Edizione di martedì 30 maggio 2023
Edizione di martedì 30 maggio 2023
Obbligazioni e contratti
Validità di una clausola di scelta del foro competente contenuta in condizioni generali di contratto
di Xxxxx Xxxxxxxxxx , Avvocato
Impugnazioni
Gli alterni svolgimenti del giudizio d’appello nel caso di esperimento della querela di falso
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx, Professore ordinario di Diritto processuale civile e di diritto fallimentare – Università degli Studi di Parma
Esecuzione forzata
Pignoramento presso terzi e obblighi dichiarativi del terzo pignorato
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Responsabilità civile
Sinistro stradale letale: il convivente “more uxorio” ha diritto al risarcimento?
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato
Comunione – Condominio - Locazione
Se la delibera è inesistente il gravame delle spese ricade sull’impugnante
di Xxxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Diritto successorio e donazioni
Imposte sulle successioni: l’esenzione può applicarsi anche per le partecipazioni in società residenti in altro Stato dell’UE
di Xxxxxxx Xx Xxxx, Notaio
Diritto e reati societari
La giusta causa di revoca di un amministratore deve essere esplicitata nella delibera statutaria
di Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Acquisto di un ramo d’azienda gravemente indebitato: responsabilità degli amministratori e insindacabilità nel merito delle scelte di gestione
di Xxxxx Xxxxxxxx, Assegnista di ricerca in Diritto Commerciale presso l’Università degli
Studi di Verona
Diritto Bancario
Le eccezioni opponibili dal garante autonomo
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Soft Skills
Eppur si muove, anche il greenwashing
di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx - Senior partner Marketude
Obbligazioni e contratti
Validità di una clausola di scelta del foro competente contenuta in condizioni generali di contratto
di Xxxxx Xxxxxxxxxx , Avvocato
Cass., SU, Ord. 10 gennaio 2023, n. 361
Questa recente pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite è particolarmente interessante poiché affronta la problematica, assai diffusa nella prassi del commercio internazionale, della validità di una clausola di scelta del foro competente contenuta in Condizioni generali allegate al contratto e nasce da una controversia intra-comunitaria soggetta al Reg. (UE) n. 1215/2012 concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (cd. Reg. Bruxelles I-bis).
Si discute se la modalità con cui una società francese abbia portato a conoscenza le proprie condizioni generali (non firmate) al contraente italiano (che non le aveva predisposte) possa o meno integrare un richiamo specifico alle stesse contenuto nel contratto firmato dalle parti e rendere così valida la clausola di scelta del foro francese contenuta nelle condizioni generali.
La Corte ha, inoltre, affermato ancora una volta che nei contratti internazionali la clausola di scelta del foro competente non necessita, in ogni caso, della specifica approvazione richiesta dall’art. 1341 cod. civ. e ha utilizzato i criteri posti dall’art. 3 della Convenzione di Vienna del 1980 sui contratti di vendita internazionale di beni mobili (CISG) per inquadrare correttamente il contratto quale appalto e non quale vendita.
CASO
Il caso trae spunto da un contratto internazionale di appalto concluso da una società con sede in Francia ed una società con sede in Italia. Il contratto aveva ad oggetto la fornitura, da parte della società francese, di un impianto industriale per il riempimento di bombole metalliche con panna, destinato allo stabilimento di Marcianise della società italiana.
L’impianto aveva manifestato sin dall’installazione e nelle prime fasi di utilizzo vizi e malfunzionamenti tali da rendere necessari numerosi interventi tecnici con conseguente interruzione della produzione e perdita di prodotti.
La società italiana ha, pertanto, convenuto in giudizio la società francese avanti al Giudice italiano per chiedere il risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal contratto, quantificati in lire 580.000.000. Ha, inoltre, ritenuto applicabile la legge italiana.
La società francese ha eccepito il difetto di giurisdizione del Giudice italiano, oltre all’applicazione della legge francese, stante la presenza di una clausola di scelta del Giudice francese, e della legge francese, contenuta nelle Condizioni generali allegate al contratto. Ha, poi, contestato la domanda anche nel merito.
Il contratto, firmato dalle parti, era costituito da un unico documento di 41 pagine contenente una intestazione, un indice analitico (intitolato “Summary” e collocato all’inizio del contratto) contenente la lista dei capitoli costituenti il contratto e il contratto. Uno dei capitoli era rappresentato dalle condizioni generali di contratto della società francese (non firmate), intitolato “General terms and conditions of sale”, ed era riportato, dopo la firma delle parti, all’ultimo capitolo. Nell’ultima pagina di tale ultimo capitolo era riportata la clausola di scelta del foro competente e della legge applicabile, che così recitava: “Any dispute arising from the interpretation or execution of a sales contract or relating thereto, which cannot be settled amicably, shall be submitted of the Court of our Head Office. The agreements are governed by the law of France. The general terms and conditions of sales in French language is the sole authentic text”, ossia “Ogni controversia nascente dall’interpretazione o dall’esecuzione di un contratto di vendita o ad esso connessa che non possa essere composta in via amichevole dalle parti sarà sottoposta al Tribunale della nostra sede legale (vale a dire della società francese). Gli accordi sono regolati dal diritto francese. Le condizioni generali di vendita in lingua francese costituiscono l’unico testo autentico”.
SOLUZIONE
La clausola di scelta del foro competente in favore del Giudice francese, ed in favore della legge francese, era contenuta nelle condizioni generali di contratto non firmate, né la clausola era stata espressamente richiamata nel suo contenuto nel testo del contratto firmato.
Pertanto, la Corte ha chiarito che dalla mera indicazione – nell’indice – del capitolo recante condizioni generali di contratto, seppure congiunto materialmente al contratto, non può farsi discendere che la clausola di proroga abbia costituito oggetto di specifica pattuizione negoziale delle parti, manifestatasi “in modo chiaro e preciso”.
La Cassazione si è, in tal modo, posta in linea sia con la propria giurisprudenza (si veda ad es. Cass., SU, 29 aprile 2022, n. 13594), sia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che anche recentemente ha chiarito che “allorchè una clausola attributiva
di giurisdizione è stipulata nell’ambito di condizioni generali […[ una simile clausola è lecita qualora, nel testo stesso del contratto firmato dalle due parti, sia fatto un richiamo espresso a condizioni generali contenenti la clausola medesima” (sentenza 8 marzo 2018, X00/00, Xxxx Xxxx & Xxxxxx XX/XX). Si vuole, infatti, in tal modo tutelare il contraente più debole evitando che clausole attributive di giurisdizione, inserite nel contratto da una sola delle parti, passino inosservate (Corte di Giustizia, sentenza 16 marzo 1999, Castelletti, C-159/97).
Quanto alla giurisdizione, la Corte ha individuato il Giudice italiano quale foro competente ex art. 7, 1° comma, lett. b) Reg. (UE) n. 1215/2012 trattandosi di contratto internazionale di appalto (prestazione di servizi) e non di vendita (come sostenuto, invece, dalla società francese). A tale conclusione la Corte è giunta utilizzando i criteri posti dall’art. 3 CISG e ha rilevato che le parti avevano voluto dare luogo ad un contratto di appalto in quanto esso non si limitava a stabilire solo una semplice fornitura.
Come noto, l’art. 3 CISG chiarisce i criteri che, tra prestazione di dare e prestazione di fare, permettono di inquadrare un contratto quale contratto internazionale di vendita o di appalto.
Più esattamente, l’art. 3, 2° comma CISG dispone che “La presente Convenzione non si applica ai contratti nei quali la parte preponderante delle obbligazioni della parte che consegna i beni consiste nella consegna di mano d’opera o di altri servizi”.
Nel caso di specie il contratto prevedeva anche la posa in opera di un impianto industriale e poneva una serie di attività a carico della società francese che andavano dalla esecuzione di alcuni collegamenti elettrici ed idrici alla installazione in loco dell’apparecchiatura industriale, all’avviamento ed al collaudo della stessa, tutte attività da svolgersi a Marcianise.
Facendo uso dell’art. 3 CISG, la Corte ha inquadrato il contratto de quo quale appalto poiché quando alla prestazione di fare, caratterizzante l’appalto, si affianca quella di dare, tipica della vendita, deve aversi riguardo alla prevalenza o meno del lavoro sulla materia, con riguardo alla volontà dei contraenti oltre che al senso oggettivo del contratto, al fine di accertare se la fornitura della materia sia un semplice mezzo per la produzione dell’opera ed il lavoro lo scopo del contratto-appalto, oppure se il lavoro sia il mezzo per la trasformazione della materia ed il conseguimento della cosa l’effettiva finalità del contratto-vendita.
L’art. 7, 1° comma, lett. b) Reg. (UE) n. 1215/2012 così recita: “Una persona domiciliata in uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro: 1) a) in materia contrattuale, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio; b) ai fini dell’applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo di esecuzione dell’obbligazione dedotta in giudizio è: […] nel caso della prestazione di servizi, il luogo situato in uno Stato membro, in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto”.
Trattandosi di contratto di appalto, la cui esecuzione era avvenuta nella sede di Marcianise della società italiana e non essendo stata ritenuta valida la clausola di scelta del foro francese,
il foro competente è stato, dunque, individuato in capo al giudice del luogo (Italia) in cui i servizi sono stati prestati ai sensi del citato art. 7 Reg. (UE) n. 1215/2012. Tale foro, come noto, rappresenta un foro speciale alternativo al foro generale del convenuto.
La Corte ha, inoltre, ritenuto applicabile la legge italiana e non quella francese, contrariamente a quanto argomentato dalla ricorrente francese.
Ciò in base all’art. 57 Legge n. 218/1995 poiché, vertendosi in materia contrattuale, tale contratto è disciplinato dalla legge del Paese con il quale presenta il collegamento più stresso, ossia nel caso di specie l’Italia.
La Corte ha, infine, affermato ancora una volta che la clausola di scelta del foro competente non necessita, in ogni caso, della specifica approvazione richiesta dall’art. 1341 cod. civ. (cd. “doppia firma” prevista dal diritto italiano) ma esige serie garanzie di consapevole adesione da parte del contraente che non l’ha predisposta, nonché la specifica indicazione del giudice straniero in favore del quale la giurisdizione italiana è derogata.
In proposito è utile ricordare che nei contratti internazionali il principio di libertà di forma previsto dall’art. 11 CISG per i contratti di vendita internazionale di beni mobili si ritiene prevalga sulle norme specifiche nazionali posti da certi Paesi (ad es. in Italia, appunto, l’art. 1341 cod. civ. che impone che vengano approvate per iscritto le clausole vessatorie inserite nelle condizioni generali di contratto). Difatti, “La prevalenza del principio (di diritto uniforme) della libertà di forma sull’eventuale formalismo (di diritto interno) non può essere posta in dubbio allorchè la forma sia stata prescritta dal legislatore nazionale ai soli fini di tutela delle parti, quando essa sia, cioè, volta esclusivamente “a sollecitare dai contraenti […] una maggiore ponderazione dei termini e delle conseguenze contrattuali. Per quanto riguarda il diritto italiano ne deriva il venir meno, nei contratti di vendita internazionale, del requisito dell’apposita sottoscrizione richiesta dalla disciplina codicistica (art. 1341, 2° comma, cod. civ.) affinchè le clausole cosiddette vessatorie possano avere effetto” (Xxxxxx Xxxxxxx, Vendita internazionale di beni mobili, Art. 1-13, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Zanichelli, p. 216 ss.).
Riteniamo che ciò valga anche qualora – come accade nel caso di specie – al contratto sia applicabile la legge italiana.
Conseguentemente, la Cassazione ha rigettato il ricorso per regolamento di giurisdizione promosso dalla società francese confermando la giurisdizione del Giudice italiano, non essendo stata ritenuta valida ed efficace la clausola di scelta del Giudice francese ai sensi dell’art. 25 Reg. (UE) n. 1215/2012.
