Marco Proietti*
IL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO: PROFILI CRI- TICI E NOVITÀ DOPO LA RIFORMA FORNERO.
Xxxxx Xxxxxxxx*
SOMMARIO: 1. Introduzione: come cambia il diritto del lavoro – 1.2 segue: dal Codice Civile al Decreto Legislativo 6.9.2001, n. 368 – 1.3 segue: le novità intro- dotte dal Collegato lavoro 2010 e dalla Riforma Fornero 2012 – 1.4 segue: il con- tratto a termine nel pubblico impiego – 2. La forma del contratto – 2.2 Le ragioni giustificatrici – 2.3 segue: le ragioni organizzative e produttive – 2.4 segue: le ragioni tecniche – 2.5 segue: le ragioni sostitutive – 3. La durata e la successione tra più contratti – 4. La cessazione del rapporto di lavoro a termine – 4.2 segue: la conver- sione – 4.3 segue: limiti alla disciplina del licenziamento – 5. L’impugnazione del termine ed il ricorso al Giudice del lavoro – 6. Conclusioni
1.- Una esaustiva trattazione dell’istituto del contratto a tempo determi- nato può aiutare, oggi, dopo le innumerevoli riforme che sono giunte a defi- nitiva approvazione, a dare una visione organica e di insieme su di una por- zione importante del diritto del lavoro; dagli anni Novanta in poi, infatti, il tema della flessibilità è stato trattato in più modi ed i vari interventi legislati- vi che si sono succeduti nel corso degli anni hanno cercato di garantire, da un lato, i diritti acquisiti da parte dei prestatori di lavoro e, dall’altro, di sod- disfare la necessità degli imprenditori di avere a disposizione degli strumenti più snelli per la gestione dei rapporti di lavoro stessi.
È stata indubbiamente un’operazione difficile, e solo negli ultimi due an- ni si sono avute due importanti riforme – il Collegato lavoro 2010 e la Ri- forma Fornero del 2012 – che hanno nuovamente messo mano al sistema. È evidente che gli interventi siano stati determinati da una rapida evoluzione del mercato del lavoro, e la materia dei contratti a termine offre certamente più di uno spunto di riflessione al riguardo: in primo luogo, visto l’alto tasso di contenziosi che ruota intorno alla legittimità o meno di tali contratti e, in secondo luogo, poiché la dicotomia tra lavoro a termine – lavoro a tempo indeterminato, rappresenta una distinzione ontologica essenziale che finisce con il caratterizzare due diverse visioni del mercato del lavoro.
La trattazione di un tema così importante è frutto anche di un altro tipo di esigenza, quello della certezza del diritto: molti studiosi, mossi da pura e
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sincera passione per la materia, da tempo operano con fatica per costruire con l’esegesi, e con l’analisi della giurisprudenza, una chiarezza che spesso manca nelle leggi e nei progetti di riforma, determinando una ingiustificata compressione degli interessi in gioco.
Con questo lavoro si vogliono tracciare le linee generali dell’attuale disci- plina sul contratto a tempo determinato, con l’analisi delle ragioni che pos- sono essere poste a fondamento del termine, le modalità di risoluzione del rapporto di lavoro e, ovviamente, le criticità legate ad eventuali aspetti “anomali” del contratto.
1.2 - Un’analisi compiuta dell’evoluzione normativa sul contratto a tem- po determinato è piuttosto complessa se si guarda a come, negli anni, si sia- no susseguite non solo riforme, ma soprattutto posizioni ideologicamente diverse che hanno guardato al mondo del lavoro con prospettive chiaramen- te differenti: l’idea del posto di lavoro «fisso» o meglio a tempo indetermina- to si è da sempre scontrata con la c.d. flessibilità del lavoro1, ovvero l’esigenza di forme contrattuali snelle e più facili da utilizzare: è anche vero però – e lo si deve dire, per correttezza espositiva – che il diverso approccio al contratto a termine è stato influenzato, oltre che da valutazioni politiche o ideologiche diverse, anche dall’inevitabile mutamento del ciclo produttivo, economico ed occupazionale2.
È interessante notare come, al momento della redazione del Codice Civi- le, il Legislatore si sia preoccupato di fissare – in primo luogo – la primazia
*-Avvocato specialista di diritto del lavoro.
1 Cfr. sulla c.d. flexicurity è interessante l’analisi svolta relativamente al Libro Verde della Commissione Europea sulla modernizzazione del diritto del lavoro che si può trovare in X. Xxxxxxx,Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello nella
«modernizzazione» del diritto del lavoro, in WP C.S.D.L.E. «Xxxxxxx X’Xxxxxx» .IT, 52/2007.
2Le radici del lavoro a termine sono profonde, e si trovano perfino nel Codice Civile del 1942 che all’art. 2097 (oggi abrogato) stabiliva la disciplina sulla durata del contratto di lavo- ro:
«Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rap- porto a da atto xxxxxxx.Xx quest’ultimo caso l’apposizione del termine è priva di effetto, se è fatta per elidere le disposizioni che riguardano il contratto a tempo xxxxxxxxxxxxx.Xx la prestazione di lavoro continua dopo la scadenza del termine e non risulta una contraria volontà delle parti, il contratto si considera a tempo indeter- minato.
Salvo diversa disposizione delle norme corporative, se il contratto di lavoro è stato stipulato per una dura- ta superiore a cinque anni, o a dieci se si tratta di dirigenti, il prestatore di lavoro può recedere da esso trascor- so il quinquennio o il decennio, osservata la disposizione dell’art. 2118».
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del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quale rapporto di lavoro che
«di regola» deve essere pattuito tra le parti, considerando il contratto a ter- mine una deroga speciale utilizzabile solo in determinati casi; per altro, nell’originaria disposizione codicistica si rinvengono alcune posizioni che sono state poi assorbite e fatte proprie dalla successiva legislazione speciale in materia di rapporti di lavoro a termine: prima fra tutte, la conversione del rapporto in tempo indeterminato qualora la prestazione lavorativa prosegua oltre la scadenza. Quella della conversione è certamente la parte di maggiore interesse poiché, già in quegli anni, ci si poneva il problema di un eventuale uso «anomalo» del contratto e si legava la tutela dei diritti dei lavoratori ad una duplice elemento: il primo, come visto, è l’automatica conversione in caso di prosecuzione del rapporto; il secondo, invece, è la necessità che il termine sia giustificato dalla specialità (oggi si direbbe stagionalità) del rap- porto oppure da atto scritto3.
L’evoluzione del mercato del lavoro, unitamente ad un uso probabilmen- te eccessivo del contratto a termine, aveva determinato diversi problemi soprattutto per quelli che oggi si potrebbero chiamare le «relazioni industria- li» ed i rapporti con le parti sociali: i limiti, come visto blandi, posti dalla di- sposizione codicistica, avevano permesso un uso massiccio del contratto a termine attraverso il quale il datore di lavoro aveva la possibilità di testare più a lungo l’efficienza dei dipendenti, ottenendo anche una maggiore disci- plina poiché connessa al rinnovo del contratto ed al mantenimento del po- sto di lavoro.
In questo contesto, di crescente malcontento, viene approvata la legge 18.4.1962, n. 230, che abroga l’art. 2097 cod. civ. e stabilisce una prima di- sciplina speciale per i rapporti di lavoro a termine, mutando in senso restrit- tivo la precedente disciplina; il contratto a termine, infatti, viene previsto come eccezione e tassativamente limitato ai casi indicati all’articolo 1 della stessa legge4, che – a ben vedere – non fa altro che riportare in nuce quelle
3Quello dell’atto scritto è certamente un elemento fondamentale, poiché subordina la va- lidità del termine ad una espressa volontà delle parti: liberando le stesse da cavilli e lacci di altro genere, limiti quantitativi, sospensioni tra un contratto e l’altro, e via dicendo.
