IPSOA
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i Contratti
Bimestrale di dottrina, giurisprudenza e pratiche contrattuali
ISSN 1123-5047 - ANNO XXVI - Direzione e redazione - Xxx xxx Xxxxxxxxx, x. 00 - 00000 Xxxxxx (XX)
6/2018
TARIFFA R.O.C.: POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1, COMMA 1, DCB MILANO
xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xxx/xxxxxxxxxx
Contratti dei consumatori e interessi moratori
Le Sezioni Unite sulla clausola
claims made
00230489
Blockchain e smart contract
DIREZIONE SCIENTIFICA
5 000002 304897
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx X’Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx
COMITATO DI REDAZIONE
Xxxxxxxxx Xxxxx
In occasione dei 40 anni della Rivista
il Fallimento e le altre procedure concorsuali
Xxxxxxx Kluwer presenta il Convegno
CRISI D’IMPRESA
E PROCEDURE PREVENTIVE
Milano, 3 dicembre 2018 ore 10.30
Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx - Xxxx Xxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxx 00/00
Programma
Saluti del Direttore scientifico: Xxxxxxxx Lo Xxxxxx
Saluti dell’Editore
PRIMA SESSIONE ore 11.00 - 13.30
Crisi d’ impresa, allerta e soluzioni alternative
Moderatore: Xxxxxx Xxxxxxx - Discussant: Xxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx Profili societari: gruppi, responsabilità degli organi
Moderatore: Xxxxxxx Xxxxxxxxxxxx - Discussant: Xxxxxxx X’Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxx Profili processuali: processo e procedimenti
Moderatore: Xxxxxxxxx Xx Xxxxxx - Discussant: Xxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxx
SECONDA SESSIONE ore 14.30 - 18.30
Concordato preventivo
Moderatore: Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx - Discussant: Xxxxx Xxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxx Liquidazione giudiziale
Moderatore: Xxxxxxx Xxxxx - Discussant: Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxx Xxxxxxxxxxx Sovraindebitamento
Moderatore: Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Discussant: Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxx X’Xxxxxx Prospettiva europea e riflessi sull’ordinamento italiano
Partecipazione: libera e gratuita previa iscrizione sul sito xxxxxx.xxxxx.xx/xxxxxx/00xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx
Crediti formativi: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano riconosce
n. 4 c.f. In corso di accreditamento presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Milano e l’Ordine dei Consulenti del Lavoro. Segreteria organizzativa.
Scuola di formazione Ipsoa - Tel. 00.000000 - email xxxxxxxxxx.xxxxx@xxx.xx
Registrazione dei partecipanti: dalle ore 9.15
Y63HBCL
Moderatore: Xxxxxxx Xxxxxxx - Discussant: Xxxxxxxx Xx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxx Ciò che la legge non dice... Xxxxxxx Xxxxxxx
EDITORIALE
i Contratti
Sommario
Xxxxxxxx abusive INTERESSI MORATORI E DINTORNI
di Xxxxxxxx X’Xxxxx 633
GIURISPRUDENZA
Assicurazione LA CLAUSOLA CLAIMS MADE E LE SEZIONI UNITE: BIS IN IDEM
Cassazione Civile, SS.UU., 24 settembre 2018, n. 22437 639
il commento di Xxx Xxxxxxxxx 648
Servizi bancari IL DANNO DA RITARDO NELLA PORTABILITÀ DEI SERVIZI DI PAGAMENTO
Ombudsman - Giurì Bancario, 16 gennaio 2018, ricorso n. 519/2016 656
il commento di Xxxxxxx Xxxxxx 657
Cessione del quinto
I COSTI DELLA CESSIONE DEL QUINTO TRA REGOLE DI TRASPARENZA ED ESIGENZE DI XXXXXXX
X.X.X., Xxxx. Xxxxxx, 0 novembre 2017, n. 14161 665
A.B.F., Coll. Torino, 8 novembre 2017, n. 14162 667
il commento di Xxxxxxxxx Xxxxxx 669
OSSERVATORIO DELL’ARBITRO BANCARIO FINANZIARIO
a cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxx,
con la collaborazione di Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx 678
ARGOMENTI
Blockchain BLOCKCHAIN E SMART CONTRACT: QUESTIONI GIURIDICHE APERTE
di Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx 681
Tutela
dei consumatori
LA TUTELA CIVILISTICA DEL CONSUMATORE DI FRONTE ALLE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
di Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx 689
Contratti bancari L’ART. 23 T.U.F., TRA FORMALISMO ED EFFICIENZA ALLOCATIVA
di Xxxxxxx Xxxxxxxx 703
Risarcimento del danno
DANNO E VANTAGGIO NEL SISTEMA DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE: LA C.D. COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO
di Xxxxxx Xxxxxxx 719
CONTRATTI E UNIONE EUROPEA
OSSERVATORIO EUROPEO
a cura di Xxxx Xxxxxxxx - Studio Legale De Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Forlani - Bruxelles 729
INDICI
AUTORI CRONOLOGICO
ANALITICO 735
INDICE GENERALE 2018
INDICI DEGLI AUTORI, CRONOLOGICO, ANALITICO 737
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Xxxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxx, Xxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xx Xxxx, Xxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxx, Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, Xxx Xxxxxxxxx, Xxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx
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i Contratti
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i Contratti
Bimestrale di dottrina, giurisprudenza
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Clausole abusive
Interessi moratori e dintorni
di Xxxxxxxx X’Xxxxx
1. Una recentissima pronuncia della CGUE (1), pubblicata nello scorso mese di agosto, offre una serie di spunti non soltanto con riferimento al tema specifico (che pure è già di per sé - come vedremo subito - di grande interesse e rilievo pratico), ma altresì con riguardo ad alcune questioni generali che la vicenda coinvolge.
Il problema specifico (che trae origine da due rinvii pregiudiziali effettuati da altrettanti giudici spa- gnoli (2)) può essere illustrato in maniera abbastanza semplice. Come è noto, la Dir. 93/13/Cee sulle clau- sole abusive nei contratti dei consumatori (direttiva della quale si festeggia proprio quest’anno il venticin- quennale) ricomprende - nell’elenco (ad essa allegato) di clausole che possono essere dichiarate abusive - le pattuizioni che “abbiano per oggetto o per effetto di imporre al consumatore che non adempie ai propri obblighi un indennizzo per un importo sproporzionata- mente elevato” (lett. e) (3). Detta formula è stata
pedissequamente recepita dal legislatore spagnolo (che, fra l’altro, considera queste clausole come sempre abusive (4)) nell’art. 85, par. 6, del Texto Refundido (testo consolidato) della LGDCU (Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios), e ha dato luogo - in particolare in materia di interessi moratori convenzionali - a non poche oscillazioni giurispruden- ziali in ordine all’individuazione del carattere “spro- porzionatamente elevato” della misura di detti interessi stabilita in contratto (5): formula, quest’ultima, che ha la struttura di una tipica clausola generale, e che speci- fica-esemplifica (anchesequesto punto non è del tutto incontroverso) la più ampia “clausola generale” che definisce la nozione di “vessatorietà” (nozione indivi- duata com’è noto - almeno in uno dei suoi due ele- menti costitutivi (6) - nel significativo squilibrio che si determina, in virtù della clausola, tra i diritti e gli obblighi che dal contratto scaturiscono in capo ai contraenti).
(1) Corte di Giustizia UE, Sez. V, 7 agosto 2018, cause riunite X 00/00 (Xxxxx Xxxxxxxxx XX c. Xxxxxxxxx Xxxxx e Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx) e X-00/00 (Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx x. Xxxxx xx Xxxxxxxx XX).
(2) Il giudice del rinvio, nella causa C-96/16, era lo Juzgado de Primera Instancia n. 38 di Barcelona (che sollevava dei dubbi circa la compatibilità con la Dir. 93/13/Cee della giurisprudenza risul- tante da alcune sentenze del Tribunal Supremo spagnolo in mate- ria di interessi moratori), mentre nella causa C-94/17 era lo stesso Tribunal Supremo a sollevare (in sede di ricorso avverso una pronuncia in appello della Audencia Provincial de Alicante) il pro- blema della compatibilità con la normativa europea sulle clausole abusive dell’orientamento dallo stesso Tribunal Supremo affer- mato in alcune pronunce del 2015 (sent. 22 aprile 2015, n. 265, sent. 7 settembre 2015, n. 470, sent. 8 settembre 2015, n. 469), relative a contratti di “prestito personale” conclusi con i consu- matori (successivamente, la soluzione adottata in queste tre sentenze è stata estesa dal Tribunal Supremo anche ai contratti di prestito ipotecario: v. sentt. 23 dicembre 2015, n. 705, 18 febbraio 2016, n. 79, 3 giugno 2016, n. 364).
(3) È appena il caso di osservare che dette clausole non pos- sono essere fatte rientrare tra quelle che definiscono l’”oggetto principale” del contratto (come avviene, invece, per le clausole che determinano la misura degli interessi corrispettivi). Si tratta, invece, di clausole accessorie (destinate ad operare solo even- tualmente, ossia, nel caso in cui si verifichi un inadempimento da parte del contraente). Ed è per questo che la dir. 93/13 le include tra le clausole che sono sottoposte al giudizio di vessatorietà.
(4) Xxxx’ordinamento giuridico italiano la trasposizione della previsione in questione della direttiva europea è contenuta nella lett. f dell’art. 33, comma 2, c. cons., il quale recita invece che “Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno
per oggetto o per effetto, di: (...) imporre al consumatore in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo”.
(5) È opportuno evidenziare che manca nel diritto spagnolo un parametro legale generale che possa soccorrere nella valutazione del carattere abusivo delle clausole (non negoziate tra le parti) che fissano il tasso convenzionale degli interessi moratori, quale invece può essere individuato - nell’ordinamento italiano - nel criterio stabilito dalla L. n. 108/1996 (c.d. legge anti-usura), che fissa il limite al di là del quale gli interessi (e si ritiene - secondo l’opinione prevalente - che la norma si riferisca non solo a quelli corrispettivi, ma anche a quelli moratori) sono considerati senz’al- tro come “usurari” (c.d. xxxxx in astratto).
Deve precisarsi - peraltro - che non vi è comunque integrale coincidenza tra il giudizio di usurarietà (dell’interesse moratorio) e il giudizio di abusività (della clausola che lo prevede), nel senso che mentre da un lato l’interesse qualificabile come usurario determina senz’altro la “illiceità” della clausola (la nullità della quale, peraltro, prima ancora che dal contrasto con la normativa sulle clausole abusive, deve essere fatta discendere probabil- mente dalla sua contrarietà alla norma imperativa contenuta nella L. n. 108/1996), non è vera la reciproca. Il che significa che anche una clausola che - in un contratto con un consumatore - fissi un interesse moratorio non usurario (in quanto “infra-soglia”) potrebbe essere dal giudice considerata “abusiva”, ai sensi e per gli effetti della normativa sulle clausole vessatorie.
(6) L’altro elemento (del giudizio di vessatorietà) essendo invece costituito dal contrasto con la buona fede, che si realizza attraverso l’inserimento (da parte del professionista) nel regola- mento contrattuale della clausola “squilibrata” (e, perciò, iniqua).
Proprio al fine di porre termine a queste oscillazioni della giurisprudenza di merito (7), e di garantire più efficacemente la certezza e la prevedibilità delle deci- sioni giudiziali in materia (8), il Tribunal Supremo spagnolo ha definito (attraverso una serie di sentenze pronunciate nel corso del 2015 (9)) un “orienta- mento” in base al quale - nei contratti di prestito personale- devonoconsiderarsi “sproporzionatamente elevati” gli interessi moratori il cui ammontare sia fissato in una misura superiore a due punti percentuali rispetto al tasso degli interessi corrispettivi (10), statuendo altresì che ove questa soglia risulti superata - con conseguente nullità della clausola determinativa degli interessi moratori (in quanto abusiva) - siano dovuti gli interessi corrispettivi convenzionali.
Per pervenire a detta conclusione, il Tribunal Supremo spagnolo - dopo aver richiamato alcuni criteri generali tratti dalla giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (11) - sviluppa una articolata argomentazione, che muove anzitutto dalla conside- razione di alcune previsioni legali (spagnole) in materia di interessi moratori (12). I giudici ricono- scono che ciascuna delle norme considerate ha un suo
preciso ambito di applicazione, e proprie peculiarità. Cionondimeno - essi osservano - “todas ellas tratan, en mayor o menor medida, el problema de cómo indemnizar proporcionadamente al acreedor por el retraso en el cumplimiento del deudor, incentivando asimismo el cumplimiento en plazo, sin establecer un interés desproporcionado” (corsivo aggiunto).
Sennonché da questa osservazione (che in sé potrebbe apparire suggestiva) i giudici del Tribunal Supremo spagnolo non traggono alcuna reale indicazione (che
- a ben vedere - probabilmente, non poteva essere tratta, proprio per le “peculiarità” di ciascuna delle ipotesi considerate, che ha portato lo stesso legislatore spa- gnolo ad utilizzare per ognuna criteri diversi, anche a voler supporre la sussistenza della surriferita ratio comune (13)), tant’è che la conclusione cui essi per- vengono appare (a sua volta) del tutto sganciata dai criteri desumibili dalle normative richiamate. E, invero
- dopo aver premesso che nel caso di contratti di prestito senza garanzie reali le massime di esperienza mostrano che l’interesse di mora si determina mercé l’aggiunta di una piccola percentuale addizionale sull’interesse remu- nerativo concordato, i giudici del Tribunal Supremo
(7) Oscillazioni e incertezze che caratterizzano anche il dibattito sul punto in Italia, dibattito che - peraltro - si è sviluppato soprat- tutto a livello dottrinale, mancando una casistica giurisprudenziale significativa (per una sintetica ricostruzione si veda Faccioli, sub art. 33, comma 2, lett. f, in De Cristofaro - Xxxxxxxx, Commentario breveal diritto deiconsumatori, II ed., Padova, 2013, 290 ss., spec. 291 ss.). Al fine di stabilire quando l’importo dovuto dal consuma- tore inadempiente possa considerarsi “manifestamente ecces- sivo”, taluno ha proposto di tener conto dell’interesse del creditore all’adempimento (generalizzando il criterio previsto dal- l’art. 1384 c.c. in materia di clausola penale), altri ha ritenuto che si debba piuttosto tener conto dell’interesse del debitore quale contraente “debole” specificamente tutelato dalla normativa sui contratti dei consumatori (e quindi adottare un criterio di “notevole severità nei confronti del professionista”), ma l’orien- tamento forse prevalente è quello che afferma che la valutazione circa l’”eccessività” vada condotta mettendo a raffronto l’entità dell’indennizzo posto a carico del consumatore con il valore ogget- tivo della prestazione rimasta ineseguita (cfr. sul punto Chiné, Consumatore [contratti del], in Enc. dir., Agg. IV, Milano, 2000, 400 ss., 412-13; e, soprattutto, Navarretta, sub art. 0000-xxx xxx. xxx., xxxxx 0x, x. 0, xx Xx xxxxx disciplina delle clausole vessa- torie, in Aa.Vv., Commentario al capo XIV bis del codice civile: dei contratti delconsumatore, in Nuove leggi civ., 1997, 889 ss., spec. 895 ss.).
(8) Finalità enunciata espressamente al punto IV.2 della sent. n. 265/2015, cit.
(9) Vedile ricordate supra, nella nt. 2. Nelle pagine che seguono le citazioni si riferiranno (salva diversa indicazione) alla prima di tali pronunce, ossia alla sent. 22 aprile 2015, n. 265 (già richiamata nella nota che precede).
(10) All’epoca a cui risalgono le vicende esaminate dalle pro- nunce del Tribunal Supremo, era frequente che il tasso degli interessi moratori convenzionali risultasse superiore di 8, 9, 10 punti percentuali (e, a volte, anche più) rispetto al tasso degli interessi corrispettivi. Ad es., nella vicenda oggetto della sent.
n. 265/2015, il tasso degli interessi corrispettivi era del 11,8%, mentre gli interessi moratori erano fissati al 21,8% (annuo).
(11) Nei parr. 3-4 della Sez. IV dei “Fundamentos de derecho” della sent. n. 265/2015 viene richiamata, in particolare Corte di giustizia 14 marzo 2013, causa C-415/11, Xxxx (spec. i parr. 68-69), dove si afferma che per decidere se una clausola è abusiva occorre considerare le norme del diritto nazionale applicabili in mancanza di diversa pattuizione tra le parti, e, inoltre, occorre che il giudice valuti se il professionista avrebbe potuto ragionevolmente sup- porre che, in una trattativa leale ed equa con il consumatore, quest’ultimo avrebbe accettato la clausola di cui si discute.
(12) Riportiamo, brevemente, i dati normativi richiamati dal Tribunal Supremo (v. par. 5 della Sez. IV dei “Fundamentos de derecho”):
- art. 1108 código civ., che stabilisce che l’interesse moratorio, in mancanza di convenzione tra le parti, sia l’interesse legale (che, nell’anno di stipula del contratto oggetto di causa, era pari al 5%);
- art. 20.4 della Ley 16/2011 sui contratti di credito al consumo, che consente un interesse di mora non superiore a 2,5 volte l’inte- resse legale (nell’anno di stipula del contratto, il 12,5 %)
- art. 114, comma 3, della Ley Hipotecaria, ai sensi del quale gli interessi di mora relativi a prestiti per l’acquisto della casa di abitazione non possono essere superiori a tre volte l’interesse legale;
- art. 20 della Ley del Contrato de Seguro, ove si prevede che le compagnie di assicurazione siano tenute a pagare un interesse di mora pari all’interesse legale aumentato della metà, aggiungendo che trascorsi due anni dal sinistro l’interesse di mora non può comunque essere inferiore alla misura del 20%;
- art. 7 della Ley/2004 sui ritardi nelle transazioni commerciali, che prevede un interesse di mora di 8 punti superiore all’interesse praticato dalla BCE;
- art. 576 della Ley de Enjuiciamiento civil (legge sul processo civile), che stabilisce come interesse di mora processuale l’inte- resse legale aumentato di 2 punti.
(13) Il che conferma che il “principio di proporzionalità” - come tutti i “principi” - è suscettibile di ricevere varie forme di attua- zione, con “gradazioni” di diversa intensità (derivanti, natural- mente, dalla necessità di “bilanciarlo” con altri interessi e principi che, nella specie considerata, vengano in rilievo).
concludono che “Nel caso di prestiti personali, l’inte- resse di mora stabilito in clausole non negoziate deve consistere, per non essere abusivo, in una percentuale aggiuntiva che non deve essere molto elevata in quanto l’assenza di garanzie reali determina che l’interesse corrispettivo già sia elevato ...”, percentuale che può individuarsi (sempre secondo i giudici) in un incremento non superiore a due punti percentuali rispetto al tasso degli interessi corrispettivi (14).
Sennonché - a parte l’osservazione secondo cui un tale argomento omette del tutto di conside- rare la diversa funzione che svolgono gli interessi corrispettivi e quelli moratori (e, in particolare, la funzione che questi ultimi hanno - precipua- mente - di dissuadere il debitore dall’inadempi- mento o dal ritardo, funzione che potrebbe essere scarsamente realizzabile in presenza di un sostan- ziale “allineamento” degli interessi moratori su quelli corrispettivi) - resta il fatto che l’argo- mento utilizzato - pur a volerlo condividere - non ci dice affatto se l’aumento ragionevole degli interessi moratori rispetto a quelli corri- spettivi debba essere (al massimo) di due punti (come opinano i giudici del Tribunal Supremo), oppure di tre, di quattro o di cinque punti.
Come che sia, c’è da prendere atto che la Corte di giustizia UE ha dato avallo alla soluzione propugnata dal Tribunal Supremo spagnolo, per lo meno nel senso di ritenere che una tale soluzione (pur non essendo - come si fa implicitamente intendere - l’unica possi- bile) non è in contrasto (o - se si preferisce - non è incompatibile) con la normativa europea, e in partico- lare con la Dir. 93/13 sulle clausole abusive.
2. È precisamente su quest’ultimo aspetto che vor- remmo concentrare l’attenzione nella seconda parte di questo breve intervento, evidenziando una serie di considerazioni che la vicenda sin qui descritta sollecita.
a) Anzitutto, non può sicuramente sfuggire il dato forse più appariscente della giurisprudenza spagnola (del Tribunal Supremo) sopra richiamata, dato che consiste nell’aver trasformato, in buona sostanza, una “clausola generale” (secondo la quale sono abusivi gli interessi moratori “sproporzionatamente elevati”) in
una “regola di fattispecie” (“gli interessi moratori non possono superare di più di due punti percentuali quelli corrispettivi”). Sappiamo bene che la “concretizza- zione” di ogni clausola generale comporta sempre la individuazione di “regole” più specifiche, nelle quali trova espressione e realizzazione la direttiva contenuta nella clausola generale. E nemmeno può sorprendere che di una regola individuata in occasione della “concretizzazione” di una clausola generale in rela- zione ad un caso specifico (considerate le circostanze che lo caratterizzano), si possa fare applicazione nelle ipotesi in cui si ripresenti un caso identico o analogo a quello in precedenza deciso. Ma qui le cose stanno diversamente.
Il Tribunal Supremo non ha affatto fornito una concretizzazione della clausola generale relativa ad un caso (o un “gruppo di casi”), tra quelli a cui la clausola generale può applicarsi, ma ha invece pro- posto l’unica concretizzazione che (secondo il suo punto di vista) deve essere fornita della clausola generale in questione in tutti i casi in cui l’“inden- nizzo” previsto per l’inadempimento del debitore/ consumatore consista nella corresponsione di inte- ressi moratori convenzionali.
Scompare - così - la possibilità, insita nella “logica” propria della clausola generale, di tener conto delle particolarità del caso concreto (l’aumento massimo di due punti percentuali per gli interessi moratori si applica - per esempio - tanto se gli interessi corri- spettivi siano stati fissati nella misura del 5% [una misura che, in ipotesi, potrebbe - si noti - essere stata stabilita in termini “contenuti”, proprio affi- dando ad uno spread significativo previsto per gli interessi moratori il compito di dissuadere il debi- tore dall’inadempimento], quanto se essi siano fis- sati nella misura del 10 o del 12%; parimenti, la medesima “regola” troverà applicazione sia nel caso in cui il creditore abbia ottenuto - ad es. da un terzo
- una garanzia personale, sia nel caso in cui il credito sia sprovvisto di qualsiasi garanzia; e così via). Il che significa per l’appunto - come poc’anzi si anticipava - che la (flessibile) “clausola generale” è stata trasformata in una (rigida) “regola di fatti- specie” (insuscettibile di ricevere applicazione
(14) Il criterio così individuato sembrerebbe per la verità espli- citamente mutuato - almeno in base a quanto affermano gli stessi giudici del Tribunal Supremo - da una delle norme richiamate, e precisamente dall’art. 576 della Ley de Enjuiciamiento civil (il quale
- sotto la rubrica Intereses de la mora procesal - stabilisce al comma 1 che “Desde que fuere dictada en primera instancia, toda sentencia o resolución que condene al pago de una cantidad de dinero líquida determinará, en favor del acreedor, el devengo de un interés anual igual al del interés legal del dinero incremen- tado en dos puntos o el que corresponda por pacto de las partes o
por disposición especial de la ley”). Sennonché è agevole osser- vare: a) che l’incremento di 2 punti previsto dal citato art. 576 è riferito alla misura dell’interesse legale, mentre il Tribunal Supremo prevede di incrementare di 2 punti l’interesse (corri- spettivo) convenzionale; e che b) sempre l’art. 576, per l’ipotesi in cui sia previsto un interesse convenzionale, dichiara applicabile quest’ultimo interesse (senza però alcuna maggiorazione). Sicché la soluzione individuata dal Tribunal Supremo finisce per essere solo apparentemente ricalcata su quella adottata dal suddetto art. 576.
tenendo conto delle circostanze del caso concreto).
Va da sé - e lo abbiamo già sottolineato - che mantiene lo statuto di “clausola generale” la previsione contenuta nella lett. e dell’Allegato alla dir. 93/13/Cee, e mantengono questo statuto normativo anche le corrispondenti formule che nei vari altri ordinamenti dell’UE hanno recepito tale previsione (mantenendone la formulazione “indeterminata”, per la quale ha optato il legi- slatore europeo). Ciò, tuttavia, non vale più per la Spagna, almeno sin tanto che il Tribunal Supremo manterrà il proprio indirizzo (conside- rato - adesso - “compatibile” con la direttiva sulle clausole abusive anche dalla pronuncia della Corte di giustizia) (15): e si potrebbe, allora, porre il problema se ciò in definitiva non tradisca la finalità di “armonizzazione” che è propria della normativa europea (16), met- tendo le banche spagnole in una posizione di indubbio svantaggio rispetto alle banche ope- ranti in altri ordinamenti, nei quali magari l’at- tuazione della “clausola generale” potrebbe consentire (in ipotesi) margini di determina- zione convenzionale degli interessi moratori più ampi di quelli che sono accordati alle banche spagnole (17). Xxxx che avverrebbe non già in forza di una scelta effettuata dal legislatore (nella specie, dal legislatore spagnolo, che avrebbe potuto ad es. far seguire alla formula dell’art. 85, par. 6, LGDCU, la previsione esplicita
secondo cui “si considerano in ogni caso spro- porzionatamente elevati gli interessi moratori con- venzionali che superino di oltre due punti percentuali la misura degli interessi corrispet- tivi”) (18), bensì dalla giurisprudenza (19).
Non può tacersi, peraltro, che l’orientamento del Tribunal Supremo (avallato dalla Corte di giu- stizia, sul presupposto che esso corrisponda alla ratio di tutela del consumatore, quale contraente debole, che ispira la direttiva sulle clausole abu- sive) possa finire per rivelarsi - per così dire - una soluzione “controfunzionale”. Come già accaduto nella vicenda delle clausúlas suelo), è possibile, infatti, che le banche (spagnole) rea- giscano alla limitazione che viene ad essere introdotta rispetto alla determinazione dei tassi degli interessi moratori, innalzando (in via gene- ralizzata) la soglia degli interessi corrispettivi, e così realizzando una sorta di “socializzazione” dei danni conseguenti agli inadempimenti (statisti- camente prevedibili) dei contratti di mutuo. Se così avvenisse, si finirebbe per far pagare alla generalità dei mutuatari (compresi quelli che adempiono regolarmente le proprie obbligazioni) il costo degli inadempimenti imputabili ad alcuni soltanto. Inoltre - depotenziando la fun- zione “dissuasiva” che l’entità degli interessi moratori può esercitare sul debitore (inducen- dolo ad adempiere regolarmente) - la soluzione in questione potrebbe avere altresì l’effetto (indiretto) di far crescere il numero degli
(15) Solo in un senso limitato si potrebbe dire che anche in Spagna continua ad operare in subiecta materia una clausola generale, e cioè nel senso che la giurisprudenza del Tribunal Supremo che stiamo considerando non esclude che una clausola di fissazione degli interessi moratori (in un contratto con un consumatore) possa essere dichiarata abusiva (e, dunque, nulla) anche se essa si mantiene al di sotto del limite di incremento (di due punti percentuali) indicato come limite massimo. Ma si tratta di possibilità che si ha motivo di credere non verrà utilizzata frequentemente.
(16) L’affermazione merita un chiarimento, in quanto general- mente è proprio il ricorso del legislatore europeo a clausole generali e a formule indeterminate ad essere “accusato” di costi- tuire una rinuncia all’armonizzazione (o una presa d’atto della sua impossibilità), visto che esso lascia ai giudici nazionali dei vari ordinamenti il compito di “riempire di contenuto” quelle che sarebbero delle mere direttive generiche (si veda, ad es., Patti, Clxxxxxx xenerali e discrezionalità del giudice, in Xxxxxxxx - Patti, La genesi della sentenza, Bologna, 2016, 157).
Sennonché può evidenziarsi come - per quanto l’osservazione or ora riferita abbia un suo fondamento - non possa escludersi che il ricorso a “clausole generali” (e concetti indeterminati) abbia alla sua base (talora, almeno) altre ragioni, e in particolare la consape- volezza della impossibilità e/o inopportunità di racchiudere in una regola “rigida” la regolamentazione di determinati fenomeni. In questo caso appare poco comprensibile che a questa valutazione del legislatore europeo si sostituisca una diversa valutazione (del
legislatore nazionale o dei giudici di un determinato ordinamento) che “irrigidisca” in una regola predeterminata la disciplina di cui trattasi.
(17) Per altro verso, non si può neanche escludere che (per una sorta di eterogenesi dei fini) la misura che il Tribunal Supremo spagnolo (e la Corte di Giustizia UE, che ne ha avallato l’orienta- mento) ha concepito in funzione di una più intensa tutela del consumatore, finisca per risolversi in un pregiudizio per il mede- simo consumatore, qualora le banche spagnole (come ipotizziamo nel testo) reagiscano agli effetti dell’orientamento giurispruden- ziale in parola aumentando in maniera generalizzata il livello dei tassi degli interessi corrispettivi nei prestiti personali (senza garanzia).
(18) La possibilità per i legislatori nazionali di introdurre disci- pline di maggior favore per i consumatori è espressamente previ- sta dall’art. 8 della Dir. 13/93, che si configura dunque come una direttiva di armonizzazione c.d. “minima”.
(19) Suxxx (discutibile) possibilità dei giudici nazionali di ampliare la tutela prevista da una direttiva di armonizzazione “minima”, nel caso in cui questo ampliamento non sia stato previsto dal legisla- tore, ci permettiamo di rinviare a D’Amico, Mancanza di traspa- renza di clausole relative all’oggetto principale del contratto e giudizio di vessatorietà (Variazioni sul tema dell’armonizzazione minima), in D’Amico-Pagliantini, L’armonizzazione degli ordina- menti europei tra regole e principi, Torino, 2017, 87 ss., spec. 110 ss.
Vedi anche infra, quanto evidenziamo nella nt. 24.
inadempimenti (soprattutto quando il tasso degli interessi corrispettivi sia abbastanza elevato, e l’aggiunta ad esso di due soli punti percentuali renda il pagamento degli interessi di mora sostan- zialmente non più oneroso del pagamento degli interessi corrispettivi).
Queste considerazioni rendono, dunque, ragione della scelta del legislatore europeo di lasciare ai giudici il compito (e l’onere) di decidere caso per caso, in applicazione di una clausola gene- rale (20), piuttosto che introdurre una “regola” precisa, ma rigida, come tale esposta a svariate possibilità di aggiramento e/o di esiti “contro- funzionali” (come finisce per accadere per la regola propugnata dal Tribunal Supremo spagnolo).
b) Il punto appena toccato si collega ad un secondo aspetto della vicenda in esame, che merita anch’esso di essere accennato, e che forse è meno evidente di quello sin qui considerato. Intendiamo riferirci al fatto che il rinvio pregiudiziale operato dai giudici spagnoli ha posto alla Corte di giustizia il quesito circa la compatibilità con il diritto europeo non già di una disposizione legislativa, bensì di un indirizzo giurisprudenziale. La cosa non può non far riflettere, anche perché è tutt’altro che usuale, tant’è vero che sia il Banco Santander che il Banco Sabadell (controparti dei consumatori che avevano agito davanti ai giudici spagnoli), sia lo stesso Governo spagnolo, avevano osservato innanzi ai giudici di Lussemburgo che il criterio proposto dalla giurisprudenza del Tribunal Supremo non ha
valore vincolante ed obbligatorio (le sentenze della giurisprudenza - sia pure di quella di ultima istanza
- sono prive di efficacia normativa erga omnes, ossia non hanno forza di legge e non costituiscono “fonti del diritto”), con la conseguenza che i giudici di grado inferiore potrebbero discostarsene e tentare di indurre il Tribunal Supremo a modificare il proprio orientamento (21).
Sennonché, la Corte di giustizia europea non ha tanto considerato questo aspetto (22), dando piutto- sto rilievo all’osservazione (anch’essa svolta dal governo spagnolo) secondo cui la giurisprudenza del Tribunal Supremo ha comunque valore di orienta- mento, considerato che le decisioni dei giudici di grado inferiore che da essa si discostino possono essere annullate dal medesimo Tribunal Supremo. Da ciò conseguirebbe - secondo i giudici europei - che “il carattere vincolante della summenzionata giuri- sprudenza nei confronti dei giudici spagnoli di grado inferiore non può essere escluso ...” (23).
Sebbene quest’ultima affermazione sia piuttosto generica (oltre che ambigua (24)), l’interprete non può non registrare l’ingresso della “giurispru- denza nazionale” (almeno di quella delle Corti superiori) tra gli “oggetti” che direttamente la Corte di giustizia può prendere in considerazione per verificare la compatibilità con il diritto euro- peo. Si tratta - tuttavia - di un esito ambivalente, perché se da un lato esso sembra riconoscere alla giurisprudenza un ruolo quasi equiparato a quello del legislatore (25), dall’altro - pur mantenendo fermo il principio secondo il quale “la domanda di
(20) È appena il caso di sottolineare che l’esito dei giudizi che hanno dato occasione al rinvio pregiudiziale davanti alla CGUE - giudizi nei quali si discorreva di tassi degli interessi moratori superiori di 10 punti percentuali rispetto ai tassi degli interessi corrispettivi - difficilmente sarebbe stato diverso da quello cui si perviene applicando la “regola” del Tribunal Supremo (che indivi- dua uno spread - di appena due punti percentuali - che costituisce veramente la distanza minima che si possa concepire per con- sentire agli interessi moratori di svolgere la funzione loro propria, di dissuadere il debitore dall’inadempimento).
La volontà di “irrigidire” la soluzione (dettando una regola di fattispecie) sarebbe stata maggiormente comprensibile se i giu- dici avessero concepito un limite massimo all’aumento del tasso dell’interesse moratorio rispetto a quello dell’interesse corrispet- tivo. Una regola siffatta (es.: è, comunque, sproporzionatamente elevato il tasso degli interessi moratori che sia superiore al doppio di quello degli interessi corrispettivi; oppure: è, comunque, spro- porzionatamente elevato il tasso degli interessi moratori che superi di 8 punti quello degli interessi corrispettivi), avrebbe man- tenuto la “flessibilità” della clausola generale (non impedendo al giudice di considerare “abusivi” interessi moratori anche inferiori al limite massimo individuato), ma al contempo non avrebbe costituito una irragionevole compressione a priori dell’autonomia privata (idonea a stimolare, oltre tutto, una risposta in chiave “elusiva”, come quella ipotizzata di un aumento generalizzato
degli interessi corrispettivi, che - a quel punto - diventa difficile da contrastare, non potendosi sindacare col giudizio di abusività il contenuto di una clausola relativa all’“oggetto principale” del contratto).
(21) X. xxxx. 00 x 00 xxxxx xxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxx della Corte di giustizia 7 agosto 2018, cit.
(22) Né ha - si badi - ragionato in termini di c.d. “diritto vivente”, che - nella specie -, probabilmente, non si poteva neanche dire che si fosse formato, perché la giurisprudenza del Tribunal Supremo del 2015 non si era ancora consolidata (come dimostrano le stesse decisioni di ricorrere in via pregiudiziale alla Corte di giustizia europea).
(23) Sent. cit., par. 59.
(24) Come dimostra quanto la stessa Coxxx xcrive nel par. 69 della sentenza, dove essa afferma che “la giurisprudenza del Tribunal Supremo in discussione nei procedimenti principali non sembra certo rientrare tra le disposizioni più severe che possono essere adottate dagli stati membri al fine di garantire un livello di protezione più elevato al consumatore ai sensi dell’art. 8 della citata direttiva, segnatamente perché, come chiarito dal governo spagnolo nell’udienza dinanzi alla Corte, detta giurisprudenza non sembra avere forza di legge né costituire una fonte del diritto nell’ordinamento giuridico spagnolo ...”.
(25) Ma v. il brano riportato nella nota precedente.
pronuncia pregiudiziale deve riguardare l’interpre- tazione o la validità del diritto dell’Unione, e non l’interpretazione delle norme del diritto nazionale
...” (26) - introduce (forse per la prima volta in
maniera così chiara) l’idea di un controllo da parte dei giudici di Lussemburgo anche sull’evo- luzione della giurisprudenza dei singoli ordina- menti nazionali.
(26) Cfr. CGUE, Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (in G.U.U.E. 25 novembre 2016, C/439/1), par. 8.
Assicurazione
La clausola claims made
e le Sezioni Unite: bis in idem
Cassazione Civile, SS.UU., 24 settembre 2018, n. 22437 - Pres. Mammone - Est. Vincenti - Xxxxxxxxx Crane Group Italy S.r.l. c. Allianz S.p.a. (già Riunione Adriatica di Sicurtà S.p.a.)
Il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma 1, x.x., xxxxxxxxxx xxxx’xxx. 0000 x.x., x xxxxxxxxxxxxx al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto - sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti -, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Cass., SS.UU., 5 maggio 2016, n. 9140; Cass. 2 dicembre 2016, n. 24465; Cass. 11 gennaio 2017, n. 417; Cass. 23 novembre 0000, x. 00000, xxx. |
Difforme | Cass. 28 aprile 2017, n. 10506; Cass. 2 marzo 0000, x. 0000, xxx. |
La Corte (omissis)
Ragioni della decisione
1. - Con il primo mezzo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c., in punto di nullità per difetto di meritevolezza della clausola claims made.
La Corte territoriale ha escluso che il contratto assicura- tivo inter partes sia affetto da nullità per contrasto con l’art. 1895 c.c., in quanto “atipico” in ragione della clausola claims made ivi contenuta, per effetto della quale è da considerarsi “sinistro” a tutti i fini contrattuali - e dunque non solo ai fini del pagamento dell’indennizzo - l’invio della richiesta di risarcimento all’assicurato da parte del danneggiato.
Tuttavia, il giudice di appello, nel giungere a tale conclu- sione, ha pretermesso il necessario giudizio di meritevo- lezza del contratto, che avrebbe dovuto effettuare, in modo stringente e in considerazione del complessivo regola- mento negoziale, proprio in ragione della predicata atipicità.
2. - Con il secondo mezzo è prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1917 x.x., xxxxx 0, xxxxxx xx xxxxx xx xxxxxxx xxxxx xxxxxxxx claims made, che avrebbe dovuto essere dichiarata nonostante la citata norma non venga richiamata dall’art. 1932 c.c. tra quelle inderogabili,
assumendo in sé siffatta natura, poiché rappresenta la funzione del contratto di assicurazione - ossia il trasferi- mento del rischio derivante dall’esercizio di un’attività dall’agente all’assicuratore -, per cui la sua deroga com- porterebbe la nullità del contratto stesso per mancanza di causa e la sua immeritevolezza per contrarietà a norma imperativa.
3. - Con il terzo mezzo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1895 c.c., ancora in punto di nullità della clausola claims made, che avrebbe dovuto essere dichiarata in quanto il contratto di assicurazione inter partes (del 2003, con franchigia di Euro 150.000,00) ha assicurato, in concreto, un rischio già verificatosi (insorto con il sinistro del giugno 2002), ciò desumendosi dalla clausola di cui all’art. 9 dello stesso contratto, che impone all’assicurato di denunciare il sinistro entro 10 giorni dalla sua verificazione, con la conseguenza che, dovendosi per sinistro intendersi il fatto dannoso, la claims made, rife- rendosi alla richiesta di risarcimento, consente di coprire un rischio già sorto.
4. - Con il quarto mezzo si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 c.c., sulla vessatorietà della clausola claims made, che avrebbe dovuto essere dichia- rata in quanto essa non limita l’oggetto del contratto di assicurazione, poiché, come si desume dalla citata clausola
di cui all’art. 9 dello stesso contratto, imponendosi all’as- sicurato di denunciare il sinistro entro 10 giorni dalla sua verificazione, la responsabilità dell’assicuratore sorge con il fatto dannoso, con la conseguenza che la claims made, connettendola alla denuncia del terzo, la viene ad escludere.
5. - Con il quinto mezzo è prospettata la violazione del D.Lgs. n. 206 del 2005, artt. 117 e 118 sulla responsabilità del produttore. La Corte territoriale avrebbe errato ad affermare la respon- sabilità di essa Xxxxxxxxx, produttrice della gru, repu- tando inconferenti le difese in punto di assenza di colpa e imprevedibilità del danno, addossando ad essa società la prova del fortuito, mentre, alla luce di quanto emerso dalla c.t.u., essa non poteva conoscere, né prevedere la difetto- sità del prodotto in relazione al presunto difetto di progettazione.
(omissis)
8. - I primi due motivi di ricorso hanno indotto la Terza Sezione civile a sollecitare (con la ricordata ordinanza interlocutoria n. 1465 del 2018) un nuovo intervento di queste Sezioni Unite, dopo quello recente di cui alla sentenza del 6 maggio 2016, n. 9140, sulle problematiche giuridiche che, nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, si agitano intorno alle c.d. “clxxxxxx xlaims made” (di seguito anche soltanto claims made o claims).
9. - Giova anzitutto rammentare che dette clausole - come già evidenziato dalla citata sentenze delle Sezioni Unite
n. 9140 del 2016 - operano una deroga al modello di assicurazione della responsabilità civile delineato dall’art. 1917 x.x., xxxxx 0, xxxxxx xx xxxxxxxxx assicurativa viene ad operare non “in relazione a tutte le condotte, genera- trici di domande risarcitorie, insorte nell’arco temporale di operatività del contratto, quale che sia il momento in cui la richiesta di danni venga avanzata” (modello c.d. boss occurrence o act committed), bensì in ragione della circo- stanza che nel periodo di vigenza della polizza intervenga la richiesta di risarcimento da parte del terzo danneggiato (il c.d. claim) e che tale richiesta sia inoltrata dall’assicu- rato al proprio assicuratore. Se questo è lo schema essenziale al quale si ispira il sistema
c.d. “claims made” (letteralmente: “a richiesta fatta”), esso trova poi concretizzazione, nella prassi assicurativa, in base a più varianti, la cui riduzione alle due categorie più generali della claims “pura” (siccome imperniata sulle richieste risarcitorie inoltrate nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commis- sione del fatto illecito) e della claims “impura” (o mista: poiché operante là dove tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con possibile retrodatazione della garanzia alle condotte poste in essere anteriormente) è frutto uni- camente di convenzionale semplificazione, la quale, tut- tavia, non può elidere la complessità del fenomeno. Complessità che si apprezza, anzitutto, proprio a motivo di quelle varianti cui si faceva cenno, che introducono ulteriori previsioni pattizie orientate in più direzioni: per un verso, volte a rendere effettiva la copertura
assicurativa rispetto a claims intervenute anche in un certo arco temporale successivo alla scadenza del con- tratto (c.d. sunset clause o clausola di ultrattività o di “postuma”); per altro verso, dirette a consentire all’assi- curato, in aggiunta alla richiesta del danneggiato, di comunicare all’assicuratore, ai fini di operatività della polizza, anche le circostanze di fatto conosciute in corso di contratto e dalle quali potrebbe, in futuro, originarsi la richiesta risarcitoria (c.d. deeming clause).
9.1. - Sono ben note le ragioni storiche che hanno dato luogo, nell’ambito del mercato assicurativo, a partire da quello anglosassone e, poi, statunitense della prima metà degli 80 del secolo scorso, alle clausole claims made, affermatesi - in estrema sintesi - come risposta all’aumento dei costi per indennizzo generato dall’espansione, quali- tativa e quantitativa, della tutela risarcitoria, in particolar modo nell’area dei rischi c.d. lungo-latenti, ossia dei danni da prodotti difettosi, quelli ambientali e quelli da respon- sabilità professionale (segnatamente, in ambito di respon- sabilità sanitaria). Di qui, per l’appunto (come ricordato dalla citata sentenza
n. 9140 del 2016), l’esigenza, avvertita dalle imprese di assicurazione, di circoscrivere l’operatività della assicura- zione ai soli sinistri “reclamati” durante la vigenza del contratto, così da consentire alla compagnia “di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte ai relativi esborsi”, con evidente ulteriore agevolazione nel calcolo del premio assicurativo.
9.2. - Volgendo per un momento lo sguardo a quelle aree di cultura giuridica più vicine al nostro ordinamento, non è superfluo evidenziare come l’assicurazione “on claims made basis” sia stata oggetto già da tempo, in alcuni Paesi (ad es., Francia, Spagna e Belgio), di riconoscimento a livello di diritto positivo, sebbene con modulazioni particolari e (come accenna la stessa ordinanza interlocu- toria n. 1475 del 2018) quale risposta al sostanziale sfavore della giurisprudenza (seppure una tale dinamica non colga propriamente la realtà spagnola).
In Francia, dapprima la L. 30 dicembre 2002, n. 1577 (c.d. Loi About), in materia di responsabilità sanitaria, ha previsto che la relativa assicurazione possa prevedere clausole c.d. “base reclamation”, per cui l’operatività della garanzia presuppone la richiesta risarcitoria del danneggiato ed è modulata con la previsione di una retroattività illimitata ed una ultrattività (“garantie sub- séquente”) non inferiore a cinque anni ovvero di dieci anni per i medici liberi professionisti in caso di cessazione dell’attività o di decesso.
Di poco successiva è stata, quindi, l’emanazione della L. 1° agosto 2003, n. 706 (di “Securitè Financierè”), che, novel- lando il Code des Assurances, ha introdotto, accanto alla assicurazione incentrata sul “fait dommageabie” e per i soli rischi industriali e professionali, il meccanismo di garanzia “base reciamation”, imponendo, tuttavia, una durata quinquennale del relativo contratto.
In Spagna, all’esito di un vivo dibattito dottrinale e giuri- sprudenziale sulla validità o meno delle claims made, il legislatore (modificando la L. 8 novembre 1995, n. 30, art.
73 sull’ordinamento delle assicurazioni private) ha intro- dotto le claims made come clausole “limitative” dei diritti dei contraenti deboli, configurandone l’ammissibilità in base a due tipologie: 1) quella (post-copertura) che estende la garanzia ad un periodo minimo di almeno un anno rispetto alla scadenza del contratto; 2) quella che estende la copertura in modo retroattivo, ad evento dan- noso verificatosi prima della conclusione del contratto, ma con richiesta di risarcimento intervenuta durante la vigenza del contratto.
Il dibattito rimane aperto (non sulla validità in astratto delle clausole claims made, ma) sulla qualificazione legi- slativa di “clausola limitativa dei diritti degli assicurati”, là dove la giurisprudenza (Trib. S. n. 2508/2014) sembra orientata a ritenere che le claims made siano piuttosto previsioni limitative dell’oggetto del contratto”.
Infine, in Belgio, il meccanismo di garanzia improntato sulle clausole claims made è stato previsto dalla L. 25 giugno 1992, art. 78 sul contratto di assicurazione terre- stre, successivamente modellato (nel dicembre 1994) con una ultrattività di trentasei mesi dalla scadenza della polizza (“garantie de posteritè”) ed escluso per i c.d. rischi di massa.
10. - Invero - ed è opportuno darne conto sin d’ora -, anche nel nostro ordinamento l’assicurazione secondo il modello delle clausole claims made ha trovato, assai di recente, espresso riconoscimento legislativo, a seguito degli inter- venti recati, in particolare, dalla L. 8 marzo 2017, n. 24, art. 11 e D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5, lett. e), (convertito, con modificazioni, dalla L. 14 novembre 2011, n. 148), come novellato dalla L. 4 agosto 2017,
n. 124, art. 1, comma 26. Laprima disposizione, concernentel’obbligo (previsto dalla medesima L. n. 24, art. 10) di assicurazione delle strutture sanitarie per la responsabilità civile verso i terzi e i prestatori d’opera (che riguarda anche la stipula di polizze per la copertura della responsabilità civile verso terzi degli eser- centi le professioni sanitarie di cui si avvalgano, ma non già dei sanitari “liberi professionisti”, ai sensidello stesso art. 10, comma 2 per i quali trova applicazione l’art. 3 innanzi citato), stabilisce, anzitutto, che la “garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza”. La norma prevede, poi, che, in caso di “cessazione defini- tiva dell’attività professionale per qualsiasi causa”, la garanzia debba contemplare “un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura”. Una tale ultrattività “è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta”.
È evidente che il meccanismo presupposto dall’art. 11 in esame non sia quello legato al “fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione” di cui all’art. 1917 c.c., comma 1 non avendo altrimenti ragion d’essere la previsione, al tempo stesso, di un periodo di retroattività e uno di
ultrattività della copertura, sebbene, poi, la norma, in base alla sua formulazione letterale, evochi, per la coper- tura retroattiva, lo schema della deeming clause, innanzi richiamata, facendo riferimento alla sola “denuncia” del- l’evento alla compagnia di assicurazione.
Del D.L. n. 138 del 2011, art. 3, il comma 5 (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 2011), novellato nel 2017, riguarda invece l’obbligo di “stipulare idonea assi- curazione” posto a carico dell’esercente una libera profes- sione in relazione ai rischi da questa derivanti.
Ferma la libertà contrattuale delle parti, le condizioni generali di polizza “prevedono l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura”. La previsione è, poi, resa applicabile “alle polizze assicurative in corso di validità alla data di entrata in vigore della presente disposizione”.
Nel caso dell’illustrato comma 5, sembra evidente, quindi, che il meccanismo prefigurato sia quello di una clausola claims made su cui si viene ad innestare una sunset clause. Non può non rammentarsi, infine, che, sulla scia del D.L.
n. 138 del 2011, originario art. 3, comma 5, (convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 2011) e del D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, correlato art. 5, la L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 12, comma 1, sul nuovo ordinamento della professione forense, ha imposto agli avvocati analogo espresso obbligo di assicurazione per la responsabilità civile, demandando (comma 5) al Ministro della giustizia la previsione, e l’aggiornamento, delle condizioni essen- ziali e dei massimali minimi di polizza.
Ne è scaturito il D.M. 22 settembre 2016, il cui art. 2, rubricato “Efficacia nel tempo della copertura assicura- tiva”, ha stabilito, in linea con il sistema claims made (con variante sunset clause), che la “assicurazione deve preve- dere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata e un’ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l’attività nel periodo di vigenza della polizza”, con esclusione, in capo all’assicuratore, della facoltà di recesso dal contratto “a seguito della denuncia di un sinistro o del suo risarcimento, nel corso di durata dello stesso o del periodo di ultrattività”.
11. - L’ordinanza interlocutoria della Terza Sezione civile, nell’esaminare i primi due motivi di ricorso, si è interrogata sulla tenuta giuridica del sistema assicurativo “claims made”, adducendo che le censure di parte ricorrente suscitavano “problemi... ulteriori e diversi rispetto a quelli esaminati e decisi” dalla citata sentenza n. 9140 del 2016, per poi sintetizzare le “soluzioni preferibili” a detti “pro- blemi” in due “principi”, dei quali si chiede che ne venga saggiata la correttezza.
11.1. - Il primo di detti “principi” è così declinato: “Nel- l’assicurazione contro i danni non è consentito alle parti elevare al rango di “sinistri” fatti diversi da quelli previsti dall’art. 1882 c.c., ovvero, nell’assicurazione della respon- sabilità civile, dall’art. 1917 c.c., comma 1”.
Il “sinistro” - esordisce l’ordinanza interlocutoria- èsoltanto un evento avverso, dannoso, e non voluto dall’assicurato.
Ciò è confermato non soltanto da plurimi dati normativi, sia di rango primario, che secondario, e pure di matrice Eurounitaria (Direttiva 2009/103/CE; Direttiva 2009/138/ CE), ma anche dall’interpretazione sistematica, per cui il sinistro (o rischio in concreto/avverato) di cui all’art. 1882
c.c. è l’avveramento del rischio di cui all’art. 1895 c.c. (rischio in astratto) e il rischio assicurabile, nell’assicura- zione contro i danni, è quello che ha ad oggetto un evento futuro, possibile, incerto, oggettivamente esistente e non artificialmente creato, derivante da causa non voluta pre- giudizievole per l’assicurato.
Dunque, se le parti hanno la facoltà di assicurare qualsiasi tipo di rischio, non hanno, invece, la facoltà di definire “sinistro” un evento che non costituisca avveramento del rischio assicurato, e sia privo dei caratteri di quello, ovvero non volizione e dannosità (altrimenti, nulla più distingue- rebbe un’assicurazione da una scommessa). Un patto di tal genere sarebbe nullo se concluso da un’impresa di assicu- razione, la quale ha l’obbligo di limitare la propria attività alla stipula di contratti assicurativi del D.Lgs. n. 209 del 2005, ex art. 11, comma 2, salve le eccezioni previste dalla legge, tra le quali non rientra di certo la raccolta di scommesse.
Analogamente, nell’assicurazione della responsabilità civile, che costituisce un sottotipo dell’assicurazione danni, la definizione di cui all’art. 1917 x.x., xxxxx 0, xxxxxxxx xx xxxxxxxxx che il rischio in astratto è l’impo- verimento dell’assicurato, mentre il rischio in concreto (o sinistro) è la causazione, da parte dell’assicurato, di un danno a terzi del quale debba rispondere.
Le parti di un contratto di assicurazione della responsabi- lità civile non potrebbero quindi pattuire che il sinistro, ovvero il rischio avverato, possa consistere in un fatto diverso dalla commissione di un illecito aquiliano da parte dell’assicurato. Il rischio si avvera con il fatto illecito, perché è questo che fa sorgere l’obbligazione risarcitoria di cui si intende traslare il rischio stesso e non già con la richiesta risarcitoria.
