutivo), onde un accordo privato che sostituisse il momento dell’accertamento, anche ammesso che una simile attività possa spettare ai privati (ciò che peraltro personalmente escluderei), non potrebbe di certo determinare un effetto maggiore di quello che si determinerebbe qualora la fase dell’accertamento fosse condotta proprio dal giudice. In altri termini, se di sentenza costitutiva si
testamentaria lesiva degli interessi del legittimario pretermesso; disposizione che risolvendosi diventa inopponibile. In questo senso, all’accordo può essere riconosciuta analoga funzione di accertamento costitutivo e, in tal misura, natura dispositiva».
tratta, l’accordo che intendesse prenderne il posto dovrebbe essere dotato di un’analoga efficacia innovatrice sulla situazione giuridica, con la conseguenza di escludere appunto che ciò sia effetto immediato delle norme di legge (ipotesi sub A, β).
Qualora infine si volesse sostenere che la natura dell’accordo è quella del negozio di accertamento, dotato però di efficacia dispositiva, si cadrebbe nel paradosso di enunciare la situazione giuridica risultante dalla stipula dell’accordo in maniera differente dal suo modo di essere precedente, il che implica negazione della natura di accertamento dell’accordo stesso (ipotesi sub B).
4. Tesi proposta: necessità di un atto di trasferimento dal beneficiario al legittimario. La preventiva fase eventuale della chiarificazione. – Nel paragrafo precedente si è visto come la figura dell’accertamento non sia in grado di giustificare la natura dell’accordo di integrazione, nel suo tratto caratterizzante, che consiste nel soddisfare il diritto di riserva del legittimario. Infatti, si ripete, legittimario e beneficiario prendono atto dell’esistenza di disposizioni lesive e si accordano per eliminarne, in tutto o in parte, gli effetti. La situazione pregressa, come nota alle parti o come dalle medesime ricostruita, è qui per definizione diversa da quella cui le parti tendono. Le parti, si ripete ancora una volta, non si limitano a stabilire quale fosse la situazione giuridica instauratasi per effetto dell’apertura della successione, ma desiderano che essa sia modificata in esito all’accordo. Manca dunque l’identità, almeno nelle intenzioni delle parti (si è detto infatti che la divergenza oggettiva è ben possibile e che rientra nella funzione dell’accertamento evitare che questa divergenza possa inficiare l’assetto dichiarato nel negozio di accertamento), tra situazione giuridica pregressa e situazione accertata, tratto che invece caratterizza e deve essere presente nel negozio di accertamento. Una sedicente attività di accertamento il cui scopo fosse innovare la situazione giuridica preesistente non avrebbe funzione di accertamento, ma dispositiva in senso proprio. Detto in altro modo, l’efficacia dispositiva sarebbe tale non in via eventuale, come accadrebbe per il negozio di accertamento nel modo in cui lo intende la dottrina prevalente, ma in via assoluta e certa.
E’ ora il caso di chiarire un aspetto che si è finora soltanto accennato. Quando escludo che l’accordo di integrazione abbia, nei suoi tratti essenziali, natura di accertamento, intendo affermare che difetta la funzione di accertamento, che caratterizza invece l’omonimo negozio.
Non si tratta infatti semplicemente di svelare e fissare una volta per tutte la realtà preesistente, ma di prenderne atto e superarla.
Ciò non significa peraltro negare che nell’accordo di integrazione, sia pure se in via eventuale, possa ricorrere l’elemento della chiarificazione, consistente nel superare l’incertezza (intesa come ignoranza) sul modo di essere della situazione giuridica preesistente. Parlo di eventualità perché anche tale elemento non caratterizza l’accordo di integrazione; esso infatti, pur mancando, non impedisce che si producano i suoi effetti essenziali. Mi spiego meglio.
Quando le parti ignorano se vi sia stata, da parte dell’ereditando22, lesione della legittima e, in caso affermativo, quale sia l’entità della lesione, non si può negare la ricorrenza di un profilo di chiarificazione in ordine alla situazione giuridica preesistente. Le parti cioè, muovendo da uno stato psicologico di incertezza (qui l’incertezza è intesa come «ignoranza»), compiono un’attività conoscitiva all’esito della quale reciprocamente giungono al suo superamento ed all’esternazione del risultato raggiunto. Ciò tecnicamente avviene per mezzo di dichiarazioni di scienza (cioè di conoscenza), alle quali non può essere riconosciuto valore negoziale perché per definizione prive di efficacia dispositiva: qui, cioè, le parti intendono semplicemente darsi reciproco atto di essere a conoscenza dell’an e del quantum della lesione.
Peraltro, le dichiarazioni di cui si sta parlando, aventi ad oggetto la conoscenza dell’ammontare della lesione, possono prescindere da una fase di incertezza (intesa sempre come ignoranza) ed essere senz’altro rese dalle parti al di fuori di una qualsiasi attività conoscitiva, che sarebbe in questo caso superflua23. La natura delle dichiarazioni in parola sarebbe allora la medesima.
Ad ogni modo, rese dette dichiarazioni, in conseguenza di un’attività di chiarificazione (dipendente appunto da ignoranza) o meno, non può dirsi che la situazione giuridica preesistente sia mutata. Né può sostenersi, per i motivi detti nel § precedente, che, rimossa l’incertezza soggettiva sull’an e sul quantum della lesione, la legge sia ora libera di operare l’investitura del legittimario nei beni ereditari fino al completamento del valore della sua riserva.
22 Per «ereditando» si intende la persona della cui successione si tratterà. Il termine (cui fa riscontro, una volta apertasi, quello di de cuius) è idoneo a comprendere anche i casi in cui la lesione è prodotta da liberalità tra vivi (riguardo alle quali non sarebbe sufficiente parlare di «testatore»).
23 Si pensi al caso del donante, morto senza alcun bene e già proprietario di un immobile, trasferito in vita ad uno solo dei due figli.
In realtà, compiuta questa fase preliminare dell’accordo di integrazione, il legittimario si troverebbe sostanzialmente nella stessa situazione in cui si trovava sin dal momento dell’apertura della successione. E’ dunque ancora attuale l’esigenza di escogitare un rimedio per garantirgli sul piano concreto i diritti a lui riservati dalla legge.
Dal momento che, come visto nel §1 del presente Cap., è anche precluso alle parti di replicare, con identità di effetti, la situazione che si produrrebbe per effetto dell’emanazione della sentenza di riduzione, è evidente che il rimedio in questione non possa essere altro che un atto traslativo posto in essere dal titolare dei beni che sarebbero soggetti a riduzione in favore del legittimario.
5. Liceità di un simile accordo, in generale, sotto il profilo privatistico, vertendo su diritti disponibili e non riguardando questioni di stato. – A questo punto, stabilita la natura traslativa dell’accordo di integrazione, si può concludere la trattazione, cominciata al §1 di questo Cap., inerente alla sua ammissibilità in generale sul piano privatistico.
Meritano di essere segnalate alcune norme che particolarmente hanno riguardo alla composizione stragiudiziale delle liti: in particolare, l’art. 806 c.p.c.24, in tema di compromesso e l’art. 1966, comma 2, in tema di transazione. Dal momento che l’arbitrato prende causa da un negozio giuridico (compromesso stipulato tra le parti interessate o dalla clausola compromissoria)25 e che pertanto l’art. 806 c.p.c. disciplina le condizioni per cui la volontà negoziale delle parti possa impedire la costituzione o la prosecuzione di un rapporto processuale, essendo così l’arbitrato giustapponibile, sotto questo profilo, al contratto di transazione, dalla lettura delle norme citate si ricava innanzitutto, ai nostri fini, il principio per cui non è ammessa una composizione convenzionale della lite26 se i diritti che formano oggetto della lite, per loro natura o per
24 La norma è stata recentemente riformulata dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40. nel modo che segue. «806 (Controversie arbitrabili). – 1. Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge. 2. Le controversie di cui all'articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro».
25 CHIOVENDA,Istituzioni di diritto processuale civile, I, sec. ed., Xxxxxx, 0000-00 (rist. 1947), p. 69 ss.; BIAMONTI, voce Arbitrato (diritto processuale civile), in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 902.
26 Vale la pena sottolineare, in una con la dottrina dominante, che non sussiste identità tra i due istituti. Infatti, mentre con il lodo arbitrale si dirime la lite, con la transazione si
espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti e/o riguardino questioni di stato.
Il motivo principale per cui potrebbe dubitarsi della validità di un accordo di integrazione della legittima risiede nel fatto che, stando all’opinione di parte della dottrina e della giurisprudenza prevalente, al conseguimento dei propri diritti di riserva fa riscontro l’acquisto della qualità di erede in capo al legittimario soddisfatto. Le perplessità potrebbero articolarsi secondo un duplice percorso: occorrerebbe, da un lato, conciliare quanto detto con la norma di cui all’art. 457, comma 1, secondo cui l’eredità si devolve per legge o per testamento e, dall’altro, verificare se la qualità di erede possa essere sussunta nell’ambito delle
«questioni di stato» che l’art. 806 c.p.c. ante riforma sottraeva alla compromettibilità in arbitri (per rimetterle implicitamente all’Autorità giudiziaria).
Quanto al primo aspetto, di cui si è già accennato al precedente
§1, mi limito a ribadire che, determinando l’accordo di integrazione, secondo la ricostruzione sopra proposta, un trasferimento dal beneficiario al legittimario, senza toccare la validità e l’efficacia delle disposizioni lesive, che anzi restano implicitamente confermate27, è in radice esclusa la possibilità che si verifichi l’acquisto della qualità di erede. Infatti, erede del defunto resta il beneficiario, che a sua volta ritrasferisce, in tutto o in parte, i diritti ricevuti al legittimario. Per tale motivo, l’art. 457, comma 1, aderendo all’impostazione proposta, è pienamente rispettato, poiché resta ferma la delazione, legittima o testamentaria, che ha già operato nei confronti del beneficiario trasferente.
Quanto alla seconda perplessità, essa è fortunatamente superata da quanto appena detto. Altrimenti, i rilievi che seguono impedirebbero di giudicare valido un accordo di integrazione.
Così almeno dovrebbe essere per quella parte della dottrina che riconosce nell’erede la figura dello status28. La soluzione sarebbe invece incerta per chi aderisce alla tesi intermedia per cui, per parlare di status
«crea solo un mezzo per eliminarla» (così D’ONOFRIO, Transazione, in Comm., c.c. a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna-Roma, 1974, p. 241, nota 2).
27 Non nel senso tecnico, chiaramente, di cui agli artt. 590 e 699, non esistendo profili di invalidità.
28 Parlano di status XXXXXX, La vocazione ereditaria diretta e indiretta, in Annali Università di Messina, VIII (a.a. 1934-1935), pp. 111 e 137-139 e gli Autori citati da XXXXXXXXXXX, La petizione di eredità, Torino, s.d. ma 1957, p. 160 (in nota 34). Giustappone i due termini, mostrando implicitamente di rispondere affermativamente al quesito, XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Vocazione legale e vocazione testamentaria, in Riv. dir. civ., 1942, pp. 195-196.
relativamente all’erede, occorrerebbe ampliarne il significato29. Sarebbe invece risolta nel senso della validità per coloro che non riconducono la figura dell’erede in quella dello status: con tale ultimo termine tradizionalmente si designerebbe «la posizione particolare che la persona ha nello Stato e nella famiglia, posizione non di autonomia, ma di subordinazione a fini superiori, che determina un legame organico fra i soggetti»30.
Non può però disconoscersi, con riferimento alla ratio dell’art. 806 c.p.c., che giudicava in sostanza indisponibili le questioni di stato, che la qualità di erede comporta non solo l’acquisto di diritti patrimoniali,
«ma implica (o può implicare) un complesso di poteri»31 e, aggiungerei, un complesso di situazioni, anche di soggezione, non meramente patrimoniali: è il caso, ad esempio, della legittimazione passiva nel giudizio di reclamo della legittimità di cui all’art. 249. Se dunque il motivo per cui non è consentito compromettere in arbitri le questioni di stato consiste nell’interesse superiore ad esse sotteso, non è escluso che questo interesse ricorra anche nella successione a causa di morte a titolo universale.
6. Enucleazione dei tratti caratterizzanti l’azione di riduzione in relazione alla ricerca di figure affini: l’azione revocatoria e l’azione di annullamento del contratto. – Nel capitolo precedente è stato chiarito che il legittimario leso vanta, a partire dall’apertura della successione, un diritto potestativo processuale il cui vittorioso esercizio gli consente di modificare a proprio favore la situazione giuridica fonte della lesione e di realizzare quindi il proprio interesse. In particolare, l’accoglimento della domanda giudiziale innova la situazione giuridica preesistente (efficacia costitutiva ovvero di accertamento-costitutivo), comportando l’inopponibilità della disposizione lesiva nei confronti del legittimario, sì che il beneficiario della disposizione ridotta non potrebbe opporre il
29 MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Milano, 1962, p. 41. Sostanzialmente nello stesso senso GROSSO e BURDESE, Le successioni. Parte generale, in Tratt. dir. civ. it. diretto da Xxxxxxxx, XII, x. 1, Torino, 1977, p. 43, per i quali discutere «se questa qualità di erede possa essere definita come uno status, può dipendere dall’accezione che si vuole dare al termine status».
30 CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Xxxx e Messineo, XLII, Milano, 1961, 19 ss. e 237 ss.. Ritiene non possa parlarsi di status anche XXXXXXXXXXX, op. cit., pp. 160-161 (anche in nota 38, ove per ulteriori citazioni).
31 MESSINEO, op. cit., p. 41.
proprio titolo al legittimario insoddisfatto. D’altra parte, il beneficiario delle disposizioni lesive, pur dovendo subire, ricorrendone i presupposti, l’azione del legittimario, non può dirsi in nessun momento suo debitore, potendo eccepire, fino appunto alla pronuncia di riduzione, l’esistenza di un titolo di acquisto valido ed efficace32. Ulteriore elemento, ancorché di secondaria importanza, è poi il fatto che la lesione è prodotta da un atto proveniente da persona diversa dal soggetto passivo dell’azione (e cioè il donante o, a seconda dei casi, il defunto).
Riassumendo, i tratti a mio avviso caratterizzanti la situazione intercorrente tra legittimario e beneficiario, prima della pronuncia di riduzione o della stipula dell’accordo, sono quindi i seguenti: 1) esistenza in capo al legittimario di un diritto potestativo attuabile per mezzo del processo; 2) natura costitutiva della sentenza (e, precisamente, costitutivo-estintiva); 3) inesistenza di una posizione debitoria in capo al beneficiario delle disposizioni lesive e 4) alterità tra persona onorata ed autore dell’atto lesivo33.
Si tratta ora di cercare, nel diritto attualmente vigente, l’eventuale esistenza di istituti che presentino analoghe caratteristiche, allo scopo di valutare la possibilità per le parti di stipulare un accordo che realizzi un risultato analogo a quello che sarebbe prodotto dalle relative sentenze e di individuarne la natura giuridica.
Tutti gli aspetti menzionati sono presenti nell’istituto disciplinato agli artt. 2901 ss. (azione revocatoria ordinaria): 1) il creditore leso dall’atto di disposizione compiuto dal proprio debitore è titolare di un diritto potestativo ad esercizio giudiziale; 2) la relativa sentenza innova la situazione giuridica esistente (natura costitutiva), rendendo l’atto lesivo inefficace nei suoi confronti34 (natura costitutivo-estintiva); 3)
32 Non si può parlare quindi di un arricchimento senza causa, perché l’esistenza di una donazione o di un testamento validi ed efficaci (fino a riduzione) costituisce «una giusta causa» dell’attribuzione (cfr. art. 2041).
33 Anche nel caso di donazione, strutturata nel codice vigente come un contratto, l’autore della lesione è pur sempre il donante. Il consenso del donatario è richiesto, e nemmeno sempre (cfr. 785), in applicazione del principio per cui l’acquisto di un diritto non può prescindere, in xxx xxxxxxxx, xxxxx xxxxxxx xxxx’xxxxxx xxxxx (xx ricordi inoltre che in passato la donazione era strutturata come atto unilaterale del donante).
34 Le differenze sostanziali rispetto all’azione di riduzione consistono nella necessità che l’acquirente sia almeno a conoscenza del pregiudizio che l’atto arrecava alle ragioni del creditore e nel mancato acquisto del bene in suo favore (all’esito dell’azione revocatoria, infatti, il bene non è acquisito al patrimonio del creditore, ma solamente diviene soggetto alla procedura esecutiva). Entrambe le diversità sono irrilevanti ai fini che ora ci interessano (individuazione della causa dell’accordo); la seconda, inoltre, discende dalla sufficienza del rimedio previsto al fine di consentire al creditore di perseguire il suo
l’acquirente non è obbligato ad effettuare alcuna prestazione nei confronti del creditore, essendo semplicemente assoggettato agli effetti della sentenza; 4) egli inoltre è soggetto diverso dal debitore.