4 L’art. 1 della legge prevedeva la possibilità di stipulare un contratto a termine nei se- guenti casi: 1) attività stagionali; 2) assunzioni per la sostituzione di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro; 3) assunzioni per l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo ed aventi carattere straordinario o occasionale;
4) assunzione per lavorazioni a fasi successive che richiedano maestranze diverse e specializ-
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«ragioni giustificatrici» che sono oggi il perno su cui ruota tutta la disciplina vigente: si prevede, infatti, la necessità ad substantiam di un «causalone» a giustificazione dell’assunzione a termine, pena la conversione in rapporto a tempo indeterminato. In realtà, la legge riceve un’accoglienza piuttosto xxxx- da e sia i datori di lavoro che i lavoratori, continuano ad operare quasi nell’indifferenza: i lavoratori, infatti, avevano scarso interesse ad impugnare i contratti a termine nulli, i datori di lavoro – da parte loro – continuavano a licenziare in tronco i propri dipendenti avvantaggiandosi degli esigui rischi definiti dalla legge 604 sui licenziamenti individuali; solo in un secondo momento, dopo lo Statuto dei lavoratori del 1970, e con l’ingresso negli Anni Settanta, inizia seriamente a farsi strada l’idea che la stessa normativa sul contratto a termine richieda più di una rivisitazione: il Legislatore euro- peo, d’altro canto, aveva già offerto più di uno spunto di riflessione, ed i partner italiani avevano già mosso passi importanti verso l’approvazione di una disciplina più stringente.
Il crollo della tradizionale concezione dell’impiego dipendente a garanzie totali, ovvero l’idea di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato quale regola, unitamente alla crisi economica ed alla richiesta di una maggiore fles- sibilità, hanno portato a lenti passi ad attuare una prima «privatizzazione» del contratto a termine che tenesse conto anche del ruolo crescente che – so- prattutto nel corso degli anni Settanta – hanno assunto i sindacati; la legge 28.2.1987, n. 56, infatti, specifica che il contratto a termine si può stipulare solo nelle ipotesi individuate dai contratti collettivi sottoscritti dai sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni rappresentative sul piano na- zionale. Per la prima volta, quindi, si passa ad attribuire ruolo predominante alla contrattazione collettiva, seppur limitando la scelta ai c.c.n.l. siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi ma lasciando agli stessi mano libera sulle condizioni di validità del contratto; è la stessa contrattazione collettiva che, anche qui per la prima volta, doveva stabilire i limiti quantitativi al con- tratto a termine: i sindacati entrano in modo preponderante nella gestione del marcato del lavoro, e con le loro scelte determinano il percorso che lo stesso deve osservare, con tutto quello che ne consegue in termini di stabi- lizzazione dei posti di lavoro e precariato5.
zate; 5) assunzione per il personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli, con esclusione del personale amministrativo e della manodopera generica.
5 Sul punto cfr. X. Xxxxxxxx – X. Xxxxxxxxxx, La conversione del contratto di lavoro subordinato a
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Il punto di arrivo di questa evoluzione è chiaramente il d.lgs. 6.9.2001, n. 168, tramite il quale si recepiscono le disposizioni contenute della Direttiva del Consiglio d’Europa del 28.6.1999, n. 99/70/CE e relativa all’accordo quadro CES – UNICE – CEEP sul lavoro a tempo determinato.
Il testo di legge, attualmente in vigore, è integralmente in allegato al pre- sente lavoro e recepisce tutti i precedenti passaggi, concettuali e giuridici, che si sono avuti nell’ordinamento italiano. In primo luogo, si stabilisce che il contratto a termine deve essere stipulato in forma scritta, con l’indicazione di ragioni giustificatrici che possono essere tecniche, organizzative, produt- tive e sostitutive; il contratto può essere prorogato ma solo una volta, e in caso di rinnovo tra un contratto e l’altro vi deve essere un tempo «inattivo» specifico, e poi fatto oggetto di più revisioni; sicuramente, l’aspetto di mag- giore rilievo in questa legge è la sostituzione del precedente criterio di tassa- tività, legato ai c.c.n.l. di riferimento, con la clausola generale indicata all’articolo 1 della legge6.
La nuova disciplina, inoltre, stabilisce una durata massima del contratto fissandola in 36 mesi complessivi (quindi cumulando più contratti a termine) e superata la quale il rapporto di lavoro si considera convertito a tempo in- determinato; stessa sorte avviene per i contratti il cui termine non sia stato indicato, oppure non è valido, o nel caso di più proroghe del contratto stes- so; sulla durata si è soffermata molto soprattutto la giurisprudenza che, co-
tempo determinato, Milano, 2009, 1 – 32, nel quale si legge che: «… negli anni successivi, la contratta- zione collettiva, previa indicazione dei limiti percentuali, ha introdotto, con l’avallo della prevalente giurispru- denza, nuove ipotesi di lavoro a termine, sia di carattere oggettivo che giustificate da causali soggettive, ossia tali da ammettere il lavoro a termine in presenza di mere caratteristiche soggettive dei lavoratori da assumere ed a prescindere da ogni esigenza oggettiva dei datori di lavoro … espressione di quest’ultima tendenza è stato senz’alcun dubbio l’accordo interconfederale stipulato tra Confindustria e CGIL, CISL e UIL nel 1988, poi ripetuto per l’Intersind e successivamente prorogato, che consentiva la stipula di contratti a termine di durata non inferiore a 4 mesi, ma non superiore a 12 mesi con lavoratori di età superiore ai 29 anni, iscritti nelle liste di collocamento, da assumersi con mansioni per le quali non era possibile l’assunzione con contratto di formazione».
6 Il passaggio dal controllo sindacale, che avveniva ex ante, a quello esercitato dall’autorità giudiziaria, ex post, sulla validità del contratto a termine è divenuta un’arma a doppio taglia poiché la maggior parte della magistratura ha finito con l’interpretate i passaggi della legge in modo molto rigido (soprattutto per la conversione); per altro, sotto un secondo aspetto, que- sta modifica ha sostanzialmente attribuito pieni poteri alla magistratura di sindacare quando e se il contratto a termine è da considerarsi nullo, con buona pace della certezza del diritto.
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me vedremo, ha cercato di porre un argine al fenomeno delle continue reite- razioni dello stesso contratto a termine per più anni.
1.3 - La materia, come visto, è comunque oggetto di continui mutamenti e nel corso degli ultimi 5 anni si sono avute ben tre interventi legislativi che meritano particolare interesse: 1) il protocollo Welfare del luglio 2007; 2) il Collegato lavoro dell’autunno 2010; 3) la riforma Fornero del luglio 2012.