Secondo la Corte tale clausola doveva considerarsi tamquam non esset poiché era contenuta in un testo separato ed autonomo dal contratto, privo di sottoscrizione della controparte italiana e senza alcun aggancio specifico o richiamo nel contratto di appalto oggetto di lite.
Di conseguenza, non ricorreva il presupposto richiesto dall’art. 25 Reg. (UE) n. 1215/2012 per la validità della clausola, ossia la predisposizione in forma scritta della clausola oppure la conferma di essa per iscritto. Neppure era stata data prova dell’esistenza di un comportamento concludente delle parti o di una prassi commerciale costantemente accettata ed applicata. Pertanto la Corte ha ritenuto che non ricorresse nessuno dei presupposti richiesti dall’art. 25 Reg. (UE) n. 1215/2012 che permettono di ritenere valida una clausola di scelta del foro competente voluta dalle parti. In proposito, la Corte ha chiarito che in quanto espressione dell’autonomia negoziale, che l’ordinamento unionale accorda alle parti in materia di attribuzione della competenza giurisdizionale, la clausola di proroga della giurisdizione – art. 17 della Convenzione di Bruxelles del 1968, art. 23 Reg. n. 44/2001 (cd. Reg. Bruxelles I), art. 25 Reg. n. 1215/2012 (cd. Reg. Bruxelles I-bis), tanto che i principi sviluppati con riferimento alla Convenzione di Bruxelles si reputano applicabili anche ai Regolamenti Bruxelles-I e Bruxelles I-bis (Corte di Giustizia UE 7/02/2013, C-543/10, Refcomp) – consente di derogare ai principi generali in materia di competenza stabiliti dai citati Convenzione e Regolamenti, a condizione che le parti vi aderiscano in uno dei modi previsti dalla norma stessa.
Per una panoramica – inter alia – delle sentenze e lodi arbitrali italiani sulla clausola di proroga della giurisdizione contenuta in condizioni generali di contratto in materia di contratti di vendita internazionale di beni mobili sia consentito rinviare a XXXXX XXXXXXXXXX, Casebook sui contratti di vendita internazionale. Raccolta ragionata della giurisprudenza italiana (sentenze e lodi arbitrali) sulla Convenzione di Vienna del 1980 sui contratti di vendita internazionale di beni mobili (CISG), Xxxxxx Editore, 2020, p. 745.
Impugnazioni
Gli alterni svolgimenti del giudizio d’appello nel caso di esperimento della querela di falso
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx, Professore ordinario di Diritto processuale civile e di diritto
fallimentare – Università degli Studi di Parma
Cass., Sez. III, 16 maggio 2023, n. 13376 Pres. Frasca – Rel. Rossetti
Impugnazioni civili – Appello – Querela di falso proposta in via principale – Sospensione dell’appello – Esclusione (C.p.c. artt. 42, 221, 295, 355)
[1] La proposizione in via autonoma d’una querela di falso mentre pende il giudizio d’appello non consente la sospensione di quest’ultimo, la quale è accordata dall’art. 355 c.p.c. nella sola ipotesi della querela di falso proposta in via incidentale nel giudizio d’appello.
CASO
[1] La vicenda che ha condotto alla presente ordinanza del Supremo Collegio ha preso avvio dall’azione monitoria esercitata con successo da un istituto di credito nei confronti del fideiussore di una società debitrice dell’istituto medesimo. Con l’opposizione proposta a norma dell’art. 645 c.p.c., il debitore ingiunto ha dedotto la falsità della firma apposta in calce all’atto di fideiussione: ma sull’incidente, conseguentemente insorto, di verificazione di scrittura privata, il Tribunale adito si è pronunciato nel senso dell’autenticità della contestata sottoscrizione, così pervenendo al rigetto dell’opposizione de qua.
Avverso questa pronuncia, parte soccombente ha proposto appello, cui, però, si è abbinata la proposizione, innanzi al tribunale competente, di una distinta e autonoma istanza di querela di falso volta a rimettere in discussione la genuinità del documento fideiussorio al centro della vicenda. Debitamente notiziata della pendenza di questa istanza, la Corte d’appello di Roma, investita del giudizio di gravame contro la sentenza di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo, ne ha decretato la sospensione ai sensi dell’art. 295 c.p.c., con ordinanza tempestivamente fatta segno di regolamento di competenza ex art. 42 c.p.c. da parte
dell’appellato e della società cessionaria del credito sub iudice, intervenuta in corso di lite.
Alla pronuncia venuta alla luce all’esito del così esperito regolamento sono dedicate le brevissime note che seguono.
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte ha riconosciuto la fondatezza del ricorso per regolamento sottoposto alla sua attenzione: e questo, in nome di un’interpretazione rigorosamente restrittiva dell’art. 355 c.p.c., tale per cui, se la norma ammette che il giudice dell’appello sia tenuto a sospendere il giudizio nel caso un documento rilevante per la decisione sia stato oggetto di querela di falso proposta in via incidentale al giudizio medesimo, allora è da ritenersi, in nome del principio inclusio unius, exclusius alterius, che la sospensione non possa essere ordinata nell’opposta eventualità, concretatasi nella fattispecie in esame, di querela di falso esperita in via autonoma o principale.
A dispetto delle apparenze, nessuno spunto di segno contrario, a detta della Corte, sarebbe ricavabile dagli artt. 221, 1° co., e 295 c.p.c. Xx invero, quanto alla prima di tali disposizioni, essa si limiterebbe a sancire la piena libertà di scelta, per la parte interessata ad impugnare di falso un certo documento in pendenza del giudizio d’appello, tra l’interposizione della querela di falso in via incidentale al giudizio pendente e la sua proposizione come azione autonoma, senza che nulla, però, se ne possa inferire quanto alle ripercussioni della scelta concretamente effettuata sulle sorti del giudizio in atto: onde la necessità di far capo, a codesto fine, al predetto art. 355 c.p.c., con tutto quanto ne consegue in termini di sospensione dell’appello pendente nella sola ipotesi di querela esercitata in via incidentale. Laddove, trascorrendo al successivo art. 295, è vero che questo pone come regola generale quella della sospensione necessaria del processo dipendente in attesa della decisione sul processo pregiudiziale; ma, proprio perché si tratta di regola generale, essa sarebbe inesorabilmente destinata a cedere il passo, ove se ne realizzi lo specifico presupposto applicativo, di fronte a una disciplina, come quella del suddetto art. 355 c.p.c., che indiscutibilmente si profila al riguardo come lex specialis.
La Corte non si nasconde, poi, che la lettura da essa accolta della norma da ultima richiamata potrebbe originare un conflitto tra il giudizio di falso e quello di merito pendente (e liberamente proseguito) in fase impugnatoria. Ma si tratterebbe, a suo dire, di conflitto pianamente componibile sulla base delle norme generali e nei termini, testualmente, per cui:
– «a) se si conclude per primo il giudizio di xxxxxxx (fondato sull’assunto dell’autenticità del documento contestato), e successivamente venga accertata nel separato giudizio di falso l’apocrifia del documento, la sentenza d’appello potrà essere rimossa con lo strumento della revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 2, c.p.c., per avere il giudice provveduto “in base a prove (…) dichiarate false dopo la sentenza”;
– b) se si conclude per primo il giudizio di falso, ovviamente il giudicato sul falso potrà essere
invocato nel giudizio d’appello, ex art. 2909 c.c., senza che vi ostino le preclusioni proprie del giudizio di xxxxxxx, irrilevanti rispetto ai fatti sopravvenuti».
Nulla, in definitiva, si opporrebbe all’esegesi restrittiva dell’art. 355 c.p.c. condensata nella massima enunciata in epigrafe.
QUESTIONI
[1] Siccome ascrivibile a pieno titolo al corrente filone giurisprudenziale svolgentesi nel segno del ridimensionamento dell’area operativa della sospensione necessaria per pregiudizialità- dipendenza (pensiamo, in particolare, ai noti pronunciamenti delle Sezioni unite 19 giugno 2012, n. 10027, e 29 luglio 2021, n. 21763, che la linea di demarcazione tra i rispettivi àmbiti applicativi di sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. e sospensione facoltativa di cui al successivo art. 337, 2° co., hanno sensibilmente spostato, a tutto vantaggio della seconda rispetto alla prima), quale istituto evidenziante un’indiscutibile attitudine lesiva dei valori, costituzionalmente presidiati, dell’effettività del diritto di azione e della ragionevole durata del processo (per ogni altro, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, 12a ed., II, Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Torino, 2019, 284 ss.), la posizione qui assunta dalla Suprema Corte appare in linea di principio condivisibile, ovverosia tale può reputarsi con riferimento all’ipotesi – che sola, verosimilmente, il legislatore ha avuto presente all’atto del concepimento della norma di cui s’è, nell’occasione, discusso – in cui l’autenticità del documento sia stato oggetto di cognizione giudiziale esclusivamente in sede di querela di falso. Nel caso affrontato dalla presente Xxxx. n. 13376/2023, dove la querela di falso è stata proposta contro una scrittura privata che il querelante aveva già, in precedenza, disconosciuto, provocando in tal modo l’incidente di verificazione, le cose sono però andate diversamente: e qui, ad una qualche perplessità è lecito dare voce, se non con riguardo all’opzione di principio professata dalla Corte, certo a taluno dei suoi svolgimenti.
E’ evidente che, in una siffatta ipotesi, il giudicato di merito, sortito dal giudizio d’appello, che fosse «fondato sull’assunto dell’autenticità del documento contestato» si reggerebbe, in realtà, sul distinto giudicato, formatosi in sede di verificazione della scrittura privata, che l’accertamento di detta autenticità avesse avuto ad oggetto. Per cui supporre, come si legge nell’ordinanza in commento, che quel giudicato di merito potrebbe essere rimosso a mezzo della revocazione straordinaria ex art. 395, n. 2, x.x.x. xxxxxxx venisse successivamente accertata, nel separato giudizio di falso, l’apocrifia del documento suddetto, varrebbe a direttamente sconfessare quanto affermato dalla stessa Suprema Corte nel suo ancora recente arresto del 29 gennaio 2021, n. 2152 (segnalato in questo Portale con nota dello scrivente, Querela di falso ammessa (e definita con sentenza passata in giudicato) in pendenza del giudizio di verificazione di scrittura privata), a tenore del quale: a) dove il giudizio di verificazione abbia messo capo all’accertamento con forza di giudicato dell’autenticità di una data scrittura, inammissibile sarebbe la querela di falso che quella autenticità mirasse, invece, a smentire; b) e qualora l’istanza di xxxxxxx avesse egualmente avuto corso e fosse esitata nell’accertamento, parimenti assistito dal giudicato, della falsità della sottoscrizione, nel conflitto di giudicati che così si determinerebbe la prevalenza andrebbe accordata a quello, di segno contrario,
precedentemente formatosi a suggello dell’incidente di verificazione.
E’ vero che il precedente testé richiamato fa testuale riferimento all’ipotesi di querela di falso esperita quando già figuri presente sulla scena il giudicato sull’istanza di verificazione; laddove, nel caso deciso dall’ordinanza in rassegna, quell’istanza, al momento della proposizione della querela di falso, nel giudicato non era ancora sfociata. Ma ammesso a fatica che, nei rapporti tra verificazione di scrittura privata e querela di falso relative al medesimo documento, l’impedimento della litispendenza ex art. 39, 1° co., c.p.c. non sia opponibile (cfr. Montanari, op. loc. cit.), ipotizzare, al fine di rendere compatibili le due pronunce, che il giudicato scaturito dal primo di quei giudizi possa spiegare i suoi effetti preclusivi nel secondo solamente se questo sia stato avviato successivamente a detto giudicato, ciò appare francamente eccessivo, sì da non potercisi esimere dall’auspicio di un tempestivo intervento delle Sezioni unite che valga a comporre il denunciato contrasto o, almeno, a fare piena chiarezza sul punto.