Se ciò avvenisse e se si ritenesse valida la clausola che qualifica “sinistro” la richiesta risarcitoria del terzo, si verificherebbero “sei conseguenze talmente paradossali, da risultare inaccettabili a qualsiasi ordinamento civile”,e precisamente: a) si farebbe dipendere l’obbligazione del- l’assicuratore da un evento non dannoso, in deroga a quanto stabilito dall’art. 1882 c.c.; b) si farebbe dipendere l’obbligazione dell’assicuratore “dall’avverarsi di un evento al cui avverarsi l’assicurato non ha un interesse contrario”, in deroga a quanto stabilito dall’art. 1882 c.c.;
c) si renderebbe impossibile l’adempimento dell’obbligo di salvataggio, di cui all’art. 1914 c.c., atteso che per adem- piere tale obbligo l’assicurato dovrebbe rendersi irreperi- bile alle richieste del terzo, ovvero non accettare le raccomandate o le notificazioni da questo speditegli;
d) l’assicurato non potrebbe mai avere nessuna copertura nell’ipotesi di assicurazione della responsabilità civile per conto altrui (art. 1891 c.c.; ad esempio quella stipulata dal datore di lavoro a beneficio dei dipendenti), perché il contraente che avanzasse una richiesta di risarcimento porrebbe in essere un atto volontario, e quindi doloso, la
cui copertura è esclusa dall’art. 1900 c.c.; e) si perverrebbe all’assurdo che anche una richiesta infondata costitui- rebbe un “sinistro”, e farebbe scattare per l’assicuratore il diritto di recesso; f) nel caso di morte dell’assicurato, cesserebbe il rischio ex art. 1896 c.c. e si scioglierebbe il contratto, e gli eredi dell’assicurato che avesse commesso un danno sarebbero sempre e comunque privi della coper- tura assicurativa.
11.2. - Il secondo “principio” è così enunciato: “Nexx’xxsi- curazione della responsabilità civile deve ritenersi sempre e comunque immeritevole di tutela, ai sensi dell’art. 1322 c.c., la clausola la quale stabilisca la spettanza, la misura ed i limiti dell’indennizzo non già in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui l’assicurato ha causato il danno, ma in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui il terzo danneggiato ha chiesto all’assicurato di essere risarcito”.
La meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. - argomenta il Collegio rimettente - non si esaurisce nella liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. Essa è, piutto- sto, un giudizio che investe non il contratto in sé, ma il risultato con esso perseguito, e tale risultato dovrà dirsi immeritevole quando sia contrario alla coscienza civile, alla economia, al buon costume o all’ordine pubblico, ossia ai principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.
Il “diritto vivente” ha ravvisato l’immeritevolezza di con- tratti o patti con lo scopo di: a) attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropar- tita per l’altra (Cass. n. 19559 del 2015 e Cass. n. 22950 del 2015); b) porre una delle parti in una posizione di inde- terminata soggezione rispetto all’altra (Cass. n. 9975 del 1995, Cass. n. 1898 del 2000, Cass. n. 12454 del 2009,
Cass. n. 3080 del 2013 e Cass. n. 4222 del 2017);
c) costringere una delle parti a tenere condotte contra- stanti coi superiori doveri di solidarietà costituzional- mente imposti (Cass. n. 14343 del 2009). Dunque, la claims made, “nella parte in cui esclude il diritto dell’assicurato all’indennizzo quando la richiesta di risarci- mento gli pervenga dal terzo dopo la scadenza del con- tratto”, è immeritevole sotto tutti e tre gli anzidetti profili, in quanto: 1) procura all’assicuratore un ingiusto vantaggio senza contropartita, poiché esclude dalla copertura i sinistri verificatisi in prossimità della scadenza della polizza e che verosimilmente verranno denunciati all’assicurato dopo la scadenza, determinando così uno iato tra il tempo per il qualeè stata stipulata l’assicurazione (e pagatoil premio) e il tempo nel quale può avverarsi il rischio; 2) pone l’assicurato in una posizione di soggezione rispetto al danneggiato, che può liberamente decidere il momento in cui inoltrare all’assicurato la richiesta di risarcimento, momento che potrebbe cadere dopo la scadenza della polizza (e ciò com- porterebbe due conseguenze paradossali: a) l’interesse del- l’assicurato a ricevere prontamente la richiesta di risarcimento, in contrasto col principio desumile dall’art. 1904 c.c.; b) l’aporia in forza della quale l’assicurato chetace e aspetta la richiesta perde la copertura, ma se si attiva e sollecita il danneggiato, viola l’obbligo di salvataggio ex art.
1915 c.c.); 3) se l’assicurato adempisse spontaneamente all’obbligazione risarcitoria, secondo correttezza e buona fede, mancherebbe una richiesta di risarcimento fatta dal danneggiato e di conseguenza l’assicuratore potrebbe anche rifiutare l’indennizzo.
12. - Reputa questa Corte, a Sezioni Unite, che agli interrogativi posti dall’ordinanza interlocutoria occorra dare una risposta unitaria, che affronti e risolva diretta- mente la problematica di fondo che gli stessi, pur evocando aspetti apparentemente diversi, mettono al centro del discorso giuridico, ossia quella che, a partire dal profilo della meritevolezza degli interessi coinvolti, investe il piano della validità delle clausole “claims made”.
Una problematica, dunque, da esaminare anzitutto in ragione dell’astratto declinarsi di un siffatto meccanismo assicurativo, sia pure tenendo conto delle variabili opera- tive in precedenza ricordate.
12.1. - Il percorso decisionale non è pregiudicato, né comunque ingessato, nella scelta, tra più opzioni possibili, della soluzione interpretativa da preferire, dalla sentenza
n. 4912 del 2 marzo 2018, nel frattempo intervenuta in controversia tra le medesime parti del presente giudizio, sorta a seguito dello stesso fatto illecito di danno (sebbene con conseguenze dannose differenti) e vertente su azione di manleva, proposta dalla Xxxxxxxxx s.r.l. nei confronti della Allianz S.p.A., in forza delle polizze assicurative anche in questa sede dedotte, con la distinzione, però, della presenza (in quel giudizio) di un’appendice alla seconda polizza (quella distinta dal n. (omissis)), conte- nente una clausola del tipo “loss occurence”. Circostanza, quest’ultima, che, unitamente al rilievo per cui la ratio decidendi della sentenza n. 4912 (che sorregge l’esito della cassazione con rinvio della sentenza ivi impu- gnata) rinviene il proprio antecedente logico necessario non già nella presupposta qualificazione giuridica dei contratti di assicurazione inter partes, bensì nei ritenuti meccanismi pratici di operatività delle stipulate polizze in collegamento tra loro, porta ad escludere che, nella specie, detta pronuncia possa configurarsi come giudicato esterno. Giudicato che, altrimenti, avrebbe impedito il più ampio margine di esercizio dei compiti che il X.X. x. 00 del 1941, art. 65 assegna a questa Corte Suprema. Dunque, la vitalità dello spazio così interamente conser- vato alla funzione nomofilattica consente di esercitare quest’ultima in modo armonico rispetto alla sua specifica vocazione di costituire in precedente orientativo il prin- cipio di diritto che si andrà ad enunciare.
13. - Il delineato contesto induce il Collegio a privilegiare un’impostazione di metodo che fa muovere l’ermeneusi dall’analisi di una complessità già risolta sul piano del diritto positivo di più recente conio - seppure esso si collochi in un momento successivo ai fatti generatori della controversia in esame -, per poi trarne un risultato capace, insieme ad altri elementi convergenti, di alimen- tare l’argomentazione giuridica sino a condurla nel porto della regula (o delle regulae) iuris da somministrare anche nel presente caso concreto.
13.1. - L’intervento del legislatore nazionale innanzi illustrato (p. 10), in sostanziale consonanza con la
regolamentazione di settore presente in altri ordinamenti di comune cultura giuridica, illumina il “fenomeno” delle clausole claims made (complessivamente inteso, nelle varie formulazioni in cui si manifesta) con una luce retrospettiva, che ne consente una lettura disancorata dal mero dato diacronico costituito dal momento di emanazione delle disposizioni dettate dalla fonte formale di rango primario (L. n. 24 del 2017, art. 11; D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 2011 e novellato dalla L. n. 124 del 2017, art. 1, comma 26) o da quella espressamente abi- litata a normare (D.M. 22 settembre 2016, art. 2), giac- ché il diritto legislativo (o di immediata derivazione) ha recuperato nel substrato della realtà materiale socio- economica una regolamentazione giuridica pattizia già diffusa nel settore assicurativo.
La legge, dunque, nell’imporre l’adozione di “idonea” assicurazione per la responsabilità civile sanitaria e dei professionisti in genere, ha individuato, tra le coordinate di base, inderogabili in pejus, della disciplina del relativo contratto, il modello della clausola claims made, seppure con le modulazioni e le varianti di cui innanzi si è detto. Nel porsi, dunque, sul piano astratto della standardizza- zione del contenuto contrattuale di ciò che, espressa- mente, è qualificata come assicurazione della responsabilità civile e, quindi, riannodandosi alla fatti- specie di cui all’art. 1917 c.c., che, a sua volta, è modello innestato nel corpo del tipo dell’assicurazione contro i danni (artt. 1882, 1904 e 1918 c.c.), il legislatore ha in tal modo evidenziato che, nello spazio concesso dalla dero- gabilità (art. 1932 c.c.) del sotto-tipo delineato dal primo comma del citato art. 1917 (ossia dello schema improntato al loss occurence o all’act committed), ben si colloca, e non da ora soltanto, il modello claims made, da accettarsi, dunque, nell’area della tipicità legale e di quella stessa del codice del 1942, nel suo più ampio delinearsi come assi- curazione contro i danni, rifluendo nell’alveo proprio dell’esercizio dell’attività assicurativa (secondo il combi- nato disposto del D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 2, comma 3, nn. 13 e 11, comma 2 e art. 11).
E ciò, ovviamente, è conclusione che si fa apprezzare non solo in riferimento al settore sanitario e delle professioni, ma in linea più generale, perché quella standardizzazione attiene anzitutto al meccanismo di base di operatività della claims made, comune, dunque, agli altri campi di elezione in cui detto modello si trova ad essere praticato, in quanto aggregati, e giustificati, dalla medesima logica assicurativa, ossia quella della copertura dai rischi per danni da eziologia incerta e/o caratterizzati da una lungolatenza.
14. - La chiave interpretativa fornita dal diritto positivo vigente non solo consente una lettura, di per sé, conclu- dente del “fenomeno” in esame, ma, al tempo stesso, esalta ulteriori virtualità ermeneutiche, già sperimentabili nel contesto soltanto codicistico e in nuce presenti nella stessa sentenza n. 9140 del 2016 di queste Sezioni Unite, ma, in parte, predicate anche dall’ordinanza interlocutoria n. 1465 del 2018.
14.1. - Non si dubita, infatti, che nell’assicurazione contro i danni (art. 1882 c.c.) la garanzia riguardi il danno
“prodotto da un sinistro” e che, quest’ultimo, alla stregua del linguaggio giuridico fatto proprio dal “diritto vivente” (a prescindere, quindi, dalla anfibologia del linguaggio della prassi assicurativa), è da ravvisarsi nel fatto, mate- riale e storico (o come, si esprime l’art. 1917 c.c. il “fatto accaduto”), idoneo a provocare il danno.
Tuttavia, proprio perché il danno rappresenta l’ubi consi- stam dell’interesse dell’assicurato a stipulare il contratto, altrimenti nullo in assenza di esso (richiamando l’art. 1904 c.c., per l’appunto, l’interesse al “risarcimento del danno” e venendo, dunque, a configurare la c.d. “causa indenni- taria” del tipo assicurativo in esame), occorre centrare l’attenzione proprio su quest’ultimo fattore, che integra il rischio assicurabile, la cui incertezza deve permanere intatta sino al momento di inizio dell’assicurazione, come incertezza - nel caso della assicurazione della respon- sabilità civile - sull’impoverimento del patrimonio del danneggiante-assicurato, quale conseguenza del relativo fatto generatore (ossia il sinistro).
Ciò che, del resto, segna anche la diversa portata che il binomio sinistro/danno assume nell’assicurazione contro i danni per la perdita o il danneggiamento di cose rispetto a quella che garantisce il patrimonio dalla responsabilità civile, là dove solo nel primo caso detto binomio palesa una inscindibilità, intrinseca, tra i due termini, essendo proprio e soltanto l’evento a determinare il danno da cui scatta l’obbligo di indennizzo.
14.2. - In questa prospettiva è da assumersi l’approdo nomofilattico della citata sentenza n. 9140 del 2016 sulla assicurabilità dei rischi pregressi, là dove si pone in risalto, segnatamente, che “il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza si con- cretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifesta- zione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento”. Sicché, la liceità della claims made con “garanzia pregressa” si apprezza “perché afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avvera- mento progressivo degli altri elementi costitutivi dell’impo- verimento patrimoniale del danneggiante-assicurato”.
14.3. - Ove, poi, si riconduca ancora nell’area del concetto di rischio assicurabile l’argomentazione giuridica, le con- clusioni anzidette trovano ulteriore conforto in quel suc- cessivo passaggio della sentenza in cui la clausola claims made (seppure con uno sguardo incentrato su quella “impura”, ma in base ad assunti già spesi in linea più generale) è vista in termini di delimitazione dell’oggetto del contratto (con conseguente esclusione, quindi, della natura vessatoria della clausola ai sensi dell’art. 1341 c.c., in quanto non limitativa della responsabilità: approdo, questo, di un’interpretazione nomofilattica che va anche qui ribadito), correlandosi l’insorgenza dell’indennizzo, e specularmente dell’obbligo di manleva, alla combinata ricorrenza della condotta del danneggiante (la vicenda storica determinativa delle “conseguenze patrimoniali” di
cui “l’assicurato intende traslare il rischio”: cioè, del
“danno”) e della richiesta del danneggiato.
14.4. - Se così è, l’ambito delineato risulta allora consen- taneo ad una deroga convenzionale, abilitata dall’art. 1932 c.c., alla disciplina del modello di assicurazione della responsabilità civile (o sotto-tipo) di cui all’art. 1917 c.c., comma 1 senza che ciò comporti una deviazione strutturale della fattispecie negoziale tale da estraniarla dal tipo, nel contesto del più ampio genus dell’assicura- zione contro i danni (art. 1904 c.c.), della cui causa indennitaria la clausola claims made è pienamente partecipe.
14.5. - La già ricordata scelta legislativa di questi ultimi tempi lo conferma, avendo portato ad emersione quella circolarità tra impianto codicistico e micro-sistema spe- ciale che, nella evidenziata saldatura tra i due ambiti, esprime una forza ordinante particolarmente efficace, consentendo anche una simbiosi di categorie e rimedi.
15. - La prima conseguenza di un tale esito ermeneutico è quella del superamento di un giudizio improntato alla logica propria della “meritevolezza”, siccome ancorata al presupposto della atipicità contrattuale (art. 1322 c.c., comma 2) e, quindi, frutto di una autonomia privata che, in quel determinato e peculiare esercizio, sebbene abbia già trovato riconoscimento nella realtà socio-eco- nomica, non ancora rinviene il proprio referente nel “tipo” prefigurato dalla legge.
Là dove, poi, quest’ultima, la legge, non può evidente- mente soggiacere, in quanto tale, al test anzidetto, bensì solo ad una verifica (ove ritenuta rilevante e con un fumus di consistenza) di rispondenza ai parametri recati dalla sua fonte di validazione, ossia quelli costituzionali.
16. - Xxxxxx, però, vivo e vitale il test su come la libera determinazione del contenuto contrattuale, tramite la scelta del modello claims made, rispetti, anzitutto, i “limiti imposti dalla legge”, che il primo comma dell’art. 1322 c.c. postula per ogni intervento conformativo sul contratto inerente al tipo, in ragione del suo farsi concreto regola- mento dell’assetto di interessi perseguiti dai paciscenti, secondo quella che suole definirsi “causa in concreto” del negozio.
Ed è un test che non prescinde, però, dalla stessa tensione ispiratrice dello scrutinio di meritevolezza di cui al capo- verso del citato art. 1322 c.c. e che guarda - come questa Corte ha in più di un’occasione evidenziato (tra le altre, Cass., 1 aprile 2011, n. 7557; Cass., 10 novembre 0000,
x. 00000; Cass., S.U., 17 febbraio 2017, n. 4224) - alla complessità dell’ordinamento giuridico, da assumersi attraverso lo spettro delle norme costituzionali, in sinergia con quelle sovranazionali (nel loro porsi come vincolo cogente: art. 117 Cost., comma 1) e segnatamente delle Carte dei diritti, le quali norme non imprimono all’auto- nomia privata una specifica ed estraniante funzionalizza- zione, bensì ne favoriscono l’esercizio, ma non già in conflitto con la dignità della persona e l’utilità sociale (artt. 2 e 41 Cost.), operando, dunque, in una prospettiva promozionale e di tutela.
17. - In tale contesto, quindi, si rende opportuna un’inda- gine a più ampio spettro, che non si arresti alla sola
conformazione genetica del contratto assicurativo, ma ne investa anche il momento precedente alla sua conclusione e quello relativo all’attuazione del rapporto.
Si tratta, del resto, di un territorio esplorato anche dalla menzionata sentenza n. 9140 del 2016 di queste Sezioni Unite, che, sebbene proprio nell’ottica del giudizio di meritevolezza dell’esercizio dell’autonomia privata, ha, comunque, messo in risalto varie criticità come l’asimme- tria della posizione delle parti ovvero, per certi rapporti, l’operatività di un meccanismo penalizzante all’esordio e allo scadere della garanzia contrattuale, tale da determi- nare “buchi di copertura” assicurativa -, le quali non evaporano per il solo fatto che quel giudizio più non si imponga come tale.
18. - Sul piano della fase prodromica alla conclusione del contratto secondo il modello della claims made, gli obbli- ghi informativi sul relativo contenuto devono essere assolti dall’impresa assicurativa o dai suoi intermediari in modo trasparente e mirato alla tutela effettiva dell’altro contraente, nell’ottica di far conseguire all’assicurato una copertura assicurativa il più possibile aderente alle sue esigenze.
E tanto si imponeva (Cass., 24 aprile 2015, n. 8412) ben prima della posizione delle regole specificamente dettate dalle disposizioni del codice delle assicurazioni private di cui al D.Lgs. n. 209 del 2005 (tra le altre, artt. 120, 166, 183-187), essendo già scolpita nel sistema più generale la necessità che, nella fase precontrattuale, il contatto tra le parti, in quanto qualificato dall’affidamento reciproco e dallo scopo perseguito, sia improntato, alla stregua del formante normativo di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e art. 2 Cost., al rispetto degli obblighi di buona fede, di protezione e di informazione (Cass., 12 luglio 2016,
n. 14188), che, nella specie (e, segnatamente, quelli informativi), devono tendere alla trasparenza ottimale dei contenuti negoziali predisposti, così da consentire alla controparte di rappresentarsi al meglio portata e convenienza degli effetti contrattuali.
18.1. - La violazione di tali obblighi nella fase precontrat- tuale (artt. 1337 e 1338 c.c.) potrà assumere rilievo anche in ipotesi di contratto validamente concluso, allorquando si accerti che la parte onerata abbia omesso, nella fase delle trattative, informazioni rilevanti che avrebbero altri- menti, con un giudizio probabilistico, indotto ad una diversa conformazione del contratto stesso (Cass., 23 marzo 2016, n. 5762). Tanto a prescindere dalla eventualità stessa che la condotta scorretta abbia potuto dar luogo ad un vizio del consenso (art. 1427 c.c.), con tutte le relative conseguenze anche in termini di annullabilità del contratto ovvero di ristoro dei danni nell’ipotesi di dolo incidente (art. 1440 c.c.). Sicché, il rimedio risarcitorio al quale potrà aspirare il contraente pregiudicato (nell’ottica, che va ribadita, della separazione tra regole di condotta, che attengono alla dinamica del rapporto, e regole di validità o di struttura, come delineata da Cass., sez. un., 19 dicembre 2007,
n. 26724 e ripresa anche dalla citata sentenza n. 9140 del 2016) dovrà essere in grado di far conseguire ad esso un effettivo ristoro del danno patito, commisurabile all’entità
delle utilità che avrebbe potuto ottenere in base al con- tratto correttamente concluso.
19. - La stipulazione del contratto di assicurazione della responsabilità civile “on claims made basis” introduce, poi, l’indagine sul contenuto negoziale.
19.1. - Sotto questo profilo, non può escludersi, anzitutto, che, all’esito dell’interpretazione rimessa al giudice del merito e da condursi secondo i criteri legali (tra cui quello del comportamento delle parti che precede la genesi del vincolo contrattuale: art. 1362 c.c., comma 2), si possa giungere a riconoscere un’implementazione del regola- mento negoziale ad opera di quelle prestazioni oggetto di informativa precontrattuale, inclini a modulare un adeguato assetto degli interessi dell’operazione econo- mica, che non abbiano poi trovato puntuale e congruente riscontro nel contratto assicurativo concluso.
19.2. - E l’ottica di adeguatezza del contratto agli interessi in concreto avuti di mira dai paciscenti è proprio quella che costituisce il fulcro dell’indagine in esame, che vei- cola, per l’appunto, una verifica di idoneità del regola- mento effettivamente pattuito rispetto all’anzidetto obiettivo.
Verifica che transita attraverso la portata che assume la
c.d. “causa concreta” del contratto, ossia quella che ne rappresenta lo scopo pratico, la sintesi, cioè, degli interessi che lo stesso negozio è concretamente diretto a realizzare, quale funzione individuale della singola e specifica nego- ziazione, al di là del modello astratto utilizzato (per tutte, Cass., 8 maggio 2006, n. 10490).
19.3. - È evidente che si tratta di una verifica condizionata dalle circostanze del caso concreto, ma essa trova già su un piano di generica astrazione le proprie coordinate, sele- zionate, a loro volta, dalla diversità della tipologia dei rapporti assicurativi, rispetto ai quali la risposta in termini di tutela non potrà che essere diversificata. Con la precisazione, che sin d’ora si rende opportuna, che - come ricordato dalla sentenza n. 9140 del 2016 - rimane soltanto residuale la possibilità di avvalersi della tutela consumeristica somministrata dal D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36 (in ragione del “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” presidiato da una nullità di protezione), giacché riservata alle persone fisi- che che concludono un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività impren- ditoriale o professionale eventualmente esercitata (tra le molte, Cass., 23 settembre 2013, n. 21763; Cass., 12 marzo 2014, n. 5705), ossia ai settori cui, in modo quasi assor- bente, il mercato assicurativo “claims made” è rivolto.
19.4. - Sicché, ove venga in rilievo l’assicurazione della responsabilità civile sanitaria e dei professionisti, la legge (speciale) come si è evidenziato nel precedente p. 10 - ne detta ora, in regime di obbligatorietà, le coordinate di base, inderogabili in pejus, individuando in esse non solo il substrato del modello negoziale “meritevole”, ma, con ciò, la stessa “idoneità” del prodotto assicurativo a salva- guardare gli interessi che entrano nel contratto, ai quali non è estraneo quello, di natura superindividuale, di una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito, che sarebbe frustrata ove il terzo danneggiato non potesse
essere risarcito del pregiudizio patito a motivo dell’inca- pienza patrimoniale del danneggiante, siccome, quest’ul- timo, privo di “idonea” assicurazione.
n tal prospettiva, la disciplina legislativa si colloca ancora sul piano astratto della standardizzazione del contenuto contrattuale che salvaguardia la garanzia minima per evitare i c.d. “buchi di copertura”, là dove, però, come del resto impone lo stesso codice delle assi- curazioni - tramite il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 183, comma 2, che è norma comunque ricognitiva di un obbligo già inscritto nel principio più generale della condotta improntata a buona fede e correttezza -, il prodotto assicurativo offerto deve comunque adeguarsi alle esigenze dell’assicurato.
Sicché rimane intatta, per l’appunto, l’indagine sulla causa concreta del contratto, che spazia dalla verifica di sussi- stenza stessa (ossia della adeguatezza rispetto agli interessi coinvolti) a quella di liceità (intesa come lesione di interessi delle parti tutelati dall’ordinamento).
19.5. - In quest’ottica, l’analisi dell’assetto sinallagmatico del contratto assicurativo rappresenta un veicolo utile per apprezzare se, effettivamente, ne sia realizzata la funzione pratica, quale assicurazione adeguata allo scopo (tale da superare le criticità innanzi ricordate: p. 17), là dove l’emersione di un disequilibrio palese di detto assetto si presta ad essere interpretato come sintomo di carenza della causa in concreto dell’operazione economica.
Ciò in quanto, come già affermato da questa Corte, la determinazione del premio di polizza assume valore deter- minante ai fini dell’individuazione del tipo e del limite del rischio assicurato, onde possa reputarsi in concreto rispet- tato l’equilibrio sinallagmatico tra le reciproche presta- zioni (Cass., 30 aprile 2010, n. 10596; ma, in forza di analoga prospettiva, anche Xxxx., S.U., 28 febbraio 2007, n. 4631).
Non è, dunque, questione di garantire, e sindacare perciò, l’equilibrio economico delle prestazioni, che è profilo rimesso esclusivamente all’autonomia contrattuale, ma occorre indagare, con la lente del principio di buona fede contrattuale, se lo scopo pratico del regolamento negoziale “on claims made basis” presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, giac- ché, nel contratto di assicurazioni contro i danni, la corrispettività si fonda in base ad una relazione oggettiva e coerente con il rischio assicurato, attraverso criteri di calcolo attuariale.
Del resto, una significativa chiave interpretativa in tal senso è fornita dal considerando n. 19 della direttiva 93/ 13/CEE, che, sebbene abbia riguardo specificamente alla tutela del consumatore, esprime, tuttavia, un principio di carattere più generale, che trae linfa proprio dall’anzidetta relazione oggettiva rischio/premio, sterilizzando la valu- tazione di abusività della clausola di delimitazione del rischio assicurativo e dell’impegno dell’assicuratore “qua- lora i limiti in questione siano presi in considerazione nel calcolo del premio pagato dal consumatore”.
19.6. - Il regolamento contrattuale dovrà, quindi, modu- larsi, nell’assicurazione della responsabilità professionale, anzitutto in ragione della disciplina legale di base, che
esprime un carattere imperativo, per essere non solo inde- rogabile in pejus, ma posta a tutela di interessi anche di natura pubblicistica, ossia la tutela del terzo danneggiato, che disvela il valore sociale dell’assicurazione.
Ne deriva che lo iato tra il primo e la seconda (per aver la stipulazione ignorato e/o violato quanto dalla legge dispo- sto, come esito al quale può approdarsi alla luce, soprat- tutto (ma non solo), dell’indagine sull’equilibrio sinallagmatico anzidetto) comporterà la nullità del con- tratto, ai sensi dell’art. 1418 c.c.
A tanto il giudice potrà porre rimedio, per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (Cass., S.U.,
n. 9140 del 2016, citata), in forza della norma di cui all’art. 1419 c.c., comma 2 così da integrare lo statuto negoziale (non già tramite il modello della c.d. loss occurence di cui all’art. 1917 c.c., comma 1, bensì) attingendo quanto necessario per ripristinare in modo coerente l’equilibrio dell’assetto vulnerato dalle indica- zioni reperibili dalla stessa regolamentazione legislativa. Regolamentazione che, per la sua imperatività, viene a somministrare delle “regole di struttura”, siccome orien- tate a rendere il contratto idoneo allo scopo, tenuto conto anzitutto delle esigenze dell’assicurato, oltre che delle ricordate istanze sociali.
Con la precisazione che la stessa legge di settore presenta, come si è visto, multiformi calibrature, modellando l’assi- curazione “claims made” secondo varianti peculiari (ad es., la deeming clause e/o la sunset clause) anche tra loro interagenti, così da mostrare una significativa elasticità di adattamento rispetto alla concretezza degli interessi da soddisfare.
19.7. - Nondimeno, l’obbligo di adeguatezza del contratto assicurativo, come detto (con il richiamo alla citata Xxxx.
n. 8412 del 2015) già presente nell’ordinamento in forza del principio di buona fede e correttezza (art. 1375 c.c. e art. 2 Cost.) prima ancora che fosse esplicitato dalla legislazione speciale (il D.Lgs. n. 209 del 2005, citato art. 183, comma 2), consente, fin dove reso possibile dall’operare coerente del meccanismo della nullità par- ziale ex art. 1419 c.c., comma 2, l’osmosi dei rimedi innanzi illustrati anche nel contesto di rapporti assicurativi sorti prima dell’affermarsi del regime di obbligatorietà dell’as- sicurazione della responsabilità civile professionale.
19.8. - Del pari, la giuridica esigenza che il contratto assicurativo sia adeguato allo scopo pratico perseguito dai paciscenti (secondo quanto messo in risalto nei p.p. che precedono) sarà criterio guida nell’interpretazione della stipulazione intercorsa al fine di garantire l’assicurato dalla responsabilità civile anche in settori diversi da quello sanitario o professionale e, segnatamente, in quelli che postulano l’esigenza di una copertura dai rischi per danni da eziologia incerta e/o caratterizzati da una lungolatenza.
20. - Quanto, infine, alla fase dinamica del rapporto assicurativo “on claims made basis”, si colloca su un piano di assoluta criticità come del resto fatto palese, in guisa di ricognizione della prassi esistente, dalla normativa di settore innanzi richiamata (p. 10) - la clausola che attribuisce all’assicuratore la facoltà di recesso dal
contratto al verificarsi del sinistro compreso nei rischi assicurati, la cui abusività si rivela tale in ragione della frustrazione dell’alea del contratto, che si viene a parame- trare sul termine ultimo di durata della copertura assicu- rativa, rispetto alla quale i premi stessi sono calcolati e corrisposti.
Di qui, il vulnus destrutturante la funzionalità del con- tratto, non emendabile con la liberazione dell’assicurato dal versamento della parte dei premi residui.
21. - Può, dunque, enunciarsi il seguente principio di diritto:
“Il modello dell’assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, che è volto ad indennizzare il rischio dell’impoverimento del patrimo- nio dell’assicurato pur sempre a seguito di un sinistro, inteso come accadimento materiale, è partecipe del tipo dell’assicurazione contro i danni, quale deroga consentita all’art. 1917 c.c., comma 1 non incidendo sulla funzione assicurativa il meccanismo di operatività della polizza legato alla richiesta risarcitoria del terzo danneggiato comunicata all’assicuratore. Ne consegue che, rispetto al singolo contratto di assicurazione, non si impone un test di meritevolezza degli interessi perseguiti dalle parti, ai sensi dell’art. 1322 c.c., comma 2, ma la tutela invo- cabile dal contraente assicurato può investire, in termini di effettività, diversi piani, dalla fase che precede la conclusione del contratto sino a quella dell’attuazione del rapporto, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili implicati, ossia (esemplificando): responsabilità risarcitoria precontrattuale anche nel caso di contratto concluso a condizioni svantaggiose; nullità, anche par- ziale, del contratto per difetto di causa in concreto, con conformazione secondo le congruenti indicazioni di legge o, comunque, secondo il principio dell’adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti; conformazione del rapporto in caso di clausola abusiva (come quella di recesso in caso di denun- cia di sinistro)”.
22. - Nel caso all’esame, i motivi di ricorso (dal primo al quarto) sono calibrati a denunciare profili di invalidità o inefficacia dei contratti di assicurazione per la responsa- bilità civile “on claims made basis” di tipo c.d. “puro”, stipulati dalla Xxxxxxxxx s.r.l. con la RAS S.p.A. (n. (OMISSIS) con validità dal 1 gennaio 2001 al 31 dicembre 2002 e n. (omissis) con validità dal 1 gennaio 2003 al 1 gennaio 2004), nell’ottica, eminentemente, della atipicità del modello assicurativo anzidetto. Tuttavia, essi (più marcatamente nel primo e terzo motivo) intercettano e censurano aspetti di criticità della concreta operazione economica, che non sfuggono ad uno scrutinio orientato secondo le coordinate del principio di diritto poc’anzi enunciato.
In tale prospettiva si prestano ad essere particolarmente valorizzate, nella sostanza, le doglianze dirette a stigmatiz- zare l’astrattezza del giudiziodella Corte territoriale, operato sul filo del sillogismo che connette atipicità della clausola claims made “pura” e sua validazione ordinamentale, senza
scendere nel concreto della peculiare vicenda contrattuale dedotta in giudizio.
22.1. - Nella sentenza impugnata in questa sede si rende evidente (pp. 22 e 23), all’esito del percorso interpretativo compiuto dal giudice di appello sul contenuto delle polizze stipulate inter partes, come la definizione generale di sini- stro (“prodotti”) ivi contemplata sia solo riassuntiva del meccanismo operativo della claims made “pura”, giacché il sinistro è individuato nel fatto che genera il danno, mentre il claim del danneggiato opera come delimitazione temporale dell’operatività della polizza, in tal modo sele- zionando anche l’applicazione della relativa franchigia in rapporto ad ogni “sinistro”.
In definitiva, la Corte territoriale, nell’affermare la “sostanziale identificazione tra sinistro e richiesta”, ha espresso una valutazione di sintesi circa l’equiparazione richiesta/sinistro, in quanto direttamente funzionale al momento di operatività della polizza, la quale definisce l’oggetto dell’assicurazione pur sempre in ragione del danno determinato da un fatto accidentale verificatosi in relazioni ai rischi assicurati.
22.2. - Pur muovendo, dunque, da un presupposto inter- pretativo plausibile e in parte armonico rispetto a talune coordinate generali dianzi tracciate, anche per ciò che attiene alla esclusione della natura vessatoria delle clau- sole claims made, in sintonia con quanto sopra messo in evidenza nel p. 14.3., la Corte di merito ha però esaurito in ciò la propria valutazione, che, per il resto, è rimasta su un piano di astrattezza, postulando la validità delle polizze nell’ottica, errata, della atipicità del contratto e senza farsi carico della concretezza dell’operazione negoziale, da cor- relare funzionalmente all’assetto di interessi che le polizze stesse avrebbero dovuto realizzare. Una tale prospettiva in iure avrebbe, invece, dovuto guidare il giudice di appello nel considerare, in modo sinergicamente complessivo, l’atteggiarsi della vicenda dedotta in giudizio (ossia, della scansione diacronica tra verificazione del sinistro e richiesta risarcitoria da apprezzarsi nel precipuo contesto storico-ambientale), la sua incidenza sugli obblighi informa- tivi che essa imponeva, la corrispettività tra premio e rischio assicurato - che doveva giustificare ragionevolmente la sen- sibile modificazione dell’importo della franchigia, nel colle- gamento stretto tra la stipulazione della prima e seconda polizza, tale da non ridondare in fenomeno di abuso del diritto -, la presenza, infine, di clausola di recesso in costanza di rapporto.
23. - I motivi, dunque, sono fondati per quanto di ragione, nei termini appena illustrati, e il ricorso deve trovare conseguenziale accoglimento.
La sentenza impugnata, pertanto, va cassata in relazione alle evidenziate ragioni di fondatezza dei motivi di impu- gnazione, con rinvio della causa alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione, che, nella delibazione dell’appello della Xxxxxxxxx s.r.l., si atterrà al principio di diritto sopra enunciato (p. 21).
Il giudice del rinvio provvederà anche alla regolamenta- zione delle spese del giudizio di legittimità.
IL COMMENTO
di Xxx Xxxxxxxxx
A distanza di poco più di due anni le Sezioni Unite, sollecitate dall’ordinanza remittente della III Sezione, si pronunciano su due questioni relative alle clausole claims made, delle quali la seconda è la più rilevante perché riguarda l’ammissibilità stessa delle clausole e il loro controllo giudiziale. Dopo la precedente sentenza sono sopravvenute alcune normative che contemplano e regolano clausole claims made, le quali perciò non possono più definirsi atipiche. Per questa ragione la sentenza in commento sostituisce al controllo giudiziale della meritevolezza della clausola (atipica) il controllo giudiziale sulla adeguatezza del regolamento negoziale agli interessi dei contraenti mediante il criterio della causa in concreto e inoltre amplia l’indagine sulle forme di tutela dell’assicurato anche al profilo precontrattuale e a quello attuativo del rapporto assicurativo.
La clausola claims made nella giurisprudenza di legittimità
La clausola claims made sembra essere divenuta l’om- belico del mondo nella giurisprudenza di legittimità, dal momento che dopo la nota sentenza delle SS.UU.
n. 9140/2016 si sono susseguite, nello spazio di due anni, ben sette provvedimenti della Corte, e preci- samente la sentenza n. 24645/2016, la sentenza n. 417/2017, la sentenza n. 10506/2017, l’ord. n. 27867/2017, l’ord. n. 1465/2018, l’ord. n. 4912/ 2018 e infine la seconda sentenza delle SS.UU.
n. 22437/2018 che qui si commenta.
Mentre le prime due sentenze e l’ord. n. 27967/2017 ricalcavano la linea di pensiero delle Sezioni Unite, cioè quella dello scrutinio di “meritevolezza” della clausola, invece la sentenza 10506/2017 (1) si pro- nunciava in modo molto più drastico e dirompente contro l’ammissibilità in linea di principio della clau- sola, mentre l’ord. 4912/2018 si pronunciava su una particolare fattispecie di successione nel tempo di xxxxxxxx claims made e di clausola loss occurrence (2). A seguito del contrasto insorto tra la sentenza delle Sezioni Unite e la sentenza n. 10506/2017, con l’ord. 1465/2018 la III Sezione della Corte sollecitava un nuovo intervento delle Sezioni Unite, anche con rife- rimento a questioni, di particolare importanza, nuove e diverse rispetto a quelle scrutinate dalle stesse Sezioni Unite con la sentenza n. 9140/2016 (3).
Le questioni rimesse nuovamente alle Sezioni Unite erano le seguenti: (a) se sia lecito all’autonomia privata determinare convenzionalmente il fatto che costituisce il “sinistro” e in particolare, con riferi- mento all’assicurazione della responsabilità civile, determinare convenzionalmente che per “sinistro” s’intende la richiesta di risarcimento rivolta per la prima volta dal danneggiato all’assicurato durante il periodo di efficacia dell’assicurazione, in luogo del “fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione” di cui l’assicurato debba rispondere (art. 1917, comma 1, c.c.); (b) se nell’assicurazione della respon- sabilità civile sia meritevole di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. la clausola che stabilisca che la spettanza, la misura ed i limiti dell’indennizzo si determinino non già in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui l’assicurato ha causato il danno, ma in base alle condizioni contrattuali vigenti al momento in cui il terzo danneggiato ha chiesto all’assicurato di essere risarcito.
La sentenza in commento, con l’occasione, conferma espressamente o implicitamente due principi già affermati dalla precedente sentenza delle Sezioni Unite, e cioè che la clausola claims made non richiede la specifica approvazione scritta ex art. 1341 c.c. in quanto clausola che precisa l’oggetto del contratto, e che la retroattività della copertura assicurativa sta- bilita eventualmente dalla clausola per fatti dannosi accaduti prima della sua efficacia non elimina l’alea
(1) Cass. 28 aprile 2017, n. 10506, in questa Rivista, 2017, 383, con mia nota Xxxxxxxxxx claims made elesuealternevicendenella giurisprudenza di legittimità, nonché in Danno e resp., 2017, 441 ss., con note di Xxxxxxxx - Pardolesi, Claimsmade, “codelunghe” e ostracismi giudiziali, di Monticelli, Il giudizio di immeritevolezza della claims made agli albori della tipizzazione della clausola, di Xxxxxxxxx, Polizze a regime claims made: quando il diverso ha difficoltà ad integrarsi, e di Greco, La clausola claims made tra vessatorietà e meritevolezza in concreto. L’erosione dell’autono- mia contrattuale nell’interpretazione della giurisprudenza.
(2) Ord. 2 marzo 2018, n. 4912, in questa Rivista, 2018, 261, con nota di Xxxxxxxx, “No contract is a island”: nuovi spunti in tema di claims made (attendendo le Sezioni Unite).
(3) Ord. 19 gennaio 2018, n. 1465, in Foro it., 2018, I, 452. Al riguardo cfr. Xxxxxxx, Xxxxxxxx, danno e rischio nell’assicurazione della responsabilità civile, in Resp. civ. prev., 2018, 901 ss.; Miotto, Anche per le claims made “gli esami non finiscono mai”
..., ivi, 2018, 910 ss.
che è elemento essenziale del contratto di assicura- zione, qualora l’assicurato non sia a conoscenza dei fatti medesimi.
Le brevi note che seguono costituiscono un com- mento alla sentenza delle Sezioni Unite e non inten- dono riprendere in esame, ancora una volta, l’ormai nota questione delle clausole claims made.
La determinazione convenzionale del fatto che costituisce il “sinistro”
Secondo l’ordinanza remittente l’avveramento del rischio assicurato, cioè il rischio in concreto, consiste nella causazione da parte dell’assicurato di un danno a terzi di cui egli debba rispondere, e pertanto le parti non avrebbero la facoltà di definire “sinistro” un evento diverso quale è la richiesta risarcitoria rivolta dal danneggiato all’assicurato, dalla quale non sorge alcuna obbligazione risarcitoria.
Osservano in contrario le Sezioni Unite che, mentre il binomio sinistro/danno palesa una inscindibilità intrinseca nell’assicurazione contro i danni per la perdita o danneggiamento di cose essendo proprio e soltanto l’evento a determinare il danno da cui scatta l’obbligo di indennizzo, invece nell’assicurazione della responsabilità civile l’indennizzo e correlativa- mente l’obbligo di manleva presuppongono la com- binata ricorrenza della condotta del danneggiante (fatto dannoso) e della manifestata volontà del dan- neggiato di esercitare il diritto al risarcimento (4). Di conseguenza - conclude la Corte - la deroga conven- zionale al modello di cui al primo comma dell’art. 1917 c.c. non comporta una deviazione strutturale della fattispecie negoziale dal tipo (o sottotipo che dir si voglia) “assicurazione della responsabilità civile”. A parere di chi scrive la definizione convenzionale di “sinistro” nei termini di cui sopra ha sollevato un falso problema e non pone una questione ulteriore rispetto a quella, di fondo, dell’ammissibilità delle clausole claims made. È infatti ovvio che la richiesta del dan- neggiato, che deve pervenire per la prima volta all’assicurato entro il periodo di efficacia dell’assicu- razione, non sarà certamente una richiesta “nuda”, ma sarà una richiesta documentata con il preciso richiamo al fatto dannoso la cui causazione viene imputata all’assicurato e alle conseguenze dannose che ne sono derivate. Ne consegue, a ben vedere, che la clausola contrattuale con la quale si definisce
“sinistro” assicurato la richiesta di risarcimento danni per i quali è prestata l’assicurazione non rap- presenta altro che una variante lessicale del comune testo di clausola claims made, in cui si dispone sem- plicemente che la garanzia assicurativa vale per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’assicurato durante il periodo di efficacia dell’assi- curazione (salve le varianti che contemplano una retroattività della copertura assicurativa a fatti dan- nosi avvenuti prima della stipulazione della polizza, ovvero una copertura postuma per le richieste perve- nute all’assicurato dopo la scadenza della polizza ma riferite a fatti dannosi avvenuti durante la vigenza di essa). Pertanto si ritorna al problema di fondo del- l’ammissibilità della clausola claims made.
Gli interventi del legislatore in tema di clausole claims made
Rispetto alle precedenti pronunce della Corte un’im- portante novità è rappresentata dal fatto che la clau- sola claims made ha trovato un sia pur settoriale riconoscimento a livello normativo (subprimario e regolamentare), sicché essa non può più definirsi atipica.
La sentenza dedica ampio spazio a queste normative, che la sentenza definisce con una certa enfasi come “micro-sistema speciale”, ma esse non possono essere sopravvalutate se viste nella più ampia prospettiva di una tutela dell’assicurato nei confronti della clausola claims made, e questo a causa del loro limitato ambito applicativo.
È invero improprio affermare che il legislatore nazio- nale sarebbe intervenuto “in sostanziale consonanza con la regolamentazione di settore presente in altri ordinamenti di comune cultura giuridica”. E a tale proposito la sentenza riferisce sinteticamente in merito all’ordinamento francese, spagnolo e belga. In realtà, non vi è una “sostanziale consonanza” con la regolamentazione presente negli ordinamenti richiamati dalla sentenza.
Nel nostro ordinamento le norme relative alla clau- sola claims made riguardano solo i settori della sanità (che è quello maggiormente interessato dai danni lungolatenti) e delle professioni regolamentate. Infatti l’art. 11 della L. n. 24/2017 contiene una norma imperativa tale da sostituirsi automatica- mente alla divergente clausola contrattuale ai sensi
(4) La sentenza in commento ritrascrive, con adesione, il passo della precedente sentenza n. 9140/2016 in cui si osserva che “il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipen- denza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla
polizza si concretizza progressivamente, perché esso non si esau- risce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causal- mente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento”.
dell’art. 1419, comma 2, c.c. Per quanto concerne le professioni regolamentate, l’originario testo dell’art. 3, comma 5, lett. e), D.L. n. 138/2011 conv. in
L. n. 148/2011 si limitava a richiedere al professioni- sta la stipulazione di “idonea garanzia” a tutela del cliente; con L. n. 124/2017 la norma suddetta è stata novellata, ma la novella, pur facendo implicito rife- rimento alle clausole claims made, non contiene norme imperative a tutela dell’assicurato ed anzi dichiara per ben due volte che rimane salva la libertà contrattuale delle parti (5). L’art. 12 delle L. n. 247/ 2012 ha introdotto per gli avvocati l’obbligo di sti- pulare polizza assicurativa a copertura della respon- sabilità civile derivante dall’esercizio della professione e ha demandato ad un decreto del Mini- stero della Giustizia lo stabilire e l’aggiornare le condizioni essenziali e i massimali minimi delle polizze; a questo riguardo è stato emanato il D.M. 22 settembre 2016, che stabilisce i contenuti essen- ziali della clausola claims made e che, in virtù del rinvio della legge formale, ha idoneità ad integrare il regolamento negoziale ex art. 1339 c.c.
Di contro, nei tre ordinamenti richiamati dalla sen- tenza le norme relative alla clausola claims made sono state inserite nella generale normativa sulle assicu- razioni private e hanno quindi un ambito di applica- zione che riguarda tutti i soggetti economici che stipulano polizze per la copertura della responsabilità civile. Anche nei Principles of European Insurance Contract l’art. 14:107 relativo alla clausola claims made si applica ai contratti di assicurazione stipulati da qualunque soggetto economico (imprenditore o professionista). Il più ampio ambito di applicazione delle normative straniere sopra citate non è un detta- glio, ma ha importanti ricadute sostanziali, perché le norme imperative in esse contenute a tutela degli assicurati riguardanti la clausola claims made si appli- xxxx a tutti i contratti di assicurazione e non solo a quello di settore, come da noi. È allora interessante rilevare che nel diritto francese e in quello belga è stata eliminata, in via generale, quella che è la mag- giore criticità delle clausole in esame, e cioè la possi- bilità che il fatto dannoso sia compiuto in prossimità
della scadenza della polizza e di conseguenza la richie- sta di risarcimento pervenga all’assicurato dopo la scadenza della polizza stessa, sollevando una que- stione di equilibrio di corrispettività tra premio e copertura assicurativa (particolarmente evidente laddove la clausola non offra una copertura retroat- tiva oppure l’assicurando sia un “esordiente” non interessato alla retroattività della copertura). Infatti nel diritto francese è stabilito che la richiesta di risarcimento può essere fatta all’assicurato in un periodo successivo alla scadenza della polizza non inferiore a cinque anni, fermo restando che il fatto dannoso deve essersi verificato nel periodo di vigenza della polizza; analogamente nel diritto belga la richie- sta di risarcimento può essere fatta all’assicurato nei tre anni successivi alla scadenza della polizza; nei Principles citati il claim del danneggiato può pervenire all’assicurato nei cinque anni successivi alla scadenza della polizza per fatti dannosi accaduti nel periodo di vigenza della polizza stessa (6).
Il controllo giudiziale sulla clausola claims made. La “griglia” delle forme di controllo secondo le Sezioni Unite
La quantunque settoriale tipizzazione della clausola claims made conduce la sentenza, da un lato, a supe- rare l’applicazione del criterio della “meritevolezza” ancorato al presupposto della atipicità contrattuale di cui all’art. 1322, comma 2, c.c. D’altro lato, la sen- tenza sottolinea che la clausola deroga al modello rappresentato dal primo comma dell’art. 1917 e afferma che ogni intervento conformativo sul con- tratto inerente al tipo sollecita un test sul rispetto dei “limiti imposti dalla legge” (art. 1322, comma 1, c.c.) nella determinazione del concreto regolamento degli interessi perseguiti dai paciscenti secondo quella che suole essere definita la “causa in concreto” del nego- zio. Sostanzialmente sulla stessa linea di pensiero la precedente sentenza aveva osservato, sia pure con riferimento al criterio della meritevolezza, che “si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paci- scenti possono spingersi nella riconosciuta loro
(5) La novella recita: “Le condizioni generali delle polizze assi- curative di cui al presente comma possono essere negoziate, in convenzione con i propri iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti. In ogni caso, fatta salva la libertà contrattuale delle parti, le condizioni generali delle polizze assicu- rative di cui al periodo precedente prevedono l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarci- mento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura. La disposizione di cui al periodo precedente si applica, altresì, alle polizze assicurative in
corso di validità alla data di entrata in vigore della presente dispo- sizione. A tal fine, a richiesta del contraente e ferma la libertà contrattuale, le compagnie assicurative propongono la rinegozia- zione del contratto al richiedente secondo le nuove condizioni di premio”.
(6) Per riferimenti ad ordinamenti stranieri cfr. Fornasari, In attesa delle Sezioni Unite: brevi note circa la disciplina della clausola claims made in Francia e in Germania, in Resp. civ. prev., 2018, 723 ss.; Xxxx, Le clausole claims made nell’assicurazione della responsabilità civile, tra resistenze giudiziali e coperture obbligatorie, in Contr. e impr., 2018, 1084-1086.
facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa”.
Tuttavia la sentenza afferma che il controllo giudi- ziale non deve fermarsi al controllo del contenuto negoziale, ma deve estendersi anche alla fase prodro- mica della conclusione del contratto contenente la clausola claims made e alla fase di svolgimento del rapporto stesso, richiamando come tuttora sensibili le criticità messe in luce, anche se nella prospettiva del giudizio di meritevolezza, dalla precedente sentenza della Sezioni Unite, quali l’asimmetria della posi- zione contrattuale delle parti e in certi rapporti il meccanismo penalizzante per il c.d. “esordiente” e per lo scadere della garanzia contrattuale. Alle quali criticità andrebbe aggiunta, completiamo noi, quella già evidenziata dalla precedente sentenza della Sezioni Unite della “incisione della libertà contrat- tuale del contraente non predisponente come effetto riflesso delle condizioni della stipula”.
Questa è dunque la “griglia” delle forme di controllo giudiziale sulla clausola claims made che la Sentenza indica al giudice del merito: fase precontrattuale e relativi obblighi di informazione dell’assicurando; regolamento contrattuale concreto; fase di attua- zione del rapporto.
Fase precontrattuale e relativi obblighi di informazione dell’assicurando
La sentenza pone l’accento sugli obblighi informativi in merito al contenuto della clausola claims made che nella fase prodromica alla conclusione del contratto devono essere assolti dall’assicuratore e dai suoi inter- mediari al fine di far conseguire all’assicurato una copertura assicurativa il più possibile aderente alle sue esigenze.
Questi obblighi informativi sono posti a livello gene- rale dall’art. 185 cod. ass. priv., che impone alle imprese di assicurazione di consegnare all’assicu- rando, prima della conclusione del contratto e uni- tamente alle condizioni di assicurazione, una nota informativa predisposta nel rispetto delle disposizioni che la norma medesima stabilisce e dei Regolamenti IVASS.
In realtà è ben difficile, se non impossibile, che gli assicuratori omettano di dare agli assicurandi le opportune informazioni, del resto assai semplici, sul meccanismo con cui opera la garanzia: risarcimento reclamato dal danneggiato prima della scadenza della polizza.
Non è forse da escludere che, per determinate cate- gorie di rischi o particolari assicurandi, vi siano assi- curatori che offrano, verso il pagamento di un supplemento di premio, una estensione della retroat- tività della copertura rispetto a quella prevista dalle condizioni generali di contratto, oppure che vi siano assicuratori che offrano, verso pagamento di un sup- plemento di premio, una copertura anche nel caso in cui il risarcimento venga reclamato dal danneggiato entro un determinato tempo successivo alla scadenza della polizza. Se l’assicurato prova di non essere stato informato di queste offerte, poiché con un giudizio probabilistico è ragionevole ritenere che egli, ove adeguatamente informato, avrebbe esteso la coper- tura assicurativa sia pur pagando il supplemento di premio, il rimedio risarcitorio dovrà far conseguire all’assicurato un effettivo ristoro del danno patito commisurabile - come recita la sentenza - “all’entità delle utilità che avrebbe potuto ottenere in base al contratto correttamente concluso”.
Più delicato è il caso in cui l’assicuratore non abbia informato l’assicurando della possibilità di scegliere una polizza loss occurrence in luogo di una polizza claims made e il risarcimento del danno venga recla- mato dopo la scadenza della polizza claims made. In questo caso sarebbe troppo facile da parte dell’assi- curato sostenere ex post che, se adeguatamente infor- mato dell’opzione, egli avrebbe optato per una polizza loss occurrence. L’eventuale scelta di una polizza loss occurrence potrebbe essere sostenuta con successo dal cd. “esordiente”, che non era ovviamente interessato alla retroattività di copertura di una polizza claims made.
