Contratto con il professionista: il cliente può recedere prima del termine Cassazione civile, sez. II, sentenza 15/10/2018 n° 25668
di Xxxxxxxx Xxxxxxx Pubblicato il 31/10/2018
Nel contratto di prestazione d’opera professionale, il cliente può recedere liberamente (cosiddetto recesso ad nutum), anche in presenza di un termine finale; l’apposizione del suddetto termine, infatti, non esclude automaticamente la facoltà di recesso, ma vale ad assicurare al cliente che il prestatore d'opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti. La presenza di un termine preclude la facoltà di recesso solo qualora si dimostri che l’intenzione delle parti, con l’apposizione del termine, era nel senso di escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita.
Così ha deciso la Corte di Cassazione, Sezione II, con la sentenza 15 ottobre 2018 n. 25668. La fattispecie
Un avvocato concludeva un contratto di consulenza e assistenza legale di durata triennale con un ente regionale. A seguito del recesso ad nutum dell’ente, il legale agiva in giudizio chiedendo che venisse accertato l’inadempimento contrattuale con la condanna al risarcimento dei danni. In primo grado, la domanda dell’avvocato veniva rigettata. Il giudice di merito, infatti, qualificava il rapporto contrattuale come mandato oneroso e riteneva sussistente una giusta causa nel recesso della parte convenuta. In sede di gravame, il contratto veniva considerato come contratto d’opera ed il recesso ritenuto legittimo, sia per il venir meno dell’intuitus personae, sia per impossibilità sopravvenuta collegata all’approvazione di una legge regionale che imponeva all’ente di avvalersi dell’avvocatura regionale.
L’avvocato ricorre in Cassazione e contesta l’interpretazione della Corte d’Xxxxxxx, secondo cui l’ente avrebbe potuto liberamente recedere dal contratto. Nelle sue difese, sottolinea come l’apposizione di un termine finale ne determinasse, in maniera vincolante, la durata. Inoltre, egli non avrebbe concluso un contratto che prevedesse la libera facoltà di recesso, in considerazione della tariffa minima praticata e dei costi sostenuti. Infine, contesta che possa considerarsi come impossibilità sopravvenuta ex art. 1256 c.c. sia l’approvazione della legge regionale (che stabiliva la facoltà dell’ente di avvalersi dell’avvocatura) sia la sentenza della Corte dei Xxxxx che aveva ritenuto sussistente la colpa grave dei due amministratori dell’ente per danno erariale, in relazione al contratto di consulenza stipulato con l’attore.
Contratto di mandato e contratto d’opera
In primo grado, la fattispecie negoziale viene qualificata come contratto di mandato oneroso, mentre in appello come contratto di prestazione d’opera. Prima di analizzare le difese del ricorrente sul punto, esaminiamo brevemente le due fattispecie contrattuali in relazione all’esercizio del diritto di recesso. Il contratto di mandato ha ad oggetto il compimento di atti giuridici, che il mandatario pone in essere per conto del mandante; rientra nella categoria della locatio operis, ma diverge dal contratto di prestazione d’opera, il quale riguarda un’attività intellettuale, non giuridica.1 Ciò premesso, nel mandato oneroso conferito per un tempo determinato, la revoca anteriore alla scadenza obbliga il mandante al risarcimento del danno, fatta salva la presenza di una giusta causa. Xxxxxx, secondo il ricorrente:
• se il contratto rientra nel mandato oneroso (art. 1725 c.c.) – come ha ritenuto il giudice di primo grado – non v’è giusta causa nella sopravvenienza della legge regionale, di cui l’ente era già edotto al tempo della conclusione del negozio;
• se, invece, si parla di contratto d’opera (art. 2237 c.c.) – come in secondo grado – il recesso è applicabile ove non rinunciato e, nei contratti d’opera “blindati da termini di durata”, il recesso non è ammesso.