Esecuzione forzata
Pignoramento presso terzi e obblighi dichiarativi del terzo pignorato
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
Cassazione, III sezione civile, sentenza del 5 aprile 2023, n. 9433; Pres. Rubino; Rel. Tatangelo.
Massima:“Nel procedimento di espropriazione di crediti di cui agli artt. 543 e ss. c.p.c., ove il terzo pignorato dichiari la sussistenza della propria obbligazione nei confronti del debitore esecutato, precisando però che il relativo credito risulta già vincolato in virtù di precedenti pignoramenti, egli ha l’obbligo, ai sensi dell’art. 550 c.p.c., di indicare gli estremi di detti pignoramenti (precisando, quindi, quanto meno i creditori pignoranti, la data della notifica dei pignoramenti, gli importi pignorati, nonché il contenuto delle dichiarazioni di quantità già rese e gli eventuali pagamenti già effettuati in base ai provvedimenti di assegnazione emessi), onde consentire al giudice dell’esecuzione di disporre eventualmente, nella presenza dei necessari presupposti, la riunione delle procedure, ai sensi dell’art. 524 c.p.c.; nel caso in cui tali indicazioni non siano fornite dal terzo, la dichiarazione dovrà ritenersi incompleta e il giudice dell’esecuzione dovrà chiedere la sua integrazione allo stesso terzo, fissando una nuova udienza ai sensi dell’art. 548 c.p.c. e concedendogli, nell’ipotesi in cui i pignoramenti in questione siano in numero tale da rendere necessaria una complessa attività di recupero dei dati necessari, un adeguato termine; nel caso in cui, peraltro, nonostante il termine all’uopo concesso, l’integrazione non sia resa dal terzo, la dichiarazione non potrà intendersi regolarmente resa, ai sensi dello stesso art. 548 c.p.c., con la conseguenza che, se le allegazioni del creditore o anche la stessa dichiarazione comunque resa dal terzo consentano l’individuazione del credito pignorato, potrà procedersi all’assegnazione di esso in favore del creditore procedente”.
CASO
E.E., creditore di una ASL, pignorava le disponibilità della stessa presso l’istituto tesoriere Banco di Napoli s.p.a. (oggi Intesa San Paolo s.p.a.). La banca dichiarava la sussistenza di un saldo attivo sul conto di tesoreria per oltre 17 milioni di Euro, limitandosi però a specificare
che detta somma era già integralmente vincolata in virtù di precedenti pignoramenti e che dal momento del pignoramento non si erano verificate ulteriori disponibilità.
Su tale dichiarazione sorgeva contestazione circa la completezza della stessa, in quanto la ASL non aveva indicato gli estremi dei precedenti pignoramenti, cosicché il giudice dell’esecuzione invitava espressamente la terza debitrice ad integrare la dichiarazione, fornendo le indicazioni mancanti (ivi inclusa l’esibizione delle scritture contabili) ed avvisandola che, in mancanza, avrebbe considerato verificati gli effetti di cui all’art. 548, co. 2, c.p.c. e, quindi, avrebbe considerato la dichiarazione come implicitamente positiva.
La banca non provvedeva ad integrare la dichiarazione e così il giudice dell’esecuzione disponeva l’assegnazione delle somme pignorate.
L’istituto tesoriere impugnava l’ordinanza di assegnazione ex art. 617 c.p.c. e l’opposizione era accolta dal Tribunale di Torre Annunziata.
Il creditore ricorreva, pertanto, in cassazione sulla base di tre motivi. Prima della data fissata per l’udienza, si costituivano gli eredi di E.E. in seguito al suo decesso dopo la proposizione del ricorso.
La ASL intimata non svolgeva attività difensiva.
SOLUZIONE
La Corte di aassazione ha accolto il ricorso, dichiarando fondati tutti e tre i motivi e pronunciando il principio di diritto indicato in epigrafe, cassando la sentenza impugnata e rinviando al Tribunale di Torre Annunziata in persona di diverso magistrato, anche per le spese di legittimità.
QUESTIONI
Con i tre motivi di ricorso, E.E. e quindi i suoi eredi deducevano, rispettivamente:
1) la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 543, 547, 550 e 552 c.p.c, nonché dell’art. 2697 c.c., ai sensi dell’art. 360, n. 3 e 4, c.p.c.;
2) la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 547, 548, 549 e 550
c.p.c. ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.;
3) la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c. e la contraddittorietà manifesta ed irriducibile della motivazione.
La Suprema Corte, nell’esaminare congiuntamente i tre motivi, li ha dichiarati fondati.
Anzitutto, il ricorrente ha dedotto che il Tribunale avrebbe errato nel qualificare la dichiarazione resa dalla banca come negativa. Secondo la Suprema Corte, la dichiarazione in questione ha carattere oggettivamente e innegabilmente positivo, in quanto la terza pignorata ha dichiarato un credito dell’azienda debitrice, precisando solo che vi erano pignoramenti che avevano già colpito il medesimo credito.
Una simile dichiarazione, per giurisprudenza di legittimità costante, non perde affatto il suo carattere positivo, in quanto i vincoli dichiarati incidono non sul carattere della dichiarazione, ma solamente sulla possibilità di procedere all’assegnazione del credito, questione rispetto alla quale il terzo di regola è estraneo (salvo che gliene derivi un pregiudizio diretto).
In realtà, la questione rilevante è un’altra, ossia il fatto che tale dichiarazione, pur se positiva, risulta incompleta. Ed infatti la banca pignorata, nonostante la richiesta del Giudice dell’esecuzione, non ha integrato la dichiarazione con l’indicazione specifica degli estremi dei pignoramenti precedenti, cosicché il Giudice ha considerato la dichiarazione come “tacitamente positiva”.
La sentenza impugnata ha errato nel ritenere che tale giudice avesse effettuato una “ingiustificata commistione tra il procedimento di cui all’art. 548 c.p.c. … e quello di cui all’art.
549 c.p.c.”. Tale statuizione, da cui il Tribunale di Torre Annunziata ha fatto derivare l’illegittimità del provvedimento di assegnazione, non è conforme a diritto.
Infatti, ai sensi dell’art. 550 c.p.c., il terzo, nel rendere la sua dichiarazione, ha l’obbligo di “indicare” i pignoramenti che sono stati eseguiti presso di lui. Il verbo “indicare” implica che tali pignoramenti devono essere precisati nei loro estremi al fine di permetterne l’esatta individuazione. Tale indicazioni riguardano quantomeno il creditore, la data di notifica del pignoramento e l’entità della somma pignorata. Il terzo dovrebbe anche precisare, laddove possibile, il contenuto delle dichiarazioni di quantità già rese e gli eventuali pagamenti effettuati in base ai provvedimenti di assegnazione già emessi.
In base a tali indicazioni il giudice dell’esecuzione deve individuare le procedure ancora pendenti in ordine al medesimo credito, verificarne lo stato o l’esito ed eventualmente disporne la riunione, ai sensi degli artt. 550 e 524 c.p.c.
Nessuna di tali precise indicazioni era contenuta nella dichiarazione della banca pignorata.
Cosicché il giudice dell’esecuzione, nella fattispecie, non avrebbe nemmeno potuto disporre la riunione delle procedure aventi ad oggetto il medesimo credito, non conoscendone i relativi estremi.
Pertanto, la parte finale della sentenza, laddove afferma che, anche ad intenderla come positiva, la dichiarazione di quantità resa dalla banca pignorata non avrebbe consentito l’assegnazione, in quanto avrebbe dovuto disporsi la riunione della procedura esecutiva per cui è causa con quelle originate dai precedenti pignoramenti, è intrinsecamente
contraddittoria e denota chiaramente l’erroneità e l’illogicità della decisione impugnata.
In caso di dichiarazione incompleta, il giudice dell’esecuzione non può ritenere che la dichiarazione di quantità sia stata resa in modo adeguato e secondo le previsioni di legge, il che gli impone di chiederne l’integrazione al terzo, il quale potrà anche, se necessario, chiedere un adeguato termine qualora l’attività di recupero dei dati necessari sia complessa.
Laddove, invece, il terzo non provveda alla suddetta integrazione, è inevitabile ritenere che la dichiarazione non possa intendersi come resa regolarmente, con ogni conseguenza di cui all’art. 548 c.p.c., anche in tema di “non contestazione”.
In una simile situazione, quindi, il giudice può procedere all’assegnazione del credito dichiarato esistente dal terzo, considerando la dichiarazione di quantità come “implicitamente positiva”.
Ne consegue che la sentenza impugnata ha errato nel ritenere la dichiarazione “negativa”.
Per quanto riguarda, poi, la pretesa “ingiustificata commistione tra il procedimento di cui all’art. 548 c.p.c. … e quello di cui all’art. 549 c.p.c.”, la Suprema Corte ha osservato quanto segue.
La richiesta di integrazione rivolta al terzo non può considerarsi come un atto di istruzione del giudizio sommario di accertamento del credito di cui all’art. 549 c.p.c., ma costituisce una corretta modalità di applicazione di quanto previsto dalla legge nell’ambito della fase del procedimento di cui all’art. 548 c.p.c., cioè della fase in cui il giudice dell’esecuzione valuta se la dichiarazione sia stata resa in modo completo e, se necessario, invita il terzo ad integrarla.
Nella fattispecie, il giudice dell’esecuzione ha chiesto alla banca, oltre l’integrazione della dichiarazione, anche l’esibizione delle scritture contabili successive al pignoramento. Questa attività, precisa la Corte, va intesa come complementare alla richiesta di integrazione, in quanto volta ad acquisire gli elementi necessari per verificare i presupposti dell’eventuale necessità di riunione delle procedure esecutive aventi ad oggetto il medesimo credito.
Ma anche a voler ammettere, per un momento, che il giudice dell’esecuzione abbia effettuato una sorta di “commistione” tra le attività di cui all’art. 548 c.p.c. e quelle di cui all’art. 549 c.p.c., indebitamente anticipando le seconde ad un momento in cui non erano ancora esaurite le prime, ciò non potrebbe avere alcuna incidenza sulla legittimità del provvedimento finale di assegnazione, posto che questa risulta disposta sulla base della sola circostanza (sufficiente a tal fine) della mancata integrazione della dichiarazione mediante l’indicazione degli estremi dei precedenti pignoramenti.
La Corte, quindi, ha cassato la sentenza impugnata, esprimendo il principio di diritto riportato in epigrafe e rinviando al Tribunale in persona di diverso magistrato anche per le spese del giudizio di cassazione.
Responsabilità civile
Sinistro stradale letale: il convivente “more uxorio” ha diritto al risarcimento?
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato
Cass. civ., Sez. III, ord., 28.03.2023, n. 8801 – Pres. Xxxxxxx – Rel. Ambrosi
Danno da perdita della vita del convivente – Convivenza more uxorio – Coabitazione – Prova presuntiva del danno – Prove indiziarie.
[1] 30
CASO
In esito ad un sinistro stradale letale, la vittima lasciava la sua compagna ed i figli di lei, tutti con lui conviventi al tempo del fatto. I superstiti ottenevano in via stragiudiziale dalla compagnia assicurativa del responsabile un risarcimento pari ad € 150.000,00, a titolo di danno patrimoniale e non patrimoniale.
Non ritenendolo congruo, i superstiti convenivano in giudizio il danneggiante e la compagnia assicurativa, onde ottenerne la condanna al risarcimento del danno patrimoniale e morale subìto per effetto dell’interruzione del rapporto affettivo e materiale con la vittima.
Il Giudice di primo grado rigettava la domanda attorea, ritenendo satisfattivo il risarcimento già corrisposto. La decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello di Torino.