Il controllo giudiziale sul contenuto negoziale della clausola claims made
L’argomentazione delle Sezioni Unite si svolge lungo due direttrici, l’una che riguarda la clausola claims made nella legislazione speciale per le assicurazioni obbligatorie, l’altra che riguarda tutte le clausole claims made incluse anche le prime.
Per quanto riguarda le assicurazioni obbligatorie la sentenza sottolinea la natura imperativa e la indero- gabilità in peius delle norme concernenti l’estensione e le modalità della garanzia assicurativa, e di conse- guenza non ha difficoltà a giudicare che, nel caso di contrasto tra il regolamento negoziale e la disciplina legale, lo statuto negoziale potrà essere integrato in forza dell’art. 1419, comma 2, c.c. “attingendo quanto necessario per ripristinare in modo coerente l’equili- brio dell’assetto vulnerato dalle indicazioni reperibili
dalla stessa regolamentazione legislativa” (7). In altri termini, il regolamento contrattuale potrà essere rimodulato nella parte in cui contrasta con la disci- plina legale inderogabile per renderlo conforme a quest’ultima.
Tuttavia la sentenza osserva che la suddetta disci- plina inderogabile si pone sul piano astratto della standardizzazione del contenuto contrattuale che salvaguarda la garanzia minima e non può esaurire l’indagine sul contenuto negoziale della clausola, perché in ogni caso - sia con riferimento alla disci- plina legislativa inderogabile della clausola, sia con riferimento a qualunque altra clausola claims made - occorre procedere ad una verifica che il regolamento effettivamente pattuito sia adeguato agli interessi in concreto avuti di mira dai paciscenti, verifica che transita - prosegue la sentenza - attraverso la c.d. “causa concreta”, che rappresenta la sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare e costituisce quindi la funzione individuale della singola specifica negoziazione. L’indagine sulla causa concreta del contratto spazia - precisa la sen- tenza - dalla verifica della sua sussistenza (cioè della adeguatezza rispetto agli interessi coinvolti) alla veri- fica di liceità (intesa come lesione di interessi delle parti tutelati dall’ordinamento).
A ben vedere, la prospettiva adottata ora dalle Sezioni Unite non si discosta nella sostanza da quella stessa adottata dalla prima sentenza. Invero, l’inda- gine sulla causa in concreto si sostituisce ora all’in- dagine sulla meritevolezza della clausola e l’indagine sulla causa in concreto intesa come adeguatezza del contratto agli interessi in concreto perseguiti dai contraenti si sostituisce ora all’indagine sulla meri- tevolezza che secondo la precedente sentenza “deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete”. Al fine di verificare se sia realizzata la funzione pratica del contratto, cioè la causa in concreto, in modo da superare le criticità già messe in luce dalla precedente sentenza delle Sezioni Unite (8) la sentenza indica
come criterio d’indagine l’analisi dell’assetto sinal- lagmatico, cioè se lo scopo pratico del regolamento negoziale su base claims made presenti un arbitrario squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio, nel qual caso lo squilibrio sarebbe sintomo di carenza della causa in concreto dell’operazione economica. La sentenza tiene a sottolineare che non si tratta di sindacare l’equilibrio economico tra le prestazioni, che è aspetto rimesso esclusivamente all’autonomia privata, bensì di indagare su un eventuale squilibrio giuridico tra rischio assicurato e premio nell’ottica dello scopo pratico del regolamento negoziale. Il sintagma “squilibrio giuridico” rimane però oscuro. Proviamo a decodificarlo: esso esiste ogni volta in cui il premio (la cui entità è rimessa all’autonomia pri- vata) non copre sinallagmaticamente ogni aspetto del rischio dedotto in contratto, ad esempio per quanto riguarda la retroattività della copertura sta- bilita dalla polizza (9)?
Infine la sentenza enuncia le conseguenze di un difetto della causa in concreto, e cioè: la conforma- zione secondo le congruenti indicazioni di legge o comunque secondo il principio di adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti.
Quanto al primo punto, le congruenti indicazioni di legge sono senz’altro le (poche) norme imperative vigenti per alcune assicurazioni obbligatorie, di cui sopra si è detto, dal momento che la sentenza fa giustamente richiamo all’art. 1419, comma 2, c.c. ed esclude una integrazione dello statuto negoziale attraverso il modello della loss occurence di cui all’art. 1917, comma 1, c.c.
Quanto al secondo punto, resta oscuro cosa intenda la sentenza per conformazione “secondo il principio di adeguatezza del contratto assicurativo allo scopo pratico perseguito dai contraenti” (così il principio di diritto enunciato). Il timore è che questo principio venga inteso dal giudice del merito come licenza per “mani- polare” la clausola claims made secondo quello che gli sembra il regolamento più “giusto” (10). Secondo la precedente sentenza delle Sezioni Unite la clausola
(7) Con testuale richiamo all’art. 1419, comma 2, c.c.
(8) La sentenza in commento richiama “l’asimmetria della posizione delle parti ovvero, per certi rapporti, l’operatività di in meccanismo penalizzante all’esordio e allo scadere della garanzia contrattuale”, specificando che tali criticità “non evaporano per il solo fatto che quel giudizio [di meritevolezza] più non s’imponga come tale”.
(9) Ad esempio, se la clausola prevede una retroattività trien- nale, essa è inadeguata ai concreti interessi di un assicurato che sia amministratore di società, il quale resta esposto ad eventuali responsabilità per un periodo quinquennale decorrente dalla ces- sazione dalla carica. Se la clausola prevede una retroattività
quinquennale, essa è inadeguata ai concreti interessi di un pro- fessionista ingegnere o architetto i quali lavorano nel campo immobiliare, dal momento che la loro eventuale responsabilità si prescrive in un decennio dal compimento dell’opera (art. 1669 c. c.). Per alcune osservazioni in tema di verifica di congrua retroat- tività della clausola claims made inserita in una polizza per la responsabilità professionale rinvio alla mia nota La clausola claims made nella sentenza delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2016, 769.
(10) Per la critica a due sentenze di merito che avevano “mani- polato” la clausola in quanto avevano circoscritto l’immeritevo- lezza, e quindi la nullità, della clausola solo a quella porzione di essa
“immeritevole” doveva essere sostituita dal modello legale, cioè dall’art. 1917, comma 1, c.c. Questa solu- zione, per quanto opinabile (potendo danneggiare l’as- sicurato per la perdita della eventuale copertura retroattiva data dalla clausola claims made), costituiva almeno un punto fermo nel caso in cui la clausola non avesse superato l’esame di meritevolezza.
Il controllo sulla conformazione
del rapporto in caso di xxxxxxxx xxxxxxx.
Nullità della clausola di facoltà di recesso dell’assicuratore
Infine la sentenza prende in esame la “fase dinamica del rapporto assicurativo” e qualifica come abusiva la clausola che attribuisce all’assicuratore la facoltà di recesso dal contratto al verificarsi di un sinistro compreso nei rischi assicurati, motivando che il carattere abusivo si rivela tale “in ragione della fru- strazione dell’alea del contratto, che si viene a para- metrare sul termine ultimo di durata della copertura assicurativa, rispetto alla quale i premi stessi sono calcolati e corrisposti”.
La decisione delle Sezioni Unite merita di essere condivisa ed è auspicabile che sia seguita dai giudici di merito. La natura abusiva della clausola di facoltà di recesso dell’assicuratore è infatti intrinseca allo stesso meccanismo delle clausole claims made, come lo può dimostrare un confronto con il recesso nelle polizze loss occurrence.
Nelle polizze loss occurrence l’assicuratore che recede delimita, restringendolo, il periodo di rischio coperto dall’assicurazione perché viene meno la garanzia per i fatti dannosi accaduti dopo il recesso, ma permane la garanzia per i fatti dannosi accaduti prima del recesso dell’assicuratore anche se la richiesta di risarcimento è pervenuta all’assicurato dopo il recesso dell’assicu- ratore. Si comprende quindi la ragione per cui il premio pagato subisce una riduzione: la parte di premio che resta acquisita all’assicuratore va a coper- tura del rischio (astratto) per i fatti dannosi accaduti prima del recesso, che restano in garanzia e che in futuro potrebbero essere denunciati dall’assicurato. Invece nella polizza claims made il recesso elimina totalmente e radicalmente il rischio assicurato, per- ché impedisce che abbiano rilevanza le richieste di
risarcimento pervenute successivamente all’assicu- rato anche se fondate su fatti dannosi avvenuti prima del recesso stesso e addirittura anche se avve- xxxx nel periodo di retroattività di copertura previsto dalla clausola. In altri termini, mentre nei contratti durata come è quello di assicurazione il recesso opera ex nunc lasciando in vita la frazione del rapporto contrattuale svoltasi prima del recesso, qui invece proprio in virtù del meccanismo della clausola claims made il recesso dell’assicuratore viene ad avere degli abnormi effetti ex tunc, come se la polizza non fosse mai stata sottoscritta, e l’assicurato si trova improv- visamente privo di qualunque copertura assicurativa per tutto il passato. Si verifica allora un “buco di copertura”, secondo un’icastica espressione usata dalla prima sentenza delle Sezioni Unite e ripresa da quella in commento.
Quest’ultima conseguenza non è accettabile quando l’assicurazione è obbligatoria perché è imposta a tutela dei terzi eventualmente danneggiati dall’assicurato. Ed infatti l’art. 2, comma 2, D.M. 22 settembre 2016, relativo all’assicurazione per la responsabilità professionale degli avvocati, dispone che nella polizza deve essere espressamente escluso il diritto di recesso dell’assicuratore e tale norma è da considerarsi espres- sione di un principio generale di ordine pubblico economico per l’assicurazione obbligatoria che può valere a comprovare la natura abusiva delle clausole di recesso anche negli altri casi di assicurazione obbli- gatoria in cui la legge non prevede espressamente il divieto di una tale clausola (11).
Ma anche al di fuori dei casi di assicurazione obbli- gatoria la clausola di facoltà di recesso dell’assicura- tore nelle polizze claims made contrasta palesemente con la funzione tipica del contratto di assicurazione della responsabilità civile, che è quella di mettere l’assicurato al sicuro dal rischio (astratto) che acca- dano determinati fatti che comportino una sua responsabilità e di conseguenza un suo obbligo risar- citorio. Invero, il verificarsi di un sinistro coperto dalla polizza non è altro che il verificarsi del rischio concreto del quale l’assicuratore ha promesso, verso corrispettivo di un premio, di tenere indenne l’assi- curato. L’evento rientra perciò pienamente nell’am- bito della funzione economica del contratto di assicurazione e non rappresenta un’anomalia che
che contemplava una retroattività limitata della copertura e ave- vano sostituito tale porzione con una retroattività decennale, salvando la parte residua della clausola, cfr. il mio commento citato a nt. 1, 390-391.
(11) È agevole prevedere l’obbiezione: l’assicurato, ricevuta la dichiarazione di recesso, può sempre rivolgersi ad altro assicura- tore per procurarsi una copertura assicurativa in luogo di quella di
cui è stato privato. Si può rispondere: egli dovrà rendere edotto il nuovo assicuratore del sinistro che ha portato il precedente assi- curatore a recedere dal contratto e questa circostanza influirà negativamente sul premio, se addirittura non indurrà il nuovo assicuratore a rifiutare la copertura tenuto conto che all’obbligo di assicurarsi non corrisponde un simmetrico obbligo dell’assicu- ratore di assicurare l’interessato.
giustifichi il recesso dell’assicuratore tale da xxxxx- xxxx addirittura ex tunc la polizza e di togliere all’as- sicurato ogni copertura anche per fatti dannosi avvenuti in ogni tempo prima del recesso ma non ancora denunciati all’assicuratore. La natura abusiva della clausola di facoltà di recesso dell’assicuratore è dunque connaturata al meccanismo stesso della clau- sola claims made, laddove invece il recesso nelle polizze loss occurrence opera, come sopra si è detto, ex nunc e dunque con effetti meno invasivi e coerenti con i principi in tema di recesso nei contratti di durata.
Conclusioni
La sentenza merita piena e incondizionata condivi- sione sul punto in cui dichiara in modo chiaro e netto che nelle polizze claims made è abusiva, e quindi nulla, la clausola che attribuisce all’assicuratore la facoltà di recedere dal contratto al verificarsi di un sinistro compreso nel rischio assicurato.
Opportuno è il richiamo agli obblighi informativi precontrattuali, ma probabilmente di scarso impatto pratico poiché è ragionevole ritenere che agli assicu- rati verranno date tutte le informazioni necessarie per comprendere il meccanismo di funzionamento delle clausole claims made e non è detto che venga taciuta la possibilità di negoziare il contenuto della clausola stessa (periodo di retroattività, ecc.).
Deludente è invece la sentenza nel punto più impor- tante, che riguarda il controllo giudiziale sul regola- mento d’interessi creato dalla clausola claims made. Al criterio dell’indagine sulla meritevolezza della clausola da condurre di volta in volta con riferimento alla fattispecie concreta, sponsorizzato dalla prece- dente sentenza, si sostituisce ora, avendo la clausola perduto la sua atipicità, il criterio del controllo sulla causa in concreto come adeguatezza del contratto agli interessi perseguiti in concreto dai contraenti. Il nuovo criterio pecca di astrattezza e non rappresenta un sostanziale progresso rispetto al precedente crite- rio della meritevolezza in termini di indicazioni empi- riche fornite ai giudici di merito per valutare le clausole sottoposte al loro vaglio, così come rimane nel vago la suggerita analisi dell’assetto sinallagma- tico del contratto assicurativo nel senso di indagare se lo scopo pratico del regolamento negoziale presenti un eventuale squilibrio giuridico tra rischio assicu- rato e premio. La prima sentenza delle Sezioni Unite aveva, almeno, dato alcune indicazioni distinguendo tra clausole “pure” e clausole” impure” e facendo intendere di non ritenere meritevoli di tutela,
giustamente, le clausole che richiedono non solo che la richiesta di risarcimento all’assicurato sia per- venuta durante la vigenza della polizza, ma che anche il fatto dannoso si sia verificato durante questa vigenza.
La precedente sentenza aveva riconosciuto la neces- sità di una tutela “reale” dell’assicurato nel caso in cui la clausola claims made fosse risultata immeritevole di tutela e aveva visto questa tutela reale nella sostitu- zione automatica del primo comma dell’art. 1917 c.c. alla clausola immeritevole, tenuto conto che all’e- poca di questa pronuncia non vi erano ancora norme imperative in tema di clausole claims made che por- tassero a diversa soluzione. La sentenza in commento, invece, nel caso di nullità anche parziale per difetto della causa in concreto rigetta la sostituzione della clausola con la disposizione di legge sopra richiamata e opta per una conformazione della clausola secondo le congruenti indicazioni di legge (art. 1419, comma 2, c.c.) oppure secondo il principio dell’adeguatezza del contratto allo scopo pratico perseguito dai con- traenti. Mentre il primo dei due criteri è corretto, invece il secondo di essi rischia di aprire la porta ad un incontrollato intervento “correttivo” sullo statuto negoziale da parte del giudice al di fuori dei casi in cui un intervento conformativo sull’autonomia pri- vata è consentito dall’ordinamento.
Sarebbe infine stata opportuna una qualche valutazione da parte delle Sezioni Unite di quella che a mio avviso è una delle maggiori criticità della clausola claims made, già messa in particolare risalto dalla sent. n. 10506/ 2017, e cioè che il meccanismo che dà ingresso alla copertura assicurativa, cioè la richiesta di risarcimento del danneggiato, non è nel dominio dell’assicurato, maè rimessa alla volontà del danneggiato, che può libera- mente decidere il momento in cui inviare al responsa- bile del danno una formale richiesta di risarcimento, il che è particolarmente pregiudizievole per l’assicurato quando il fatto dannoso si è verificato in prossimità di scadenza della polizza. Lasentenza incommento osserva che l’art. 11 della legge sanitaria evoca lo schema della deeming clause facendo riferimento ad una “denuncia” del fatto dannoso all’impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza. Ammesso che l’art. 11 citato possa essere interpretato in quel senso, resta il fatto che al di fuori della suddetta fattispecie una semplice denuncia dell’assicurato di un possibile fatto dannoso a lui imputabile non costituisce ancora un “sinistro” mancando una manifestazione di volontà del danneggiato di voler essere risarcito dall’assicurato. Tuttavia, se il danneggiato invia la correlativa richiesta di risarcimento pur qualche tempo dopo la scadenza
della polizza, la precedente denuncia da parte dell’assi- curato potrebbe essere valorizzata ai fini della copertura assicurativa dal momento che essa è comunque servita a far “emergere” il sinistro al pari di una dichiarazione di voler essere risarcito dall’assicurato, mentre se durante la vigenza della polizza non è pervenuta all’assicuratore neppure la denuncia dell’assicurato di un fatto possibile fonte di sua responsabilità, la posizione può essere
archiviata dall’assicuratore ed eliminata dalle riserve tecniche.
In conclusione, una sentenza che ribadisce, come la precedente sentenza delle Sezioni Unite, la necessità di un controllo caso per caso sul contenuto negoziale della clausola claims made, ma che non dà un aiuto concreto ai giudici di merito e agli avvocati che dovranno confrontarsi con la clausola claims made.
Servizi bancari
Il danno da ritardo
nella portabilità dei servizi di pagamento
Ombudsman - Giurì Bancario, Collegio del 16 gennaio 2018, ricorso n. 519/2016
Contrasta con i principi vigenti in materia ritardare il trasferimento degli strumenti finanziari giacenti, subordi- nandolo al versamento di una somma volta a garantire eventuali sopravvenienze negative sul conto corrente. Al cliente spetta il risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla perdita di valore dei titoli accumulata nelle more del ritardato trasferimento degli stessi.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Non sono stati rinvenuti precedenti in termini. Cfr. Analisi tecnico-normativa del Governo allo Schema di Decreto Legislativo recante attuazione della Direttiva 2014/92/UE, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 14 dicembre 2016. |
Difforme | Ombudsman-Giurì Bancario, decisione 26 febbraio 2013, ricorso n. 1014/2012. |
L’Ombudsman Bancario (omissis)
Il Collegio prende in esame la documentazione prodotta dalla ricorrente unitamente al ricorso e in data 30 giugno, 25 luglio 2016 e 7 aprile 2017, nonché quella inviata dalla banca il 26 luglio 2016.
La ricorrente si duole del ritardo nel trasferimento di alcuni titoli giacenti sul conto deposito intrattenuto presso l’intermediario convenuto, circostanza che le ha impedito di effettuare un’operazione di vendita avente ad oggetto i titoli oggetto di trasferimento; contesta, in par- ticolare, il comportamento illegittimo dell’intermediario che ha richiesto il versamento, quale condizione per la chiusura del relativo rapporto di conto, di una somma atta a garantire eventuali debenze fiscali; chiede una somma pari a euro 259,68, a titolo di danno patrimoniale (calco- lato come la perdita di valore dei titoli accumulata nelle more del ritardato trasferimento degli stessi), nonché euro 250,00 quale pregiudizio di natura non patrimoniale.
L’intermediario replica deducendo la correttezza del pro- prio operato e adducendo che il ritardo è dovuto alla circostanza che la ricorrente ha richiesto chiusura di un conto corrente insieme alla chiusura e trasferimento di un dossier titoli, collegato al primo.
Il Collegio, esaminata la documentazione agli atti, osserva quanto segue.
Il ricorso, pur avendo ad oggetto il ritardo nel trasferi- mento degli strumenti finanziari presso altro intermedia- rio, risulta ammissibile in quanto con esso si deduce che
l’impedimento ha determinato l’impossibilità di porre in essere una operazione di disinvestimento (cfr. la decisione del 26 maggio 2015, ric. n. 879/14).
Nel merito, è da rilevare che parte convenuta ha effettiva- mente ritardato il trasferimento degli strumenti finanziari giacenti, subordinandolo al versamento diuna somma volta a garantire eventuali sopravvenienze negative sul conto dovute all’applicazione dell’imposta sul capital gain.
Tale condotta - come correttamente evidenziato dalla ricorrente - contrasta con i principi vigenti in materia nonché con il Provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato n. (omissis), nel quale l’inter- mediario ha assunto una serie di impegni relativi ai tempi di chiusura dei rapporti di conto corrente, tra cui quello al
n. 6 rubricato “Eliminazione della richiesta di versare una somma forfettaria in caso di saldo insufficiente”.
Tale impegno - data la sua ampia formulazione, relativa all’impegno a non richiedere più alcuna somma al momento della richiesta di chiusura, anche in caso di sussistenza di saldo negativo insufficiente a coprire le spese maturate o maturande - impedisce all’intermediario anche di chiedere, quale condizione di chiusura di un conto (quindi anche per i dossier titoli), il versamento di una somma atta a garantire il pagamento immediato (vale a dire tramite prelievo diretto dal conto) di eventuali costi di natura fiscale (e.g., imposte per capital gain).
Quanto al danno, la ricorrente afferma e dimostra che il ritardo nelle operazioni di trasferimento degli strumenti finanziari le ha impedito di effettuare tempestivamente
altre operazioni d’investimento aventi ad oggetto i medesimi titoli presso altro intermediario, maturando una perdita pari a quella lamentata, ossia euro 259.
È, invece, infondato il capo della domanda riguardante il pregiudizio di natura non patrimoniale, in quanto non adeguatamente supportata da elementi probatori.
In conclusione, il Collegio dichiara la banca tenuta - entro 30 giorni dalla comunicazione della decisione da parte della Segreteria e con invio all’Ombudsman-Giurì Bancario di idonea documentazione a comprova - a corrispondere al ricorrente la somma di euro 259,00, come sopra determinata.
IL COMMENTO
di Xxxxxxx Xxxxxx (*) (**)
Una delle ultime decisioni dell’Ombudsman-Giurì Bancario offre l’opportunità di svolgere alcune considerazioni sull’applicazione della Dir. 2014/92/UE, sull’individuazione delle pratiche commerciali scorrette in ambito bancario (e sulla rilevanza dell’attività dell’AGCM in tale contesto), nonché sul danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale. Viene esaminata anche l’efficacia delle decisioni dell’Ombudsman-Giurì Bancario e del subentrato Arbitro per le Controversie Finanziarie.
A decorrere dal 9 gennaio 2017 l’Arbitro per le Controversie Finanziarie è subentrato nell’operati- vità dell’Ombudsman-Giurì Bancario, il quale, termi- nata la gestione delle controversie pendenti a tale data, ha definitivamente concluso la propria attività (1).
Tra le ultime pronunce emesse, quella qui in commento si caratterizza per l’attualità delle que- stioni giuridiche sottese, posto che viene affron- tato il tema del ritardo nel trasferimento dei servizi di pagamento e del danno ad esso conse- guente (con riferimento sia alla prova, sia alla sua quantificazione), disciplinato recentemente con il D.Lgs. 15 marzo 2017, n. 37 (recante Attuazione della direttiva 2014/92/UE, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base).
Inoltre, la decisione del caso concreto ha affron- tato l’eventualità che il ritardo nel trasferimento costituisca pratica commerciale scorretta, in quanto sia l’effetto di comportamenti ostruzioni- stici e dilatori, vietati dal D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. Codice del consumo).
La Payment Account Directive (c.d.
Direttiva PAD)
Il caso portato all’attenzione del Collegio origina dal ritardo con il quale una banca ha dato corso al trasferimento, presso altro istituto di credito, del saldo attivo di un conto di pagamento e degli stru- menti finanziari giacenti sul collegato conto di depo- sito titoli, in occasione della chiusura dei relativi rapporti contrattuali.
La competenza del soppresso Ombudsman-Giurì Bancario era circoscritta alle controversie aventi ad oggetto i servizi e le attività di investimento, con esclusione delle altre tipologie di operazioni non assoggettate al titolo VI del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (c.d. Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, TUB), secondo quanto previsto dall’art. 23, comma 4, D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (c.d. Testo unico delle disposizioni in materia di inter- mediazione finanziaria, TUF) (2).
Alla luce di ciò, richiamando un proprio prece- dente (3), in via pregiudiziale il Collegio ha dichia- rato l’ammissibilità del ricorso, in quanto il ritardo nel trasferimento degli strumenti finanziari presso altro intermediario, pur rientrando nell’ambito
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(**) Le considerazioni esposte sono frutto esclusivo del pen- siero dell'autore e non hanno carattere in alcun modo impegnativo per l’amministrazione pubblica di appartenenza.
(1) L’istituzione dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie (ACF) - e la conseguente soppressione dell’Ombudsman-Giurì Bancario - è avvenuta in forza della delibera Consob 4 maggio 2016, n. 19602, emessa in ottemperanza al D.Lgs. 6 agosto 2015,
n. 130, recante Attuazione della direttiva 2013/11/UE sulla
risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, che modifica il regolamento (CE) n. 2006/2004 e la direttiva 2009/ 22/CE (direttiva sull'ADR per i consumatori).
(2) Sull’attività del soppresso Ombudsman-Giurì bancario si rinvia a X. Xxxxxxxxxx, Un esempio di giustizia “domestica” alter- nativa a quella dell’a.g.o.: l’Ombudsman-Giurì bancario, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, 3, 344.
(3) Ombudsman-Giurì Bancario, decisione 26 maggio 2015, ricorso n. 879/2014, in Ombudsman-Giurì Bancario, Massimario e testo completo delle decisioni di maggiore interesse, 2015, 103.
delle attività bancarie, ha di fatto impedito di porre in essere - nei tempi attesi dalla cliente - un’operazione di (dis)investimento.
Tale ritardo è stato causato, tra l’altro, dalla richiesta, avanzata dalla banca trasferente nei confronti della cliente, di effettuare un versamento sul conto di pagamento, a titolo di garanzia per eventuali soprav- venienze negative dovute all’applicazione dell’impo- sta sul capital gain.
Pur non indicando espressamente la norma violata, l’Autorità ha evidenziato che tale comportamento contrasta con i principi giuridici in materia.
Questi ultimi si rinvengono nella Dir. 2014/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 luglio 2014, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristiche di base (c.d. Direttiva PAD, Payment Account Directive). A tale fonte unitaria è stata data una prima parziale attuazione mediante il D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (4). In particolare, il suo art. 2 precisava che con l’espres- sione servizi di trasferimento si intende il trasferimento non solo delle informazioni relative a pagamenti, ma anche dell’eventuale saldo positivo da un conto di pagamento di origine ad un conto di pagamento di destinazione, con o senza la chiusura del conto di pagamento di origine (5).
Inoltre, veniva aggiunto (6) che le disposizioni del suddetto articolo si applicano, in quanto compatibili, anche al trasferimento, su richiesta del consumatore, di strumenti finanziari da un conto di deposito titoli ad un altro, con o senza la chiusura del conto di deposito titoli di origine; tuttavia, tale previsione era condizionata alla definizione di modalità e ter- mini mediante uno o più decreti da emanarsi a cura del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia.
Per la conclusione della procedura di trasferimento veniva stabilito il termine massimo di dodici giorni lavorativi dalla data della richiesta del consumatore (7).
Per quanto qui di interesse, occorre soffermarsi sulle conseguenze previste a carico dell’istituto di credito inadempiente ai descritti obblighi di legge.
Anzitutto, era previsto (8) che per l’inosservanza delle norme contenute nell’art. 2 in commento la Banca d’Italia applicasse le sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’art. 144 T.U.B. Inoltre, a norma del più volte citato art. 2, comma 16, in caso di mancato rispetto delle modalità e dei termini per il trasferimento, il prestatore di servizi di pagamento inadempiente era tenuto ad indenniz- zare il cliente in misura proporzionale al ritardo ed alla disponibilità esistente sul conto di pagamento al momento della richiesta di trasferimento.
Ciò nondimeno, anche la definizione dei criteri per la quantificazione dell’indennizzo era rinviata ad uno o più decreti del Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia (9).
La mancata emanazione dei suddetti decreti ha di fatto reso inapplicabile, in parte qua, lanormain commento, nonostante l’intero art. 2, D.L. n. 3/2015 fosse dichia- ratamente finalizzato a disciplinare la trasferibilità dei servizi di pagamento, secondo quanto previsto al capo III della Dir. 2014/92/UE.
In conseguenza di ciò, il Collegio ha fatto corretta - ancorché implicita - applicazione del principio espresso dalla giurisprudenza comunitaria (10), secondo cui “il giudice nazionale cui sia sottoposta una controversia che ha luogo esclusivamente tra singoli, nell’applicare le norme del diritto interno adottate al fine dell’attuazione degli obblighi previsti dalla direttiva, deve prendere in considerazione tutte le norme del diritto nazionale ed interpretarle, per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere a una soluzione conforme all’obiettivo da essa perseguito”.
Pertanto, il Collegio ha constatato l’inidoneità della norma di cui all’art. 2 in commento ad assicurare al correntista la tutela predisposta dalla Direttiva PAD, in virtù della quale “gli Stati membri assicurano che eventuali perdite finanziarie, compresi le spese e gli interessi, subite dal consumatore e causate diretta- mente dal mancato rispetto, da parte di un prestatore di servizi di pagamento partecipante alla procedura di trasferimento, degli obblighi a lui imposti dall’arti- colo 10 siano rimborsate senza indugio da detto prestatore di servizi di pagamento” (11).
(4) Convertito in L. 24 marzo 2015, n. 33. Per un primo com- mento al provvedimento normativo, X. Xxxxxxx, Il trasferimento dei servizi di pagamento, in Nuove leggi civ., 2015, 6, 1031.
(5) Cfr. art. 2, comma 2, D.L. n. 3/2015.
(6) Cfr. il combinato disposto dell’art. 2, commi 15 e 18, D.L. n. 3/2015.
(7) Cfr. art. 2, comma 5, D.L. n. 3/2015.
(8) Cfr. art. 2, comma 9, D.L. n. 3/2015, come modificato dal X.Xxx. 12 maggio 2015, n. 72 (recante Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le
direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’ac- cesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legi- slativo 24 febbraio 1998, n. 58).
(9) Xxx. xxx. 0, xxxxx 00, X.X. x. 0/0000.
(10) C.G.C.E., Grande Sezione, 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Xxxxxxxx e a., in Foro it., 2005, 4, 23.
(11) Art. 13, par. 1, Dir. 2014/92/UE.
Quindi, l’Ombudsman-Giurì Bancario ha rinvenuto nell’art. 1223 c.c. lo strumento normativo alterna- tivo all’interno dell’ordinamento nazionale (12), idoneo a quantificare il risarcimento secondo le finalità della direttiva unitaria, posto che la dispo- sizione codicistica identifica il danno, appunto, nella perdita subita e nel mancato guadagno, imme- diatamente e direttamente conseguenti all’inadem- pimento contrattuale.
Pertanto, posto che il colpevole ritardo nel trasferi- mento aveva impedito alla cliente di effettuare un’o- perazione di disinvestimento finalizzata a procurare la provvista necessaria per l’acquisto di altri titoli, il Collegio ha dichiarato tenuto l’istituto bancario tra- sferente a ristorare la ricorrente della differenza di prezzo che quest’ultima ha dovuto sborsare, in con- seguenza dell’apprezzamento sul mercato di detti titoli nel frattempo realizzatosi.
Peraltro, l’inidoneità dell’indennizzo previsto dal- l’art. 2, comma 16, D.L. n. 3/2015 è stata successiva- mente confermata dal X.Xxx. 15 marzo 2017, n. 37, che ha dato definitiva attuazione alla Dir. 2014/92/ UE sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamento con caratteristi- che di base (13).
Così, l’art. 2, comma 16, D.L. n. 3/2015 è stato abrogato in seguito all’introduzione dell’art. 126-sep- tiesdecies nel T.U.B. ad opera del D.Lgs. n. 37/2017, il cui comma 2 recita: “Salvo il diritto al risarcimento del danno ulteriore, anche non patrimoniale, in caso di mancato rispetto degli obblighi e dei termini per il trasferimento dei servizi di pagamento, il prestatore di servizi di pagamento inadempiente è tenuto a corri- spondere al consumatore, senza indugio e senza che sia necessaria la costituzione in mora, una somma di denaro, a titolo di penale, pari a quaranta euro. Tale somma è maggiorata inoltre per ciascun giorno di ritardo di un ulteriore importo determinato appli- cando alla disponibilità esistente sul conto di paga- mento al momento della richiesta di trasferimento un tasso annuo pari al valore più elevato del limite
stabilito ai sensi e in conformità all’articolo 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, nel periodo di riferimento”.
Il Legislatore (14) ha ritenuto iniquo commisurare forfettariamente l’indennizzo all’entità delle somme giacenti ed alla durata del ritardo nel trasferimento, in quanto l’esistenza di un danno ed il suo importo non dipendono direttamente dalla durata del ritardo, né dalla giacenza del conto.
Il novellato art. 126 septiesdecies T.U.B. contiene una previsione analoga alla clausola penale di cui all’art. 1382 c.c.: in caso di inadempimento o di ritardo nell’adempimento, il prestatore di servizi è tenuto ad una determinata prestazione - e non al pagamento di un indennizzo - a favore del cliente, indipenden- temente dalla prova del danno.
Al riguardo, nella relazione allo schema del Decreto delegato attuativo (15), il Governo ha dichiarato di ritenere più corretto fissare una penale, piuttosto che un indennizzo, considerando questa uno strumento di maggior deterrenza, al fine di evitare ritardi strategici da parte delle banche.
In ciò, il Legislatore mostra di condividere l’orienta- mento ormai assunto dalla giurisprudenza (16), secondo cui “nel vigente ordinamento alla responsa- bilità civile non è assegnato solo il compito di restau- rare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile”.
D’altra parte, il Giudice nomofilattico (17) ha addi- rittura ammesso che nel nostro ordinamento possano essere riconosciuti danni punitivi come misura di contrasto alla violazione del diritto comunitario; questa si verificherebbe nel caso in esame, ove la normativa nazionale non assicurasse adeguata attua- zione della Direttiva PAD.
Le pratiche commeciali scorrette
Il Collegio ha dichiarato l’illegittimità del compor- tamento tenuto dall’istituto trasferente, in quanto in
(12) Sulle modalità di adattamento dell’ordinamento interno al diritto dell’UE, X. Xxxxxxxx, Diritto internazionale, XI ed., Napoli, 2018, 363.
(13) Occorre ricordare che il termine per il recepimento della Direttiva PAD era scaduto il 18 settembre 2016 e che, pertanto, la Commissione Europea aveva avviato la procedura d’infrazione n. 2016/0774 nei confronti della Repubblica Italiana ai sensi dell’art. dell'art. 258 Trattato sul Funzionamento dell’UE, archiviata sol- tanto lo scorso 8 marzo 2018.
(14) Relazione illustrativa del Governo allo Schema di Decreto Legislativo recante attuazione della Direttiva 2014/92/UE, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di
pagamentoconcaratteristichedibase, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 14 dicembre 2016.
(15) Relazione illustrativa del Governo allo Schema di Decreto Legislativo recante attuazione della Direttiva 2014/92/UE, sulla comparabilità delle spese relative al conto di pagamento, sul trasferimento del conto di pagamento e sull’accesso al conto di pagamentoconcaratteristichedibase, approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 14 dicembre 2016.
(16) Cass., SS.UU., 5 luglio 2017, n. 16601, in Foro it., 2017, 9, 1, 2613.
(17) Cass., SS.UU., 15 marzo 2016, n. 5072, in Foro it., 2016,
10, 1, 2994.
contrasto, altresì, con un precedente provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.
Infatti, tra l’altro, la banca aveva condizionato al deposito di una cauzione la chiusura ed il conseguente trasferimento della giacenza del conto di pagamento, nonostante questa fosse già stata ritenuta pratica commerciale scorretta, in quanto aggressiva ai sensi degli artt. 20, 24 e 25, comma 1, D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (c.d. Codice del Consumo).
Secondo la definizione normativa (18), viene consi- derata aggressiva una pratica commerciale che, mediante molestie, coercizione, ovvero indebito condizionamento, sia idonea a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore e lo induca ad assumere una decisione di natura commer- ciale che non avrebbe altrimenti preso.
Tra le forme di molestia, coercizione oppure indebito condizionamento viene ricompreso qualsiasi osta- colo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi quello di risolvere un contratto, di cambiare prodotto o di rivolgersi ad altro professionista (19).
Recedere in ogni tempo dal contratto rientra certa- mente tra i diritti contrattuali, essendo ciò, peraltro, espressamente previsto dall’art. 120 bis T.U.B. (secondo cui “il cliente ha diritto di recedere in ogni momento da un contratto a tempo indetermi- nato senza penalità e senza spese”).
Il perimetro di applicazione di tale norma è tracciato dall’interpretazione amministrativa a suo tempo resa dal Ministero dello Sviluppo Economico (20) con riferimento all’art. 10, comma 2, D.L. 4 luglio 2006,
n. 223, nel testo modificato in sede di conversione dalla Legge 4 agosto 2006, n. 248, in cui si affermava che “in ogni caso, nei contratti di durata, il cliente ha sempre la facoltà di recedere dal contratto senza penalità e senza spese di chiusura”.
Infatti, il Ministero aveva chiarito che tale disposi- zione andava riferita a tutte “quelle fattispecie con- trattuali nelle quali lo svolgimento del rapporto nel tempo non è incompatibile, sul piano causale, con la possibilità, per una delle parti, di porre liberamente fine al rapporto. In particolare, la previsione trova applicazione nei contratti a tempo indeterminato o, comunque, a esecuzione continua o periodica, quali, ad esempio: il conto corrente; il deposito titoli in
amministrazione (c.d. conto titoli); il deposito (purché non sia previsto un termine di durata come, ad esempio, nei depositi vincolati e nei certificati di deposito); l’apertura di credito; il bancomat; la carta di credito”.
Il D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141 ha successivamente abrogato la disposizione di cui all’art. 10, comma 2,
D.L. n. 223/2006, introducendo contestualmente l’art. 120 bis T.U.B. in commento, che, tuttavia, si pone in continuità con essa e, anzi, aggiunge che, al più, la banca o l’intermediario possono chiedere al cliente un rimborso delle spese sostenute in relazione a servizi aggiuntivi richiesti in occasione del recesso, limitatamente ai soli casi individuati dal Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio. D’altra parte, anche la citata Direttiva PAD (21) vieta di frapporre ostacoli alla chiusura del conto di paga- mento, posto che, se il consumatore non ha obblighi pendenti, impone al prestatore di servizi di paga- mento trasferente di chiudere il conto di pagamento, consentendogli soltanto di informare immediata- mente quest’ultimo se detti eventuali obblighi ne impediscano la chiusura.
L’Arbitro Bancario Finanziario (22) ha già avuto modo di censurare “come illegittima la prassi, seguita da numerosi intermediari, di rifiutare la chiusura del conto e mantenere dunque in vita il rapporto in ragione dell’esistenza di un saldo negativo a carico del cliente. La banca è infatti tenuta a dare pronta esecuzione alla richiesta di chiusura del conto avan- zata dal cliente, dando seguito entro un termine ragionevole e congruo rispetto all’espletamento delle formalità necessarie per la chiusura del rapporto”.
Se risulta ingiustificato il differimento della chiusura del conto corrente in conseguenza di un saldo nega- tivo, a maggior ragione esso deve ritenersi illegittimo ove venga opposta la necessità del versamento - su di un conto corrente, peraltro, comunque in attivo - di un’ulteriore somma a garanzia di soltanto eventuali sopravvenienze passive.
La considerazione è stata condivisa dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nell’am- bito di un precedente procedimento avviato per pratica commerciale scorretta, concernente il com- portamento - definito ostruzionistico e dilatorio - ripe- tutamente posto in essere dal medesimo istituto bancario durante la fase di estinzione del rapporto
(18) Art. 24, D.Lgs. n. 206/2005.
(19) Art. 25, lett. d), X.Xxx. n. 206/2005.
(20) MI.S.E., circ. 21 febbraio 2007, prot. n. 5574. (21) Art. 10, par. 4 lett. e), Dir. 2014/92/UE.
(22) ABF, coll. Roma, decisione 28 gennaio 2015, n. 669; in senso conforme, ABF, coll. Napoli, decisione 15 marzo 2016, n. 2359.
di conto corrente, avendone, appunto, in più occa- sioni condizionato la chiusura al preventivo versa- mento di una somma a titolo di garanzia.
Infatti, con decisione pronunciata ai sensi dell’art. 27, comma 7 Codice del Consumo l’Autorità garante ha reso obbligatorio l’impegno assunto dalla banca di non richiedere il versamento di alcuna somma forfettaria al momento della presentazione della domanda di chiu- sura conto, neppure qualora venga rilevato un saldo ritenuto insufficiente a coprire le spese maturate o maturande sul conto sino alla data di estinzione.
Al riguardo, pare opportuno ricordare che, in caso di mancato rispetto degli impegni assunti ai sensi della norma succitata, è prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 5.000.000 e, nell’eventualità di reiterazione, della sospensione dell’attività d’impresa per un periodo fino a trenta giorni (23).
Nella decisione in commento, l’Ombudsman-Giurì Bancario ha, dunque, mostrato di aderire all’inter- pretazione - sostenuta da parte della giurisprudenza di merito ed auspicata da dottrina autorevole - secondo cui le pronunce dell’Autorità indipendente possono costituire una prova qualificata circa l’illiceità dei fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria avanzata dal consumatore in relazione a pratiche commerciali scorrette.
D’altra parte, anche secondo l’Arbitro per le Con- troversie Finanziarie (24) il provvedimento che abbia accertato comportamenti identici a quelli lamentati dal ricorrente può costituire senz’altro un principio di prova del fatto che anche costui sia stato vittima di un comportamento ingannevole posto in essere dall’intermediario; ciò, in quanto detto prov- vedimento proviene da un’Autorità amministrativa indipendente, dotata di imparzialità ed istituzional- mente preposta a condurre verifiche sul grado di diligenza professionale adottata da ogni genere di impresa nell’esercizio sul mercato delle rispettive attività.
Tale orientamento si ricollega alla giurisprudenza di legittimità (25) che già da anni, nell’ambito del giudizio risarcitorio promosso dal consumatore, rico- nosce carattere di prova privilegiata al provvedi- mento del Garante, relativamente tanto all’accertamento della condotta anticoncorrenziale, quanto all’idoneità a procurare il danno.
D’altra parte, con riferimento all’azione di classe, l’art. 140 bis, comma 6 Codice del consumo prevede espressamente che il giudizio possa essere sospeso quando sui fatti rilevanti ai fini del decidere sia in corso un’istruttoria davanti ad un’Autorità indipen- dente: una simile norma non avrebbe significato se al provvedimento decisorio della suddetta Autorità non venisse riconosciuta un’efficacia esterna, con conseguente ricaduta probatoria in sede giudiziaria. Al descritto contesto normativo si è recentemente aggiunto il D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, con cui è stata data attuazione alla Dir. 2014/104/UE del Par- lamento Europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concor- renza degli Stati membri e dell’Unione Europea.
L’art. 7 del citato Decreto delegato stabilisce, tra l’altro, che, ai fini dell’azione per il risarcimento del danno, si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell’autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell’Auto- xxxx Garante della Concorrenza e del Mercato non più ricorribile (oppure da una sentenza del giudice del ricorso, passata in giudicato).
Peraltro, la medesima disposizione precisa che l’ac- certamento definitivo riguarda la natura della viola- zione e la sua portata materiale, personale, temporale e territoriale, ma non il nesso di causalità e l’esistenza del danno.
D’altra parte, anche il Giudice unitario (26) ha avuto modo di precisare che resta di competenza del giudice (nazionale) stabilire la sussistenza di un pregiudizio e di un nesso di causalità diretta tra lo stesso e l’intesa o la pratica in discussione.
Per inciso, è opportuno evidenziare come mediante la riferita formulazione sia assicurata la compatibilità costituzionale della citata disposizione rispetto al principio del giusto processo (27), essendo in tal modo garantito il contraddittorio tra le parti, in condizione di parità davanti al giudice.
Infatti, ancorché possa essergli opposto il provvedi- mento emesso nei suoi confronti, l’autore della viola- zione è posto in condizione di svolgere le proprie difese in sede tanto amministrativa, durante il procedimento sanzionatorio, quanto soprattutto giudiziaria, davanti al giudice dell’eventuale impugnazione.
(23) Art. 27, comma 12, D.Lgs. n. 206/2005.
(24) ACF, decisione 5 giugno 2017, n.5, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 11, 1516, con nota di X. Xxxxxxx, Pratiche com- merciali scorrette e annullabilità: la posizione dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie.
(25) Da ultimo, Cass., Sez. I, 28 maggio 2014, n. 11904, in
Quotidiano Giuridico, 2014.
(26) Xxxxx Xxxxx. XX, Xxxxxx Xxxxxxx, 0 novembre 2012, in causa C-199/11, Europese Gemeenschap, in Giornale dir. amm., 2013, 1, 69.
(27) Cfr. art. 111, comma 2, Cost.
Di contro, non potrebbero essere legittimamente accertati il nesso di causalità e l’esistenza del danno se non in contraddittorio con il consumatore e, quindi, in una sede diversa da un procedimento in cui il medesimo sia parte.
Ciò nondimeno, la norma (28) non priva il giudice dell’azione per il risarcimento dell’assistenza dell’Au- torità Garante della Concorrenza e del Mercato, consentendogli di formulare specifiche richieste sugli orientamenti che riguardano la quantificazione del danno.
Incoerenzaconilpiùampioquadronormativoriferito, l’Ombudsman-Giurì Bancario ha posto, appunto, il provvedimento sanzionatorio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a fondamento della decisione qui in commento, per quanto attiene all’il- liceità della condotta tenuta dalla banca; al contrario, ha accertato in modo diretto il nesso di causalità e l’entità del danno denunciato dalla cliente, svolgendo una specifica istruttoria documentale.
Il danno non patrimoniale
Nel caso di specie è stata ritenuta infondata la domanda riguardante il risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto non adeguatamente provato.
Anzitutto, occorre rilevare che la decisione in com- mento non si discosta dal consolidato orientamento giurisprudenziale che ammette la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile, in conse- guenza di un inadempimento contrattuale (29).
Al riguardo, è appena il caso di ricordare che le storiche sentenze gemelle (30) in materia di danno non patrimoniale alla persona hanno affermato che le norme riguardanti il risarcimento in materia di responsabilità contrattuale debbono essere interpre- tate in senso costituzionalmente orientato.
Di conseguenza, nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione è tenuto al risarcimento del danno, l’art. 1218 c.c. non può essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimo- niale, qualora l’inadempimento abbia determinato una lesione di diritti inviolabili della persona (31).
Analogamente, deve essere attribuito un più ampio contenuto all’art. 1223 c.c., nella parte in cui stabili- sce che il risarcimento del danno per l’inadempi- mento o per il ritardo debba comprendere così la perdita subita dal creditore, come il mancato guada- gno che ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.
Ciò nondimeno, il Giudice nomofilattico ha preci- sato che la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili lesi dall’inadempimento di obbligazioni è soggetta all’art. 1225 c.c. e pertanto, salvo il caso di dolo, resta limitato al danno che poteva prevedersi al tempo in cui l’obbligazione è sorta; inoltre, valgono le spe- cifiche regole del settore, relativamente all’onere della prova ed alla prescrizione.
Dunque, deve essere assicurata la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale se, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, l’inadempimento dell’obbligazione abbia determinato altresì la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore; il Supremo Collegio ha puntualizzato che l’esigenza di accertare se, in con- creto, il contratto tenda a realizzare anche interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia operato dalla legge.
In effetti, la dottrina (32) ha ritenuto non del tutto convincente la pronuncia in questione con riferi- mento all’individuazione dei presupposti di risarcibi- lità del danno non patrimoniale da inadempimento (relativamente sia all’inadempimento di obbliga- zioni, sia alla violazione di obblighi di fonte contrat- tuale), in quanto non individuerebbe indici di rilevanza dei danni non patrimoniali, né strumenti interpretativi da cui farne discendere la risarcibilità. Inoltre, si osserva che il riconoscimento della risar- cibilità dei danni non patrimoniali da inadempi- mento contrattuale limitatamente ai casi di lesione di diritti inviolabili della persona ed a quelli espres- samente previsti dalla legge impedirebbe la riparabi- lità di tutti i pregiudizi non economici non rientranti in tale tipizzazione.
(28) Art. 14, comma 3, X.Xxx. n. 3/2017.
(29) Per una rassegna su recenti pronunce in materia di danno non patrimoniale derivante da inadempimento contrattuale si veda X. Xxxxxxxxxx - X. Xxxxx, Il danno non patrimoniale nella responsabilità contrattuale, in Danno e resp., 2016, 5, 533.
(30) Cass., SS.UU, 11 novembre 2008, nn. 26972-26975, in
Giur. it., 2009, 1, 61.
(31) Per un’ampia analisi delle questioni nascenti dalle cc.dd. sentenze di X. Xxxxxxx in merito al danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale si rinvia a AA.VV., Il danno non patri- monialecontrattuale, Atti del Convegno di Roma, 14 maggio 2010, a cura di X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxxxxxxx, in questa Rivista, 2010, 699.
(32) L. D’Acunto, Il danno non patrimoniale nella responsabilità contrattuale, in Resp. civ., 2012, 11, cui si rinvia anche per la cospicua bibliografia citata.
Pertanto, alcuni commentatori (33) hanno conte- stato che l’interpretazione costituzionalmente orien- tata adottata dalla Corte nomofilattica possa obliterare le fonti di regolamentazione del danno non patrimoniale, costituite - oltre che da specifiche norme di legge - dallo stesso contratto.
Tuttavia, nel caso di specie, si rinviene nel principio generale della tutela del risparmio di cui all’art. 47 Cost. il fondamento costituzionale del diritto invio- labile della persona leso; a ciò si aggiunga che il novellato art. 126 septiesdecies, comma 2, T.U.B. ora espressamente prevede - e fa salvo - il risarci- mento del danno anche non patrimoniale causato dal mancato rispetto degli obblighi e dei termini previsti per il trasferimento dei servizi di pagamento.
Tuttavia, l’aspetto maggiormente delicato in materia di danno non patrimoniale riguarda non tanto il fondamento normativo dell’interesse giuridico tute- lato, quanto piuttosto il regime probatorio della rela- tiva domanda.
Fin dalle richiamate pronunce a Sezioni Unite, è stato chiarito che il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conse- guenza, che deve essere allegato e provato: esso non può essere considerato danno in re ipsa perché, in tal modo, il risarcimento verrebbe concesso non in con- siderazione del suo effettivo accertamento, ma quale pena privata per un comportamento lesivo, dive- nendo una sorta di danno punitivo.
Per l’accertamento del danno non patrimoniale può farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale ed anche presuntiva; nel richiamato storico arresto, il Supremo Collegio ritiene ammissibile, altresì, il ricorso alle nozioni di comune esperienza, ove ci si trovi in presenza della specifica tipologia di danno non patrimoniale rappresentato dal danno biologico. Nella motivazione della decisione in commento, il Collegio evidenzia come “la ricorrente afferma e dimostra che il ritardo nelle operazioni di trasferi- mento degli strumenti finanziari le ha impedito di effettuare tempestivamente altre operazioni d’inve- stimento aventi ad oggetto i medesimi titoli presso altro intermediario” e, a fronte di ciò, riconosce che costei ha patito un danno patrimoniale, pari al deprezzamento dei titoli trasferiti.
Dunque, il Collegio giudicante pare essere incorso in contraddizione, dichiarando, da una parte, provato il
fatto che il ritardo con cui è stata eseguito il trasfe- rimento dei titoli ha, almeno temporaneamente, impedito l’esecuzione di un’operazione finanziaria, e dall’altro, negando che fosse stato provato il conse- guente danno non patrimoniale.
Tanto più che in un proprio precedente, l’Ombud- sman-Giurì Xxxxxxxx aveva deciso in modo comple- tamente opposto (34).
In quella circostanza, il ricorrente lamentava che, a causa del ritardo con cui era stato eseguito il suo ordine di trasferimento, era stato impossibilitato a liquidare alcuni titoli per acquistare obbligazioni più remunerative.
Il Collegio aveva rigettato la domanda di risarci- mento del danno patrimoniale, ritenendo non provati né l’effettiva intenzione di compiere l’operazione di smobilizzo e reinvestimento dei titoli, né l’entità del danno patrimoniale; al con- trario, aveva ritenuto di riconoscere un risarci- mento, quantificato in via equitativa, per il danno consistente nel fatto che, sulla base della comune esperienza, il ritardo nell’esecuzione del trasferi- mento di titoli sia, di per sé, fonte di incertezze e di difficoltà operative per il cliente che intenda effettuare movimentazioni di una certa comples- sità (nel caso di specie, vendita di tutto o parte del vecchio compendio e sottoscrizione di titoli di nuova emissione).
La motivazione utilizzata in tale occasione è eviden- temente riferita ad un danno non patrimoniale, richiamandosi al comprensibile stato di disagio indotto dalla preoccupazione per le possibili perdite economiche cui il risparmiatore risulti inaspettata- mente ed improvvisamente esposto, a causa del com- portamento ostruzionistico dell’intermediario.
Non avendo ritenuto provato il danno patrimoniale (sotto l’aspetto dell’evento e del nesso di causalità), in quella sede il Collegio aveva riconosciuto il danno non patrimoniale basandosi esclusivamente su prin- cipi di comune esperienza, in assenza di prova; al contrario, considerando provato il danno patrimo- niale (in quanto ne ricorrevano tutti gli elementi costitutivi), nella decisione qui in esame l’Ombud- sman-Giurì Bancario avrebbe da ciò potuto ricavare la prova presuntiva anche del danno non patrimo- niale, mediante un ragionamento argomentativo di certo più convincente di quello utilizzato nell’arresto precedente.