La Corte non ritiene condivisibili le censure sollevate dall’avvocato. Una volta escluso che il contratto debba qualificarsi come mandato oneroso e, quindi, precisato come sia inapplicabile al caso di specie l’art. 1725 c.c., il punto essenziale della controversia risiede sull’ammissibilità o meno del recesso ad nutum in un contratto con termine finale. L’art. 2237 c.c. ammette la libera recedibilità, se non derogata contrattualmente. Il ricorrente ritiene che l’apposizione del termine di durata equivalga ad una rinuncia al diritto di recesso. Tuttavia, la Corte stigmatizza tale ricostruzione, anche in considerazione della circostanza che non sia stato sviluppato un autonomo motivo di ricorso sull’intenzione dei contraenti, ai sensi dell’art. 1362 c.c.
Il recesso ad nutum in generale
Prima di esaminare la decisione in commento, giova ricordare brevemente cosa s’intenda per recesso ad nutum. Il recesso (art. 1373 c.c.) rappresenta la possibilità di liberarsi dal contratto unilateralmente in base ad una libera dichiarazione di volontà2; atteso che costituisce una deroga al principio generale dell’irrevocabilità degli impegni negoziali, è ammesso solo nei casi previsti dalla legge (recesso legale) o da un apposito patto (recesso convenzionale). Nella prima ipotesi – qui in rilievo – è la norma ad attribuire ad una delle parti il diritto di sciogliere il contratto. Ad esempio, nei contratti a tempo indeterminato, qualora non sia indicata la durata del rapporto, i contraenti possono recedere dando un congruo termine (art. 1569 c.c. somministrazione, art. 1810 c.c. comodato, art. 1750 c.c. agenzia); in altri casi, il diritto di recesso è subordinato ad una giusta causa (art. 2237 c. 2 recesso del professionista dal contratto d’opera); infine, può essere attribuito ad una sola delle parti, la quale può recedere in qualsiasi momento (art. 1671 c.c. a favore del committente nell’appalto, art. 2227 c.c. a favore del committente nel contratto di lavoro autonomo). Il diritto del cliente di recedere dal contratto con un professionista (art. 2237 c. 1 c.c.) rientra in questa categoria. Viene anche detto “recesso di pentimento”, giacché si tratta di una forma di recesso che la legge offre alla parte senza vincolarne l’esercizio ad alcun presupposto, in una logica di tutela e protezione di uno dei contraenti3.
Il recesso nel contratto d’opera e la sua derogabilità
Il primo comma dell’art. 2237 c.c. consente al cliente di recedere dal contratto liberamente, a prescindere dalla condotta tenuta dal professionista o dalla presenza di giusti motivi. Tale ampissima facoltà è mitigata unicamente dall’obbligo di rimborsare al prestatore d’opera intellettuale le spese sostenute e di pagare il compenso per l’opera svolta. La suddetta possibilità di recesso si fonda sulla
natura fiduciaria del rapporto tra professionista e cliente (il cosiddetto intuitus personae); il cliente può revocare l’incarico anche senza una giusta causa4, cosa invece necessaria per il prestatore, al quale il legislatore fornisce una tutela meno intensa, garantendogli unicamente il compenso per l’attività sino ad allora eseguita, ma non per il mancato guadagno (a differenza di quanto previsto dall’art. 2227 c.c.). L’art. 2237 c. 1 c.c. non è una norma imperativa, pertanto è derogabile convenzionalmente. Tuttavia, atteso che la facoltà di recesso rappresenta una forma di tutela per il cliente, la deroga deve emergere espressamente o, quantomeno, essere oggetto di una specifica trattativa, con la specificazione che la rinuncia al recesso comporta «un aggravamento delle conseguenze del recesso». Al lume di ciò, secondo i supremi giudici, l’apposizione di un termine finale al contratto non comporta automaticamente la rinuncia al diritto di recesso. La Cassazione, pertanto, non segue la tesi del ricorrente – peraltro corroborata da alcune pronunce5 - ma fa proprio un altro orientamento secondo cui «il termine normalmente vale ad assicurare al cliente che il prestatore d'opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti; si riferisce cioè all'andamento ordinario del rapporto, non alla sua fase di risoluzione. Si è inoltre evidenziata la diversità strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarietà del contratto».