Con la legge 24.12.2007, n. 247, si è portato a compimento il percorso iniziato con il Protocollo welfare che era finalizzato ad una profonda rifor- ma del mondo del lavoro ed alla lotta alla precarietà, poi solo parzialmente rimasto vigente a seguito di diverse modifiche apportate dalla riforma 2008; frutto di un contesto politico ben preciso, la legge 27 ha introdotto un comma 1 all’art. 1 del d.lgs. 368/2001, ai sensi del quale il contratto di lavo- ro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato, questa precisa- zione non è di poco conto se si considera il lungo dibattito che ha animato la dottrina e riferito alla possibilità di stipulare un contratto a tempo deter- minato anche nei casi in cui, per situazioni oggettive dell’azienda, sia conte- stualmente possibile sottoscrivere un contratto a tempo indeterminato: in poche parole, il contratto a termine è oppure non è legato ad una esigenza temporanea ed eccezionale? La legge 247 sembra fugare ogni dubbio, in modo piuttosto definitivo, allineandosi a quanto già affermato in ambito europeo con la Direttiva 28.6.1999 n. 99/70/CE.
Sul punto è interessante la posizione assunta da parte della Corte Costi- tuzionale che, con sentenza 15 luglio 2005, n. 283, ha condizionato l’operatività del comma 1°, art. 1419 cod. civ. (relativo alla nullità parziale del contratto per violazione dei requisiti prescritti, e conversione in lavoro a tempo indeterminato) all’incontro tra le esigenze del datore di lavoro e del lavoratore ovvero che quest’ultimo non avrebbe stipulato il contratto se non in presenza di quella clausola (il termine) poi divenuta nulla7.
7 Cfr. Corte Cost. 15.7.2005, n. 283: «Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, 2º comma, d.l. 30 ottobre 1984 n. 726 (misure urgenti a sostegno e ad incremento di livelli occu- pazionali), convertito con modificazioni nella l. 19 dicembre 1984 n. 863, sollevata con riferimento agli art. 3 e 36 cost.; la forma scritta - richiesta ad substantiam, secondo la giurisprudenza - perseguiva una funzione di protezione del lavoratore e questa corte ha già rilevato come tale disposizione debba ritenersi norma impera- tiva regolante il contenuto del contratto di lavoro a tempo parziale e posta proprio al fine di tutelare il lavora- tore contro la pattuizione di clausole vessatorie; la sanzione della nullità del contratto per carenza della forma scritta è scongiurata laddove si ricorra alla ratio della nullità parziale del contratto ex art. 1419 c.c. con la 128
A cavallo tra la legge 247 e la Riforma Fornero sono intervenute altre due importati modifiche alla disciplina sul contratto a termine; la prima, è quella attuata con la l. 133/2008, in attuazione del d.l. 112/2008, con la quale si è modificato l’art. 4-bis, d.lgs. 368/2001, introdotto dalla l. 247 e si è stabilito quanto segue: «il contratto a termine viene convertito in uno a tem- po indeterminato anche in tutti quei casi in cui il lavoratore abbia lavorato per più di 36 mesi, comprese le proroghe e gli intervalli tra un contratto e l’altro, ma fatte salve le diverse disposizioni dei c.c.n.l. stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi».
In ultimo, è intervenuto il noto Collegato lavoro 2010, ovvero la l. 4.11.2010, n. 183, che ha fissato all’art. 32, commi 5-7, alcune novità rilevan- ti.
In primo luogo, si fissa un’indennità minima e massima per i casi di con- versione del contratto in tempo indeterminato e si stabilisce una forbice che va da un minimo di 2,5 mensilità ad un massimo di 12 mensilità della retri- buzione globale di fatto; a lungo si è discusso se tale indennità sia onnicom- prensiva o se, invece, alla stessa debbano aggiungersi tutte le retribuzioni maturate dalla data di deposito del ricorso a quella di effettiva reintegra del lavoratore: l’interpretazione corretta della giurisprudenza è stata di conside- rare tale indennità onnicomprensiva ed evitare ulteriori aggravi sul datore di lavoro8.
conversione del contratto di lavoro a tempo parziale in contratto di lavoro a tempo pieno, fatta salva l’ipotesi in cui le parti non lo avrebbero concluso conoscendo la causa della nullità».
8 La questione è stata definita dalla Corte Costituzionale che con sentenza 11.11.2011, n. 303, ha così stabilito: «Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, 5º, 6º e 7º comma, l. n. 183 del 2010, nella parte in cui prevede, nei casi di conversione in contratto a tempo indetermi- nato per illegittimità dell’apposizione del termine, una forfettizzazione del risarcimento, applicabile in via retroattiva, in quanto, per un verso, la norma non si limita a forfettizzare il danno, ma assicura al lavoratore illegittimamente assunto a termine l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e, dall’altro, la determinazione dell’ammontare del risarcimento, che copre soltanto il periodo che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che ne accerta la nullità, essendo dovuto anche in mancanza di danno, realizza un equilibrato componimento degli interessi, in riferimento agli art. 3, 4 e 24 cost.»; a questa deci- sione ha fatto seguito la Cassazione che ha deciso in riferimento alla natura omnicomprensiva dell’indennità risarcitoria: cfr. Cass. 31.1.2012, n. 1411: «In caso d’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, si applica a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità, lo ius superveniens introdotto dall’art. 32 l. n. 183 del 2010, il quale comporta la forfettizzazione del danno mediante la corre- sponsione dell’indennità ivi prevista, che copre il periodo che corre dalla scadenza del termine fino alla senten- za che accerta la nullità di esso, senza possibilità di detrarre l’aliundeperceptum». Sul punto cfr. anche Cass. 31.1.2012, n. 1409: «In tema di risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro
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In secondo luogo, ribadendo già una precedente disposizione, si stabili- sce il diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per il lavoratore a termine che abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi purché però lo stesso manifesti la propria volontà al dato- re entro 6 mesi dalla data di cessazione del contratto; infine il Legislatore – perseguendo l’obiettivo della celerità dei giudizi – ha stabilito al comma 1°, art. 32, che il licenziamento (o comunque la cessazione del rapporto di lavo- ro) deve essere impugnato entro 60 giorni dalla data di intimazione, pena la decadenza, ed è comunque inefficace se non è seguita (entro 270 giorni) dal deposito del ricorso: questa disposizione comporta che il lavoratore, il quale vuole agire per il riconoscimento del proprio diritto alla conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato, deve rispettare dei termini deca- denziali ben precisi onde evitare la soccombenza in giudizio.
In ultimo è sopraggiunta la Riforma Xxxxxxx che ha nuovamente messo mano alla disciplina sul contratto a termine, semplificandone alcuni aspetti e rendendone più complessi altri.
La Riforma, infatti, ha cercato di semplificare l’utilizzo del contratto a termine eliminando l’obbligatorietà del «causalone» nel primo contratto che viene stipulato tra le parti, purché lo stesso non sia superiore ad 1 anno e comunque (in questo caso) il contratto non potrà essere oggetto di proroga; questa prima apertura è stata ulteriormente ampliata in sede di esame al Se- nato con la possibilità eliminare il «causalone» anche in tutti i casi previsti dalla contrattazione collettiva quando l’assunzione avviene in concomitanza con particolari processi produttivi: avvio di una nuova attività, lancio di un prodotto o di un servizio, progetto di ricerca o sviluppo, ecc.
Dall’altro lato, la Riforma ha finito con il rendere il contratto a termine più difficoltoso. Nello specifico, si sono allungati i tempi di prosecuzione del rapporto di lavoro che divengono di 30 giorni, per i contratti sotto i 6 mesi, e di 50 giorni, per i contratti di durata superiore, ma – al contempo – sono stati cambiati i tempi c.d. «morti» tra un contratto e l’altro: 60 giorni, nel
a tempo determinato, la sopravvenuta disciplina dell’art. 32, 5º, 6º e 7º comma, l. n. 183 del 2010, come interpretata dalla corte costituzionale con la sentenza n. 303 del 2011, si applica nel giudizio pendente in grado di legittimità, qualora tale ius superveniens sia pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per cassazio- ne (nella specie, in applicazione del principio, la suprema corte, respingendo il ricorso avverso la decisione di merito che dichiarava nullo il termine, ha cassato la decisione stessa in ordine alla misura del risarcimento, e, negata ogni rilevanza all’eccezione di aliunde perceptum, non detraibile nella sopravvenuta disciplina, ha rinviato al giudice territoriale per la determinazione dell’indennità in base alla disciplina medesima)».