(33) X. Xxxxxxxxxx, Ildannononpatrimonialecontrattuale: profili sistematici di una nuova disciplina, AA.VV., Il danno non patrimo- niale contrattuale, Atti del Convegno di Roma, 14 maggio 2010, a cura di X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxxxxxxx, in questa Rivista, 2010, 728.
(34) Ombudsman-Giurì Bancario, decisione 26 febbraio 2013, ricorso n. 1014/2012, in Ombudsman-Giurì Bancario, Massimario e testo completo delle decisioni di maggiore interesse, 2013, 220.
Peraltro, pare opportuno richiamare l’attenzione sul fatto che ora sono espressamente esclusi dalla cogni- zione dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie, subentrato al soppresso Ombudsman-Giurì Bancario, non soltanto i danni che non siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento - così come previsto, d’altra parte, dall’art. 1223 c.c. - o dalla violazione degli obblighi posti a carico dell’in- termediario, ma anche quelli, appunto, non aventi natura patrimoniale (35).
Considerazioni conclusive sull’efficacia degli strumenti di risoluzione extragiudiziale
Nella decisione in esame l’Ombudsman-Giurì Bancario ha assegnato alla banca il termine di trenta giorni per dare esecuzione a quanto in essa statuito.
Per l’ipotesi in cui la banca ometta di dare seguito alla decisione a lei sfavorevole, la procedura prevede(va) una sanzione meramente reputazionale.
Infatti, il Regolamento dell’ormai soppresso Ombuds- man-Giurì Bancario stabiliva (36) che, in caso di mancata conformazione dell’intermediario alla deci- sione assunta nei suoi confronti, l’inadempienza venisse resa nota mediante pubblicazione su un quo- tidiano a diffusione nazionale, a cura e spese di costui, entro trenta giorni e, decorso inutilmente il termine, a cura dell’Ombudsman-Giurì Bancario, con addebito delle relative spese all’intermediario medesimo.
Né maggior forza vincolante hanno le decisioni del- l’Arbitro per le Controversie Finanziarie (37), attual- mente subentrato nelle funzioni dell’Ombudsman-
Giurì Bancario a seguito del D.Lgs. n. 130/ 2015 (38), posto che la sanzione conseguente alla mancata esecuzione della decisione da parte dell’in- termediario comporta che essa venga resa nota mediante pubblicazione sul sito web dell’Arbitro e, a cura e spese dell’intermediario inadempiente, su due quotidiani a diffusione nazionale, di cui uno economico, e sulla pagina iniziale del sito web del- l’intermediario stesso, per una durata di sei mesi (39). Naturalmente, in caso di mancata esecuzione della decisione a lui favorevole, resta, comunque, per il cliente la possibilità di adire l’Autorità giudiziaria, al fine di munirsi di un titolo esecutivo (40); lo stesso vale per le decisioni dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie (41) (queste ultime, anzi, possono valere per l’assolvimento dell’obbligo di esperimento del procedimento di mediazione, imposto anche per le controversie in materia bancaria e finanziaria dal X.Xxx. 4 marzo 2010, n. 28 (42)).
Tuttavia, è evidente che rappresenti una criticità l’esi- genza di doversi comunque munire di un provvedi- mento giurisdizionale esecutivo al fine di ottenere in via coattiva quanto già ritenuto dovuto da un organo particolarmente qualificato ed appositamente istituito per la risoluzione extragiudiziale delle controversie.
Nei casi in cui la prospettiva della sanzione reputazio- nale non sia sufficiente ad indurre l’intermediario a dare spontanea esecuzione alla decisione emessa nei suoi confronti, può sopperire uno specifico intervento dell’Autorità indipendente, la quale, opportunamente interessata mediante lo strumento dell’esposto, è nel potere di assicurare la tenuta del sistema, esercitando la funzione di vigilanza ad essa attribuita.
(35) Art. 4, comma 3 Regolamento di attuazione dell’art. 2, commi 5-bis e 5-ter del Decreto Legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, concernente l’Arbitro per le Controversie Finanziarie, approvato dalla Consob con delibera 4 maggio 2016, n. 19602.
(36) L’art. 10, comma 9 Regolamento per la trattazione dei reclami e dei ricorsi in materia di servizi e attività di investimento testualmente recitava: “L’Ombudsman, qualora venga a cono- scenza che l’intermediario non si è conformato alla decisione resa, assegna un termine per provvedere, disponendo inoltre, che, decorso inutilmente il termine, l’inadempienza sia resa nota mediante pubblicazione, entro i successivi trenta giorni, a cura e spese dell’intermediario, in un quotidiano a diffusione nazionale; decorso inutilmente anche questo termine, l’Ombudsman prov- vederà direttamente alla pubblicazione, addebitandone il costo all’intermediario”.
(37) Per un primo bilancio circa l’attività svolta dall’Arbitro per le Controversie Finanziarie si rinvia a X. Xxxxxx, Un anno di ACF tra risultati raggiunti e qualche incognita, in Corr. giur., 2018, 5.
(38) X. Xxxxxxx, L’arbitro per le controversie finanziarie presso la Consob (ACF), in questa Rivista, 2016, 1056.
(39) Cfr. art. 16 Regolamento di attuazione dell’art. 2, commi 5 bis e5 ter del Decreto Legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, concer- nente l’Arbitro per le Controversie Finanziarie, approvato dalla Consob con delibera 4 maggio 2016, n. 19602.
(40) L’art. 15 Regolamento per la trattazione dei reclami e dei ricorsi in materia di servizi e attività di investimento testualmente ricordava espressamente: “il ricorso all’Ufficio reclami o all’Om- budsman non priva il cliente del diritto di investire della contro- versia, in qualunque momento, anche successivo alla decisione, l’Autorità giudiziaria, un organismo conciliativo, ovvero, ove previ- sto, un collegio arbitrale”.
(41) Cfr. art. 16 Regolamento di attuazione dell’art. 2, commi 5- bis e 5-ter del Decreto Legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, concer- nente l’Arbitro per le Controversie Finanziarie, approvato dalla Consob con delibera 4 maggio 2016, n. 19602.
(42) Art. 5, comma 1 bis, X.Xxx. n. 28/2010. Sull’ADR in materia bancaria si veda N. Scannicchio, La risoluzione delle controversie bancarie. ADR obbligatoria e ADR dei consumatori - Il commento, in questa Rivista, 2016, 537.
Cessione del quinto
I costi della cessione del quinto tra regole di trasparenza
ed esigenze di mercato
A.B.F., Coll. Torino, 8 novembre 2017, n. 14161 - Pres. X. Xxxxxxxx Guastalla - Rel. X. Xxxxxxxx
In sede di estinzione anticipata di un contratto di finanziamento assistito da cessione del quinto, l’importo del rimborso dovuto al cliente deve essere calcolato secondo il criterio proporzionale ratione temporis, avendo riguardo sia per l’ammontare dei costi ricorrenti (o recurring) quanto degli oneri assicurativi.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Collegio di Coordinamento, decisione n. 6167/2014; Collegio di Coordinamento, decisione n. 10003/2016; Collegio di Coordinamento, decisione n. 10017/2016; Collegio di Coordinamento, decisione n. 10035/2016. |
A.B.F. (omissis)
Fatto
La parte ricorrente ha rappresentato di aver stipulato, in data 20 ottobre 2008, un contratto di finanziamento (in 120 rate) da rimborsare mediante la cessione del quinto della pensione con l’intermediario resistente e di averlo anticipatamente estinto, nel novembre 2012, dopo il pagamento di 49 rate, senza ottenere il rimborso della quota non maturata delle commissioni e dei costi assicurativi.
A seguito di reclamo, presentato con nota del 3 gennaio 2017, sostanzialmente riscontrato negativamente dall’in- termediario con lettera del 25 gennaio 2017, la parte ricorrente ha proposto ricorso all’ABF domandando: - il rimborso degli oneri non maturati in conseguenza dell’e- stinzione anticipata del prestito, determinato nei seguenti importi: “Commissioni finanziarie” euro 1.369,72, “Com- missioni accessorie” euro 106,50, “Costi assicurativi” euro 1.132,69, per complessivi euro 2.608,91; - la correspon- sione degli interessi legali sulle somme richieste, con decorrenza dal reclamo; - la rifusione delle spese per la difesa tecnica, quantificate in euro 320,00.
Nelle controdeduzioni, presentate tramite il Conciliatore Bancario il 24 luglio 2017, l’intermediario, in sintesi: - ha eccepito la propria carenza di legittimazione passiva: pre- mettendo che, a seguito del fallimento dell’intermediario sottoscrittore, la richiesta della parte ricorrente avrebbe dovuto essere indirizzata alla gestione fallimentare suben- trata all’intermediario sottoscrittore; - ha riferito che, successivamente, in seguito a un accordo con la gestione fallimentare dell’intermediario sottoscrittore, il credito relativo al contratto con la parte ricorrente veniva ceduto all’odierno resistente il quale si è assunto “l’onere di
effettuare alla clientela i rimborsi previsti dalla normativa in tema di credito ai consumatori”, manifestando, nel caso in oggetto, l’intenzione di offrire a tacitazione delle pretese della parte ricorrente la somma di euro 1.497,58 “a fini conciliativi”; - ha negato la fondatezza della pretesa di ristoro delle spese legali in quanto “di norma e salvo casi “eccezionali” [...] la procedura ABF non preved[e] alcun rimborso di spese legali”.
L’intermediario, in ogni caso, ha fatto altresì presente che: in generale, le previsioni contrattuali prevedono la restituzione delle somme inapplicazione del metodo finanziario, anche in adozione dei principi contabili internazionali; le singole voci di costo le commissioni agente/mediatore e le commissioni intermediario dovrebbero ritenersi up-front; la richiesta di ristoro dei costi assicurativi dovrebbe essere rivolta alla sola compagnia assicurativa (l’intermediario richiama in propo- sito una recente sentenza del Tribunale di Torino).
È pacifico che la parte istante abbia rimborsato integral- mente in via anticipata il finanziamento in oggetto, seb- bene non consti agli atti documentazione a comprova del pagamento a tale fine effettuato.
La parte ricorrente ha allegato copia del conteggio estin- tivo, elaborato dall’intermediario sottoscrittore in data 13 novembre 2012, con riferimento a 49 rate scadute (rispetto alle 71 residue) alla data del 30 novembre 2012. La parte resistente, con nota del 25 gennaio 2017 (prodotta dal ricorrente), ha affermato di aver incassato in data 7 dicembre 2012 la somma indicata nel conteggio estintivo a titolo di estinzione del finanziamento.
Sul contratto di prestito risultano timbro e firma di un soggetto appartenente alla rete distributiva.
Con particolare riferimento ai “costi assicurativi”, si rap- presenta, infine, che la parte ricorrente ha prodotto una comunicazione dell’intermediario sottoscrittore del
30 marzo 2009 con la quale quest’ultimo affermava che “i costi assicurativi occorrenti per l’istruzione della Sua pra- tica si sono attestati ad un livello inferiore a quello previsto nel contratto sottoscritto. Più precisamente essi hanno inciso per euro 1.757,47 (euro millesettecentocinquanta- sette/47) in luogo degli euro 1.914,41 (euro millenove- centoquarantuno/41) indicati sul contratto. [...] Come potrà notare, abbiamo provveduto a rimborsarLe mediante bonifico bancario la somma di euro 156,94 (euro centocinquantasei/94)”.
Sulla sopra riportata comunicazione dell’intermediario, presentata dalla parte ricorrente, nulla è stato eccepito dalle parti.
L’intermediario ha formulato, quindi, le seguenti conclu- sioni: - accertare e dichiarare la propria carenza di legitti- mazione passiva; - in ogni caso rigettare il ricorso in quanto privo di ogni fondamento sia in fatto che in diritto; - rigettare la pretesa di un contributo per le spese legali.
Diritto
Il ricorso verte su un contratto di finanziamento, da rimborsare mediante cessione del quinto della pensione. Il Collegio, nel merito, disattesa, in conformità al costante orientamento dei Collegi ABF in materia, l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva formulata dall’intermediario in ordine alla domanda di retrocessione della quota assicurativa (cfr. Collegio di Coordinamento, decisione n. 6167/2014; Collegio di Milano, decisione
n. 7216/2014 e Collegio di Napoli, decisione n. 856/ 2015), richiama il costante indirizzo interpretativo dei Collegi ABF in materia di rimborsabilità delle commis- sioni e degli oneri non goduti in sede di estinzione anti- cipata dei contratti di finanziamento per la quota parte non maturata ovvero secondo il criterio proporzionale ratione temporis.
Considerato che l’intermediario resistente non ha applicato detto criterio in sede di estinzione anticipata; tenuto conto che non si rinviene, nella documentazione in atti, una compiuta descrizione delle voci di costo oggetto di conte- stazione da parte della ricorrente; ritenuto che le medesime commissioni devono tutte qualificarsi recurring ai sensi del- l’art. 35, comma 2, del Codice del Consumo e dell’art. 1370 c.c.: (a) sono rimborsabili, per la parte non maturata, le commissioni di intermediazione (comunque denominate);
(b) l’importo da rimborsare viene stabilito secondo un criterio proporzionale ratione temporis, tale per cui l’importo complessivo di ciascuna delle suddette voci viene suddiviso per il numero complessivo delle rate e poi moltiplicato per il numero delle rate residue; (c) l’intermediario è tenuto al rimborso a favore del cliente delle suddette voci, inclusi gli “oneri assicurativi” (Collegio di Coordinamento nn. 10035/ 2016, 10017/2016 e 10003/2016).
Il Collegio richiama, più specificamente, l’approfondita e analitica motivazione della decisione n. 6167/2014 (i cui principi sono stati ribaditi dal Collegio di Coordinamento nelle recenti pronunce del 2016 sopra citate) con la quale il Collegio di coordinamento ha fatto il punto sulle que- stioni ricorrenti nelle controversie in materia di estinzione anticipata dei prestiti contro cessione del quinto della retribuzione/pensione ed operazioni assimilate, con riferi- mento al rimborso delle commissioni a vario titolo corri- sposte e dei costi assicurativi (criterio di distinzione tra costi up-front e recurring, eccessiva onerosità dei costi di mediazione e legittimazione passiva degli intermediari in relazione al ristoro dei premi assicurativi non goduti).
Con riferimento agli “oneri commissionali” in contesta- zione, nel caso di specie espressamente riferibili alle prov- vigioni ad “Agente in attività finanziaria o Mediatore creditizio ove intervenuto”, questi devono considerarsi costi up-front, secondo i principi sopra richiamati e tenuto conto dell’orientamento fatto proprio dai Collegi ABF, tutte le volte in cui sia stata in contestazione clausola di tenore simile a quella dei contratti oggetto dell’odierna controversa, non rilevando elementi per discostarsene. Sono invece da considerarsi recurring, per le medesime ragioni e principi sopra richiamati, richiamando le citate pronunce n. 10003, 10017 e 10035 del 2016, i costi relativi alle voci “commissioni dell’intermediario ed imposta di bollo” e “costi assicurativi”.
Nelle citate pronunce n. 10003, 10017 e 10035 del 2016, il Collegio di Coordinamento, dopo aver richiamato i prin- cipi espressi dalla decisione n. 6167/2014, per quel che in questa sede rileva, ha in particolare statuito quanto segue: - l’art. 125-sexies T.U.B., primo comma, fissa con norma imperativa il principio di competenza economica quale criterio legale di rimborso della quota non maturata degli oneri applicati al prestito; il secondo comma della dispo- sizione - sull’indennizzo spettante all’intermediario per l’estinzione anticipata - ne costituisce conferma; - l’auto- nomia negoziale attiene alla determinazione dei costi recur- ring, ma non può spingersi ad escludere il rimborso degli oneri per prestazioni soggette a maturazione nel tempo; - la chiara distinzione tra oneri up front e recurring risponde ad esigenze di trasparenza, al principio della necessaria giusti- ficazione causale delle attribuzioni patrimoniali e discende dal diritto al rimborso di cui all’art. 125-sexies T.U.B. Preso atto, quindi, che l’intermediario non ha fatto applicazione dei sopra richiamati criteri, in linea con il citato orientamento, tenuto conto delle posizioni condivise da tutti i Collegi territoriali, considerate le restituzioni già intervenute in sede di estinzione, respinte le eccezioni dell’intermediario stesso, le richie- ste del cliente meritano di essere accolte in applicazione del criterio pro rata temporis, secondo il prospetto che segue:
rate pagate | 49 | rate residue | 71 | Importi | Metodo pro quota | Rimborsi già effettuati | Residuo |
Oneri sostenuti | |||||||
Commissioni dell'intermediario ed imposta di bollo | 2.315,02 | 1.369,72 | 1.369,72 | ||||
Oneri assicurativi | 1.757,47 | 1.039,84 | 1.039,84 | ||||
Totale | 2.409,56 |
La somma risultante dalla tabella di euro 2.409,56 è inferiore alla somma richiesta dalla parte ricorrente (euro 2.608,91) poiché le provvigioni per l’agente/inter- mediario, come sopra detto, sono da considerarsi costo up- front e gli oneri assicurativi sono ridotti a euro 1.757,47 in conformità a quanto indicato dall’intermediario sotto- scrittore con la nota del 30 marzo 2009, prodotta dalla parte ricorrente.
Peraltro, si fa presente, che, nelle controdeduzioni, l’in- termediario si è già dichiarato disponibile a rimborsare euro 1.497,58.
Quanto agli interessi legali, si rileva che essi devono essere riconosciuti, in conformità ai principi fatti propri da tutti i collegi territoriali (ex multis si veda il Collegio di Coordi- namento decisione n. 5304/2013, nello stesso senso cfr. la pronuncia del Collegio di Coordinamento n. 6167/2014). Dovendo il rimborso, “qualificarsi come obbligazione pecuniaria avente natura meramente restitutoria, e non risarcitoria” ne deriva “che il decorso degli interessi debba essere considerato a partire dal reclamo, inteso quale atto
formale di messa in mora da parte del creditore della prestazione”.
Quanto alle spese legali e di difesa tecnica in favore di parte ricorrente, la richiesta non può accogliersi, accertato che non sussistono comunque i presupposti indicati dal Collegio di Coordinamento (in generale decisione
n. 3498/2012 e ancora la decisione n. 6167/2014) per il riconoscimento delle spese legali in suo favore.
P.Q.M.
Il Collegio accoglie parzialmente il ricorso e dispone che l’intermediario corrisponda alla parte ricorrente la somma di euro 2.409,56, oltre interessi legali dal reclamo al saldo. Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente norma- tiva, che l’intermediario corrisponda alla Banca d’Italia la somma di euro 200,00, quale contributo alle spese della procedura, e alla parte ricorrente la somma di euro 20,00, quale rimborso della somma versata alla presentazione del ricorso.
A.B.F., Coll. Torino, 8 novembre 2017, n. 14162 - Pres. X. Xxxxxxxx Guastalla - Rel. X. Xxxxxxxx
L’estinzioneanticipata diunfinanziamento controcessionedel quintodello stipendio (odella pensione) postulala rigorosa applicazione del criterio pro rata temporis, secondo cui l’importo globale delle spese “ricorrenti” e dei costi assicurativi viene suddiviso per il numero complessivo delle rate e successivamente moltiplicato per il numero delle rate residue. Anorma dell’art. 35, comma 2, c. cons. e dell’art. 1370 c.c., in caso di opacità delle voci di costo, queste devono ritenersi recurring e, come tali, soggette a rimborso in favore del cliente, ogni qualvolta ricomprendano attività non obiettivamente definite e/o non collegate ad attività preliminari.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme | Collegio di Coordinamento, decisione n. 6167/2014; Collegio di Coordinamento, decisione n. 10003/2016; Collegio di Coordinamento, decisione n. 10017/2016; Collegio di Coordinamento, decisione n. 10035/2016; Collegio di Coordinamento, decisione n. 5031/2017. |
A.B.F. (omissis)
Fatto
La parte ricorrente ha rappresentato di aver stipulato, in data 10 novembre 2009, un contratto di finanziamento (in 120 rate mensili), da rimborsare mediante la cessione del quinto della pensione, con finanziaria successivamente incorporata dall’intermediario resistente, e di averlo anti- cipatamente estinto, nel novembre 2014, senza ottenere il rimborso della quota non maturata delle commissioni e dei costi assicurativi.
Aseguito di reclamo, presentato con nota del dell’11 aprile 2016, che non sarebbe stato riscontrato dall’intermediario nel termine di trenta giorni, la parte ricorrente ha presen- tato ricorso all’ABF domandando: - il rimborso degli oneri non maturati in conseguenza dell’estinzione anticipata del prestito, determinato nei seguenti importi: “Commissioni bancarie” per euro 757,55, “Commissioni accessorie” per euro 2.267,96, “Oneri assicurativi” per euro 819,39, per complessivi euro 3.373,80 (somma al netto dell’abbuono
di euro 471,10 riconosciuto in sede di conteggio estin- tivo); - la corresponsione degli interessi legali sulle somme richieste, con decorrenza dalla data del reclamo; - la rifusione delle spese per la difesa tecnica, quantificate in euro 320,00.
Nelle controdeduzioni, presentate tramite il Conci- liatore Bancario il 9 maggio 2017, l’intermediario, in sintesi: - quanto alla richiesta di rimborso degli oneri assicurativi, ha eccepito che la domanda andrebbe prodotta nei confronti dell’impresa di assicurazione; purtuttavia, si è dichiarata disponibile a rimborsare la quota parte del premio assicurativo “ove non già rimborsato dalla compagnia assicurativa”; - per le “commissioni di gestione” (qualificate come “com- missioni bancarie” dalla parte ricorrente), ha dichia- rato che oltre a quanto già riconosciuto (euro 471,10) in sede di conteggio estintivo, “a titolo di mera correttezza e per puro spirito conciliativo” potrebbero essere ulteriormente versati euro 286,45, pari alla differenza tra quanto già riconosciuto e quanto
risultante dall’applicazione del criterio pro rata tem- poris; - per le “commissioni intermediario incaricato” (qualificate come “commissioni accessorie” dalla parte ricorrente), ha eccepito che non potrebbero essere oggetto di restituzione perché relative a somme non oggetto di maturazione temporale e che in ogni caso l’eventuale richiesta di ristoro avrebbe dovuto essere proposta avverso l’agente intermediario del finanziamento (tesi corroborata da un documento dal quale emergerebbe che la provvigione per la mediazione sarebbe stata effettivamente corrispo- sta); - per le “commissioni d’istruttoria”, non richieste da parte ricorrente, ha confermato che non sarebbero rimborsabili perché up-front; - con riferimento alla richiesta di rifusione delle spese legali, contesta la necessità del ricorrente di farsi assistere da un avvo- cato, trattandosi di “scelta del tutto discrezionale e personale del ricorrente”.
È pacifico che la parte istante abbia rimborsato integral- mente in via anticipata il finanziamento in oggetto.
Le parti hanno richiamato ed allegato lo stesso con- teggio estintivo, elaborato dall’intermediario in data 13 novembre 2014 con riferimento a 58 rate scadute (rispetto alle 120 complessive) alla data del
30 novembre 2014, con riconoscimento del citato abbuono di euro 471,10 a titolo di “quota parte delle commissioni di gestione afferenti la parte di finanziamento estinto anticipatamente”.
Il regolamento contrattuale (allegato dalla sola parte resistente in copia non firmata dalla parte ricorrente), in particolare, prevede all’art. 21 che “nel caso di estin- zione anticipata conseguente al rinnovo dell’operazione
... le parti concordano espressamente che non sarà dovuta la quota parte delle commissioni di gestione pratica a tale data non ancora rimborsate” (omologa disposizione è contenuta nel documento di sintesi allegato sia dal ricorrente che dall’intermediario in merito all’estinzione anticipata del finanziamento).
Quanto alla polizza-vita dal documento di sintesi si evince che il costo degli oneri assicurativi è sostenuto dal cliente e analoghe indicazioni emergono dal regolamento contrat- tuale (art. 5) emergono analoghe indicazioni
Il già citato art. 21 del regolamento contrattuale prevede, tra l’altro, che - in caso di estinzione anticipata del finan- ziamento - gli oneri assicurativi “vengono a tutti gli effetti equiparati al capitale mutuato”.
Dal contratto di prestito parrebbe evincersi timbro e firma di un soggetto appartenente alla rete distributiva. Il docu- mento, tuttavia, è scarsamente leggibile.
L’intermediario ha inoltre allegato un documento - firmato per accettazione dal mutuatario - con il quale l’intermediario ha riassunto le condizioni dell’operazione riferendo tra l’altro delle commissioni di intermediazione. Da quest’ultimo docu- mento risultano chiaramente timbro e firma di un soggetto iscritto all’albo degli agenti in attività finanziaria.
L’intermediario chiede, quindi, di rigettare in quanto infondato il ricorso, avuta presente la validità delle clau- sole contrattuali regolanti il rapporto in oggetto, ferme le proposte sopra riportate.
Diritto
Il ricorso verte su un contratto di finanziamento, da rimborsare mediante cessione del quinto della pensione. Il Collegio, nel merito, disattesa, in conformità al costante orientamento dei Collegi ABF in materia, l’eccezione preliminare di carenza di legittimazione passiva formulata dall’intermediario in ordine alla domanda di retrocessione della quota assicurativa (cfr. Collegio di Coordinamento, decisione n. 6167/2014; Collegio di Milano, decisione
n. 7216/2014 e Collegio di Napoli, decisione n. 856/ 2015), richiama il costante indirizzo interpretativo dei Collegi ABF in materia di rimborsabilità delle commis- sioni e degli oneri non goduti in sede di estinzione anti- cipata dei contratti di finanziamento per la quota parte non maturata ovvero secondo il criterio proporzionale ratione temporis.
Considerato che l’intermediario resistente non ha appli- cato detto criterio in sede di estinzione anticipata; tenuto conto che non si rinviene, nella documentazione in atti, una compiuta descrizione delle voci di costo oggetto di contestazione da parte della ricorrente; ritenuto che le medesime commissioni devono tutte qualificarsi recurring ai sensi dell’art. 35, comma 2, del Codice del Consumo e dell’art. 1370 c.c.: (a) sono rimborsabili, per la parte non maturata, le commissioni di intermediazione (comunque denominate); (b) l’importo da rimborsare viene stabilito secondo un criterio proporzionale ratione temporis, tale per cui l’importo complessivo di ciascuna delle suddette voci viene suddiviso per il numero complessivo delle rate e poi moltiplicato per il numero delle rate residue; (c) l’inter- mediario è tenuto al rimborso a favore del cliente delle suddette voci, inclusi gli “oneri assicurativi” (Collegio di Coordinamento nn. 10035/2016, 10017/2016 10003/ 2016).
Il Collegio richiama, più specificamente, l’approfondita e analitica motivazione della decisione n. 6167/2014 (i cui principi sono stati ribaditi dal Collegio di Coordi- namento nelle recenti pronunce del 2016 sopra citate) con la quale il Collegio di coordinamento ha fatto il punto sulle questioni ricorrenti nelle controversie in materia di estinzione anticipata dei prestiti contro ces- sione del quinto della retribuzione/pensione ed opera- zioni assimilate, con riferimento al rimborso delle commissioni a vario titolo corrisposte e dei costi assi- curativi (criterio di distinzione tra costi up-front e recur- ring, eccessiva onerosità dei costi di mediazione e legittimazione passiva degli intermediari in relazione al ristoro dei premi assicurativi non goduti).
Con riferimento alla clausole in contestazione, per quanto concerne le “commissioni intermediario incaricato” si rappresenta che è consolidato l’orientamento ABF che ha ritenuto recurring la provvigione dell’agente indicata con clausola di tenore analogo a quella del contratto oggetto dell’odierna controversia; lo stesso è a dirsi, con riferimento alle “commissioni di gestione pratica”, la cui voce di costo è da ritenersi recurring ogni qualvolta ricom- prenda attività non chiaramente definite e/o non colle- gate ad attività preliminari.
A supporto si richiama la decisione del Collegio di coor- dinamento n. 5031/2017 che pronunciandosi su clausole relative alle “commissioni bancarie”, di tenore analogo a quella formulata nel contratto in controversia, si è espresso per la loro natura recurring “sia in considerazione della opacità delle relative clausole, sia per la natura recurring delle attività a queste riconducibili”: Non si ravvedono, pertanto, elementi per discostarsi da tale consolidato orientamento.
Si fa altresì presente che nel caso di specie l’interme- diario ha manifestato nelle controdeduzioni la propria disponibilità a riconoscere alla parte ricorrente la differenza tra quanto già rimborsato per le commissioni de quo in sede di conteggio estintivo e quanto spet- tante in base all’applicazione del criterio pro rata temporis.
Per le ragioni sin qui esposte anche i costi relativi alle voci degli “oneri assicurativi” in contestazione sono altresì da considerarsi recurring e rimborsabili pro rata temporis (cfr. le citate pronunce n. 10003, 10017 e 10035 del 2016, nelle quali il Collegio di Coordina- mento ha ripreso quanto espresso nella citata decisione n. 6167/2014).
Preso atto, quindi, che l’intermediario non ha fatto applicazione dei sopra richiamati criteri, in linea con il citato orientamento, tenuto conto delle posizioni con- divise da tutti i Collegi territoriali, considerate le restituzioni già intervenute in sede di estinzione, respinte le eccezioni dell’intermediario stesso, le richieste del cliente meritano di essere accolte in applicazione del criterio pro rata temporis, secondo il prospetto che segue:
L’importo come sopra calcolato pari ad euro 3.373,80 coincide con la somma richiesta dalla parte ricorrente.
Quanto agli interessi legali, si rileva che essi devono essere riconosciuti, in conformità ai principi fatti propri da tutti i collegi territoriali (ex multis si veda il Collegio di Coordi- namento decisione n. 5304/2013, nello stesso senso cfr. la pronuncia del Collegio di Coordinamento n. 6167/2014). Dovendo il rimborso, “qualificarsi come obbligazione pecuniaria avente natura meramente restitutoria, e non risarcitoria” ne deriva “che il decorso degli interessi debba essere considerato a partire dal reclamo, inteso quale atto formale di messa in mora da parte del creditore della prestazione”.
Quanto alle spese legali e di difesa tecnica in favore di parte ricorrente, la richiesta non può accogliersi, accertato che non sussistono comunque i presupposti indicati dal Col- legio di Coordinamento (in generale decisione n. 3498/ 2012 e ancora la decisione n. 6167/2014) per il riconosci- mento delle spese legali in favore di parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Collegio accoglie parzialmente il ricorso e dispone che l’intermediario corrisponda alla parte ricorrente la somma di euro 3.373,80, oltre interessi legali dal reclamo al saldo. Il Collegio dispone inoltre, ai sensi della vigente normativa, che l’intermediario corrisponda alla Banca d’Italia la somma di euro 200,00, quale con- tributo alle spese della procedura, e alla parte ricor- rente la somma di euro 20,00, quale rimborso della somma versata alla presentazione del ricorso.
rate pagate | 58 | rate residue | 62 | Importi | Metodo pro quota | Rimborsi già effettuati | Residuo |
Oneri sostenuti | |||||||
Commissioni di gestione pratica | 1.466,23 | 757,55 | 471,10 | 286,45 | |||
Commissioni intermediario incaricato | 4.389,60 | 2.267,96 | 2.267,96 | ||||
Oneri assicurativi | 1.585,92 | 819,39 | 819,39 | ||||
Totale | 3.373,80 |
IL COMMENTO
di Xxxxxxxxx Xxxxxx (*)
In caso di estinzione anticipata del finanziamento assistito da cessione del quinto, la riduzione del costo totale del credito, prevista dall’art. 125 sexies T.U.B., opera sulla scorta del criterio di competenza economica, incidendo in misura proporzionale alla quota-parte di finanziamento effetti- vamente usufruita dal cliente. Accogliendo la bipartizione tra costi fissi e costi ricorrenti, anche di natura assicurativa, l’A.B.F. torinese riconosce in favore dell’autonomia negoziale uno spazio di manovra commisurato all’esigenza di esatta quantificazione delle voci di costo rimborsabili.
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
La cessione del quinto
Le decisioni n. 14161 e n. 14162 entrambe del 8 novembre 2017 in commento hanno ad oggetto la zona d’ombra che ammanta l’annosa questione dell’estinzione anticipata del contratto di finanzia- mento da rimborsare mediante la cessione del quinto dello stipendio o della pensione (1).
Detta figura s’iscrive a pieno titolo nell’ampio genus dei contratti di credito al consumo cc.dd. non fina- lizzati (2), caratterizzato dalla circostanza che il finanziamento viene erogato in favore di un soggetto per scopi estranei all’attività imprenditoriale o pro- fessionale da questi esercitata. Originariamente rivolta ad una platea di fruitori relativamente ristretta (dipendenti e salariati pubblici), essa ha acquisito una sempre maggiore diffusione anche per effetto degli interventi comunitari di matrice consu- meristica (3), apportando ulteriori sviluppi alla nor- mativa generale sul credito al consumo che fa da cornice alla generica concessione di “un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito, o di altra facilitazione finanziaria” (art. 122, comma 1, lett. g), T.U.B.).
L’elemento caratterizzante di tale tipologia di finan- ziamento è costituito dalla modalità di rimborso, che si realizza mediante trattenuta diretta della retribu- zione (o della pensione) del soggetto finanziato, in misura predeterminata e continuativa, sebbene non eccedente il quinto degli emolumenti mensili, al netto delle ritenute di legge. Peraltro, a tutela delle
ragioni dell’ente erogatore, l’art. 54 del d.P.R. n. 180/ 1950 impone che l’operazione creditizia sia debita- mente assistita da un’assicurazione sulla vita del cedente e per il caso di perdita d’impiego, allo scopo di agevolare il recupero delle somme mutuate. Sotto il profilo strutturale, il contratto può inqua- drarsi in uno schema negoziale complesso, imper- niato su di una cessione del credito, realizzata in favore dell’ente erogatore, che ha per oggetto la quinta parte dello stipendio (o della pensione), impu- tata ad estinzione dell’obbligazione restitutoria nascente dal finanziamento (4). Ne consegue che, in applicazione dei principi che governano la ces- sione del credito, il negozio stipulato tra lavoratore (o pensionato) e banca o altro intermediario finanzia- rio, deve essere accettato o, più verosimilmente, notificato al debitore dell’emolumento (datore di lavoro o ente previdenziale), ai fini dell’opponibilità nei suoi confronti, ai sensi degli artt. 1264 e 1265 c.c. Nel quadro generale così delineato, infine, si è inne- stata la disciplina della procedura di composizione della crisi derivante da sovraindebitamento, di cui all’art. 18, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 convertito in
L. 17 dicembre 2012, n. 221. L’istituto appartiene all’alveo delle misure volte al contenimento dei fenomeni dell’usura e dell’estorsione, allo scopo dichiarato nella Relazione illustrativa di deflazionare il contenzioso derivante dall’esecuzione individuale. Favorendo la composizione negoziata delle crisi di soggetti non fallibili in un ambito procedimentale giudiziariamente controllato, la procedura consente
(1) Per una notazione storica, cfr. P. Xxxx, voce Credito b) Credito ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in Enc. dir., XI, Milano 1962, 285, il quale precisa che “la prima legge - che risale al 7 luglio 1902 e reca il n. 276 - creò l’istituto della “ces- sione”, accordando agli impiegati civili e agli ufficiali - provvisti di assegno fisso e continuativo superiore alle lire 100 - la facoltà di cedere, entro i limiti del quinto, quote dello stipendio, per un termine non superiore ai cinque anni”. Relativamente all’estin- zione anticipata della cessione del quinto ed i problemi da essa scaturenti, considerata la peculiare conformazione del carico eco- nomico che la caratterizza, v. X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxxxxxx, Il credito ai consumatori. I rimedi nella ricostruzione degli organi giudicanti, Milano, 2013, 116 ss. Attualmente la materia è disciplinata dal Titolo III (artt. 51-57) del d.
P.R. 5 gennaio 1950, n. 180, come modificato, in primo luogo, dalla
L. n. 311/2004 (c.d. Finanziaria del 2005), con la quale si è estesa l’applicabilità della disciplina sulla cessione dello stipendio anche ai dipendenti di imprese private; in secondo luogo, dal D.L. n. 35/ 2005, con cui i pensionati (pubblici o privati) sono stati ammessi a contrarre finanziamenti da estinguersi mediante la cessione di quote della pensione. Da ultimo, il legislatore ha allargato lo spettro applicativo soggettivo, facendovi rientrare anche i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa o a progetto, nonché più in generale coloro che sono “titolari dei rapporti di lavoro di cui all’articolo 409, numero 3), del codice di procedura civile”, purché la durata del rapporto ecceda le dodici mensilità ed il compenso pattuito rivesta un carattere “certo e continuativo” (art. 52, D.L. n. 35/2005).
(2) In linea di principio, si può tracciare una teorica linea di demarcazione tra erogazione di crediti strumentali all’acquisto di determinati beni di consumo o servizi (c.d. credito finalizzato) e finanziamenti concessi senza alcun vincolo di destinazione (c.d. credito non finalizzato). La “cessione del quinto” rientra nella categoria descritta per seconda, al pari dei prestiti personali, delle
x.x. xxxxx di credito revolving, nonché dei crediti garantiti da delegazione di pagamento.
(3) La materia è stata interessata sin dal 1987 da un’incisiva attività di armonizzazione a livello europeo delle disposizioni legi- slative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri. Più specificamente, la disciplina è oggi regolata, sotto il profilo del diritto interno, dagli artt. 121 ss. del D. Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (“Testo Unico Bancario” o “TUB”), come modificato dal D.Lgs. n. 141/2010 e successive integrazioni, per effetto del recepimento nel nostro ordinamento della Direttiva europea 2008/48/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008 in materia di credito ai consumatori, ispirata ai principi che informano il c.d. Codice del consumo, di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206.
(4) X. Xxxxxxxx, Credito al consumo: fornitore inadempiente e accordo tra creditore e fornitore, in Giur. it., Milano, 2010, 50 ss. Ponendo l’accento sul carattere “de-finalizzato” del finanzia- mento, stante il carattere di credito erogato per ragioni puramente indicative, l’A. evidenzia il mutamento nel lato attivo del rapporto obbligatorio, sotteso allo schema negoziale de quo, a ragion veduta parlando di “diritti su quella quota di retribuzione (...) trasferiti al finanziatore”.
al sovraindebitato di beneficiare dell’inesigibilità del passivo residuo (5).
Il punto di intersezione con la tematica della cessione del quinto si coglie in riferimento al comune ambito soggettivo di applicazione: la proposizione del piano è infatti consentita, ai sensi dell’art. 7, comma 1 bis della
L. n. 3/2012, anche e precipuamente al consumatore, che peraltro assurge a principale attore-beneficiario del rapporto creditizio in esame. Sul punto, è appena il caso di rilevare il contrasto di natura giurisprudenziale in ordine alla efficacia della cessione del quinto nei confronti della procedura da sovraindebitamento (6).
Le questioni rilevanti
La fattispecie comune alle decisioni in esame è del tutto similare e concerne il rimborso anticipato di un finanziamento - della durata prestabilita in dieci anni (120 rate) - assistito da cessione del quinto della pensione, che rappresenta senza dubbio il banco di prova più delicato nei rapporti negoziali intercorrenti tra cliente e intermediario finanziario. Occorre con- siderare, infatti, il peso che la scarsa trasparenza e l’elevato tasso di complessità tecnica del testo con- trattuale - per prassi predisposto unilateralmente dagli intermediari - assumono nella complessa disci- plina del contratto in esame, frequentemente incon- ciliabili con le “best practices” più volte segnalate dalla Banca d’Italia come modelli da seguire (7).
In particolare, sotto la lente d’ingrandimento del- l’autorità di vigilanza è ricaduto il grado di chiarezza nella rappresentazione dei costi, giudicato del tutto
insufficiente, soprattutto alla luce della frequente duplicazione delle voci di commissione (di cui meglio infra), con notevoli ricadute sotto il profilo della moltiplicazione degli oneri, nonché della corretta valutazione degli importi oggetto di restituzione in caso di estinzione anticipata dei contratti. Tutto ciò si è tradotto in un aumento esponenziale del conten- zioso. Benché il finanziamento contro cessione del quinto rappresenti poco meno del 10% dell’intero mercato del credito (8), a tutto il 2017 esso produce il 73% dei ricorsi devoluti alla cognizione dell’Arbitro Bancario Finanziario (9).
Tuttavia, è bene precisare come la quasi totalità delle controversie (90%) tragga origine da contratti stipu- lati prima dell’emanazione delle Comunicazioni dalla Banca d’Italia negli anni 2009 e 2011, a riprova dei risultati cui l’esercizio dei poteri di vigilanza e di conformazione può ragionevolmente approdare con riferimento alla trasparenza e correttezza degli inter- mediari nei rapporti con la clientela.
Focalizzando l’attenzione sulle decisioni in esame, il Collegio dell’A.B.F. di Torino è stato investito delle questioni circa la definizione e corretta qualificazione delle voci di costo degli oneri contrattuali e l’indivi- duazione ed applicazione di un ragionevole criterio di rimborso al mutuatario, nonché della sorte dei costi assicurativi connessi all’operazione.
Gli oneri e le commissioni
L’iter logico fatto proprio dal collegio giudicante prende le mosse dalla bipartizione tra oneri e costi
(5) Mutatis mutandis si tratta del medesimo effetto esdebita- tivo di cui all’art. 142 l. fall., modellato sulla base dell’esperienza di discharge anglo-americano. In dottrina, parla di sistemazione “ordinata” dei crediti X. Xxxxxx - X. Xxxxxxxx, Corso di diritto commerciale, Bologna, 2013, 320.
(6) Nel senso che la cessione del quinto, qualificata come vicenda obbligatoria avente ad oggetto un credito futuro, sia inopponibile e che pertanto con l’ammissione del debitore alla procedura si verifichi l’interruzione dell’effetto traslativo della cessione per i ratei non ancora maturati, cfr. Trib. Ancona, Sez. II, 15 marzo 2018 e Trib. Busto Arsizio 24 gennaio 2018. Per una diversa ricostruzione, v. Trib. Monza 26 luglio 2017.
(7) Si veda, in proposito, la Comunicazione [n. 192691/2009, n. d.a.] del Governatore della Banca d’Italia del 10 novembre 2009 - intitolata “Cessione del quinto dello stipendio e operazioni assi- milate: cautele e indirizzi per gli operatori” - che sul punto afferma: “Relativamente all’estinzione anticipata, la Banca d’Italia ha stig- matizzato la prassi, seguita dagli intermediari, di indicare cumula- tivamente, nei contratti e nei fogli informativi, l’importo di generiche spese, non consentendo quindi una chiara individua- zione degli oneri maturati e di quelli non maturati. Tale prassi comporta la difficoltà, e talvolta l’impossibilità, per il cliente di individuare quali oneri debbano essere rimborsati in caso di estin- zione anticipata della cessione”. Al documento, integrante una prima forma di moral suasion per gli operatori del settore, ha fatto seguito la Comunicazione della
Banca d’Italia n. 139180/2011 che, pur riconoscendo i passi avanti svolti in materia di c.d. pricing e trasparenza contrattuale, eviden- zia come “gli intermediari hanno comunicato l’avvio di procedure per rimborsare alla clientela le somme indebitamente percepite e per disciplinare le modalità di retrocessione al cliente delle somme riscosse e non maturate in caso di estinzioni anticipate”, senza tuttavia pervenire ad una soluzione univoca e definitiva delle principali criticità.
(8) Cfr. Indagine conoscitiva sul credito al consumo della Com- missione finanze della Camera dei Deputati - Audizione del Capo del Servizio Supervisione intermediari specializzati della Banca d’Italia Xxxxxxx Xxxxxxx - Camera dei Deputati, 11 novembre 2009, 3. A riprova del “peso specifico” assunto da tale forma contrattuale, occorre precisare come essa rappresenti “una com- ponente significativa, anche per i profili di inclusione finanziaria”; in questi termini si esprime il Comunicato stampa diffuso dalla Banca d’Italia il 16 aprile 2016.
(9) Cfr. amplius Relazione sull’attività dell’Arbitro Bancario Finanziario - Anno 2017, 28 ss.
Dall’analisi dei dati relativi all’ultimo periodo disponibile emerge, peraltro, un deciso incremento (+45%) del numero di ricorsi in materia di cessione del quinto, che passano da 15.324 unità (anno 2016) a 22.238 unità (anno 2017). Balza allo sguardo attento dell’osservatore l’inquietante impennata della quota-parte di ricorsi riguardante i contratti stipulati dopo il 2011 (+500%), in netta controtendenza rispetto al triennio 2014-2106.
imputabili a prestazioni concernenti la fase delle trattative e della formazione del contratto (c.d. upfront, “in anticipo”) e commissioni ciclicamente ricorrenti nel corso del rapporto negoziale, che attri- buiscono al cliente un’utilità parametrata alla durata dello stesso (c.d. recurring, “periodico”).
La prima categoria ricomprende, di norma, le spese d’istruttoria, stipula e registrazione del contratto, oltre ad ogni commissione dovuta anche ad interme- diari terzi rispetto al finanziatore, di norma collegata all’attività di questi ultimi tesa ad istruire e verificare la situazione finanziaria del debitore. La qualifica di “ricorrenti”, invece, ben si conviene con riferimento alle spese sostenute dall’intermediario (o dagli even- tuali ausiliari) nel corso della fase esecutiva del pro- gramma negoziale; esemplificando, ci si riferisce alle somme versate a titolo di copertura dei rischi di credito, alle spese per l’incasso delle rate ovvero alle commissioni di gestione della pratica, ove non collegate ad attività istruttorie e/o preliminari.
Questa partizione, lungi da finalità meramente descrittive, assume un rilievo centrale in caso di estinzione anticipata del finanziamento. Il cliente, infatti, adempiuta l’obbligazione restitutoria del finanziamento ricevuto nel suo complesso, in linea di principio matura un diritto di credito al rimborso delle commissioni e dei costi attinenti alle rate non godute dalla controparte. E proprio in questo fran- gente si manifesta il punctum dolens dell’operazione. La carente comprensibilità unita alla generale opa- cità delle clausole in materia di rimborso, come già accennato, nel tempo hanno prodotto sensibili riper- cussioni in ordine alla quantificazione delle spettanze in favore degli intermediari, spesso fondate sulla onnicomprensività e/o superfetazione delle voci di spesa. Su questo fronte, allora, i già richiamati inter- venti della Banca d’Italia si spiegano proprio in ragione del vuoto di effettività scavato dalle worst practices a detrimento della regola secondo cui “Il
consumatore può rimborsare anticipatamente in qualsiasi momento, in tutto o in parte, l’importo dovuto al finanziatore. In tal caso il consumatore ha diritto a una riduzione del costo totale del credito, pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua del contratto” (art. 125 sexies, comma 1, T.U.B.). Con la conseguenza, più volte rilevata sul mercato, di rendere assai difficile una ragionevole predeterminazione del costo (obiettivo) del finanzia- mento, scoraggiando in ultima analisi il cliente dal ricorrere all’estinzione anticipata del credito.
Il criterio di rimborso e i limiti all’autonomia privata
Dinanzi al dilagare del contenzioso, si è affermato un indirizzo interpretativo (10) che ha sposato un crite- rio di rimborsabilità delle voci di costo (11) ricorrenti e non preliminari, imperniato sul principio di com- petenza economica (o ratione temporis). In base a tale criterio, la riduzione del costo del credito deve avve- nire in misura proporzionale alla quota-parte di finanziamento effettivamente goduta. Ne deriva che, ai fini della restituzione degli oneri non dovuti, l’importo complessivo delle voci recurring deve essere suddiviso per il numero complessivo delle rate e successivamente moltiplicato per il numero delle rate residue, considerando la maturazione della com- missione nel suo dinamismo cronologico ed esal- tando lo stretto rapporto causale che ne giustifica la ritenzione da parte dell’intermediario (12). In altri termini, i costi “ricorrenti” devono essere economi- camente valutati e computati pro rata, con particolare riferimento al periodo di effettiva durata del rapporto, ad esclusione pertanto delle rate successive rispetto al momento del rimborso anticipato.
A questo punto, occorre valutare se ed in quale misura l’autonomia privata possa giocare un ruolo, anche comprimario, nella modellazione della
(10) Cfr. in primis, Collegio di Coordinamento dell’ABF, deci- sione n. 6167/2014, che ha formalmente rigettato il criterio di calcolo alternativo “(...) dell’incidenza degli interessi nominali per il periodo di ammortamento non goduto rispetto agli interessi totali del finanziamento”, giustificato da alcuni Collegi ABF con la (pre- sunta) simmetria rispetto al criterio di computazione proporzio- nale degli interessi secondo il piano di ammortamento c.d. alla francese. L’ABF considera, inoltre, la partizione tra costi upfont (preliminari) e costi recurring (itineranti e ricorrenti) adeguata a consentire al cliente di conoscere “quale sia l’esatta attività svolta dall’agente- mediatore [o, evidentemente, anche da altro soggetto interve- nuto nell’operazione] e se essa abbia carattere esclusivamente preliminare o se essa si svolga continuativamente”.
(11) Si rammenti che le commissioni, ove dovute e non rim- borsabili, costituiscono un surplus rispetto agli interessi compen- sativi, assimilabile ad un’ulteriore remunerazione del capitale,
sempre che sussista un’adeguata giustificazione causale dell’e- sborso trattenuto dal finanziatore. A tale riguardo, alla massima prudenza anche contabile invita la già citata Comunicazione della Banca d’Italia n. 139180/2011, la quale sollecita gli operatori, in primo luogo, ad effettuare le rettifiche di bilancio conformemente ai principi contabili nazionali ed internazionali, ed in secondo luogo all’approntamento degli opportuni accantonamenti di bilancio, al convergente scopo di adempiere alle (sopravvenute) obbligazioni restitutorie da rimborso anticipato.
(12) Come afferma la già citata Comunicazione della Banca d’Italia n. 139180/2011 “è necessario sia applicato correttamente il principio di competenza economica nella rilevazione delle com- missioni percepite in relazione all’operatività in CQS [cessione del quinto dello stipendio, n.d.a.], distinguendo quelle che maturano in ragione del tempo (c.d. recurring), da rilevare pro quota tempo- ris, dalle altre, da rilevare quando percepite”.
disciplina del rimborso. Nella decisione n. 14161/ 2017 l’ABF fornisce una risposta affermativa, con- temperando le opposte esigenze di libertà contrat- tuale, volta alla personalizzazione del programma negoziale, da un lato, e di tutela del cliente contro il rischio di abusi in sede di chiusura del rapporto, dall’altro lato. Più specificamente, il collegio arbi- trale pone l’accento sulla delimitazione del confine di operatività del principio desumibile ex art. 1322 c.c., ristretto alla sola determinazione dei costi “ricor- renti”, non potendo finanche “spingersi ad escludere il rimborso degli oneri per prestazioni soggette a maturazione nel tempo”. Focalizzando l’attenzione sulla scelta legislativa, imperniata sul principio di competenza economica, i contraenti sono liberi di determinare i futuri costi recurring e la loro suddivi- sione temporale, ma non la quota di quei costi oggetto di rimborso in caso di estinzione anticipata del finan- ziamento. Per tale via, si manifesta una sostanziale adesione alla scelta interpretativa proposta dal Col- legio di coordinamento A.B.F., secondo la quale è consentita la deroga pattizia al principio di propor- zionalità “in senso stretto” qualora “sia anticipata- mente concordata e stabilita la quota (differenziata
nel tempo) di commissioni recurring in maturazione riferibili ad ogni rata, dovendo sempre applicarsi la regola che tutte le commissioni continuative, pagate in anticipo al momento di conclusione del contratto, devono poi essere rimborsate al consumatore per le quote imputabili alla rate non maturate (...)” (13). Quello improntato al pro rata temporis rappresenta, inoltre, il criterio di calcolo “(...) più logico e, con ciò stesso, [il] più conforme al diritto ed all’equità sostan- ziale” (14), strumentale alla corretta risoluzione dei dubbi interpretativi scaturenti dalla non infrequente opacità dei testi contrattuali. A ben vedere, sin dalla codificazione del 1942 il nostro legislatore ha sempre valorizzato il criterio ermeneutico della c.d. interpre- tatio contra proferentem (o, meglio ancora, contra stipulatorem (15)), avallando nell’ambito dei con- tratti standardizzati redatti da uno solo dei con- traenti, in caso di dubbio, la lettura semantica più favorevole per l’aderente, di cui all’art. 1370 c.c. (16). Tuttavia, l’approdo cui è pervenuto il legislatore europeo travalica la funzione puramente efficienti- stica, mirando alla protezione del consumatore (“contraente debole” per eccellenza (17)) nei rap- porti contrattuali intercorrenti con un professionista
(13) Cfr. Collegio di coordinamento, decisione n. 10003/2016. Nella fattispecie posta all’attenzione del Collegio si dibatte circa l’ammissibilità di una clausola contrattuale, contenuta nell’alle- gato, denominata “Piano annuale di rimborso interessi e commis- sioni”, in base si prevede un rimborso “forfettario” per le commissioni ricorrenti, in caso di estinzione anticipata, nella “misura massima del 60%”. Pur condividendo l’opinione secondo cui il criterio discretivo tra voci di costo non può basarsi sulla mera espressione percentuale, di per sé inidonea a palesare il collegamento causale tra opera prestata e corrispettivo goduto, il giudicante non esclude che “laddove in una medesima voce di costo siano raggruppate più attività chiaramente individuate come up front e recurring, la ripartizione del costo complessivo secondo una misura percentuale possa integrare e consentire una distin- zione tra le diverse attività, pur accomunate nella stessa voce, da ritenersi altrimenti opaca”. Ne consegue la validità di un meccani- smo di predeterminazione in percentuale dei costi globali, oggetto di rimborso, purché sia chiarificato - anche in forma sintetica - il contenuto delle prestazioni periodiche e continuative, connesse alla percentuale indicata.