La legge qui consente al creditore, di domandare al giudice, una volta che questi abbia accertato i presupposti dell’azione (esistenza di un atto di disposizione pregiudizievole, conoscenza del pregiudizio da parte del debitore e, negli atti a titolo oneroso, consapevolezza del pregiudizio da parte dell’acquirente), «che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti» gli atti lesivi. Pur se la dottrina ha rilevato come la revocatoria non consiste nel considerare mai uscita dal patrimonio del debitore la titolarità del bene, ma nell’evitare che quest’ultimo sia sottratto all’azione esecutiva dei creditori chirografari, interessa osservare che la sentenza colpisce direttamente l’atto con il quale il debitore attuò il trasferimento del bene, con l’effetto di consentire al creditore di soddisfare su di esso il proprio diritto. Si tratta di una sentenza costitutivo-estintiva, perché innova la situazione giuridica preesistente. Com’è stato efficacemente affermato, «La fonte immediata dell’inefficacia c.d. doppiamente relativa dell’atto di disposizione del debitore è da ravvisare – come detto – nel dictum costitutivo del giudice […], e non tanto in una presunta ed originaria inefficacia ed incapacità intrinseca dell’atto a diminuire l’oggetto della garanzia patrimoniale generica, che il giudice si limiterebbe ad accertare con sentenza dichiarativa […]»35.
Se si prescinde dall’alterità tra soggetto passivo dell’azione e colui al quale è riconducibile l’atto lesivo, gli stessi elementi dell’azione revocatoria si ravvisano nell’azione di annullamento del contratto (quando l’annullamento non è imputabile alla controparte): 1) la parte incorsa nell’errore o che abbia subito il dolo o la violenza può agire giudizialmente nei confronti della controparte 2) per ottenere una sentenza che produca l’annullamento del contratto, rimuovendone l’efficacia interinalmente prodotta (infatti, salvo qualche voce contraria, la dottrina prevalente ritiene trattarsi di una sentenza costitutiva); infine,
3) il contraente convenuto per l’annullamento non è obbligato a fare
interesse (nel caso della riduzione, invece, all’inopponibilità del titolo di acquisto che consegue alla sentenza si aggiunge la vocazione legale, sì che nell’insieme il legittimario ottiene un effetto più ampio rispetto al creditore nell’azione di cui all’art. 2901).
35 DE CRISTOFARO, sub art. 2901, in Comm. breve al cod. civ. fondato da Xxxx e Xxxxxxxxx, settima ed., Xxxxx, 2004, p. 3203 (II, 1), le cui parole suonano come una conferma di quanto si diceva nei paragrafi precedenti a proposito della natura costitutiva della pronuncia di riduzione e dell’impossibilità che la fonte dell’acquisto del legittimario sia in questi casi la legge.
alcunché (come è confermato dall’insussistenza di una sua responsabilità per danni, eccettuati i casi della violenza e del dolo imputabile).
Il giudice, accertata l’esistenza del vizio, è obbligato ad attuare la legge, che prevede l’annullamento dell’atto viziato (cfr. art. 1427). Egli emette quindi una pronuncia (costitutivo-estintiva) con la quale annulla il contratto impugnato; conseguentemente, la situazione giuridica preesistente risulta modificata. Il potere di attuare la legge spettante al giudice gli consente, all’esito della verifica delle condizioni per l’annullamento, di conformarsi in maniera piena al dettato della norma (che prevede, come detto, l’annullamento dell’atto). In via indiretta, la pronuncia consente all’attore, che ipotizziamo essere il venditore, di riottenere la proprietà del bene venduto, essendo rimosso dal mondo giuridico l’atto che ne attuava la cessione.
7. Inammissibilità di un accordo tra privati che possegga le stesse caratteristiche e produca gli stessi effetti delle sentenze di revocazione e di annullamento. – L’esame delle figure menzionate fa sorgere gli stessi quesiti che costituiscono il leit motiv del presente lavoro: è necessario che l’interesse del titolare del diritto soggettivo giudiziale sia soddisfatto esclusivamente per mezzo del processo oppure è ammissibile una composizione convenzionale della vicenda? In questo secondo caso, l’accordo stipulato dai privati produce gli stessi effetti che avrebbe prodotto la sentenza o è dotato di effetti diversi?
I due interrogativi sono congiunti. Come si è già visto al §1 del presente Cap., a proposito in particolare della natura necessaria o meno della sentenza di riduzione quale pronuncia costitutiva, occorre distinguere tra il modo in cui l’effetto avuto di mira dal legislatore è raggiunto ed il risultato cui il titolare del diritto tende (nel senso che egli potrebbe accontentarsi di ottenere la propria riserva direttamente dal beneficiario delle disposizioni lesive).
Quanto al primo, nelle menzionate azioni di cui agli artt. 2901 e 1441 ss., i diritti del creditore e del contraente a favore del quale è accordata l’azione di annullamento sono soddisfatti rispettivamente per mezzo dell’inopponibilità, ai fini esecutivi, dell’atto di trasferimento dal debitore al terzo e dell’annullamento dell’atto invalido. In entrambi i casi, quindi, il diritto dell’attore è attuato per mezzo di una pronuncia che colpisce direttamente l’atto impugnato, all’esito di un processo in cui l’attività di accertamento svolge un ruolo essenziale.
Tale attività di accertamento, con il passaggio in giudicato della sentenza, resta acquisita nonostante possa successivamente provarsi il contrario (c.d. sentenza ingiusta). Essa è dunque dotata di effetti sul piano sostanziale (si tratta infatti di un’attività che, conducendo all’attuazione della legge, enuncia l’assetto della situazione giuridica una volta per tutte, sostituendosi all’eventuale situazione preesistente difforme) ed è prerogativa esclusiva del giudice. Ritengo infatti siano ancora attuali l’insegnamento per cui il negozio giuridico è solo dispositivo ed il suo corollario per cui le parti potrebbero accertare una determinata situazione giuridica solamente disponendone36.
Il potere di accertamento (con effetti sostanziali) spetta in via generale al giudice (cfr. art. 2909) e solo in casi particolari ai privati:
«l’attività negoziale ha, di regola, gli effetti costitutivi indicati dall’art. 1321 c.c. e solo eccezionalmente ha effetti dichiarativi: l’inverso avviene per la giurisdizione, dove la cognizione produce sempre effetti dichiarativi e solo eccezionalmente anche effetti costitutivi»37 (cfr. art. 2908).
Questa affermazione non si basa solamente sul tenore dell’art. 1321, che disciplina il contenuto del contratto, quale figura emblematica di negozio giuridico patrimoniale non unilaterale, ma riceve conforto da una serie di altri elementi.
In primo luogo, gli atti di ricognizione o di rinnovazione (si pensi alla ricognizione del diritto del concedente nell’enfiteusi [art. 969], al riconoscimento del debito nelle obbligazioni plurisoggettive [art. 1309] ed alla ricognizione nella rendita perpetua [art. 1870]), il cui scopo è quello di enunciare il contenuto di una situazione già esistente e la cui struttura è dunque quella degli atti di accertamento, hanno mera efficacia probatoria e sono suscettibili di prova contraria (cfr. l’art. 2720 e, con specifico riferimento alla ricognizione di debito, l’art. 1988), con la conseguenza che la dichiarazione non può superare ed assorbire l’eventuale inesistenza o anche solo la divergenza rispetto alla situazione preesistente.
La stessa confessione, che è la dichiarazione di essere a conoscenza di un fatto (a sé sfavorevole), vale a condizione che il confidente sia capace di disporre del diritto a cui i fatti si riferiscono (artt. 2731 e 2733). Ciò evidenzia che la confessione, quando è efficace, ha natura negoziale (dovendo essa peraltro vertere solamente su fatti da cui
36 Così XXXXXXX-XXXXXXXXXX, Xxxxxxxx, cit., p. 177.
37 XXXXXXXX, op. cit., pp. 262-263.
dipendano diritti)38. In definitiva, anche quando la dichiarazione abbia ad oggetto fatti che riguardano lo stesso dichiarante, la retrospezione ha efficacia dispositiva, e non dichiarativa.
Natura negoziale, per comune insegnamento (e conformemente al dettato dell’art. 185 c.p.c., che parla di «convenzione»), ha anche la conciliazione giudiziale. Essa e la confessione costituiscono negozi a causa debole: sono cioè validi come tali, perché dotati di una causa sufficiente a giustificare il trasferimento che consegue dalla vittoria della controparte (nella confessione) o dall’adesione alle di lui pretese (nella conciliazione). Detta causa è la consapevolezza dell’esistenza di un giudizio, che spinge o dovrebbe spingere ciascuna delle parti a valutare adeguatamente il proprio comportamento: confidarsi (o conciliare) implica dunque accettazione delle conseguenze della confessione (o della conciliazione) e, in definitiva, volontà di disporre (ciò vale anche per la confessione stragiudiziale, nel senso di confessione resa pur sempre in un momento successivo all’instaurarsi della controversia, ancorché fuori dell’udienza).
In conclusione, il compimento dell’attività di accertamento nell’ambito dei giudizi di revocazione e di annullamento, attività prodromica al compito di attuare la legge, è prerogativa esclusiva del giudice. Perciò, non ritengo che l’autonomia privata possa esplicarsi sullo stesso piano dell’attività giudiziale. Non ritengo, in definitiva, che le parti abbiano il potere di conseguire autonomamente gli stessi effetti che discendono dalla sentenza di revoca o da quella di annullamento. In altre parole, gli obiettivi in vista dei quali tali istituti sono stati congegnati ed il modo in cui essi sono perseguiti per effetto dell’emanazione delle rispettive sentenze, non sono “replicabili” dalle parti.
8. Ammissibilità di un accordo tra privati che realizzi l’interesse dell’attore nei casi indicati. Estensione del ragionamento al caso della riduzione. – Qualora invece intendessimo sottolineare il risultato al quale, nelle figure esaminate della revocatoria e dell’annullamento, tendono il creditore ed il contraente in cui favore è accordata l’azione di annullamento, e cioè la soddisfazione del credito messa in pericolo dall’atto lesivo ed il recupero del diritto trasferito con l’atto viziato, non mi sembrano sussistere ostacoli per ammettere che esso possa essere raggiunto per mezzo di un accordo stipulato tra le parti.
38 Il punto non è pacifico. Cfr. XXXXXXX-XXXXXXXXXX, L’accertamento negoziale e la transazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, p. 3.
Secondo l’impianto congegnato dal legislatore, nei casi indicati, ad un momento basato sull’accertamento dei presupposti per l’accoglimento del diritto alla revocatoria o all’annullamento si aggiunge quello consistente nel profilo innovativo (costitutivo-estintivo, nel senso relativo della inopponibilità a fini esecutivi, nel caso della revocatoria, e in senso pieno, in quello dell’annullamento) della situazione giuridica. Al riscontro ad esempio che il consenso di una delle parti fu viziato da errore invalidante, il giudice attua la legge pronunciando una sentenza che travolge lo stesso atto viziato, con la conseguenza di ripristinare lo status quo, sia pure nel rispetto dell’affidamento dei terzi (cfr. art. 1445). Tale procedimento sarebbe condotto dal giudice in via esclusiva: come visto, le parti non potrebbero emularlo (con identità di effetti).
Ciò non toglie che le parti, mediante l’esercizio dell’autonomia privata, possano perseguire una funzione di revocazione o di annullamento. Voglio cioè dire che una cosa è il potere di revocare o di annullare; altro è il potere di disporre della propria sfera giuridica, con funzione di revocare o annullare. Il primo è prerogativa esclusiva del giudice; il secondo è proprio dei privati. In entrambi i casi si produce un effetto costitutivo, con queste differenze: che nella sentenza, esso dipende dall’attuazione della legge e si appunta sull’atto (effetto costitutivo- estintivo); nel negozio, l’effetto costitutivo dipende dalla disposizione dei diritti posta in essere dalle parti con un nuovo atto, che instaura un nuovo rapporto.
Se si condivide quanto fin qui detto, si capisce allora come il problema si sposti sulla causa di simili negozi, che si pongono quali surrogati delle rispettive sentenze. Infatti, il trasferimento di diritti che una delle parti compie in favore dell’altra deve essere adeguatamente giustificato, conformemente ai principi.
Lo stesso ragionamento può farsi per il caso della riduzione. Come per la revocatoria e l’annullamento (ma potrebbero citarsi anche altri esempi), anche nella riduzione si tratta di una sentenza costitutiva che attua un diritto potestativo ad esercizio giudiziale.
9. La causa dell’accordo. – In generale, rispetto ad ogni contratto, raramente si presenta il problema della mancanza della causa, perché nella maggioranza delle ipotesi la stessa stipula è voluta in vista del perseguimento di uno scopo.
Così, nell’accordo di integrazione, che spinge una parte ad ottenere la porzione di beni della quale era stata privata e l’altra ad evitare
il giudizio di riduzione, non potrebbe seriamente dubitarsi dell’esistenza di una ragione che spinge le parti alla stipula. Piuttosto, per quanto a noi interessa, si tratta di qualificarla.
Dal momento che il legislatore non ha previsto né disciplinato un simile accordo (mi pare eccessivo infatti sostenere, con Xxxxx Xxxxx00, che l’espressione contenuta nell’art. 557, per cui «La riduzione […] non può essere domandata che dai legittimari […]» (corsivo mio), sia «più lata perché il legislatore ha inteso comprendervi […] anche la domanda stragiudiziale di riduzione»), che dunque sarebbe atipico, occorre innanzitutto accennare alla meritevolezza dell’interesse di cui all’art. 1322, comma 2.
Al riguardo, sembra potersi prescindere dal complesso dibattito intorno al significato di tale norma e, in particolare, alla necessità che la causa non si ponga semplicemente in contrasto a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume, ma che sia portatrice di una specifica, positiva utilità sociale40. Infatti, quanto alla prima impostazione, credo di aver dimostrato sufficientemente la corrispondenza a legge dell’accordo di integrazione, che non pretende di spiegare effetti identici a quelli che sarebbero prodotti dall’azione di riduzione. Peraltro, anche aderendo alla seconda opzione interpretativa, l’utilità sociale sarebbe dimostrata proprio dallo scopo di evitare l’esperimento del rimedio giudiziale, circostanza incoraggiata vivamente dal legislatore (si pensi alla transazione, alla conciliazione giudiziale, ed agli altri strumenti tesi ad evitare o a risolvere il giudizio).
L’inesistenza di una posizione debitoria in capo al beneficiario delle disposizioni lesive esclude possa parlarsi di una causa solvendi in senso tecnico. Non esiste un’obbligazione a carico del beneficiario di trasferire al legittimario tutto o parte dei beni ricevuti dal defunto, com’è anche dimostrato dalla pacifica sua irresponsabilità per i danni che eventualmente possa aver subito il legittimario stesso.
D’altra parte, sarebbe riduttivo esprimersi in termini di mero dovere morale o sociale (cfr. art. 2034), perché il legittimario è titolare di un diritto in senso proprio che gli consentirebbe, per il tramite del
39 X. XXXXX, Dei legittimari (art. 536-564), in Comm. cod. civ. a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna-Roma, 1971, p. 164.
40 In favore della prima alternativa, cfr. per tutti ROPPO,. Il contratto, in Tratt. dir. priv. a cura di Xxxxxx e Xxxxx, Milano, 2001, pp. 424-425, il quale reputa sovrabbondante, rispetto all’art. 1343 («Causa illecita»), l’art. 1322, comma 2 e dunque non necessario il riscontro della meritevolezza degli interessi che il contratto sarebbe diretto a realizzare (l’inutilità dell’art. 1322, comma 2, afferma XXXXX, ibidem, «sarebbe pur sempre preferibile a una norma con significati ripugnanti al sistema»).
processo, di ottenere piena soddisfazione. Quella in esame non è una situazione in cui il legislatore non accorda azione. L’eventuale spontaneo trasferimento posto in essere dal beneficiario non soddisfa un interesse extragiuridico del legittimario, come è dimostrato dall’esistenza in suo favore di un diritto potestativo.
Errato poi sarebbe parlare di causa liberale, perché la volontà del beneficiario non è in tesi diretta ad arricchire il legittimario, ma a procurargli la legittima, intesa come un vero e proprio diritto.
Difficile dire se si tratti di una causa gratuita. Propendo, con qualche incertezza, per la risposta negativa: nell’accordo in esame, al momento traslativo dal patrimonio del beneficiario delle disposizioni lesive a quello del legittimario, e dunque all’utilità per il legittimario di soddisfare la propria riserva, si affianca quella che si produce in favore della controparte: il beneficiario delle disposizioni lesive, con la stipula dell’accordo, consegue il risultato di sottrarsi al giudizio di riduzione e, conseguentemente, di rendere definitivo l’acquisto ricevuto dal defunto (rendendo commerciabili anche sul piano pratico i relativi diritti). Tale ultima utilità peraltro rileva sul piano giuridico, e non meramente economico (ciò che avrebbe potuto conciliarsi con la natura gratuita del contratto). Propenderei quindi per la natura onerosa dell’accordo di integrazione, anche perché esso, soddisfacendo il diritto del legittimario ad ottenere una porzione dei beni già spettanti al defunto, ne comporta l’estinzione (totale, nell’ipotesi in cui il valore dei diritti trasferiti corrisponda all’ammontare della lesione, o parziale, come vedremo, nel caso in cui possa darsi la prova di una maggior consistenza della lesione e sempre che le parti non abbiano preventivamente rinunciato ad ogni eventuale differenza).