I superstiti proponevano ricorso avanti alla Corte di Cassazione, che, ritenendo fondato il ricorso, cassava la sentenza e rinviava alla Corte di merito in altra composizione, con la motivazione che il giudice del gravame non avesse dato la giusta rilevanza alla circostanza della “reciproca assistenza economica”, la quale era stata oggetto di prove e di indizi.
In sede di rinvio, la Corte d’appello, pur dando per presupposto il fatto storico della
convivenza more uxorio tra la ricorrente e la vittima al momento del sinistro, la quale perdurava da cinque anni, evidenziava che tale dato provava soltanto la sussistenza tra i conviventi di “una comunione affettiva”. Mentre, ai fini del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, occorreva l’accertamento del “profilo di reciproca assistenza economica”. Pertanto, la corte di merito in sede di rinvio rigettava la domanda.
Contro tale sentenza, i superstiti proponevano nuovo ricorso in cassazione.
SOLUZIONE
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione coglie l’occasione per confermare che si ha convivenza more uxorio, rilevante ai fini della risarcibilità del danno subìto da un convivente in caso di morte dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale. Per accertare il configurarsi di tale fattispecie, i requisiti della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (ad es. la coabitazione, un progetto di vita comune o l’esistenza di un conto corrente in comune) che devono essere valutati “non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri”.
QUESTIONI
Nell’ordinanza in commento, i ricorrenti lamentano un duplice errore commesso dalla Corte d’appello: uno di metodo e l’altro di merito.
Il primo riguarda il metodo utilizzato al fine della corretta valutazione del materiale probatorio.
Occorre muovere dalla considerazione che la prova presuntiva (o indiziaria) esige che il giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli nel loro insieme e gli uni per mezzo degli altri. Ne consegue che è errato l’operato del giudice di merito che, dinnanzi a plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi arrivare alla conclusione che nessuno di essi assurga, autonomamente, a dignità di prova.
Nel caso di specie, la Corte d’appello, dopo aver dato per provata la convivenza more uxorio tra la superstite e la vittima del sinistro stradale, durando la loro coabitazione da almeno cinque anni, aveva ritenuto necessario verificare che la scelta della coabitazione tra i due potesse costituire elemento indiziario completamente compatibile con “una contribuzione economica alle spese del quotidiano, relative alla gestione/manutenzione dell’alloggio e alle esigenze alimentari”, concludendone che, tuttavia, non dimostrava, di per sé, “l’intenzione di mettere in comune le risorse economiche nel contesto della costituzione sostanziale di un nuovo nucleo familiare”.
Muovendo da tale parametro, la Corte torinese aveva escluso l’esistenza dei presupposti di una
reciproca assistenza economica. Infatti, secondo la corte di merito tutte le circostanze addotte (la pluriennale convivenza, lo spostamento della residenza e del domicilio fiscale, la delega a favore della convivente ad operare sul conto corrente della vittima) non erano univocamente in grado di dimostrare l’esistenza di una comunanza di vita tra il defunto e la superstite così forte e stabilizzata da giustificare “il prevedibile apporto stabile economico del primo a vantaggio della seconda, non solo per la stretta durata della convivenza ma per tutta la durata della vita”.
Secondo gli Ermellini, tuttavia, il Giudice d’appello non avrebbe considerato che, una volta acquisita una pluralità di elementi in giudizio, che costituiscono indici rilevanti in ordine alla configurabilità di una determinata situazione produttiva di ricadute giuridicamente rilevanti, “essi non possono essere poi presi in considerazione atomisticamente, ma devono essere considerati nella loro unitarietà e nella loro interazione l’uno con l’altro”. La corte torinese si era limitata a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio, senza accertare la loro capacità di conseguire valenza indiziaria, una volta valutati nel loro complesso, in maniera unitaria e non frazionata, nel senso che ognuno di essi avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro, in un rapporto di vicendevole completamento.
Per tale ragione, la Suprema Corte, nel caso di specie, ha rilevato il grave deficit valutativo della decisione appellata, laddove la corte di merito aveva ritenuto non univocamente desumibile dalla pacifica situazione di convivenza pluriennale e di contribuzione economica alle spese quotidiane e alla gestione/manutenzione dell’alloggio e alle esigenze alimentari, “l’intenzione (del convivente deceduto) di mettere in comune le risorse economiche nel contesto della costituzione sostanziale di un nuovo nucleo familiare”, dimenticando l’accertata diuturnitas della relazione more uxorio, interrotta unicamente dal sinistro stradale mortale.
In altre parole, gli elementi fattuali dedotti dalla ricorrente come indicativi di una comunione materiale con la vittima del sinistro avrebbero dovuto essere ritenuti dalla Corte d’appello sicuri indici di un legame stabile, la cui perdita sia dunque risarcibile.
Il secondo errore di diritto in cui era incorsa la corte torinese riguarda la configurabilità di una relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale tra il convivente deceduto e la superstite e che è meritevole di tutela anche sotto il profilo risarcitorio.
Il giudice d’appello non avrebbe considerato un consolidato orientamento della corte di legittimità, secondo cui il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, concretatosi in un evento mortale, “va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale allorquando emerga la prova di uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto”.
Escludere, come ha fatto la corte di merito, il diritto dei conviventi al risarcimento del danno, per il fatto che il rapporto di convivenza assumerebbe rilievo solo sotto il profilo affettivo, vale a dire come “comunione affettiva”, significa contrastare anche la definizione di “convivenza di fatto” prevista dall’art. 1 L. 76/2016, secondo cui i conviventi di fatto sono “due persone
maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, individuando sempre l’elemento spirituale, il legame affettivo e quello materiale o di stabilità, la reciproca assistenza morale e materiale, fondata in questo caso non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impegno reciproco”.
Questa realtà non era stata evidentemente colta dalla gravata sentenza, che aveva negato tutela alla convivente del defunto, giustificando il rigetto della domanda risarcitoria su circostanze neutre rispetto alla convivenza in essere, quale il precedente vincolo matrimoniale di ciascuno dei due conviventi, con “possibili obblighi di mantenimento” gravanti sugli stessi.
Le motivazioni della corte torinese sulla “non univocità e gravità” degli elementi di fatto valutati per escludere una comunanza di vita “talmente forte e stabilizzata da giustificare il prevedibile apporto stabile economico del primo a vantaggio della seconda” non solo sono viziate da contraddittorietà logica ma anche da oggettiva incomprensibilità, in quanto il giudice di secondo grado aveva ammesso la sussistenza tra i conviventi di una “comunione affettiva” caratterizzata da “una contribuzione economica alle spese del quotidiano, relative alla gestione/manutenzione dell’alloggio e alle esigenze alimentari “, ma aveva ritenuto tali elementi obiettivi non idonei a conferire una stabilità relativamente definitiva al rapporto, quale apporto continuativo “talmente forte e stabilizzato” corrispondente a quello che sarebbe stato effettuato in un contesto familiare. Per tale ragione, gli elementi di fatto dedotti dall’attrice sono stati ravvisati come rilevanti soltanto ai fini di un “impulso affettivo significativo“, ma non anche ai fini della spontanea e volontaria assunzione di reciproci impegni di assistenza morale e materiale.
In conclusione, quindi, la gravata sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Torino, la quale dovrà attenersi ai seguenti principi di diritto:
si ha convivenza more uxorio, rilevante ai fini del risarcimento del danno subìto da un convivente in caso di perdita della vita dell’altro, qualora due persone siano legate da un legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale;
ai fini dell’accertamento della configurabilità della convivenza more uxorio, i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza degli elementi presuntivi, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi (quali, a titolo esemplificativo, un progetto di vita comune, l’esistenza di un conto corrente comune, la compartecipazione di ciascuno dei conviventi alle spese familiari, la prestazione di reciproca assistenza, la coabitazione), i quali devono essere valutati non atomisticamente ma nel loro insieme e l’uno per mezzo degli altri.
Comunione – Condominio - Locazione
Se la delibera è inesistente il gravame delle spese ricade sull’impugnante
di Xxxxxxx Xxxxxxx, Avvocato
Corte Suprema di Cassazione, Sez. VI-2, Ordinanza n.1367 del 18 gennaio 2023, Pres. Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxx, Rel. Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxx.
Xxxxxxx: “La delibera assembleare è inesistente quando manchi un elemento costitutivo della fattispecie del procedimento collegiale, sicché non può individuarsi strutturalmente l’espressione di una volontà riferibile alla maggioranza avente portata organizzativa. In tal caso i condomini non hanno alcun interesse ad impugnarla, non generando la stessa alcun pregiudizio ai loro diritti tale da legittimarne la pretesa ad un diverso contenuto della decisione. L’accertamento dell’inesistenza della deliberazione assembleare impugnata da un condomino non può, pertanto, determinare la soccombenza del condominio, che pure abbia contestato le ragioni di invalidità della stessa, dovendo restare soccombente pur sempre la parte che abbia azionato una pretesa accertata come infondata o resistito ad una pretesa fondata”.
CASO
Il giudizio originariamente aveva ad oggetto l’impugnazione ex art. 1137 c.c., proposta dalla società condomina (OMISSIS) s.a.s., avverso due delibere approvate dall’assemblea del Condominio (OMISSIS) di Varese in data 15 luglio 2015 ed in data 24 novembre 2015 per aver, la prima introdotto nuovi criteri di ripartizione delle spese e, la seconda, per aver approvato nuove tabelle millesimali, entrambe senza la necessaria unanimità.
Il Tribunale di Varese aveva dichiarato con sentenza la nullità della delibera del 15 luglio 2015, e rigettato la seconda.
Nella domanda di appello principale, il Condominio richiedeva la riforma parziale della sentenza emessa dal giudice di prime cure e, contestualmente, di “revocare la dichiarazione di nullità della delibera condominiale del 15.07.2015, rigettando integralmente tutti i motivi di
impugnazione avanzati in primo grado dalla società S.a.s. avverso la delibera del 15.07.2015 (…)”.
Con riferimento ai motivi di gravame inerenti la delibera del 15 luglio 2015, la Corte d’Appello milanese spiegava nelle proprie motivazioni che la stessa era da ritenersi inesistente, e non nulla, in quanto “affinché una delibera possa ritenersi affetta da un vizio di nullità (nel caso di specie per mancanza dei suoi elementi essenziali) è pur sempre necessario che la stessa sia identificabile e qualificabile come atto giuridico, ovvero come espressione sia pur viziata della volontà dei condomini riuniti in assemblea”, cosa che non si era verificata nel caso di specie in quanto, come risultava dal verbale, “non vi è stata alcuna manifestazione di volontà da parte dei condomini” riguardo alla ripartizione delle spese. Nonostante tali conclusioni, l’appello del Condominio veniva rigettato, in quanto lo stesso, nelle sue conclusioni, aveva chiesto che venisse “revocata la dichiarazione di nullità resa dal primo giudice”, il che, tuttavia, avrebbe avuto “l’effetto di far rivivere un’ipotetica delibera assembleare di contenuto inesistente e come tale inidonea a produrre qualunque effetto giuridico”, il che presupporrebbe tuttavia l’esistenza di una delibera che potesse essere emendata dal vizio di nullità, mentre sui criteri di riparto l’assemblea del 15 luglio 2015 non si era proprio pronunciata ed il Condominio non aveva “chiesto una declaratoria di inesistenza”.
Sulla base di tale decisione il Condominio (OMISSIS) di Varese proponeva ricorso per la cassazione della sentenza d’appello articolato in unico motivo.
Su proposta del relatore, che riteneva il ricorso manifestamente fondato, in relazione all’art. 375, comma 1, n. 5), c.p.c., il presidente fissava l’adunanza della camera di consiglio
SOLUZIONE
La Suprema Corte di Cassazione accolse il ricorso, cassando la sentenza impugnata e rinviando la trattazione della causa anche per la ripartizione delle spese del giudizio di legittimità alla Corte d’Appello di Milano.
