Dott. Egidio Sesti Responsabile U.O. “Assicurazione Qualità” Azienda Ospedaliera Universitaria Senese - Policlinico “Le Scotte” Siena
“Consenso informato alterazioni da parte del compilatore: falso materiale in atto pubblico, responsabilità del Primario”
Xxxx. Xxxxxx Xxxxx Responsabile U.O. “Assicurazione Qualità” Azienda Ospedaliera Universitaria Senese - Policlinico “Le Scotte” Siena
Glossario
Atto pubblico
Documentazione di attività compiuta dal pubblico ufficiale o di fatti avvenuti alla sua presenza o da lui percepiti. Va compiuto nell’esercizio della sua funzione pubblica e rappresenta estrinsecazione dell’attività dell’ente pubblico. (cartella clinica – registro operatorio)
Cartella clinica
La cartella clinica è un documento pubblico di fede privilegiata che costituisce lo strumento informativo individuale finalizzato a rilevare le informazioni anagrafiche e cliniche significative relative ad un paziente e ad un singolo episodio di ricovero. Ciascuna cartella clinica ospedaliera deve rappresentare l’intero episodio di ricovero del paziente nell’istituto di cura e, conseguentemente, coincide con la storia della degenza del paziente all’interno dell’ospedale. La compilazione della cartella deve essere diligente, accurata e tempestiva rispetto alle condizioni cliniche rilevate e alle prestazioni effettuate, in modo da rappresentare anche una esplicitazione del ragionamento clinico svolto. Le funzioni della cartella clinica sono così definite: a) costituire la base per programmare e garantire la continuità del trattamento del paziente; b) consentire la comunicazione fra gli operatori sanitari che partecipano alla cura del paziente; c) fornire la evidenza documentaria del decorso e della gestione di ogni degenza ospedaliera; d) costituire la fonte dei dati a scopo di ricerca e di educazione sanitaria; e) costituire la base per la valutazione dell’assistenza sanitaria; f) consentire la tutela degli interessi legali del paziente, dell’azienda sanitaria e degli operatori sanitari. La scheda di dimissione ospedaliera (SDO) costituisce parte integrante della cartella clinica e ne assume il medesimo valore medico legale. La copia del verbale di ogni intervento chirurgico, qualunque siano le modalità di tenuta del registro operatorio, costituisce parte integrante e rilevante della cartella clinica .
E’ l’accettazione che il paziente esprime a un trattamento sanitario, in maniera libera, e non mediata dai familiari, dopo essere stato informato sulle modalità di esecuzione, i benefici, gli effetti collaterali e i rischi ragionevolmente prevedibili, l’esistenza di valide alternative terapeutiche. L’informazione costituisce una parte essenziale del progetto terapeutico, dovendo esistere anche a prescindere dalla finalità di ottenere il consenso. Nel caso in cui il paziente sia incapace di intendere e volere, l’espressione del consenso non è necessaria purchè si tratti di trattamenti dai quali dipenda la salvaguardia della vita o che, se rinviati o non eseguiti, cagionerebbero un danno irreversibile. L’obbligo del consenso informato è sancito dall’art. 32 della Costituzione, dalle legge 833/1978, dal codice deontologico medico e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Falso
1. Falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 476 c.p.): "Il pubblico ufficiale che, nell'esercizio delle sue funzioni, forma in tutto o in parte, un atto falso o altera un atto vero è punito ... Se la falsità concerne un atto o parte di un atto, che faccia fede fino a querela di falso la reclusione è da tre a dieci anni";
2. Falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative (art. 477 c.p.): “il pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni,
contraffà o altera certificati o autorizzazioni amministrative, ovvero, mediante contraffazione o alterazione fa apparire adempiute le condizioni richieste per la loro validità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”.
3. Falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 479 c.p.): "Il pubblico ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un atto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero omette o altera dichiarazioni da lui ricevute o comunque attesta falsamente fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, soggiace alle pene stabilite dall'art. 476".
La falsità ideologica si distingue da quella materiale, perché in essa l’atto, pur provenendo da chi ne risulta l’autore e non presentando alterazioni, contiene un’attestazione non veridica effettuata al momento della compilazione; invece ogni aggiunta successiva all’atto, anche se operata dal suo autore, costituisce falsità materiale. La falsità ideologica ricorre ogniqualvolta l’immutazione del vero cade non sulla materialità ma sul contenuto ideale dell’atto, nel senso che questo, pur provenendo dall’autore apparente, non è veridico rispetto al suo contenuto.
4. Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o autorizzazioni amministrative (art. 479).
5. Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici (art. 480): “il pubblico ufficiale, che, nell’esercizio delle sue funzioni, attesti falsamente in certificati o autorizzazioni amministrative, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione da tre mesi a due anni.
6. Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 481 c.p.): “chiunque nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro esercizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire centomila a un milione”
7. falsità commesse da pubblici impiegati incaricati di un servizio pubblico (art. 493): “le disposizioni degli articoli precedenti sulle falsità commesse da pubblici ufficiali si applicano altresì agli impiegati dello Stato, o di un determinato Ente pubblico, incaricati di un pubblico servizio, relativamente agli atti che essi redigono nell’esercizio delle loro attribuzioni.