Sotto il profilo degli effetti che l’accordo di integrazione spiega sul diritto del legittimario ad ottenere la riserva, diritto garantito dalla legge con l’azione di riduzione, specialmente per le somiglianze che il trasferimento effettuato nel suo ambito presenta con le figure dell’adempimento o della prestazione in luogo dell’adempimento, verrebbe da pensare ad una causa esterna.
In senso contrario, tuttavia, ancora una volta giova sottolineare l’inesistenza di un’obbligazione gravante sul beneficiario delle disposizioni lesive, nel senso che non può predicarsi la doverosità del trasferimento, che dipenderebbe da un preesistente atto. In poche parole, la ragione della stipula non può ritrovarsi esclusivamente in un atto precedente all’accordo di integrazione.
Perciò, la causa di quest’ultimo deve trovarsi proprio al suo interno: in particolare, essa consiste nello scopo di soddisfare il diritto potestativo giudiziale del legittimario (causa solutoria in senso ampio). Difatti, si parla di causa solvendi (in senso proprio) quando la prestazione è eseguita in adempimento di un’obbligazione che trova la propria fonte in un atto precedente, quest’ultimo atteggiandosi quale fondamento dell’attribuzione stessa. Nel caso dell’accordo di integrazione, invece, la ragione giustificativa del trasferimento si trova al suo interno, e precisamente nella volontà delle parti di evitare l’esperimento del rimedio legislativamente previsto: l’attuazione del diritto del legittimario dunque non è un atto dovuto, ma voluto. Questo spiega perché possa parlarsi di una causa interna. Ad ogni modo, non può negarsi che l’accordo di integrazione dipende dal diritto del legittimario che preesiste all’accordo stesso. Tale circostanza, però, non deve condurre a giudicare l’accordo come meramente esecutivo del diritto spettante al legittimario, quanto piuttosto a sostenere che esso si integra con quest’ultimo, senza con ciò perdere la propria autonomia. In breve, si vuole sostenere, in una con la dottrina più recente, la compatibilità tra negozi fondamentali (quale sarebbe l’accordo di integrazione) e precedenti rapporti giuridici che dei primi integrino la causa41.
In conclusione, osservato l’accordo di integrazione in modo unitario, può dirsi che la sua causa sia complessa e consista sia nella soddisfazione del diritto del legittimario, sia nel vantaggio ottenuto dal beneficiario delle disposizioni lesive, che si sottrae dalle conseguenze del giudizio di riduzione, stabilizzando il proprio acquisto e rendendo commerciabili anche sotto il profilo di fatto i diritti ricevuti dal defunto.
Si tratta di una causa atipica, che ritengo essere meritevole di tutela, come è dimostrato dal fatto stesso che il legislatore ha predisposto un rimedio giudiziale per l’attuazione del diritto42. Del resto, nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad una progressiva apertura, soprattutto della dottrina, verso atti di trasferimento giustificati da cause diverse da quelle tradizionali dello scambio o della liberalità43: così è ad esempio per
41 Sul punto, si rinvia a X. XXXXXXX, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, pp. 829- 830.
42 Nel senso dell’atipicità della causa e della sua meritevolezza, si veda anche X. XXXXXXXX, L’atipicità dell’accordo di reintegrazione della legittima, in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 506 ss..
43 Xxxxxxxx, quest’ultimo, peraltro assai sfuggente e spesso ritenuto tautologico; sul punto, si veda ROPPO, op. cit., p. 373.
la causa di garanzia e per quella di destinazione (cfr. l’art. 2645-ter, di recente formulazione).
Il limite di un simile accordo è costituito dall’esistenza del rapporto fondamentale, in modo analogo al caso del pagamento di un debito. Perché l’accordo sia validamente stipulato è dunque necessario innanzitutto che il diritto potestativo del legittimario esista. Ove difettasse tale requisito, l’accordo mancherebbe di causa e sarebbe nullo (come sarebbe per una transazione in assenza del rapporto da cui è sorta la contestazione o di un negozio di accertamento qualora mancasse il rapporto giuridico da accertare). Ciò accadrebbe in particolare qualora la parte che avesse assunto la qualifica di legittimario tale in realtà non fosse, perché ad esempio non legato da rapporti di parentela o coniugio con il defunto. Né tale presupposto potrebbe essere superato convenzionalmente, perché costituirebbe accertamento di uno status, certamente sottratto alla disponibilità delle parti. Si capisce allora come una simile circostanza costituisca, anche dal punto di vista redazionale, un presupposto esterno per la stipulazione.
Più complessa l’ipotesi in cui la qualifica di legittimario effettivamente fosse ascrivibile alla parte integrata, ma difettasse completamente il profilo lesivo. Sarei propenso qui a sostenere la nullità dell’accordo, per mancanza di causa.
Sarebbe inoltre richiesto che il valore dei diritti trasferiti dal beneficiario delle disposizioni lesive al legittimario trovasse riscontro nell’ammontare della lesione subita. Ove ciò non accadesse, come ad esempio nel caso in cui il valore dei diritti trasferiti eccedesse l’ammontare della lesione, si verificherebbe un effetto di minore ampiezza: il trasferente avrebbe diritto a ricevere la differenza rispetto a quanto indebitamente ottenuto dalla controparte.
Nel caso opposto in cui il valore dei diritti trasferiti fosse inferiore all’ammontare della lesione come determinata dalle parti, il legittimario avrebbe diritto ad un supplemento. La natura di tale diritto sarebbe potestativa, al pari di quello che gli consentirebbe ordinariamente di ottenere la propria riserva in via giudiziale; non si tratta dunque di un diritto consistente in una pretesa verso il beneficiario delle disposizioni lesive.
Questa soluzione non sarebbe contraddetta dalla causa solutoria (in senso ampio) che si è detto caratterizzare l’accordo di integrazione. Infatti, la volontà delle parti, nel negozio in questione, è soddisfare i diritti di riserva del legittimario; attuare dunque un trasferimento di diritti per un valore corrispondente alla riserva spettantegli; non invece
procedere senz’altro alla stipula di una convenzione che superi ogni eventuale difformità e che sia conseguentemente dotata di profili preclusivi. Con ciò non si intende negare, come vedremo successivamente, che un simile effetto possa essere comunque raggiunto. Si intende semplicemente dire che, perché ciò possa accadere, è necessaria un’ulteriore manifestazione di volontà delle parti che sia orientata in tal senso. E’ cioè necessario che all’atto solutorio funzionalizzato alla soddisfazione del diritto potestativo del legittimario, la cui premessa è la quantificazione del corrispondente valore, si aggiunga tale ulteriore profilo. In mancanza, un errore sulla quantificazione dei diritti di riserva, come detto, non potrebbe attribuire all’atto solutorio un effetto estintivo maggiore di quello indicato, che gli è proprio.
Si capisce pertanto l’importanza concettuale, nel caso dell’accordo di integrazione, del momento logico preventivo consistente nella verifica delle condizioni che avrebbero permesso di ottenere la riduzione (determinazione dell’an e del quantum della lesione). Detta determinazione, sulla base di quanto già detto, non avrà valore di accertamento in senso sostanziale, ma valore probatorio: la parte che intendesse dimostrare il contrario, adducendo la nullità dell’accordo per mancanza di causa o chiedendo la restituzione di parte dei diritti trasferiti, lamentando una diversa consistenza della lesione, avrà l’onere di dimostrare tale circostanza.
E’ appena il caso di precisare che il momento della determinazione della lesione potrebbe anche mancare nell’accordo di integrazione, senza che esso possa per ciò solo dirsi mancante di causa. L’esistenza di una lesione, infatti, sarà sottintesa dal fatto stesso di aver stipulato un accordo integrativo della legittima, così come l’ammontare della medesima sarà implicitamente rapportata al valore assunto dai diritti trasferiti. L’onere di provare l’inesistenza della lesione o la sua diversa consistenza spetterà alla parte che pretendesse sostenere la nullità dell’accordo ovvero il diritto ad ottenere una restituzione parziale di quanto trasferito (è il caso del beneficiario delle disposizioni lesive) o un supplemento. Si conferma dunque la centralità della causa integrativa nell’accordo in questione.
10. Gli altri elementi e caratteristiche dell’accordo: patrimonialità e bilateralità. – In base a quanto detto, la natura patrimoniale dell’accordo è fuori discussione. E’ ancora una volta il caso
di ribadire che non si determina alcuna modificazione della delazione successoria (nel caso di lesione prodotta mortis causa), ciò che potrebbe indurre in effetti a sostenerne la natura non patrimoniale. Al contrario, con esso si pone in essere un trasferimento dal beneficiario delle disposizioni lesive al legittimario, avente ad oggetto diritti ricevuti dal defunto (o anche diritti diversi, come vedremo) per un valore corrispondente a quello della legittima lesa (o della porzione di legittima lesa dalla singola liberalità in discussione, in caso di lesione prodotta da una serie di atti). In poche parole, è la natura stessa dell’atto, che si atteggia come traslativo di diritti, che lo qualifica come patrimoniale.
Si tratterebbe inoltre di un atto bilaterale, che richiede non solo il consenso, come è evidente, del trasferente, ma anche quello del legittimario. Per giustificare questa affermazione, è sufficiente sottolineare la diversità tra l’azione di riduzione e l’accordo di integrazione. La prima consente la soddisfazione del diritto del legittimario per mezzo di una sentenza che, colpendo l’atto lesivo, lo rende a lui inopponibile, con la conseguenza che egli acquista i diritti dal defunto e, per coloro che ritengono la legittima una vera e propria quota di eredità, sì da provocare il subentro in una universitas iuris, che li acquista a titolo di erede. Infatti, spetta solo al legittimario decidere se proseguire o intentare l’azione di riduzione, conseguendo il risultato nel modo indicato, o ritenersi soddisfatto del diverso trasferimento effettuato con l’accordo di integrazione.
Per tali motivi, trattandosi di un negozio bilaterale teso alla regolazione di un rapporto giuridico patrimoniale, e precisamente all’estinzione del diritto del legittimario, risulta confermata l’appartenenza dell’accordo in questione alla categoria del contratto.
11. L’accordo di integrazione in rapporto all’eventuale lite. Le reciproche concessioni attraggono la convenzione nell’ambito della transazione. L’adesione all’altrui pretesa e la riformulazione delle reciproche pretese non costituiscono di per sé atti di integrazione, essendo necessaria l’ulteriore fase traslativa dei diritti. – Mi pare utile a questo punto ribadire la diversità tra l’accordo di integrazione e la transazione. Se è vero, infatti, che la stipula dell’accordo suppone di regola l’istanza stragiudiziale del legittimario, si delineano i tratti di una situazione conflittuale tra legittimario e beneficiario: il primo lamenta la violazione di un proprio diritto; il secondo rischia, qualora la pretesa
fosse riconosciuta fondata nell’eventuale giudizio, di perdere in tutto o in parte i beni oggetto della disposizione che si asserisce lesiva.
Tuttavia, si tratta di una conflittualità allo stato ancora distinta da quella che connota la transazione. Quest’ultima, per insegnamento comune, deve innanzitutto calarsi in un contesto in cui la pretesa di una delle parti sia oggetto di contestazione (d’altra parte, la mancata contestazione della pretesa difficilmente potrebbe condurre alla reciprocità delle concessioni; più logico allora sarebbe ravvisare la c.d. adesione all’altrui pretesa, pacificamente estranea al tipo-transazione). E’ ciò che va sotto il nome di res litigiosa: la lite infatti è la situazione che consegue ad una pretesa contestata (conflitto in senso giuridico)44. Il negozio con cui si soddisfi la pretesa del legittimario non contestata dal beneficiario, dunque, è estraneo al concetto di transazione.
Peraltro, non può negarsi che nella maggioranza dei casi la pretesa del legittimario è nella prassi contestata e che dunque l’accordo di integrazione si atteggia anche come contratto di composizione della lite. In questa eventualità, possono a sua volta darsi alcune diverse ipotesi.
A) Innanzitutto, può accadere che la lite sia superata mediante reciproche concessioni. In questo caso, come si è già visto, si tratta di una vera e propria transazione, con la quale si innova la situazione giuridica preesistente, sulla quale le parti trascurano di indagare (attività prospettiva e non retrospettiva). Proprio per questo motivo, per l’inesistenza quindi della volontà di integrare la legittima di una delle parti in lite, dimostrata dall’inesistenza di un’attività di indagine tesa a prendere coscienza del modo di essere della situazione giuridica in contestazione, non si può parlare di accordo di integrazione in senso proprio. Il legittimario avrà sì ottenuto alcunché, a fronte della pretesa avente ad oggetto la lesione della propria legittima, ma non v’è certezza dell’integrazione della legittima medesima (o, se di fatto integrazione v’è stata, ciò è effetto del caso e della “lungimiranza” del legittimario, che abbia avanzato una pretesa eccedente il proprio diritto sostanziale violato, soddisfatta esattamente per la parte integrante la legittima45); anzi, dal punto di vista tecnico-giuridico, è vero l’esatto contrario: dovendo sussistere nella transazione reciproche concessioni, il legittimario che lamenti a buon diritto una certa lesione non potrà mai ricevere, per mezzo di una transazione, l’intero valore della lesione affermata.
B) La seconda ipotesi invece si verifica quando il beneficiario delle disposizioni asseritamene lesive desista dalla propria iniziale
44 Sul punto, da ultimo, X. XXXXXXXX, op. cit., p. 508.
45 Il punto è stato già trattato al Cap. II, §5.
posizione di lite ed aderisca alla pretesa del legittimario (c.d. riconoscimento dell’altrui pretesa). Ciò può accadere, ad esempio, proprio nel caso in cui si effettuino indagini che convincano il beneficiario delle disposizioni lesive della ragionevolezza della pretesa del legittimario. Mancando il requisito delle reciproche concessioni, può affermarsi l’estraneità rispetto al tipo transazione46. Infatti, l’adesione all’altrui pretesa non si inserisce nel contesto sinallagmatico di desistenza dalla posizione di lite allo scopo di ottenere analogo comportamento dalla controparte, ciò che caratterizza la transazione, ma è resa a prescindere da tale aspetto. Conseguentemente, sebbene l’intenzione dell’aderente sia quella di comporre la lite, ciò non avviene per mezzo del requisito essenziale per ogni transazione: la reciprocità delle concessioni.
Si fa attuale allora il quesito circa la causa di un simile negozio, non potendo essere quella transattiva. Secondo parte della dottrina, infatti, si deve ritenere «non attuabile dall’autonomia privata una composizione tout court della controversia», al di fuori di un «elemento di qualificazione che sia in grado, in analogia al ruolo svolto dalle reciproche concessioni nella transazione, di “colorire” l’effetto meramente compositivo attribuendogli quel grado di complessità funzionale sufficiente a giustificare, sotto il profilo della meritevolezza, il riconoscimento giuridico»47, elemento che, nel caso in esame, è ravvisato, dall’impostazione menzionata, nella rimozione dello stato di incertezza.
Bisogna verificare peraltro se nella situazione ora in esame alla desistenza dalla propria posizione iniziale di lite faccia seguito o meno un atto di trasferimento in favore del legittimario.
Nel primo caso, la natura del negozio sarà quella dell’accordo di integrazione (in senso proprio), con la particolarità che esso avrà al tempo stesso superato la lite. Si assiste infatti a dichiarazioni delle parti in merito all’ammontare della lesione (la pretesa, inizialmente contestata, cui si adegui la dichiarazione della controparte)
Nel secondo caso, l’accordo non potrà essere qualificato integrativo. Infatti, la coincidenza tra pretesa del legittimario e valutazione della controparte sull’entità della lesione costituisce, come si è visto, solamente il primo segmento dell’accordo di integrazione in
46 Diversamente, X. XXXXXXX, Gli atti con funzione transattiva, Milano, 2002, p. 620 ss., il quale assegna al riconoscimento dell’altrui pretesa, reso fuori o dentro il processo (a patto che la pretesa sia stata fatta precedentemente oggetto di contestazione), funzione transattiva, essendo l’effetto di composizione della controversia prevalente rispetto a quello del superamento dell’incertezza (cfr. anche p. 611 ss.).
47 X. XXXXXXX, op. cit., p. 618.
senso proprio. Manca qui la parte centrale dell’accordo, consistente nel trasferimento dei diritti in favore del legittimario. Le parti, quindi, avranno semplicemente superato, sul piano probatorio, l’incertezza sull’an e sul quantum della lesione.