QUESTIONI
In via preliminare, la Suprema Corte dovette disattendere l’eccezione di inammissibilità, presentata dal ricorrente in memoria ex art.380 bis, comma 2, c.p.c., dalla (OMISSIS) s.a.s.. Infatti, richiamando il principio di diritto esposto dalla stessa Cassazione con la sent. 18483/2015, l’autonomia del controricorso “è assicurata, ai sensi dell’art. 370, comma 2, c.p.c., che richiama l’art. 366, comma 1, c.p.c., anche quando l’atto non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso”.
Attraverso l’unico motivo di ricorso presentato dal Condominio (OMISSIS), venne dedotta la nullità della sentenza di gravame in quanto viziata da “insanabile contrasto tra dispositivo e motivazione e comunque per evidente antinomia delle posizioni riportate nel contesto della decisione”.
Gli Ermellini sottolinearono, contrariamente, che la sentenza emessa dalla Corte territoriale non risultasse essere affetta da alcun contrasto tra dispositivo e motivazione, in ragione del fatto che “il provvedimento idoneo a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale, che si è limitato al rigetto dell’impugnazione del Condominio in conformità con le considerazioni svolte nella motivazione stessa”. Tuttavia, venne sottolineata la presenza di un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili nella sentenza oggetto di ricorso, ciò comportando l’assoluta mancanza di una motivazione idonea a sorreggere il dispositivo.
Nel caso in esame, contrariamente a quanto indicato dalla giurisprudenza in merito all’oggetto del giudizio di appello[1], è accaduto che la sentenza di secondo grado, a fronte della mera richiesta dell’appellante di “revocare la dichiarazione di nullità della delibera” ottenuta al termine del primo grado di giudizio, abbia ravvisato l’inesistenza della deliberazione impugnata e rigettando l’appello per essersi questo limitato a chiedere la revoca della declaratoria di nullità pronunciata su domanda della controparte.
La Suprema Corte chiarì, dunque, che l’inesistenza di una delibera condominiale può essere dichiarata solamente laddove sia carente di un elemento costitutivo della fattispecie del procedimento collegiale, “non può individuarsi strutturalmente l’espressione di una volontà riferibile alla maggioranza avente portata organizzativa”. In altre parole, i condomini non sono detentori di alcun interesse ad agire in giudizio per ottenere la declaratoria di inesistenza, non essendo la stessa generatrice di alcun pregiudizio nei loro confronti tale da legittimare la pretesa degli stessi ad un diverso contenuto della decisione del collegio.
Tanto specificato, appare chiaro come l’accertamento dell’inesistenza della delibera assembleare impugnata da uno dei condomini non può determinare la soccombenza del Condominio, anche allorquando abbia contestato le ragioni di invalidità della stessa dedotte dall’attore, rimanendo pur sempre soccombente la parte che abbia azionato una pretesa accertata come infondata o resistito ad una pretesa fondata, e si sia perciò vista negare o togliere un bene della vita a vantaggio dell’avversario.
[1] Cass. Sez. Unite 23/12/2005, n. 28498 ; Cass. Sez. Unite, 08/ 02/2013, n. 3033; (oggetto del giudizio di appello è costituito dalla verifica degli errori in fatto ed in diritto commessi dal giudice di primo grado, dei quali l’appellante è tenuto a fornire dimostrazione).
Diritto successorio e donazioni
Imposte sulle successioni: l’esenzione può applicarsi anche per le partecipazioni in società residenti in altro Stato dell’UE
di Xxxxxxx Xx Xxxx, Notaio
Cass. Civ. Sez. trib., 23 febbraio 2023, n. 5674 – PAOLITTO – Presidente – XXXXXXX – Relatore. (Art. 3, comma 4-ter d.lgs. 346/1990)
Xxxxxxx: “In tema di imposta sulle successioni e donazioni, l’esenzione di cui all’art. 3, comma 4-ter, terzo periodo, del d.lgs. n. 346 del 1990 si applica anche per le partecipazioni in società residenti in altro Stato nell’Unione Europea alle stesse condizioni normativamente stabilite per il passaggio di quote o azioni di società residenti in Italia e, cioè, che col trasferimento sia integrato o mantenuto, da parte degli aventi causa, il controllo di diritto sulla società partecipata e che gli stessi si impegnino a mantenere il controllo societario per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo apposita dichiarazione contestuale alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione”
Fonte: Giustizia Civile Massimario 2023
CASO
Il 20 aprile 2016, con atto notarile, B.A. trasferiva a titolo di liberalità, a due figli e tre nipoti, azioni della società di diritto lussemburghese “San Xxxxxxx s.a.”, donazioni ritenute esenti dall’imposta di successione e donazione ai sensi dell’art. 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, disposizione agevolativa del passaggio generazionale di aziende e società.
L’Agenzia delle entrate emetteva avvisi di liquidazione dell’imposta di successione e donazione, rilevando la mancata integrazione dei requisiti richiesti dalla menzionata disposizione per il godimento dell’agevolazione ivi disposta.
Avverso i detti avvisi il donante e i donatari proponevano ricorsi alla Commissione Tributaria
Provinciale di Lodi. I ricorsi, riuniti, venivano accolti.
Con sentenza n. 3189 del 28 dicembre 2020, la Commissione Tributaria Regionale di Milano ribaltava la decisione di primo grado, ritenendo l’esenzione fruibile anche in rapporto al trasferimento di azioni di società non residenti nel territorio dello Stato, ma solo al ricorre della duplice condizione – pacificamente non integrata nel caso di specie – che le azioni donate consentano il controllo della società e che i donatari abbiano reso una dichiarazione di impegno a mantenere le azioni acquisite per i cinque anni successivi al trasferimento.
Per la cassazione di quest’ultima sentenza, i contribuenti proponevano ricorso sulla base di un unico motivo, lamentando la violazione o falsa applicazione dell’art. 3 comma 4 ter del d.lgs.
n. 346 del 1990 e dell’art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Nella specie, ad avviso dei ricorrenti dall’interpretazione letterale e teleologica dell’art. 3, comma 4-ter d.lgs. n. 346 del 1990 emergerebbe che l’esenzione spetta per le donazioni di partecipazioni di società non residenti pure in assenza delle condizioni che sono richieste, invece, dalla seconda e dalla terza proposizione del medesimo articolo, per il trasferimento di azioni di società residenti.
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso. La Procura Generale ha richiesto il rigettarsi del ricorso. SOLUZIONE
L’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 dispone che «I trasferimenti (…) a favore dei discendenti e del coniuge, di aziende o rami di esse, di quote sociali e di azioni non sono soggetti all’imposta. In caso di quote sociali e azioni di soggetti di cui al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, comma 1, lett. a) il beneficio spetta limitatamente alle partecipazioni mediante le quali e? acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’art. 2359 x.x., xxxxx 0, x. 0). Xx xxxxxxxxx xx applica a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa o detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento, rendendo, contestualmente alla presentazione della dichiarazione di successione o all’atto di donazione, apposita dichiarazione in tal senso».
Specificato il contenuto precettivo della disposizione controversa, i Giudici di legittimità affrontano la questione della sua applicabilità alle società non residenti nel territorio dello Stato, le quali potrebbero sembrare escluse, stante il riferimento ai soli soggetti passivi dell’imposta sui redditi delle società (di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, comma 1, lettera a, xxx citato) in essa contenuto.
Richiamando la propria giurisprudenza[1], la Corte premette poi, individuando la ratio della norma, che tale disposizione agevolativa realizza nell’ordinamento interno l’oggetto della raccomandazione n. 94/1069 del 7 dicembre 1994, con la quale la Commissione Europea
richiedeva ai singoli Stati membri di adottare misure idonee a facilitare il passaggio generazionale delle piccole e medie imprese, al fine di assicurarne la sopravvivenza e di salvaguardarne i livelli occupazionali, considerando che uno dei principali ostacoli al buon esito della successione familiare è costituito dal correlativo onere fiscale, e che il pagamento delle imposte di successione o di donazione rischia di mettere in pericolo l’equilibrio finanziario dell’impresa e quindi la sua sopravvivenza.
Ciò posto, la Corte procede nel rilievo che l’estraneità al beneficio dei trasferimenti diretti o indiretti (ossia tramite cessioni di azioni) di aziende situate all’estero potrebbe riflettere un disinteresse dell’ordinamento per le sorti di aziende situate al di fuori del suo territorio, ancorché controllate da soggetti residenti in Italia, e tuttavia tale disinteresse non può in realtà riguardare aziende e società con sede in altri Paesi dell’Unione Europea giacché, se così fosse, l’inapplicabilità ad esse della esenzione verrebbe a contrastare con la libertà di stabilimento di iniziative economiche nel territorio dell’Unione, di cui all’art. 49 T.F.U.E. poiché i residenti in Italia, che esercitano direttamente o indirettamente – cioè mediante società controllate – attività di impresa nel territorio di un altro Stato membro verrebbero a trovarsi in una posizione deteriore rispetto a quella dei residenti che esercitano detta attività in Italia.
Così evidenziata l’origine eurounitaria della disposizione, da un lato, e il potenziale contrasto con la libertà di stabilimento, la Corte statuisce che l’espressione «non residenti nel territorio dello Stato» deve essere letta come in realtà dicente «non residenti nel territorio dello Stato né nel territorio di un altro Stato membro dell’Unione Europea».
Tutto ciò considerato, viene avallata l’affermazione di fondo – unico elemento su cui possono dirsi concordi i giudici di tutti e tre i gradi di giudizio – secondo la quale l’esenzione è, astrattamente, applicabile alla società “San Xxxxxxx s.a.”, pur se non residente nel territorio dello Stato italiano, in quanto residente nell’Unione Europea.
Xxxxxxxxx, la Suprema Corte, con riguardo al tema posto dai ricorrenti con l’unico motivo di ricorso, dichiara la sentenza impugnata conforme a diritto.
Infatti, la tesi dei ricorrenti, secondo la quale ai trasferimenti di partecipazioni in società non residenti nel territorio dello Stato sarebbero non si applicherebbe l’imposta di successione e donazione a prescindere dal rispetto delle condizioni disposte dalla disposizione agevolativa è disconosciuta dai Giudici di legittimità sulla base dei due rilievi seguenti.
Da un lato sarebbe violata la ratio della norma, non essendo ammissibile ritenere che il termine «trasferimenti» – utilizzato nella prima parte della disposizione – sia riferito a trasferimenti di titoli partecipativi che non consentano il controllo della partecipata: infatti, ricorda la Corte richiamando nuovamente la sua giurisprudenza, la cessione contestuale del disponente di più quote societarie, per usufruire dell’esenzione, deve consentire che sia realizzato l’effettivo passaggio generazionale dell’impresa conservandone l’unitarietà e la funzionalità mediante il totale trasferimento del controllo di diritto dai disponenti ai discendenti.
D’altro lato, motiva la Corte questa volta richiamandosi alla dottrina, riconoscere l’agevolazione alle partecipazioni in società non residenti nel territorio dello Stato in modo incondizionato definirebbe per queste partecipazioni un regime più favorevole di quello valevole per le partecipazioni in società residenti nel territorio dello Stato; regime che sarebbe privo di logica dal punto di vista interno rispetto ai principi di ragionevolezza e di capacità contributiva (artt. 3 e 52 Cost.) e dal punto di vista unionale rispetto al ricordato principio di libertà di stabilimento.