(14) Collegio di coordinamento, decisione n. 6167/2014, cfr. nt.
n. 8.
(15) È da preferire la locuzione riportata, in luogo della più comune interpretatio contra proferentem, posto che quest’ultima allude alla unilateralità della dichiarazione (ricavabile, ad esempio, da una proposta negoziale accettata), imponendo che si interpreti non secondo l’intenzione, ma secondo l’espressione, come poteva e doveva essere compresa dal destinatario. La notazione semantica è opera di X. Xxxxxxx, Senso e consenso. Storia, teoria e tecnica dell’interpretazione dei contratti. Vol. 2: Tecnica, Torino, 2015, 601 ss.
(16) Seppure con presupposti e ambito applicativo parzial- mente diversi, la regola ermeneutica in esame era già contemplata nell’art. 1137 c.c. 1865 (“Nel dubbio il contratto si interpreta contro colui che ha stipulato, ed in favore di quello che ha contratto l’obbligazione”). Si osserva, infatti, l’assenza di ogni riferimento alla c.d. standardizzazione della contrattazione, frutto del
successivo mutamento della realtà economico-giuridica, che assume invece un valore determinante per il legislatore del 1942. In ordine alla ratio della soluzione legislativa, secondo autorevole interpretazione essa deve ricercarsi non solo (e non tanto) nella consueta esigenza della tutela dell’aderente, ma prevalente- mente nella considerazione che il predisponente è in grado di parlare chiaro, e, se non lo fa, deve ritenersi che alla clausola si è voluto attribuire l’altro e diverso significato; in tal senso cfr. X. Xxxxxxxxxxxx, Dei contratti in generale, in Tratt. Grosso, Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Milano, 1980, p. 189.
Per un approfondimento critico, cfr. X. Xxxxxxx, Senso e consenso,
cit., 601-602 ss., il quale in relazione alla disposizione normativa citata parla di “interpretazione protettiva”. Inoltre, l’A. acuta- mente osserva come la ratio della disposizione rispecchia l’esi- genza di far prevalere, nella clausola polisensa, la lettura comunque sfavorevole al predisponente, onde stimolarne la ten- sione verso una (efficiente) chiarezza contrattuale, ispirata al principio del clare loqui, seppur disgiunto dal parimenti rilevante honeste intelligere.
In relazione alla funzione di controllo indiretto (o mediato) sull’e- quilibrio contrattuale svolta dalla regola dell’interpretatio contra stipulatorem, cfr. X. Xxxxxxxx, Icontratti-tipo. Modellinegozialiperla regolazione del mercato: natura, effetti e limiti, Torino, 2017, 536 ss.
La S.C. si è focalizzata sull’analisi dei presupposti di operatività della regola ermeneutica in esame, rimarcandone peraltro il carat- tere di residualità, affermando che l’art. 1370 c.c. presuppone “(...) non solo che uno dei due contraenti abbia predisposto l’intero testo del contratto al quale l’altra parte abbia prestato adesione, ma anche che lo schema negoziale sia precostituito e le condizioni generali siano predisposte mediante moduli e formulari, al fine di poter essere utilizzate in una serie indefinita di rapporti”. Cfr. Cass., Sez. III, 27 maggio 2003, n. 8411, in Pluris.
(17) Ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a) cod. cons., da ultimo novellato dal X.Xxx. 21 febbraio 2014, n. 21, per consumatore si intende “la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale
(Business to consumer o “B2c”) (18). Proprio su questa scia di politica del diritto si situa il portato, per certi versi rivoluzionario, dell’art. 35 cod. cons. che, dopo aver sancito il principio di chiarezza e comprensibi- lità del contratto scritto, sanziona il “dubbio sul senso di una clausola” con la prevalenza dell’interpreta- zione più favorevole al consumatore (19).
Facendo tesoro dei migliori risultati cui sono perve- xxxx gli interpreti riguardo alle disposizioni succitate, il Collegio dell’ABF torinese ha accolto le istanze di tutela della parte ricorrente, pronunciandosi a favore della qualificazione delle commissioni controverse in termini di costi recurring. In particolare, la decisione
n. 14162/2017 espone un quadro fattuale piuttosto complesso, avente ad oggetto commissioni varia- mente denominate nel contratto (“commissioni ban- carie”, “commissioni intermediario incaricato” e similari) alle quali non corrisponde una chiara e comprensibile descrizione. Alla luce degli artt. 1370 c.c. e 35, comma 2, cod. cons., il collegio arbitrale stigmatizza l’assenza di una compiuta illu- strazione delle voci di costo oggetto di contestazione da parte della ricorrente. La conseguenza per l’inter- mediario-professionista, che non si sia preoccupato di giustificare tali commissioni, discende da quanto sopra esposto con riguardo all’applicazione del crite- rio pro rata. Nel merito si evidenzia che l’esito della qualificazione recurring (rimborsabile) del costo
dipende non solo dalla considerazione che l’attività remunerata attenga alla gestione della pratica nel suo divenire, ma anche quale sanzione alla opacità stessa della relativa clausola. Viene difatti avvertita l’esi- genza di far ricadere sul professionista - tenuto, sotto il controllo delle Autorità di vigilanza, a perseguire “buoni costumi commerciali” (20) improntati al rispetto del principio di correttezza - le conseguenze di una tecnica redazionale della clausola inadeguata e tesa a non perseguire la comprensibilità da parte del cliente.
In definitiva, può affermarsi che il Collegio dell’A.B.
F. di Torino abbia accolto il principio di competenza economica nella sua variante “debole”, lasciando socchiuse le porte di un intervento modellante da parte dell’autonomia negoziale (21). La rigidità del criterio pro rata temporis, infatti, può trovare un temperamento nella preventiva determinazione della quota, cronologicamente scadenzata, delle commissioni in maturazione, salvo il diritto al rim- borso delle quote imputabili alla rate non maturate, già versate al momento della stipula del contratto di finanziamento. Si tratta evidentemente di una moda- lità di calcolo forfettaria volta alla semplificazione dei rapporti, che se da un lato consente al cliente di valutare ab initio il costo effettivo del credito, dall’al- tro lato si pone nel solco precettivo tracciato dal principio di competenza economica (22).
eventualmente svolta”. La definizione appena richiamata presup- pone la compresenza di due requisiti per l’accesso alla tutela: l’uno positivo, rappresentato dalla qualità di persona fisica, ed un altro requisito di segno negativo, incentrato sull’estraneità allo svolgi- mento di attività professionali o imprenditoriali. Sulla definizione di consumatore, ex multis: X. Xxxx, Consumatore (tutela del) in Noviss. Dig. it., App. II, Torino, 1981, 516 ss.; X. Xxxx Xxxxxxxxx, Consumatore (tutela del), I) Diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., XV, App., 1997, 547 ss.; X. Xxxxx, Consumatore (contratti del), in Enc. dir., Agg. IV, Milano, 2000. Per un’ampia disamina in ordine all’estensione dell’ambito soggettivo di applicazione della normativa di tutela del “contraente debole”, cfr. G. D’Amico (a cura di), La riforma del codice del consumo. Commentario al D. Lgs. n. 21/2014, Milano, 2015, p. 35 ss.
(18) L’intera disciplina consumeristica poggia sull’assunto di politica legislativa secondo il quale la protezione del consumatore mira al miglioramento dell’offerta attraverso l’incentivazione all’efficienza delle imprese, che vanno incontro ad una “selezione naturale” basata sulla competitività e sul mantenimento di elevati standard qualitativi. La chiave di volta del sistema è rappresentata dall’intervento regolatorio, di cui la tutela del consumatore costi- tuisce un tassello, giacché “(...) solo nel mercato concorrenziale (...) è possibile determinare e garantire il corretto svolgersi dei rapporti di scambio”; in tal senso X. Xxxxxxx, Autonomia contrat- tuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, in X. Xxxxxxxx - X. Xxxxxxx (a cura di), Contratto e antitrust, Xxxx, 0000, 16 s.
(19) Il primo comma della norma citata impone la “redazione in modo chiaro e comprensibile” del testo contrattuale, in omaggio al principio di trasparenza; in tal senso, F. Di Xxxxxxxx, La regola di trasparenzaneicontrattideiconsumatori, Torino, 1998, 363 ss.; A.
Genovese, L’interpretazione del contratto standard, Milano, 2008, p. 162 ss. Per un’applicazione concreta del principio sud- detto, si veda l’art. 50 cod. cons. secondo cui, in materia di requisiti formali per i contratti negoziati fuori dai locali commerciali, sul professionista incombe l’obbligo di informativa precontrattuale; dette informazioni, in particolare, devono essere fornite al consu- matore in modo “leggibile e presentate in un linguaggio semplice e comprensibile”. A tale riguardo, v. X. Xxxxxxxx, L’attuazione della direttiva sui consumatori tra rimodernizzazione di vecchie catego- rie e “nuovi” diritti, in Europa e dir. priv., 2014, 951 ss.
Il contenuto dell’art. 35 cpv. cod. cons. riproduce, invece, una regola ermeneutica tesa alla protezione del consumatore, qualora insista un dubbio sul senso della clausola contrattuale. In ordine alla necessità (o meno) di un dubbio in senso soggettivo e le relative ricadute applicative, cfr. X. Xxxxxxx, Senso e consenso, cit., 607.
(20) Cass., Sez. I, 15 febbraio 1999, n. 1259, in Pluris, richiamata anche da Collegio di coordinamento, decisione n. 6167/2014.
(21) Cfr. Collegio di coordinamento, decisione n. 10003/2016, cfr. nt. 11, secondo cui “(...) in difetto di una precisa e scadenzata preventivazione contrattuale dei costi (...) deve ritenersi che le commissioni bancarie/finanziarie pagate anticipatamente per remunerare costi continuativi siano state quantificate in un ammontare globale in ragione della durata normale del rapporto e secondo un criterio rigidamente proporzionale con riguardo a ciascuna rata”.
(22) In questo senso, cfr. Collegio di coordinamento decisione
n. 10017/2016 secondo cui è da “ritenersi valida la quantificazione negoziale dei costi recurring addebitati al cliente in una percen- tuale del costo globale delle commissioni, a condizione, però, che nel contratto siano chiaramente indicate, sia pure in forma
Lo spatium deliberandi concesso all’autonomia privata impedisce, al contrario, di pervenire ad esiti opposti al dettato dell’art. 125 sexies T.U.B. Ne consegue che la mera indicazione di una quota percentuale non può costituire un valido criterio discretivo tra costi fissi e costi ricorrenti giacché esso difetta di ogni elemento definitorio ed impedisce al cliente di controllare l’effettiva erogazione delle attività corrispondenti alle spese sostenute (23).
I costi assicurativi
Per espressa previsione normativa, al contratto di cessione del quinto deve necessariamente accompa- gnarsi una polizza assicurativa sulla vita e contro i rischi di perdita o diminuzione della capacità lavo- rativa del cedente (24). L’art. 54 del d.P.R. n. 180/ 1950 (rubricato “Garanzie dell’assicurazione o altre malleverie”) richiede, infatti, il rilascio di apposita garanzia personale, accessoria all’operazione di finan- ziamento, allo scopo di prevenire il rischio di impos- sibilità di ammortamento o di mancato recupero, totale o parziale, delle somme mutuate. Proprio in relazione al premio assicurativo, è invalsa negli anni la prassi di eseguirne un versamento anticipato ed in unica soluzione, al fine di scongiurare la sospensione della garanzia ex art. 1901 c.c. (25) che di per sé
costituirebbe un grave vulnus all’operazione di finan- ziamento. Del resto, tale versamento viene di norma realizzato a cura e spese del finanziatore, in quanto “beneficiario sostanziale” della garanzia, e per conto del debitore garantito, sul quale incombe il peso economico del premio assicurativo.
A ben vedere, l’operazione in questione si inserisce in uno schema negoziale atipico e complesso, sor- retto da una causa di assunzione del debito altrui, logicamente scindibile in due fasi. In un primo momento il cliente delega l’intermediario finanzia- rio a versare il premio all’assicuratore, con imputa- zione del relativo importo in conto finanziamento (causa credendi). La seconda fase si risolve, invece, in un accollo cumulativo (26) da cui promana la responsabilità solidale di entrambe le parti che, alla luce del rapporto di accessorietà sussistente tra il contratto di finanziamento e la polizza assicu- rativa, per l’effetto espone il finanziatore alla pretesa restitutoria del cliente, anche in caso di adempi- mento parziale operato dall’assicuratore (27). In particolare, occorre focalizzare l’attenzione sul col- legamento negoziale che avvince i due contratti citati. Rilevata la sussistenza di entrambi i requisiti (oggettivo e soggettivo) che qualificano il nesso teleologico (28), essi concorrono, invero, al rag- giungimento di un obiettivo causalmente unitario.
sintetica, le prestazioni continuative correlate a quella percen- tuale, con modalità e termini tali da consentire al cliente di verifi- carne l’effettiva natura preliminare o continuativa”.
(23) Aderendo all’indirizzo costante espresso dal Collegio di coordinamento dell’ABF, la suddetta decisione n. 10017/2016 precisa, altresì, come la distinzione tra costi “(...) [sia] anche - e soprattutto - finalizzata a garantire allo stesso cliente di compren- dere ‘quale sia l’esatta attività svolta dall’agente-mediatore [o, evidentemente, anche da altro soggetto intervenuto nell’opera- zione] e se essa abbia carattere esclusivamente preliminare o se essa si svolga continuativamente’”.
(24) Viene in rilievo, sul punto, il principio enunciato nell’art. 1896 c.c. secondo cui il contratto di assicurazione si scioglie per il caso di cessazione del rischio, salvo il diritto dell’assicuratore a pretendere il pagamento del premio sino all’avvenuta cognizione dell’evento estintivo. In dottrina, X. Xxxxxxxx, L’evoluzione norma- tiva del rischio nella teoria dell’assicurazione, in Ass., I, 1981, 182, ricomprende il fenomeno nell’alveo della risoluzione per impossi- bilità sopravvenuta. In giurisprudenza, Cass., Sez. III, 29 marzo 2005, n. 6561 in DeJure ha stabilito che lo scioglimento del contratto si verifica ipso iure per il fatto stesso della cessazione del rischio, potendosi da ciò arguire che la comunicazione all’assi- curatore costituisca un onere finalizzato ad estinguere ogni pre- tesa in ordine al premio assicurativo.
(25) Si ritiene comunemente che la norma citata costituisca un’applicazione in ambito assicurativo dell’eccezione di inadem- pimento, racchiusa nel noto brocardo inadimplenti non est adim- plendum, e consacrata nell’art. 1460 c.c.; di tale avviso è X. Xxxxxx, I contratti di assicurazione. L’assicurazione danni, Torino, 1991, 145, il quale mette pone l’accento sulla buona fede quale stru- mento idoneo a paralizzare l’operatività della suddetta eccezione. Relativamente alla rinunzia preventiva, da parte dell’assicuratore, agli effetti sospensivi della copertura assicurativa derivanti da
mancato versamento del premio, cfr. Cass., Sez. I, 29 marzo 1993, n. 3771, secondo cui una pattuizione in tal senso sarebbe da considerarsi valida in quanto derogativa in melius per l’assicu- rato, a norma dell’art. 1932 c.c.
(26) Per la qualificazione della categoria dei negozi di assun- zione di debito altrui, cfr. X. Xxxxxxxx, Studi sull’accollo, Milano, 1958, 171 ss. Giova rammentare che, sino all’eventuale adesione del terzo accollatario, la responsabilità di accollante ed accollato si intende circoscritta ad un semplice vincolo di solidarietà passiva, come tale privo della sussidiarietà riconducibile al c.d. beneficium ordinis. Sul punto, cfr. C.M. Xxxxxx, Diritto civile, 4. L’obbligazione, Milano, 1993, 683.
(27) Sulla scorta di tale ricostruzione il Collegio di coordina- mento, decisione n. 6167/2014 ha statuito che, ferma la respon- sabilità solidale di finanziatore ed assicuratore, “(...) l’eventuale controversia tra il cliente e l’intermediario in ordine all’integrale adempimento del debito altrui che rientra nella sfera di responsa- bilità dell’intermediario è sicuramente ricompresa tra quelle che l’ABF può conoscere”. Pertanto, il supremo organo arbitrale in materia - aderendo all’impostazione fatta propria dagli ABF di Roma e Milano - ha finito per sconfessare la ricostruzione operata dal Collegio di Napoli ed incentrata sulla vis attrattiva esercitata dal rapporto assicurativo nei confronti del rapporto obbligatorio di natura restitutoria. Tale premessa conduceva l’ABF campano a riconoscere il difetto di legittimazione passiva dell’ente finanzia- tore, dichiarando al contempo la propria incompetenza per materia.
(28) In relazione al requisito del legame di tipo funzionale, cfr. X. Xxxxxxxxxxxx, voce Collegamento negoziale, in Enc. dir., Milano, 1960, VIII, 376; X. Xxxxx, Xxxxxxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxxx, Xxxxxxx, 0000, 372. In giurisprudenza, Cass., Sez. III, 11 settembre 2014, n. 19161, in Pluris.
Logico corollario è nel senso di riconoscere l’inter- dipendenza delle situazioni giuridiche soggettive (in primis, i diritti di credito) nascenti dalle fattispecie contrattuali collegate, anche sul piano della respon- sabilità e della cognizione delle controversie da essa scaturenti (29).
In ordine alla sorte dei rapporti tra finanziamento estinto e polizza assicurativa accessoria, si è inse- rito un importante accordo intercorso nel 2008 tra ABI e ANIA (30) che riconosce al cliente il rimborso “[del]la parte di premio pagato relativo al periodo residuo per il quale il rischio è cessato. Tale parte è calcolata, per la componente relativa alla copertura assicurativa, in funzione degli anni e frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura nonché del capitale assicurato residuo, e per la componente residua relativa ai costi in proporzione agli anni e frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura. Il soggetto mutuante fornisce al cliente il conteggio dell’im- porto rimborsato”. L’intesa ha rappresentato il punto di avvio per la determinazione del criterio di rimborso del premio non goduto, seppur scon- tando il limite dell’applicazione su base volontaria da parte degli operatori economici, come tali “liberi di adottare soluzioni diverse da quelle descritte per venire incontro alle esigenze della propria clientela (...)” (31).
Sull’onda della sempre crescente diffusione del credito al consumo ed in recepimento delle istanze provenienti dalla prassi, il legislatore è intervenuto in materia principalmente con la L. 17 dicembre 2012 n. 221 di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, la quale impone, a carico
delle imprese assicurative, un generale obbligo di rimborso del premio a suo tempo versato - diret- tamente dal cliente ovvero per il tramite dell’i- stituto mutuante - in favore del cliente finanziato che abbia estinto anticipatamente il rapporto creditizio. Il suddetto rimborso deve essere para- metrato “(...) [al]la parte di premio pagato rela- tivo al periodo residuo rispetto alla scadenza originaria, calcolata per il premio puro in fun- zione degli anni e della frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura nonché del capitale assicurato residuo” (32).
Il quadro normativo così tratteggiato - applicabile retroattivamente anche ai contratti in esecuzione al momento dell’entrata in vigore della
L. n. 179/2012 - accorda la preferenza legislativa per un criterio di calcolo informato al noto princi- pio pro rata temporis anche in ordine alla retroces- sione dei costi assicurativi. Sul punto, i lodi in commento manifestano una piena adesione agli esiti sopra delineati e, in particolare, la decisione
n. 14161 si pronuncia in merito alla querelle circa la legittimazione passiva dell’intermediario finanzia- rio. L’A.B.F. torinese, infatti, richiama seppur inci- dentalmente un recente pronunciamento di merito (33) a mente del quale “(...) appare indub- bio che l’unico soggetto passivamente legittimato in ordine alla richiesta di restituzione o rimborso del premio sia l’impresa assicuratrice e non l’ente erogatore del finanziamento”. Il richiamo, invo- cato dalla parte resistente, non trova tuttavia acco- glimento da parte del collegio giudicante. Esso non contesta, infatti, la sussistenza del vincolo di soli- darietà passiva nascente dalla “posizione di
(29) Per una lucida ricostruzione anche dogmatica dell’istituto, cfr. Collegio di Napoli, decisione n. 856/2015.
(30) Ci si riferisce all’accordo concernente le “Linee guida per le polizze assicurative connesse a mutui e altri contratti di finanzia- mento”, siglato a Roma il 22 ottobre 2008 tra l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) e l’Associazione Nazionale per le Imprese Assicuratrici (ANIA).
(31) Il successivo Regolamento ISVAP (oggi IVASS) n. 35 del 26 maggio 2010 ha sostanzialmente confermato gli esiti raggiunti dalle associazioni di categoria, elevandone la portata precettiva sino al grado di autentiche norme regolamentari di prudenza, trasparenza e correttezza dei comportamenti tenuti dalle imprese assicurative.
(32) Il testo normativo così recita: “Nei contratti di assicura- zione connessi a mutui e ad altri contratti di finanziamento, per i quali sia stato corrisposto un premio unico il cui onere è sostenuto dal debitore/assicurato, le imprese, nel caso di estinzione anti- cipata o di trasferimento del mutuo o del finanziamento, restitui- scono al debitore/assicurato la parte di premio pagato relativo al periodo residuo rispetto alla scadenza originaria, calcolata per il premio puro in funzione degli anni e della frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura nonché del capitale assicurato resi- duo” (art. 22, comma 15-quater, L. n. 221/2012 di conversione del
D.L. n. 179/2012). Il successivo comma 15-quinquies, ispirato al generale principio di trasparenza che informa i rapporti bancari, precisa che “Le condizioni di assicurazione indicano i criteri e le modalità per la definizione del rimborso di cui al comma 15-quater. Le imprese possono trattenere dall’importo dovuto le spese amministrative effettivamente sostenute per l’emissione del con- tratto e per il rimborso del premio, a condizione che le stesse siano indicate nella proposta di contratto, nella polizza ovvero nel modulo di adesione alla copertura assicurativa. Tali spese non devono essere tali da costituire un limite alla portabilità dei mutui/ finanziamenti ovvero un onere ingiustificato in caso di rimborso”.
(33) Trib. Torino Sez. VI, 9 marzo 2016, n. 1354, in DeJure,a mente del quale l’onere derivante dalla stipulazione dell’assicura- zione obbligatoria ex art 54 del d.P.R. n. 180/1950 “(...) non rappresenta una remunerazione per il creditore-mutuante ma solo per l’impresa di assicurazioni che emette la polizza e incassa il premio. Avuto riguardo al fatto che tale componente di costo non rientra nell’autonomia negoziale delle parti e non deriva dalla volontà del creditore ma da un requisito di legge, non può che assimilarsi tale voce a quella relativa alle ‘imposte e tasse’, cioè a tutti i costi imposti dalla legge che, ai sensi dell’art. 644, c. 4, c.p. e art. 2, c. 2, legge n. 108/1996, non possono essere inclusi nel calcolo del T.E.G.M.”.
responsabilità-garanzia della corretta restitu- zione”, assunta dal finanziatore quale “contropar- tita” per l’anticipato ed integrale versamento del premio assicurativo. In altri termini, la combina- zione di finanziamento (contratto principale) e polizza assicurativa (contratto accessorio) esprime
un’esigenza di protezione degli interessi patrimo- niali del finanziatore, tale da giustificarne la piena legittimazione passiva al ristoro del premio residuo, anche a titolo “perequativo” e di riequili- brio dei rapporti patrimoniali col cliente- consumatore (34).
(34) Occorre rammentare che l’obbligatorietà dell’assicura- zione contro i rischi rappresenta un costo ineludibile per il cliente ad esclusivo vantaggio del finanziatore. Inoltre, le modalità con- crete di pagamento del premio sottendono una funzione di finan- ziamento ultroneo rispetto alle necessità del cliente, posto che la somma anticipata alla compagnia assicurativa viene “spalmata”
sul costo complessivo del credito. Xxxxxx, nel quadro delineato non appare peregrino ricostruire la causa della responsabilità dell’intermediario sulla scorta dell’obbligo di garanzia assunto da quest’ultimo per il rimborso ratione temporis di tutti i costi ricor- renti del credito, compresi quelli di matrice assicurativa.
Osservatorio dell’Arbitro Bancario Finanziario
a cura di Xxxxxxxxx Xxxxxxx, con la collaborazione di Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx
Credito ai consumatori
Usura - Tasso Effettivo Globale - Qualificazione della polizza assicurativa come “obbligatoria”
A.B.F., Coll. coord., 26 luglio 2018, n. 16291 - Pres. ed Est.
Massera
(Ord. rimessione: A.B.F. Napoli 12 giugno 2018, n. 13023).
Nelle ipotesi di contratti stipulati antecedentemente al 1° gennaio 2010 restano applicabili le Istruzioni emanate dalla Banca d’Italia nel 2006 e pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 74 del 29 maggio 2006 e, per gli intermediari finanziari, emanate dall’Ufficio Italiano Cambi pubblicate sulla G.U. 4 maggio 2006, n. 102.
Conseguentemente, il costo delle polizze assicurative deve essere incluso nel T.E.G. allorché risultino imposte dal creditore e intese ad assicurare al medesimo il rim- borso, totale o parziale, del credito. La relativa prova presuntiva e la prova contraria possono essere offerte in base ai criteri già indicati in tema di T.A.E.G. dal Collegio di Coordinamento A.B.F.
La questione
La controversia rimessa al Collegio di coordinamento trae origine da un contratto di finanziamento sottoscritto nel 2009 e del quale il ricorrente lamenta l’usurarietà. Ciò sulla scorta della asserita natura obbligatoria della polizza assicura- tiva stipulata a protezione del credito, in ragione della quale il Tasso effettivo globale (T.E.G.) avrebbe superato il tasso soglia mentre il T.A.E.G. effettivo avrebbe superato quello pubblicizzato dall’intermediario. La questione consente all’A.B.F. di tornare ad esaminare il tema dell’usura.
L’Xxxxxxx prende le mosse dalla sentenza con cui la Cassa- zione, nel 2017, muovendo dal disposto dell’art. 644, comma 5, c.p. ha ritenuto che “per la determinazione del tasso di interessi si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito”. In quell’occasione la Suprema Corte ha richiamato il diverso tenore delle Istru- zioni della Banca d’Italia, con cui è stata sancita, nel tempo, l’inclusione nel calcolo del tasso delle “spese per le assicura- zioni o garanzie, imposte dal creditore, intese ad assicurare al creditore il rimborso totale o parziale del credito” (versione del 2001); e poi delle “spese per assicurazioni o garanzie intese ad assicurare il rimborso totale o parziale del credito ..., se la conclusione del contratto avente ad oggetto il servizio assicu- rativo è contestuale alla concessione del finanziamento” (ver- sione del 2009). Per mezzo di tali richiami, i giudici di legittimità hanno stigmatizzato l’indirizzo interpretativo tendente ad escludere dalle voci rilevanti per il calcolo usurario le spese “facoltative”.
Il Collegio di coordinamento ricorda in particolare come, nel 2018, le Sezioni unite della Cassazione abbiano affermato il carattere innovativo - e non meramente interpretativo - delle disposizioni di cui all’art. 2 bis, D.L. 29 novembre 2008, n. 185 (conv. L. 28 gennaio 2009, n. 2), e quindi, logicamente, anche delle Istruzioni attuative emanate dalla Banca d’Italia nell’ago- sto 2009, con decorrenza dal 1° gennaio 2010. Ciò implica che, per i contratti stipulati antecedentemente a tale data, occorre applicare la disciplina previgente.
Le Istruzioni della Banca d’Italia vigenti dal 2006 includevano nel calcolo del tasso le “spese per le assicurazioni o garanzie, imposte dal creditore, intese ad assicurare al medesimo il rimborso totale o parziale del credito”, escludendo l’ipotesi alternativa della contestualità. Ne consegue, ad avviso del Collegio, che, con riferimento ai contratti stipulati nel vigore delle suddette istruzioni, occorre avere riguardo, includendole nel calcolo finalizzato a verificare il rispetto del tasso soglia, soltanto delle spese per le assicurazioni imposte dal creditore per assicurarsi il rimborso del credito e non - come previsto dalle successive istruzioni del 2009 - delle suddette e di quelle intese a tutelare altrimenti i diritti del creditore “se la conclusione del contratto avente ad oggetto il servizio assicurativo è conte- stuale alla concessione del finanziamento ovvero obbligatoria per ottenere il credito o per ottenerlo alle condizioni offerte”. Sulla scorta di tali premesse, risulta fondamentale, per la risoluzione del caso sottoposto a giudizio, ricostruire quando possa dirsi sussistente un collegamento tra polizza assicura- tiva e concessione del finanziamento. Seguendo l’orienta- mento della giurisprudenza ordinaria, l’A.B.F. ritiene che tale dimostrazione possa essere fornita con qualunque mezzo di prova e che risulti presunto nel caso di contestualità tra la spesa e l’erogazione, fatta salva quindi la possibilità per l’in- termediario di dimostrare che la polizza, seppure contestuale, non era funzionale a garantire la restituzione del finanziamento (come nell’ipotesi del mutuatario che scelga di sottoscrivere la polizza per garantire, nel caso di suo decesso prima della estinzione del debito, i propri eredi).
È proprio su questo punto che assume significativo rilievo la difformità tra le Istruzioni del 2006 rispetto a quelle del 2009. A differenza di quest’ultime, le precedenti Istruzioni facevano riferimento esclusivamente alle spese per le assicurazioni o garanzie, imposte dal creditore, intese ad assicurare al mede- simo il rimborso del credito. Ne deriva - prosegue l’Arbitro - che per i contratti stipulati antecedentemente al 1° gennaio 2010, ai fini della determinazione del tasso, occorre avere riguardo esclusivamente al costo delle polizze assicurative che il cre- ditore si è visto imporre dall’intermediario, e anche a prescin- dere dalla formale qualificazione di tali coperture in contratto come “facoltative”.
In tale prospettiva, rilevandosi non decisivo il criterio della contestualità, l’A.B.F. ritiene conforme a sistema utilizzare gli stessi elementi presuntivi già indicati dal Collegio di coordi- namento con riferimento al T.A.E.G. nelle decisioni congiunte
Giurisprudenza
Sintesi
del settembre 2017. In quel caso, era stato individuato un criterio presuntivo desumibile dal concorso delle seguenti circostanze: la polizza ha funzione di copertura del credito; sussiste connessione genetica e funzionale tra finanziamento e assicurazione, i due contratti sono stati stipulati contestual- mente e hanno pari durata; l’indennizzo è stato parametrato al debito residuo (v. I precedenti).
Per contrastare il valore probatorio di tali presunzioni, l’inter- mediario è tenuto a fornire elementi di prova di segno contrario attinenti alla fase di formazione del contratto, in particolare documentando, in via alternativa: (i) di aver proposto al ricor- rente una comparazione dei costi (e del T.A.E.G.) da cui risulti l’offerta delle stesse condizioni di finanziamento con o senza polizza; (ii) ovvero di avere offerto condizioni simili, senza la stipula della polizza, ad altri soggetti con il medesimo merito creditizio; (iii) ovvero che sia stato concesso al ricorrente il diritto di recesso dalla polizza, senza costi e senza riflessi sul costo del credito, per tutto il corso del finanziamento.
L’onere probatorio sotteso a queste possibili linee difensive della parte resistente si ricava dall’elaborazione operata in seno ai Collegi territoriali dell’Arbitro. Quanto alla prova sub (i), l’avere offerto lo stesso T.A.N. comprova l’offerta delle stesse condizioni senza polizza. Per quanto attiene alla prova sub (ii): (a) è sufficiente la mera dichiarazione dell’intermediario circa l’uguaglianza del merito creditizio degli altri soggetti; (b)è necessario che l’intermediario produca almeno due contratti;
(c) i soli cinque parametri da riscontrare al fine di ritenere raggiunta detta prova sono: T.A.N.; durata; importo; periodo di offerta; coobbligati/altre garanzie. Per quanto riguarda, infine la circostanza sub (iii), il Collegio ritiene sufficiente che il recesso, previsto inizialmente, sia consentito, previo preav- viso ma senza costi e senza incidere sul costo del credito, per ciascuno degli anni successivi, sino alla scadenza.
I precedenti
La decisione indicata in epigrafe svolge la propria argomenta- zione riferendosi costantemente alla sentenza di Xxxx. 5 aprile 2017, n. 8806, secondo la quale “[i]n relazione alla ricompren- sione di una spesa di assicurazione nell’ambito delle voci economiche rilevanti per il riscontro dell’eventuale usurarietà di un contratto di credito, è necessario e sufficiente che la detta spesa risulti collegata all’operazione di credito. La sussistenza del collegamento, se può essere dimostrata con qualunque mezzo di prova, risulta presunta nel caso di contestualità tra la spesa e l’erogazione”. Sul carattere novativo del D.L. 29 novembre 2008, n. 000, x. xxxxxx Xxxx., XX.XX., 00 xxxxxx 0000, x. 00000.
X.X.X., Xxxx. xxxxx., 0 xxxxxxx 0000, x. 000, xxx uniformandosi agli indirizzi della giurisprudenza di legittimità, ha precisato che “ogni qual volta in sede di erogazione di un finanziamento viene stipulata una polizza assicurativa, la riscontrata conte- stualità darà luogo a una presunzione iuris tantum di collega- mento che potrà essere vinta dando prova di totale assenza di funzionalità della polizza a garantire la restituzione del finan- ziamento, e dunque provando che il mutuo ha rappresentato soltanto l’occasione per offrire al cliente prodotti assicurativi diversi (ad esempio: polizza auto, polizza furto, polizza spese mediche, etc.), ovvero provando che la polizza non era stata richiesta e neppure offerta dall’intermediario, ma resa dispo- nibile direttamente dal soggetto finanziato o da questi unila- teralmente voluta”.
Per le già richiamate decisioni del Collegio di Coordinamento in tema di T.A.E.G. (A.B.F., Coll. coord., 12 settembre 2017, nn. 10617, 10620, 10621), v. questa Rivista, 2017, 670 e ivi ulteriori riferimenti.
Legittimazione al ricorso A.B.F.
Ricorso A.B.F. - Posizione dei coeredi - Natura
SOLIDALE O PARZIARIA DEL CREDITO
A.B.F. Bologna 10 ottobre 0000, x. 00000, xxx. - Pres. Marinari - Rel. Xxxxxxx
Alla luce delle divergenze tra il consolidato orientamento dei Collegi dell’Arbitro Bancario Finanziario e l’indirizzo interpretativo accolto dalla Corte di cassazione a Sezioni Unitedeveessererimessaal Collegio di Coordinamentola questione controversa concerne la natura - solidale ovvero parziaria - della posizione creditoria di cui sono contitolari i coeredi.
La questione
Questi i lineamenti del caso concreto: i ricorrenti, tra di loro coeredi, agiscono per ottenere il rimborso delle somme facenti parte del compendio ereditario sottratte fraudolentemente da terzi ignoti per mezzo di prelievi effettuati mediante carta Ban- comatintestataal decuius; l’intermediario resistente eccepisce il difetto di legittimazione attiva della controparte, riscontrando esservi altri successori a titolo universale estranei alla pretesa avanzata dinanzi al Collegio, oltre che, nel merito, la colpa grave dell’utilizzatore nella custodia del Bancomat e delle relative credenziali, in violazione delle previsioni del D.Lgs. n. 11 del 2010 e di puntuali obblighi contrattuali.
L’argomentazione difensiva della parte resistente, pur fondan- dosi precipuamente su contestazioni di carattere processuale, intercetta, a giudizio del Collegio, il tema sostanziale e logica- mente antecedente delle modalità - congiunte ovvero disgiunte - di attuazione del credito facente parte della comunione ereditaria e, dunque, l’interrogativo se la pretesa di cui esso consta possa essere fatta valere anche dal singolo coerede per l’intero e non già necessariamente da tutti i coeredi ovvero da ciascuno ma limitatamente alla quota ereditaria di sua spettanza.
Intorno alla questione si agita un vivace dibattito giurispruden- ziale e dottrinale, il quale individua nella sentenza delle Sezioni Unite della Cass. 20 novembre 2017, n. 27417 uno snodo di imprescindibile importanza. Con tale pronuncia, le Sezioni Unite precisano anzitutto che, a differenza dei debiti, i crediti del de cuius non si ripartiscono tra i coeredi in modo auto- matico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria (artt. 727, 757, 760 c.c.).
Muovendo da tali premesse, ritengono dunque applicabile il principio generale secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a van- taggio della cosa comune senza l’esigenza di integrare il con- traddittorio nei confronti di tutti gli altri partecipanti, in ragione della circostanza per cui il diritto di ciascuno di essi investe la cosa comune nella sua interezza.
Ne consegue che ciascuno dei coeredi può agire singolar- mente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza che vi sia la necessità di ottenere il consenso di tutti gli altri coeredi (e ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito). In tale quadro, gli eventuali contrasti insorti tra i coeredi devono trovare soluzione nell’ambito della distinta procedura della divisione ereditaria.
Nel tempo, l’orientamento affermatosi in seno ai Collegi territoriali dell’Arbitro Bancario Finanziario non appare
conforme ai suesposti passaggi argomentativi. In partico- lare, pur condividendo le premesse acquisite dalla giuri- sprudenza di legittimità - segnatamente, la caduta in comunione ereditaria dei crediti del de cuius - sembra essersi sedimentata nelle decisioni dei Collegi arbitrali una rilevante divergenza in ordine ai corollari che ne discendono.
Più in particolare, viene costantemente evidenziata l’esigenza, non considerata dalle Sezioni Unite, di distinguere le iniziative individuali di tutela suscettibili di avvantaggiare anche i coeredi che non le hanno promosse dalle iniziative individuali che, diversamente, non perseguendo ad esempio una funzione di protezione o di accertamento dei crediti ereditari, ben pos- sono recare pregiudizio alle ragioni dei coeredi rimasti inerti. In questa prospettiva, si ergono dunque come imprescindibili le esigenze di conservare l’integrità della massa ereditaria e di evitare che una qualsiasi iniziativa individuale possa compro- mettere l’esito della divisione stessa.
Per le ragioni rappresentate, i Xxxxxxx arbitrali escludono il diritto del singolo coerede di agire unicamente in nome proprio per riscuotere in tutto o in parte il credito.
Rilevando l’attualità della questione, le segnalate incon- gruenze tra l’orientamento della Corte di Cassazione e quello dei Collegi dell’Arbitro Bancario Finanziario, nonché il con- nesso rischio di più accentuate difformità tra gli indirizzi giuri- sprudenziali e arbitrali, con la pronuncia in esame il Collegio di Bologna rimette la decisione del ricorso al Collegio di coordi- namento, auspicando un avveduto intervento chiarificatore.
I precedenti Tra i precedenti conformi all’indirizzo interpretativo accolto dai Collegi dell’Arbitro, si segnalano, nel solco di un orientamento ampiamente condiviso, A.B.F. Napoli 28 settembre 2015, n. 7591; A.B.F. Roma 8 giugno 2016, n. 5399; A.B.F. Milano 13 giugno 2012, n. 2012, 14 ottobre 2011, n. 2182.
In senso parzialmente difforme in punto di motivazione, v. A.B.F. Napoli 1° febbraio 2012, n. 310, che si richiama in particolar modo alla circostanza che la domanda di liquidazione della quota, a prescindere dal diverso tema della modalità congiunta ovvero disgiunta di attuazione del credito, esige una previa determina- zione estintiva del rapporto di conto corrente, viceversa destinato a naturale ultrattività tra i cointestatari.
Blockchain
Blockchain e smart contract: questioni giuridiche aperte
di Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx (*)
La tecnologia blockchain ha la potenzialità di modificare in tempi brevi le modalità tradizionali di stipula e adempimento di molti contratti commerciali. Tuttavia, l’utilizzo sempre più diffuso di tale tecnologia pone, sia in Italia sia in altre giurisdizioni, una serie di interrogativi giuridici che, ove non risolti, costituiscono un ostacolo al suo pieno e completo sfruttamento. La mancanza di norme a livello nazionale ed europeo, infatti, lascia aperte molteplici questioni, soprattutto allorché la tecnologia blockchain si declina nei cc.dd. smart contract o ‘contratti intelligenti’, le cui caratteristiche peculiari non sono facilmente riconducibili a categorie giuridiche tradizionali.
Premessa
Il blockchain è una tecnologia finalizzata alla gestione di transazioni attraverso la creazione di un database distri- buito tra gli utenti di una rete (1). In altre parole, essa consiste in un registro pubblico e condiviso in grado di aggiornarsi automaticamente su ciascuno dei client che partecipano alla catena (i cc.dd. nodi). Tale registro è strutturato in blocchi, ognuno dei quali rappresenta un numero di transazioni la cui provenienza e ora di esecuzione sono attribuite in modo indelebile e immu- tabile, rispettivamente, attraverso un meccanismo di crittografia a chiave asimmetrica (2) e una marcatura
temporale (il c.d. timestamping). Ciascun blocco è col- legato irreversibilmente a quello precedente tramite una particolare operazione logaritmica (la c.d. funzione di hash (3)) e forma, in tal modo, la catena di blocchi (il blockchain appunto) accessibile e consultabile da tutti i nodi della rete. Prima di essere aggiunto alla catena, ogni blocco è controllato, validato e crittografato da alcuni dei nodi (cc.dd. xxxxx) tramite la soluzione di un’operazione matematica (4) e risulta così a prova di manomissione (5).
Il blockchain, quindi, consente di verificare, appro- vare ed archiviare su tutti i nodi di una rete in maniera
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) La distribuzione di un database tra gli utenti di una rate rappresenta il tratto distintivo delle c.d. distributed ledgers tech- nology (DLT), di cui il blockchain rappresenta l’esempio più famoso. Il concetto di distribuzione della gestione di un database si contrappone alla tradizionale logica della gestione centralizzata di dati (ad esempio, istituzioni finanziarie e banche per dati finan- ziari, enti pubblici per dati personali, ecc.), sottoposti al controllo di una (sola e sovraordinata) autorità centrale. Nel DLT non esiste un ordine gerarchico, ma tutti gli utenti della rete sono allo stesso livello e possono agire soltanto con il consenso della maggioranza.
(2) Nella crittografia a chiave asimmetrica ogni utente possiede una coppia di chiavi (una privata e una pubblica), utilizzate per la codifica e decodifica dei dati da condividere con altri utenti. La chiave privata è tenuta segreta dal suo possessore, mentre quella pubblica - generata dalla chiave privata - viene comunicata alla controparte: con la chiave privata vengono firmati (o cifrati) i dati da inviare, mentre il destinatario userà la chiave pubblica per decifrare la firma e, conseguentemente, accertare l’identità del mittente ed accedere ai dati trasmessi.
(3) La funzione di hash trasforma delle informazioni di lunghezza arbitraria (ad esempio, un messaggio) in un codice alfanumerico di lunghezza determinata (c.d. hash o stringa). Una volta avviata la funzione algoritmica su un’informazione e ottenuto il relativo hash,
ogni successiva modifica dell’informazione determinerà un hash totalmente diverso. Nel blockchain, quindi, ciascun blocco viene identificato con un hash che, in una stringa alfanumerica di lunghezza determinata, riassume e codifica le informazioni relative alle transa- zioni in esso contenute. Al momento di aggiungere alla catena un nuovo blocco (contenente nuove transazioni nate da quelle conte- nute nel blocco precedente), la funzione di hash avrà ad oggetto le informazioni relative alle nuove transazioni e l’hash identificativo del blocco precedente. Ogni nuovo hash, in pratica, racchiuderà anche l’hash del blocco precedente, andando così a creare una catena indissolubile.
(4) Ciascun nodo della rete può diventare un xxxxx e concorrere alla gestione di quello che rappresenta il passaggio più importante e delicato in un sistema blockchain, ovvero la validazione di nuovi blocchi. L’attività di mining consiste nella risoluzione di un com- plesso problema matematico ad opera del processore del com- puter o della scheda grafica. La validazione dei blocchi richiede un cospicuo impegno in termini di potenza e di capacità elaborativa e, di conseguenza, un alto dispendio energetico. Semplificando, il xxxxx sottopone specifici dati identificativi del blocco alla funzione di hash e l’hash che ne deriva per essere valido (e quindi validare il blocco) deve rispettare determinati criteri algoritmici.
(5) Tale tecnologia - utilizzando l’efficace similitudine del Xxxx. Xxxxxxxxx Maffè - richiama alla memoria il sistema che, in età medievale, scandiva la vita quotidiana dei cittadini di Roma, dove
indelebile e immodificabile, i dati delle transazioni in esso registrate, senza la necessità di ricorrere ad un soggetto terzo o ad una autorità centrale. È proprio il carattere della disintermediazione e decentralizza- zione (con la relativa semplificazione dei processi e la conseguente riduzione di costi) a rendere questa tecnologia particolarmente attraente per diversi set- tori e, in particolare, per tutti quelli caratterizzati dalla presenza di intermediari.
Il settore che ha testimoniato la nascita e diffusione della tecnologia in esame è quello finanziario, ove il blockchain è usato come ‘motore’ della moneta vir- tuale bitcoin. Bitcoin (6), infatti, teorizzato a fine 2008 da una o più persone sotto lo pseudonimo di Xxxxxxx Xxxxxxxx, rappresenta la prima applicazione pratica della tecnologia blockchain, finalizzata alla creazione di un nuovo sistema di moneta elettronica comple- tamente paritetico (c.d. peer-to-peer) (7). Xxxxxxxx, in pratica, ha ideato una valuta digitale decentraliz- zata, la cui creazione (8) e gestione (grazie al proce- dimento che caratterizza il blockchain descritto in incipit) sono sottratte ad una autorità centrale, sosti- tuita in toto dalla sottostante rete di partecipanti. Se, ad oggi, l’utilizzo primario del blockchain è ancora rappresentato dal settore finanziario, questa tecno- logia si sta diffondendo sempre più rapidamente in molti settori, quali, ad esempio, quello energe- tico (9), quello automobilistico (10) e quello agroa- limentare (11), fermo restando che le possibilità di utilizzo della stessa sono potenzialmente infinite. Applicazione particolarmente interessante in campo giuridico della tecnologia in esame si è avuta in Francia ove, con l’ordinanza governativa
n. 1674 datata 8 dicembre 2017, è stato introdotto l’utilizzo del blockchain al fine di registrare la pro- prietà e il trasferimento di titoli non quotati. Il blockchain, in pratica, opererà come registro decen- tralizzato che gli emittenti potranno utilizzare per la registrazione dei propri titoli. In particolare, l’ordi- nanza stabilisce che, qualora sia utilizzato un block- chain designato dall’emittente, le informazioni ivi inserite avranno gli stessi effetti giuridici di quelle iscritte nei registri pubblici.
Primi vagiti istituzionali
Lo sviluppo della tecnologia blockchain e il suo uso sempre più diffuso oltre i confini del settore finanzia- rio e dei bitcoin, rendono attuale il problema della mancanza di qualsivoglia normativa sia a livello nazionale sia a livello comunitario.
Lo scenario in cui ci troviamo attualmente è, infatti, ancora embrionale non solo dal punto di vista tecno- logico e commerciale (12), ma anche, e soprattutto, dal punto di vista normativo. Non vi sono, infatti, fonti del diritto italiano (13) o comunitario, né di primo né di secondo livello, che regolano tale settore né, allo stato, si può parlare di prassi commerciali diffuse, tali da costituire, almeno in nuce, una lex mercatoria a cui gli operatori del mercato possano fare riferimento. In uno scenario di questo tipo, ciò che il giurista è chiamato a fare è - citando Xxxxxx Xxxxxxx - raccogliere sistematicamente i fatti e stu- diare le pratiche mercantili, per ricondurle agli isti- tuti giuridici esistenti e, in tal modo, individuarne la disciplina applicabile.
le diverse fasi della giornata venivano individuate non dal rintocco di un singolo campanile, ma erano - per usare il lessico che caratterizza il blockchain - ‘validate’ dal rintocco di tutti i campanili della città.
(6) Con il termine “bitcoin” (lettera minuscola) ci si riferisce alla moneta elettronica, mentre con il termine “Bitcoin” (lettera maiu- scola) ci si riferisce al relativo blockchain e al network sottostante.
(7) Xxxxxxx Xxxxxxxx, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System, su xxxxxxx.xxx.
(8) Nel sistema Bitcoin, la creazione di nuova moneta è affidata ai xxxxx che, per l’appunto, sono ricompensati per la loro attività di verifica e validazione dei blocchi con bitcoin di nuova emissione.
(9) Dove, ad esempio, il blockchain è utilizzato per lo sviluppo di microreti per lo scambio diretto di energia tra c.d. ‘prosumers’, ovvero soggetti che, allo stesso tempo, sono produttori e consu- matori di energia elettrica (vedi, inter alia, progetti Brooklyn Micro- grid e Verbund-Salburg AG).
(10) È in via di sperimentazione un database distribuito e pubblico in cui registrare i dati riguardanti il chilometraggio, i tagliandi periodici, le riparazioni e gli incidenti di ciascuna vettura al fine di prevenire le frodi che caratterizzano il mercato auto- mobilistico secondario.
(11) Vi sono numerosi progetti volti a garantire tracciabilità degli alimenti dalla zona di origine delle materie prime fino al punto vendita (ad esempio, il progetto Foodchain).
(12) Diverse sono le criticità che, allo stato dell’arte, ancora ostacolano l’utilizzo di questa tecnologia su larga scala: in primis l’elevato consumo energetico che caratterizza l’attività di verifica e validazione dei blocchi. Secondo alcune stime, infatti, l’elettricità complessiva utilizzata annualmente per produrre bitcoin supera i 32 terawatt, ben superiore ai consumi di un paese come l’Irlanda, che si attestano sui 25 terawatt l’anno (vedi E. Marro, Come lavorano e quanto guadagnano i “minatori” del Bitcoin, su Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2017). Ulteriori ostacoli alla diffusione del blockchain sono rappresentati dalla velocità limitata nell’ese- cuzione delle transazioni (dieci minuti è il tempo mediamente impiegato su Bitcoin per la validazione di una transazione, incom- patibile con alcune attività, come quella di trading, che vede l’esecuzione di più transazioni al minuto) e l’incertezza sulla tenuta informatica del sistema, che potrà essere testata solo in itinere.
(13) Tuttavia, vale la pena ricordare che nello schema di decreto legge “Semplificazione” approvato dal Consiglio dei Ministri in data 15 ottobre 2018, è stata affermata la volontà di conferire alle informazioni e ai dati certificati attraverso tecnologie basate su registri distribuiti la stessa validità giuridica attribuita a informa- zioni e dati certificati attraverso l’uso delle tecnologie tradizionali. Dallo schema, inoltre, si intuisce la volontà di prevedere all’interno del decreto una precisa definizione normativa delle distributed ledger technology.
Fermo restando la mancanza di norme aventi ad oggetto la tecnologia blockchain e considerata la rapida e continua evoluzione della stessa nonché la relativa diffusione in molteplici settori, le istituzioni e i regolatori hanno, in più occasioni, iniziato a mostrare sempre più interesse e hanno altresì comin- ciato ad interrogarsi circa la necessità di intervenire con una normativa uniforme che garantisca un approccio omogeneo ai problemi che scaturiranno da una diffusione sempre maggiore di tale tecnologia. Esempi di tale interesse sono rappresentati da tre iniziative di recente adozione a livello comunitario. In primo luogo, l’Osservatorio e Forum dell’UE sul blockchain (14), inaugurato lo scorso primo febbraio dalla Commissione Europea con il sostegno del Par- lamento Europeo che si occuperà di evidenziare gli sviluppi più importanti della tecnologia blockchain e di rafforzare l’impegno assunto a livello europeo dai soggetti coinvolti nel settore. Più in particolare, l’Osservatorio ha il compito di raccogliere informa- zioni, seguire e analizzare le tendenze, affrontare le sfide ed esplorare il potenziale socioeconomico offerto da tale tecnologia, rendendo così possibile la cooperazione transfrontaliera nei casi di utilizzo pratico. Con questo progetto, la Commissione mira ad affrontare le sfide poste dai paradigmi sottesi al blockchain (semi-anonimia, tracciabilità, irreversibi- lità, oltre alla già citata disintermediazione), conso- lidare le competenze, ampliare le iniziative esistenti, garantire il funzionamento della tecnologia block- chain a livello transfrontaliero ed assicurare un approccio uniforme a livello europeo.
Sulla scia dell’Osservatorio e Forum dell’UE inaugu- rato dalla Commissione, su iniziativa di ventidue paesi europei (15) il 10 aprile 2018 è stata creata la European Blockchain Partnership che punta ad evitare un approccio frammentato dei vari attori del settore e a consolidare il ruolo dell’Europa nello sviluppo e diffusione della tecnologia blockchain. Con una dichiarazione sottoscritta in pari data, ognuno dei Paesi partecipanti (16) si è impegnato a nominare un rappresentante che lavorerà assieme all’esecutivo comunitario per stabilire le linee di intervento della Partnership e collaborerà con l’Osservatorio e Forum della UE sul blockchain.