C) L’esame della fattispecie da ultimo citata fa venire in mente un’ulteriore ipotesi, della quale per completezza bisogna occuparsi: quella della pretesa contestata, e quindi della lite, che sia stata superata da un accordo con cui beneficiario e legittimario, acquisita coscienza dell’entità della situazione giuridica oggetto di contestazione, reciprocamente desistono dalle posizioni di lite.
La somiglianza con la transazione è troppo stringente per non chiedersi se effettivamente non si tratti della figura tipizzata agli artt. 1965 ss.. Infatti, esiste sia una lite che le parti compongono contrattualmente che una reciproca desistenza dalle posizioni di lite. Tuttavia, a me pare che quando la lite è superata mediante un’attività concordemente condotta da entrambe le parti o dai loro rappresentanti (mi viene in mente a quest’ultimo riguardo alla stipula di un compromesso per superare la lite) avente ad oggetto l’analisi della situazione giuridica oggetto di contestazione, si è fatto qualcosa di diverso dal rinunciare alle reciproche posizioni di lite. In altri termini, a mio parere bisogna distinguere tra “concessione”, intesa come desistenza dalla propria iniziale pretesa fatta con l’intenzione di ottenere analogo comportamento dalla controparte, allo scopo di comporre la lite, pur nella consapevolezza di avere un diritto corrispondente a quello originariamente affermato (quando la pretesa sia avanzata in buona fede o almeno senza la volontà di desistere gratuitamente in favore della controparte), e “riformulazione” della propria pretesa, in esito ad attività di indagine compiute dalle parti. In quest’ultimo caso, le reciproche pretese come riformulate da ambo le parti, che per avventura coincidano nel contenuto, attuando il superamento della lite, non possono essere qualificate come reciproche concessioni ai sensi dell’art. 1965, perché non può dirsi che ciascuna sia legata all’altra da un nesso di corrispettività, essendone differente la genesi. Né si dica in contrario, per evidente irragionevolezza, che le parti sarebbero vincolate dalle iniziali pretese, che non potrebbero quindi essere modificate se non integrando lo schema della transazione.
Dicevo prima, in un inciso tra parentesi, che il caso fa balzare all’attenzione quello del compromesso in arbitri, del quale brevemente mi permetto di occuparmi, pur non costituendo oggetto della presente analisi, per l’interessante aspetto teorico che esso presenta. Infatti, si assiste ad un
meccanismo simile a quello appena trattato: la situazione giuridica controversa non è superata ricorrendo a reciproche concessioni, ma è fatta oggetto di chiarificazione da parte di soggetti estranei alle parti, in veste di arbitri. Poiché anche in tale ipotesi la lite è superata per mezzo dell’indagine sul modo di essere della situazione giuridica controversa, e quindi con valutazione retrospettiva (a differenza della transazione), che conduce al risultato della conoscenza (soggettiva, s’intende) della sua esatta consistenza, non può parlarsi di reciproche concessioni e conseguentemente di transazione. Ciò è dimostrato dal fatto che il lodo può benissimo essere pronunciato in totale adesione alle pretese di una delle parti. Non si tratta quindi di una transazione firmata in bianco, il cui contenuto sarebbe determinato da un terzo (l’arbitro).
D’altra parte, nel caso esaminato alla presente lettera C) manca il profilo integrativo: sembrerebbe cioè che l’effetto delle attività e delle dichiarazioni delle parti sia stato unicamente quello di esternare la conoscenza che ciascuno abbia raggiunto in merito alla situazione giuridica in contestazione. In poche parole: come nella seconda ipotesi di cui alla precedente lettera B), per raggiungere lo scopo dell’integrazione, occorrerebbe un ulteriore atto, quello traslativo dei diritti in favore del legittimario.
12. I soggetti: il legittimario come parte necessaria dell’accordo. Impossibilità di ravvisare l’integrazione della legittima in una stipulazione a favore del legittimario ai sensi dell’art. 1411. – Come visto, la stipula dell’accordo di integrazione prevede il consenso del legittimario. Spetta al legittimario infatti determinare, insieme alla controparte, l’ammontare della lesione, con dichiarazione che, sotto il profilo probatorio, vincola le parti fino a prova contraria. Sempre al legittimario spetta accettare, ad integrazione della propria legittima, la determinazione sul valore dei diritti ricevuti con la stipula dell’accordo: tale valore, infatti, non potrà essere messo successivamente in discussione48. Profilo ancora più importante, come già detto, il legittimario deve manifestare il proprio consenso in ordine alla idoneità
48 E’ questa una conseguenza del profilo dispositivo posseduto dal segmento dell’accordo che si sostanzia nel trasferimento. Trattandosi di una volontà negoziale, il cattivo uso dell’autonomia privata, la quale assegni un valore sproporzionato ai diritti oggetto del contratto, e sempre che non si versi in situazioni patologiche (come ad esempio qualora una delle parti approfitti dello stato di bisogno dell’altra o qualora una delle parti incorra in un vizio del consenso), non è tutelato dall’ordinamento.
del trasferimento contenuto nell’accordo di integrazione a porsi come surrogato della sentenza giudiziale di riduzione, attesa la diversità strutturale ed effettuale tra l’uno e l’altra.
Si tratta dunque di un contratto a parte qualificata. La qualità di legittimario, che discende nel nostro ordinamento da un vincolo di sangue o giuridico (coniugio e adozione), non può peraltro formare oggetto, a pena di nullità, di alcuna attività di accertamento da parte dei privati. Essa infatti concerne una questione di stato: la filiazione, il rapporto di coniugio, l’adozione, da cui dipende la qualifica di legittimario. La conseguenza è che detta qualità costituisce un presupposto dell’accordo di integrazione sul quale le parti non possono minimamente incidere.
Nemmeno è possibile ipotizzare un accordo di integrazione stipulato secondo lo schema del contratto a favore del terzo di cui all’art. 1411, dove per terzo si intenderebbe il legittimario.
Innanzitutto, la necessità che, al fine di effettuare il trasferimento in suo favore, vi siano un promittente ed uno stipulante, condurrebbe ad escludere che il promittente possa trasferire beni già in propria titolarità. Infatti, in quest’ultimo caso si tratterebbe piuttosto di una proposta tesa alla conclusione dell’accordo di integrazione, onde il quesito, che sarà affrontato a breve, sarebbe diverso, e precisamente verterebbe sulla possibilità che l’accordo possa intervenire tra legittimario e persona diversa dal beneficiario, ciò che a sua volta suppone l’ammissibilità di un accordo non avente ad oggetto beni già appartenuti al defunto.
Inoltre, ammesso che il promittente sia disposto ad acquistare diritti da terzi allo scopo di soddisfare la legittima altrui (ed eventualmente beneficiare lo stesso soggetto passivo dell’azione, estraneo in questo caso all’accordo), ed ammesso anche, come vedremo, che l’accordo di integrazione possa avere ad oggetto beni non ereditari o non costituenti oggetto delle disposizioni lesive inter vivos, non si tratterebbe di un trasferimento ad esclusivo favore del terzo, perché il legittimario, proprio affinché si possa qualificare l’atto in questione come integrativo della legittima, dovrebbe imputare il valore dei diritti ricevuti a tacitazione dei propri diritti di riserva. Quest’ultima considerazione, in particolare, esclude che lo scopo dell’accordo di integrazione in senso proprio (i.e.: soddisfacimento della legittima) possa essere realizzato per mezzo della pattuizione a favore del terzo.
Rimane ora da verificare se l’accordo possa intervenire tra legittimario e persona diversa dal beneficiario delle disposizioni lesive. Il quesito in realtà dipende e segue la stessa sorte di quello riguardante la possibilità o meno che il trasferimento a tacitazione della legittima abbia
ad oggetto beni diversi da quelli ricevuti, inter vivos o mortis causa, dal defunto. Per ragioni sistematiche, mi occuperò ora di questo aspetto.
13. L’oggetto. Possibilità di un accordo avente ad oggetto beni non riferibili al defunto. – L’inidoneità della figura del negozio di accertamento a spiegare il fenomeno dell’accordo di integrazione, come si è visto, è il motivo principale che induce a ravvisarne l’essenza in un vero e proprio trasferimento dal beneficiario delle disposizioni lesive al legittimario.
La già analizzata differenza strutturale ed effettuale tra sentenza di riduzione ed accordo di integrazione spiega poi il perché sia necessaria la partecipazione del legittimario leso o pretermesso all’accordo stesso.
Infine, l’idoneità di un simile accordo a soddisfare i diritti di riserva del legittimario lo caratterizza causalmente, sì che diventa agevole percepire la differenza tra questa figura e gli altri negozi che realizzano solamente in senso economico l’interesse del legittimario.
Si capisce quindi che il momento causale diviene centrale al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un accordo di integrazione della legittima. Xxxxxxx ora chiedersi se sia essenziale, per realizzare tale scopo, che i diritti trasferiti al legittimario siano gli stessi che il suo xxxxx causa ricevette dal defunto ovvero se sia possibile anche perseguirlo trasferendo diritti mai appartenuti all’ereditando.
La risposta al quesito è già contenuta nella premessa appena svolta: dal momento che la causa dell’accordo consiste nella soddisfazione “interessata” (perché con la sua stipula il beneficiario delle disposizioni lesive consolida il proprio acquisto, sottraendosi all’azione di riduzione) del diritto del legittimario, e visto che tale effetto può essere raggiunto solo col suo consenso, a lui spettando stabilire se il trasferimento contenuto nell’accordo soddisfi il proprio diritto alla riserva, la provenienza dei diritti oggetto dell’accordo passa in secondo piano. Si vuole cioè esprimere il principio per cui la legge garantisce, in favore di determinati soggetti, dei diritti sul patrimonio in senso ampio del defunto (comprensivo anche del donatum), disinteressandosi sul modo in cui essi sono ottenuti dal legittimario. La possibilità quindi che i diritti in questione siano sostituiti, con il consenso del legittimario, con diritti dai diversi caratteri (sc.: non appartenuti al patrimonio del defunto), non toglie all’acquisto la caratteristica di essere stato effettuato a titolo di soddisfazione della legittima.
Riprova di tale ragionamento è la necessità di imputare alla propria porzione, ai sensi dell’art. 564, comma 2, «le donazioni e i legati a lui fatti» (e, come è pacifico, le liberalità mortis causa a titolo universale), quando non esiste alcuna norma che circoscriva tale regola ai soli diritti già appartenuti al defunto. Si vuole cioè dire che il testatore è libero di disporre in favore dei propri legittimari, a titolo di legato, di diritti di qualsiasi genere, anche non facenti parte dell’asse; che il legato, e conseguentemente i diritti che ne costituiscono l’oggetto, «si acquista senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di rinunziare» (art. 649, comma 1); che qualora il legittimario non eserciti tale facoltà, conseguendo il legato, esso è soggetto all’enunciata regola dell’imputazione; che qualora il suo valore eguagli o ecceda quello della legittima, la regola dell’imputazione preclude l’accoglimento dell’azione di riduzione; che dunque ogni attribuzione a titolo di legato è idonea, indipendentemente dall’oggetto, a porsi in acconto o anche a saldo della legittima; che conseguentemente è dimostrato che la legittima possa essere soddisfatta a mezzo di trasferimenti di diritti non esistenti nell’asse (o comunque non appartenuti al defunto).
Analogamente accade nel legato sostitutivo di cui all’art. 551, che per la dottrina assolutamente prevalente può avere ad oggetto diritti non esistenti nell’asse, senza per ciò perdere la propria natura sostitutiva (o satisfattiva), come è detto nella norma stessa.
In entrambi i casi, sia del legato ordinario, che di quello in sostituzione della legittima, perché si verifichino gli effetti descritti è necessario il consenso, anche tacito (espresso per contegno concludente), del legittimario, che accetti espressamente il lascito o consegua il possesso del bene che ne formò oggetto, precludendosene così la rinuncia (rectius: rifiuto eliminativo), e non è un caso che nell’accordo di integrazione abbia ritenuto necessaria la partecipazione del legittimario49. Se per aversi accordo di integrazione non è necessario che il trasferimento abbia ad oggetto diritti ereditari in senso ampio, non è invece, come visto, vero l’inverso: non ogni trasferimento effettuato in favore del legittimario che abbia ad oggetto beni già spettati all’ereditando si qualifica come integrativo della legittima. E’ il caso, ad
esempio e come già visto, della transazione.
49 Peraltro, un punto di importanza non marginale è che, se non anche quello attuato con beni ereditari, almeno l’accordo di integrazione attuato con diritti non ereditari costituirà un trasferimento assoggettabile all’imposta proporzionale di registro (sul punto, rinvio al
§24).
14. I soggetti: il beneficiario delle disposizioni lesive quale parte non necessaria dell’accordo. – La possibilità che l’accordo di integrazione possa aversi anche quando sia previsto il trasferimento di diritti non riferibili al defunto apre la strada alla partecipazione all’atto anche di persone diverse dal beneficiario delle disposizioni lesive.
In quest’ultimo caso, però, si pone il problema della causa del trasferimento effettuato dal terzo in favore del legittimario. Infatti, se l’interesse del legittimario (conseguimento della propria riserva) sussiste inalterato, rispetto alla sentenza di riduzione, nell’accordo intercorso tra legittimario e beneficiario, qui non può essere chiamato in gioco l’interesse del dante causa ad attuare il diritto del legittimario, in mancanza di ulteriori elementi; egli infatti è persona diversa dal soggetto passivo dell’azione.
Ciononostante, l’interesse del terzo alla stipulazione potrebbe comunque sussistere. Infatti, se è vero che la causa dell’accordo ha natura solutoria in senso ampio (nel senso cioè che non si pone quale pagamento di un debito in senso tecnico, ma attua un diritto potestativo), non sussistono ostacoli di ordine concettuale ad ammettere che tale effetto possa provenire da un terzo.
Il terzo potrebbe poi risolversi alla stipula dell’accordo col legittimario per i motivi più vari. Ad esempio, il trasferimento al legittimario potrebbe essere fatto per spirito di liberalità verso il beneficiario delle disposizioni lesive, che così consoliderebbe il proprio acquisto: l’accordo di integrazione allora si atteggerebbe quale negozio indiretto e, precisamente, donazione indiretta. Si può poi pensare all’esistenza di una causa esterna, solvendi, che spinge il terzo al trasferimento (in adempimento di un’obbligazione assunta in tal senso, come ad esempio un mandato senza rappresentanza): la causa dell’accordo sarebbe allora solutoria in senso ampio; l’interesse del terzo sarebbe solutoria in senso tecnico (nei suoi rapporti col beneficiario delle disposizioni lesive).
La struttura di un simile accordo sembrerebbe potersi giustificare, ad una prima analisi, ricorrendo alla figura del contratto a favore di terzi, previsto dagli artt. 1411 ss.. Qui, naturalmente, il terzo non prenderebbe il posto del legittimario, ciò che abbiamo visto non essere possibile, ma del beneficiario delle disposizioni lesive.
L’accostamento comunque deve essere valutato con cautela, dal momento che, tecnicamente, il legittimario (cui spetterebbe la qualifica di promittente) non effettua una prestazione in senso proprio verso il
beneficiario delle disposizioni lesive: semplicemente, il trasferimento effettuato allo scopo di integrare la legittima comporta la carenza di interesse per il legittimario a coltivare il giudizio di riduzione. Se quella del beneficiario delle disposizioni lesive fosse una posizione di obbligo, si direbbe qui sussistere una causa solvendi, un atto solutorio, che estingue l’obbligazione. Ma appunto, una cosa è l’estinzione che consegue al pagamento (o alla prestazione eseguita in luogo dell’adempimento); altro è una prestazione del promittente che lo stipulante decida di attribuire, anziché a sé, al terzo. Infatti, se di vera prestazione si trattasse, qui vi sarebbe un’anomalia della quale sarebbe interessante occuparsi: in caso di rifiuto del terzo, non sarebbe possibile fissarla in capo allo stipulante. Anomalia peraltro solo apparente, perché in realtà questo secondo problema è risolto a monte e conferma la validità della prima obiezione: non esiste in realtà alcuna prestazione da parte del legittimario, motivo per cui il richiamo allo schema del contratto a favore del terzo non è pertinente.
La struttura, allora, sia pure con l’importante precisazione che nel caso dell’accordo non v’è alcuna obbligazione da soddisfare, potrebbe avvicinarsi piuttosto a quella dell’adempimento del terzo (cfr. art. 1180).
15. L’efficacia dell’accordo sotto il profilo temporale: l’irretroattività degli effetti. – Si è visto come l’accordo di integrazione non possa incidere sull’atto lesivo, rendendolo inefficace, in tutto o in parte. Esso può solamente raggiungere il risultato di soddisfare il diritto del legittimario per mezzo di un’attività dispositiva che trasferisca in suo favore determinati diritti. Per tale motivo, si capisce come gli effetti dell’accordo non possano assolutamente retroagire rispetto alla stipula dell’atto e, particolarmente, non possano risalire all’apertura della successione.