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caso di contratti sotto i 6 mesi, e 90 giorni in tutti gli altri, salvo la possibilità per i contratti collettivi di prevedere modifiche riduttive in tale senso9.
1.4 - Nel pubblico impiego, anche dopo la parziale privatizzazione, la di- sciplina del contratto a termine segue una strada propria e mantiene sostan- ziali differenze dall’impiego privato.
Le norme che disciplinano il rapporto di lavoro alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione sono lasciate all’art. 51, d.lgs. 30.3.2001, n. 165, che stabilisce l’applicazione della tutela reale e quindi della l. 20.5.1970, n. 300, a prescindere dal requisito dimensionale, stabilendo un principio fon- damentale che regola tutta la P.A. ovvero quello della stabilità del posto di lavoro; anche per il pubblico impiego, comunque, il rapporto di lavoro è contrattualizzato e viene lasciato alla contrattazione collettiva di comparto la disciplina del rapporto di lavoro e l’attribuzione di determinati trattamenti economici10.
Con la l. 133/2008, il legislatore ha interamente riscritto l’art. 36 del testo Unico sul pubblico impiego che era stato stravolto nel suo contenuto, e for- temente ridotto nella propria applicazione: si riteneva il contratto a termine un sinonimo di precarietà quando, come già visto nei cenni storici, è in quel- la forma contrattuale che si fondano i grandi rilanci dell’economia nazionale. Il nuovo articolo 36, infatti, ribadisce la centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel pubblico impiego – secondo le procedure ex art. 35 – ma al contempo ammette che, una P.A., in mancanza di organico, pos- sa fare ricorso a forme contrattuali «flessibili» al fine di garantire il buon an- damento e il funzionamento dell’Amministrazione stessa; l’abominio creato nel 2007, è stato giustamente rimosso in favore di un sistema di maggiore respiro per una Pubblica Amministrazione sempre più in stato agonizzante e
9Sono stati anche xxxxxxx i tempi di impugnazione e proposizione dell’azione giudiziaria: 120 giorni per l’impugnazione del contratto e 180 giorni per il deposito del ricorso, decorren- ti dalla data di impugnazione.
10 Interessante anche Cass. 13.1.2012, n. 392: «Il divieto di conversione in rapporto a tempo inde- terminato nell’ipotesi d’illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro, posto dall’art. 36 d.leg. n. 165 del 2001, assume carattere di specialità, per il lavoro pubblico contrattuale, rispetto al generale sistema sanzionatorio prefigurato in tema di contratto a termine, in armonia con la giurisprudenza costante della corte di giustizia europea ed in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni in concreto subiti dal lavoratore».
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che, con contratti flessibili, può sopperire alle mancanze in organico e riusci- re a continuare le proprie attività ordinarie11.
Tuttavia, con le ultime riforme è stato reintrodotto un certo rigore ed il contratto a termine, seppur con più respiro rispetto alle precedenti leggi, deve seguire alcuni criteri ben precisi: infatti, le ragioni poste a fondamento del contratto a termine, diverse da quelle per l’impiego privato, devono co- munque risultare da atto scritto e corrispondere a criteri di straordinarietà.
2.- Come noto, la legge prescrive la forma scritta per la valida apposizio- ne del termine ad un contratto di lavoro: forma scritta dalla quale, si precisa, devono derivare una serie di elementi che poi qualificano il rapporto di lavo- ro: la forma scritta è richiesta ad substantiam ovvero in sua mancanza, il termine si considera nullo ed il rapporto di lavoro convertito in tempo inde- terminato sin dall’inizio, con tutte le conseguenze in termini di anzianità, computo nell’organico, disciplina del recesso e preavviso, e tutti gli altri isti- tuti previsi dal c.c.n.l. di riferimento.
La giurisprudenza sul punto non ha molti dubbi, si confronti infatti Xxxx. 14.7.2011,n. 15494:«Ai sensi dell’art. 1, 3º comma, l. 18 aprile 1962 n. 230, l’apposizione del termine al contratto di lavoro postula, a pena di nullità, un patto di forma scritta essenziale, che deve essere anteriore o, quanto meno, contestuale all’inizio del rapporto e non può essere surrogato, in ipotesi di assunzione attraverso l’ufficio di collocamento, dagli atti costituiti dalla ri- chiesta del datore di lavoro o dal provvedimento di avviamento del lavorato- re da parte dell’ufficio predetto».
É chiaro che la forma scritta è una tutela per entrambe le parti, poiché fissa inequivocabilmente la volontà delle stesse e stabilisce le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa: è pur vero, però, che il giudizio innanzi al Giudice del Lavoro può stravolgere lo stesso atto scritto e travol- xxxx la validità dello stesso a fronte della prova di una diversa modalità di esecuzione del rapporto di lavoro. Il nomen iuris, infatti, è solo un’indicazione.
Nel contratto, quindi, dovranno essere indicate le ragioni che giustificano l’apposizione del termine, di cui si parlerà nei successivi paragrafi, la durata
11 Resta intesto, comunque, che l’apertura non fa venire meno quegli obblighi di traspa- renza e pari di trattamento che ispirano la gestione stessa della P.A., a cui si ricollega la possi- bilità di rotazione dei collaboratori esterni o dei contratti a termine.
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del contratto (ovvero il termine), le mansioni ed il luogo di lavoro, l’orario, l’inquadramento e la retribuzione, l’eventuale periodo di prova: anche il pat- to di prova, infatti, è nullo se non viene espressamente pattuito per iscritto tra le parti.
Sul patto di prova è necessaria una particolare attenzione. Il patto, infatti, deve necessariamente avere una durata delimitata nel tempo e viene connes- so allo svolgimento di specifiche mansioni; è chiaro, a questo punto, che una corretta indicazione (nel contratto) della qualifica, inquadramento e mansio- ni, attribuite al lavoratore, diviene elemento e condizioni di efficacia del pat- to di prova stesso poiché il lavoratore deve essere messo in condizione di conoscere – ed accettare – l’oggetto su cui verterà il periodo di prova: nes- sun dubbio che il patto possa essere validamente previsto anche in un con- tratto la cui durata, per definizione, è delimitata nel tempo.
Anche in questo caso è interessante la giurisprudenza, cfr. Cass. 27.11.1982, n. 6441: «La pattuizione di un periodo di prova è compatibile con la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, sussisten- do anche relativamente ad esso l’interesse ad un iniziale esperimento durante il quale il datore di lavoro può accertare le capacità del lavoratore in relazio- ne alle mansioni affidategli ed alla retribuzione promessagli e questi può va- lutare l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni in cui il rapporto si svolge»12.