Inoltre, merita di essere citato il nuovo Focus Group congiunto sul blockchain costituito dalla European Com- mittee for Standardization (CEN) e la European Commit- tee for Electrotechnical Standardization (CENELEC). L’obiettivo principale è quello di individuare potenziali profili di standardizzazione e specifiche esigenze di nor- mazione a livello europeo, supportando le iniziative di standardizzazione in fase di sviluppo ad opera della International Organization for Standardization col pro- getto Iso/TC 307 Blockchain and distributed ledger tech- nologies. Il Focus Group, inoltre, affiancherà le istituzioni europee nell’analisi e nello sviluppo delle potenzialità insite in questa tecnologia.
Da ultimo, si deve ricordare la risoluzione del Parla- mento Europeo del 3 ottobre 2018, intitolata “Tecno- logie di registro distribuito e blockchain: creare fiducia attraverso la disintermediazione”, che prende in esame le distributed ledger technology e, in particolare, la block- chain, tracciando alcune linee di azione rivolte alla Commissione Europea e ad altri organismi istituzionali dell’UE. In questo suo documento, il Parlamento Euro- peo sottolinea, tra le altre cose, la necessità di una valutazione approfondita delle potenzialità e implica- zioni giuridiche degli smart contract, invitando la Com- missione Europea a promuovere l’elaborazione di norme tecniche in collaborazione con le competenti organizzazioni internazionali.
Gli smart contract
La totale mancanza di norme sul blockchain lascia aperte varie questioni giuridiche, soprattutto quando questa tecnologia si declina nei cc.dd. smart contract. Lo smart contract,o ‘contratto intelligente’, è stato per la prima volta definito, in termini non giuridici, come “un insieme di promesse, espresse in forma digitale, incluse le regole che le parti vogliono applicarvi” (17). Tutta- via, è senz’altro giuridicamente più pertinente la defi- nizione che inquadra gli smart contract in un “un accordo automatizzato ed eseguibile. Automatizzato da un computer, sebbene alcune parti richiedano un input o un controllo umano. Eseguibile sia attraverso il ricorso all’autorità giudiziaria che tramite l’esecuzione automatica del codice” (18). In altri termini, un con- tratto intelligente consiste in un insieme di clausole,
(14) EU Blockchain Observatory and Forum su eublockchain- xxxxx.xx.
(15) Paesi fondatori sono Austria, Belgio, Bulgaria, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussem- burgo, Malta, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Svezia.
(16) Successivamente alla sua creazione, la European Block- chain Partnership ha visto l’ingresso dei seguenti Paesi: Cipro,
Danimarca, Grecia, Italia e Romania
(17) X. Xxxxx, in Smart Contracts: Building Blocks for digital markets, 1996.
(18) C.D. Clack - V.A. Xxxxxx - X. Xxxxxx, Smart Contract Tem- plates: foundations, design landscape and research directions, xxXxx.xxx, 2016.
espressione di un accordo tra due o più parti, che sono programmate in codice alfanumerico. Il “codice” prefi- gura un set di istruzioni con la descrizione di condizioni all’avverarsi delle quali vengono automaticamente innescate specifiche azioni anche esse definite nel codice. Il codice viene conservato sul blockchain così come le transazioni sono conservate normalmente su altre catene di controllo. L’impulso che determina l’esecuzione delle istruzioni registrate nello smart con- tract può dipendere da elementi interni allo stesso e cioè dalla successione di avvenimenti già compresi nel codice (come, ad esempio, lo spirare di un termine) ovvero da circostanze esterne (per esempio, un tasso di interesse). In tale seconda ipotesi è necessario l’inter- vento di un elemento esterno al blockchain (c.d. ‘ora- colo’) che costituisce un collegamento tra la catena e il mondo reale e permette la verifica del soddisfacimento delle condizioni esterne. L’oracolo può essere struttu- rato anche per interrogare più fonti al fine di accertare il verificarsi di condizioni esterne alla catena (ad esempio, un data feed che fornisce un tasso di interesse, un sensore che trasmette dati atmosferici quali temperatura e umi- dità, un GPS che trasmette una posizione oppure un organismo terzo che gestisce un conflitto). L’oracolo, in breve, è una fonte di dati affidabile e certificata che fornisce supporto per l’esecuzione (o la non esecuzione) dello smart contract trasmettendo al blockchain informa- zioni relative al mondo reale che concernono circo- stanze dedotte nel codice quali presupposti per l’esecuzione del contratto.
A differenza di una catena di controllo semplice che registra solo le transazioni, lo smart contract aggiunge un codice autoeseguibile con un ulteriore grado di complessità e di organizzazione. I protocolli verifi- xxxx ed eseguono le clausole del contratto e moni- torano l’esecuzione dello stesso. La tecnologia blockchain permette, quindi, per così dire, la self- enforceability del contratto: vengono cioè eseguiti automaticamente i termini e le condizioni dello stesso al verificarsi degli eventi predeterminati dalle parti e iscritti nel codice.
Gli smart contract si basano, come un diagramma di flusso, sulla logica “if this then that”: una volta soddi- sfatte le condizioni descritte nel codice si attivano automaticamente delle specifiche azioni che non possono essere interrotte. Infatti, dato che il libro mastro di blockchain è immutabile, il codice - e così il
contratto al quale esso si riferisce - può solo essere cancellato o modificato seguendo i termini definiti dal codice stesso. Pertanto, a differenza dei contratti tradizionali, che offrono la possibilità di adempiere le prestazioni come stabilito nel contratto stesso o di rendersi inadempienti ed andare incontro alle rela- tive conseguenze (ad esempio, sospensione della controprestazione, risoluzione per inadempimento, ecc.), tale opzione non è disponibile in uno smart contract dove l’adempimento del contratto è, per così dire, automatizzato e subordinato unicamente al veri- ficarsi di determinati eventi sottratti alla volontà delle parti (19). Gli smart contract, in altri termini, non possono rimanere inadempiuti: lo loro è una esecuzione a prova di manomissione, tamper proof. L’adempimento ‘automatico’ di uno smart contract è euritmico alle teorie “non negoziali” che sottoli- neano l’irrilevanza dell’animus solvendi nell’inqua- dramento del concetto di adempimento (20).
Riassumendo, è possibile descrivere lo smart contract come un contratto:
- digitale: le clausole contrattuali sono incorporate nel software sotto forma di codice;
- autoeseguibile: l’adempimento, essendo governato dagli input previsti nel codice, prescinde non solo dall’animus solvendi del debitore, ma finanche dal comportamento delle parti; e
- irrevocabile: una volta iniziato, il processo di ese- cuzione non può essere fermato o modificato.
Da tali caratteristiche discendono diversi vantaggi che contraddistinguono il contratto intelligente rispetto a quello ‘tradizionale’. In primo luogo, per quei contratti che richiedono la necessaria parteci- pazione di un terzo intermediario (come, ad esempio, la fornitura di energia elettrica e gas, la stipula di polizze assicurative, la compravendita di un bene immobile, la concessione di una linea di credito, ecc.) la conclusione di un contratto sul blockchain sostituisce la necessità di un terzo intermediario con una ‘validazione’ distribuita, con conseguente rispar- mio di tempo e di riduzione di costi normalmente legati all’adempimento dell’accordo contrattuale e ciò riduce (se non azzerare del tutto) il rischio di inadempimento di controparte. In aggiunta, la regi- strazione (irreversibile e immodificabile) dello smart contract sul blockchain, lascia una traccia indelebile e trasparente della storia del bene oggetto del
(19) Per questo motivo lo smart contract è stato accostato più volte alle cc.dd. vending machine (distributori automatici), dove, una volta innescato il processo mediante l’inserimento del denaro e la digitazione del codice prodotto, l’adempimento (i.e. l’eroga- zione del prodotto) è automatico e irreversibile.
(20) Contraria a tale interpretazione è la teoria negoziale, secondo cui l’adempimento, per poter essere qualificato tale, deve essere accompagnato da una specifica volontà del debitore di adempiere (cioè dell’animus solvendi) e dall’accettazione del creditore.
medesimo e diminuisce il rischio di danni derivanti da errori e frodi.
Per queste ragioni, vi sono molteplici progetti in svariati settori ove si sperimenta l’applicazione pra- tica degli smart contract. Per esempio, gli smart con- tract possono essere utilizzati nella fornitura e nel pagamento di energia elettrica: al consumo registrato dal contatore (che, in questo caso, rappresenta l’ora- colo che collega il codice alla realtà esterna) ne consegue una bollettazione precisa ed un puntuale pagamento della fattura. Un secondo esempio è rap- presentato dalla piattaforma UjoMusic, che permette agli utenti di ascoltare musica e utilizzare i registri distribuiti per pagare direttamente gli artisti, senza ricorrere ad alcun tipo di intermediario. Infine, una ulteriore applicazione pratica dei contratti intelli- genti in via di sviluppo riguarda la vendita di beni a rate: in una vendita a rate di un’autovettura, ad esempio, è stata ipotizzata una codificazione contrat- tuale che permette di avviare il motore solo dietro il pagamento della rata nel termine pattuito (21).
Tuttavia, come anticipato all’inizio del presente paragrafo, per permettere un’effettiva diffusione del- l’uso degli smart contract è necessario che siano pre- viamente risolte molteplici questioni giuridiche, ad oggi ancora non affrontate.
Natura e interpretazione dello smart contract
Un primo tema controverso relativo ai contratti intelligenti riguarda la natura giuridica. In partico- lare, ci si è interrogati circa la relazione che intercorre tra l’accordo contrattuale e il protocollo informatico o codice sotteso allo smart contract.
Da un lato, infatti, si potrebbe sostenere che gli smart contract siano in grado di sostituirsi completamente ai contratti tradizionalmente intesi e che il codice che si traduce nello smart contract costituisca, in toto, il con- tratto. Il codice, secondo tale interpretazione, avrebbe forza di legge tra le parti ai sensi dell’art. 1372 c.c. e sarebbe, quindi, autosufficiente, autoeseguito e auto- imposto, con la conseguenza - francamente eccessiva - che gli smart contract potrebbero porsi al di là di ogni possibile controllo da parte degli stati nazione e della relativa giurisdizione legale. Ritenere che il codice sia legge equivarrebbe, infatti, ad affermare che qualsiasi errore, clausola illegale o mancato recepimento di norme imperative diventerebbe parte del contratto,
rendendo lo stesso scollegato da ogni tipo di controllo esterno.
Argomentando in modo diametralmente opposto, invece, si potrebbe ridurre il ruolo degli smart contract alla mera automazione dell’adempimento sulla scia di quanto avvienenelsettoredelle vendingmachine (22). Secondo tale interpretazione, il vantaggio che con- seguirebbe all’utilizzo dei contratti intelligenti sarebbe limitato unicamente alla digitalizzazione e all’automatizzazione dell’adempimento al verificarsi di determinati eventi.
Un’interpretazione più realistica degli smart contract, che ne coglie il più ampio potenziale, li colloca all’in- terno del sistema giuridico tradizionale, sottolineando una discrepanza tra l’accordo delle parti e il protocollo codificato e, dunque, l’esigenza che gli smart contract debbano necessariamente integrarsi con ulteriori ele- menti espressione dell’intenzione e della volontà delle parti. Questa interpretazione (c.d. split contracting model) se da un lato, infatti, riconosce che gli smart contract possono determinare un aumento di efficienza in molti settori (con conseguenti riduzioni di costi di transazione e, ad esempio, dei tempi necessari per lo svolgimento di attività di verifiche o controlli), dall’al- tro pone l’accento sull’incapacità e la difficoltà di tra- durre in un unico codice complesse strutture negoziali. Seguendo tale ragionamento, si comprende, dunque, come lo smart contract afferisca non alla fase di forma- zione del contratto, che è e resta costituita dall’accordo tra le parti, ma a quella dell’adempimento, con la conseguenza che lo smart contract non integrerebbe neppure una fattispecie di contratto atipico ai sensi dell’art. 1322 c.c. Peraltro, se, da un lato, l’autonomia contrattuale è preservata in relazione al momento di formazione del contratto, dall’altro lato la stessa viene limitata in relazione alla fase dell’adempimento. Sono, infatti, sottratti alla volontà e al controllo delle parti edi soggetti terzi (e, teoricamente, anche all’immediato sindacato del giudice) gli elementi afferenti all’adem- pimento del contratto che vengono attuati automati- camente al verificarsi delle condizioni prestabilite e inserite nel codice (23).
Altro tema aperto in relazione agli smart contract è quello relativo all’interpretazione dei contratti intel- ligenti. Ridurre uno smart contract al codice determi- nerebbe l’eliminazione di qualsivoglia spazio per l’interpretazione. Infatti, se gli smart contract
(21) Un simile schema ben si colloca nell’alveo delle diverse forme di autotutela previste nel nostro ordinamento, quali, ad esempio, l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., il potere di sospendere l’esecuzione in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali di controparte ex art. 1461 c.c., e il diritto di ritenzione previsto dagli artt. 2756 e 2761 c.c.
(22) Cfr. nt. n. 16.
(23) Da una diversa prospettiva, si potrebbe inquadrare lo smart contract come una forma atipica di autotutela, alla luce del fatto che l’esecuzione automatizzata tutela il privato dall’inadempi- mento contrattuale di controparte.
consentono l’adempimento automatico secondo regole programmate sottese ciò per cui sono program- mati, non potrebbero trovare applicazione le regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 - 1371 ss. c.c. che, nel caso dei contratti ‘tradizionali’, sono utilizzate per la ricerca della comune intenzione delle parti con- traenti al momento della conclusione del contratto, talvolta nascosta dietro il significato oscuro o ambi- guo delle locuzioni utilizzate nel testo contrattuale. Alcune locuzioni giuridiche “qualitative” (ad esem- pio, buona fede) difficilmente possono essere tradotte nel linguaggio dei codici impiegato negli smart con- tract e richiedono necessariamente un intervento dell’interprete che tenga conto del settore di appli- cazione e della tipologia contrattuale. Anche sotto questa prospettiva, dunque, occorre che gli smart contract possano agganciarsi ad un elemento esterno. Al pari di tutti i contratti, anche l’interpretazione degli smart contract deve quindi tenere conto dei criteri dettati dalle previsioni codicistiche di cui sopra e, in particolare, non può sottrarsi ad uno dei principi cardine del nostro ordinamento, sancito dall’art. 1366 c.c., ossia l’obbligo di interpretare il contratto secondo buona fede.
Formazione del contratto
Altro tema che merita attenzione è quello relativo alla fase di formazione del contratto. Se, infatti, lo smart contract fa salva l’autonomia delle parti nella fase di formazione del consenso e, al pari di qualsiasi contratto, consiste in una manifestazione di tale volontà, può verificarsi che la formalizzazione di tale volontà mani- festata esternamente non corrisponda al vero intento negoziale del dichiarante.
Come noto, il nostro ordinamento considera e disci- plina tali scenari, prevedendo che i contratti con- clusi da un contraente il cui consenso sia stato dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo possano essere annullati su richiesta del medesimo contraente alle condizioni di cui agli artt. 1427 ss. c.c., ossia quando l’errore è essenziale ed è ricono- scibile dall’altro contraente (art. 1428 c.c.), quando
la violenza prospetta un male ingiusto e notevole (art. 1435 c.c.) o quando il doloè determinante per la conclusione del contratto (art. 1439 c.c.) (24). Inoltre, a tutela di soggetti considerati particolar- mente vulnerabili dall’ordinamento, il codice civile, all’art. 1425, sancisce anche l’annullabilità del contratto concluso dall’incapace legale e, in presenza delle condizioni di cui all’art. 428 c.c., dall’incapace naturale. Tuttavia, se tali meccanismi di tutela trovano normale applicazione con riferi- mento ai contratti tradizionali, occorre invece interrogarsi circa la loro possibile applicazione agli smart contract qualora ricorrano le condizioni all’uopo previste dall’ordinamento.
Ulteriori problemi in relazione alla capacità di agiree corretta formazione della volontà contrat- tuale riguardano la possibilità di verificare l’iden- tità della parte contraente. Infatti, considerate le caratteristiche degli smart contract, è evidente che gli stessi non possano essere ricondotti facilmente a una persona fisica o giuridica, considerata la possi- bilità di agire in via anonima o sotto pseudonimi. Da ciò consegue la difficoltà di riuscire a stabilire se le parti contraenti avessero o meno la capacità d’agire al momento della conclusione del contratto e se la relativa volontà contrattuale sia stata even- tualmente viziata (25).
Pertanto, nonostante sia ormai indiscussa la possibilità di concludere contratti, e quindi anche contratti intel- ligenti, per via informatica (26) tenuto conto della diffusione sempre maggiore del commercio elettronico, non si può escludere il rischio che il codice non con- tenga una corretta trasposizione della volontà della parte contraente e vi siano discrepanze tra l’accordo contrattuale e la traduzione nell’algoritmo.
Forma del contratto
Un ulteriore tema da considerare in merito all’u- tilizzo degli smart contract è quello relativo alla applicabilità agli stessi dei requisiti formali (ad substantiam o ad probationem) dettati dal nostro ordinamento. Il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 in
(24) Al riguardo, per gli smart contract potrebbe assumere particolare importanza la disciplina sul c.d. errore ostativo di cui all’art. 1433 c.c. che, consentendo l’annullamento del contratto quando l’errore riguarda non la formazione, ma la comunicazione della volontà, porrebbe un rimedio per tutte quelle situazioni in cui il codice non trasponga correttamente la volontà delle parti (ad esempio, a causa di errori di battitura del codice, cc.dd. bug).
(25) Tali problematiche non sono dissimili da quelli che carat- terizzano i meccanismi di firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, ove l’incertezza sull’identità del firmatario è sempre pas- sibile di un accertamento giudiziale. Sul punto, l’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 82/2005 (Codice dell’amministrazione digitale) stabili- sce, infatti, che “l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica
qualificata o digitale si presume riconducibile al titolare, salvo che questi dia prova contraria”.
(26) Vedi, in particolare, l’art. 9 della Dir. 2000/31/CE del Parla- mento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in parti- colare il commercio elettronico, nel mercato interno (c.d. Direttiva sul commercio elettronico): “Gli Stati membri provvedono affin- ché il loro ordinamento giuridico renda possibili i contratti per via elettronica. Essi, in particolare, assicurano che la normativa rela- tiva alla formazione del contratto non osti all’uso effettivo dei contratti elettronici e non li privi di efficacia e validità in quanto stipulati per via elettronica”.
relazione ai documenti informatici (27) riconosce che gli stessi se sottoscritti, inter alia, con firma digitale basata su un sistema di chiavi crittografi- che, una pubblica e una privata, integrano il requi- sito della forma scritta e l’efficacia probatoria prevista dall’art. 2702 c.c. (28). Si potrebbe far leva sull’utilizzo del meccanismo di crittografia a chiave asimmetrica ad opera dei fruitori del block- chain (29) per riconoscere anche allo smart contract il requisito della forma scritta e l’efficacia di piena prova sino a querela di falso ai sensi della menzio- nata previsione codicistica.
Adempimento del contratto
Nonostante l’adempimento nei contratti intelli- genti sia - come si è visto - automatizzato, potreb- bero sorgere contestazioni tra le parti in merito all’esattezza dell’adempimento. Nel nostro ordina- mento la previsione cardine su questo tema è rap- presentata dall’art. 1375 c.c., che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede: inter- pretando ed applicando tale disposizione, la Suprema Corte ha più volte affermato che, in presenza di talune circostanze, anche un’esecu- zione perfettamente aderente alla lettera del con- tratto (come nel caso dell’esecuzione automatica dello smart contract) potrebbe costituire nei fatti un inadempimento perché contraria al canone gene- rale della buona fede (30).
Sul punto, non manca chi sostiene che tali pro- blemi possano essere affrontati predeterminando criteri precisi nel codice e, quindi, sottraendo alle parti ogni margine di discrezionalità valuta- tiva (31). Tale soluzione, tuttavia, non pare del tutto soddisfacente, in quanto difficilmente pos- sono essere predeterminati ex ante tutti i criteri necessari ad escludere del tutto la necessità di una valutazione qualitativa. Più condivisibile sem- bra, invece, essere la posizione di coloro i quali ritengono che tali questioni debbano essere risolte, anche con riferimento agli smart contract, attra- verso i metodi tradizionali di risoluzione delle con- troversie (32).
Integrazione e esecuzione forzata del contratto
Occorre interrogarsi circa i rimedi attivabili qualora i contratti intelligenti si pongano in contrasto con norme di ordine pubblico o norme imperative. Come noto, le norme cogenti trovano applicazione indipendentemente dalla volontà dei singoli (ad esempio, sono nulle pattuizioni che hanno l’effetto di privare il consumatore di determinate protezioni derivanti dal codice del consumo). Analogamente, in caso di controversie relative al contratto, l’esecu- zione può essere ottenuta attraverso l’intervento di organi giudiziari che, definita la controversia, pos- sono altresì imporre l’esecuzione in forma specifica delle obbligazioni ovvero il risarcimento dei danni. Considerato che gli smart contract non sono modifi- cabili e l’adempimento è automatico e si discute se sia possibile ottenerne l’esecuzione o la risoluzione senza la necessità di coinvolgere organi terzi. Anche a tale riguardo non manca chi sostiene l’assoluta indipen- denza degli smart contract dagli impianti tradizionali, ritenendo che anche le fasi patologiche del rapporto si possano affrontare traducendo nel codice anche le ‘reazioni’ ad azioni/inadempimenti predefiniti (33). In tal senso, l’automazione dell’esecuzione del con- tratto intelligente è euritmica ai casi di autotutela previsti dal codice civile (34). Come evidenziato sopra, tuttavia, è difficile immaginare che si riescano a prevedere e a codificare in anticipo tutte le possibili reazioni.
D’altronde occorre rilevare come il ricorso agli organi giurisdizionali per ottenere l’esecuzione di uno smart contract possa rivelarsi estremamente complesso, a causa della lentezza di adeguamento del sistema alle nuove tecnologie. Per tale motivo, le parti ben potrebbero considerare di ricorrere ai sistemi di riso- luzione alternativa delle controversie come l’arbi- trato: strumento flessibile, che ben si adatta alle caratteristiche dei contratti intelligenti. All’interno del codice dello smart contract può essere inserita una clausola compromissoria che stabilisca che ogni eventuale controversia derivante dall’esecuzione del contratto stesso sia demandata alla competenza esclusiva di un arbitrato. Lo smart contract potrebbe
(27) I documenti informatici sono da intendersi come i docu- menti elettronici che contengono la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti.
(28) Si veda il combinato disposto degli artt. 1(s) e 20, comma 1
bis, D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82.
(29) Si veda par. I e, in particolare, nt. 2.
(30) Inter xxxx, Xxxx. 18 settembre 2009, n. 20106, su iusex- xxxxxx.xx; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1618, su xxxxxxxxxxx.xx; Cass. 7 giugno 2006, n. 13345, su xxxxxxxxxxx.xx; Cass. 28 settembre 2005, n. 18947, su xxxxxxxxxxx.xx; Cass. 4 marzo 2003, n. 3185, su xxxxxxxxxxx.xx.
(31) D. Zaslowsky - X. Xxxxxxxx - X. Xxxx, The Future and the Promise of Smart Contracts, 2018, su Legaltechnews.
(32) X. Xxxxx, How Close Are Smart Contracts to Impacting Real-World Law?, 2016, su Coindesk.
(33) D. Zaslowsky - X. Xxxxxxxx - X. Xxxx, The Future and the Promise of Smart Contracts, 2018, su Legaltechnews.
(34) Per esempio, la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., la sospensione dell’esecuzione in caso di mutamento delle condizioni patrimoniali di controparte ex art. 1461 c.c., il diritto di ritenzione previsto dagli artt. 2756 e 2761 x.x., xx xxxxx xxxxxxxxxx xx xxx. 0000 x.x., xxx.
xxxxxxxx automaticamente il meccanismo di risolu- zione della lite e potrebbe, a sua volta, utilizzare l’infrastruttura blockchain: il lodo verrebbe registrato a sua volta nel digitalized ledger ed eseguito sulla stessa blockchain, tramite l’esecuzione di un codice che preveda il trasferimento delle somme riconosciute come dovute dal lodo arbitrale dal conto riconduci- bile alla parte condannata a quello riconducibile alla parte vincitrice.
Conclusioni
Sulla base di quanto sopra esposto, si ritiene che gli smart contract debbano essere visti, non come istituto che si sostituisce in toto agli accordi contrattuali tradizionalmente intesi, ma come strumenti che devono necessariamente integrarsi con il sistema giuridico tradizionale. Se questa ricostruzione è sicu- ramente la più condivisibile, è evidente che la man- canza di qualsivoglia intervento normativo che chiarisca come (e se) l’impianto normativo tradizio- nale possa essere applicato in tale ambito lascia irrisolte molteplici questioni che devono quindi essere demandate all’interprete.
Occorre, quindi, concentrarsi su come, in un settore che si caratterizza per la decentralizzazione delle funzioni di controllo, sia possibile presidiare le tutele garantite solitamente dall’impianto tradizio- nale, in cui le transazioni commerciali si basano essenzialmente su due pilastri fondamentali: la fidu- cia e la centralizzazione. L’attuale sistema econo- mico-sociale, infatti, si fonda su un modello accentrato di gestione delle informazioni, in cui
registri e database sono controllati da enti centrali (istituzioni finanziarie e banche per dati finanziari, enti pubblici per dati personali, notai, ecc.) in cui viene riposta la fiducia da parte dei vari operatori. La tecnologia blockchain, invece, mira ad operare senza alcuna autorità centrale né alcun registro centraliz- zato. Xxxxxxx chiedersi, quindi, come questa tecno- logia e gli smart contract possano operare in un contesto senza fiducia (c.d. no trust environment) ove le parti si incontrano in completo anonimato e non ci sono forme di controllo da parte di terzi intermediari istituzionali che possano garantire, altresì, l’esecuzione del contratto.
Operando in un siffatto scenario, i meccanismi idonei a garantire forme di tutela alle parti contraenti, anche in merito all’esecuzione del contratto, si possono ricondurre a due possibili alternative: in primo luogo, innalzare gli stan- dard di identificazione delle parti che possono accedere al blockchain ovvero creare meccanismi più sicuri per potere rintracciare le transazioni e chi opera sulla catena (andando, così, a scorag- giare l’utilizzo di blockchain e smart contract per scopi illeciti, che potrebbero essere agevolati dalla semi-anonimia e dall’assenza di controlli da parte di una autorità centrale); in secondo luogo valorizzando l’autonomia negoziale, attra- verso l’elaborazione di meccanismi di garanzia da tradursi direttamente nel codice, volti a porre rimedio a determinate inefficienze che possono conseguire dall’esecuzione automatica del contratto.
Tutela dei consumatori
La tutela civilistica
del consumatore di fronte alle pratiche commerciali scorrette
di Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx (*)
Lo scritto analizza gli strumenti civili di tutela, sia risarcitoria che invalidatoria, del consumatore, i quali appaiono come un necessario complemento della disciplina pubblicistica volta a reprimere le pratiche commerciali scorrette. In particolare, l’esigenza di tutela della libertà del consumatore giustifica, a fronte di pratiche commerciali scorrette, una lettura non restrittiva delle norme in materia di responsabilità precontrattuale e di annullabilità del contratto per vizi del consenso o incapacità, in modo da garantire a questi rimedi un effettivo ambito di operatività.
Introduzione
L’assenza di un’espressa disposizione sulle conseguenze civilistiche delle pratiche commerciali scorrette, tanto nella relativa normativa europea (Dir. 29/05) quanto in quella nazionale (artt. 18-27 quater D.Lgs. 206/2005), impongono allo studioso del diritto civile il compito, non privo di difficoltà, di verificare l’attualità degli istituti codicistici, e la loro applicabilità anche ai casi previsti dalla legislazione speciale. Occorre, quindi, analizzare la capacità, da parte del codice civile e dei rimedi dallo stesso previsti, di assicurare una piena tutela individuale e concreta a chi si ritenga leso, nella propria sfera giuridica patrimoniale, dalle pratiche commerciali scorrette. La vocazione pubblicistico- amministrativa della loro normativa, che mira ad una corretta regolazione dell’attività imprenditoriale e, più in generale, dell’intero mercato, non esclude l’impor- tanza di una protezione degli interessi individuali ogni volta coinvolti e lesi dalle pratiche stesse.
Più volte, infatti, è stata sottolineata la complemen- tarietà tra public enforcement e private enforcement, ovvero tra tutela pubblicistico-amministrativa e tutela individual-privatistica, tanto in ambito con- correnziale quanto in quello consumeristico.
La differente ratio che anima le due normative, quella civilistica e quella delle pratiche commerciali, pone
non pochi problemi all’opera di ricostruzione teorica degli effetti civili di queste. Il sistema di tutela, soprattutto invalidatorio, delineato dal codice civile non si manifesta pienamente in linea con il fine ultimo dell’efficienza e della correttezza dell’attività imprenditoriale, caratterizzante la disciplina europea del consumo. Tuttavia non può escludersi l’impor- tanza, attribuita implicitamente dallo stesso legisla- tore europeo (art. 19 Dir. 05/29), di un binario di tutela alternativo a quello amministrativo, più attento alla posizione individuale concretamente lesa da una pratica commerciale.
La non automatica applicazione degli istituti civili- stici rende, però, necessaria la verifica, di volta in volta, dei relativi presupposti, i quali verranno ana- lizzati nel corso della trattazione.
Dopo aver definito nel primo capitolo le pratiche commerciali scorrette, si passerà alla successiva valu- tazione dei loro possibili effetti civili, extracontrat- tuali e contrattuali.
Cenni sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi ammissibili
La disciplina delle pratiche commerciali scor- rette (1), introdotta con la Dir. 2005/29/CE, rappre- senta una risposta giuridica a quelli che sono gli effetti
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(1) Per approfondimenti sul tema cfr.: X. Xxxxxxxx, Codice del consumo, codice civile e codici di settore: un rapporto non mera- mente di specialità, in Europa e Diritto Privato, 2, 2016, 425 ss. e
negativi prodotti dall’economia di mercato concor- renziale, quindi ai suoi fallimenti ed alle sue iniquità. L’affinamento delle tecniche di marketing e l’aumento esponenziale delle forme di contatto con il consuma- tore, ben più efficaci e penetranti (2) rispetto al passato, hanno determinato una progressiva sensibi- lizzazione del tema della sua protezione (3).
In passato si riteneva che la tutela del consumatore dovesse limitarsi ad assicurare una corretta e chiara informazione sul contenuto contrattuale. Successi- vamente, si rafforzò la consapevolezza che “occorreva agire sul livello della consapevolezza del consumatore prima della contrattazione, perché i rimedi funzionali alla non corretta esecuzione del rapporto erano in molti, troppi casi, inefficaci” (4).
Il giurista ha preso, dunque, coscienza della necessità di estendere la tutela normativa anche a momenti che, sebbene ancora distanti da circostanze “para- contrattuali”, assumono una rilevanza tutt’altro che indifferente per la libertà (anche contrattuale) del consumatore.
La normativa europea introdotta dalla direttiva del 2005 introduce, così, una tutela generale e preven- tiva, delineando un corpus di regole sull’attività com- merciale di presentazione e promozione di beni e servizi. L’attenzione del legislatore si sposta, in tal modo, “dall’atto all’attività” degli operatori del mer- cato, a prescindere da ogni rapporto contrattuale (5). Il dispositivo assiologico che dà vita al sistema vede il combinarsi, tanto armonico quanto a tratti contrad- dittorio, di due valori fondamentali: da un lato, la
tutela della libertà del consumatore; dall’altro, l’im- portanza di salvaguardare l’efficienza concorrenziale e la correttezza del mercato. In particolare, nella prospettiva macroeconomica della direttiva, la tutela della libertà del consumatore diventa strumentale al corretto funzionamento del mercato (6).
Per tale motivo, come opportunamente sottolineato da parte della dottrina, “il diritto dei consumi tende- rebbe ad allontanarsi, nella sua recente evoluzione, dal modello di un diritto privato dei consumatori, per avvicinarsi ad un modello sempre più di diritto delle imprese e del mercato” (7). Oggetto è, quindi, la regolazione dell’attività commerciale secondo cor- rettezza e buona fede, mediante la costruzione di una tutela fondata sulle regole del mercato (8).
In particolare, la direttiva impone al professionista l’esercizio di pratiche commerciali corrette, e dunque un certo grado di diligenza e buona fede, nonché il livello di competenza ed attenzione che possono ragio- nevolmente attendersi, considerando il settore com- merciale di appartenenza. Come giustamente affermato dalla dottrina, pur essendo la ratio della disciplina europea delle pratiche commerciali quella di garantire il corretto funzionamento del mercato, essa risulta, in ogni caso, strumentale a garantire “le pre-condizioni di negozialità dei contratti e degli atti di esercizio dei diritti contrattuali dei consumatori” (9), possibilmente ostacolati dalle dette pratiche. Pur, quindi, non essendo necessario il pregiudizio contrattuale (o pre-contrat- tuale) per integrare una pratica commerciale scor- retta (10), non può di certo escludersi un effetto
L’intervento dell’Autorità Antitrust contro le clausole vessatorie e le prospettive di un sistema integrato di protezione dei consuma- tori, in Europa e Diritto Privato, 1, 2014, 207 ss.; X. Xxxxxxx, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Obbl. e contr., 2010, 6, 408 ss. e La protezione dei consumatori tra diritto civile e regolazione del mercato. A proposito dei recenti interventi sul codice del consumo, in Jus Civile, 5, 305-337; G. De Cristofaro, La nozione generale di pratica commerciale “scorretta”, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 2008, 143 ss.; X. Xxxxxxxx, Pratiche commerciali scorrette e (apparente) “gap” normativo: il “sistema” dei rimedi negoziali, in Studium iuris, 2015, 1, 181-189; X. Xxxxxxx, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici, in Contr. e impr., 2013, 3, 688 ss.; X. Xxxxxx, Le tutele civilistiche avverso le pratiche commerciali scorrette, in Contr. Impr. Europa, Milano, 2014, 180-199; X. Xxxxxxxxx, Xxxxx xxxxxx et dona ferentes. La tutela del consumatore e delle microimprese nelle pratiche commerciali scorrette, in Riv. dir. civ., 2013, 5, 11157 ss.
(2) Per fare qualche esempio, si pensi alla personalizzazione dei messaggi commerciali attraverso i cookies, o ancora allo spam- ming su internet, all’uso della psicologia e delle neuroscienze nella pubblicità contemporanea.
(3) E ciò anche data la sofisticazione delle tecniche di condizio- namento della volontà delle masse, contrattuale o anche a pre- scindere dalla conclusione di un contratto, come sottolineato anche da X. Xxxxxxxx (op. cit., 181).
(4) Cit., X. Xxxxxxxxx, Xxxxx xxxxxx et dona ferentes. La tutela del consumatore e delle microimprese nelle pratiche commerciali scorrette, cit., 1157.
(5) In tal senso: M. Dona, Pubblicità, pratiche commerciali e contratti nel codice del consumo, Torino, 2008, 4, nt. 17; X. Xxxxxxxxx, op. cit., 1171; X. Xxxxx Xxxxxx, Consumatore, con- sumatore medio, investitore e cliente: frazionamento e sintesi nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Europa e Diritto privato, 2010, 699 ss.
(6) Xxx. Xxxx., XX.XX., 00 xxxxxxxx 0000, x. 00000, in Obbl. e contr., 2008, 104 ss., con nota di X. Xxxxxxx, Regole di validità o di responsabilità di fronte alle Sezioni Unite: la buona fede come rimedio risarcitorio. Nello stesso senso: X. Xxxxxx, Rimedi e contratti del consumatore nella prospettiva del diritto privato europeo, in Europa e Diritto Privato, 1, 2014, 1; X. Xxxxxxxx, op. cit., 206.
(7) X. Xxxxxxx, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, cit., 408.
(8) Come affermato da X. Xxxxxxxx, L’intervento dell’Autorità Antitrust contro le clausole vessatorie e le prospettive di un sistema integrato di protezione dei consumatori, cit., 207 ss.; e da X. Xxxxxxx, La protezione dei consumatori tra diritto civile e regolazione del mercato. A proposito dei recenti interventi sul codice del consumo, cit., 305-337.
(9) Cit. X. Xxxxxxx, Le informazioni, Padova, 2012, 150.
(10) Come sottolineato da L. Di Nella, la normativa delle prati- che commerciali tende a tutelare più il procedural fairness che il
potenzialmente dannoso alla singola posizione giuri- dica soggettiva. Più volte è stata sottolineata (11) la complementarietà tra public e private enforcement, nella costruzione di un doppio binario, amministrativo e civile, di tutela del consumatore dalle pratiche com- merciali scorrette. Mentre l’intervento amministrativo, previsto espressamente dalla disciplina consumeristica, andrebbe a proteggere l’interesse generale alla corret- tezza commerciale, punendo le pratiche astrattamente idonee ad incidere sulla decisione di un ipotetico consumatore medio, invece il provvedimento giudi- ziale civile sarebbe volto a tutelare individualmente un soggetto concretamente leso nella sua situazione giuri- dica soggettiva, attraverso la distorsione effettiva della sua volontà.
La disciplina europea delle pratiche commerciali sleali è stata attuata in Italia con il D.Lgs. n. 146/2007, che ha modificato il codice del consumo agli artt. 18- 27 (12) ed introdotto gli artt. 27 bis, ter e quater. La normativa prevede un sistema piramidale con una clausola generale, due macro-categorie di pratiche commerciali scorrette (ingannevoli ed aggressive), e due black lists, ciascuna per ogni macrocategoria, di pratiche commerciali sempre scorrette.
La definizione di “pratica commerciale” è data dall’art. 18, comma 1, lett. d), che la descrive come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comuni- cazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”. Data la sua ampiezza, la nozione si presta ad assorbire qualsiasi “comportamento positivo o negativo, attivo o passivo”, in grado di influenzare, in misura più o meno apprezza- bile, il comportamento del consumatore, soggetto debole della relazione con il professionista (13); in altre parole, ogni “forma di contatto, effettivo o poten- ziale, collettivo o individuale, tra il professionista e i consumatori” (14).
La clausola generale, contenuta nell’art. 20, comma 2, dichiara che “una pratica commerciale è scorretta
se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comporta- mento economico, in relazione al prodotto, del con- sumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”. Essa, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, è vietata. E ciò a prescindere da una lesione attuale della libertà del consumatore, bastando un’a- stratta idoneità in tal senso (cd. illecito di pericolo). La scorrettezza della pratica, quindi, è ancorata a due parametri, coerentemente con l’art. 5 della direttiva: la diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento economico del consumatore medio. La valutazione della diligenza professionale, come definita dalla lett. h) dell’art. 18, attiene ad un ogget- tivo standard comportamentale, prescindente dai rap- porti concretamente instaurati col singolo consumatore, dedotto dalla normativa del settore imprenditoriale di appartenenza (15) e dalla pratica degli affari, e parametrato all’attività esercitata e alla posizione posseduta dal professionista nel mercato.
Sembra potersi affermare che, nelle ipotesi tipiche previste dagli artt. 21 ss., la scorrettezza professionale e la violazione della mala fede influenti sulla libera scelta del consumatore siano oggetto di presunzione (assoluta per le pratiche, “in ogni caso” ingannevoli o aggressive, previste dagli artt. 23 e 26), mentre al di fuori di tali casi andranno accertate sulla base del- l’art. 20.
Mentre in passato la condotta del professionista rile- vava esclusivamente ove integrasse gli estremi della concorrenza sleale, prevista dagli artt. 2598 ss. c.c., a danno delle imprese concorrenti oppure ove si con- cretizzasse in una condotta strettamente precontrat- tuale (ex art. 1337 c.c.), o addirittura condizionasse la validità del contratto stesso, con l’introduzione degli artt. 18 ss. nel codice del consumo, invece, si rende possibile una valutazione giuridica di ogni “contatto” fra impresa e consumatore, a prescindere dalla con- clusione di un contratto (16).
substantive fairness, cioè ad occuparsi, piuttosto, della libertà con cui il consumatore dovrebbe consapevolmente decidere. In “Le pratiche aggressive”, in AA.VV., Pratiche commerciali scorrette e Codice del consumo. Ilrecepimento della direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano, a cura di X. Xx Xxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 231.
(11) Cfr. X. Xxxxxxx, La protezione dei consumatori tra diritto civile e regolazione del mercato, cit., 306; Id. Pratiche commerciali scorrette e invalidità, cit., 417; M. C. Xxxxxxxxx, La tutela civile dei diritti dei consumatori, Napoli, 2013, 88 ss. e 102 ss.
(12) Gli artt. dal 18 al 27 accoglievano prima le disposizioni sulla pubblicità ingannevole. Dopo l’entrata dei decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2007, la tutela contro la pubblicità ingannevole, se rivolta ai concorrenti è disciplinata dal D.Lgs. n. 145/2007, se
rivolta invece ai consumatori rientra nella più ampia pratica com- merciale ingannevole (art. 21 c. cons.).
(13) X. Xxxxxxx, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civili- stici, cit., 690.
(14) X. Xxxxxxx Xx Xxxxx, La tutela del consumatore nell’ordi- namento italiano tra strumenti privatistici e pubblicistici, in Giur. mer., 12, 2013, 2658B ss.; analogamente X. Xxxxxx, op. cit., 181.
(15) Sono comprese anche le regole di fonte autodisciplinare, tenute in considerazione dall’Autorità nella valutazione della dili- genza professionale e richiamate anche dal codice del consumo agli artt. 19, 21, 23 e 27 bis.
(16) X. Xxxxxxxxxxxx, Le pratiche commerciali scorrette: disci- plina dell’atto e dell’attività, in Nuovo dir. Soc., 2010, 8 ss.
La rilevanza giuridica della pratica commerciale andrà valutata nell’ottica del “consumatore medio”, o del “membro medio” del gruppo a cui essa è diretta. A differenza della disciplina civilistica tradizionale, con- centrata sulle concrete esigenze di tutela di una singola persona individuata, la disciplina consumeristica delle pratiche commerciali fa uso di tale canone oggettivo. Il consumatore medio èdefinito dal considerando 18 della direttiva come il consumatore “normalmente infor- mato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia” (17). Tale figura “ideal-tipica” rappresenta “il punto di equilibrio tra massima tutela ed esigenza di non gravare le imprese di costi eccessivi” (18).
Il riferimento al consumatore medio implica, quindi, il carattere prognostico ed ipotetico della valutazione tanto della diligenza professionale, quanto dell’a- stratta idoneità a falsare in misura apprezzabile il suo comportamento economico.
Valutare gli effetti ipotetici della pratica sulla perce- zione del consumatore medio significa verificare se questa lo potrebbe indurre in astratto ad una decisione che altrimenti non prenderebbe. Secondo la regola del de minimis, espressione del principio di proporzionalità, è necessario che la pratica commerciale possa avere un impatto “rilevante” (art. 5, comma 2, lett. B della direttiva) e non trascurabile (considerando n. 6) sul comportamento del consumatore (19).
Dai caratteri della valutazione si denota la lonta- nanza rispetto al modello privatistico di tutela, e la vicinanza piuttosto ad una forma di regolazione dell’attività imprenditoriale a tutela della collet- tività di consumatori e concorrenti. Sintomi di tale inclinazione sono la preferenza, europea e quindi nazionale, per una tutela di tipo ammini- strativo e l’attribuzione dei relativi poteri all’Au- torità Garante della Concorrenza e del Mercato (20) (art. 27 c. cons), mediante l’irroga- zione di sanzioni pecuniarie o amministrative.
Per quanto riguarda le due macro-categorie, occorre distinguere tra pratiche commerciali ingannevoli e pratiche commerciali aggressive.
Le prime sono definite dall’art. 21 c. cons., il quale dispone che “è considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispon- denti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”, elencando, nella seconda parte del comma 1, gli elementi che ne possono formare oggetto. In ogni caso, requisito necessario per l’illiceità è l’es- senzialità dell’errore indotto, cioè la sua idoneità a spingere il consumatore verso una decisione diversa da quella che avrebbe potuto altrimenti prendere.
A tale pratica ingannevole, detta positiva in quanto realizzata mediante un’azione, si aggiunge anche quella “omissiva”, in cui l’inganno si concreta in un’omissione, la cui illegittimità ex art. 22 va valutata tenendo conto delle circostanze concrete e del mezzo utilizzato per la comunicazione commerciale. Alla pratica omissiva vanno ascritte anche comunicazioni commerciali poco chiare, ambigue, incomprensibili e oscure, purché idonee, sia ben chiaro, ad indurre il consumatore a una decisione che non avrebbe altri- menti preso (21).
Le pratiche commerciali aggressive, categoria intro- dotta solo con la Dir. 29/05, sono disciplinate dagli artt. 24 ss. del codice. In particolare, ai sensi dell’art. 24, “è considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante mole- stie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comporta- mento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”. Come si evince dall’analisi del testo normativo, due sono gli elementi che compongono la pratica aggressiva: un elemento strutturale, consistente nel tipo di mezzo aggressivo utilizzato (dalla coercizione alla categoria, non poco problematica, dell’indebito
(17) Cfr., ad esempio, Xxxxx Xxxxx. 00 novembre 1982, C-261/ 81, Racc., 1983, I-3961 e Corte Giust. 16 luglio 1998, C-210, Racc., 1998, I-4657. La Corte ha avuto modo di precisare che, nel caso in cui il prodotto sia rivolto ad una vasta fascia di consumatori (ad es. un bene di uso quotidiano), il parametro è quello del “consumatore medio non specializzato”, cioè di colui che, sebbene normal- mente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, non possiede quelle conoscenze tecniche che gli permettano un’at- tenta analisi preventiva del prodotto.
(18) Cit. X. Xxxxxxx Xx Xxxxx, op. cit., 2664.
(19) Tali requisiti sono stati trasposti dal legislatore italiano con le espressioni “in misura rilevante”, “sensibilmente” (art. 18, lett. e, c. cons.), e “in misura apprezzabile” (art. 20).
(20) Legittimati attivamente, nel procedimento amministrativo dinnanzi all’AGCM (che potrà attivarsi anche d’ufficio) sono sia i consumatori sia le imprese concorrenti che si ritengono lese, anche solo potenzialmente, dalla pratica commerciale.
(21) Tra queste rientra certamente la pubblicità “non chiara- mente riconoscibile come tale”, vietata espressamente anche dall’art. 5, D.Lgs. n. 145/2007, oltre che dal secondo comma dell’art. 22 c. cons.
condizionamento), ed un elemento funzionale, ovvero l’idoneità, analogamente alle pratiche ingannevoli, ad indurre il consumatore ad una scelta che altrimenti non avrebbe preso.
Dal canto suo, l’art. 25 elenca gli elementi da tenere in considerazione nella valutazione dell’aggressività della pratica, finendo col delineare, tuttavia, vere e proprie ipotesi di pratiche aggressive.
Per quanto attiene, infine, alle black lists individuate tipicamente dal codice (artt. 23 e 26), si tratta di ipotesi di ingannevolezza o aggressività in cui la scorrettezza sembrerebbe essere valutata a prescin- dere (“in ogni caso”) dalla verifica della sussistenza dei requisiti dettati dagli artt. 20, 21 e 24. Nella prassi applicativa, tuttavia, non può negarsi la necessità risolutiva di verificare l’idoneità all’inganno o all’ag- gressione di una pratica, soprattutto nei casi più labili e incerti. Si pensi, ad esempio, alle espressioni “gene- rare comunque l’impressione”, “fuorviare deliberata- mente”, “lasciar intendere”, (lett. i), o), aa) art. 23). Il carattere pubblicistico della normativa, che vede la tutela del singolo consumatore come strumentale alla più generale disciplina dell’attività del professionista, non esclude però l’importanza di valutare anche gli effetti che questa possa riversare sugli atti conseguen- temente posti in essere dal consumatore (22). Ciò si desume, del resto, dalla definizione di “decisione di natura commerciale” data dall’art. 18, comma 1, lett. m): “la decisione presa da un consumatore relativa a se acquistare o meno un prodotto, in che modo farlo e a quali condizioni, se pagare integralmente o parzial- mente, se tenere un prodotto o disfarsene o se eserci- tare un diritto contrattuale in relazione al prodotto”. Dunque, dato che la stipulazione del singolo con- tratto è conseguenza fisiologica di un’efficace pratica commerciale, la correttezza di quest’ultima va inte- grata anche con la successiva tutela contrattuale dei singoli operatori.
Ciò premesso, occorre sin da subito rilevare come la Dir. 29/05, nonostante le prospettive di armonizza- zione massima e di massima tutela del consumatore (considerando nn. 1 e 5), non indica alcun rimedio di
carattere privatistico avverso le pratiche commer- ciali scorrette, probabilmente anche a causa delle divergenze regolative tra i vari ordinamenti statali. Infatti, l’art. 11 della direttiva riserva agli Stati mem- bri l’introduzione “di mezzi adeguati ed efficaci per combattere le pratiche commerciali sleali”, mentre l’art. 13 impone agli stessi la predisposizione di stru- menti appropriati ad assicurare l’effettività del divieto ed adeguate sanzioni (23).
In particolare nella materia contrattuale, la Dir. 29/05 rinvia espressamente, per la tutela individual-privati- stica dalle pratiche commerciali sleali, al diritto nazio- nale, laddove all’art. 3, par. 2, stabilisce che “la presente direttiva non pregiudica l’applicazione del diritto con- trattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità ed efficacia del contratto”.
Il legislatore interno, lungi dall’individuare delle chiare soluzioni privatistiche, si è limitato a ripro- durre la disposizione comunitaria all’art. 19, comma 2
c. cons., lasciando intendere la necessità di far rife- rimento alle tradizionali categorie del codice civile (24). Se, quindi, la tutela pubblicistica dalle pratiche commerciali è stata espressamente prevista nel codice del consumo, quella privatistica manca di un’esplicita previsione, salva la disciplina dell’azione di classe risarcitoria per la protezione di interessi collettivi (art. 140 bis).
Dunque, compito del giurista di diritto civile, a fronte di tali lacune, è quello di ricostruire sistematicamente il ruolo degli istituti civilistici nelle situazioni disci- plinate dalla normativa consumeristica, ed in partico- lare la loro applicabilità alle pratiche commerciali scorrette (25). Le considerazioni di opportunità, tra cui la normale esiguità della pretesa economica del singolo consumatore o gli ingenti costi processuali, che possono sicuramente scoraggiare iniziative giudi- ziarie, non possono esimere dall’indagine sull’applica- bilità delle categorie tradizionali, unica alternativa possibile nel silenzio legislativo (26).
Come più volte sottolineato (27), tuttavia, l’appli- cazione non può avvenire automaticamente per due ordini di ragioni: da un lato il legislatore non
(22) D’altronde, l’art. 27 ter, comma 2, prevede anche la possi- bilità di adire il “giudice competente” per la tutela dei propri diritti.
(23) Inoltre, il considerando n. 9, prevede che “la direttiva non pregiudica i ricorsi individuali proposti da soggetti lesi da una pratica commerciale sleale”, con ciò lasciando spazio ad un altro binario, individual-privatistico, di tutela.
(24) Cfr. In tal senso, De Xxxxxxxxxx, op. cit., 1153 ss.; C.T. Sillani, Xxxxxxxx commerciali sleali e tutela del consumatore, in Obbl. e contr., 2009, 177 ss.; Xx rientrano, secondo X. Xxxxxxxx (op. cit., 207 ss.), anche le disposizioni consumeristiche sulle clausole vessatorie e la nullità di protezione (artt. 33 ss. c. cons.).
(25) Sottolinea la necessaria flessibilità e pragmaticità che deve ispirare tale riflessione X. Xxxxxxxxxxx, “Il giusto rimedio” nel diritto civile, in Il giusto processo civile, 2011, 1 ss. (spec. Nota 7).
(26) Il rapporto tra codice del consumo e codice civile è stato al centro di un’ampia riflessione dottrinale; cfr., ad esempio, X. Xxxx, I contratti dei consumatori e la disciplina generale dei contratti e del rapporto obbligatorio, in Riv. dir. civ., 2006, 351 ss. e X. Xxxxxx, La codificazione e il riassetto normativo delle attività produttive. Codificazione, semplificazione e qualità delle regole, a cura di M.
A. Sandulli, Milano, 2005.
(27) In tal senso: X. Xx Xxxxxxxxxx, L’attuazione della direttiva 2005/29/CE nell’ordinamento italiano: profili generali, in Pratiche
richiama puntualmente gli istituti civilistici, ma si limita a non escludere le disposizioni in materia contrattuale ex art. 19, comma 2, c. cons., rendendo così in ogni caso necessaria la verifica dei loro pre- supposti; dall’altro risulta sempre essenziale, per l’ap- plicazione delle soluzioni del codice civile, una concreta ed attuale lesione che legittimi l’azione giudiziale, non richiesta, invece, dalla disciplina delle pratiche commerciali scorrette.
Oltre alle tutele risarcitorie, in particolare quella precontrattuale, sembra di doversi approfondire, come vedremo nel prosieguo della trattazione, la possibilità di annullamento del contratto nel caso in cui siano configurabili il dolo o la violenza previsti dal codice civile.