8. False dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria (art. 374 bis): “….chiunque dichiara o attesta falsamente in certificati o atti destinati ad essere prodotti all’autorità giudiziaria condizioni, qualità personali, trattamenti terapeutici… relativi all’imputato, al condannato o alla persona sottoposta a procedimento di prevenzione” 9.Omissione o rifiuto di atti d'ufficio (art. 328 c.p.): "Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell'ufficio o del servizio è punito .".
Titolarità
titolare del bene giuridico tutelato e quindi del paziente, se minore o incapace di intendere e di volere (del legale rappresentante) Il consenso dei prossimi congiunti non ha alcun effetto scriminante.
Il diritto alla salute ha due distinti approcci dogmatici:
• da un lato, vi è chi individua il fondamento della liceità dell'attività medica nel consenso dell'avente diritto. In altri termini: poiché il paziente è libero di salvaguardare la propria integrità psico-fisica, ogni attività medica nei suoi confronti trova la sua naturale giustificazione nel consenso del paziente stesso, salvo naturalmente le ipotesi in cui si riscontrino i fondamenti dello stato di necessità;
• dall'altro lato, vi sono autori, per la verità minoritari, che insistono sulla dimensione anche collettiva del bene "salute", e che pertanto, a fronte del ruolo sociale svolto dalla classe medica, individuano un tale fondamento nel dovere del medico di salvaguardare la vita e l'integrità fisica di ogni uomo.
Ciascun uomo è titolare di diritti fondamentali e inviolabili, riconosciuti e garantiti dallo Stato. Per questa ragione, qualsiasi azione che non rispetta l'inviolabilità della persona, è da considerare azione illecita, non tollerata dalle leggi.
In definitiva, l'integrità psicofisica dell'uomo va rispettata in ogni momento e in ogni situazione. E’ oggettivamente impossibile curare un malato senza violarne l'integrità psicofisica.
Il rispetto dell'individuo bisognoso di cure - di qualsiasi tipo di cure - si realizza ottenendo preventivamente il suo consenso, dopo averlo adeguatamente informato.
L'articolo 32 della nostra Costituzione stabilisce che nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà.. L’art. 13, affermando l’inviolabilità della libertà personale, ed ancorandone ogni restrizione alla riserva di legge, rafforza il carattere “personalistico” del bene salute.
• Art. 13 Cost. – La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
• Art. 32 Cost. – La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Il lento cammino verso il riconoscimento giuridico del consenso informato come legittimazione di ogni trattamento sanitario, è stato segnato da importanti tappe:
1. La legge di riforma sanitaria n. 833/78 ed in particolare il suo art. 1 che pone il SSN quale mezzo per dare attuazione a un "“fondamentale diritto dell’individuo" e art.33 che esclude la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente.
2. L’art. 5 della legge del 5 giugno 1990 n. 135, per la lotta all’AIDS, che stabilisce che nessuno può essere sottoposto ad analisi atte all’accertamento dell’infezione da HIV senza il suo consenso, se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse.
3. L’art. 19 del Decreto 15 gennaio 1991 del Ministero della Sanità in attuazione della Legge del 4 maggio 1990 n. 107 che definisce le trasfusioni come pratiche terapeutiche rischiose per le quali è necessario il consenso informato del ricevente;
4. Il DM del 27 aprile 1992 (in attuazione della Direttiva della Comunità Europea n. 91/507/CEE) nel campo della sperimentazione dei farmaci che introduce in Italia le norme europee di “Good clinical Practice” fortemente improntato al riconoscimento del consenso informato come fondamento dell’intervento sperimentale.
5. Il documento del CNB “informazione e consenso all’atto medico”;
6. Il nuovo codice di deontologia Medica del 1998, art. 32;
• Art 32 Consenso informato
“Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente” e “in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace di intendere e di volere, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
7. In questi ultimi tempi, la Corte Suprema di Cassazione non perde occasione per ribadire questi concetti con numerose sentenze:
• Xxxxx Xxxxxxxxxxxxxx, x. 00 del 26 luglio 1979
• Corte Costituzionale, n. 184 del 14 luglio 1986;
• Corte Costituzionale Sez. U., n. 5172 del 6 ottobre 1979
• Corte di Assise di primo grado di Firenze, n. 13/90 (18 ottobre – 8 novembre 1990), poi confermata in secondo grado e in Cassazione (sentenza n. 699 del 21 aprile 1992).
Agli inizi degli anni 90, per la prima volta in Italia una sentenza (si tratta della sentenza sul famoso caso di Firenze) riconosceva il principio di autodeterminazione come regola fondamentale del rapporto medico-paziente e la Corte Costituzionale (sentenza 22 ottobre 1990, n. 471) ammetteva che la libertà di disporre del proprio corpo fosse una libertà della persona fondata sull’inviolabile libertà personale di cui all’art. 13 della Costituzione: “la libertà personale è inviolabile”.