Con ciò è quindi radicalmente escluso che il legittimario integrato, che non sia già erede per essere stato destinatario di una delazione, testamentaria o ab intestato, sia pure con un contenuto insufficiente per il soddisfacimento dei diritti di riserva (c.d. legittimario leso, in contrapposizione a quello pretermesso), possa divenirlo per effetto della stipula dell’accordo.
Questo spiega anche come mai sia irrilevante, giunti a questo punto, chiedersi se l’accordo di integrazione violi o meno l’art. 457, comma 1: «L’eredità si devolve per legge o per testamento». Infatti, anche una volta stipulato l’accordo, erede rimarrà unicamente il soggetto
(o i soggetti) istituito, quest’ultimo avendo semplicemente ritrasferito in tutto o in parte i diritti ricevuti dal defunto.
16. Acquisto dal beneficiario e regime patrimoniale del legittimario integrato. – Poiché l’accordo di integrazione si sostanzia in un trasferimento di diritti dal beneficiario delle disposizioni lesive al legittimario, impregiudicate la validità e l’efficacia del testamento o delle liberalità inter vivos, diventa attuale il problema dell’inclusione o meno di detti diritti nella comunione legale o convenzionale eventualmente in essere tra il legittimario acquirente ed il proprio coniuge.
Infatti, non è così immediata, al fine di escludere l’acquisto dalla comunione, l’applicazione dell’art. 179, lett. b): «Non costituiscono oggetto della comunione e sono beni personali del coniuge […] i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione». E non lo è perché qui manca l’acquisto per successione (s’intende, mortis causa), se ci si limita ad analizzare il trasferimento dal beneficiario al legittimario, prescindendo dalla sua causa. Abbiamo visto infatti come l’accordo di integrazione non determini l’inefficacia della disposizione lesiva, con la conseguenza che il legittimario non può in alcun modo essere considerato avente causa dal defunto.
Piuttosto, sembrerebbe maggiormente pertinente il richiamo alla lett. f) del medesimo art. 179, risultando esclusi dalla comunione «i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto». Il ragionamento è il seguente: non c’è dubbio che il diritto ad agire in riduzione e, ancor prima, il diritto sostanziale alla legittima che con detta azione è attuato, costituisca un bene personale ai sensi dell’art. 179, lett. b) (rispetto al quale peraltro, ai sensi dell’art. 549, l’ereditando non potrebbe stabilire diversamente, sancendone l’attribuzione alla comunione). L’accordo intercorso tra il titolare di detto diritto ed il beneficiario delle disposizioni lesive potrebbe allora essere interpretato come avente ad oggetto lo scambio (all’interno di tale concetto, nell’idea della norma in esame, ritengo possa essere incluso anche la rinuncia resa verso corrispettivo) tra il diritto in questione e quello sui beni di titolarità del beneficiario. La controindicazione di tale impostazione consisterebbe nella necessità, per ottenere l’esclusione dalla caduta in comunione, dell’espressa dichiarazione di cui all’art. 179, lett.
f) e, soprattutto, qualora i beni trasferiti fossero immobili, della partecipazione all’atto del coniuge non acquirente, ai sensi dell’art. 179, comma 250.
L’alternativa da ultimo indicata, più che per motivi pratici (che non dovrebbero influenzare in alcun modo la questione sulla bontà o meno della soluzione sul piano teorico), mi sembra meno aderente alla struttura ed alla causa che si è visto essere proprie dell’accordo di integrazione: con un simile negozio, più che rinunciare all’azione di riduzione, il legittimario attua il proprio diritto alla legittima, sì che l’azione stessa non potrebbe essere utilmente esercitata per carenza di interesse. Non si assiste dunque, sul piano giuridico, ad uno scambio tra azione di riduzione e beni oggetto delle disposizioni lesive, ma ad un trasferimento causalmente sorretto dagli scopi più volte indicati.
Pare allora più pertinente il richiamo alla già citata lett. b) dell’art. 179, senza tuttavia scomodare il tema della sua interpretazione analogica51, assai delicato, stante il dubbio sull’eccezionalità della norma52, ma facendo ricorso al concetto di attuazione del diritto (parlerei di adempimento o di prestazione in luogo di adempimento se non avessi chiarito e non fossi convinto che il beneficiario delle disposizioni lesive
50 Per parte della dottrina, peraltro, la partecipazione in questione potrebbe essere supplita dall’instaurazione contro il coniuge non interveniente di un giudizio teso all’accertamento della natura personale del bene scambiato. Ciò è sostenuto partendo dal postulato (che ritengo corretto) che la partecipazione del coniuge non acquirente altro valore non abbia che quello di una dichiarazione di scienza, la quale appunto potrebbe essere supplita da un accertamento giudiziale.
51 Di questa opinione è invece XXXXXXXX, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. not., 2006, p. 446, anche a proposito dell’acquisto compiuto in occasione del patto di famiglia.
52 Che ritengo comunque di risolvere negativamente: infatti, l’art. 177, lett. a), che prevede in via ordinaria la caduta in comunione degli acquisti compiuti dai coniugi durante il matrimonio, non è espressione di una “regola generale” (cfr. art. 14 disp. prel. c.c.), derogata eccezionalmente, senza possibilità di estensione analogica, dall’art. 179, bensì di un principio con valore equivalente a quello contenuto nella norma da ultimo citata. Ciò è dimostrato dallo stesso tenore dell’art. 177, primo comma, lett.a), il quale non è assoluto, ma fa salvi gli acquisti relativi ai beni personali, limitando quindi la portata del principio ivi espresso con riferimento al contenuto di altra norma (come dire, agli acquisti compiuti dai coniugi “si applica il principio x quando non si applica il principio y” e non semplicemente “si applica il principio x”). In altre parole, non si tratta di un principio generale, derogato da una norma eccezionale, ma di due norme speciali (perché è possibile il diverso regime patrimoniale della separazione dei beni, vero ed unico regime patrimoniale “totalizzante”, nel senso di generale, della famiglia, come riconosce la dottrina) che si integrano e completano a vicenda, con elencazioni pariordinate sul piano del valore. La conseguenza è che ciascuna delle due norme deve essere interpretata secondo i normali canoni, senza preclusioni per quello basato sull’analogia.
non può dirsi debitore nei confronti del legittimario): il legittimario ha ricevuto in virtù di legge un diritto sostanziale a contenuto patrimoniale (il diritto alla legittima), a tutti gli effetti acquisito “per effetto di successione”, il quale, per mezzo di un negozio inter vivos, è attuato concretamente nel modo indicato. Si può quindi riassumere il fenomeno affermando trattarsi di un acquisto inter vivos che attua (senza ricorrere ad uno scambio) un diritto ottenuto mortis causa. I beni sono trasferiti al legittimario per soddisfare la sua riserva: il diritto acquisito per successione, se mi si perdona il termine, è “riempito” dall’attribuzione del diritto (di proprietà, di usufrutto, ecc…) su beni determinati. In definitiva, la funzione attuativa del diritto alla legittima che connota l’accordo fa sì che un trasferimento non liberale, non riconducibile, ordinariamente, al concetto espresso dall’art. 179, lett. b), completi un diritto già acquisito come bene personale per effetto di successione a causa di morte.
Tale soluzione non è tra l’altro contraddetta dal tenore dell’art. 179, lett. b), che lascerebbe intendere che l’esclusione possa conseguire unicamente ad un passaggio diretto tra defunto e legittimario (questo sarebbe il significato più immediato del concetto di “successione”). Vi sono dei casi, infatti, in cui l’acquisto per effetto di successione non può condurre all’esclusione del bene dalla comunione: si pensi al debitore che leghi al proprio creditore la somma di denaro dovuta o un bene diverso da quello dovuto e che altrimenti sarebbe caduto in comunione con il coniuge (immediata o de residuo). Possiamo fondatamente sostenere che decisivo sia il fatto dell’acquisto mortis causa? La domanda è retorica, perché la norma deve essere interpretata secondo l’intenzione del legislatore (art. 12 disp. prel. c.c.), il quale ha mostrato di ritenere essenziale il concetto di liberalità, inter vivos o mortis causa, piuttosto che la struttura dell’atto, motivo per cui un atto solutorio non cessa di essere tale solamente per il fatto di essere compiuto in occasione della propria morte. Allora, non è quindi vero, specularmente, che ogni atto inter vivos diverso dalla donazione esuli dall’ambito applicativo dell’art. 179, lett. b), dovendosi piuttosto verificare se esso trovi la propria giustificazione in una liberalità, inter vivos o anche mortis causa (si pensi al legato di cosa dell’onerato, attuato per mezzo di un negozio inter vivos e certamente escluso dalla comunione). E’ il caso appunto dell’accordo di integrazione, con la sola differenza che il concetto di liberalità qui deriva dalla legge, e cioè dalle norme della successione necessaria: poco importa che questo risultato sia ottenuto direttamente dal defunto, che intende sottrarre il proprio testamento ad impugnazione, o dal giudice o dallo
stesso beneficiario delle disposizioni lesive. Il fatto poi che quest’ultimo non sia tecnicamente tenuto al trasferimento non ha al riguardo alcuna rilevanza: quel che conta è la giustificazione casuale del trasferimento, che è appunto attuativa del diritto successorio del legittimario.
17. Gli effetti dell’accordo sul piano sostanziale: la funzione subordinata di accertamento e l’efficacia preclusiva. – Più volte, nel corso del presente lavoro, ho affermato che si parla di accordo di integrazione (in senso proprio) quando l’attività delle parti si appunta, anche implicitamente, sulla determinazione dell’ammontare della lesione e conseguentemente attua un trasferimento in favore del beneficiario di diritti di valore corrispondente. Scopo dell’accordo, infatti, sarebbe quello di far conseguire al legittimario esattamente quanto avrebbe ottenuto se avesse agito vittoriosamente in riduzione53.
Può tuttavia accadere che successivamente alla stipula dell’accordo si venga a conoscenza di una diversa consistenza del patrimonio del defunto, sì che i calcoli effettuati dalle parti per determinare l’ammontare della lesione (o la conoscenza che esse comunque ne abbiano avuto, anche al di fuori di una simile attività) si rivelino inesatti54.
Un problema simile si riscontra anche nell’ambito del negozio di accertamento, ove ci si chiede se debba prevalere la situazione reale o quella accertata, nell’ipotesi di riscontrata divergenza. La risposta dipende dalla tesi cui si preferisca aderire intorno alla natura giuridica ed agli effetti del negozio di accertamento. Aderendo alle teorie dichiarative in senso proprio55, che ritengono tale negozio dotato in definitiva di un semplice valore probatorio, prevarrà la situazione giuridica reale, sol che
53 Nulla vieta, comunque, che il legittimario possa accontentarsi di diritti di valore inferiore alla propria riserva. Qualora tale risultato segua la determinazione della lesione, le parti avranno stipulato un accordo parzialmente satisfattivo della legittima. Per la differenza, la volontà del legittimario assumerebbe il carattere della rinuncia.
54 E’ il caso giunto all’attenzione del Trib. Milano, 10 maggio 2006, in Nuova giur. civ. comm., 2007, p. 502 ss. (annotata da X. XXXXXXXX, cit.), e risolto nel senso della irrilevanza della diversità di valore, in quanto le parti menzionarono la volontà di attuare il trasferimento «anche a titolo transattivo».
55 Cfr. per tutti C.M. BIANCA, Diritto civile. 3 – Il contratto, Milano, 2000, p. 527:
«L’accertamento negoziale non ha efficacia costitutiva. L’accertamento è infatti diretto alla verifica di un rapporto preesistente ed è quindi inidoneo a creare un titolo cui non corrisponda la realtà del rapporto accertato. Conseguentemente le parti possono sempre provare che il loro rapporto è diverso rispetto a quello accertato» nonché ROPPO, Il contratto, in Tratt. dir. priv. a cura di Xxxxxx e Zatti, Milano, 2001, p. 524-525.
se ne possa dare la prova56. Accogliendo invece le teorie costitutive57, che ne postulano un’efficacia innovatrice58, la situazione giuridica avrà efficacia tra le parti nel modo in cui essa è stata enunciata dalle parti.
Analogamente, nel caso che ci occupa, ci si deve interrogare se il legittimario che risulti aver ricevuto beni di valore inferiore alla riserva abbia il diritto (potestativo giudiziale) di ricevere un supplemento o, nel caso opposto, se debba restituire l’eccedenza. Mutuando l’espressione riferita al tema dell’accertamento, il quesito si può anche formulare in questi termini: l’accordo di integrazione è dotato o no di un’efficacia preclusiva?59
Il problema si pone innanzitutto nel caso in cui le parti abbiano esplicitato, in seno all’xxxxxxx00, l’ammontare della lesione prodottasi a danno del legittimario. Qui infatti il trasferimento solutorio è effettuato con riferimento ad una lesione di ammontare determinato, sì che l’eventuale divergenza, positiva o negativa, impone di chiedersi quali siano i limiti di tale effetto solutorio.
Posto che si tratta di un trasferimento solutorio, il problema si pone però anche nel caso in cui una siffatta determinazione non sia stata effettuata. Anche in quest’ultima eventualità, infatti (in assenza di indicazioni di segno opposto emergenti dall’accordo), e proprio in
56 Parla di “riconoscimento” e di rilevanza “sul piano probatorio” C.M. XXXXXX, ibidem. Parla di causa di «semplificazione probatoria di una posizione soggettiva preesistente» (corsivo nel testo), ROPPO, op. cit., p. 525.
57 Cfr., in luogo di molti, X. XXXXXXX, Gli atti con funzione transattiva, Milano, 2002,
passim.
58 Ai fini che ci occupano può essere compresa nell’ambito delle teorie costitutive l’originale e brillante tesi dell’efficacia preclusiva, proposta da XXXXXX, voce Accertamento a) Teoria generale, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 205 ss.. L’ambivalenza dell’effetto preclusivo, idoneo a comprendere sia l’ipotesi di conformità che di difformità rispetto alla situazione giuridica accertata, varrebbe infatti ad escludere un’efficacia meramente dichiarativa (si veda FORNACIARI, Lineamenti di una teoria generale dell’accertamento giuridico, Torino, 2002, p. 249, per il quale «l’effetto preclusivo è e rimane, sotto tutti i punti di vista, un effetto costitutivo»).
59 Pur condividendo il rilievo, già menzionato sopra, svolto da FORNACIARI, op. cit., p. 249, a proposito della riconducibilità dell’efficacia preclusiva nell’ambito di quella costitutiva, utilizzo detto termine in funzione della propria ambivalenza, come idoneo cioè a comprendere sia il caso della divergenza che quello della conformità. L’idea che mi sono formato rispetto al negozio (bilaterale) di accertamento è più articolata, trattandosi a mio giudizio di atti non negoziali, dotati di efficacia dichiarativa, accompagnati da un negozio con effetti solo eventualmente dispositivi, e precisamente a valere per il caso della riscontrata divergenza tra la situazione come dichiarata e come effettivamente esistente.
60 Normalmente, ciò potrebbe accadere nella premessa sostanziale dell’atto.
dipendenza del riconosciuto scopo solutorio del negozio, l’ammontare della lesione come ricostruita dalle parti può dirsi determinata. Essa sarà implicitamente fissata mediante relazione al valore dei diritti trasferiti61, ove presente, ovvero, mancando sia l’una che l’altro62, potrà essere ricostruita successivamente ricorrendo, eventualmente anche in giudizio, ad idonea perizia.
Difatti, la struttura verbale in cui si articola l’accordo di integrazione è fisiologicamente orientata verso un trasferimento effettuato a saldo dei diritti di legittima o, detto altrimenti, a completamento (ad integrazione) dei medesimi. Si vuole cioè dire che, sebbene giuridicamente possibile, assai difficilmente la volontà negoziale non lascerà trasparire espressioni che depongano in modo univoco per la natura tacitativa del trasferimento. Di qui si spiega la possibilità che le dette determinazioni siano tutte deduttive rispetto alla causa dell’accordo63. Insomma, la presenza di una causa integrativa spiega come mai si possa supplire alla mancanza (che dunque diviene solo apparente) degli elementi secondari menzionati: posta la natura integrativa della legittima assunta dall’accordo, il resto è una conseguenza.
Così, per esemplificare, quando dal contesto dell’atto emerga la volontà del trasferente di soddisfare integralmente (o di tacitare, ecc…) la legittima dell’attributario (causa integrativa in senso proprio), sul piano giuridico, ancorché secondo una scala decrescente di specificazione e tecnicismo, tutte le seguenti ipotesi saranno trattate allo stesso modo, con riferimento al problema di cui ora ci stiamo occupando (le possibili conseguenze che dovessero emergere rispetto ad una diversa consistenza della vicenda): 1) determinazione della lesione ed indicazione del valore dei diritti trasferiti64; 2) determinazione della sola lesione65 o del solo
61 Tale meccanismo vale anche nel primo caso ipotizzato, quando le parti avessero omesso di indicare il valore dei diritti trasferiti: quest’ultimo coinciderà con l’ammontare della lesione indicata nella parte preliminare dell’accordo.