Conclusioni
Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ribadisce che la rinuncia al recesso debba essere indicata ex professo nel regolamento contrattuale; inoltre, non è consentita un’espansione automatica della clausola di durata, giacché andrebbe a svantaggio del cliente; soprattutto in relazione a rapporti professionali di rilievo, redatti da soggetti qualificati, come nel caso di specie. Quindi, si conferma l'orientamento6 secondo cui, in tema di contratto di opera professionale, «la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude, di per sé, la facoltà di recesso ad nutum previsto, a favore del cliente, dall'art. 2237 c.c., comma 1». La presenza di un termine elimina la facoltà di recesso solo qualora si dimostri che l’intenzione delle parti, con l’apposizione del termine, era nel senso di escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita. Tuttavia, nella fattispecie in esame, il ricorrente non ha proposto un motivo di censura in ordine all’interpretazione della clausola contrattuale relativa al termine, pertanto non è stata possibile un’indagine sulle intenzioni delle parti ex art. 1362 c.c. Per le ragioni di cui sopra, la Corte rigetta il ricorso, ma compensa le spese dell’ultimo grado di giudizio a cagione dell’esistenza di «aspetti di incertezza e parziale contrasto dottrinale e giurisprudenziale, ancora in evoluzione», in ordine alla questione oggetto di scrutinio.
(Altalex, 31 ottobre 2018. Nota di Xxxxxxxx Xxxxxxx)
1 Così X. XXXXXXXX, X. XXXXXXXXXXX, Manuale di diritto privato, Milano, Xxxxxxx, 2013, 743 ss. 2 Così Corte Cass. 7 agosto 1989 n. 3626.
3 Così X. XXXXX, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di Xxxxxx – Zatti, Milano, Xxxxxxx, 2001, 553 ss. L’autore distingue il recesso legale in: recesso di liberazione, recesso di autotutela e recesso di pentimento.
4 Tribunale di Novara, 27 aprile 2010 n. 434.
5 Corte Cass., sez. lavoro, 7 ottobre 2013 n. 22786 e anche Corte Cass., se. II, 18 ottobre 2011 n. 21521, quest’ultima citata dal ricorrente a sostegno della propria tesi. Vedasi anche: Tribunale di Milano, sez. V, 22 marzo 2010 n. 3709.
6 Xxxxx Xxxx., xxx. XX, 00 gennaio 2016 n. 469.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE
Sentenza 7 novembre 0000 - 00 xxxxxxx 0000, x. 00000 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Xxxx. XXXXXXX Xxxxxxx - Presidente -
Dott. D’XXXXXX Xxxxxxxx - rel. Consigliere - Xxxx. XXXXXXXX Xxxxxxxx - Xxxxxxxxxxx - Xxxx. XXXXXXX Xxxxxx - Consigliere -
Xxxx. XXXXXX Xxxxxxx - Xxxxxxxxxxx -
sul ricorso 11459/2013 proposto da:
ha pronunciato la seguente: SENTENZA
P.M., (XXXXXXX), rappresentato e difeso da se medesimo ex art. 86 c.p.c., domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la CORTE di CASSAZIONE;
- ricorrente - contro
ARPA (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, V.PACUVIO 34, presso lo studio dell'avvocato XXXXX XXXXXXXXX, rappresentato e difeso dall'avvocato XXXXXX XXXXX;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 301/2013 della CORTE D'APPELLO di TRIESTE, depositata il 03/04/2013; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/11/2017 dal Consigliere Xxxx.
XXXXXXXX X'XXXXXX;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Xxxx. DEL CORE Xxxxxx, che ha concluso per il rigetto del ricorso; in subordine per la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'eventuale rimessione alle SS.UU. della questione di diritto involta con il terzo motivo del ricorso;
udito l'Avvocato XXXXX Xxxxxx, difensore del resistente che ha chiesto l'inammissibilità o il rigetto
del ricorso e si è opposto alla trasmissione degli atti al Primo Presidente.
Svolgimento del processo
La causa concerne il recesso dell'Agenzia Regionale per la Protezione dell'Ambiente del (OMISSIS) (ARPA) dal contratto di consulenza e conferimento di incarico di assistenza legale rinnovato nel febbraio 2004 con l'avvocato P.M..