<<Nel contratto di prestazione d'opera intellettuale tra il chirurgo ed il paziente, il professionista anche quando l'oggetto della sua prestazione sia solo di mezzi, e non di risultato, ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell'intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, sia perché violerebbe, in mancanza, il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.) sia perché tale informazione e' condizione indispensabile per la validità del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l'intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall'art. 32 comma 2 della Costituzione, a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilità' della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica, e dall'art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente se questo e' in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità (art. 54 c.p.).>>
• sentenza n.. 9705 del 6 ottobre. 1997: “ l'obbligo d'informazione riguarda anche i rischi specifici delle singole fasi del trattamento sanitario; il medico deve informare il paziente dei possibili benefici del trattamento, delle modalità d'intervento, dell'eventuale possibilità di scelta fra cure diverse o diverse tecniche operatorie e, infine, dei rischi prevedibili di complicanze in sede postoperatoria”
• sentenza n. 3599 del 18 aprile 1997: il medico è tenuto a comunicare al paziente anche l'esito delle indagini (per esempio, dell'ecografia), poiché tale informazione è una caratteristica essenziale della prestazione sanitaria;
• sentenza n. 4394, emessa l'8 agosto 1985 e sentenza n. 10014, emessa il 25 novembre 1994: il chirurgo estetico deve informare il paziente non solo e non tanto dei rischi in genere dell'intervento programmato, ma anche delle concrete possibilità di conseguire il risultato sperato;
• sentenza della Corte Costituzionale n° 238 del 9 luglio 1996: occorre il consenso informato anche per il prelievo ematico, che non può essere imposto;
• sentenza n. 6464, emessa dalla Corte di Cassazione l'8 luglio 1994: l'obbligo di ottenere il consenso informato del paziente è del tutto autonomo rispetto alla riuscita del trattamento sanitario, e perciò il medico, che abbia omesso di raccogliere il consenso informato, incorre in responsabilità anche se la prestazione sanitaria viene eseguita in concreto senza errori
Ciò che conta nel rapporto ospedale-medico-paziente o soltanto medico-paziente è dunque il consenso informato, ossia l’accettazione che il paziente esprime a un trattamento sanitario, in maniera libera, e non mediata dai familiari, dopo essere stato informato sulle modalità di esecuzione, i benefici, gli effetti collaterali e i rischi ragionevolmente prevedibili, l’esistenza di valide alternative terapeutiche.
L’informazione costituisce una parte essenziale del progetto terapeutico, dovendo esistere anche a prescindere dalla finalità di ottenere il consenso.
Requisiti del valido consenso
Il consenso deve esser dato prima dell'inizio del trattamento terapeutico. Esso è naturalmente revocabile in ogni momento (sempre che il soggetto sia capace di intendere e di volere, e salvo - in tale ipotesi - i casi di stato di necessità, quando ad esempio l'interruzione repentina del trattamento possa provocare gravissimi rischi per il paziente).
Il consenso è valido quando presenta i seguenti requisiti: mancandone uno solo il consenso stesso è da considerarsi viziato:
▪ deve essere richiesto per un trattamento necessario;
▪ la persona che dà il consenso deve essere titolare del diritto;
▪ la persona cui viene richiesto il consenso deve possedere la capacità di intendere e di volere;
▪ la persona a cui viene richiesto il consenso deve ricevere informazioni chiare e comprensibili sia sulla sua malattia sia sulle scelte programmate tanto ai fini diagnostici che terapeutici ;
▪ in caso di indicazione chirurgica o di necessità di esami diagnostici, la persona a cui viene richiesto il consenso deve essere esaurientemente informata sulla manualità della prestazione, in rapporto naturalmente alla propria capacità di apprendimento;
▪ la persona che deve dare il consenso deve essere messa a conoscenza dei rischi connessi all'attuazione dei mezzi diagnostici-terapeutici prescelti, prospettando, ove possibile, le eventuali alternative e i risultati prevedibili di ciascuna scelta;
▪ la persona che deve dare il consenso deve essere portata a conoscenza sui rischi connessi e sulla loro percentuale di incidenza, nonché sui rischi derivanti dalla mancata effettuazione della prestazione; gli effetti collaterali, le menomazioni e le mutilazioni inevitabili
▪ la persona che deve dare il consenso deve essere informata sulle capacità della struttura sanitaria di intervenire in caso di manifestazione del rischio temuto;
▪ il consenso scritto e controfirmato dal paziente e dal medico deve essere conservato sia dall’uno sia dall’altro.
Spesso, il paziente viene invitato a fornire il proprio consenso firmando moduli prestampati che non possono soddisfare di volta in volta le specifiche esigenze del caso, e che spesso, data la loro
incompletezza, non contengono, come al contrario sarebbe auspicabile, i precisi riferimenti al tipo d'informazione e alle caratteristiche dell'intervento, ovvero riportano formule liberatorie di responsabilità nei confronti dell'ente ospedaliero prive di fondamento giuridico e per questo foriere di inutili incomprensioni.