Stabilita la forma scritta, va comunque chiarito che il contratto a termine non può essere utilizzato per tutti i lavoratori poiché la legge prescrive, in modo inderogabile, l’esclusione di alcune categorie da questa forma contrat- tuale onde evitare possibili lesioni o conflitti con i diritti in gioco; l’art. 3, d.lgs. 368/2001, infatti, esclude espressamente:
a) la stipula di un contratto a termine per sostituire un lavoratore in scio- pero, poiché si finirebbe per sminuire un diritto costituzionalmente garanti- to;
12 Non vi sarebbero particolari problemi alla reiterazione del patto di prova – ovvero a più contratti a termine che si susseguono nel tempo e ognuno con un proprio periodo di prova – poiché il Giudice del lavoro potrebbe ben ritenere valida tale reiterazione nel mo- mento in cui risponda ad una esigenza effettiva dell’azienda di valutare i progressi fatti da parte del dipendente: chiaramente, è nel caso concreto che si ha poi il dovuto discrimine.
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b) la possibilità di stipulare contratti a termine all’interno di unità produt- tive dove – nei precedenti 6 mesi – si è proceduto a licenziamenti collettivi per mansioni analoghe a quelle oggetto del contratto a termine13;
c) la possibilità di stipulare contratti a termine nelle unità produttive in cui è in atto una cassa integrazione (slavo, ovviamente le recenti modifiche ed il passaggi all’Aspi);
d) la possibilità di stipulare contratti a termine in aziende che non hanno effettuato la valutazione dei rischi così come previsto dal T.TU. 9.4.2008, n. 81.
2.2 - L’indicazione delle ragioni giustificatrici del contratto a termine è condizione di validità dello stesso; tuttavia è opportuno chiarire che, fino al luglio 2012, era necessario che tutti i contratti a termine (che fosse il primo o no, poco cambiava) dovevano specificare tali ragioni. Dopo la Riforma For- nero, entrata in vigore il 18 luglio 2012, è stata modificato il d.lgs. 368/2001 ed è stata prevista la possibilità che, nel primo contratto a termine stipulato tra le parti, possa effettivamente mancare l’indicazione dei motivi senza che ciò comporti alcun genere di sanzione o rischio per il datore di lavoro; la Riforma ha infatti introdotto un comma 1bis che così recita: «Il requisito di cui al comma 1 non è richiesto nell’ipotesi del primo rapporto a tempo de- terminato, di durata non superiore a dodici mesi, concluso fra un datore di lavoro o utilizzatore e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nel caso di prima missione di un lavoratore nell’ambito di un contratto di somministra- zione a tempo determinato ….».
La statuizione non è di poco conto. Salta il c.d. «causalone» sia per il con- tratto a termine si, anche, per la somministrazione a termine (vera vincitrice della Riforma Fornero) purché si tratti del primo contratto e purché la dura- ta non sia superiore ai 12 mesi: nessuna conversione del rapporto di lavoro si ha, quindi, in questi casi, ove manchi l’indicazione delle ragioni.
2.3 - Come visto, seppur mancanti nel primo contratto, in quelli succes- sivi il contratto a termine deve indicare delle ragioni giustificatrici che pos- sono essere organizzative, produttive, tecniche e sostitutive.
13 Resta legittimo, invece, il contratto a termine per mansioni diverse da quelle proprie dei lavoratori oggetto di collettivo.
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Le ragioni organizzative e produttive sono molto simili. Si tratta di esi- genze temporanee a cui deve fare fronte l’azienda e sono connesse:
a) le organizzative: a particolari situazioni del mercato, come il rilancio di un punto vendita o il lancio di un nuovo prodotto sul mercato, che richiede un numero maggiore (e temporaneo) di personale;
b) le produttive: a picchi di produzione, tipicamente stagionali e classici per determinate attività lavorative.
Si può dire che queste due ragioni giustificatrici sono connesse a delle scelte di gestione economica svolte da parte del datore di lavoro, sicché – se effettive – non sono neppure sindacabili nel merito da parte del giudice: ne verrebbe meno la libertà di iniziativa economica privata stabilita dalla Costi- tuzione. Si tratta infatti, come giustamente sostenuto dalla dottrina, di quelle ragioni per le quali l’imprenditore – in mancanza temporanea di lavoratori – potrebbe subire un danno per una ridotta capacità competitiva sul mercato; è opportuno chiarire che in un contenzioso, ove il lavoratore sostenga l’inesistenza di tali ragioni, il datore ha l’onere di dimostrare con puntualità l’esigenza e la natura temporanea della stessa, aspetto che diviene ancora più stringente quando si tratta di dimostrare l’effettiva esistenza di «picchi di produzione»14.
2.4 - Anche le ragioni tecniche sono, molto spesso, associate a quelle or- ganizzative o produttive e per comodità espositiva si trattano separatamente; in questo caso, infatti, alle ragioni tecniche si riconducono quelle per cui l’imprenditore si trovi a dover far fronte a necessità di carattere transitorio di personale in possesso di particolari attitudini o specializzazioni: specializza- zioni che, sia chiaro, mancano ai dipendenti già assunti a tempo indetermi- nato.
Le ragioni tecniche, inoltre, si possono incrociare con quelle sostitutive nel momento in cui – per l’assenza di un lavoratore con diritto alla conser- vazione del posto – si rende indubbiamente necessaria la sostituzione tem- poranea con personale specializzato.
14 La dottrina si divide nel valutare se le ragioni, così specificate, debbano sussistere per tutta la durata del rapporto di lavoro oppure è sufficiente – come forse più coerentemente si ritiene – siano esistenti al momento della stipula: la necessità immediata, infatti, dovrebbe di per sé essere garanzia della valida apposizione del termine.
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2.5 - Come anticipato, le ragioni sostitutive sono connesse alla necessità di sostituire personale che ha diritto alla conservazione del posto di lavoro ad eccezione, chiaramente, dei lavoratori in sciopero: casi tipici sono, ad esempio, la lavoratrice in maternità o il dipendente assente per ferie, o inabi- lità a determinate mansioni, oppure assente per formazione, distacco o co- mando.
L’indicazione delle ragioni sostitutive richiede particolare attenzione poi- ché, come da conforme dottrina e giurisprudenza, è fondamentale che esista una correlazione diretta tra la causale e l’assenza del dipendente, mentre non sembra necessaria un’esatta correlazione con le mansioni in precedenza svolte; il lavoratore in sostituzione, infatti, sopperisce ad una mancanza di organico e non necessariamente ad uno specifico ruolo (salvo la commistio- ne con le ragioni tecniche di cui prima) e sul punto è utile un confronto con la giurisprudenza di legittimità:
Cass. 10.11.2009, n. 23761:«Il lavoratore assunto a termine ai sensi dell’art. 1, 2 comma, lett. b), l. n. 230 del 1962, per la sostituzione del lavora- tore assente con diritto alla conservazione del posto, non deve essere neces- sariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavo- ratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze dell’impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all’imprenditore - nell’esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell’assenza di un dipendente) l’utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente realizzazione di un insieme di sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione, di tipo causale tra l’attività del sostituto e quella del soggetto sostituito, in difetto della quale si avrebbe una mera coincidenza temporale tra la sostituzione interna del dipendente assente e l’assegnazione del sostitu- to ad una posizione lavorativa non correlata a quella lasciata scoperta dal dipendente assente»15.