62 E’ questo un caso ai confini della fattispecie, ma pur sempre qualificabile come accordo di integrazione: Xxxxx e Xxxx si limitano a premettere che Xxxxx è legittimario di Sempronio, defunto; che il medesimo è stato leso nella propria legittima; che è intenzione di Xxxx, beneficiario delle disposizioni lesive, integrare Tizio nei propri diritti di riserva; che a tal fine gli trasferisce il fondo Tuscolano.
63 Dall’elemento generale noto (la funzione integrativa della legittima), si ricavano gli altri elementi (valore della lesione e dei diritti trasferiti).
64 Tizio, allo scopo di soddisfare la legittima di Caio, che si assume essere stata violata per 100, gli trasferisce certi diritti per 100.
65 Tizio, allo scopo di soddisfare la legittima di Caio, che si assume essere stata violata per 100, gli trasferisce certi diritti.
valore dei diritti trasferiti66; 3) mancata determinazione dell’una e dell’altro67.
Il problema inoltre non è superato dal fatto che il trasferimento sia effettuato con funzione solutoria (nel senso più volte indicato, di trasferimento attuativo di un diritto potestativo e non di una pretesa verso la controparte, cioè di un’obbligazione in senso tecnico). Lo scopo solutorio, infatti, ha ad oggetto il diritto di legittima come determinato, esplicitamente o implicitamente, dalle parti. Esemplificando, se le parti hanno ritenuto sussistere una lesione per 100 ed hanno operato un trasferimento di diritti per un valore di 100, è dubbio che l’effetto solutorio, nell’intenzione delle parti, debba valere anche qualora si dovesse accertare successivamente che la lesione in realtà era pari a 20068.
Né si dica, infine, che ogni differenza sarebbe preclusa per così dire “a monte”, in virtù della stessa determinazione effettuata dalle parti, esplicitamente o implicitamente, in merito all’ammontare della lesione, sì da rendere ininfluente l’eventuale successiva scoperta di un sua diversa consistenza. Come si è detto, alle parti, a differenza del giudice, non è concesso un potere di accertamento in senso proprio: la determinazione della lesione effettuata in sede di stipula dell’accordo non può quindi ritenersi dotata di efficacia sostanziale e rimanere acquisita una volta per tutte, nonostante possa provarsi il contrario. Le parti cioè non possono pretendere che le dichiarazioni con cui si enuncia una lesione di 100 valgano anche laddove la dichiarazione non corrisponda alla realtà e di ciò si possa dare prova.
Il problema cui si faceva cenno prima, dell’efficacia preclusiva o meno dell’accordo integrativo rispetto ad un’eventuale divergenza tra l’ammontare della lesione fissata dalle parti e quella effettiva, dunque si pone. Al riguardo, non mi sembra di poter condividere un atteggiamento eccessivamente restrittivo per l’autonomia delle parti, quale sarebbe quello consistente nel giudicare sempre e comunque rilevante l’eventuale divergenza di cui si diceva. Ciò innanzitutto perché la definizione della
66 Tizio, allo scopo di soddisfare la legittima di Caio, che si assume essere stata violata, gli trasferisce certi diritti per 100.
67 Tizio, allo scopo di soddisfare la legittima di Caio, che si assume essere stata violata, gli trasferisce certi diritti.
68 Non credo invece si pongano problemi di restituzione quando la divergenza sia nota alle parti al momento della stipula del negozio: a fronte di una lesione per 100, Xxxxx trasferisce a Caio un bene stimato per 200. La possibilità che l’effetto solutorio sia raggiunto per mezzo di un trasferimento di valore superiore (ma anche inferiore) è espressamente sancita dal codice, all’art. 1197.
vicenda successoria è un’esigenza che sta a cuore allo stesso legislatore, il quale non solo ha previsto la rinunziabilità e, sia pure implicitamente, la prescrittibilità dell’azione di riduzione, ma è anche intervenuto recentemente con il proposito di scongiurare talune delle controindicazioni derivanti dall’applicazione delle regole inerenti alla riserva: ne sono un esempio la modifica delle condizioni per l’azione di restituzione dei beni ridotti alienati a terzi (cfr. art. 563) e la introduzione dei patti di famiglia di cui agli artt. 768-bis ss.. Il legislatore ha dunque mostrato di muoversi nella direzione degli interessati che intendano evitare contestazioni in merito ai diritti di legittima.
Si tratta piuttosto di verificare se l’accordo di integrazione sia fisiologicamente orientato o meno per un detto effetto preclusivo. Al riguardo, sebbene ritenga non necessaria una particolare manifestazione di volontà perché si produca l’effetto solutorio di cui si diceva, a patto che si possano individuare i caratteri fondamentali dell’accordo di integrazione, credo invece occorra una volontà precisa al fine di realizzare l’effetto preclusivo cui facevo cenno.
L’efficacia preclusiva, cioè, non sarebbe un effetto naturale del contratto atipico di integrazione della legittima, ma potrebbe essere oggetto di valida pattuizione. Non può sfuggire peraltro che qui si rinnova il problema causale. Al riguardo, ciascuna delle parti si prefigura la possibilità che, nonostante la cognizione soggettiva della vicenda successoria (ed in particolare della lesione) maturata, la consistenza reale sia differente, consentendo una pretesa: un supplemento di diritti in favore del legittimario, ad integrazione dell’insufficiente trasferimento originario, qualora la divergenza sia positiva, ovvero un diritto alla restituzione di parte del valore di cui il legittimario si sia ingiustamente arricchito, nel caso opposto.
Sotto il profilo causale, soccorre qui la figura del negozio di accertamento, che si aggiunge allora ai caratteri “tipici” dell’accordo di integrazione finora indicati.
Il profilo dell’accertamento qui si coglie sul piano prospettivo: le parti, dopo aver fissato, con determinazione soggettiva e come tale fallibile, l’an ed il quantum della lesione, e dopo aver provveduto a rimuoverla mediante un trasferimento di valore corrispondente in favore del legittimario, prendono atto dell’eventualità che, nonostante la propria attività conoscitiva, la situazione giuridica reale possa comunque divergere da quella ricostruita dalle medesime e, proprio allo scopo di renderla definitiva una volta per tutte, superano l’incertezza disponendo della relativa situazione.
Il nodo centrale del ragionamento consiste, com’è facile intuire, nel giudicare sufficiente una simile causa per giustificare l’eventuale profilo dispositivo che si realizzerebbe qualora fosse effettivamente in futuro riscontrata una simile divergenza. Infatti, si è già avuto modo di evidenziare che, relativamente al tema del negozio di accertamento, parte della dottrina nutre forti perplessità, se non addirittura ne esclude la validità qualora difettasse l’elemento dell’incertezza, intesa come ignoranza sul modo di essere della situazione giuridica. Nella consapevolezza che il problema richiederebbe un’analisi completa, che esorbita dai limiti del presente lavoro, azzardo, quanto meno relativamente al caso che ci occupa, una soluzione permissiva.
Xxxxx al riguardo la già proposta distinzione tra funzione di chiarificazione e funzione di accertamento. La prima conseguirebbe all’attività conoscitiva delle parti, vertente sulla situazione giuridica “incerta”: essa non potrebbe essere definita come accertamento, perché l’enunciazione effettuata nel suo contesto varrebbe fino a prova contraria, non avendo le parti, come visto, un potere di accertamento, fuori dei casi previsti dalla legge. La seconda mirerebbe, per il tramite di un potere dispositivo che alle parti certamente compete quando diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela, questa volta sì, ad accertare una volta per tutte la situazione giuridica di riferimento. L’inesistenza della prima funzione non preclude la seconda, proprio perché la prima, in quanto soggettiva, è fallibile. In altri termini, non mancherebbe la causa di accertamento, in senso proprio, quando manca la causa di chiarificazione (o di accertamento spuria, nel senso indicato).
In conclusione, pur quando le parti avessero raggiunto coscienza in merito all’entità della lesione della legittima ed avessero effettuato un trasferimento integrativo, residuerebbe un interesse a rendere definitiva la situazione giuridica. Tale interesse sarebbe meritevole di tutela, e dunque lecito, perché idoneo ad evitare un eventuale giudizio teso ad ottenere un supplemento di legittima, se promosso dal legittimario, o la restituzione della differenza, se promosso dal trasferente (già beneficiario delle disposizioni lesive).
Non si tratterebbe peraltro di un accordo di integrazione sui generis. Mi convince di più ritenere trattarsi di due negozi collegati, ciascuno con la propria causa, del quale l’uno (quello di accertamento), eventuale, dipendente dall’altro (quello di integrazione).
Sul piano redazionale, tale ulteriore scopo sarà raggiunto mediante idonee dichiarazioni di rinuncia. Per il legittimario, si tratterà di una eventuale rinuncia all’azione di riduzione. Eventuale, perché
nell’ipotesi in cui la legittima risultasse integralmente soddisfatta già dallo stesso trasferimento effettuato con l’accordo, l’azione di riduzione sarebbe improponibile per carenza di interesse, essendo il diritto già soddisfatto dall’accordo di integrazione; nell’ipotesi contraria, invece, la detta azione potrebbe astrattamente essere esercitata; da qui la rilevanza di una sua rinuncia. Per il beneficiario delle disposizioni lesive, si tratterà di una rinuncia alla ripetizione per “indebito arricchimento” derivante dall’aver trasferito beni di valore superiore all’ammontare della lesione; rinuncia che sembra potersi ritenere valida essendo sorretta dalla causa meritevole di tutela di cui si è detto (per tale motivo la preclusione della ripetizione sarebbe legittima e non “indebita”).
18. La forma. – Per stabilire quale sia la forma minima richiesta a pena di invalidità per la stipula dell’accordo, è necessario effettuare una rapida ricognizione dei suoi caratteri. Essi, come si è visto, possono distinguersi in tre fasi: quella della determinazione della lesione, quella del trasferimento di diritti dal beneficiario (o dal terzo) al legittimario e quella (eventuale) preclusiva, che rende definitivo il rapporto tra le parti.
Dobbiamo anzitutto ricordare che nel nostro sistema vige il principio di libertà della forma, nel senso che la manifestazione di volontà, pur dovendo essere esternata, non dovrà necessariamente rivestire forme vincolate (es.: forma scritta).
Quanto al momento centrale dell’accordo di integrazione costituito dal trasferimento di diritti, è naturale pensare che il problema della forma dipenda da quello inerente all’oggetto del trasferimento stesso: qualora infatti si dovesse trattare di diritti menzionati nell’art. 1350, la forma scritta sarebbe senz’altro prescritta ab substantiam. Nel caso opposto, sempre relativamente alla fase ora in esame, la forma sarebbe libera.
Propenderei per la necessità della forma scritta per l’ultima fase, peraltro eventuale, a cagione della propria natura di accertamento. Sebbene ciò non risulti espressamente da alcuna disposizione69, è la
69 Un indizio tuttavia proviene dall’art. 254 in tema di forma per il riconoscimento del figlio naturale, ove è detto che esso può essere compiuto nell’atto di nascita o con dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento. Si rende cioè necessaria o la presenza di un pubblico ufficiale o la forma scritta (tale considerazione, se condivisa, potrebbe peraltro costituire argomento contro la validità del testamento orale, c.d. nuncupativo; sembrerebbe infatti che il legislatore abbia inteso come testamento solamente quello redatto per iscritto).
stessa funzione dell’accertamento che richiede tale forma vincolata. In difetto, avrei seri dubbi ad ammettere la stessa validità del negozio sotto il profilo causale.
Anche la prima fase, della determinazione dell’entità della lesione, sempre presente nell’accordo di integrazione, pone seri dubbi circa l’inesistenza di una forma vincolata dell’atto. Qualora si volesse riconoscere alla detta determinazione (almeno) la natura di atto di ricognizione (cfr. art. 2720), sarebbe assai difficile negare la necessità che di un “documento” debba trattarsi, e cioè di un atto redatto in forma scritta (cfr. il Capo II di cui fa parte l’art. 2720, rubricato «Della prova documentale»). Essendo detta fase strettamente connessa con quella del trasferimento (pur essendo astrattamente possibile, anche se assai raro, che la determinazione della lesione avvenga separatamente dall’atto di integrazione in senso stretto), si deve concludere per la soggezione ad substantiam dell’accordo di integrazione alla forma scritta.
E’ a questo punto una preoccupazione forse inutile specificare che, mancando all’accordo ogni profilo di liberalità, non sarà necessario l’atto pubblico con l’irrinunciabile presenza di due testimoni.
Non sarà nemmeno necessaria la forma dell’atto pubblico (sia pure senza testimoni), nonostante un’indicazione in senso contrario possa provenire dall’art. 768-ter in tema di patto di famiglia e da una riflessione sulla comunanza tra tale istituto e la figura dell’accordo di integrazione della legittima. Sul punto, si rinvia al § successivo.
19. Le figure affini: il patto di famiglia. – Con il patto di famiglia, istituto di recente introdotto dal legislatore (artt. 768-bis ss.), da un lato un soggetto trasferisce l’azienda o la propria partecipazione in una società ad uno o più discendenti e dall’altro l’assegnatario o gli assegnatari liquidano in denaro, salvo diversa pattuizione, il coniuge del trasferente e coloro che gli sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nella misura della loro riserva, rapportata naturalmente al valore dei diritti assegnati70 (es.: se il padre trasferisce l’azienda del valore di 90 all’unico figlio, questi dovrà liquidare, applicando l’art. 542, comma 1, un valore di 30 alla madre).
Sotto il profilo qualificatorio, la dottrina discute se esso presenti i caratteri della donazione, della divisione ovvero debba considerarsi un
70 In tal senso, XXXXXX, Patto di famiglia e funzione divisionale, in Riv. not., 2006, p. 870.
contratto dotato di una propria causa, diversa da quelle menzionate71. A questo riguardo, per quanto mi risulta, nei commenti finora pubblicati in materia72, pur essendo stato colto l’aspetto tacitativo della legittima che si verificherebbe in ordine ai beni oggetto del patto, non è stato menzionato il collegamento con la figura dell’accordo di integrazione della legittima.
Difatti, lo scopo del patto di famiglia è quello di assegnare l’azienda di famiglia (o le partecipazioni societarie) al discendente che si è dimostrato in grado di meglio gestire l’impresa, garantendo così la continuità della medesima anche una volta venuto meno il contributo del suo titolare. Al tempo stesso, lo scopo è quello di evitare che il lavoro del discendente, eletto come assegnatario, svolto nell’impresa, determini un incremento del valore dell’azienda a beneficio anche di chi è rimasto estraneo all’attività imprenditoriale, occupandosi in altro modo. A tal fine, il legislatore ha previsto la liquidazione contestuale o comunque rapportata al valore dell’azienda al momento dell’assegnazione e la conseguente sottrazione dei beni oggetto del patto a collazione e riduzione. Si tratta dunque di un’assegnazione che, pur non determinando la perdita di ogni rilevanza del trasferimento, ai fini della futura successione (infatti, il valore dei beni assegnati dovrà essere imputato alla propria legittima, una volta apertasi la successione del titolare assegnante), attua una soluzione di continuità dal punto di vista economico.
Qualificando il patto di famiglia come esempio di anticipata successione su determinati beni e in considerazione del carattere di liquidazione della riserva dei futuri legittimari non assegnatari, non può sfuggire il profilo equitativo e riequilibrativo che lo accomuna all’accordo di integrazione della legittima. Si assiste cioè ad un atto che, attuando un trasferimento di valore superiore (nell’idea del legislatore)
71 Quest’ultima mi sembra la lettura migliore. Contro l’inquadramento in termini divisori, milita il fatto che in nessun momento si sarebbe formato uno stato di comunione tra i partecipanti al patto. Contro quello donativo, si può osservare che la necessità di liquidare il valore della riserva ai “legittimari” non assegnatari non dipende dalla volontà delle parti, ma discende dalla stessa legge. Donazione potrebbe esservi tra imprenditore (o titolare delle partecipazioni societarie) e discendente assegnatario, nella parte che supera il valore della riserva dei non assegnatari (per tale parte, infatti, l’assegnatario non paga alcunché all’assegnante); tuttavia, l’espressa negazione dell’obbligo di collazione prevista dall’art. 768-quater, ultimo comma, fa dubitare della stessa possibilità di ravvisare i tratti del negozio donativo.
72 Ex multis, XXXXXXXX, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. not., 2006, p. 401 ss. ed AA. VV., Patti di famiglia per l’impresa, in Quaderni della fondazione italiana per il notariato, Il Sole 24 Ore, 2006.
alla riserva dei non assegnatari73, solleva il problema della sua futura esposizione all’azione di riduzione. Problema che il legislatore ha appunto inteso evitare prevedendo la detta liquidazione, che per effetto legale determina la definitiva sottrazione a collazione e riduzione di quanto assegnato.