Il consenso dovrebbe essere sempre scritto, non in quanto la formulazione orale sia incompatibile con i principi su esposti, ma poiché in tal modo il sanitario sarebbe in grado di dimostrare agevolmente la sussistenza del consenso stesso; ne discende l'opportunità e della sua formulazione scritta e del suo sistematico inserimento nella cartella clinica.
Comunque, in caso di ricovero, il consenso deve far parte della cartella clinica. Mancanza di consenso
Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso, il medico dovrà assumersi in prima persona ogni responsabilità, e, qualora decidesse di intervenire, non sarà punibile:
• purché sussistano i requisiti di cui al art. 54 c.p., e cioè lo stato di necessità, che risulta integrato quando egli debba agire mosso dalla necessità di salvare il paziente dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (cd. soccorso di necessità), sempre che il pericolo non sia stato da lui volontariamente causato, né sia altrimenti evitabile, e l'intervento sia proporzionale al pericolo;
• ovvero purché emerga il proprio obbligo di attivarsi.
Dissenso
Occorre innanzitutto distinguere le ipotesi in cui il dissenso provenga direttamente dal paziente da quelle in cui invece sia il rappresentante legale del paziente ad opporsi.
Di tale secondo caso, infatti, l'esperienza giurisprudenziale ha avuto modo di occuparsi: si ricorderà la nota vicenda relativa all'opposizione dei genitori, appartenenti ai Testimoni di Xxxxx, rispetto alla indispensabile trasfusione di sangue nei confronti della loro figlia.
In tale situazione, deve ritenersi doveroso, da parte del medico, rivolgersi all'autorità giudiziaria, evidenziando la situazione sanitaria del paziente ed il rifiuto del suo rappresentante legale. Sempre che, naturalmente, non sussistano ragioni tanto gravi di urgenza, da non consentire alcun ritardo. È evidente, in tale ultima ipotesi, che il sanitario debba attivarsi immediatamente.
In ordine al rifiuto da parte del paziente stesso, viceversa, i problemi sono ancor più accentuati, anche a fronte del totale vuoto normativo, ciò che lascia il medico completamente solo di fronte a scelte di così evidente rilevanza.
Si scontrano in proposito due orientamenti dottrinali, una dicotomia che, come si è detto all'inizio, discende direttamente dalla effettiva ambiguità della norma costituzionale.
Da un lato, si sostiene che l'ordinamento non possa consentire comportamenti suicidari, specie ove questi vengano posti in essere al cospetto di un medico.
Si giustifica un tale assunto in relazione all'art. 32 Cost., nel quale viene evidenziato anche il valore collettivo del bene salute. Per di più, occorre tener conto di una serie di obblighi discendenti dalla normativa deontologica, della possibilità di incorrere nel reato di omissione di soccorso cui in caso di inerzia il medico andrebbe incontro, ed inoltre della posizione di garanzia rivestita dal medico nei confronti del paziente anche dissenziente.
Dall'altro lato, in riferimento al combinato disposto di cui agli artt. 32 e 13 Cost., si evidenzia come il bene salute abbia una rilevanza eminentemente personale, tollerando limitazioni nei soli casi previsti dalla legge (in materia ad es. di trattamenti sanitari obbligatori per la tutela della salute pubblica).
Pertanto, a fronte del valido dissenso di un paziente in normale stato di capacità, il medico dovrebbe astenersi da qualsiasi intervento.
È evidente che una tale problematica sta alla base dell'attuale dibattito anche in tema di eutanasia. Pare più che mai opportuno, in presenza degli accennati divergenti approdi dottrinali i quali pongono a proprio fondamento le medesime disposizioni costituzionali, che il legislatore intervenga a disciplinare compiutamente la materia, anche per limitare l'attuale disorientamento degli esercenti la professione medica.
Se il medico interviene senza il preventivo consenso, egli è in ogni caso responsabile di lesioni personali ovvero, in caso di esito mortale, di omicidio preterintenzionale.
Parere del Comitato Italiano di Bioetica: Informazione e Consenso all'Atto medico
Il CNB ritiene che il consenso informato costituisca legittimazione e fondamento dell'atto medico, e allo stesso tempo strumento per realizzare quella ricerca di alleanza terapeutica nell'ambito delle leggi e dei codici deontologici e di piena umanizzazione dei rapporti fra medico e paziente, a cui aspira la società attuale.
Pertanto, sotto il profilo etico:
• In caso di malattie importanti e di procedimenti diagnostici e terapeutici prolungati il rapporto curante-paziente non può essere limitato ad un unico, fugace incontro.
• Il curante deve possedere sufficienti doti di psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale, per regolare su tali basi il proprio comportamento nel fornire le informazioni.
• Le informazioni, se rivestono carattere tale da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, dovranno essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti e sempre corredate da elementi atti a lasciare allo stesso la speranza di una, anche se difficile, possibilità di successo.
• Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico dovranno essere veritiere e complete, ma limitate a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire ed accettare, evitando esasperate precisazioni di dati ( percentuali esatte -oltretutto difficilmente definibili- di complicanze, di mortalità, insuccessi funzionali) che interessano gli aspetti scientifici del trattamento. In ogni caso, il paziente dovrà essere messo in grado di esercitare correttamente i suoi diritti, e quindi formarsi una volontà che sia effettivamente tale, rispetto alle svolte e alle alternative che gli vengono proposte.
• La responsabilità di informare il paziente grava sul primario, nella struttura pubblica, ed in ogni caso su chi ha il compito di eseguire o di coordinare procedimenti diagnostici e terapeutici.
• La richiesta dei familiari di fornire al paziente informazioni non veritiere non è vincolante. Il medico ha il dovere di dare al malato le informazioni necessarie per affrontare responsabilmente la realtà, ma attenendosi ai criteri di prudenza, soprattutto nella terminologia, già enunciati
Cartella clinica
Documento attraverso il quale certificare la volontà e tutelare i diritti dei pazienti ricoverati . Tale strumento, per quanto poco regolamentato dalla legge, è sicuramente idoneo a recepire tutte le dichiarazioni del paziente relativamente alle cure a cui deve essere sottoposto.
La cartella clinica non può essere considerata come un adempimento burocratico atto a registrare meri dati obiettivi ma deve dettagliatamente documentare le ragioni stesse delle scelte diagnostiche e terapeutiche effettuate e ciò anche al fine di facilitare e controllare verifiche amministrative e non ultimo di qualità.
La cartella clinica è anche la sede ideale per la registrazione dell’avvenuta informazione del paziente e della conseguente documentazione del consenso.
La giurisprudenza della Cassazione riconosce alla stessa il possesso di tutti i requisiti propri dell’atto pubblico; ciò comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata: l’applicazione degli artt. 479 e 476 del c.p. per falso ideologico e materiale nella previsione della pena più grave; l’eventuale responsabilità per omissione di atti d’ufficio, ex art. 328 c.p., o per rivelazione di segreto d’ufficio, ex art.326 c.p.
La cartella clinica rappresenta il mezzo più fedele in grado di documentare il decorso clinico di ogni degente, delle decisioni assunte, degli interventi effettuati e quindi del comportamento della struttura dell'Ospedale.
Costituisce un "atto pubblico di fede privilegiata" il cui contenuto è confutabile solo con la prova contraria. Come tale deve essere redatta da un pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede.
L'articolo 2699 del codice civile definisce atto pubblico il "documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato".
La Cassazione Penale fa derivare la qualifica di pubblico ufficiale del medico ospedaliero dalla sussistenza di due requisiti oggettivi: il concorso alla formazione della volontà dell'ente pubblico ed il potere di certificazione fide-facente. Inoltre secondo l'articolo 358 del codice penale ciò che contraddistingue la pubblica funzione è la presenza di poteri specifici di natura autoritativa e certificativa; e non vi è dubbio che la cartella clinica costituisce per il medico ospedaliero il luogo privilegiato di estrinsecazione di detti poteri.
La cartella clinica compilata correttamente deve raccogliere in ordine cronologico tutti i dati anagrafici, anamnestici, clinici, diagnostici e terapeutici, tutte le prescrizioni ed ogni altra notizia ritenuta rilevante per la salute del paziente. Ogni intervento diagnostico e terapeutico invasivo o rischioso deve essere accompagnato da apposito "consenso informato" del paziente.
Dunque la completezza del documento deve riguardare ogni sua parte, senza arbitrarie omissioni. L'articolo 15 del nuovo Codice Deontologico dispone che "...nella compilazione della cartella clinica il medico è tenuto alla massima diligenza, alla più responsabile cura, alla più attenta e scientificamente corretta registrazione dei dati e alla più responsabile formulazione dei giudizi". Una irregolare compilazione della cartella diventa un atto colposo, in quanto esprime negligenza, incuria, disattenzione o irresponsabilità, sia nella registrazione dei dati, sia nella formulazione di giudizi diagnostici e terapeutici.
I principali requisiti sostanziali sono rappresentati dalla veridicità, completezza, precisione e chiarezza.
• Veridicità significa effettiva corrispondenza tra quanto eseguito ed osservato e quanto scritto. Essa deve riguardare i fatti che si identificano in tutto ciò che rientra nella percezione del pubblico ufficiale.
• Per completezza e precisione si intende la effettiva e completa trascrizione di ciò che si è obiettivato, in modo tale da riprodurre la "fotografia dell'evolversi della malattia". La correttezza e la completezza dell’informazione fornita dal medico al paziente, preliminare e non susseguente, deve essere in rapporto al rischio connesso alla prestazione. Tale
completezza richiede che ogni singola annotazione riportata nella cartella sia firmata, rendendo così possibile l'attribuzione ai singoli operatori intervenuti nell'attività eseguita. I requisiti di correttezza formale a cui la cartella clinica deve necessariamente obbedire sono rappresentati dalla indicazione della data e dell'ora dell'accertamento, dalla precisazione del nome e del cognome, con firma del medico, dalla precisazione della fonte dell'anamnesi, dalla intellegibilità della grafia, dalla presenza di accorgimenti particolari in caso di correzione di errori materiali.