Nel dicembre dello stesso anno il professionista agiva nei confronti dell'Agenzia, chiedendo che fosse accertato l'inadempimento contrattuale della convenuta, con condanna al risarcimento dei danni.
Il tribunale qualificava il rapporto come contratto di clientela - riconducibile al mandato oneroso a tempo determinato - con cui l'avvocato si era obbligato per tre anni a prestare la propria opera professionale in relazione a tutti gli affari legali dell'ente. Riteneva sussistente una giusta causa oggettiva di risoluzione del rapporto e rigettava ogni domanda di danni, dando atto che le prestazioni professionali svolte erano state già saldate.
Adita dal professionista, la Corte di appello di Trieste rigettava il gravame.
A tal fine, con sentenza 3 aprile 2013, dopo aver discusso la questione posta dall'odierno ricorrente circa il "mandato alle liti", e dopo aver rilevato che tra le parti non c'erano "sospesi" in quanto anche l'ultima fattura era "stata pagata", la Corte di appello qualificava il rapporto come contratto d'opera. Riteneva pertanto legittimo il recesso per il "venir meno dell'intuitus personae" e per il sopravvenire dell'impossibilità sopravvenuta, da ricollegare alla sopravvenuta legge regionale che imponeva all'ente di avvalersi dell'avvocatura regionale e ai dubbi sulla legittimità del contratto derivati da pronuncia della Corte dei Conti.
L'avv. P. ha proposto sei motivi di ricorso per cassazione, notificato il 26 aprile 2013; ha depositato memoria aggiuntiva il 22 aprile 2014; memoria in vista dell'adunanza del 10 marzo 2017 e della successiva pubblica udienza, alla quale la causa è stata rimessa con ordinanza 12947/17.
ARPA ha resistito con controricorso.
Il procuratore generale in data 13 febbraio 2017 ha depositato conclusioni scritte con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso, rubricato come "mandato all'Avvocato della Regione" si duole del fatto che la Corte di appello abbia ritenuto che l'ente era legittimato a valersi dell'avvocatura regionale, sebbene fosse stata varata un'apposita legge regionale. Parte ricorrente nega che l'ente sia dipendente della regione e espone che gli avvocati pubblici dipendenti non possono occuparsi degli affari di altro ente e che la "leggina" regionale 1/2004 avrebbe derogato a tale principio, che deriverebbe dalla normativa nazionale sull'esercizio della professione forense.
Il secondo motivo, intitolato "eccezione di incostituzionalità" espone che nelle conclusioni (da intendere la precisazione delle conclusioni in appello) il ricorrente aveva eccepito l'incostituzionalità della L.R. n. 1 del 2004, sotto i profili della riserva della materia alla legislazione statale e ai principi in materia di professione e di tutela della concorrenza, i quali porrebbero il "chiaro principio di "esclusività" della competenza dell'avvocato pubblico dipendente".
Le censure non possono essere accolte.
La sentenza impugnata ha rilevato che in ordine al mandato alle liti il ricorrente non aveva sollevato
eccezione alcuna sul punto in prime cure, non essendovene traccia nè in sentenza di primo grado, "nè nei verbali, nè è formulato specifico gravame in appello".
Questo rilievo non solo non è stato contraddetto, ma risulta confermato in ricorso dalla narrativa di pag. 2 e 3, ove si legge che in appello solo "nelle memorie successive" era stata "sollevata un'eccezione di nullità assoluta della difesa esercitata dall'Avvocato della regione".
Nè è stata confutata la rilevanza giuridica di cui il rilievo era portatore.
Ed invero, con riguardo al vizio processuale costituito dall'asserito difetto di procura in primo grado, il rilievo di tardività, ancorchè la Corte di appello abbia comunque esaminato nel merito la questione della legittimità dell'opera difensiva svolta in base a legge regionale vigente, rende inammissibile la doglianza in sede di legittimità.