15 Sul punto è conforme anche Cass. 30.7.2003, n. 11699: «Il lavoratore assunto a termine ai sensi dell’art. 1, 2º comma, lett. b), l. n. 230 del 1962, per la sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, non deve essere necessariamente destinato alle medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla norma va intesa nel senso più confacen- te alle esigenze dell’impresa; pertanto, non può essere disconosciuta all’imprenditore - nell’esercizio del potere autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in conseguenza dell’assenza di un dipendente) l’utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a termine, mediante i più opportuni spostamenti interni, con conseguente rea- 136
Diverso invece il discorso per quanto riguarda l’indicazione del lavorato- re da sostituire. Seppur la dottrina si divida, l’opinione prevalente – e condi- visibile – è quella che ritiene necessaria l’indicazione del lavoratore sostituito ed un’attenta verifica che vi sia esatta corrispondenza; se non c’è corrispon- denza e se il lavoratore sostituito in realtà poi è regolarmente in servizio, il contratto ha un termine nullo ed il rapporto si converte in tempo indetermi- nato. Per altro, l’assenza del lavoratore, dovrebbe permanere per tutta la durata del contratto a termine anche se non è richiesta una perfetta coinci- denza tra i due periodi e si considera minimamente tollerabile un «passaggio di consegne» onde evitare problemi diversi per l’azienda.
3. - Il d.lgs. 368/2001 è stato oggetto di diversi interventi legislativi volti a prevenire, o quanto meno limitare, la illegittima reiterazione nel tempo di contratti a termine – strumenti a lungo abusato per aggirare le tutele del la- voro a tempo indeterminato – che ancora oggi resta comunque un nodo da sciogliere: flessibilità totale, quasi a voler tornare all’art. 2097 cod. civ., op- pure maggiori garanzie di stabilità per il lavoratore?
Inutile ripercorrere le varie fasi che hanno portato all’attuale disciplina, basterà sin qui ricordare che – storicamente – si contrappongono due fronti. Il primo, per la flessibilità, ed in favore di un modello economico (o quanto meno contrattuale) sullo stile statunitense e con la massima flessibilità con- trattuale; il secondo, più rigido, che guarda alla stabilità del posto di lavoro e che ha trovato parziale (e temporanea) attuazione con la legge 247/2007, poi abrogata.
In sintesi, quindi, l’attuale disciplina prevede che la sommatoria di più contratti a termine tra le parti (datore e lavoratore), aventi ad oggetto le me- desime mansioni, non può superare i 36 mesi effettivi e comprensivi del tempo intercorso tra un contratto e l’altro, pena la conversione del rapporto in tempo indeterminato e la conseguente applicazione di tutti gli altri istituti; la disciplina viene fissata dal comma 4-bis, art. 5, d.lgs. 368/2001 poi xxxx- ficata dalla Riforma Fornero che ha previsto l’unica eccezione alla durata di 36 mesi: infatti, è concessa alle parti la possibilità di stipulare un ultimo con- tratto a termine – di durata non superiore ai 12 mesi – anche dopo i 36 mesi
lizzazione di un insieme di sostituzioni successive per scorrimento a catena, sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed assunzione a termine, nel senso che la seconda deve essere realmente determinata dalla necessità creatasi nell’azienda per effetto della prima».
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indicati purché la stipula avvenga presso la Direzione Territoriale del Lavoro e con l’assistenza di un rappresentante sindacale. In caso di mancato rispetto di questa procedura, o di proseguimento del rapporto oltre il 12esimo mese, il rapporto si converte a tempo indeterminato.
In ogni caso, il contratto a termine può essere validamente prorogato per una sola volta, pena la conversione a tempo indeterminato e comunque ciò può avvenire solo con il consenso del lavoratore e solo se il contratto ha una durata inferiore ai 36 mesi; la proroga è sempre ammessa ma richiede l’espresso consenso del lavoratore alla continuazione del rapporto di lavoro ed allo svolgimento delle medesime mansioni: è chiaro che il consenso del lavoratore, da solo, non sana un eventuale difetto relativo all’esistenza delle ragioni giustificatrici che – comunque – devono persistere, anzi soprattutto nel caso della proroga sarà onere del datore di lavoro fornire la prova circa la continuazione di quelle necessità temporanee che hanno determinato l’assunzione a termine16.
Xxxx accade se alla scadenza del contratto, ed a prescindere dalla possibi- lità della proroga, il datore di lavoro ha l’esigenza di stipularne uno nuovo?
Un primo contratto a termine può essere validamente prorogato una sola volta, purché non si superi il limite dei 36 mesi: una volta prorogato e nuo- vamente scaduto il contratto, tra le parti non si può stipulare un nuovo con- tratto identico al precedente e connesso alle medesime ragioni, poiché serve la prova dell’esistenza di circostanze nuove. La riassunzione del lavoratore a termine, infatti, segue delle regole ben precise poiché tra un contratto e l’altro devono esservi degli intervalli ben precisi, posti quale presunzione della maturazione di nuove situazioni eccezionali non prevedibili: una serie continua di contratti, collegati uno all’altro, seppur nel limite dei 36 mesi, comporterebbe comunque la nullità del termine (per difetto delle ragioni giustificatrici) e la conversione del rapporto in tempo indeterminato.
16La proroga segue il contratto. É ammessa solo se il contratto non ha durata superiore ai 36 mesi (o anche se il cumulo con i precedenti contratti non porti al superamento di tale limite) poiché altrimenti si avrebbe un ingiustificato raggiro della norma, e non è preclusa per i contratti successi che possono essere stipulati autonomamente tra le parti; per altro, dopo l’eliminazione del «causalone» ad opera della Riforma Fornero, resta comunque l’obbligo di motivare l’eventuale proroga del contratto: ecco l’ennesimo caso in cui la Riforma si scontra con l’efficienza. Non esiste la causale, ma la causale è necessaria per la proroga: schizofrenia legislativa.
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Sul punto è intervenuta anche la legge Fornero che ha modificato gli spazi di intervallo da un contratto e quello nuovo, chiudendo ancora di più alle possibili elusioni di legge. Il nuovo dettato legislativo, infatti, prevede che in caso di contratto di durata inferiore ai 6 mesi, l’intervallo di tempo tra un contratto e l’altro deve essere di 60 giorni (prima della Fornero erano 10): diventano 90 giorni (e prima erano solamente 20) nel caso di un contratto iniziale di durata superiore ai 6 mesi.
4. - Il primo criterio per la cessazione dal rapporto di lavoro è attendere (per l’appunto) la naturale scadenza del contratto: molto spesso nel contrat- to è inserita la clausola secondo la quale, al momento della scadenza, lo stes- so si estingue senza bisogno di alcuna comunicazione da parte del datore di lavoro. In realtà, questa clausola non è necessaria in ragione di un principio codicistico che fa del termine ultimo la motivazione prima, e legittima, di risoluzione di un rapporto di lavoro; certo, resta salva per il lavoratore la facoltà di impugnare il termine apposto al contratto che, ai sensi della nuova disciplina, deve avvenire entro 120 giorni dalla scadenza stessa e poi deve essere seguito, pena la decadenza, dal deposito del ricorso entro i successivi 180 giorni.
Il secondo caso di recesso, è quello anticipato17 che deve necessariamen- te essere determinato dalla giusta causa ai sensi dell’art. 2119 cod. civ.; la specifica non è casuale, poiché si richiama a quel vincolo fiduciario che lega due parti e che – nel caso del contratto a termine – è ancora di più forte vi- sta la specialità del rapporto che viene giustificato da particolari ragioni: vie- ne invece esclusa la possibilità del recesso anticipato per giustificato motivo soggettivo (una giusta causa più lieve) o oggettivo (ad esempio, la soppres- sione del posto). Quest’ultima, per altro, sarebbe una contraddizione con l’esistenza di ragioni temporanee ed eccezionali.