Per quanto riguarda la nullità, invece, appare sin da subito opportuno sottolineare come le sue caratteri- stiche strutturali e procedurali la rendano inidonea all’applicazione al caso delle pratiche commerciali. L’art. 1418 c.c., come è noto, dispone che il contratto è nullo quando sia contrario a norme imperative (salvo che la legge disponga diversamente), quando manchi uno degli elementi essenziali ex art. 1325, ove la causa sia illecita, o sia illecito il motivo comune ex art. 1345, e quando l’oggetto manchi dei requisiti indicati dall’art. 1346 (28).
Ci si deve innanzitutto porre il problema se si confi- guri la prima ipotesi di nullità (contrarietà a norme imperative) ogni qual volta il contratto sia stipulato a seguito di una pratica commerciale che abbia violato le disposizioni del codice del consumo (29). Tuttavia un simile effetto sembra da escludere, dal momento che il divieto di pratiche scorrette è prettamente rivolto al comportamento del professionista e, trat- tandosi di una regola di comportamento, non può determinare la nullità del contratto salvo che la legge stessa non lo preveda espressamente (30). È il rego- lamento contrattuale che deve essere contrario a norme imperative. La dottrina ammette in effetti tale conseguenza ogni qualvolta la pratica scorretta sia introdotta nel contenuto del contratto, condizio- nandolo e rendendolo nullo (31). Tuttavia, al di là dei casi estremi di pratiche commerciali che diffon- dano un messaggio su un bene inesistente o di
omissione ingannevole sulla natura del prodotto tale da rendere indeterminabile l’oggetto del con- tratto, sembra arduo configurare un contratto strut- turalmente nullo come conseguenza di una pratica commerciale scorretta.
Del resto, un ampio ricorso alla nullità sarebbe con- troproducente tanto per la tutela del mercato quanto per la protezione del consumatore.
Infatti, come sottolineato da parte della dot- trina (32), l’invalidazione definitiva del negozio nullo, aggravata dall’incertezza derivante dall’impre- scrittibilità della relativa azione (33), appare colli- dere con la tutela del miglior funzionamento dell’attività commerciale, a cui è strumentale la disciplina consumeristica.
Xxxxxxxx, concedere la legittimazione ad agire anche al professionista pregiudicherebbe il trattamento di favore riconosciuto al consumatore, la cui situazione rimarrebbe in balìa della scelta del primo.
Beninteso, la disciplina delle pratiche commerciali scorrette può in taluni casi, intersecarsi con quella della nullità di protezione, a cui qui si accenna brevemente.
Essa è prevista dal codice del consumo agli articoli 33 e seguenti (in luogo dell’inefficacia europea) per le clausole vessatorie. Tali sono quelle che “malgrado la buona fede, determinano un significativo squilibrio tra diritti e obblighi derivanti dal contratto” a danno del consumatore.
A differenza della nullità tradizionale, che colpi- sce tendenzialmente l’intero contratto, la nullità di protezione mira a riequilibrare i diritti e obbli- ghi derivanti dal regolamento contrattuale, eli- minando solamente le clausole viziate. La principale differenza, però, risiede nel carattere relativo della legittimazione ad agire, spettante esclusivamente al consumatore, nel cui solo inte- resse è prevista.
Ora, ben può una clausola vessatoria essere conse- guenza di una pratica commerciale scorretta, tutta- via, non sarà semplice per l’interprete individuare ed isolare la clausola che si ponga in rapporto di causalità con la pratica commerciale, né per il consumatore dimostrare che lo squilibrio sia effetto della stessa.
commerciali scorrette e codice del consumo, Torino, 91 ss.; X. Xxxxxxxx, Le “pratiche commerciali scorrette” tra imprese e con- sumatori: l’attuazione della direttiva 2005/29/CE modifica il codice del consumo, in Obbl. e contr., 2007, 779; X. Xxxxxx, op. cit., 186.
(28) Accanto a tali casi di nullità “virtuale”, il terzo comma indica una serie di casi in cui la stessa è espressamente prevista da talune disposizioni.
(29) Tale soluzione è stata adottata, seppur con talune diffe- renze, dagli ordinamenti lussemburghese, polacco e francese.
(30) X. Xxxxxxxx, op. cit., 779 ss.; X. Xxxxxxx, op. cit., 688 ss.; V. M. Xxxxx, Pratichecommercialislealiedeffettisulcontratto: nullità di protezione o annullabilità per vizi del consenso?, in Le pratiche commerciali sleali. Direttiva comunitaria ed ordinamento italiano, a cura di Xxxxxxxxx e Xxxxx Xxxxxx, Milano, 2007, 238-239.
(31) A. Nobile op. cit., 191. (32) Id., op. cit., 194-195.
(33) Xxxxxxxx, legittimato alla stessa sarebbe anche il professio- nista, il quale, agendo, potrebbe arrecare un pregiudizio ulteriore al consumatore.
Ad ogni modo, l’accertamento della slealtà di una pratica non ha un’automatica incidenza sulla validità delle clausole contrattuali ex art. 6, Dir. 93/13; in altre parole, l’accertamento della abusività delle clausole resta regolato dalla apposita disciplina, anche se l’accertamento di una pratica sleale può rappresentare uno degli elementi in base ai quali valutare l’abusività delle clausole del contratto che ne è il risultato (34).
Viceversa, l’accertamento del carattere abusivo di una clausola potrà essere elemento di valutazione della scorrettezza della pratica commerciale connessa (35).
La responsabilità extracontrattuale: le tutele risarcitorie
Tra le conseguenze civilistiche che possono conse- guire da una pratica commerciale scorretta vi è la responsabilità precontrattuale (o culpa in contra- hendo), che l’opinione tradizionale configura come species della responsabilità extracontrattuale (36), nonostante recenti arresti giurisprudenziali di orien- tamento diverso (37).
Comeè noto, l’art. 1337 c.c. dispone che “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”. Il riferimento ai concetti di “parti”, di “trattative” e di “formazione del contratto” potrebbe far dubitare, ad una prima impressione, dell’estendibilità della disposizione alle pratiche commerciali scorrette. Ciò perché appare prematuro tanto parlare di parti, quanto di trattative in senso stretto, quasi sempre assenti nella prassi del con- sumo, in cui si aderisce solitamente a contratti standar- dizzati predisposti unilateralmente per una massa di consumatori. Tuttavia, come giustamente affermato dalla dottrina, “nell’odierna ricostruzione della respon- sabilità precontrattuale, distinguere fra trattative e fase di formazione del contratto èritenuto irrilevante, stante la valenza condivisibilmente attribuita semplicemente ad ogni atto che sia finalizzato alla conclusione di un contratto o al compimento di un negozio” (38). Può, dunque, ragionevolmente ritenersi rilevante (39), ai sensi dell’art. 1337 c.c., una pratica commerciale scor- retta, purché vi sia una relazione qualificata tra
professionista e consumatore, significativa per la con- clusione, attuale o potenziale, di un contratto. Xxxx- xxxxx, infatti, alla nozione di “comportamento economico” (art. 19 lett. m), di “pratica commerciale” (art. 18, lett. d), nonché delle varie scorrettezze deli- neate genericamente o tipicamente dalla disciplina consumeristica, sembra chiaro che l’atto finale a cui ogni pratica commerciale tenda fisiologicamente sia la conclusione di un contratto (40). D’altronde, verso dove è diretta la libertà economica del consumatore (pur tutelata a prescindere dalla conclusione di un contratto) se non verso una decisione negoziale di acquisto (o non acquisto) di un prodotto o servizio?
Come affermato in dottrina (41), la fase di “svia- mento” del comportamento economico del consu- matore è necessariamente quella precontrattuale, la quale può, ove vi sia una condotta contraria a buona fede, condurre ad una decisione che non si sarebbe altrimenti presa.
Oltre che nei comportamenti vietati dalle clausole generali, di cui agli artt. 20, 21 e 23 c. cons., la culpa in contrahendo potrebbe certamente configurarsi anche in una serie di fattispecie tipiche, tanto ingannevoli quanto aggressive. Si pensi, ad esempio, al caso delle omissioni ingannevoli di informazioni rilevanti per la decisione commerciale del consumatore (art. 22), o alla pratica in ogni caso ingannevole di cui all’art. 23, lett. g (dichiarare, contrariamente al vero, che il prodotto sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o che sarà disponibile solo a condizioni particolari per un periodo di tempo molto limitato, in modo da ottenere una decisione immediata e privare i consumatori della possibilità o del tempo sufficiente per prendere una decisione consapevole). Si tratta, in ogni caso, di attività che ben possono dar luogo a delle trattative contrarie a buona fede, in grado di condizionare tanto il quomodo quanto l’an della contrattazione, rilevanti ai sensi dell’art. 1337 c.c.
L’unica questione da risolvere è quella di coordinare i concetti di buona fede civilistica e di diligenza ex art. 20
c. cons., non pienamente sovrapponibili. L’art. 18, comma 1, lett. h), c. cons. definisce, infatti, la diligenza professionale come “il normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i
(34) Xxxxx Xxxxx. 00 marzo 2012, C-453/10, in Guida dir., 15, 2012, 92.
(35) X. Xxxxxxx, La protezione dei consumatori tra diritto civile e regolazione del mercato, cit., 333.
(36) Cfr., per approfondimenti: X. Xxxxxxxxxx, Contratti. Norma- tiva e giurisprudenza ragionata, Milano, 2008, 360; F. Xxxxxx, Il contratto, Milano, 2005, 163 ss.; X. Xxxxxxxx, op. cit., 188-189; X. Xxxxxx, op. cit., 188.
(37) Cass., Sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188, in Danno e resp., 2016, 1051.
(38) Cit. X. Xxxxxx, op. cit., 188.
(39) Non ravvisano ostacoli alla sua applicazione X. Xxxxxxx, op. cit., né Tommasi, Pratiche commerciali scorrette e disciplina dell’attività negoziale, Bari, 2012, 77.
(40) Cfr., in tal senso: X. Xxxxxxxx, L’intervento dell’Autorità Antitrust contro le clausole vessatorie e le prospettive di un sistema integrato di protezione dei consumatori, cit., 207 ss.; X. Xxxxxxx, La protezione dei consumatori tra diritto civile e regola- zione del mercato. A proposito dei recenti interventi sul codice del consumo, cit., 305-337; X. Xxxxxx, op. cit., 189.
(41) X. Xxxxxxx, op. cit., 688 ss.
consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista”. Ciò pare esigere, dalla diligenza professionale, un quid pluris rispetto alla normale buona fede, dovendosi tener conto del ragionevole, legittimo affidamento che la colletti- vità di consumatori ripone sugli operatori di un deter- minato settore. Per quanto riguarda, poi, la correttezza, questa va intesa come adesione alle regole deontologi- che-consuetudinarie del commercio nel settore, ulte- riori rispetto alle legali. Xxxx previsioni non sembrano però porsi in contrasto con quella del codice civile: esse sembrano semplicemente rafforzare, date le maggiori esigenze di tutela del contraente debole, gli obblighi di lealtà e trasparenza precontrattuale a carico dei profes- sionisti, rispetto a cui la buona fede oggettiva dell’art. 1337 c.c. si arricchisce di contenuti.
Ammesso, così, che sia integrata un’ipotesi di respon- sabilità precontrattuale nel caso di lesione della libertà negoziale del consumatore, dovrà riconoscersi a quest’ultimo il diritto al risarcimento del danno ex art. 1337, ove ciò abbia portato ad una situazione peggiore rispetto a quella raggiungibile in assenza di scorrettezza commerciale.
Ciò potrà avvenire in due diverse ipotesi. Innan- zitutto, si può immaginare il caso in cui le parti non giungano alla conclusione del contratto, per decisione del professionista o dello stesso consu- matore che si avveda successivamente della scor- rettezza del comportamento della sua controparte. Per quanto indubbiamente di rado possa compor- tare danni significativi al singolo, la pratica ingannevole di cui all’art. 23, lett. e (invitare all’acquisto di prodotti ad un determinato prezzo senza rivelare l’esistenza di ragionevoli motivi che il professionista può avere per ritenere che non sarà in grado di fornire o di far fornire da un altro professio- nista quei prodotti o prodotti equivalenti a quel prezzo entro un periodo e in quantità ragionevoli in rapporto al prodotto, all’entità della pubblicità fatta del pro- dotto e al prezzo offerti) rappresenta un caso per eccellenza in cui il consumatore deluso potrebbe
semplicemente non procedere ad alcun acquisto. Più in generale, lo stesso risultato potrebbe aversi tutte le volte in cui il consumatore si accorga prima della conclusione del contratto dell’in- ganno perpetrato dal professionista. In questi casi, il consumatore potrà chiedere il risarcimento del danno nella misura dell’interesse contrattuale negativo, costituito dalle spese sostenute e dalle occasioni perse in vista del contratto la cui con- clusione è stata impedita dalla scorrettezza del professionista.
Ma una responsabilità precontrattuale potrà confi- gurarsi anche nel caso in cui il contratto sia concluso e rimanga valido (42), mantenendo così ferma la distinzione tra regole di comportamento e regole di validità, più volte discussa in dottrina (43), e più volte ribadita dalla giurisprudenza (44).
Una soluzione di questo tipo sarebbe, poi, coe- rente con la tendenza del sistema a salvaguardare l’efficacia delle transazioni commerciali e, per il tramite di questa, l’efficienza concorrenziale. Per di più, essa discenderebbe da quelle “norme sulla formazione (...) del contratto” che non devono essere pregiudicate dalla disciplina di settore, come disposto dall’art. 19 c. cons.
Occorre aggiungere, per quanto riguarda l’impianto probatorio dell’eventuale processo, che vi è chi (45) ritiene dovuta una significativa considerazione, da parte del giudice ordinario, del provvedimento san- zionatorio dell’Autorità per valutare la sussistenza della buona fede durante le trattative, anche ai fini puramente risarcitori.
Ci si può chiedere se le pratiche commerciali scorrette possano configurare ipotesi di responsa- bilità extracontrattuale per la lesione di interessi diversi da quelli più tipicamente ricondotti all’art. 1337. Si dovrebbe in tali casi configurare una applicazione dell’art. 2043 c.c., e dunque verifi- care i presupposti per la responsabilità da esso sanciti: l’esistenza di un comportamento (attivo o omissivo), la sua imputabilità a titolo di dolo o colpa, un danno ingiusto, il nesso di causalità tra
(42) Così X. Xxxxxxx, op. cit., 415 ss.; S. Orlando, Artt. 24-26, in Codice del consumo. Aggiornamento: pratiche commerciali scor- rette e azione collettiva, Padova, 2009, 105.
(43) Xxxx X. X’xxxxx, Regole di validità e regole di comporta- mento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, 37 ss.; X. Xxxxxxx, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in questa Rivista, 2006, 159 ss.; Xxxxxxxx, Regole di comportamento eregoledi validità nei contratti sustrumenti finanziari: la questione alle sezioni unite, in Foro it., 2007, I, 2094; negano la distinzione suddetta invece: X. Xxxxxxxx, Pratiche commerciali scorrette e (apparente) “gap” normativo: il “sistema” dei rimedi negoziali, cit., 183; X. Xxxxxxxxxxx, L’inesistenza della distinzione tra regole di comportamento e regole di validità nel diritto italo-europeo,
Napoli, 2013; X. Xxxxxxx, Le asimmetrie informative tra regole di validità e regole di responsabilità, in Riv. dir. priv., 2002, 247 ss.
(44) Cfr., ad esempio: Xxxx. 11 maggio 2009, n. 10742, in Foro it., 2010, I, 141 ss.; App. Torino 19 febbraio 2008, in Società, 2009, 55 ss.; Cass., SS.UU., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Giur. comm., 2008, II, 604 ss. La distinzione è confermata dalla Corte di Giustizia UE, che ha affermato la non automatica invalidazione del contratto stipulato a seguito dell’accertamento della slealtà di una pratica commerciale, il quale può, invece, rappresentare un elemento valutativo per la abusività delle clausole (CGUE 15 marzo 2012, C-453/2010, in questa Rivista, 2012, 661 ss.).
(45) X. Xxxxxxxx, op. cit., 783 ss.
comportamento e danno. L’onere della prova ricadrebbe sul consumatore, anche se vi è chi (46) ritiene possibile dimostrare la scorret- tezza della pratica, quindi l’ingiustizia del danno (47), con la semplice esibizione del prov- vedimento sanzionatorio dell’AGCM.
La dottrina ha configurato un “diritto all’esercizio di pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà” (48), previsto dall’art. 2, comma 2, lett c bis del codice, che, letto in combinato con l’art. 2043 c.c., permetterebbe di configurare un risarci- mento civile per “danno patito dal consumatore a seguito del suo mero contatto con la pratica commer- ciale” (49). E ciò, anche in assenza di un carattere pre- contrattuale (si fa riferimento, ad esempio, al disturbo alla sola riservatezza derivante dalle ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali, sanzionate dal- l’art. 26, lett. c) (50).
L’art. 2043 c.c. è stato invocato anche con riferi- mento ad altre conseguenze, quali l’impatto sulla stabilità emotiva di una pratica aggressiva, o la man- cata realizzazione, dovuta ad una pratica scorretta, di un interesse personale (con conseguente frustra- zione), guardando al caso di cui all’art. 23, lett. s)
c. cons. (51), che stigmatizza la comunicazione non veritiera della capacità di un prodotto di curare malattie, disfunzioni o malformazioni.
Appare opportuno sottolineare, in questa sede, che il codice del consumo prevede espressamente una tutela risarcitoria collettiva all’art. 140 bis, quale forma di private enforcement (52), aggiunto agli strumenti azio- nabili già dai singoli (53). Ciò perché spesso l’esiguità del danno individuale e gli elevati costi processuali hanno rappresentato un forte disincentivo per l’azione risarcitoria del singolo consumatore.
L’importanza di una tutela risarcitoria, d’altronde, è stata riconosciuta dalla Corte di Giustizia UE, che
l’ha ritenuta indispensabile, anche nel caso di viola- zione degli obblighi informativi precontrattuali (54).
Gli effetti sul contratto: annullabilità per dolo, violenza o incapacità
Che le pratiche commerciali scorrette possano produrre degli effetti sul contratto (55) è impli- citamente ammesso dall’art. 19, comma 2, lett. a),
c. cons. il quale, riproducendo l’art. 3, par. 2 Dir. 29/05, dispone che “il presente titolo non pregiu- dica l’applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità od efficacia del con- tratto”. Il legislatore italiano, dunque, si è aste- nuto dal regolare direttamente le conseguenze civili in materia contrattuale, destando non poche perplessità sul punto.
Ciò, infatti, ha lasciato una lacuna normativa che solo l’interprete del diritto civile, con il suo strumen- tario teorico, può colmare.
La disposizione richiamata implica l’ammissibilità, accanto alla tutela amministrativa prevista dalla disciplina consumeristica, anche di quella civile din- nanzi al giudice ordinario. Ciò comporta la necessità di risolvere la questione del rapporto tra i relativi procedimenti (e provvedimenti decisori). Come confermato dalla giurisprudenza comunitaria (56), dalla decisione amministrativa di accertamento della scorrettezza della pratica non discende, automatica- mente, alcuna conseguenza in ordine alla validità dei contratti singolarmente stipulati: ciò in considera- zione della diversa ratio che induce la disciplina europea (correttezza del mercato) rispetto a quella codicistica (interesse privato), e della differente struttura del percorso valutativo tipico della scorret- tezza delle pratiche, rispetto a quello ordinario civilistico.
(46) C. Tenella Sillani, Pratiche commerciali sleali e tutela del consumatore, in Obbl. e contr., 2009, 781 ss. La stessa ritiene altresì configurabile in re ipsa la stessa prova della colpa, come previsto in tema di concorrenza sleale dall’art. 2600 c.c.
(47) Di diverso avviso, in merito alla possibilità di provare in tal modo l’ingiustizia del danno, è la Cass., SS.UU., 15 gennaio 2009, n. 794, in Foro it., 2009, I, 717 ss.
(48) In tal senso, cfr. Xxxx., SS.UU., cit. in nota precedente e Cass., Sez. III, 30 aprile 2009, n. 10120, in Guida dir., 2009, 23, 72.
(49) Cit. X. Xxxxxx, op. cit., 190.
(50) Per un caso particolare di danno ingiusto, anche non patrimoniale, derivante da una pubblicità ingannevole (dicitura “light” nei pacchetti di sigarette), si veda Cass., SS.UU., 15 gennaio 2009, n. 794, cit.
(51) In tal senso, X. Xxxxxxxx, op. cit., 188-189.
(52) Sul punto, X. Xxxx, Class action, note sull’art. 140 bis del codice del consumo, in xxx.Xxxxxxx.xxx.
(53) Come confermato da Trib. Torino 4 giugno 2010, in Nuova giur. civ. comm., 2010, 882 ss., con nota critica di X. Xxxxxxxxx - M.
R. Xxxxxxx.
(54) Cort. Giust. 17 settembre 2002, C-253/00, in X. Xxxx -
A. Catricalà, op. cit., 484 nt. 134.
(55) Per approfondimenti, cfr.: X. Xxxxxx, op. cit., 1 ss.; X. Xxxxxxxx, L’intervento dell’Autorità Antitrust contro le clausole ves- satorie e le prospettive di un sistema integrato di protezione dei consumatori, cit., 207 ss., Id., Codice del consumo, codice civile e codici di settore: un rapporto non meramente di specialità, cit., 425 ss.; X. Xxxxxxx, op. cit., 408 ss.; X. Xx Xxxxxxxxxx, La direttiva 2005/09/CE, in Pratiche commerciali scorrette e codice del con- sumo, Torino, 2008, 2, 15, 29 ss.; X. Xxxxxxxx, op. cit., 181- 189; X. Xxxxxxx, op. cit., 688 ss.; X. Xxxxxx, op. cit., 191 ss.; X. Xxxxxxxxx, op. cit., 11157 ss.; X. Xxxxx Xxxxxxx, Sull’invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, in Contr. e impr., 2011, 4-5, 921-954.
(56) Xxxx 00 marzo 2012, C-453/10, in questa Rivista, 2012, 661ss. con nota di X. Xxxxx.
Non sembra però di potersi escludere che l’accerta- mento della pratica commerciale possa avere degli effetti, seppur non automatici, sul contratto, dal momento che questo rappresenta proprio il fine ultimo a cui mira il professionista. Che la normativa del codice del consumo “non pregiudica” la disciplina generale del contratto significa, infatti, tanto una sua non automatica implicazione, quanto una non altret- tanto automatica esclusione. Occorrerà, invece, accertare di volta in volta la sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti indicati dalle norme che disciplinano la validità del contratto, con particolare attenzione alle disposizioni che disciplinano l’annul- labilità (artt. 1425-1446 c.c.).
Se, infatti, per la nullità valgono le considerazioni svolte nel primo paragrafo, la categoria invalidatoria dell’an- nullabilità sembra prestarsi maggiormente ad essere applicata in caso di pratiche commerciali scorrette.
Ad un primo sguardo, non può negarsi una certa assonanza (57) tra le pratiche commerciali scorrette, ingannevoli ed aggressive, e i casi di annullabilità per vizi della volontà, in particolare per dolo o violenza (58).
In particolare, l’art. 1439 c.c. prevede che il dolo è causa di annullamento del contratto quando gli artifici o i raggiri sono “stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato”. Si noti l’analogia tanto con la formula generale di cui all’art. 21, quanto con le ipotesi tipiche dicuiagliarticoli successivi. Molti degli elementi, elencati dall’art. 21, sui quali la pratica può indurreilconsumatoreinerroresembranoinfattipoter condizionare l’an della contrattazione (si pensi alla natura del prodotto, le sue caratteristiche principali, il prezzo o i diritti del consumatore), inserendosi nel contenuto principale del contratto. Altri elementi, pur richiamando aspetti del tutto estranei al regola- mento contrattuale (es. status del professionista) pos- sonoaltresìavereuneffettodeterminantesulconsenso
del contraente, ove si concretizzino in artifici e raggiri determinanti (59).
Va rilevato che, se la disciplina delle pratiche commerciali non richiede l’intenzionalità del- l’inganno né, tanto meno, che esso derivi dal- l’altro contraente, il dolo civilistico, secondo la lettura tradizionale, la presuppone (60), anche se parte della dottrina non esclude la teorizzabilità di un dolo colposo, ovvero di un inganno perpe- trato senza che l’agente lo abbia di mira consapevolmente.
Prescindendo da ciò, sembra in ogni caso difficile, ad una più attenta analisi delle pratiche in ogni caso ingannevoli tipicamente previste dall’art. 23, esclu- dere l’intenzionalità del professionista, evidente nella grande maggioranza dei casi (61).
Nonostante la disciplina delle pratiche commerciali non distingua, a differenza del codice civile, tra dolo determinante (causa di annullamento) e dolo inci- dente ex art. 1440 c.c. (causa di esclusivo risarci- mento del danno, nel caso di mala fede), ma si riferisca all’induzione ad un più generico comporta- mento economico, ciò non rappresenta in alcun modo un ostacolo per l’applicazione della disciplina civilistica del dolo, comportando semplicemente la necessità di accertare, per la singola pratica commer- ciale scorretta, la sussistenza dei relativi presupposti previsti dal codice civile.
Va rilevato, ad ogni modo, che l’ambito di applica- zione del dolo incidente (induzione a concludere un contratto a condizioni diverse ma non determinanti) sembra coincidere con i casi in cui abbiamo visto potersi configurare una responsabilità precontrat- tuale anche a contratto concluso. In entrambi i casi, la conseguenza sarebbe quella del risarcimento del danno subìto per la conclusione di un contratto a condizioni diverse da quelle che si sarebbero accet- tate in assenza dei comportamenti scorretti.
(57) Il ricorso a tale istituto è ritenuto preferibile da: X. Xxxxx, Le pratiche commerciali “sleali”, in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori. La direttiva 2005/29/CE e il diritto italiano a cura di X. Xx Xxxxxxxxxx, Torino, 2007, 147 ss.; X. Xxxxxxxx, La tutela civilistica del consumatore avverso la pubbli- cità ingannevole dal d lgs. n. 74 del 1992 al Codice del consumo, in Giur. mer., 2006, 3 ss.; X. Xxxxxxx, op. cit.; X. Xxxxxx, op. cit., 181 ss.; X. Xxxxx, op. cit., 235 ss.
(58) Tale rimedio è stato adottato dal legislatore portoghese e, in parte, da quello danese.
(59) Un caso della giurisprudenza di merito è quello deciso dal Tribunale di Terni (sent. 6 luglio 2012), in cui ha precisato che una pubblicità, dichiarata ingannevole dall’AGCM ed eliminata dalla programmazione, è causa di annullamento del contratto in quanto raggiro, purché non sia una normale vanteria rientrante nel cd. “dolus bonus”.
(60) Come rilevato da X. Xxxxxxx, op. cit. e X. Xxxxxxx, op. cit., il quale però sottolinea, ragionevolmente, che risulta difficile negare che i comportamenti previsti dagli artt. 21, 22 e 23 siano caratte- rizzati da intenzionalità.
(61) Si pensi, a titolo esemplificativo, ai casi di cui alle lett. b) (esibire un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione), e) (invitare all’acquisto di prodotti ad un determinato prezzo senza rivelare l’esistenza di ragionevoli motivi che il professionista può avere per ritenere che non sarà in grado di fornire o di far fornire da un altro professionista quei prodotti o prodotti equivalenti a quel prezzo entro un periodo e in quantità ragionevoli in rapporto al prodotto, all’entità della pubblicità fatta del prodotto e al prezzo offerti), ed o) (promuovere un prodotto simile a quello fabbricato da un altro produttore in modo tale da fuorviare deliberatamente il consumatore inducendolo a ritenere, contrariamente al vero, che il prodotto è fabbricato dallo stesso produttore).
Infine, le omissioni ingannevoli, previste dall’art. 22
c. cons. (62), sembrano, senza particolari difficoltà, assimilabili al dolo omissivo (reticenza), anch’esso causa di annullamento del contratto, salvo che rientri nel caso di dolo incidente (63).
Un’implicita conferma dell’applicabilità della disci- plina codicistica è rappresentata da una sentenza di merito con cui il giudice, riferendosi ad una pronun- cia di ingannevolezza di una pubblicità da parte dell’A.G.C.M., l’ha considerata elemento indiziario per l’annullamento del contratto conseguentemente stipulato (64).
Per quanto riguarda, invece, la violenza morale (artt. 1434 ss. c.c.), essa consiste in una costrizione psico- logica esercitata attraverso la minaccia di un male ingiusto. Sembrano evidenti le assonanze con l’art. 24 c. cons.
Quest’ultima disposizione infatti fa riferimento, quali forme di aggressività, alla molestia, alla coercizione, alla forza fisica e all’indebito condizionamento. Per quanto riguarda, in particolare, la molestia, essa consiste in un disturbo o disagio arrecato al consumatore, il quale, per sfinimento, si ritrova ad accettare la proposta. A titolo esemplificativo, si considerino i casi, previsti dall’art. 26 tra le pratiche commerciali in ogni caso aggressive, delle visite presso l’abitazione del consumatore, igno- randone gli inviti a lasciare la residenza o a non tornarvi (lett. b), e delle ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono o altro mezzo di comunicazione a distanza (lett. c).
La coercizione, invece, consiste in una pressione psico- logica o fisica idonea a condurre il consumatore ad una decisione economica che altrimenti non avrebbe preso. Esempio neè il “creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla con- clusione del contratto” (lett. a dell’art. 26).
In questo e in altri casi sembra potersi identificare una minaccia indiretta o una costrizione di natura psicolo- gica che ben può condizionare la decisione commer- ciale e, infine, contrattuale del consumatore (65). È chiaro che, per l’applicazione dell’istituto civilistico,
occorre valutare l’idoneità della violenza a fare impres- sione sopra una persona sensata e a farle temere di esporre sé o i suoi beni a un male ingiusto e notevole. Non sembra, però, potersi escludere una simile condi- zione in taluni casi previsti dalla disciplina consumeri- stica, tra cui quelli indicati nella pagina precedente, purché, sia ben chiaro, siano accertati nella fattispecie concreta i presupposti civilistici. Se dunque in alcune delle ipotesi disciplinate nel codice del consumo l’esi- stenza di una minaccia sembra evidente, altri compor- tamenti (come l’insistenza nell’ignorare gli inviti a lasciare la residenza del consumatore) potrebbero o meno colorarsi di elementi implicitamente minacciosi, da accertare nel caso concreto. D’altronde, l’art. 25 del codice del consumo, nell’elencare gli elementi da con- siderare per la valutazione dell’aggressività della pra- tica, enuncia espressamente il ricorso ad una minaccia fisica o verbale e lo sfruttamento di eventi tragici o circostanze gravi tali da alterare la capacità di valuta- zione del consumatore.
Sia nel caso del dolo che in quello della violenza, occorre tenere presente che nelle pratiche inganne- voli come in quelle aggressive il giudizio prognostico sotteso alla scorrettezza consumeristica è un giudizio di tipo oggettivo, riferito al parametro, costruito e tipizzato, del consumatore medio (66). Come sotto- lineato dalla dottrina (67), infatti, il riferimento della disciplina consumeristica a quest’ultimo, e all’astratta “idoneità a falsare” il suo comporta- mento economico della pratica, “sembra introdurre già in linea di principio una chiara linea di demar- cazione fra le suddette tutele”, escludendo l’auto- matico travaso degli effetti. Ciò significa che la scorrettezza non è, da sola, ragione di invalidità del contratto, né fonte di responsabilità per danni, come visto sopra.
Il giudizio civilistico, invece, guarda alla materiale distorsione della volontà negoziale, per tutelare il sin- golo contraente e, per il tramite di esso, la validità dei contratti (68). Quest’ultimo, infatti, valuta la diver- genza fra volontà e dichiarazione guardando alla singola
(62) X. Xxxxxxx, op. cit., ult. p.
(63) Cfr., a titolo di esempio, Cass. 2 febbraio 2012, n. 1480, in questa Rivista, 2012, 679, con nota di X. Xxxxxxxxxx, Il dolo omissivo quale causa di annullamento del contratto.
(64) Pret. Bologna 8 aprile 1997, in Foro it., 1997, I, 3064 con nota di X’Xxxxxx.
(65) Anche se, come giustamente affermato da Xxxxxxx (op. cit.), alcune tra le ipotesi di aggressività elencate esemplificativa- mente dall’art. 26, piuttosto che delineare casi di minaccia, enu- cleano esempi di inganni e pressioni, analoghi al dolo.
(66) Per rendersi conto di ciò, basta guardare all’esempio della comunicazione commerciale Telecom, in cui l’Autorità ha valutato il significato di una parola secondo quello comunemente attribuito, e
non guardando a quello concretamente dato dal consumatore sin- golarmente coinvolto (Aut. 19826, in xxx.xxxx.xxx)
(67) Cit. X. Xxxxxxx, op. cit., 412. Dello stesso avviso sono X. Xx Xxxxxxxxxx, L’attuazione della direttiva 2005/29/CE nell’ordina- mento italiano: profili generali, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di X. Xx Xxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 91 ss.; X. Xxxxxxxx, op. cit., 779; X. Xxxxxxx, op. cit., 105; Tenella Sillani, op. cit., 778. In senso contrario, X. Xxxxxxx, op. cit., 171; Di Nella, Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commer- ciali aggressive, in Contr. e impr., 2007, 62.
(68) Parte della dottrina sottolinea l’inadeguatezza del rimedio dell’annullabilità, dati anche gli oneri processuali della parte lesa. Vedi, ad esempio, X. Xxxxxx, op. cit. e X. Xxxxx, Rapporto di consumo e pratiche commerciali, in Europa dir. Priv., 2013, 1, 14.
fattispecie contrattuale e alle condizioni personali del contraente leso.
Per applicare la disciplina dell’annullamento, occorre analizzare nel caso individuale gli effetti che la pratica, quale dolo o violenza, abbia concre- tamente (e non potenzialmente) avuto sul consenso del singolo contraente, a prescindere dall’ipotetica reazione del consumatore medio. Il giudice dovrà, in altre parole, verificare nel caso concreto la sussistenza di tutti i requisiti civilistici per l’annullamento del contratto di quel determinato consumatore (69), il cui consenso è stato viziato dalla pratica che, quindi, si è tradotta in un dolo o in una violenza morale.
Vi è chi (70) ha sostenuto l’applicabilità dell’annul- labilità per incapacità naturale, prevista dall’art. 428
c.c. (a cui rinvia l’art. 1425 c.c.), al contratto stipu- lato a seguito di una pratica commerciale scorretta. Considerando che, a parere della Cassazione (71), per annullare il contratto ai sensi dell’art. 428 c.c. è sufficiente una perturbazione che impedisca la seria valutazione del contenuto e degli effetti del negozio, pregiudicando la piena consapevolezza, non può escludersi che molte pratiche commerciali, inganne- voli o aggressive, possano generare nel consumatore una simile condizione. Innanzi tutto, tanto la defini- zione di “falsare in misura apprezzabile il comporta- mento economico del consumatore” (art. 18, comma 1, lett. e) quanto quella di “indebito condiziona- mento” (lett. l), facendo riferimento all’alterazione e alla limitazione della consapevolezza della deci- sione, sembrano rientrare nell’ampia interpretazione giurisprudenziale della disposizione civilistica. A titolo esemplificativo, si pensi alla perturbazione della consapevolezza che può derivare dalla pratica stigmatizzata dall’art. 23, comma 1, lett. g (dichiarare, contrariamente al vero, che il prodotto sarà disponibile solo per un periodo molto limitato o che sarà disponibile solo a condizioni particolari per un periodo di tempo molto limitato, in modo da ottenere una decisione immediata e privare i consumatori della possibilità o del tempo suffi- ciente per prendere una decisione consapevole) o alla limitazione della libertà nel caso di cui all’art. 26, comma 1, lett. a (creare l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclu- sione del contratto).
È chiaro che si tratterà di particolari casi, da accertare concretamente, di pressione psicologica tale da indurre una perturbazione della coscienza e volontà contrattuale del consumatore, situazione non da escludere se si tiene conto degli importanti risultati raggiunti nell’ambito della ricerca sulla psicologia comportamentale, che hanno messo in luce le devia- zioni dal modello olimpico dell’agente razionale e la possibilità per gli operatori del mercato di sfruttarle consapevolmente (72). L’utilizzo di sofisticate tecni- che di psicologia nella persuasione pubblicitaria e, più in generale, nel marketing rende necessario sensi- bilizzare l’attenzione del giurista verso nuove forme di aggressività e ingannevolezza più subdole ma, per tale ragione, forse più efficaci di quelle tradizionali.
Anche qui, un’interpretazione ampia della disposi- zione del codice civile (d’altronde accolta dalla Suprema Corte) permetterebbe, in linea con il favor protettivo del contraente debole, di farvi rien- trare talune ipotesi di scorrettezza commerciale.
La dottrina (73) che rivolge l’attenzione, per la tutela del consumatore, all’incapacità naturale ne sottoli- nea la maggiore flessibilità ed apertura rispetto ai vizi del consenso, sottolineando, ad esempio, la non necessaria volontarietà del raggiro, purché idoneo a generare l’incapacità del consumatore. Occorrerà, invece, la mala fede della controparte, ossia la con- sapevolezza dell’altrui menomazione, la quale, però, potrebbe presumersi dato che l’utilizzo delle strategie di marketing da parte del professionista non sembra avvenire “in buona fede”.
Considerazioni conclusive
L’analisi dell’attuale situazione normativa in merito alle conseguenze civilistiche delle pratiche commer- ciali scorrette ha posto in luce la necessità, a fronte del silenzio legislativo, di una ricostruzione delle stesse a partire dai tradizionali strumenti, risarcitori e invalidatori, del codice civile.
Questi ultimi non perdono la loro attualità, nonostante il decorso del tempo e il mutamento delle condizioni socio-culturali che hanno reso necessarie riforme giu- ridiche quali quelle che hanno preso forma attraverso la disciplina consumeristica. Non sono mancate, ovvia- mente, soluzioni ad hoc (si pensi alla nullità di
(69) L’autorità garante della concorrenza e del mercato può invece intervenire anche in assenza di un contratto, o prima della diffusione di una pratica, in funzione preventiva (art. 27 c. cons.).
(70) X. Xxxxxx, op. cit., 193.
(71) Cass., Sez. III, 8 febbraio 2012, n. 1770, in Giur. it., 2012, 1724 ss.
(72) Per approfondimenti sul tema, vedi ad esempio: AA.VV.,
Pubblicità: teorie e tecniche (a cura di X. Xxxxxxxxx), Roma, 2017;
X. Xxxxxxxx, I fondamenti cognitivi del diritto, Mondadori, Milano, 2008; Id. Paternalismo e antipaternalismo nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2005, 771 ss.; M. Fusi, Pratiche commerciali aggres- sive e pubblicità manipolata, in Rivista di diritto industriale, 2009, 1, 5 - 28; X. Xxxxxxxxx, Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comuni- cazione e management, Milano, 2017.
(73) X. Xxxxxx, op. cit., 197.
protezione o al recesso di pentimento). Se nel caso delle pratiche commerciali scorrette il legislatore ha preferito non intervenire, ciò sembra lasciar trasparire la volontà di dare spazio ad altri rimedi, come peraltro si evince tanto dall’art. 3, par. 2 della Dir. 05/29 quanto dall’art. 19, comma 2, c. cons.
Chiaramente, come visto sopra, occorre verificare la sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti previsti dal codice per l’applicazione di ognuno degli istituti, risarcitori o invalidatori, compito che peraltro appare agevole per tutte quelle ipotesi più gravi di ingannevo- lezza e di aggressività, indicate dagli artt. 23 e 26 c. cons. L’applicazione degli istituti civilistici deve, purtutta- via, confrontarsi con l’attenzione del legislatore euro- peo alla salvaguardia dell’efficienza delle transazioni commerciali, per cui importante è il mantenimento dell’efficacia del contratto. Solo in ultima istanza, dunque, dovrebbe farsi ricorso alla sua invalidazione. La protezione del consumatore è, secondo la mens legis consumeristica, semplicemente strumentale alla correttezza ed alla efficienza del mercato.
Sembra evidente che un’adeguata tutela del con- traente debole non può essere assicurata se ci si limita agli strumenti pubblicistici, che prescindono dalla concreta lesione della sfera individuale: il private enforcement completa le tutele previste dal codice del consumo che, in sua assenza, sarebbero meno efficaci dati i limiti strutturali dell’azione ammini- strativa, inevitabilmente selettiva e incapace di intervento in ogni caso di esigenza individuale.
Gli istituti del codice civile, con le dovute diffe- renziazioni e considerazioni, sono gli unici ad offrire un riparo idoneo dai pregiudizi patrimo- niali, contrattuali o extracontrattuali, subìti dal consumatore. Una loro interpretazione restrittiva limiterebbe, però, la loro capacità di svolgere effettivamente tale funzione: per tale motivo, si ritiene opportuna una rilettura che ne valorizzi l’importanza pratica per la tutela del consumatore. Quest’ultima, infatti, richiede che ogni opera- zione commerciale, che non rispetti i suoi inte- ressi o la sua libertà, sia oggetto di repressione giuridica.
La centralità della libertà del consumatore, infatti, che pur si evince dalla disciplina del codice del consumo (art. 1), è peraltro chiaramente deducibile dalla stessa Costituzione che, all’art. 41, comma 2, prevede, tra i limiti dell’iniziativa economica privata, quelli dettati dal rispetto della libertà umana, con ciò assegnandole un valore più elevato.
Dunque, compito di ogni interprete del diritto civile è verificare, in ogni singolo caso concreto, quale rimedio risulti idoneo per la protezione del consumatore leso da una pratica commerciale scorretta: ove il solo strumento risarcitorio non si presti adeguatamente alla tutela, nessuna ragione di opportunità economica può opporsi alla esigenza giuridica di tutela individuale della libertà del consumatore, anche a costo dell’annul- lamento del contratto.
Contratti bancari
L’art. 23 T.U.F., tra formalismo ed efficienza allocativa
di Xxxxxxx Xxxxxxxx
Il contributo intende segnalare che l’analisi economica del diritto è capace di offrire prezioso ausilio all’interprete e, così, anche al giudice di civil law (che in maniera più consapevole ne fa uso), nella prospettiva di consentirgli di modificare la portata precettiva di norme giuridiche a forte impatto (e solo apparentemente ambigue), suscettibili di alimentare condotte opportunistiche con esiti inefficienti per il mercato (complessivamente inteso).
L’art. 23 del D.Lgs. n. 58/1998 tra giudice legislatore e influenze di Law and economics
Il vivace dibattito degli ultimi tempi sulla validità del contratto bancario avente ad oggetto servizi di investi- mento, sottoscritto dal solo cliente, ha certamente riportato in auge la riflessione sul diverso ruolo da attribuirsi alla forma nell’ambito del contratto asimme- trico (1). La soluzione che è stata elaborata in sede di legittimità nel suo massimo consesso (2), nel momento in cui ha assicurato alla ‘forma informativa’ l’esenzione dall’assoggettamento alle regole tradizionali delle pato- logie civilistiche del negozio, ha, invece, diffuso la percezione del seguente fenomeno: il giudice di civil law assume sempre più le sembianze del legislatore (3) e
trova nell’analisi economica del diritto un utile stru- mento per la correzione di certe regole a forte impatto. Anche quando la norma, investita dal processo erme- neutico, non manifesti ambiguità.
Per comprendere più esattamente ed in che misura nel caso del contratto d’investimento, l’approccio di Law and Economics è stato utilizzato dalla giurispru- denza c.d. normativa, sì da condizionarne gli esiti, malgrado le univoche scelte di policy e la presenza di regole di sistema che l’attività interpretativa (anziché ignorare) avrebbe dovuto tenere in debita conside- razione, non si può fare a meno di partire dalla sequenza procedimentale che è alla base del c.d. accordo quadro.
(1) Xxxxx forma del contratto come strumento di tutela del contraente debole finalizzato a richiamare la sua attenzione in modo puntuale sul contenuto degli obblighi contrattuali, si consi- derino in particolare i contributi di X. Xxxxxxxxxxx, Neoformalismo contrattuale, in Enc. dir. - Annali, Milano, 2011, IV, 772; Id., Usi (ed abusi) di una concezione teleologica della forma: a proposito dei contratti bancari c.d. monofirma (tra legalità del caso e creatività giurisprudenziale), in questa Rivista, 2017, 679; G.B. De Marinis, Uso e abuso dell’esercizio selettivo della nullità relativa, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, 612 ss.; Id., Nullità relativa, protezione del cliente e interessi meritevoli di tutela, in id., 2016, II, 283;
X. Xxxxxxxx, Una pura formalità. Dalla struttura alla funzione del neo-formalismo contrattuale, in id., 2017, 543 ss.; X. Xx Xxxxx, Sottoscrizione e “forma informativa” nei contratti del mercato finanziario, in Riv. dir. bancario, xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2017, 13; Id., La “forma informativa” innanzi alle sezioni unite, in Foro. it., I, 2017, 2740 ss.; X. Xx Bona, Spunti di riflessione in tema di obblighi informativi (e neoformalismo) nei contratti asimmetrici, in Studi Urbinati di Scienze Giur. ed econ., 2014, consultabile anche all’in- dirizzo: xxx.xxxxxx.xx/xxxxx.xxx/xxxxx-X/xxxxxxx/xxxxxxxx/000/000;
X. Xxxxxx, Il formalismo nei contratti dei consumatori, in Contr. Impr. Eur., 2012, 583; U. Breccia, La forma, in Trattato del con- tratto diretto da X. Xxxxx, I: Formazione, a cura di X. Xxxxxxxx, 2006, 535 ss. Xxxxxx traccia dell’accesodibattito dottrinario sicoglie dalla
lettura dell’ordinanza di Cass., 27 aprile 2017, n. 10447, in Foro it., 2017, I, 2731, con note di X. Xxxxxxxxx e di X. Xx Xxxxx e può leggersi anche in questa Rivista, 2017, 398 ss., con nota di
X. Xxxxxxx.
(2) Il riferimento è alla ormai celebre sentenza di Xxxx., SS.UU. civ., 16 gennaio 2018, n. 898, che può leggersi in Foro it., 2018, I, 928 cc., con nota di C. Medici, Contratto di investimento mono- firma: l’avallo delle sezioni unite. ed anche in questa Rivista, 2018, 134 ss. con note di X. X’Xxxxx, La “forma” del contratto-quadro ex art. 23 T.U.F. non è prescritta ad substantiam actus, 138 ss.;
X. Xxxxxxxxxxx, Formaomodalitàdiun’informazionematerializzata? Le SS.UU. ed una interpretazione normalizzatrice dell’art. 23 T.U.F., 143 ss.; X. Xxxxxxxxx, Nota breve a margine di Sezioni Unite 16 gennaio 2018, n. 898, 149 ss.
(3) Torna a riproporsi la questione che raffinati giuristi hanno etichettato con la denominazione di “dottrina delle corti” e su cui si rimanda in particolare a X. Xxxxxxxxx - X. Xxxxxxxx, Dottrina delle corti e disimpegno dei giuristi, in Foro it., 2013, V, 187. Si veda altresì F. Xx Xxxxxx, “Giurisprudenza normativa” e ruolo del giudice nell’ordinamento italiano, id., 2010, I, 157 ss. Sia consen- tito il rinvio anche a X. Xxxxxxxx, Analisi economica del diritto e giurisprudenzanormativa, in Studi inonore di X. Xxxxxxxxx, in corso di pubblicazione.
Nella prassi di norma accade che il contratto d’inve- stimento quadro si identifichi con un documento con clausole predisposte unilateralmente dall’istituto bancario, ma che si atteggia come proposta contrat- tuale del cliente, da quest’ultimo soltanto sottoscritta in calce e formalmente indirizzata alla banca. Essa riceve un esemplare con firma dell’investitore, che trattiene e, a sua volta, gliene consegna altro identico al primo (e, dunque, di norma privo della sottoscri- zione dell’intermediario di credito).
Il perfezionamento dell’accordo quadro in base al menzionato procedimento ha originato numerosi contenziosi, un po’ tutti caratterizzati dalla replica- zione dello stesso schema base. Il cliente, evidente- mente deluso dagli investimenti non andati a buon fine, effettuati in esecuzione del contratto quadro monofirma, sul rilievo che il medesimo non rechi la sottoscrizione di entrambi i contraenti, propone azione per sentirne dichiarare la nullità, invocando la violazione dell’art. 23 T.U.F. Norma che, in base alla sua stessa formulazione e all’interpretazione consoli- datasi in seno alla prassi operazionale di legittimità (sino alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 898 del 2018), appare incline ad esigere il rispetto della forma scritta ad substantiam per il (valido) perfezionamento del contratto quadro, non ravvisabile in tutti i casi in cui le risultanze processuali siano state tali da evi- denziare la sottoscrizione del solo cliente (4). La previa declaratoria di nullità del contratto quadro consentirà, quindi, all’investitore di fondare (per l’effetto della prima) la richiesta di condanna del- l’intermediario creditizio a restituirgli le somme volta per volta investite (con ciascun ordine impartito distintamente ma pur sempre collegato al contratto quadro viziato), stimando come trascurabile il rischio di vedersi esposto a compensazioni (pur se solo par- ziali) con i profitti già conseguiti (anche in termini di cedole e/o dividendi già riscossi) all’esito degli inve- stimenti risultati remunerativi. A ciò ostano, infatti, come meglio sarà illustrato più avanti nel paragrafo “Il nuovo art. 23 T.U.F.: una riformulazione in linea con i principi dell’analisi economica del diritto”, sia la relatività della nullità che, in quanto rilevabile soltanto ad iniziativa del cliente, non consentirebbe
all’istituto bancario convenuto efficaci strumenti di contrasto, sia le regole sancite in tema di indebito oggettivo. Per l’intermediario, invero, non sarà per nulla agevole provocare (sia pure agendo in ricon- venzionale) l’estensione degli effetti della nullità, fatta valere dal cliente in modo selettivo, anche ai profitti dal medesimo ricevuti (e strettamente ine- renti alle operazioni di investimento, di cui siano stati percepiti i frutti), per farne scaturire l’effetto restitu- torio anche a suo beneficio. Né ancora, sempre nella prospettiva di contenere l’effetto restitutorio, in misura tale da circoscriverne la dimensione del quan- tum a ciò che (e sempre che) sia residuato per diffe- renza tra l’importo complessivamente investito e la somma pari ai frutti ottenuti (dagli ordini d’investi- mento volta per volta eseguiti, rimasti estranei al contenzioso), potrebbe giovargli l’exceptio doli (5). Che, facendo in sostanza leva sulla contrarietà a buona fede dell’iniziativa assunta dal cliente in modo selettivo, dovrebbe avere l’effetto di consentire all’intermediario di neutralizzare la domanda di nul- lità relativa, che abbia avuto ad oggetto soltanto gli ordini di esecuzione non profittevoli per l’investitore. La consapevolezza dell’operatività di un meccanismo come quello testè delineato e la sua idoneità a generare inefficienze per il mercato finanziario ha indotto la prima sezione civile della Corte di legittimità a rimet- tere al primo Presidente, con ord. n. 10447 del 27 aprile 2017, la questione relativa all’interpretazione dell’art. 23 T.U.F. e segnatamente al profilo del se “il requisito della forma scritta del contratto di investimento esiga, accanto a quella dell’investitore, anche la sottoscrizione ad substantiam dell’intermediario” (6).
Le Sezioni unite, investite della questione loro rimessa dal primo Presidente, hanno elaborato una soluzione in controtendenza rispetto all’orienta- mento di legittimità assolutamente consolidato sino a quel momento. Sulla premessa che alla previ- sione di nullità relativa per difetto di forma scritta, contenuta nell’art. 23 T.U.F., debba riconoscersi lo specifico fine di assicurare l’adeguata informazione del cliente in ordine alle conseguenze che derivereb- bero dall’assunzione del vincolo, sì da evitare che il suo consenso sia prestato in modo inconsapevole, la
(4) Si veda ex plurimis Cass. 3 aprile 2017, n. 8624, in questa Rivista, 2017, 509 ss. con nota di X. Xxxxxxxx, che ha ribadito il principio più volte affermato e “fin da epoca remota” (come testualmente si dà atto in motivazione) secondo cui i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento devono essere redatti per iscritto. La forma scritta è prevista ad substantiam e, pertanto, è elemento costitutivo del contratto. Qualora manchi la sottoscrizione anche solo di una delle parti, essendo il contratto stipulato in violazione della forma scritta, deve ritenersi affetto da nullità; conf. Cass. 27 aprile 2016, n. 8395, in Corr. giur., 2016,
1110; Cass. 24 marzo 2016, n. 5919, in Foro it., Rep. 2016, voce Contratto in genere, nn. 362, 363; Cass. 3 gennaio 2017, n. 36, id. 2017, voce Contratti bancari, n. 25.
(5) In proposito cfr. A Dolmetta, Exceptio doli generalis, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, I, 147; D. Semeghini, Forma ad substantiam e exceptio doli nei servizi di investimento, Milano, 2010.
(6) L’ordinanza già richiamata in nt. 1 può leggersi in questa
Rivista, 2017, 398.
Corte di legittimità ha affermato che il contratto quadro è valido, pur se il documento contrattuale (predisposto dall’intermediario) sia stato sottoscritto soltanto dal cliente, qualora egli ne abbia ricevuto un esemplare e il consenso tra le parti sia stato raggiunto per facta concludentia.