Il vizio attinente alla costituzione di parte convenuta in primo grado doveva essere fatto valere con tempestivo appello, poichè ai sensi dell'art. 161 c.p.c., i motivi di nullità delle sentenze soggette ad appello possono essere fatti valere soltanto con i mezzi di impugnazione. Tuttavia l'impugnazione sul punto non è stata proposta, come imponeva a pena di inammissibilità l'art. 345 c.p.c., con l'atto di appello, ma solo esposta in memorie successive e in conclusioni di appello.
La validità della costituzione della convenuta, questione cui il primo motivo di ricorso sembra riferirsi - ed infatti la conclusione del motivo ad inizio pag. 8 del ricorso parla proprio di "convenuta" e non anche di "appellata" - è rimasta quindi consolidata dalla mancata tempestiva impugnazione in appello; non può essere perciò ridiscussa in sede di legittimità.
Nè, si badi, il ricorso ha distinto dal precedente un profilo autonomo, relativo alla costituzione in appello della difesa dell'ente con avvocati regionali, non enucleato specificamente nei presupposti di fatto, nè articolato in relazione ai profili più strettamente processuali della questione o al rilievo in rito formulato dalla Corte di appello. La censura si è soffermata solo sulla legittimità della leggina regionale e sulla sua incostituzionalità, ma in termini tali da indurre il procuratore generale a concludere per la inammissibilità del motivo perchè non espresso con "ordinata formulazione giuridica", come, in diversi termini, eccepito anche dal controricorso.
Restano conseguentemente ininfluenti i riferimenti delle memorie al fatto che sulla base della legge regionale l'ARPA sarebbe stata "rappresentata illegittimamente in ben due gradi di giudizio", riferimenti che non arrecano specificità alla censura iniziale, mirata sull'ormai non contestabile costituzione della convenuta.
3) Da questi rilievi discende la irrilevanza, ai fini della decisione della doglianza sul mandato, della questione di costituzionalità della L.R. n. 1 del 2004. Parte ricorrente nella memoria aggiuntiva ha dato atto del sopravvenire della sentenza n. 91 del 22 maggio 2013 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'incostituzionalità di analoga normativa regionale campana per ragioni simili a quelle svolte in ricorso: la circostanza non rileva, poichè la normativa suddetta è indifferente ai fini del rigetto del primo motivo, definito sulla scorta di argomentazioni che prescindono da essa.
4) Con il terzo motivo parte ricorrente affronta la questione della legittimità del recesso di ARPA dal rapporto professionale stipulato nel 2004; denuncia violazione degli artt. 2237 - 1725 e 1256 c.c..
Il ricorrente contesta l'interpretazione della Corte di appello, secondo cui ARPA avrebbe potuto recedere liberamente dal contratto; invoca Cass. 21521/11 nella parte in cui ha affermato che l'apposizione di un termine finale al contratto determinava in modo vincolante la durata del rapporto;
xxxxxx che non avrebbe mai accettato un contratto con facoltà di recesso libera per il cliente, in considerazione della tariffa minima praticata e dei costi sostenuti.
Critica poi le affermazioni della Corte di appello secondo cui ad indurre il legittimo recesso, oltre al già sufficiente "venir meno dell'intuitus personae", sussisteva "anche la "causa sopravvenuta" la L.R. n. 1 del 2004", (cioè la legge che aveva stabilito la facoltà di ARPA di avvalersi dell'avvocatura regionale), nonchè altra causa sopravvenuta costituita da sentenza della Corte dei Conti che ha ritenuto la colpa grave dei due amministratori ARPA, con danno erariale, proprio in relazione al precedente contratto stipulato con il P., rinnovato nel 2004.
In proposito il ricorrente sostiene che la legge regionale non imponeva all'ente l'obbligo giuridico di avvalersi dell'Avvocato della Regione, ma solo la facoltà e nega quindi che vi fosse impossibilità sopravvenuta.
Quanto alla sentenza della Corte dei Conti osserva che essa si riferiva solo alle consulenze e non alle difese nei contenziosi; aggiunge che non faceva venir meno l'interesse delle parti alla prosecuzione del contratto, posto che l'Agenzia al momento del rinnovo doveva sapere che di lì a pochi giorni sarebbe entrata in vigore la normativa regionale. Il ricorrente afferma poi che l'impossibilità sopravvenuta di prosecuzione nel contratto non era minimamente configurabile.