La parte che recede ha diritto ad un risarcimento del danno che, nel caso del lavoratore, viene commisurato in un ammontare pari alle retribuzioni che lo stesso avrebbe percepito se il contratto avesse avuto la durata previ- sta; anche il datore di lavoro ha diritto ad una forma di risarcimento del danno nel momento in cui recede per giusta causa oppure, caso opposto, è il
17 Cfr. Trib. Bolzano 3.10.2008: «La facoltà di recesso ante tempus dal contratto di lavoro a tempo determinato è consentita solo nell’ipotesi di ricorrenza di giusta causa e non anche di giustificato motivo sogget- tivo ovvero oggettivo».
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lavoratore che recede ma la giusta causa non sussiste: il principio che si ap- plica è quello delle obbligazioni ex art. 1218 cod. civ18.
In alcuni casi, per semplicità, la misura del risarcimento del danno, di cui ha diritto il datore di lavoro, può essere concordata direttamente in sede di stipula del contratto a termine.
Il terzo caso di cessazione dal rapporto di lavoro, anche questa toccata dalla Riforma Fornero, è la c.d. risoluzione consensuale ovvero il caso in cui le parti – di comune accordo – dichiarano di volere recedere dal rapporto, senza alcuna pretesa reciproca; in molti casi, tuttavia, viene prevista una forma di indennizzo per una delle due parti ma, comunque, è sempre richie- sta (e preferibile) la forma scritta ad probationem ed a tutela da future prete- se non gradite.
Dopo il Collegato lavoro 2010, che ha introdotto l’obbligo di impugna- zione dei licenziamenti e del termine apposto ai contratti, la mera inerzia del lavoratore diviene fatto concludente da cui si desume la volontà del lavora- tore di non impugnare il contratto.
Sul punto cfr. Cass., 4.8.2011, n. 16932:
«Nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consen- so, è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comporta- mento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi
18 Sul punto cfr. X. Xxxxxxxx – X. Xxxxxxxxxx, La conversione del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato, cit., 128-129: «Laddove, invece, il recesso anticipato senza giusta causa venga esercitato dal prestatore di lavoro (dimissioni non sorrette da giusta causa), questi deve risarcire il datore di lavoro per i danni subiti (per esempio: spese sostenute per la ricerca di un lavoratore dimissionario), sempre che quest’ultimo fornisca la prova dei danni subiti, prova che dovrà essere particolarmente rigorosa, potendo il risarcimento essere escluso nel caso in cui i pretesi danni non siano effettivamente riconducibili in modo imme- diato e diretto alle dimissioni o potendo essere ridotto in caso di colpevole inerzia del datore di lavoro nel reperimento di un lavoratore che sostituisca il recedente sino alla scadenza del termine».
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logici o errori di diritto (principio enunciato ai sensi dell’art. 360 bis, 1º comma, c.p.c.)»
Anche in questo caso, il principio è quello civilistico stabilito dall’art.
1372 cod. civ.
In tutti i casi sopra esaminati, comunque, trattandosi di lavoro a termine, non vi è il diritto al preavviso che rimane un istituto tipico del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Discorso a parte viene fatto per le dimissioni del lavoratore.
Quella delle dimissioni del lavoratore rappresenta il caso tipico in cui il recesso avviene per volontà unilaterale del dipendente il quale, in genere, poi avanza una serie di richieste di natura economica, oltre che la conversione del rapporto.
È opportuno chiarire che, anche di fronte ad aziende sopra i 15 dipen- denti, non si applica al contratto a termine la tutela reale ex art. 18, l. 20.5.1970, n. 300, poiché lasciata esclusivamente ai rapporti a tempo inde- terminato; tuttavia, tale disciplina finisce per essere poi efficace nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un recesso (illegittimo) da un contratto a termine (altrettanto illegittimo) poi convertito in tempo indeterminato: la nullità par- ziale del contratto, ovvero il termine, investe anche il rapporto di lavoro e l’atto con cui il datore ha proceduto al recesso che – di conseguenza – passa sotto la disciplina dello Statuto dei lavoratori.
Ciò nonostante la Riforma Fornero ha stabilito l’obbligo della forma scritta certificata sia per le dimissioni che per la risoluzione consensuale del rapporto; per cui, anche a voler ritenere sussistente una giusta causa di re- cesso, il lavoratore dovrà seguire quella specifica procedura che è stata fissa- ta dai commi 16-23, dell’art. 4 della Riforma e che richiedono la convalida delle dimissioni di fronte alla D.T.R. o un organo autorizzato: senza dilun- garsi troppo, le dimissioni sono sottoposte ad una condizione sospensiva e produrranno effetti solo dopo la convalida19.
4.2 - Come già visto, in caso di violazione delle disposizioni prescritte dalla legge per la valida apposizione del termine al contratto, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato in ragione della nullità parziale che investe solo la clausola del termine (ovviamente) e non l’esistenza di un
19 Cfr. X. Xxxxxxxx, Le dimissioni dopo la Riforma Fornero, in Diritto 24, settembre 2012.
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contratto di lavoro; in realtà, l’utilizzo del termine «conversione» può non essere esatta poiché all’interno di esso rientrano tutte le circostanze in cui (anche a prescindere dalla validità del termine) il rapporto di lavoro sia da riqualificare come uno a tempo indeterminato: la dottrina più autorevole, infatti, non ha tardato a ritenere che il termine più esatto sia in realtà «tra- sformazione» che finisce con portare dietro di sé tutte quelle conseguenze di cui si diceva20.
Nell’originaria formulazione, o quanto meno prima del Collegato lavoro, la conversione del contratto di lavoro a termine in uno a tempo indetermi- nato, portava a delle conseguenze di tipo economiche non delimitate nel minimo o nel massimo, né (tantomeno) nelle modalità temporali di richiesta: si poteva agire entro il termine prescrizionale di 5 anni e si poteva ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di recesso a quella di effet- tiva reintegra nel posto di lavoro. É da questa situazione, piuttosto anomala, che sono sorte una serie di valutazioni finalizzate a porre dei limiti all’applicazione del regime per il licenziamento.
Nel caso di recesso illegittimo da un contratto a termine non si ha diritto alla tutela reale ex art. 18, l. 20.5.1970, n. 300, né quella obbligatoria ex l. 604/1966, in quanto tale disciplina è propria dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato: ben diverso, però, è il discorso se il rapporto a termine viene convertito, poiché anche in questo caso di vedrebbe applicata la tutela reale o obbligatoria.
Sul punto si sono a lungo scontrate due opposte teorie: la prima, di dirit- to comune, secondo cui il lavoratore – cessato il servizio – può far valere i propri diritti con azione di accertamento volta al risarcimento del danno per inadempimento contrattuale ex art. 1223 cod. civ.; la seconda, minoritaria, per la quale si applica il normale regime dei licenziamenti con tutto quello che consegue sui termini di decadenza. É chiaro che l’applicazione di un
20 Sul punto cfr. X. Xx Xxxxx – I. Fedele, Il contratto di lavoro a tempo determinato, Milano, 2011, 391-393, che comunque non manca di rilevare che «… vi è da dire che il termine conversione è stato codificato nell’art. 32, comma 5, del c.d. «collegato lavoro», onde lo stesso ha attualmente una propria dimensione giuridica e si presta a ricomprendere, ragionevolmente, tutte le ipotesi sopra menzionate, essendo da scartare l’idea, non sorretta da alcuna ratio, che esso faccia riferimento solo ai casi in cui il legislatore abbia espressamente previsto la sanzione espressa della trasformazione del rapporto»; è chiaro che l’autore, alla luce delle più recenti riforme in materia, ha voluto evidenziare come il confronto terminolo- gico conversione-trasformazione sia solo formale poiché, in effetti, nella sostanza si finisce per ricomprendere esattamente la stessa cosa.