Per queste ragioni, conclude la Corte, deve ritenersi che l’agevolazione di cui all’art. 3, comma 4-ter, d.lgs. n. 346 del 1990, pur applicabile alle partecipazioni di società non residenti in Italia se comunque residenti nell’Unione, non spetta nel caso sottoposto al suo esame, essendo subordinata in ogni caso al rispetto delle ulteriori condizioni stabilite dalla disposizione agevolativa in esame, ed in particolare all’acquisto o all’integrazione del controllo di diritto – ai sensi dell’art. 2359, comma 1, n. 1) c.c. – in capo all’avente causa del trasferimento, nonché al mantenimento di tale controllo per non meno di cinque anni dalla data del trasferimento, con apposita dichiarazione di impegno in tal senso da rendersi da parte degli aventi causa contestualmente al trasferimento medesimo (coincidente, a seconda dei casi con l’atto di donazione o con la presentazione della dichiarazione di successione).
In considerazione di tutto quanto ora detto, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.
QUESTIONI
Con la sentenza n. 5674 del 6 febbraio 2023 la Cassazione affronta una questione, quella dell’applicabilità dell’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 a società estere, connotata dal tratto della novità, con riferimento alla sua giurisprudenza, come essa stessa afferma in chiusura della sentenza, compensando le spese.
Cionondimeno, l’ambito di applicazione dell’agevolazione disposta all’art. 3, comma 4-ter, del d.lgs. n. 346 del 1990 potrebbe quasi dirsi una vexata quaestio, in ragione del fatto che, complice anche la tecnica redazionale non del tutto chiara utilizzata dal legislatore, la dottrina ha avuto modo di misurarsi, sin dalla prima introduzione dell’agevolazione medesima[2], con numerosi dubbi e quesiti interpretativi in relazione agli esatti confini soggettivi ed oggettivi del beneficio ivi disposto.
Non potendoci dilungare in questa sede con riguardo al profilo soggettivo, relativo beneficiari dell’agevolazione, si darà invece evidenza delle questioni interpretative affrontate in dottrina con riguardo al profilo oggettivo, relativo ai possibili oggetti del trasferimento beneficiato, ed in particolare del trasferimento di partecipazioni societarie, che qui interessa.
Come già osservato, l’art. 3 comma 4-ter del d.lgs. n. 346 del 1990 isola le “quote sociali e azioni di soggetti di cui all’ articolo 73, comma 1, lettera a), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917”, vale a dire i soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle società, ossia “le società per azioni e in
accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato”; in breve, le società di capitali.
La disposizione agevolativa richiama questi tipi societari al fine di limitare la fruibilità del beneficio esclusivamente al trasferimento delle loro “partecipazioni mediante le quali è acquisito o integrato il controllo ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, numero 1), del Codice civile”.
Quest’ulteriore rinvio richiama la disposizione che definisce la nozione di controllo interno di diritto, fattispecie che ricorre allorquando taluno detiene la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria di una società[3].
Fatte queste premesse, in dottrina le questioni più controverse relativamente al profilo oggettivo della disposizione agevolativa in esame è l’individuazione delle condizioni di accesso al regime agevolativo con riferimento a due possibili oggetti di trasferimento: partecipazioni in società di persone e le partecipazioni in società non residenti, quest’ultima, sulla quale ci concentreremo, affrontata dalla Corte di Cassazione con la sentenza in esame.
La questione sorge in entrambi i casi a causa della mancanza di specificazioni, ad opera del legislatore, in ordine alle due fattispecie ora individuate; se infatti la dottrina scioglie pacificamente in senso positivo il dubbio circa l’estensibilità del regime agevolativo anche ai trasferimenti di partecipazioni in società non residenti nel territorio dello Stato – ora operando un’interpretazione teleologica a partire dalla presunta intenzione del legislatore ricavata dai lavori preparatori[4], ora portando l’attenzione sul fatto che questo presunto disinteresse dell’ordinamento per le per le sorti delle società residenti al di fuori del suo territorio, benché controllate da soggetti residenti in Italia, potrebbe configurare «una restrizione alla libertà di stabilimento assicurata dal Trattato CE (art. 43), collocando i residenti in Italia, che esercitano direttamente o indirettamente (mediante società controllate) attività d’impresa nel territorio di un altro Stato membro in una posizione deteriore rispetto a quella dei residenti che le medesime attività svolgono direttamente o indirettamente nel territorio italiano»[5] – lo stesso non può dirsi in merito alle condizioni alle quali è sottoposta tale estensione.
Xxxxxx infatti che un’autorevole parte della dottrina ritenga che i detti trasferimenti sono esenti dall’imposta di successione e donazione a prescindere dalle condizioni poste dall’art. 3 comma 4-ter del corrispondente testo unico – ciò principalmente a partire dal dato testuale, non richiedendo tale disposizione che le partecipazioni in società non residenti siano qualificate, come invece fa espressamente con quelle in società residenti – sostenendo che il regime esonerativo spetti anche laddove le partecipazioni trasferite non comportino l’acquisizione o l’integrazione di una posizione di maggioranza in capo al beneficiario[6]; in aperto contrasto rispetto a tale interpretazione si pone invece altra parte della dottrina, la quale ritiene foriero di conseguenze inaccettabili il riconoscimento incondizionato dell’agevolazione alle partecipazioni in società non residenti, bastando osservare a tal fine che ciò «definirebbe per queste partecipazioni un regime più favorevole di quello valevole per le
partecipazioni in società residenti , conducendo, ad esempio, a detassare, palesemente fuori dagli intenti dell’agevolazione, il valore di poche azioni di una grande multinazionale statunitense»[7].
In questo quadro di disaccordo dottrinale, l’Amministrazione Finanziaria ha preso posizione statuendo che il trasferimento per successione o per donazione di quote di società estere è esente dall’imposta di successione e donazione solo al ricorrere delle medesime condizioni dettate dalla disposizione agevolativa con riferimento alle partecipazioni in società residenti in Italia[8]; la dottrina concorde reputa necessaria, a tal fine, un’indagine da svolgersi caso per caso nell’ordinamento di appartenenza della società partecipata, e tuttavia su quest’ultimo punto si riscontrano opinioni divergenti, dal momento che alcuni individuano quale oggetto di tale indagine la verifica che le partecipazioni oggetto di trasferimento siano considerabili come di controllo, alla stessa stregua di quelle delle società italiane, così estendendo il requisito stabilito dalla norma nazionale alle partecipazioni non residenti[9], mentre altri sostengono che tale oggetto sia la nozione di “partecipazione di controllo” nell’ordinamento straniero in cui ha sede la società[10].
[1] Cass. Civ. Sez. trib., ordinanza n. 32823 del 19 dicembre 2018; Cass. Civ. Sez. trib., sentenza
n. 7429 del 17 marzo 2021
[2] Ad opera del comma 78 dell’articolo unico della legge 27 dicembre 2006 n. 296 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (finanziaria 2007)”
[3] Invero, la distinzione tra assemblea ordinaria e straordinaria è prevista dal legislatore per le sole s.p.a., ragion per cui – ferma la pacifica applicabilità del regime in parola anche alle s.r.l., pur non essendo ivi prevista un’assemblea ordinaria – si può individuare il consesso al quale la disposizione agevolativa fa riferimento tramite il raffronto delle disposizioni dedicate ai due tipi societari: sovrapponendo gli artt. 2364 (assemblea ordinaria di s.p.a.) e 2479 (decisioni dei soci di s.r.l.) c.c., se ne ricava che le deliberazioni rilevanti ai fini della qualificazione di una partecipazione come “di controllo” sono l’approvazione del bilancio, la destinazione degli utili, la nomina e la revoca degli organi di amministrazione e di controllo, cfr. a tal proposito A. Busani, L’agevolazione per il passaggio generazionale delle azioni e delle quote di partecipazione al capitale di società, in Le Società, 2018, 1354; X. Xxxxxxx, l’agevolazione patto di famiglia “in cammino”: questioni interpretative vecchie e nuove, in Contratti, 2022, 582-583.
Conferma di ciò sembra giungere anche dalla Commissione studi tributari del Consiglio Nazionale del Notariato, la quale afferma che la nozione di controllo, come delineata dall’art. 2359 c.c. è «strettamente connessa alla possibilità di condizionare le determinazioni dell’assemblea, considerate le competenze attribuite a tale organo nell’ambito del sistema tradizionale delle società di capitali, in materia di approvazione del bilancio d’esercizio, di destinazione degli utili, di nomina dell’organo di controllo e di nomina e revoca dell’organo amministrativo», estrinsecandosi il potere di controllo proprio nella possibilità di condizionare
il contenuto delle menzionate deliberazioni, cfr. A. Xxxxxxxxxx, Il controllo “di diritto” nell’art. 3, comma 4-ter, del t.u.s., Studio n.114-2021/T.
[4] X. Xxxxxxxxxxxxx – A. Pischetola, Tassazione dei patti di famiglia e dei trasferimenti di cui all’art. 1 comma 78 legge 27 dicembre 2007 n. 296 (cd Finanziaria 2007), Studio n. 43-2007/T,
«non pare che la pregressa residenza nel territorio dello Stato italiano della società interessata al trattamento al vaglio sia stata mai valutata specificamente dal legislatore della novella quale ‘conditio sine qua non’ per l’accesso al trattamento stesso. Di tanto si può trovare conferma nei lavori preparatori ove non e? mai fatto cenno a questa presunta condizione; del resto in tal senso depongono anche considerazioni di carattere logico fondate sul favor legislativo in ordine al ‘tipo’ di trasferimenti gratuiti (che abbiano ad oggetto quote ed azioni) e non certo sulla nazionalità della società che quelle quote o azioni abbia emesso».
[5] X. Xxxxx, I trasferimenti di azienda e partecipazioni sociali per successione o donazione, in Corr. Trib., 2007,1353, riportato in termini in X. Xxxxxxxxx, Passaggi familiari dell’azienda “leggeri” anche per il coniuge dell’imprenditore defunto, in Corr. Trib., 2008, 605.
[6] È la tesi interpretativa sostenuta con costanza dalla Commissione studi tributari del CNN a partire da X. Xxxxxxxxx – X. Xxxxxxxx – X. Xxxxxxxxxxxx – A. Pischetola, Prime note a commento della nuova imposta sulle successioni e donazioni, Studio n. 168-2006/T; cfr. anche X. Xxxxxxxxxxxxx – A. Pischetola, Tassazione dei patti di famiglia e dei trasferimenti di cui all’art. 1 comma 78 legge 27 dicembre 2007 n. 296 (cd Finanziaria 2007), Studio n. 43-2007/T, cit. e X. Xxxxxx, “Esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni – art 3 comma 4-ter d.lgs. n° 346/1990: casi e questioni di interesse notarile, Studio n. 17-2020/T. Va da sé che, per un’esigenza logica, non ritenendosi necessario il conseguimento del controllo, parimenti non si ritiene necessario il suo mantenimento quinquennale successivamente al trasferimento.
[7] X. Xxxxx, I trasferimenti di azienda e partecipazioni sociali per successione o donazione, cit., loc. cit., 1353, al quale aderisce A. Busani, L’agevolazione per il passaggio generazionale delle azioni e delle quote di partecipazione al capitale di società, cit., loc. cit., 1367.
[8] Risposta della DRE Lombardia n. 904-86017/2011, cit., inedita ma di cui ha dato notizia Il Sole 24 Ore del 15 dicembre 2013; in dottrina cfr. In dottrina A. Busani, L’agevolazione per il passaggio generazionale delle azioni e delle quote di partecipazione al capitale di società, cit., loc. cit., 1367; Id., Il patto di famiglia cit., 668.
[9] A. Busani, L’agevolazione per il passaggio generazionale delle azioni e delle quote di partecipazione al capitale di società, cit., loc. cit., 1367, per cui «si rende agevolabile ai sensi dell’art. 3, comma 4 ter, TUSD, sia il trasferimento di quote di partecipazione (come quelle al capitale sociale di società di persone italiane) cui sia connesso un “consenso determinante” all’adozione delle decisioni societarie sia il trasferimento di quote di partecipazione (come quelle al capitale sociale di società di capitali italiane) che attribuiscano la maggioranza sufficiente per assumere decisioni in ordine all’approvazione del bilancio sociale e all’elezione degli organi societari».