Anche gli interventi chirurgici devono essere trascritti sulla cartella dal registro di camera operatoria, perché anch'essi fanno parte dell'attività medica svolta; la loro trascrizione in maniera dettagliata assume particolare importanza nel caso in cui abbiano presentato problemi insoluti, ovvero "speciali difficoltà" (articolo 2236 c.c.) che potrebbero implicare dei procedimenti in tema di responsabilità professionale. Infine, come disciplinato dalla Cassazione Penale del 1988, anche il registro ospedaliero degli interventi operatori è da considerare atto pubblico "per la sua idoneità a documentare fatti inerenti all'attività dell'ufficio pubblico cui gli autori sono addetti; l'eventuale alterazione dello stesso con aggiunta di nomi o di altri dati costituisce pertanto falsità materiale ai sensi dell'articolo 476 c.p.".
• Ultimo requisito sostanziale della cartella clinica è la chiarezza di tutti i dati diagnostici e terapeutici riportati in essa.
Il venir meno di tale requisito configura il delitto di "falso ideologico in atto pubblico" punito dall'articolo 479 del codice penale.
Quando, invece, è alterata l'essenza materiale del documento, la cosiddetta non genuinità della cartella clinica, quando si è in presenza di una divergenza tra autore apparente ed autore reale del documento, la cosiddetta cartella contraffatta, oppure quando si apportano modifiche successive alla stesura definitiva, cartella alterata, allora si configura il delitto di "falsità materiale" regolato dall'articolo 476 c.p.
Sotto il profilo del diritto penale una omessa o non regolare compilazione della cartella clinica configura il delitto di omissione di atti di ufficio (articolo 328 c.p.) e quello della falsità, ideologica o materiale, commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici (articolo 476 e 479 c.p.).
Inoltre, sia dal punto di vista civile che penale, la cartella clinica è dotata di una speciale efficacia probatoria, ex articolo 2700 c.c.; dunque il giudice deve ritenere vere, in ambito processuale, le circostanze attestate nell'atto pubblico (cartella clinica) dal pubblico ufficiale (medico) e non può basare la propria decisione su una versione dei fatti in contrasto con quella documentata nell'atto predetto.
In sede civile, perché tale forma probatoria possa essere contrastata, occorre che la parte privata intenti la "querela di falso", ossia un particolare procedimento penale al fine di accertare la falsità del documento. Secondo una delle poche pronunce in materia quanto riportato nelle certificazioni di ordine sanitario fa fede fino a querela di falso solo per quello che "il sanitario, pubblico ufficiale, attesta di aver compiuto o di essere avvenuto in sua presenza", mentre ciò che non attiene ai fatti, per esempio la formulazione di giudizi diagnostici, non rientra nella tutela dell'efficacia probatoria dell'atto pubblico.
Ancora la Corte di Cassazione sancisce come ogni atto, esperito sul paziente, sia esso diagnostico o terapeutico debba esser trascritto nella cartella clinica contestualmente alla sua esecuzione: "La cartella clinica adempie alla funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti per cui gli eventi devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Pertanto la cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata con la conseguenza ulteriore che all'infuori di correzioni di errori materiali, le modifiche e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti pubblici";
dal che discendono altri due caratteri propri della cartella clinica e cioè quello della immodificabilità e della irretrattabilità.
In conclusione si capisce come la cartella clinica costituisca l'unico documento tecnico che consente la ricostruzione a posteriori della vicenda clinica di un individuo e il comportamento degli operatori sanitari dell'Ospedale. E’ quindi un atto di valore storico e come tale deve essere attendibile ed affidabile in ogni sua singola parte. Ecco che allora diventa oltre che strumento e mezzo di cura, anche un mezzo di prova medico-legale dell'operato dei medici ospedalieri, sia in sede giudiziaria che in sede professionale ed amministrativa quale elemento di giudizio nel valutare la qualità della struttura ospedaliera.
In accordo con la corrente giurisprudenziale, la cartella clinica è inquadrata, fra gli atti pubblici, affermando che: "È un documento - nel quale si esprime e si manifesta la volontà dell'ente e che ha indubbia rilevanza giuridica, perché non ha solo finalità pratiche e statistiche di ordine interno (ed anche se così fosse non potrebbe escludersi la natura di atto pubblico che dalla dottrina e dalla giurisprudenza è riconosciuta anche ai cosiddetti atti interni dell'ente pubblico) ma consacra una determinata realtà (visite, natura e gravità della malattia, terapia) che può essere fonte di diritti ed obblighi per lo Stato e per lo stesso paziente ed ha indubbia funzione probatoria di quella realtà; in pieno accordo peraltro, con la definizione di atto pubblico fornita dall'art. 2699 C.C., secondo cui è tale "... il documento redatto con le richieste di formalità da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l'atto è formato". Ricordiamo che l’atto pubblico ha validità come prova testimoniale sino a dimostrazione del contrario per falsità e, conseguentemente, la compilazione ben fatta di una cartella clinica o di una scheda sanitaria ha un enorme importanza in caso di contestazioni a tutto vantaggio del medico, specialmente ora che la giurisprudenza addossa al medico l’onere di esibizione delle prove a discolpa in caso di pretestazioni da parte del paziente per supposta malpractice.