Il patto di famiglia, allora, si atteggia sì come strumento per assegnare, prima dell’apertura della successione, un bene di rilevante valore (rispetto al patrimonio dell’assegnante) ad uno dei suoi futuri legittimari, ma svolge anche la funzione di tacitare, relativamente a quanto assegnato, la riserva dei legittimari non assegnatari.
Si potrebbe dunque pensare che il patto di famiglia costituisca al tempo stesso un accordo di integrazione della legittima, con la particolarità di essere anticipato rispetto all’apertura della successione: le parti, infatti, determinano il valore dell’azienda o della partecipazione trasferita e su tale base quantificano il valore della riserva, che l’assegnatario provvede, contestualmente o in un secondo momento, a liquidare.
Tuttavia, si deve rilevare che la lesione, probabile al momento della stipula del patto, può cessare di essere tale in un momento successivo, e specialmente al momento dell’apertura della successione. E’ il caso, ad esempio, che si verifica quando il patrimonio residuo del dante causa subisca un incremento tale da poter soddisfare interamente la legittima dei non assegnatari. La conseguenza è che la liquidazione ottenuta in virtù del patto di famiglia (soggetta ad imputazione, secondo legge) anziché valere come tacitativa della legittima, può atteggiarsi come meramente in conto di essa (come accade per ogni donazione ricevuta in vita dal defunto) o addirittura può essere considerata come in conto della disponibile (ad esempio, nel caso in cui il defunto istituisca eredi universali i soli non assegnatari).
Inoltre, e soprattutto, quand’anche con il patto di famiglia si trasferisse l’unico bene del dante causa e si supponesse l’inesistenza di altri beni al momento dell’apertura della sua successione, la causa
73 L’ipotesi che aveva dato luogo a maggiori problemi, prima della novella, era infatti quella dell’azienda come unico bene del patrimonio dell’imprenditore o comunque come bene costituente la maggior parte di esso, sì che l’eventuale lascito inter vivos o mortis causa dell’azienda stessa ad uno dei discendenti avrebbe esposto la disposizione alla riduzione degli altri legittimari. Non è però escluso che il patto di famiglia possa avere ad oggetto un bene che non esaurisce il patrimonio dell’assegnante. In questo caso, allora, sussisteranno altri beni al momento dell’apertura della successione, con la conseguenza che non è escluso che i non assegnatari avrebbero potuto soddisfarsi ampiamente, anche senza il valore liquidato in occasione del patto, ed egualmente sul relictum.
integrativa sarebbe secondaria rispetto a quella propria del patto: la partecipazione degli altri potenziali legittimari74 e la qualificazione dell’atto giuridico in termini di “patto di famiglia” sarebbe cioè strumentale non tanto all’integrazione dei diritti dei non assegnatari, quanto alla sottrazione di quanto trasferito alle regole della collazione e della riduzione. In altre parole, sarebbe strumentale allo scopo di attuare la cessazione, dal punto di vista economico, di appartenenza del bene al patrimonio del futuro autore della successione. La liquidazione prevista in favore dei non assegnatari, dunque, non pone rimedio ad una lesione, ma si inserisce in un contesto più ampio all’esito del quale si determina il detto stralcio.
In conclusione, il trasferimento effettuato a scopo di liquidazione, seppure descrittivamente possa svolgere (anche) una funzione di integrazione della legittima dei non assegnatari, non può essere isolato dal patto di famiglia nel suo complesso. Conseguentemente, non può assegnarsi all’atto di liquidazione una causa autonoma – di integrazione, appunto –, rispetto a quella dell’atto di trasferimento dell’azienda o della partecipazione.
Con riferimento al patto di famiglia, quindi, può parlarsi di integrazione solo in senso descrittivo, specialmente escludendo la ricorrenza della causa propria dell’accordo di integrazione.
A questo punto, risolvendo il dubbio esposto alla fine del § che precede, sfuma anche la possibilità di estendere all’accordo di integrazione la disposizione in tema di forma prevista dall’art. 768-ter. La particolarità dell’effetto di sottrarre economicamente i diritti trasferiti con il patto di famiglia alle principali regole che governano il diritto successorio non consente di ravvisare la somiglianza con l’accordo di integrazione necessaria al fine di applicare estensivamente la norma a questa figura. Si tratta infatti di una norma evidentemente eccezionale, non suscettibile di estensione analogica.
74 In dottrina si discute sulla necessaria partecipazione o meno al patto dei “legittimari” non assegnatari, nonostante il chiaro dettato dell’art. 768-quater, comma 1, che prevede che al patto «devono partecipare anche il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore». La teoria più liberista argomenta dall’art. 768-sexies, comma 1, che prevede il caso del pagamento dei “legittimari” che non parteciparono al contratto. L’interpretazione che a me sembra maggiormente plausibile è quella che richiede la partecipazione essenziale di tutti i “legittimari” esistenti al momento del patto, salva la necessità di liquidare anche quelli eventualmente sopravvenuti rispetto a tale data.
20. Segue: la transazione. La soddisfazione del legittimario con beni non ereditari. – Il punto è stato già ampiamente trattato. Qui è sufficiente sintetizzare che la transazione non suppone la verificazione delle pretese di ciascuna delle parti, ma le supera per mezzo di reciproche concessioni.
Una volta chiarita la natura giuridica dell’atto di integrazione (articolata nelle fasi della determinazione della lesione, del trasferimento con funzione atipica ed in quella eventuale della stabilizzazione della vicenda successoria), è il caso di analizzare un’affermazione ricorrente nell’ambito della dottrina che si è occupata degli accordi di reintegrazione, e cioè che essi possono articolarsi anche nella forma della transazione con cui il legittimario, ferma restando l’inesistenza di alcuna concessione in merito al quantum, si accontenta di beni non ereditari75. Xxxxxxx darsi al riguardo due ipotesi in cui il legittimario è soddisfatto con beni diversi da quelli già appartenuti al defunto.
Si consideri innanzitutto il caso in cui la pretesa del legittimario, che ad esempio affermi una lesione di 100 chiedendone la soddisfazione in beni ereditari, non sia contestata dal beneficiario e che le parti si accordino per il trasferimento in favore del legittimario di 100 in beni personali del trasferente (e non di provenienza ereditaria). Un simile atto, qualora fosse qualificato come transazione, avrebbe solamente il nome di tale contratto, essendo in realtà un accordo di integrazione. E’ evidente infatti che in questo caso le parti, trovatesi d’accordo sull’an e sul quantum della lesione, ne avranno implicitamente determinato l’ammontare. In questa parte, dunque, l’atto non ha natura transattiva, trattandosi di una determinazione della lesione (non uso il termine accertamento per evitare che si possa pensare che alle parti spetti un simile potere), priva di valore sostanziale (in difetto di un trasferimento, cioè, la situazione lesiva rimarrà tal quale). Di transazione non potrà del pari trattarsi nemmeno nella parte in cui il legittimario riceve beni non ereditari: ancorché infatti possa ammettersi che la rinuncia ad ottenere beni ereditari possa essere considerata una concessione del legittimario (che si può supporre in origine aver preteso beni ereditari), non si vede quale sia la concessione della controparte. Si tratterà dunque di un vero e
75 Qui l’espressione, come altrove nel presente lavoro, è usata in senso ampio ed è quindi comprensiva non solo dei diritti pervenuti al beneficiario delle disposizioni lesive per atto a causa di morte e dunque formanti il relictum, ma anche di quelli ottenuti in virtù di liberalità fra vivi, che tecnicamente non fanno parte della massa del defunto (almeno fino al momento della eventuale riduzione).
proprio accordo di integrazione, nel quale il legittimario, consenziente, è soddisfatto con beni propri del trasferente.
Si consideri poi l’ipotesi in cui la pretesa del legittimario ad ottenere beni ereditari, nell’esempio già fatto per un valore pari a 100, sia contestata dal beneficiario delle disposizioni lesive, il quale affermi la legittimità della richiesta per un valore ad esempio pari solo a 60. E che le parti compongano tale divergenza accordandosi per un trasferimento in favore del legittimario di beni per un valore sì di 100, ma avente ad oggetto beni non ereditari. Qui manca del tutto la stessa fase determinativa, perché in nessun momento tra le parti si è trovato un accordo in merito al quantum della lesione. Non si tratterà allora di un accordo di integrazione. La situazione di divergenza è piuttosto superata per mezzo delle reciproche concessioni. Si tratterà allora di una transazione, valendo al proposito le stesse considerazioni già svolte: l’ottenimento del valore di 100 da parte del legittimario non sarà il frutto della volontà di integrare la sua legittima, ma della concessione della controparte, che proprio per comporre la divergenza, pur non riformulando la propria contestazione (ad esempio riconoscendo proprio in 100 il valore della lesione di legittima), attua un trasferimento per un valore corrispondente alla pretesa altrui affinché la controparte tenga analogo comportamento, rinunciando a parte della propria pretesa (cioè, l’ottenimento dei beni ereditari). Il risultato è che il valore di 100 non può dirsi ottenuto a titolo di integrazione della legittima perché le parti non ne hanno determinato l’ammontare e comunque non si sono prefisse lo scopo di integrarla, volendo unicamente comporre la lite. L’eventuale coincidenza tra il valore dei beni ricevuti dal legittimario e l’ammontare della lesione prodottasi a suo danno avrà un significato “integrativo” solo sul piano fattuale, e non giuridico.
In conclusione, l’affermazione della dottrina citata per cui un accordo di integrazione potrebbe attuarsi anche per mezzo dello schema della transazione non può essere condivisa: o perché, come nel primo caso, non si tratta di transazione, o perché, pur trattandosi di transazione, mancano i caratteri essenziali dell’accordo di integrazione. In definitiva, si deve ribadire ancora una volta l’incompatibilità tra transazione ed accordo di integrazione.
21. Segue: la rinuncia all’azione di riduzione verso corrispettivo o la sua cessione onerosa. – Una prima differenza tra accordo di integrazione e rinuncia all’azione di riduzione verso corrispettivo si
rinviene nell’assenza, in quest’ultimo caso, di un momento determinativo avente ad oggetto la lesione. Poiché si è visto che detto momento caratterizza necessariamente l’accordo di integrazione, ne discende l’estraneità tra essa e la rinuncia verso corrispettivo.
Si consideri poi la diversità sul piano strutturale: con l’accordo di integrazione, il legittimario soddisfa la propria legittima per mezzo di un atto di trasferimento causalmente orientato in tal senso e, come conseguenza, è lo stesso interesse ad agire in riduzione a risultare carente. La rinuncia verso corrispettivo, al contrario, manifesta una diversa intenzione, e cioè dismettere l’azione di riduzione in cambio di una prestazione76. Qui la prestazione costituisce il “prezzo” della rinuncia e dipende da una valutazione economica liberamente convenuta tra le parti, che si agita nell’ambito del conflitto economico tra le medesime e che prescinde dall’attività conoscitiva di cui si diceva. Allo stesso modo del prezzo della vendita, le parti non potranno ordinariamente lamentarsi della inadeguatezza del valore dei diritti ceduti.
Infine, un’ulteriore differenza si ravvisa rispetto all’accordo di integrazione non ulteriormente qualificato. Quest’ultimo non preclude al legittimario la richiesta di un’ulteriore integrazione, qualora dovessero emergere altre attività nel patrimonio del defunto di cui possa dare prova. Con la rinuncia all’azione, invece, è definitivamente preclusa ogni futura ed eventuale richiesta di dare o di avere tra le parti, limitatamente alla lesione di legittima: l’azione infatti è qui dismessa nella sua interezza. Tale ultima differenza peraltro sfuma nel caso in cui l’accordo di integrazione preveda anche la reciproca rinuncia ad eventuali sopravvenienze attive o passive. Rimangono comunque le differenze strutturali e causali sopra citate.
Analogo ragionamento può svolgersi con riferimento alla cessione onerosa dell’azione di riduzione.
22. Profili pubblicitari. – Il rifiuto della tesi che ravvisa nell’accordo di integrazione un acquisto diretto dall’autore della successione e la teorizzazione di un effetto traslativo dallo stesso beneficiario della disposizione lesiva al legittimario, ferma restando la validità e l’efficacia di detta disposizione, comportano evidentemente la necessità di ammettere trattarsi di un trasferimento inter vivos.
76 Non è il caso di appesantire qui la trattazione richiamando l’annoso dibattito svolto in tema di rinuncia abdicativa e di c.d. rinuncia traslativa o chiedendosi se la rinuncia verso corrispettivo sia vera rinuncia o meno.
Quando l’accordo prevede il trasferimento di beni immobili, sotto il profilo della trascrizione, quest’ultima sarà curata ai sensi dell’art. 2643, n.1), per cui debbono essere trascritti «i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili». Gli effetti di tale trascrizione sono quelli di cui al successivo art. 2644, che sancisce il principio della priorità delle trascrizioni o iscrizioni: chi per primo curerà la formalità pubblicitaria, prevarrà rispetto agli altri acquirenti dal medesimo autore, anche qualora fosse stato, al momento dell’acquisto sostanziale, ormai un acquirente a non domino.
Il caso che stiamo ora esaminando, del beneficiario delle disposizioni lesive cioè che stipuli l’accordo di integrazione con il legittimario ed al tempo stesso ponga in essere con terzi atti pregiudizievoli per il legittimario stesso è in effetti poco verosimile: il beneficiario che si risolva alla stipula dell’accordo di integrazione, infatti, sarà mosso dall’intenzione di consolidare il proprio acquisto, almeno per la parte in cui gli effetti non sono ritrasferiti al legittimario (è il caso dell’accordo avente ad oggetto beni ereditari)77. Sarà dunque assai strano e difficile a verificarsi che contemporaneamente il beneficiario vanifichi la propria attività alienando lo stesso diritto a terzi.
Gli effetti di cui al citato art. 2644 valgono naturalmente non solo a favore, ma anche contro il legittimario, nel senso che l’eventuale precedente trascrizione o iscrizione compiuta da terzi in relazione ad atti dispositivi riguardanti gli stessi beni immobili trasferiti con l’accordo di integrazione gli sarà opponibile. Difatti, è vero che il legittimario, in caso di esercizio dell’azione di riduzione, si gioverebbe della retroattività reale garantitagli dall’art. 2652, n. 8), a mente del quale la sentenza che accoglie la domanda (trascritta entro il decennio dall’apertura della successione) pregiudica i terzi che abbiano acquistato e trascritto (o iscritto) diritti sul medesimo bene. Ma è anche vero che l’accordo di integrazione si atteggia come sostitutivo del giudizio di riduzione, essendo allora evidente che la scelta della integrazione convenzionale esclude completamente l’applicazione della detta regola, dettata con riferimento all’integrazione giudiziale. Tra l’altro, si è visto come diversi
77 Nel caso dell’accordo avente ad oggetto il trasferimento di beni personali del beneficiario, quest’ultimo otterrà invece la consolidazione integrale del proprio acquisto (fermo restando l’eventuale supplemento che il medesimo avrebbe l’onere di corrispondere al legittimario qualora, in assenza di volontà di accertare una volta per sempre la situazione giuridica successoria, dovessero emergere successivamente delle sopravvivenze attive).
ne siano gli effetti: l’uno attua un ritrasferimento; l’altra rende inopponibile l’originario trasferimento.
Tuttavia, quanto affermato non implica che il legittimario resti senza tutela. Soccorrono all’uopo, con riferimento al caso di una pregressa trascrizione pregiudizievole per il legittimario avente ad oggetto il medesimo diritto (diversi invece sono i casi della trascrizione di diritti non omogenei e della iscrizione, come vedremo), le conclusioni cui la dottrina più recente è giunta in merito alla natura della doppia alienazione immobiliare, delle quali almeno una sia trascritta. Il caso che dà luogo a maggiori problemi è quello in cui l’atto trascritto è il secondo in ordine temporale ad essere stato stipulato. Com’è noto, infatti, giusta la regola nemo plus iuris transferre quam ipse habet, la seconda alienazione dovrebbe essere inidonea a procurare l’acquisto del diritto all’avente causa. Non si giustificherebbe allora in virtù di quale principio la tempestiva trascrizione dell’acquirente a non domino, formalità che ha di mira la pubblicizzazione di un rapporto, senza pretesa di spiegare effetti costitutivi, possa prevalere sulla tardiva trascrizione del primo acquirente. Al riguardo, è stata teorizzata l’esistenza di una condizione legale risolutiva del primo acquisto78, dal punto di vista sostanziale, in cui l’evento condizionante consiste nella prioritaria trascrizione di un’eventuale alienazione successiva79.