[10] X. Xxxxxxx, Passaggi generazionali dell’azienda senza imposta di successione: a quali condizioni?, in IPSOA quotidiano, 29 dicembre 2020.
Diritto e reati societari
La giusta causa di revoca di un amministratore deve essere esplicitata nella delibera statutaria
di Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Avvocato
Tribunale di Bologna – sentenza n. 167 del 1/2/2023
Parole chiave: amministratore – socio – società di capitali – ineleggibilità – recesso – revoca –
Xxxxxxx: “In tema di revoca dell’amministratore di società di capitali, le ragioni che integrano la giusta causa, ai sensi dell’art. 2383 c. 3° c.c.– dettato in tema di s.p.a. ma applicabile in via analogica anche agli amministratori di s.r.l. – devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori. In tale ambito spetta alla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie”.
Disposizioni applicate: 2473 c.c., 2468 c.c., 2383 c.c.
Con il giudizio in esame l’attore, socio di minoranza ed ex amministratore di una S.r.l., ha convenuto in giudizio la società chiedendo al Tribunale delle Imprese di Bologna di accertare
(i) l’illegittimità delle delibere assembleari con cui è stata disposta la revoca dalla sua carica di amministratore e (ii) la conseguente legittimità del proprio recesso dalla società per giusta causa o, in alternativa, ad nutum, con conseguente condanna della medesima al pagamento della somma complessiva di Euro 71.551,98.
A sostegno delle proprie domande l’attore ha dedotto che, a seguito delle dimissioni rassegnate da due amministratori, l’assemblea dei soci aveva dichiarato, in assenza di una clausola statutaria “simul stabunt simul cadent” e senza il suo consenso, la decadenza dell’intero C.d.A., nominando un nuovo organo gestorio.
Di conseguenza, l’attore aveva formalizzato il proprio recesso dalla società, ai sensi degli artt.
2473 e 2468 c. 4° c.c., assumendo che la delibera di revoca lo aveva privato del suo unico emolumento, così provocando una rilevante modificazione dei suoi diritti di socio ex art. 2468,
c. 4° c.c. (configurando quindi un recesso per giusta causa) e che, in ogni caso, la società, ancorché avente una durata fino al 2050, doveva ritenersi costituita, di fatto, a tempo indeterminato, trattandosi di durata trascendente la normale aspettativa di vita e di lavoro dei soci (configurando quindi un recesso ad nutum).
Con il decreto in esame, il Tribunale delle imprese di Bologna ha innanzitutto rilevato che lo statuto della società convenuta effettivamente non prevedeva una clausola “simul stabunt simul cadent”, ossia una simultanea caducazione di tutti gli amministratori per il venir meno della sua originaria composizione a seguito, ad esempio, di dimissioni rassegnate da qualcuno dei suoi componenti.
Tuttavia, la delibera impugnata doveva ritenersi valida, atteso che, secondo l’art. 2383, co. 3,
c.c. – dettato in tema di s.p.a. ma applicabile in via analogica anche agli amministratori di s.r.l. – “gli amministratori […] sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa”.
La giusta causa indicata da tale norma non costituisce, infatti, una condizione di validità e/o di efficacia della deliberata revoca, ma solo una causa di esclusione del risarcimento del danno eventualmente sofferto dall’amministratore ingiustamente ed arbitrariamente revocato.
Al riguardo, il Tribunale ha richiamato la giurisprudenza di legittimità la quale afferma che “in tema di revoca dell’amministratore di società di capitali, le ragioni che integrano la giusta causa, ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c., devono essere specificamente enunciate nella delibera assembleare senza che sia possibile una successiva deduzione in sede giudiziaria di ragioni ulteriori. In tale ambito spetta alla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una giusta causa di revoca, trattandosi di un fatto costitutivo della facoltà di recedere senza conseguenze risarcitorie” (cfr. sent. Cass. n. 2037/2018).
Poiché la delibera impugnata era priva di causa, il Tribunale ha quindi accolto la domanda risarcitoria attorea, evidenziando che il danno risarcibile deve essere parametrato, in via equitativa, all’emolumento che l’amministratore avrebbe conseguito dalla prestazione gestoria nell’arco di sei mesi, quale lasso di tempo ragionevolmente idoneo a consentire all’amministratore revocato di trovare nuovi incarichi od analoghe prestazioni e compensi (cfr. Cass. Civ. n. 23557/2008; Sent. Trib. Milano, 9.6.2021, n. 4898).
Quanto invece alla dedotta legittimità del recesso, il Tribunale non ha ravvisato alcuna causa, convenzionale/statutaria e/o legale, idonea a legittimare l’exit dell’attore.
Ciò in quanto l’art. 2468 4° c.c. fa riferimento a diritti particolari in materia di amministrazione della società o di distribuzione degli utili che, però, devono essere attribuiti ad un socio nell’atto costitutivo o, successivamente, con una specifica modifica statutaria, circostanze
entrambe non presenti nel caso di specie, con conseguente esclusione di una giusta causa di recesso.
Inoltre, la previsione statutaria di un termine di durata della società fino all’anno 2050 non comportava una oggettiva eccedenza dell’operatività ordinariamente prevedibile da una società di capitali (35 anni nel caso di specie), né esorbitava rispetto alle aspettative di vita dei soci, atteso che, nell’anno 2050, l’attore avrebbe compito 77 anni.
Al riguardo il Tribunale ha osservato che il primo orientamento della Corte di Cassazione in materia – secondo il quale in tema di S.r.l., la previsione statutaria di una durata della società per un termine particolarmente lungo, tale da oltrepassare qualsiasi orizzonte previsionale anche per un soggetto collettivo, ne determina l’assimilabilità ad una società a tempo indeterminato; così Cass. civ., 22 aprile 2013, n. 9662 – è stato poi superato da un orientamento più restrittivo, secondo cui “il socio di recedere ad nutum solo nel caso in cui la società sia contratta a tempo indeterminato e non anche a tempo determinato, sia pure lontano nel tempo, in quanto deve essere valorizzato il dato testuale della disciplina del recesso ex art. 2473
c.c. e poiché prevale, sull’interesse del socio al disinvestimento, l’interesse della società a proseguire la gestione del progetto imprenditoriale e dei terzi alla stabilità dell’organizzazione e all’integrità della garanzia patrimoniale, offerta esclusivamente dal patrimonio sociale”(così Cass. civ., sez. I, ord., 5 settembre 2022, n. 26060).
Alla luce delle suddette considerazioni, il Tribunale delle Imprese di Bologna ha quindi accolto la domanda attorea, ma solo limitatamente alla richiesta risarcitoria conseguente alla revoca dell’attore dall’incarico di amministratore, risarcimento quantificato in Euro 4.500,00 pari al compenso che avrebbe percepito per la prestazione gestoria in un arco temporale di sei mesi.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Acquisto di un ramo d’azienda gravemente indebitato: responsabilità degli amministratori e insindacabilità nel merito delle scelte di gestione
di Xxxxx Xxxxxxxx, Assegnista di ricerca in Diritto Commerciale presso l’Università degli
Studi di Verona
Cass. civ., sez. I, Ordinanza, 24 gennaio 2023, n. 2172, Pres. Genovese – Rel. Fidanzia
Parole chiave Crisi d’impresa – Società di capitali – Amministratori – Responsabilità degli amministratori – Business Judgment Rule – Assetti organizzativi adeguati
Massima: “In materia di responsabilità degli amministratori di società di capitali, l’insindacabilità del merito delle scelte di gestione trova un limite nella ragionevolezza delle stesse da compiersi ex ante secondo i parametri della diligenza del mandatario, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.
Tenuto conto che l’acquisizione di rami aziendali non è di per sé irragionevole se avviene a prezzi vantaggiosi e in presenza di un piano di rilancio, costituisce atto di mala gestio l’acquisto di un ramo d’azienda gravemente indebitato e dissestato, ove non sia accompagnato dalla contestuale adozione di adeguate risposte organizzative idonee a consentirne il rilancio”.
Disposizioni applicate art. 2476 c.c.; art. 146 L.Fall.
CASO
La Corte d’Appello di Venezia ha rigettato l’appello proposto dagli amministratori della società C s.r.l. in liquidazione, poi fallita, avverso la sentenza con cui il Tribunale di Vicenza accoglieva l’azione di responsabilità proposta dal curatore a norma dell’art. 146 L.Fall. Il giudice di secondo grado ha condiviso l’impostazione del primo giudice nel rilevare la violazione da
parte degli amministratori del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa per avere posto in essere una condotta idonea determinare il dissesto della società, tramite l’acquisto di un ramo d’azienda gravemente indebitato.
Avverso la tale sentenza gli amministratori hanno proposto ricorso.
SOLUZIONE
La Suprema Corte rigetta il ricorso proposto dagli amministratori. A sostegno della propria decisione, la Cassazione invoca il principio di diritto per cui, in materia di responsabilità degli amministratori di società di capitali, l’insindacabilità del merito delle scelte di gestione trova un limite nella ragionevolezza delle stesse, da compiersi ex ante, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere.
QUESTIONI
Con l’ordinanza in commento la Suprema Corte torna a pronunciarsi sul tema della responsabilità degli amministratori di società di capitali, facendo richiamo al noto principio della business judgment rule, secondo il quale i detentori della funzione gestoria non possono essere chiamati a rispondere nel merito e nell’opportunità delle scelte di gestione. La Cassazione, seguendo un orientamento giurisprudenziale ormai largamente condiviso e consolidato, applica il principio per cui, in materia di responsabilità degli amministratori di società di capitali, l’insindacabilità del merito delle scelte di gestione trova un limite nella ragionevolezza delle stesse, da compiersi ex ante, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo e della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere (v., ex multis, Cass., 28 aprile 1997, n. 3652, in Società, 1997, p. 1389).
In questa prospettiva, tenuto conto che l’acquisizione di rami aziendali non è di per sé irragionevole se avviene a prezzi vantaggiosi e in presenza di un piano di rilancio, la Cassazione stabilisce che costituisce atto di mala gestio l’acquisto di un ramo d’azienda gravemente indebitato e dissestato, ove non sia accompagnato, come nel caso di specie, dalla contestuale adozione di adeguate risposte organizzative idonee a consentirne il rilancio. Il giudice d’appello, pertanto, ha correttamente «rimproverato agli amministratori non tanto l’aver acquisito un ramo aziendale che presentava un rilevante passivo quanto la mancata adozione, sin dal momento di tale acquisizione, di adeguate risposte organizzative per contrastare l’insolvenza, la quale era stata, invece, mascherata ed occultata con meri accorgimenti di bilancio».
Come si è osservato, «ferma restando l’insindacabilità della scelta imprenditoriale, per definizione coperta dalla discrezionalità amministrativa, il principio della business judgment
rule non esime l’amministratore dal dovere di comportarsi secondo i canoni della corretta amministrazione, sia per quanto attiene al quomodo del suo operare, sia per quanto riguarda il giudizio circa i profili di rischio delle scelte adottate» (v. X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxxxxx, La responsabilità degli amministratori di società per azioni, in Giur. comm., 2017, II, p. 781). Di conseguenza, non è possibile invocare tale principio nel caso in cui l’operazione dannosa risulti manifestamente avventata, imprudente, o eccessivamente rischiosa, o in ogni caso compiuta nell’omissione di quelle cautele, verifiche ed informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità (v., ad esempio, Cass., 22 giugno 2017, n. 15470, in Società, 2017, p. 1040).