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orientamento piuttosto che dell’altro, determina più o meno vantaggi nel lavoratore a seconda che ci si trovi in tutela reale o obbligatoria, tanto più che in quest’ultima – evidentemente – al lavoratore sarebbe più conveniente il regime di diritto comune sulla nullità e conseguente riammissione in servi- zio a prescindere dal requisito dimensionale.
La giurisprudenza sul punto ha lentamente corretto il tiro sino ad ab- bracciare la tesi dell’applicabilità della disciplina del licenziamento, inizial- mente riconosciuta solo dalla giurisprudenza di merito; alcune sentenze in- fatti hanno ritenuto applicabile tale disciplina nel caso di dichiarazione dato- riale di avvenuta cessazione del termine: «Dalla qualificazione dell’azione come azione di nullità del contratto, discende solo la conseguenza della im- prescrittibilità dell’azione, non certo quella dell’inapplicabilità della disciplina del licenziamento; l’applicabilità di tale disciplina, viceversa, nasce, de plano, proprio dalla conversione, ex lege e non per effetto della pronunzia giudizia- le di nullità del termine, del contratto a termine in contratto a tempo inde- terminato in conformità di quanto espressamente enunciato proprio dalla l. 230/62 – il discorso non cambia, è noto, sotto la vigenza della nuova disci- plina. Se il contratto si deve considerare a tempo indeterminato fin dall’origine, al relativo rapporto non può che applicarsi la disciplina propria del contratto a tempo indeterminato, dal momento che la l. 230/62 contiene solo la disciplina, anche perciò che riguarda la modalità di risoluzione del rapporto, del contratto a tempo determinato” (Trib. Milano, 30.10.2007).
La questione era già nota.
In una controversia avente ad oggetto l’accertamento dell’illegittima ap- posizione del termine al contratto, il lavoratore può ottenere la conversione del rapporto in tempo indeterminato; a questo punto, una volta operata la conversione, non vi sarebbe ragione di non ritenere licenziamento a tutti gli effetti la comunicazione datoriale di cessazione dal rapporto di lavoro, e quindi eventualmente applicare anche la conseguente tutela. Invero, ragio- nando, la questione è molto più intricata. Il contratto a termine, per defini- zione, non necessità di una formale comunicazione di recesso poiché cessa di esistere proprio alla data di naturale scadenza e quindi una successiva co- municazione datoriale avrebbe rilevanza solo nel caso di conversione; d’altro canto, raramente un datore di lavoro accorto procederà a comunicare al la- voratore la cessazione dal rapporto di lavoro, ed il lavoratore finirà con l’agire in giudizio per l’accertamento della persistenza del rapporto di lavoro
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e la «riammissione» in servizio. Ben diversa dalla reintegrazione o riassun- zione21.
5.- Le esigenze di celerità del processo, sono alla base della riforma in- trodotta con il Collegato lavoro 2010 che ha previsto alcune modifiche inte- ressanti anche in materia di contratti a termine; infatti, se fino al novembre 2010 (momento di entrata in vigore del Collegato) il lavoratore poteva agire in giudizio – per l’accertamento e la dichiarazione della conversione del rap- porto in tempo indeterminato – con l’unico limite della prescrizione quin- quennale, la Riforma ha invece abbassato tale termine ed ha introdotto alcu- ni obblighi formali al pari di quanto avviene per il licenziamento.
In primo luogo, la nullità del termine o la comunicazione di disdet- ta/recesso dal rapporto di lavoro a termine (anche se intimata dopo la sca- denza) deve obbligatoriamente essere impugnata con atto scritto entro 60 giorni dalla comunicazione: questo termine è stato di recente esteso a 120 giorni con la Riforma Fornero.
Successivamente all’impugnazione, il lavoratore deve depositare il ricorso ex art. 414 c.p.c. entro il termine perentorio di 270 giorni (decorrenti appun- to dall’impugnazione) pena la decadenza da ogni diritto connesso al contrat- to a termine, con la sola eccezione delle differenze retributive per le quali continua ad esistere il termine di 5 anni di prescrizione: anche in questo ca- so, si rileva, la Riforma Fornero è intervenuta ed ha ridotto da 270 a massi- mo 180 giorni il termine per il deposito del ricorso.
É interessante notare come il Collegato lavoro, da un lato, ha finito con obbligare l’impugnazione di ogni atto scritto di recesso, lasciando fuori solo il licenziamento verbale poiché sostanzialmente inesistente e, dall’altro, ha legato l’efficacia dell’impugnazione alla condizione sospensiva caratterizzata dalla proposizione dell’azione giudiziale nei successivi 180 giorni.
Ma le novità stabilite dal Collegato lavoro sono andate ben oltre la sem- plice previsione di limiti di impugnazione o alla proposizione di un’azione giudiziale: prima della novella del 2010, infatti, il regime risarcitorio connes-
21 È comunque vero anche l’esatto contrario. Non avrebbe senso ritenere validamente cessato il rapporto di lavoro alla scadenza di un termine che sia stato illegittimamente appo- sto al contratto: per cui, in via analogica, la disciplina del licenziamento dovrebbe trovare applicazione anche in questi casi, con ripristino del rapporto di lavoro qualificato ex post a tempo indeterminato.
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so alla conversione del contratto a termine era senza limiti, come già più volte analizzato. Il lavoratore, vincente in controversia, aveva diritto ad esse- re riammesso in servizio ed a ottenere il pagamento di tutte le retribuzioni maturate (in ragione della nullità e inefficacia del termine, nonché inefficacia della successiva eventuale comunicazione di recesso) dalla data di cessazione del rapporto di lavoro a quella di effettiva reintegra; in un foro come quello di Roma, mediamente ciò significava corrispondere al lavoratore circa 3 anni di retribuzione, oltre tutto ciò che ne è connesso.
Per arginare il rischio di indennità risarcitorie troppo elevate, e garantire un maggiore interesse all’utilizzo del contratto a termine, il Collegato lavoro ha finito con l’applicare anche in questo caso il ragionamento utilizzato per i licenziamenti individuali sorretti dalla tutela obbligatoria: il lavoratore, infat- ti, ai sensi dell’art. 32, comma 5 e 6, l. 4.11.2010, n. 183, nel caso in cui sia dichiarata dal giudice la conversione del rapporto in lavoro a tempo inde- terminato, ha diritto al risarcimento del danno pari da una indennità omni- comprensiva e compresa nella forbice tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retri- buzione globale di fatto: oltre, ovviamente, alla riammissione in servizio ed al ripristino del rapporto di lavoro22.
22Sulla natura omnicomprensiva di questa indennità risarcitoria vi è stata una breve ma in- tensa discussione, culminata poi (un anno dopo) nella sentenza della Corte Costituzionale 9.11.2011, n. 303, con la quale si è definitivamente stabilito che il termine “omnicomprensi- va” non dà diritto ad altri emolumenti economici, poiché rappresenta già il giusto contrappe- so alla violazione delle norma di legge; il lavoratore, infatti, non ha più diritto al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data di recesso ma solo a questa nuova indennità, limitata in un minimo e in un massimo, e corrisposta in ragione dell’effettiva durata del rapporto di lavoro, e sostitutiva di ogni altra indennità.
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