Dalla lettura della massima sentenza emerge, quindi, come la compilazione della cartella clinica sia un obbligo giuridico per il pubblico ufficiale, rappresentando un atto a "fede privilegiata", ovvero da presumersi rispondente a verità fino a querela di falso, la cui omissione configura specifiche ipotesi di reato, penalmente perseguibili, ed i cui estremi risultano già perfezionati anche in assenza di un danno che derivi alla persona assistita dalla omissione, e le cui eventuali conseguenze dannose, in quanto promosse da una azione dolosa, risultano prive di tutela assicurativa; e fra questi si ricordano:
E’ escluso che la cartella clinica possa qualificarsi come semplice attestazione di verità o di scienza tale da assumere la configurazione di certificazione ai sensi degli artt. 477 e 480 CP
Responsabilità del Primario
In ambito civilistico una irregolare compilazione della cartella clinica da cui sia derivato un danno ingiusto al paziente integra le fattispecie previste dagli articoli 2043 e 2058. La responsabilità civile riguarda non solo il primario, ma chiunque abbia contribuito alla compilazione del documento.
La legge attribuisce al primario la responsabilità della "regolare compilazione " della cartella clinica, ma questa è più propriamente una corresponsabilità in quanto l'obbligo giuridico del primario è quello di vigilare che la compilazione delle cartelle sia sostanzialmente e formalmente regolare. Per questo a carico del primario si può ipotizzare una responsabilità indiretta per "culpa in vigilando", con l'obbligo al risarcimento del danno nel caso in cui dall'irregolare compilazione della cartella ne siano derivate delle conseguenze nocive al paziente.
Alla luce della attuale legislazione è indubitabile che il primario abbia mansioni tipicamente dirigenziali, né più né meno quelle di un manager cui è affidata una struttura tecnologicamente avanzata, particolarmente a rischio e quindi da dirigere, controllare e correggere oltre che aggiornare con particolare attenzione e quindi eccezionale diligenza e quindi di doveri ancor più ampi rispetto alle altre categorie degli operatori sanitari.
I compiti devolutigli siano di diversa appartenenza e quindi spazino tra un ambito eminentemente pubblicistico (rapporto tra primario e ente pubblico ospedaliero dal quale dipende), che determina una responsabilità amministrativa, e di ordine privatistico per tutto ciò che riguarda il contatto sociale che quotidianamente il primario ha, direttamente o indirettamente, con i pazienti e ciò non solo negli interventi diretti e personalmente prestati ma anche per quella inevitabile responsabilità che di rimbalzo gli deriva per quanto commesso dai suoi sottoposti in virtù del rapporto organico che esiste nel reparto da lui diretto.
Il primario infatti non si limita a dirigere il reparto, ma svolge anche “funzioni di indirizzo e di verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura……impartendo all’uopo istruzioni e direttive ed esercitando la verifica inerente all’attuazione di esse”. C’è quindi, per la preminente posizione apicale assunta dal dirigente, tutta una serie di attività di direttive, di controllo e di verifica anche sull’opera degli altri componenti, che trova limite “nel rispetto della autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli”, limite che però è superabile con la potestà di “avocare casi alla sua diretta responsabilità” allorquando evidentemente il suo parere contrasti con quello autonomamente espresso dai suoi ausiliari.
Se gli aspetti della responsabilità civile del primario, anche se ampliata perché in lui si riverberano anche ipotesi di culpa in vigilando, tutto sommato poco si discostano, per radice contrattuale, con quelle degli altri medici ospedalieri, diverse sono quelle che a lui fanno carico per la mancata osservanza di quegli adempimenti che, in veste di pubblico ufficiale, egli è tenuto ad espletare e per i quali risponde a titolo di responsabilità amministrativa o per particolare ipotesi di delitto commesso da pubblico ufficiale. Su tale qualifica ormai vi è comunanza di opinioni posto che, soprattutto nell’espletamento delle funzioni istituzionalmente demandategli, il primario è indubbiamente un pubblico ufficiale perché partecipa direttamente con la pubblica amministrazione alla realizzazione degli scopi socialmente rilevanti previsti dalla legislazione in materia di sanità pubblica: egli in pratica è l’emanazione operativa attraverso la quale lo Stato realizza la funzione assistenziale sanitaria. Tralascio di addentrarmi nell’esame di particolari aspetti delle responsabilità penali che fanno carico al primario quali il peculato, la malversazione, l’abuso o l’omissione di atti di ufficio per parlare brevemente, perché sotto l’aspetto pratico più cogente della materia della quale parliamo, dei reati di falso che possono essere addebitati al primario per la modifica della cartella clinica perché è uno strumento importantissimo non solo per individuare la responsabilità penale ma anche e soprattutto per assolvere a quell’onere probatorio che, nonostante la dilatazione della responsabilità del professionista medico, continua per gran parte a far carico al paziente danneggiato.