4.1) Il quarto motivo affronta la ipotesi dell'inquadramento del contratto quale mandato oneroso, rispetto al quale la sentenza d'appello, pur dissentendo da tale qualificazione, ha affermato la sussistenza di giusta causa. Il ricorrente deduce di aver contestato che la L.R. n. 1 del 2004, costituisse giusta causa, la cui configurabilità nega, sia perchè scelta legata a mera convenienza economica, sia perchè la approvazione della legge era nota. Ricorda poi che se il rapporto era da qualificare come contratto d'opera professionale, era applicabile il recesso, ove non rinunciato. Enuncia quindi che il recesso non è ammesso nei contratti d'opera "blindati da precisi termini di durata".
4.2) Il quinto motivo denuncia "omessa insufficiente motivazione circa fatti decisivi per il giudizio".
Il ricorrente si duole che non siano stati "sufficientemente analizzati e motivati dalla Corte" i fatti essenziali per il giudizio, quali il contratto sottoscritto nell'imminenza dell'entrata in vigore della L.R. n. 1, l'assenza di un divieto di essa di proseguire "nella già affidata tutela giurisdizionale", una corretta valutazione dell'interesse pubblico.
5) Le tre censure non possono essere accolte.
Quanto ai vizi motivazionali di cui al quinto motivo, va subito rilevato che, in ragione della applicabilità della novella di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, (la sentenza impugnata è infatti successiva all'11 settembre 2012, data da cui ha effetto ex art. 54 c. 3 la modifica apportata dalla L. n. 134 del 2012), la censura poteva essere rivolta solo contro l'omesso esame di un fatto decisivo e non poteva limitarsi a lamentare l'insufficienza motivazionale, non più rilevante in sede di legittimità (Cfr SU 8053/14).
In ogni caso una doglianza relativa alla motivazione non può limitarsi a elencare i fatti malvalutati, ma deve illustrane la decisività in relazione a singoli profili giuridici, restando altrimenti, come nella specie, inammissibile anche per questa seconda ragione.
5.1) Quanto alle questioni, affrontate nel quarto motivo, relative alla "motivazione alternativa: revoca del mandato oneroso ex art. 1725 c.c., per giusta causa" (così la rubrica), è lo stesso ricorso a dar conto della superfluità della doglianza e a far comprendere di essersene fatto carico solo per seguire l'andamento della sentenza di appello che a suo dire (pag. 13) "appare solo nascondere incertezza e
perplessità". Osserva infatti correttamente - lo si è riferito poc'anzi - che una volta qualificato il rapporto come contratto d'opera non risulta più applicabile l'art. 1725, ma l'art. 2237 c.c., che consente la recedibilità ad nutum se non derogata contrattualmente. E' questo il nodo essenziale della controversia, poichè sul recesso ad nutum poggia una delle autonome rationes sufficienti a reggere la decisione (cfr. pagg. 16 e 17 sentenza impugnata).
Essa è stata contestata, si è visto, nel terzo e quarto motivo, solo con riferimento alla pretesa rinuncia
al diritto di recesso, costituita dall'apposizione di un termine di durata del contratto.
Non è stato infatti sviluppato un autonomo motivo di ricorso ai sensi dell'art. 1362 e segg. c.c. circa l'interpretazione del contenuto del contratto, ma si è fatto leva sulla portata derogatoria della clausola di durata esistente, delimitando congruamente la questione giuridica principale.
Il Collegio reputa infondato il ricorso.
Si insegna in dottrina, che ha di recente dato sistemazione alla materia, che il recesso ad nutum di cui all'art. 2237, che prevede comunque il dovere del cliente di corrispondere al prestatore d'opera intellettuale spese e compensi per l'attività svolta, si fonda sui connotati spiccatamente fiduciari di questo tipo di rapporto. Il recesso è funzionale al fondamento fiduciario di esso e giustifica una tutela meno intensa del prestatore, sotto il profilo della continuità del rapporto. E' da qui che discende, si è osservato, la esclusione del diritto al mancato guadagno.