Aderendo a tale teoria, discende che (almeno) il trasferimento effettuato in sede di stipula dell’accordo di integrazione, tardivamente trascritto o non trascritto affatto, si risolva in seguito alla prioritaria trascrizione dell’atto di alienazione dello stesso diritto a terzi da parte del beneficiario delle disposizioni lesive. Conseguentemente, torna ad essere attuale l’interesse del legittimario ad agire giudizialmente in riduzione per ottenere la propria legittima. Il legittimario quindi potrà nuovamente
78 Aderisce a tale impostazione, X. XXXXXXX, La trascrizione immobiliare, I, Artt. 2643- 2645, in Comm. cod. civ. diretto da X. Xxxxxxxxxxx, Milano, 1991, pp. 471 ss. e 487, cui si rinvia per la disamina della questione e per le citazioni.
79 E’ appena il caso di notare che questa soluzione, pur condivisibile, non consentirebbe al primo acquirente, contrariamente a quanto sembrerebbe logico, di chiedere ed ottenere il risarcimento del danno al proprio xxxxx causa sulla base di una responsabilità contrattuale. E’ logico supporre, infatti, che il meccanismo condizionale riguardi l’intera efficacia del (primo) contratto di alienazione, con la conseguenza che il suo avveramento rimuove per intero il rapporto. Deve darsi atto, peraltro, che in dottrina è stata sostenuta, anche se a mio parere in maniera non convincente, l’esistenza di una responsabilità contrattuale da inadempimento, che sopravviverebbe alla stessa caducazione del rapporto (così XXXXXX, La condizione di inadempimento, Padova, 1996, p. 413 ss.).
decidere se agire in riduzione o stipulare un nuovo accordo di integrazione.
Questa volta, però, almeno qualora l’originario accordo ebbe ad oggetto gli stessi beni già di titolarità del defunto (e non beni personali del beneficiario80), la stipulazione di un nuovo accordo di integrazione non sarebbe in grado di garantire al legittimario l’ottenimento i medesimi diritti, non potendo detto contratto pregiudicare l’avvenuto acquisto, debitamente trascritto, del terzo. L’azione di riduzione sarà allora strumento indispensabile per garantire al legittimario l’ottenimento della propria legittima, non sotto il profilo quantitativo (valore) ma, per quanto ora ci interessa, sotto quello qualitativo (diritto al bene in natura, salva la facoltà per l’acquirente di liberarsi dall’obbligo della restituzione pagando l’equivalente in denaro, conformemente a quanto previsto dall’art. 563, comma 3).
Il nuovo eventuale accordo, allora, dovrebbe prevedere il trasferimento di beni ereditari o personali diversi da quelli originariamente oggetto del contratto.
Può però darsi anche il caso che il beneficiario alieni a terzi diritti reali limitati, di godimento o di garanzia, con atto trascritto o iscritto precedentemente alla trascrizione dell’accordo di integrazione. In questo caso, ritengo non si possa ricorrere al meccanismo risolutivo dianzi indicato: infatti, la trascrizione o l’iscrizione non pregiudicherebbe l’acquisto del diritto di proprietà, sia pure gravata dal diritto reale minore. Tuttavia, anche in questo caso il legittimario potrà tutelare la propria legittima in via giudiziale, con la seguente particolarità. Poiché l’acquisto del diritto in capo al legittimario si è prodotto, almeno nel caso dell’iscrizione d’ipoteca non potrà sostenersi l’irrilevanza giuridica dell’accordo di integrazione. Conseguentemente, difficilmente potrebbe dirsi sussistere l’interesse ad agire in riduzione. La soluzione deve essere cercata altrove: la trascrizione o l’iscrizione pregiudizievole effettuata dal terzo, essendo opponibile al legittimario, determinerà l’attivazione della garanzia per evizione, effetto naturale del trasferimento effettuato in seno all’accordo, in mancanza di diversa pattuizione tra le parti. Ciò comporta che il legittimario, prima di agire in riduzione e proprio per poterlo fare, dovrà ottenere la risoluzione dell’accordo di integrazione ai sensi dell’art. 1482, comma 2.
Analoghe considerazioni valgono con riferimento alla trascrizione di beni mobili registrati. Per quanto invece riguarda
80 In questo caso infatti nemmeno il vittorioso esercizio dell’azione di riduzione potrebbe consentire al legittimario di ottenere il bene che costituì l’oggetto dell’accordo.
l’iscrizione del trasferimento di quote di s.r.l., rilevando lo stato soggettivo di buona o mala fede dell’acquirente, il diritto del legittimario potrebbe trovare una tutela più efficace.
23. L’accordo stipulato con l’erede apparente. – La trattazione dei profili pubblicitari relativi al trasferimento che, nell’ambito dell’accordo, abbia ad oggetto beni per i quali una simile formalità sia in grado di far prevalere un soggetto rispetto ad un altro solleva l’interrogativo circa l’applicabilità o meno dell’art. 534 al caso in cui il beneficiario delle disposizioni lesive, che abbia agito nella sua qualità di erede, risulti poi essere stato tale solo apparentemente. Ci si chiede cioè, considerato che la trascrizione dell’acquisto oneroso compiuto in buona fede dall’avente causa dall’erede apparente è opponibile all’erede vero, se l’acquisto del legittimario rimanga salvo o meno, qualora trascritto prioritariamente.
L’art. 534, comma 2, anzitutto richiede che l’acquisto sia effettuato a titolo oneroso. L’accordo di integrazione, pur non prevedendo una prestazione del legittimario a favore del beneficiario trasferente, non per ciò solo può qualificarsi, come già visto, come gratuito. Infatti, la gratuità di un contratto implica sì l’inesistenza di un corrispettivo a carico di una delle parti, ma richiede anche, al tempo stesso, che la situazione della controparte, che subisce un decremento patrimoniale (nel nostro caso, l’erede, beneficiario delle disposizioni lesive81), non risulti migliorata sul piano giuridico rispetto a quella precedente alla stipula. La donazione, che è il contratto gratuito per eccellenza, prevede una prestazione a carico di una sola delle parti, a cui favore non si verifica alcun vantaggio giuridico. Il mandato gratuito comporta l’obbligo di compiere attività giuridica per conto dell’altra parte, senza prevedere un vantaggio per il mandatario. Lo stesso vale per il deposito e per il trasporto gratuiti. Nel caso dell’accordo di integrazione, invece, è vero che l’unica prestazione è resa dal beneficiario in favore del legittimario (e per questo il contratto non può dirsi sinallagmatico), ma in seguito alla stipula dell’accordo il primo consegue il vantaggio di sottrarsi all’azione di riduzione e di rendere definitivo il proprio acquisto (per la parte corrispondente alla lesione determinata, espressamente o implicitamente, nello stesso accordo o anche in via assoluta, quando l’accordo include anche la funzione di definitivo accertamento della vicenda successoria).
81 Non menziono qui il beneficiario-donatario perché è escluso dall’ambito dell’art. 534, comma 2.
La soluzione del problema probabilmente può rinvenirsi interpretando teleologicamente la norma in esame, come riferita non tanto ai contratti onerosi, quanto a quelli a prestazioni corrispettive82. La norma infatti vuole contemperare le esigenze di chi crede di contrattare con l’erede vero con quelle dell’erede vero stesso, risolvendo il conflitto in favore del primo, contrariamente ad elementari principi di diritto sostanziale, e dunque in via eccezionale83, solamente quando sussiste un interesse superiore che trascende quello delle singole parti in causa. Tale interesse deve ravvisarsi nell’ordine pubblico economico: la certezza dei traffici sarebbe gravemente compromessa qualora si consentisse di mettere in discussione un acquisto effettuato a titolo oneroso, in buona fede e regolarmente trascritto, unitamente all’acquisto del proprio xxxxx causa. Perché però si possa parlare di rischio di compromissione è necessario che il terzo esegua una prestazione, e cioè si depauperi, sì che egli possa risultare gravemente pregiudicato dalla caducazione del contratto. Xxx si accogliesse un’interpretazione letterale della norma, si dovrebbe coerentemente reputare intangibile ogni convenzione a titolo oneroso dell’erede apparente, ivi compresa, ad esempio, quella con cui, in sede di atto costitutivo, si conferisca in società un bene ereditario84. Se questo risultato non è condivisibile, come ritengo, bisogna allora dubitare della premessa e concordare su quanto dicevo.
24. Profili fiscali. – Il legislatore fiscale, a differenza di quello ordinario, menziona e disciplina gli “accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari”, prevedendone la soggezione all’imposta di successione.
Originariamente, la materia era regolata dall’art. 6 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3270: «Nelle successioni testate la tassa si applica in base alle disposizioni testamentarie, anche se il testamento sia impugnato giudizialmente, salvo che non sia annullato in tutto od in parte con sentenza passata in giudicato» (primo comma). «Questa regola però non
82 Sembra adombrare questa possibilità CICU, Successioni per causa di morte. Parte generale. Delazione e acquisto dell’eredità. Divisione ereditaria, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Xxxx e Messineo, XLII, Milano, 1961, p. 260: «[…] è da dubitare se per convenzione a titolo oneroso non debba qui intendersi la convenzione per cui l’erede apparente consegue un corrispettivo del bene alienato».
83 Precisamente, si tratta di «un’eccezione al principio per cui non si possono trasferire ad altri diritti che non si hanno» (CICU, op. cit., p. 259).
84 Si coglie forse proprio in questa ipotesi un elemento ulteriore a favore della tesi che ravvisa nell’atto costitutivo di società i caratteri del contratto oneroso ma non a prestazioni corrispettive. La questione è comunque ampiamente dibattuta.
si applica, quando col testamento siano stati lesi i diritti riservati dal codice civile ai legittimari e questi diritti risultino integrati d’accordo tra le parti» (secondo comma).
L’art. 6, secondo la relazione al Re, enunciava nella legge «il noto principio che, nelle successioni testate, la tassa si applica in base al testamento, anche se impugnato, salvo che non sia annullato o modificato con sentenza passata in giudicato: principio radicato nell’art. 6 del testo 20 maggio 1897, n. 217. Avviene non di rado che il testamento sia lesivo dei diritti riservati dal codice civile agli eredi comunemente detti necessari, con espressione impropria. In questi casi l’applicazione rigorosa del principio enunciato sarebbe di xxxxxxxx aggravio ai contribuenti, perché li costringerebbe a rivolgersi all’autorità giudiziaria anche quando l’erede testamentario riconosce ed integra i lesi diritti. Perciò al principio generale enunciato nella prima parte dell’articolo segue l’eccezione (capoverso) concernente il caso di integrazione transattiva ed amichevole dei diritti dei riservatari lesi con testamento». La materia è oggi disciplinata dal d. lgs. 30 ottobre 1990, n. 346,
che contiene il testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni. Nel pensiero del legislatore fiscale (e non certo dal punto di vista civilistico, come si è avuto modo di dimostrare), gli accordi in questione modificherebbero le disposizioni testamentarie (cfr. la rubrica dell’art. 43: «Disposizioni testamentarie impugnate o modificate») e darebbero luogo ad un mutamento della devoluzione dell’eredità (cfr. art. 28, comma 6, richiamato dall’art. 43): in breve, sarebbero, ancorché fiscalmente, considerati atti mortis causa85. L’art. 43 infatti dispone che «Nelle successioni testamentarie l’imposta si applica in base alle disposizioni contenute nel testamento, anche se impugnate giudizialmente, nonché agli eventuali accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari, risultanti da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, salvo il disposto, in caso di accoglimento dell’impugnazione o di accordi sopravvenuti, dell’art. 28, comma sesto, o dell’art. 42, comma primo, lettera e)»86.
85 Così NAPPA, op. cit., p. 196.
86 Il richiamato art. 28, al comma 6 prevede che «Se dopo la presentazione della dichiarazione della successione sopravviene un evento, diverso da quelli indicati all’art. 13, comma quarto, che dà luogo a mutamento della devoluzione dell’eredità o del legato ovvero ad applicazione dell’imposta in misura superiore, i soggetti obbligati, anche se per effetto di tale evento, devono presentare dichiarazione sostitutiva o integrativa. Si applicano le disposizioni dei commi primo, terzo e ottavo». A sua volta l’art. 42, comma 1, stabilisce che deve essere rimborsata, unitamente agli interessi, alle soprattasse e pene pecuniarie eventualmente pagati, l’imposta […] e) risultante pagata o pagata in più a
La legge mostra quindi di considerare l’accordo di integrazione come modificativo della vicenda successoria, e non traslativo.
Sotto il profilo dell’eventuale imposta di registro di cui al d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, alcune norme si impongono alla nostra attenzione. Per quanto riguarda gli atti soggetti a registrazione in termine fisso di cui all’art. 5, comma 1, occorre menzionare innanzitutto l’art. 3 della parte I della tariffa allegata al decreto, il quale sottopone all’imposta proporzionale nella misura dell’1% gli «Atti di natura dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura, salvo il successivo art. 7», norma pacificamente applicata alle divisioni. Tuttavia, un effetto divisorio potrebbe teorizzarsi solamente in presenza di un precedente stato di comunione, mentre nel caso di accordo con cui si integrino i diritti del legittimario leso o pretermesso mediante attribuzione di uno o più beni in proprietà esclusiva, un simile effetto non pare proprio ravvisabile. Infatti, se è vero che, fiscalmente, l’accordo di integrazione riscrive il regolamento testamentario, sembra logico pensare che il suo contenuto si atteggi alla stregua di una divisione operata dal testatore (ed è noto come quest’ultimo atto non sia soggetto all’imposta di divisione). L’altra norma è contenuta nella prima parte dell’art. 11 della medesima tariffa, che prevede l’applicazione dell’imposta in misura fissa in caso di «Atti pubblici e scritture private autenticate, escluse le procure di cui all’art. 6 della parte seconda, non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale […]». In effetti, pare difficile parlare, nell’ottica del legislatore fiscale, di “prestazione” del beneficiario delle disposizioni lesive, quando le parti si limitano a dare contezza dell’avvenuta lesione e a correggere, nella misura legale, le stesse disposizioni testamentarie. L’applicazione dell’art. 11, allora, sarebbe preferibile rispetto a quella dell’art. 3.
Tuttavia, e sempre rimanendo ancorati alla natura, dal punto di vista fiscale, dell’accordo di integrazione, più pertinente sembrerebbe il richiamo al combinato disposto degli artt. 7 del decreto («Atti non soggetti a registrazione») e 4 dell’allegata tabella, con la conseguenza che la registrazione non sarebbe obbligatoria poiché si tratterebbe di un atto (assimilabile a quelli) di ultima volontà. D’altra parte, una conferma in questo senso è offerta dalla stessa menzione degli accordi di reintegrazione fatta nel r.d. del 1990, segnale che il legislatore fiscale li
seguito di sopravvenuto mutamento della devoluzione ereditaria». Infine, gli accordi sono menzionati dall’art. 30, comma 1, ove si prevede che alla dichiarazione di successione sia allegata «la copia autentica dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata dai quali risulta l’eventuale accordo delle parti per l’integrazione dei diritti di legittima lesi».
ha giudicati suscettibili di produrre conseguenze esclusivamente in tema di imposta di successione.
Quanto si è detto, secondo la giurisprudenza, vale nei limiti in cui l’integrazione avvenga per la porzione riservata spettante al legittimario leso: solo entro questi limiti, pertanto, l’atto non sarebbe soggetto all’imposta proporzionale di registro87. In caso contrario, sarebbero invece applicabili gli artt. 1 e 2 del decreto n. 131/86, con conseguente imposta proporzionale nelle percentuali di volta in volta ivi elencate.
Fiscalmente, poi, la giurisprudenza ha giudicato non soggetta all’imposta di registro concernente gli atti inter vivos anche gli accordi di integrazione con cui si soddisfacevano solo parzialmente, ad esempio in via transattiva, i diritti del legittimario88.
Mi permetto tuttavia di avanzare qualche dubbio sulla coerenza di una simile impostazione, consapevole di suscitare lo sdegno della categoria notarile. La tassazione di un atto dovrebbe seguire la sua natura sostanziale che, come visto, è quella di un vero e proprio trasferimento inter vivos. Né si tratta di un atto con efficacia dichiarativa: è discusso se una simile caratteristica ricorra nella stessa divisione; certamente essa non può predicarsi relativamente all’accordo. Né, per escludere la soggezione dell’accordo all’imposta proporzionale di registro, può mutuarsi la ricostruzione che di esso dà il T.U. sulle successioni come atto mortis causa. Infatti, i presupposti applicativi per ciascuna legge fiscale devono essere desunti dai caratteri dell’atto sotto il profilo sostanziale; non già da quelli forniti da altra legge fiscale.
I dubbi comunque diventano certezza nel caso dell’accordo avente ad oggetto il trasferimento di beni mai spettati al defunto (beni non ereditari in senso ampio). Qui non solo, come nel caso “classico”, non si ravvisa un atto mortis causa; ma manca del tutto ogni profilo di “ripartizione” del patrimonio ereditario tra beneficiario delle disposizioni lesive e legittimario.
87 Cass., 18 giugno 1956, n. 2171, in Rep. Foro it., 1956, c. 2315, n. 114.
88 Cass., 24 novembre 1981, n. 6235.