Le eventuali note degli infermieri, sono considerate oggi parte integrante a tutti gli effetti della cartella clinica. Tale diario infermieristico, che dovrebbe essere centrato solo sul rilievo dei dati e sulla descrizione dei fatti, molte volte contiene impropriamente giudizi clinici e opinioni soggettive, talvolta conflittuali con quanto riportato dal medico. Tali contraddizioni possono avere un ruolo non indifferente in un successivo contenzioso giudiziario.
Oggi si afferma che la cartella clinica è un atto pubblico che fa fede sino a querela di falso la cui tenuta riverbera nel primario l’obbligo di fedelmente riportarvi, o di farvi riportare, tutte le annotazioni relative all’anamnesi, alle cure e terapie durante e dopo il ricovero ospedaliero.
Si può senz’altro affermare che proprio per la particolare cronologicità con la quale i fatti clinici devono essere riportati nel diario giornaliero, e per la successione dei periodi (diagnosi di ingresso, anamnesi, accertamenti e diagnosi definitiva, terapia, diagnosi di dimissione), successive correzioni o integrazioni altro non sarebbero che modificazioni di quanto giornalmente elencato e quindi veri e propri falsi. Da questa ipotesi discendono due tipi di responsabilità diretta verso l’Ente pubblico per violazione del rapporto fiduciario che lega il primario al servizio sanitario locale, di responsabilità penale per il reato di falso in atto pubblico ed infine di responsabilità civile nei confronti del paziente per la malafede e quindi il dolo che aggrava la responsabilità del sanitario.
Un ritardo nella compilazione oppure la mancata compilazione può configurarsi per l’ospedaliero come una omissione di atti di ufficio, mentre una sua compilazione non veritiera come falso ideologico e una sua correzione postuma come un falso materiale.
Va ricordato come in caso di smarrimento o di distruzione o comunque di cattiva gestione delle cartelle cliniche, la responsabilità di tali evenienze è imputabile alla amministrazione dell’ospedale in senso civilistico, mentre la persona fisica responsabile direttamente alla conservazione può incorrere in responsabilità di natura penale.
E’ evidente che il malato deve essere assolutamente tutelato da quegli errori e dai quei comportamenti che sempre più spesso, e mai come oggi, sono definiti frutto della malasanità. La maggior severità che trapela dalle applicazioni giurisprudenziali non è tanto tesa a eliminare la cd. “malasanità”, quanto a far sì che il malato abbia piena tutela dei suoi diritti e possa pretendere ed ottenere un congruo risarcimento.
Tra l’altro se in passato si prendeva in esame l’errore, o lo sbaglio, del singolo medico oggi si assiste ad una sorta di spersonalizzazione delle responsabilità, che coinvolge l’intera équipe di un reparto o di una struttura e che si sostanzia nel termine comprensivo di malpractice, dilatato dai mass media in sbrigativa malasanità, e ripreso dai cittadini ad ogni piè sospinto con preoccupante disinvoltura. Il mutato atteggiamento della Magistratura ci pare trovi fondamento nella convinzione diffusa, e purtroppo errata, che la medicina abbia fatto tali progressi da non giustificare errori. Siamo oggi di fronte al paradosso di una medicina che negli ultimi 50 anni ha compiuto più progressi e colto più successi per la sopravvivenza degli uomini, di quanti se ne fossero raggiunti in tutti i secoli precedenti messi insieme, e tuttavia non ha mai riscosso tanta sfiducia e tanti sospetti nella pubblica opinione come oggi.
Pertanto, in mancanza di attuali chiare norme per la custodia della cartella clinica dalla sua compilazione (apertura) alla archiviazione (chiusura) che ne garantiscano sia l’integrità delle documentazione (non manomissione, non danneggiamento, non smarrimento), sia l’accessibilità ai soli aventi diritto, rifacendosi a quanto previsto per la tutela della privacy per il trattamento dei dati sensibili, il Direttore di ogni Unità operativa, individuato dall’Azienda quale incaricato, può delegare a propri collaboratori (medici e infermieri) il compito di curare la diligente custodia della cartella clinica e l’osservanza delle misure minime di sicurezza stabilite dal decreto legislativo 318/99.
“Il titolare o, se designato, il responsabile devono prescrivere che gli incaricati abbiano accesso ai soli dati personali la cui conoscenza sia strettamente necessaria per adempiere ai compiti loro assegnati; gli atti e i documenti contenenti i dati devono essere conservati in archivi ad accesso selezionato e, se affidati agli incaricati del trattamento, devono essere da questi ultimi conservati e restituiti al termine delle operazioni affidate”.
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