Sulla base di queste riflessioni è da risolvere la tematica della derogabilità della facoltà di recesso.
Su questo tema la dottrina ha sempre mostrato cautela, richiedendo che la rinuncia risulti espressamente o sia stata oggetto di specifica trattativa tra le parti, con l'avvertenza che in ogni caso la previsione del patto di rinuncia al recesso comporta soltanto un aggravamento delle conseguenze del recesso.
In questo quadro la tesi di parte ricorrente, secondo cui l'inserimento in contratto di un termine di durata comporterebbe automaticamente la rinuncia alla facoltà di recesso non è condivisibile.
La tesi ha trovato eco giurisprudenziale (Cass. 22786/13), ma si scontra con il più pensoso orientamento, che è in linea con gli interessi di fondo che stanno alla base del contratto e che sono stati prima rapidamente enunciati, secondo cui il termine normalmente vale ad assicurare al cliente che il prestatore d'opera sia vincolato per un certo tempo nei suoi confronti; si riferisce cioè all'andamento ordinario del rapporto, non alla sua fase di risoluzione. Si è inoltre evidenziata la diversità strutturale e funzionale tra termine finale di efficacia del contratto e recesso fondato sulla fiduciarietà del contratto.
Nè appare fondato addurre a favore della tesi di cui al ricorso l'applicazione analogica della disposizione di cui all'art. 1569 c.c., in tema di somministrazione, giacchè non si è in presenza di una lacuna normativa, ma di una diversa regolamentazione codicistica del recesso a fronte di due contratti con connotati peculiari, assetto che non consente un'operazione ortopedico-integrativa del dettato normativo.
Tutto ciò induce a credere che soprattutto in relazione a rapporti professionali di rilievo, redatti da soggetti molto qualificati con contratti sottoposti a trattativa, la rinuncia al recesso debba esprimersi contrattualmente e non sia consentita un'espansione per implicito della clausola di durata, così penalizzante per il cliente.
E' pertanto da confermare l'orientamento di questa Sezione (Cass. 469/16) secondo cui in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sè la facoltà di recesso "ad nutum" previsto, a favore del cliente, dall'art. 2237 c.c., comma 1.
Solo l'esistenza di un concreto contenuto del regolamento negoziale, che dimostri che le parti abbiano inteso, attraverso la previsione del termine, escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita potrebbe giustificare un diverso esito.
Il ricorso tuttavia non interpella la Corte con apposita adeguata censura in ordine all'ermeneutica delle clausole del contratto di cui si tratta. Discende da quanto esposto il rigetto anche del terzo motivo di ricorso e di ogni profilo connesso.
6) Resta assorbito il sesto motivo, concernente i "Danni", poichè il rigetto delle deduzioni relative alla illegittimità del recesso esclude ogni diritto al risarcimento, come affermato dalla Corte di appello. Su questo aspetto, relativo all'esistenza del diritto, la censura nulla adduce, poichè si sofferma solo sulla produzione di fatture e sulla possibilità di "perizia contabile", e dunque solo sul quantum.
Inconferenti e finalizzate non a un motivo di ricorso, del quale mancano i caratteri di specificità e organicità, ma solo a criticare "la superficialità della sentenza", sono poi le deduzioni relative all'avvenuto pagamento delle prestazioni, poste a esordio del motivo sui danni.
7) La compensazione delle spese di questo grado di giudizio è giustificata dalla esistenza di aspetti di incertezza e parziale contrasto dottrinale e giurisprudenziale, ancora in evoluzione, in ordine alla questione da ultimo esaminata.
Va dato atto della sussistenza delle condizioni per il raddoppio del contributo unificato, trattandosi di ricorso successivo al 34 gennaio 2013.
P.Q.M.
La Corte rigetta i primi cinque motivi di ricorso. Dichiara assorbito il sesto. Compensa le spese del giudizio di legittimità.
Dà atto della sussistenza delle condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento di ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 7 novembre 2017. Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2018.