Posto che l’obbligo di amministrare diligentemente la società riguarda non già l’atto gestorio in sé, bensì il procedimento decisionale, va dato atto che gli amministratori sono tenuti a configurare presidi organizzativi adeguati al fine della valutazione dei rischi connessi al compimento delle scelte di gestione e al loro costante monitoraggio. Il dovere degli amministratori di operare una accurata valutazione dei rischi connessi alle operazioni che intendono attuare è strettamente connesso al dovere di predisporre assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati in funzione alla natura e alla dimensione dell’impresa (art. 2381, co. 3 e 5, x.x. x xxx. 0000, xx. 0, x.x.).
Xxx xxxx di specie, gli amministratori, dopo aver acquisito un ramo aziendale gravemente indebitato, non avevano dato all’impresa un assetto organizzativo in grado di generare utili. A seguito di tale acquisto, infatti, vi era stato un progressivo incremento dell’esposizione debitoria, “mascherata” per alcuni anni da apporti di liquidità, comunque inidonei, e da accorgimenti di bilancio (sopravvalutazione dei crediti verso clienti e delle rimanenze), effettuati per non far emergere le perdite.
Al riguardo, è doveroso osservare che il legislatore del CCII, individuando nella predisposizione di assetti adeguati «il cuore della funzione gestoria» (v. X. Xxxxxxx, X. Xxxxx, Nuova disciplina della crisi d’impresa e modificazioni del codice civile: prime letture, in Società, 2019, p. 395), ha aggiunto un secondo comma all’art. 2086 c.c., per cui «l’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale». Nella stessa direzione si muove l’art. 3, co. 2, CCII, a norma del quale «l’imprenditore collettivo deve istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del codice civile, ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell’assunzione di idonee iniziative».
Il Legislatore, con le modifiche apportate al CCII dal d.lgs. 17 giugno 2022, n. 83, di recepimento della Direttiva Insolvency (Direttiva UE 2019/1023), ha aggiunto un terzo comma all’art. 3 CCII, che precisa gli obiettivi che gli assetti devono garantire ai fini della rilevazione tempestiva della crisi.
In particolare, la struttura organizzativa deve consentire di rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, verificare la sostenibilità dei debiti e le prospettive di continuità aziendale almeno per i dodici mesi successivi e rilevare i segnali per la previsione della crisi di cui all’art. 3, co. 4, CCII, e ricavare le informazioni necessarie a utilizzare la lista di controllo particolareggiata e a effettuare il test pratico per la verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento di cui all’articolo 13, co. 2, CCII.
Diritto Bancario
Le eccezioni opponibili dal garante autonomo
di Xxxxx Xxxxxxxx, Avvocato
30Il tratto distintivo del contratto autonomo di garanzia è che il garante si obbliga ad eseguire la prestazione oggetto della garanzia a prima richiesta del creditore garantito, e senza opporre eccezioni attinenti alla validità, all’efficacia ed alla vicenda del rapporto principale.
L’inopponibilità da parte del garante autonomo delle eccezioni di merito derivanti dal rapporto principale «non può comportare un’incondizionata sudditanza del garante ad ogni pretesa del beneficiario» (Cass. n. 16345/2018; Trib. Firenze 8.6.2022 n. 1749).
Sotto il profilo funzionale, il regime “autonomo” del Garantievertrag trova infatti un limite (Cass. n. 3193/2021; Cass. n. 371/2018; Cass. n. 16345/2018; Cass., Sez. Un., n. 3947/2010)
quando:
– le eccezioni attengano alla validità dello stesso contratto di garanzia (Xxxx. n. 3326/2002; Cass. n. 31956/2018; Cass. n. 25914/2019) ovvero al rapporto garante/beneficiario (Xxxx. n. 6728/2002);
– il garante faccia valere l’inesistenza del rapporto garantito (Xxxx. n. 10652/2008);
– la nullità del contratto-base dipenda da contrarietà a norme imperative o illiceità della causa (ad es. interessi usurari) ed attraverso il contratto di garanzia si tenda ad assicurare il risultato che l’ordinamento vieta (Cass. n. 3326/2002; Cass. n. 26262/2007; Cass. n. 5044/2009; Cass. n. 20397/2017; App. Milano 4.2.2016; Trib. Napoli 15.10.2021). Con particolare riguardo agli interessi anatocistici, la Cassazione ha affermato che il garante autonomo è pienamente legittimato a sollevare, nei confronti della banca, l’eccezione di nullità della clausola anatocistica, allorquando essa non si fondi su di un uso normativo (e non ricorrano, ovviamente, le altre condizioni legittimanti previste dall’art. 1283 c.c. ovvero dall’art. 120 TUB per gli esercenti l’attività bancaria). Va evidenziato, del resto, che, se si ammettesse la soluzione contraria, si finirebbe per consentire al creditore di ottenere, per il tramite del garante, un risultato che l’ordinamento vieta (Cass. n. 371/2018; Cass. n. 3873/2021; Cass. n.
24011/2021). In definitiva, la natura di norma imperativa dell’art. 1283 c.c. rende anche i garanti autonomi legittimati a far valere la nullità delle clausole anatocistiche eventualmente pattuite;
– sia proponibile, in linea di carattere generale, la c.d. exceptio doli generalis seu presentis, perché risulta, ad esempio, evidente, certo ed incontestabile il venir meno del debito garantito per pregressa estinzione dell’obbligazione principale per adempimento o per altra causa (rilevano condotte abusive e fraudolente del beneficiario) (Cass. n. 16213/2015; Cass. n. 16345/2018; Cass. n. 6525/2021). Al riguardo, nel contratto autonomo di garanzia l’abusività della richiesta di garanzia, ai fini dell’accoglimento dell’exceptio doli, deve risultare prima facie o comunque da una prova c.d. liquida, cioè di pronta soluzione che il garante è tenuto a fornire mentre non possono essere addotte a suo fondamento circostanze fattuali idonee a costituire oggetto di eccezione di merito opponibile dal debitore garantito al creditore beneficiario della garanzia, in ragione dell’inopponibilità da parte del garante di eccezioni di merito proprie del rapporto principale. Il debitore può avvalersi del rimedio generale dell’exceptio doli purché alleghi e dimostri la condotta abusiva del creditore che abbia escusso la garanzia in carenza del diritto di credito, al fine di realizzare uno scopo diverso da quello riconosciuto dall’ordinamento e/o all’esclusivo fine di arrecare pregiudizio al debitore (così Trib. Bologna 7.5.2020).
Le “eccezioni” predette attestano, come evidenziato da Xxxx., Sez. Un. n. 3947/2010, che l’accessorietà dell’obbligazione autonoma di garanzia rispetto al rapporto debitorio principale assume un carattere elastico, di semplice collegamento e coordinamento tra obbligazioni, ma non viene del tutto a mancare: e ciò sarebbe dimostrato, oltre che dal meccanismo di riequilibrio delle diverse posizioni contrattuali attraverso il sistema delle rivalse, proprio dalla rilevanza delle ipotesi in cui il garante è esonerato dal pagamento per ragioni che riguardano comunque il rapporto sottostante (v. anche Cass. n. 371/2018; Cass. n. 4006/1989).
Soft Skills
Eppur si muove, anche il greenwashing
di Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx - Senior partner Marketude
Una persona qualsiasi va a fare la spesa, sta per acquistare un pacco di xxxxxx quando le viene la curiosità di sapere di che cosa è fatta la confezione in cui è contenuta e come si ricicla.
Vuole anche sapere se il prodotto -nel senso del contenuto- è biologico, ammettendo, ma silenziosamente e solo con se stessa, che, in effetti, vorrebbe anche sapere meglio che cosa si intende con biologico.
Vede una serie di etichette, praticamente tutte di colore verde, del tutto incomprensibili e sconosciute. A quel punto comincia a interrogarsi se il pacco di farina posizionato sullo scaffale accanto a quello che sta esaminando non sia magari meglio -sotto il profilo della sostenibilità, si intende. Ma su quello non trova le stesse etichette e quindi l’esercizio diventa impossibile da portare a termine -fermo restando che comunque non gli è stato possibile interpretare nemmeno le prime che ha visto.
Innervosito e con il sospetto strisciante di essere in qualche modo raggirato, il nostro cliente comincia a pensare che tanto ormai chiunque urla al mondo di fare prodotti sostenibili, anche quando non è affatto vero e a quel punto, neanche fosse davanti alla televisione invece che al supermercato, gli appare la scritta greenwashing in sovraimpressione su tutto quello che tocca.
E’ proprio sulla scorta di un’indagine che ha messo in evidenza la proliferazione di etichette e green claim -in sintesi senza adeguati processi di verifica e prove a supporto- che lo scorso marzo[1] la Commissione Europea ha deciso di pubblicare una bozza di direttiva xxxxx://xxxxxxxxxxx.xx.xxxxxx.xx/xxxxxx/xxxxxxxx-xxxxxxx/xxxxx-xxxxxx_xx per regolamentare l’uso dei c.d. green claim in modo da:
– tutelare i consumatori dal greenwashing,
– rendere le “affermazioni verdi” affidabili, comparabili e verificabili (almeno in tutta l’Unione
Europea),
– contribuire a creare un’economia circolare permettendo alle persone di prendere decisioni di acquisto informate e, infine,
– definire il perimetro “di gioco” quando si parla della performance ambientali dei prodotti.
Perché la verità è che, purtroppo, non esiste (ancora?) una normativa specifica che indichi che cosa si intende per greenwashing e quindi si deve usare quello che meglio si adatta ai vari casi di volta in volta, che sia il Codice del Consumo -che sanziona la pubblicità ingannevole nei rapporti business to business- o che sia il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale -in particolare il suo art. 12 che delinea i caratteri che la comunicazione pubblicitaria basata sulla enucleazione di benefici ambientali deve avere perché sia considerata lecita.
Questo con riferimento ai comportamenti scorretti che -almeno a mio avviso- andrebbero sanzionati con decisione in quanto dannosi nei confronti sia della buona fede di chi acquista, sia di quelle aziende che si stanno impegnando e comportando in modo rispettoso e serio.
Spostando l’attenzione e guardando invece al greenwashing da un’altra prospettiva, e cioè quella di chi si occupa di marketing e comunicazione, si scopre che esistono anche delle linee guida, per esempio quelle pubblicate oltreoceano dalla Federal Trade Commission, nate
-lasciatemelo sottolineare, nel 1992 e poi successivamente revisionate nel 1996, 1998 e infine 2012- proprio per aiutare i c.d. xxxxxxxxx a svolgere al meglio il loro lavoro.
E cioè ad evitare di inventare claim riferiti ai benefici ambientali del prodotto non veritieri o ingannevoli, o anche “semplicemente” che potessero confondere o fuorviare i consumatori.
Claim che inneggiano a prodotti environmentally-friendly (amico dell’ambiente), eco-friendly ma anche l’uso di altri termini come carbon offsets (compensazioni delle emissioni) e ancora di dichiarazioni “free of” (privo di), non-toxic (non tossico/atossico), prodotto con energie rinnovabili, realizzato con materie prime provenienti da fonti rinnovabili hanno trovato spazio nelle nuove sezioni della guida che è ricca anche di esempi illuminanti su come sia facile trarre in inganno chi acquista pur dicendo la verità e nient’altro che la verità.
Di certo comunicare la sostenibilità è una bella sfida: da un lato le imprese che premono per cogliere l’opportunità che deriva dalla crescente sensibilità al tema da parte del pubblico (nel bene o nel male che sia), dall’altro l’assenza di normative puntuali.
In mezzo esperti di marketing e comunicazione che però, magari, non sempre conoscono a fondo il tema della sostenibilità e che, soprattutto, sono abituati a usare un registro diverso: quello figlio delle logiche consumistiche secondo cui l’importante è convincere i consumatori appunto, ad acquistare più che, al contrario, dare loro le informazioni e gli strumenti necessari per prendere delle decisioni consapevoli.
[1] Lo scorso 11 maggio il Parlamento Europeo ha approvato il mandato negoziale