La riformulazione giurisprudenziale dell’art. 23 T.U.F. per correggere l’effetto giuridico prodotto da un enunciato legislativo privo di ambiguità
L’aver inferito dal carattere relativo della nullità prevista dall’art. 23 T.U.F., che il vincolo di forma ivi menzionato è da intendersi imposto unicamente in funzione di rendere al cliente un’informazione completa, onde consentirgli lo scambio del consenso responsabile (7), appare soluzione non del tutto in linea con la formulazione letterale della norma. Che, se analizzata nella sua interezza, non sembra voler disgiungere la forma scritta dall’aspetto del perfezio- namento del contratto, così da privarla di ogni rile- vanza sul piano della struttura del negozio. Appare decisiva in tal senso in particolare la parte finale del primo comma della norma la quale, nella misura in cui ha previsto che particolari tipi di contratto “pos- sano o debbano essere stipulati in altra forma” (cioè in forma non scritta) su espressa autorizzazione della Consob (e nel rispetto delle condizioni individuate dal legislatore), ha mostrato di voler collegare la “forma” a quella che il contratto deve necessaria- mente rivestire per il suo perfezionamento, così da conferirle la consistenza di elemento costitutivo della stipulazione. Il che, peraltro, rende ultronea l’inda- gine tra regole sulla formazione del contratto e quelle sulla validità ed efficacia dello stesso (8). Xxxxxxxx, anzi, palese che la menzione della redazione “per iscritto” (dei contratti di intermediazione finanzia- ria), poco più avanti contemplata dalla norma, non possa avere altro significato, se non quello di forma- zione dell’accordo in forma scritta al fine della
validità del contratto. E, dunque, di forma in funzione degli effetti dell’atto non riducibile soltanto alla forma protettiva intesa come “veicolo necessario di informazioni necessarie” (9). Resterebbe altrimenti da chiarire - e sarebbe necessario farlo prima di propendere per altra opzione interpretativa - quale sia il senso di una previsione che abbia reso possibile nel concorso delle condizioni indicate (e sempre che vi sia stata autorizzazione dell’organo di controllo e vigilanza del mercato finanziario) la stipulazione del contratto in forma diversa da quella scritta. Che nella logica della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite risulta del tutto svalutata e nient’affatto presa in considerazione in ragione della statuizione che ha ritenuto legittimo il perfezionamento del contratto per comportamenti concludenti (che, all’evidenza, integrano una tecnica di perfezionamento che si realizza in forma diversa da quella scritta), a prescin- dere da qualsivoglia autorizzazione.
La sensazione che, pertanto, si trae dalla lettura della decisione è che il nuovo principio, pur volendosi far apparire come il frutto di un approccio ermeneutico improntato alla valorizzazione dell’intentio legis, sia stato piuttosto l’esito di un procedimento di corre- zione del diritto incorporato nel testo legislativo discutibile. Perché attuato sul presupposto della “non dirimente” (10) efficacia della formulazione letterale della norma, che, invero, non appare sussi- stere e, così, per mano di una giurisprudenza assurta al rango di fonte del diritto. Più esattamente della portata dell’art. 23 T.U.F. nel significato tecnico- giuridico proprio delle espressioni che lo strutturano, per contenere le inefficienze indotte dal punto di vista economico sul mercato finanziario dai riflessi (rectius l’obbligo restitutorio) dell’effetto giuridico (rectius la nullità relativa), desunto dall’interpreta- zione letterale della norma. A quest’ultima, tuttavia, in base alle regole vigenti, dovrebbe essere assicurato sempre il primato, almeno sino a quando l’effetto giuridico risultante dalla sua formulazione abbia
(7) La questione si presta a confluire nell’ambito del c.d. neo- formalismo negoziale. Al riguardo utili approfondimenti in
U. Breccia, La forma, in Trattato del contratto diretto da
X. Xxxxx, cit., 535 ss., il quale sottolinea con forza il profilo che il “fomalismo di protezione non si presta ad essere sistemato secondo i canoni del formalismo quale requisito di un contratto; e, in assenza di una disciplina generale (che invece esiste, sia pure in maniera del tutto embrionale, nel caso della mancanza della forma, quando la stessa assurga al rango di un elemento essen- ziale dell’intero atto), affida agli interpreti una responsabilità in gran parte nuova” (536). Ma si vedano anche i contributi di X. Xxxxxxx- tini, Neoformalismo contrattuale, in Enc. dir.- Annali, cit., 772 e in linea più generale quelli di un po’ tutti gli altri autori citati in nt. 1.
(8) Il distinguo appare invece utile ed anzi, direi, decisivo nella prospettazione di X. Xxxxxxxx Servizi ed attività d’investimento -
Prestatori e prestazione, Milano, 2012, 466 ss. al fine delle diverse conclusioni che ne trae; l’A. però non sembra valorizzare più di tanto la completa formulazione dell’enunciato legislativo conte- nuto nell’art. 23.
(9) Sono le suggestive parole usate da X. Xx Xxxx, Informa- zione e contratto: il regolamento contrattuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1993, 710.
(10) Di formulazione letterale dell’art. 23 T.U.F. non dirimente parla espressamente la pronuncia a Sezioni Unite, al fine di svilire all’evidenza l’enfatizzazione del richiamo alla “redazione per iscritto” ivi contenuto o comunque di creare il presupposto per farne emergere un’ambiguità che, invero, in ragione delle consi- derazioni contenute in questo contributo, non sembra davvero avere.
evidenziato una situazione di incompatibilità con il sistema legislativo (11). Nel caso in esame, invero, né rilevata dalla Suprema corte né tanto meno revocata in dubbio, proprio al fine di giustificare una soluzione basata sull’ermeneusi eminentemente teleolo- gica (12). Non potendosi, invero, ritenere conflig- gente con il sistema normativo (l’effetto del)la nullità del contratto, che sia privo della sottoscri- zione dell’intermediario, per il semplice fatto della sproporzione che la stessa evidenzi, se rapportata alla funzione protettiva del cliente, a cui la forma scritta risulterebbe preordinata. Tanto più se si considera, che nel caso in esame il risultato sproporzionato appare correlato agli esiti inefficienti che l’effetto restitutorio dei soli investimenti di segno negativo derivante dalla nullità è suscettibile di generare, piuttosto che a quest’ultima in sé e per sé considerata. In un simile contesto, in base al tenore non equivoco dell’art. 23, in virtù dei rilievi poco sopra esplicitati, avrebbe dovuto assicurarsi prevalenza alla sua inter- pretazione letterale in ossequio ad una chiara scelta di politica del diritto (13). Con la conseguenza di non poter elaborare una soluzione che ritenga la sotto- scrizione dell’intermediario ininfluente per la valida conclusione del contratto.
Una diversa opzione, che tragga origine dal presup- posto della presunta incompletezza della norma e/o ambiguità del suo linguaggio (14), per il solo fatto che dalla stessa nessuna specifica menzione alla sottoscri- zione dell’intermediario sia stata fatta, si rivelerebbe non coerente con la previsione del vincolo di forma scritta, quale elemento costitutivo del contratto. Che, invece, per quanto testé osservato, appare
cogliersi proprio in ragione dell’enunciato legislativo considerato nel suo complesso.
Utili indicazioni a sostegno della segnalata incoe- renza si desumono dagli articoli del codice civile, che al fine di garantire effettività all’esigenza di poter provare per iscritto il contratto, per la cui validità non è stata richiesta la forma scritta, offrono in concreto la specificazione che quest’ultima risulta integrata soltanto in presenza di un documento con- tenente la sottoscrizione dell’altra parte. In altri termini esse chiariscono che la redazione per iscritto del documento contrattuale implica necessaria- mente la sottoscrizione dell’altro contraente (che, se mancante, non consentirebbe di dar prova del- l’avvenuta conclusione del contratto).
Questo è proprio il caso degli artt. 1742 (relativo al contratto di agenzia) e 1888 (relativo al contratto di assicurazione) c.c., l’uno e l’altro richiamati nell’or- dinanza n. 10447/2017 di rimessione della questione al primo Presidente della Suprema corte, sia pure con intento assertivo di segno contrario a quello che qui si indica. Nell’ottica cioè di valorizzare piuttosto la diversità di formulazione dell’art. 23 T.U.F. quanto al profilo della sottoscrizione dell’intermediario, xxx non espressamente richiesta e così accreditarne (pro- prio in base al tenore non identico della formula- zione) la diversa interpretazione della non indispensabilità della sua firma per ritenere integrata la forma scritta (in questo caso richiesta ad substantiam).
D’altro canto, giova constatare che, quando il legi- slatore ha inteso ritenere ugualmente soddisfatto il vincolo di forma scritto stabilito a pena di nullità,
(11) Per poter meglio apprezzare in tema di interpretazione dell’art. 23 T.U.F. la disapplicazione del solido principio giurispru- denziale più volte ribadito appare utile richiamare Xxxx. 6 agosto 1984, n. 4631, in Giust. civ., 1984, I, 2983, che in motivazione ha messo bene in luce che “è compito del legislatore determinare l’effetto giuridico ricollegato alla fattispecie astratta tipizzata nella disposizione legislativa da esso emanata. Effetto giuridico che è quello risultante dalle espressioni usate nella formulazione della norma, nel loro significato tecnico-giuridico. Soltanto nell’ipotesi
-eccezionale- che l’effetto giuridico risultante dalla formulazione legislativa sia incompatibile con il sistema legislativo, l’interprete è autorizzato, in base all’intentio legis, ad individuare l’effetto giuri- dico che in realtà i compilatori della norma hanno inteso ricollegare alla tipizzata fattispecie astratta. Ma non può l’interprete correg- xxxx la norma, nel significato tecnico-giuridico proprio delle espressioni che la strutturano, sol perché ritiene che l’effetto giuridico risultante sia inadatto, in quanto eccessivo, rispetto alla finalità pratica cui la norma è intesa.”; in senso conforme successivamente Xxxx. 13 aprile 1996, n. 3495, in Foro it., Rep 1996, voce Legge, n. 51; Cass. 23 maggio 0000, x. 00000, id., Rep. 2005, 2005, voce Termini processuali civili, n. 12. Più di recente Cass. 4 aprile 2014, n. 7992, id., 2015, 3, I, 1058 che in motiva- zione, dopo aver evidenziato che il criterio di interpretazione teleologica, previsto dall’art. 12 preleggi, può assumere rilievo
prevalente rispetto all’interpretazione letterale in taluni casi, ha però specificato che trattasi “di una ipotesi eccezionale e da maneggiare con cura”. In dottrina prende nettamente le distanze dal principio giurisprudenziale testé richiamato X. Xxxxxxxxxxx, L’in- terpretazione della legge come sistematica ed assiologica. Il brocardo in claris non fit interpretatio. Il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova esegesi, in Scuole tendenze e metodi, Napoli, 1989, 275 ss. L’autorevole civilista osserva, tra l’altro, che “‘capire’ la norma non è, e non può essere, il risultato dell’esegesi puramente letterale, ma l’individuazione della sua logica e della sua giustificazione assiologica” (299).
(12) Soluzione che sembrerebbe prendere le mosse dall’affer- mazione, che, invero, non pare più di tanto motivata, di non poter attribuire “alla formulazione letterale della norma efficacia diri- mente” (sono le testuali parole della sentenza).
(13) Si mostra critico verso approcci ermeneutici volti a ritenere che la sottoscrizione dell’intermediario non sia necessaria, perché propensi a neutralizzare una norma imperativa come l’art. 23 T.U.F., la quale è rivelatrice di una chiara scelta di politica del diritto
X. Xxxxx, Una pura formalità. Dalla struttura alla funzione del neo- formalismo contrattuale, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, 543 ss.
(14) In questo caso assunta più che come esito dell’interpre- tazione come punto di partenza per giustificare la riformulazione dell’enunciato legislativo.
anche se manchi la sottoscrizione di un contraente, l’ha stabilito espressamente. Proprio come accade in tema di forma del contratto di subfornitura. In questo caso, infatti, il legislatore speciale ha espressamente stabilito che le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione del contratto (o alla sua modifica- zione) effettuati per telefax o forma telematica “costi- tuiscono forma scritta” (15). Il che rende l’idea del fatto che la sottoscrizione sia elemento strutturale della forma scritta.
Se lo si rapporta, quindi, al sistema legislativo, l’effetto della nullità del contratto, privo della sot- toscrizione dell’intermediario, appare soluzione per- fettamente compatibile con il medesimo.
Sicché, salvo che non sia ravvisabile un’espressa volontà legislativa, appare problematico sostenere che, qualora sia stata omessa una più specifica indi- cazione, la forma scritta possa ritenersi soddisfatta anche se sia riscontrabile la carenza della sottoscri- zione di uno dei contraenti.
E con l’opzione secondo cui non è predicabile un vincolo di forma scritta (ad probationem o ad sub- stantiam) disgiunto dalla sottoscrizione di entrambi i contraenti, mostra sintonia anche chi in seno alla dottrina, pur collocando l’art. 23 T.U.F. nell’ambito del neoformalismo negoziale, ne rileva la palese violazione della ratio legis, qualora si privilegi l’in- terpretazione che la prescrizione di forma ivi con- templata sia di consistenza ridotta rispetto a quelle che il codice civile prevede per la contrattazione inter pares (16). Non diverse sono le conclusioni alle quali perviene, poi, ancora chi, partendo dal pre- supposto che la previsione della forma scritta nel- l’ambito bancario e finanziario rimandi all’ordine pubblico c.d. di direzione, ritiene che non possa farsi a meno della sottoscrizione della banca, per ritenere
salvaguardata la buona organizzazione e la profes- sionalità degli intermediari, anche nell’ottica di vedere preservata la fiducia degli investitori e l’in- tegrità dei mercati (17).
Piuttosto che essere rapportata alla esigenza del sod- disfacimento della forma informativa, la necessità della sottoscrizione dell’intermediario, dovrebbe, invero, forse più rettamente, essere valutata nella dimensione del perfezionamento del contratto (che all’evidenza costituisce aspetto diverso dal primo), per non apparire strumentale ad un diverso tema d’indagine: quello della valutazione dell’efficienza economica per il mercato finanziario degli esiti che una certa soluzione legislativa (la quale, invero, appare priva di ambiguità) è in grado di determinare. Con l’obiettivo ultimo di correggere la portata della norma, per garantire una migliore allocazione delle risorse.
Si ha così netta la sensazione, che la soluzione ela- borata dalle Sezioni Unite non sia stata calibrata tanto in base a considerazioni legate alla funzione della forma scritta, di cui fa menzione l’art. 23 T.U.F., in ragione della sua presunta ratio, quanto in base alla constatazione del risultato (rectius delle conseguenze anche economiche) che la sanzione della nullità relativa è capace di generare. Allorché da strumento per rimediare all’asimmetria informativa del con- traente maggiormente esposto al rischio contrattuale sia diventata espediente utile a consentire al cliente di acquisire, attraverso la caducazione del contratto, i seguenti vantaggi: la restituzione degli investimenti non remunerativi e la conservazione dei profitti maturati in relazione agli investimenti vantaggiosi. E così benefici economici “sproporzionati” perché maggiori di quelli attesi dalla regolare esecuzione del contratto (18).
(15) L’art. 2, comma1, L. 18 giugno 1998, n. 192 prevede espressamente che “Il rapporto di subfornitura si instaura con il contratto, che deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità. Costituiscono forma scritta le comunicazioni degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effet- tuate per telefax o altra via telematica...”.
(16) Si veda X. Xxxxxxxx, Contratti di investimento non sotto- scritti dall’intermediario: la parola alle Sezioni Unite, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, 554 ss., in cui si pone in evidenza con un certo vigore che “nel contratto asimmetrico l’obbligo formale semmai si accresce, ma certo non può diminuire. Il neoformali- smo di protezione, in definitiva, può ben consistere in un quid aliud rispetto alle prescrizioni di forma tradizionalmente poste ad sub- stantiam actus, ma mai potrà divenire un quid minus e, parados- salmente, proprio in nome delle finalità tuzioristiche della disciplina che lo prevede” (559). Sia pure con sfumature diverse può collocarsi in questa prospettiva anche la tesi di X. Xxxxx, op. cit., 543 ss.
(17) Questa è la prospettiva di X. Xxxxxxx, La forma responsa- bile verso le Sezioni Unite: nullità come sanzione civile per i contratti bancari e di investimento che non risultano sottoscritti
dalla banca, in questa Rivista, 2017, 393. L’autorevole voce dot- trinaria, dopo aver osservato che la sottoscrizione della banca nei contratti bancari e finanziari non implichi esclusivamente una questione di forma informativa, rileva che “un mercato bancario e finanziario nel quale, per prassi, non si sa chi ha prestato il consenso per la banca, a me non sembra un mercato bancario e finanziario bene organizzato e professionale, che come tale ispiri fiducia agli investitori ed assicuri integrità al mercato nel suo complesso”.
(18) Sia pure muovendo dal presupposto, non condiviso nel testo, che la formulazione letterale dell’art. 23 non sia dirimente, per poter offrire supporto (facendo leva sulla ratio della norma) alla ricerca dell’interpretazione preferibile nell’ambito di più interpre- tazioni possibili, appare suggestivo il passo della motivazione della sentenza delle Sezioni Unite, in cui si afferma che “ragionando in termini più generali, può affermarsi che nella ricerca dell’interpre- tazione preferibile, siccome rispondente al complesso equilibrio tra interessi contrapposti, ove venga istituita dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta ed immediata non un interesse generale, ma anzitutto l’interesse particolare, l’interprete deve essere attento a circoscrivere
Il problema è che l’individuazione del correttivo idoneo a restituire efficienza, allorché se ne sia riscon- trato il suo sconvolgimento (in dipendenza dei riflessi che una certa regola comporta), per le ragioni dianzi esposte non pare proprio poter giustificare un inter- vento modificativo (rectius di vera distorsione camuf- fata da interpretazione teleologica) della norma rispetto ad un enunciato legislativo non ambiguo, ma che ad iniziativa della giurisprudenza si vorrebbe far passare per tale (attraverso la declamazione della sua formulazione letterale come priva di efficacia dirimente). L’apprezzamento dell’inefficienza dal punto di vista economico di una norma giuridica priva di ambiguità e che non possa giustificare almeno due diversi risultati interpretativi (19) non sembra, infatti, poter incrinare la vigenza della regola che esprime, senza l’intermediazione legislativa. Che, preso atto degli esiti inefficienti (riflesso degli effetti giuridici che una certa norma imperativa è suscettibile di produrre), ne valuti la modifica (nel- l’ambito della propria discrezionalità) per porvi rime- dio secondo traiettorie improntate a maggiore efficienza: quelle segnalate dall’interprete.
Un approccio di questo tipo sembrerebbe vieppiù necessario, qualora sia stato escluso che il procedi- mento di conclusione del contratto è quello per condizioni generali (20). In punto di tecnica di con- clusione del contratto quadro è stato, infatti, sancito il diverso principio del suo perfezionamento per facta concludentia, sul presupposto che sia possibile desu- mere il consenso negoziale dell’intermediario anche da comportamenti concludenti.
Appare, dunque, lampante che l’art. 23 T.U.F., per mano dell’iniziativa dei giudici, che non sembrerebbe proprio rivestire le sembianze di un intervento inter- pretativo di routine, è stato riformulato nel modo seguente: “salvo che non sia ravvisabile una situa- zione di insufficienza informativa del cliente, al quale deve assicurarsi idonea informazione per iscritto e
con la consegna di un esemplare del documento contrattuale a pena di nullità, il contratto di inve- stimento può perfezionarsi anche per comportamenti concludenti dell’intermediario. La nullità può essere fatta valere solo dal cliente”.
La conclusione del contratto per facta concludentia: l’eccezione che diventa
la regola nella reinterpretazione dell’art. 23 T.U.F.
L’aver affermato che il contratto quadro non richiede la sottoscrizione dell’intermediario, potendosi il con- senso di quest’ultimo “desumere alla stregua di com- portamenti concludenti dallo stesso tenuti”, accresce ancor più il convincimento che, attraverso la fictio dell’interpretazione teleologica, le Sezioni unite abbiano, invece, posto in essere un discutibile inter- vento di vera e propria riscrittura del più volte citato art. 23 (essenzialmente nell’ottica della salvaguardia dell’efficienza economica del sistema). Se, invero, si riflette sul fatto che è stata attribuita vocazione di regola generale a una tecnica di conclusione del contratto che, nell’ambito del perfezionamento del contratto quadro di intermediazione finanziaria, per quanto si appalesa in base alla lettera non ambigua della legislazione speciale (e alla piana intenzione del legislatore), avrebbe dovuto considerarsi solo ecce- zionale (21), appare evidente lo stravolgimento del senso letterale delle parole della norma nella sua formulazione tecnico-giuridica. Questa, infatti, alla stregua del suo tenore inequivoco sembrerebbe legit- timare, come si accennava più avanti, la conclusione di un valido contratto in forma diversa da quella scritta solo in presenza di specifico provvedimento della Consob (sentita la Banca d’Italia), che abbia espressamente autorizzato la deroga (e, peraltro, per motivate ragioni o in base alla natura professionale dei contraenti) (22).
l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l’interesse protetto dalla nullità, determinandosi altri- menti conseguenze distorte o anche opportunistiche”.
(19) Il profilo sembra in fondo potersi cogliere e con una certa trasparenza anche attraverso la lettura dei contributi di stampo giuseconomico. Si veda l’interessante contributo di X. Xxxxxxxxx -
X. Xxxxxxxxx, Analisi economica del diritto: “the Italian job”, in Foro it., 2014, V, 193 ss. ed in particolare 200-201, nel quale si sotto- linea, tra l’altro, come per “i giudici e i pratici, l’analisi economica diventa uno strumento normativo” (corsivo aggiunto). Analoga- mente il profilo appare rimarcato anche da X. Xxxxxx - X. Xxxxxx -
P.G. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx e X. Xxxx, Il mercato delle regole, Bologna, 1999, p. 16, allorché gli A. sottolineano che “…è inne- gabile come il giudice funzionario di civil law sia una figura istitu- zionale disegnata per compiere operazioni ermeneutiche di routine su testi legislativi, non assistito da uno status sociale particolarmente privilegiato, mentre il giudice di common law
rimane un personaggio altamente rappresentativo, in grado di compiere decisioni istituzionali rilevanti anche in presenza di testi legislativi da interpretare”.
(20) Sulla sufficienza della sola sottoscrizione del cliente del modulo contrattuale, contenente il contratto quadro, per ritenere adempiuto il requisito della forma scritta previsto a pena di nullità dall’art. 23 T.U.F., sul presupposto che non è necessaria la formale approvazione (rectius la sottoscrizione anche) dell’intermediario finanziario, che, in quanto soggetto che ha predisposto le condi- zioni generali di contratto, ha già mostrato di aver prestato la sua adesione al regolamento contrattuale, cfr. X. Xxxxxxxx Servizi ed attività d’investimento - Prestatori e prestazione, cit., 463 ss.
(21) Per l’evidente ragione che trattasi di una tecnica di con- clusione del contratto che determina la formazione del contratto senza che vi sia stata accettazione per iscritto.
(22) L’art. 23, infatti, dopo aver stabilito che “I contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento eaccessori sono redatti
Al di là di questo profilo, che evidenzia in punto di schemi di conclusione del contratto l’alterazione del rapporto regola-eccezione rispetto al modo in cui risulta concepito dal legislatore speciale, vi è, tuttavia, un altro aspetto che ingenera perplessità. Nel momento in cui risulti statuito che sia possibile perfe- zionare il contratto quadro (anche) per facta conclu- dentia e, così (benché non ne sia stata fatta esplicita menzione) in base al modello delineato dal legislatore con l’art. 1327 c.c., dovrebbe supporsi già risolto positivamente l’accertamento della sussistenza dei suoi presupposti applicativi. È noto, invero, che lo schema disciplinato dall’art. 1327, anche in base alla univoca interpretazione della prassi operazionale, potràritenersi operante, soltantosericorra inconcreto una delle ipotesi ivi tassativamente indicate: la richie- sta del proponente, la natura dell’affare e l’uso com- merciale (23). Posto che le Sezioni Unite nessun accenno hanno fatto a tale preliminare questione, appare di utilità domandarsi, se in concreto sia ravvi- sabile il soddisfacimento dei requisiti che ne giustifi- cherebbero l’applicazione. Lasciando da parte sia il profilo della richiesta del proponente, che solleciti l’immediata esecuzione senza previa risposta (24), che quello dell’uso consolidato, l’uno e l’altro poco compatibili con la struttura del contratto quadro d’in- termediazione finanziaria, l’attenzione non può che incentrarsi sul requisito della natura dell’affare. Non sembra, tuttavia, conciliabile con il chiaro disposto dell’art. 23, un’opzione ermeneutica che, facendo leva proprio sulla natura dell’affare, abiliti la giurisprudenza (e/o l’interprete) a ritenere che il contratto d’interme- diazione possa perfezionarsi validamente anche in forma diversa da quella scritta, pur quando non sia ravvisabile l’autorizzazione invece prescritta dal legi- slatore speciale. Né che, in assenza di espressa manife- stazione di volontà legislativa in tal senso, il perfezionamento secondo altro e diverso schema sia comunque equiparabile a quello in forma scritta.
Il legislatore, invero, allorché ha individuato nella Consob e soltanto nella medesima (sentita la Banca
d’Italia) l’istituzione abilitata ad autorizzare la stipu- lazione del contratto d’intermediazione finanziaria in forma diversa da quella scritta “in relazione alla natura professionale dei contraenti”, sembra aver inteso inibire che altri (diversi dalla Consob) possano sindacare in ordine alla validità del contratto con- cluso senza l’osservanza della forma scritta. Proprio perché soltanto alla Consob per espressa scelta di policy sembrerebbero essere state attribuite le prero- gative istituzionali per valutare, se in base alla natura dell’affare (che in questo caso non sembra potersi disgiungere dalla considerazione della peculiare situazione dei contraenti interessati) sia possibile concedere l’autorizzazione alla stipulazione in deroga al vincolo di forma imposto per la validità del contratto.
D’altro canto, quando il legislatore ha inteso derogare alle regole contenute nell’art. 1327 c.c., per rendere possibile, pur in difetto dei presupposti ivi indicati, il perfezionamento del contratto secondo la tecnica delineata dalla richiamata norma, ritenendolo equi- pollente alla stipulazione in forma scritta (e per giunta ad substantiam), l’ha fatto espressamente. Proprio come è accaduto con l’art. 2, comma 2, L. n. 192 del 1998, in punto di conclusione del contratto di subfor- nitura, che si potrà considerare concluso per iscritto, benché sia stato perfezionato mediante un comporta- mento concludente (l’inizio delle lavorazioni o delle forniture) (25). Né sarebbe possibile prescindere dalla sussistenza dei presupposti di applicazione dell’art. 1327 c.c. richiamandosi (anche solo implicitamente) al principio fondamentale di conservazione del con- tratto delineato dall’art. 1367 c.c. (26).
Il nuovo art. 23 T.U.F.: una riformulazione in linea con i principi dell’analisi economica del diritto
Se dal punto di vista giuridico, per quanto dianzi esposto, il principio affermato dalle Sezioni Unite si presta a più d’una perplessità, allorché lo si
per iscritto e un esemplare è consegnato ai clienti”, prevede nella parte finale del primo comma che “La CONSOB, sentita la Banca d’Italia, può prevedere con regolamento che, per motivate ragioni tecniche o in relazione alla natura professionale dei contraenti, particolari tipi di contratto possano o debbano essere stipulati in altra forma”.
(23) Cfr. in particolare Cass. 12 novembre 2004, n. 21516, in Xxxx xx., Xxx. 0000, xxxx Xxxxxxxxxx xxxxxx, x. 00; Cass. 12 maggio 1999, n. 4699, id., Rep. 1999, voce Contratto in genere, n. 348; Cass. 1° giugno 0000, x. 00000, id., Rep. 2016, n. 325 ma si veda in motivazione anche Cass., SS.UU., 9 giugno 1997, n. 5139, in questa Rivista, 1997, 445.
(24) In proposito bisognerebbe quanto meno evidenziare le ragioni di speditezza da salvaguardare che imporrebbero,
nell’interesse prevalente del preponente, la immediata esecu- zione della prestazione così da rendere superflua ogni ulteriore trattativa.
(25) La formulazione testuale della norma è la seguente: “Nel caso di proposta inviata dal committente secondo le modalità indicate nel comma 1, non seguita da accettazione scritta del subfornitore che tuttavia inizia le lavorazioni o le forniture, senza che abbia richiesto la modificazione di alcuno dei suoi elementi, il contratto si considera concluso per iscritto agli effetti della pre- sente legge e ad esso si applicano le condizioni indicate nella proposta, ferma restando l’applicazione dell’articolo 1341 del codice civile”.
(26) Il punto è ben evidenziato dalla S.C. a Sezioni Unite nella pronuncia 9 giugno 1997, n. 5139, cit.
riconsideri in una dimensione di Law and Econo- mics (27) queste tendono ad evaporare. Dall’angolo visuale del giuereconomista il processo di rilettura dell’art. 23, nella misura in cui sgancia dall’essenzia- lità della sottoscrizione dell’intermediario il vincolo di forma scritta, imposto a pena di nullità del con- tratto, si rivela corretto. Esso pone, infatti, rimedio ad una situazione di inefficienza, che consentirebbe a taluno (rectius il risparmiatore), che non riceverebbe alcun pregiudizio dal cambiamento di disciplina, di arricchirsi a spese di qualcun altro (rectius l’interme- diario), il quale vedrebbe, invece, migliorata la pro- pria situazione per effetto della nuova regola (28). Può darsi per acquisito che l’art. 23 T.U.F. è suscettibile di trovare applicazione in un conte- sto contrattuale caratterizzato da forti asimmetrie informative, da cui una parte dello scambio potrebbe trarre significativi benefici a scapito dell’altra (29). L’intervento statale deve, quindi, porre rimedio a questa situazione.
Se si parte, pertanto, dal presupposto che l’interme- diario finanziario, il quale sottopone alla firma del cliente un contratto generalmente standard per la regolamentazione dei suoi investimenti (ma ana- loga situazione si configurerebbe anche in caso di apertura di un contratto di conto corrente e/o di concessione di apertura di credito), conosce molto meglio di quest’ultimo le conseguenze giuridiche ed
economiche di quel contratto, l’imposizione da parte dell’art. 23 del vincolo di forma scritta dovrebbe giustificarsi con l’esigenza di riequilibrare il forte sbilanciamento informativo originario (30). Attraverso la forma scritta (accompagnata dalla consegna del documento in cui si trovi la regola- mentazione contrattuale) dovrebbe in altri termini essere assicurata (quanto meno tendenzialmente) al cliente l’idonea conoscenza delle clausole e dei patti contrattuali, affinché il suo consenso sia scambiato con consapevole percezione delle conseguenze giu- ridiche ed economiche che deriveranno dal vincolo giuridico, una volta insorto.
Ne sarà allora che, quando non sia emerso alcun deficit informativo, per essere stata data al cliente nella forma richiesta dal legislatore l’informazione sui diritti e gli obblighi contrattuali prescritta (per i contratti dello specifico settore del mercato finanzia- rio) all’intermediario (accompagnata anche dalla consegna del documento in cui la medesima sia contenuta) e di ciò sia stata offerta prova attraverso la produzione del documento contenente la sua firma in calce, se ne dovrà concludere che: la negoziazione si è svolta senza che il cliente sia rimasto esposto ad una causa di fallimento del mercato (rectius l’asim- metria informativa) (31). Che sarebbe stata all’ori- gine di inefficienze in grado di pesare sul corretto funzionamento del mercato (32).
(27) Gli approcci che s’ispirano a valutazioni in chiave di effi- cienza, partendo dal presupposto che il diritto costituisce un insieme di incentivi rivolti ai consociati e l’osservanza della regola giuridica implica per il suo destinatario la sopportazione di costi, si prefiggono di valutare l’idoneità della regola giuridica a propiziare l’assetto allocativo ottimale. È questa, in una parola, la prospettiva di Law ε Economics, il cui oggetto è proprio lo studio, attraverso le griglie interpretative mutuate dalla teoria economica, degli effetti delle norme e della loro capacità di realizzare determinati fini. In proposito cfr. X. Xxxxxxxxx, Analisi economica del diritto, in Dig., disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 309 ss.; X. Xxxxxx e X. Xxxxx- lesi, Analisi economica del diritto, in Enc. dir., Agg. VI, Milano, 2002, 7 ss.; X. Xxxxxx - X. Xxxxxx - P.G. Monateri - X. Xxxxxxxxx -
X. Xxxx, Il mercato delle regole, cit., 11 ss.; G. Alpa - P. Chiassoni,
Analisi economica del diritto privato, Milano, 1998; X. Xxxxxx -
X. Xxxx, Law and Economics, 6th Edition, 2016 (Berkeley Law Books) Book 2; W.M. Xxxxxx e R.A. Xxxxxx, The economic structure of tort law, Harvard University Press, 1987; X. Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Una introduzione all’analisi economica del diritto, trad. it. con postfazione di X. Xxxxxxxxx, Roma, 1992, 9.
(28) Il profilo è magistralmente illustrato da X. Xxxxxxxxx, Analisi economica del diritto in Dig., disc. priv., sez. civ., I, nell’ottica della sollecitazione indotta dall’interprete a mutare la regola giuridica. L’insigne A. osserva testualmente che “… l’unica circostanza in cui il giureconomista può invocare, senza tema di smentita, l’op- portunità di un mutamento della regola giuridica si realizza quando siano integrati gli estremi della superiorità paretiana: quando, per intenderci, il cambiamento di regime non pregiudichi le sorti di nessuno e migliori la situazione di almeno uno tra i soggetti interessati. In ogni altro caso - praticamente, tutti quelli che possiamo immaginare - l’innovazione arricchirà taluno a spese di qualcun altro”.
(29) Ciò proprio in ragione della pericolosità di tali contratti che peraltro lasciano di norma il rischio in capo al cliente risparmiatore. In proposito basterebbe riprendere quanto rilevato da X. Xxxxx, Informazione e contratto nel mercato finanziario, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1993, 720, in cui l’A. segnala che i prodotti finanziari “sono prodotti particolarmente pericolosi, perché difficilmente conoscibili, dal momento che si risolvono in contratti e il loro contenuto non fa riferimento ad elementi che rientrino nella normale conoscenza dei fenomeni. Inoltre i contratti finanziari scambiano un bene presente con un bene futuro, la cui esistenza e consistenza sfugge in larga misura al controllo del soggetto che attende la futura prestazione”.
(30) D’altro canto sembra potersi convergere con chi bene evidenzia che la debolezza dell’aderente non va ravvisata nel fatto che egli non partecipa alla determinazione del contenuto del contratto, limitandosi a prestare la sua adesione alle clausole unilateralmente predisposte, ma piuttosto “nella situazione di scarsa informazione sulla distribuzione dei rischi dell’affare, che esse determinano, e quindi nella possibile soggezione ad abusi” (cfr. X. Xxxxxxxxx, Il declino dell’autonomia privata nei contratti bancari: spunti per una riflessione critica, in Contr. e impr., 1995, 778).
(31) Sulle forti asimmetrie informative come causa di fallimento del mercato cfr. X. Xxxxxx - X. Xxxxxx - P.G. Monateri - X. Xxxxxxxxx -
X. Xxxx, Il mercato delle regole, cit., 64 ss.
(32) Sulla funzione dell’informazione alla luce della disciplina che la stessa riceve nell’ambito del mercato finanziario si veda
X. Xxxxx, op. cit., 721, il quale bene sottolinea che l’obiettivo perseguito è il massimo di concorrenzialità e quindi di efficienza sul mercato.
La presa d’atto di ciò, in un contesto in cui possa risultare evidente lo scambio del consenso attraverso comportamenti concludenti, rende evidentemente superflua, proprio perché priva di rilevanza rispetto all’esigenza di attuare una correzione che c’è già stata (e che risulta provata per tabulas), ogni indagine protesa a verificare comunque la sussistenza della sottoscrizione dell’intermediario finanziario. Que- st’ultima, invero, qualora sia comunque ravvisabile un comportamento delle parti univocamente diretto alla conclusione del contratto, non avrebbe alcun ruolo in termini di benefici acquisibili dal contraente, che si sia trovato in origine a negoziare in condizione di forte sbilanciamento informativo. Nulla potrebbe aggiungere. Al contario esigerne a tutti i costi la presenza, per poter ritenere integrato il vincolo di forma prescritto, onde far derivare la nullità del contratto, se quest’ultimo risulti privo della sotto- scrizione dell’intermediario, si rivela soluzione capace di generare inefficienze.
In tale evenienza, infatti, non vi è necessità che l’ordinamento appresti una reazione, consentendo la nullità del contratto ad iniziativa del cliente (33), poiché potrà presumersi che lo scambio dei consensi sia avvenuto con consapevole percezione delle con- seguenze giuridiche ed economiche originate dal contratto. In condizioni cioè in cui non sono man- cate al cliente tutte le informazioni necessarie (es. sui servizi forniti, sulla durata e modalità di rinnovo; sulla modifica del contratto, sulle modalità con cui si svolgeranno le singole operazioni di investimento etc.) a consentirgli ogni più opportuna ponderazione, prima dell’assunzione del vincolo giuridico e sia stato provato, che queste sono state rese in forma idonea (rectius per iscritto e con la consegna del documento contenente la regolamentazione del rapporto).
Permettere al cliente di avvalersi ciononostante del rimedio della nullità, sol perché non sia stata
rinvenuta la firma dell’intermediario sul documento contrattuale, significherebbe incentivarne l’utilizzo soltanto per interrompere la cooperazione (insorta in ragione del vincolo negoziale) (34) in atto con l’in- termediario; con l’effetto di privarlo del prodotto conseguito proprio attraverso la medesima (es. com- missione sull’investimento e/o altra forma di remu- nerazione per il servizio offerto) e di costringerlo a restituirgli la sorte capitale dell’investimento rivela- tosi infruttifero (verosimilmente con gli interessi dal giorno del pagamento).
Sicché, all’evidenza la nullità, che dovrebbe rime- diare ad una situazione di fallimento del mercato in grado di consentire ad una parte dello scambio (l’in- termediario finanziario) di ottenere vantaggi signifi- cativamente ingiusti nei confronti (e a scapito) dell’altra, l’investitore, diviene, invece, strumento per assicurare a quest’ultimo (e solo a lui) il conse- guimento di benefici (sì dà vedere migliorata la propria situazione rispetto a quanto in precedenza accadeva) con pregiudizio per chi, sino a poco tempo prima, era stato il suo partner contrattuale. La nullità relativa, in altri termini, da rimedio per le inefficienze si porrebbe e all’evidenza come causa di nuove inefficienze (35).
In quest’ottica è possibile apprezzare, dunque, che la regola, secondo la quale è affetto da nullità il con- tratto privo di sottoscrizione dell’intermediario, per essere stato stipulato in violazione della forma scritta ad substantiam, alimenta la conservazione del vincolo giuridico tra i contraenti solo se e fintanto che gli investimenti sono stati profittevoli per il cliente. Nel momento in cui questi hanno registrato perdite, essa incentiva il cliente a promuovere iniziative dirette ad interrompere la cooperazione in atto con l’interme- diario, facendo valere il mancato soddisfacimento delle condizioni per la conclusione di un contratto valido (carenza di forma scritta ad substantiam) ed
(33) Tant’è che autorevole dottrina (cfr. X. Xxxxxxxxxxx, La con- valida delle nullità di protezione e la sanatoria dei negozi giuridici, Napoli, 2011) ha sostenuto che in caso di violazione della forma richiesta dall’art. 23 T.U.F., per omessa sottoscrizione dell’inter- mediario, ricorrerebbe un mero vizio strutturale di nullità, che non avendo determinato per il contraente debole pregiudizi sostanziali o svantaggi concreti, potrebbe giustificare la convalida del con- tratto relativamente nullo (anche al fine di assicurare salvaguardia all’equilibrio contrattuale).
(34) Il profilo della cooperazione come scopo a cui tende il diritto dei contratti (e che consente ad entrambe le parti contrattuali proprio in ragione dell’avvenuto perfezionamento del contratto di ottenere benefici che in sua assenza non sarebbe stato possi- bile conseguire) in base alla teoria economica del contratto è aspetto ben illustrato da X. Xxxxxx - X. Xxxx, Law and Economics, 6th Edition, 2016 cit.; cfr. X. Xxxxxx - X. Xxxxxxx, Fairness versus Welfare, 114 Harv. L. Rev, 961 ss. (2001); E. A. Xxxxxx, Economic analysis of contract law after three decades: Success or failure?,
(Xxxx X. Xxxx Programm in Law and Economics working paper
n. 146, 2002); X. Xxxxxxxxxx, An introduction to the economic analysis of contract remedies, 57 U. Colo. L. Rev., 683 (1986) ma altresì X. Xxxxxx - X. Xxxxxx - P.G. Monateri- X. Xxxxxxxxx - X. Xxxx, Il mercato delle regole, cit., 205 ss., i quali evidenziano che le regole giuridiche dovrebbero agevolare il ricorso allo strumento contrat- tuale, poiché a scambio avvenuto (e sempre che non siano ravvi- sabili fattori patologici) potrà presumersi che ciascuna parte si troverà in una posizione migliore di quella in cui si trovava in precedenza.
(35) In questa situazione soltanto l’investitore massimizzerà i propri vantaggi ed a spese dell’intermediario finanziario. Il risultato non è evidentemente in linea con gli obiettivi dell’analisi econo- mica del diritto che in ambito contrattuale si prefigge l’obiettivo di consentire ad entrambi le parti contrattuali di massimizzare il valore atteso della cooperazione (sfociata nell’assunzione del vincolo negoziale attraverso lo scambio dei consensi).
orientando la nullità soltanto nella direzione degli ordini di investimento di segno negativo (36). Ben- ché, come anticipato, la contrattazione sia stata svolta in condizioni di assenza di asimmetria infor- mativa e dei rischi alla stessa connessi (37).
Senza che possa indurre a ripensamento l’aspettativa di vedersi contrapposto in sede giudiziaria un mecca- nismo riequilibratore delle inefficienze, il quale possa risultare di agevole attuazione e restare indenne, se reso in concreto operante nei giudizi di merito, al vaglio del giudice di di legittimità.
L’investitore, infatti, non avrà da temere più di tanto il rischio di dover restituire i dividendi e/o le cedole riscosse in relazione agli investimenti risul- tati vantaggiosi, benché effettuati in esecuzione del medesimo contratto viziato. Ciò almeno per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto perché il carattere relativo della nullità azionata, in base al prevalente orientamento della giurisprudenza con- fortato da parte della dottrina, parrebbe ostativo a che per effetto della sua declaratoria si possa disporre (anche in presenza di rituale domanda riconvenzionale di nullità dell’intermediario) la restituzione (in seguito a sua espressa domanda) anche di quanto sia stato prestato in esecuzione del
contratto nullo, ma sia collegato ad ordini di inve- stimento rimasti estranei all’iniziativa giudiziaria promossa dal cliente (38).
Sotto altro profilo, per la difficoltà di poter prono- sticare l’effettiva restituzione dei guadagni conse- guiti, pur quando potesse prevalere una diversa interpretazione. Quella secondo cui, una volta cadu- cato il contratto quadro, l’intermediario avrebbe titolo per far valere il proprio diritto alla ripetizione dell’indebito conseguito dall’investitore (sotto forma di cedole, ricavi, plusvalenze etc.) in esecuzione degli ordini di investimento, non oggetto di causa, ma pur sempre retti dal medesimo contratto d’intermedia- zione (39). In questa evenienza, l’obbligo restitutorio dei ricavi, comunque conseguiti dall’investitore medio tempore, non potrebbe costituire conseguenza automatica della pronuncia di nullità (benché sia stata formulata dall’intermediario espressa domanda in tal senso). Dovendo trovare, invero, applicazione le regole comuni stabilite dall’art. 2033 c.c. (pur se il credito dell’intermediario sia fatto valere soltanto in compensazione con il controcredito dell’investi- tore), non si potrebbe fare a meno di accertare che i guadagni ricevuti dall’accipiens (rectius l’investitore) prima dell’instaurazione del giudizio siano stati da lui
(36) Il profilo è ben evidenziato da C. Xxxxxx, Xxxxx (conte- stata) validità dei contratti bancari aventi ad oggetto servizi di investimento sottoscritti dal solo cliente: monofirma allo sba- raglio?, in Foro it., 2018, I, 294 ss. in cui si fa notare che l’investitore potrebbe permettersi, una volta percepiti i frutti dell’investimento, di trasferire solo il residuo negativo investi- mento in capo all’intermediario.
(37) Si consideri che al cospetto di una situazione che non evidenzi il rischio di un fallimento del mercato non dovrebbe esserci spazio per norme imperative e così dovrebbero restare inoperanti regole giuridiche volte a sanzionare con la nullità il contratto per il quale sia stata prevista la forma scritta ad sub- stantiam per carenza di sottoscrizione dell’intermediario.
(38) Appare utile richiamare per la portata del principio che afferma e che sembra sbarrare la strada alla possibilità di vedere estesa la nullità anche agli ordini non investiti dall’impugnativa del cliente, Cass. 27 aprile 2016, n. 8395, in Corr. giur., 2016, 1110 che afferma chiaramente in motivazione quanto segue “… deve rile- varsi che l’investitore ex art. 99 e 100 c.p.c. può selezionare il rilievo della nullità e rivolgerlo agli acquisti (o più correttamente ai contratti attuativi del contratto quadro) di prodotti finanziari dai quali si è ritenuto illegittimamente pregiudicato, essendo gli altri estranei al giudizio. La rilevabilità d’ufficio, peraltro non incondi- zionata, delle nullità di protezione, affermata di recente dalle S.U. nella sent. n. 26242 del 2014, si limita a configurare la possibilità di estendere l’accertamento giudiziale anche a cause di nullità pro- tettive non dedotte dalle parti senza tuttavia consentirne il rilievo anche ad atti diversi da quelli verso i quali la censura è rivolta”; ma si vedano per la giurisprudenza di merito App. Bologna 12 maggio 2016, est. Guernelli, disponibile all’indirizzo xxxx://xxx.xxxxxx.xx/ giurisprudenza/archivio/15179.pdf, in cui in punto di estensione della nullità ex art. 23 T.U.F., che sia stata fatta valere dall’inve- stitore, a tutti gli altri autonomi rapporti intercorsi tra le parti (che l’investitore non abbia impugnato) si statuisce che “…la nullità è relativa, e posta a protezione e a vantaggio del cliente, ed è pertanto conforme alla sua natura e funzione che abbia un effetto
“selettivo”; non può essere chiesta da altri soggetti, tantomeno controinteressati, ed è limitata ai singoli ordini impugnati”; App. Bologna 24 aprile 2013, est. Ferrigno; Trib. Udine 16 gennaio 2009, est. Pellizzoni, consultabile su xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxx- sprudenza/archivio/1711.pdf; Trib. Milano 11 aprile 2008, est. Vanoni, reperibile all’indirizzo xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxx- denza/archivio/1195.pdf; Trib. Firenze 9 maggio 2011, est Xxxxxxx, reperibile su xxxxx://xxx.xxxxxxxx.xx/xxxx/0000; Trib. Brescia 29 aprile 2010, in Resp. civ. prev., 2010, 2333; Trib. Mantova 22 gennaio 2009; Trib. Torino 12 febbraio 2007 est. Giusta, consulta- bile all’indirizzo xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxxxxxxxx/xxxxxxxx/000. pdf. In senso contrario e dunque favorevole alla possibilità per l’intermediario di vedere estesi gli effetti della nullità anche agli ordini di investimento non oggetto di impugnativa da parte del cliente si sono pronunciate, tra le altre, Trib. Padova 21 gennaio 2013, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, 610; Trib. Torino 5 febbraio 2010, in Resp. civ. prev., 2010, 2334; Trib. Como 7 marzo 2012;
Trib. Vigevano 8 maggio 2009; Trib. Taranto, 8 gennaio 2008. In
dottrina di recente sull’inammissibilità di una domanda riconven- zionale formulata dall’intermediario e volta alla estensione degli effetti della nullità anche alle negoziazioni che il cliente non aveva fatto transitare in giudizio si veda G.B. De Marinis, Uso e abuso dell’esercizio selettivo della nullità relativa, in Banca borsa ecc., 2014, 612 ss. ed ivi ampi richiami; con quest’ultimo A. mostra di essere in sintonia anche, C. Xxxxxx, Xxxxx (contestata) validità dei contratti bancari aventi ad oggetto servizi di investimento sotto- scritti dal solo cliente: monofirma allo sbaraglio?, cit., 291 ss.
(39) Si veda a questo proposito Trib. Milano 29 aprile 2015, in Banca borsa e tit. cred., 2016, II, 282 nonché la recentissima Cass. 16 marzo 2018, n. 6664, in extenso in Banca dati DeJure, che mostra di condividere l’approccio secondo cui dall’accerta- mento della nullità ed inefficacia del contratto quadro derivi l’applicazione degli artt. 2033 c.c. (nel caso esaminato la nullità del contratto quadro era derivata dalla natura apocrifa della firma dell’investitore).
percepiti in mala fede. Ciò esigerebbe idonea prova (preceduta ancor prima da specifica allegazione) da parte dell’intermediario che le operazioni finanziarie siano state eseguite al momento del rispettivo com- pimento con consapevolezza della nullità del con- tratto. Il che presenta una certa difficoltà, la quale si appalesa insormontabile in tutti i casi in cui non sia possibile provare che l’investitore sia un esperto di diritto.
Né tanto meno disincentivo ad interrompere la coo- perazione in atto con l’intermediario, potrebbe deri- vare all’investitore - sì da indurlo a non assumere l’iniziativa giudiziaria - dall’aspettativa di veder neu- tralizzata la sua domanda di nullità, per il fatto che la situazione si presti a configurare un abuso del processo a causa dell’uso selettivo della nullità. Invero, il sindacato, che sia espressamente sollecitato dall’in- termediario convenuto in sede giudiziaria, sulla liceità della condotta posta in essere dal cliente, il quale abbia domandato la nullità soltanto delle ope- razioni finanziarie non profittevoli (sottraendo, invece, all’accertamento anche quelle risultate van- taggiose), s’imbatterebbe nel difetto d’interesse ad agire, per il fatto di costituire reazione ad una scelta processuale dell’attore non vietata ed anzi consentita dall’ordinamento (40).
Se questo è il contesto di riferimento, si comprende meglio perché la (nuova) regola del formante giuri- sprudenziale, raccogliendo le sollecitazioni conte- nute nell’ordinanza di rimessione della questione al Primo Presidente, sia capace di evitare gli inconve- nienti di una lettura dell’art. 23 nella stessa definita “inefficiente per il mercato finanziario, anche ai fini di prevenzione di un facile uso opportunistico dello strumento formale”.
Il mutamento di regime introdotto invero: a) non pregiudica l’investitore, contraente debole, perché ne lascia intatta (e, dunque, esattamente uguale a quella precedente) la tutela dal pericolo che la nego- ziazione sia stata svolta in condizioni di asimmetria informativa (con vantaggio ingiustificato per l’inter- mediario finanziario), allorché siano mancate le dovute informazioni in forma scritta e/o con la con- segna di un esemplare del documento contrattuale, contenente tutte le pattuizioni; b) migliora la situa- zione dell’intermediario finanziario, nella misura in cui preclude all’investitore di potersi avvalere di
rimedi in grado di assicurargli benefici superiori a quelli attesi dall’esecuzione del contratto, che sia stato perfezionato senza che ricorresse una situazione in grado di generare inefficienze, in ragione del deficit informativo sulla distribuzione dei rischi (imputabile al suo partner contrattuale).
Ne esce così, per un verso, rafforzata la propensione dei contraenti all’impegno reciproco, come soluzione in grado di consentire ad entrambi di trovarsi in una situazione migliore di quella precedente alla coope- razione (41) e, per altro verso, incoraggiata la con- servazione del vincolo giudico. Non risulta, infatti, più praticabile per l’investitore deluso l’alternativa, invece incoraggiata sotto la vigenza della precedente regola, che consentiva solo a lui di arricchirsi a spese del suo partner contrattuale, quand’anche il suo con- senso fosse stato scambiato senza alcuna esposizione a situazioni di sbilanciamento informativo pregiudizie- vole per lui (e con vantaggi per l’intermediario).
Il nuovo art. 23 T.U.F. come argine
alle inefficienze del mercato finanziario destinate a riverberare i loro effetti
sul mercato del prestito (già alle prese con inefficienze di altro tipo)
La soluzione elaborata dalle Sezioni Unite non riverbera effetti positivi soltanto per il mercato finanziario. Oltre infatti a liberare quest’ultimo dal peso delle inefficienze, originate dalla prece- dente regola giuridica, se analizzata in un contesto più ampio, giova anche al mercato del prestito perché lo pone al riparo dal propagarsi dei loro riflessi pregiudizievoli. Che, com’è noto, è ormai da tempo alle prese con problemi di credit crunch, incremento del costo dei finanziamenti e rigorosa selezione delle aziende alle quali concedere credito, in gran parte causati (anche) dall’inefficienza di certa regulation bancaria, specialmente quella eurounitaria di vigilanza prudenziale (42).
Non va dimenticato, infatti, che nella prospettiva di conferire maggiore solidità alle istituzioni creditizie al fine di assicurare, per un verso, un livello elevato di protezione dei depositanti e degli investitori e, per altro verso, la stabilità del sistema finanziario (43), l’accordo di Xxxxxxx XXX (44), di recente trasfuso nel Reg. UE n. 575/2013 e nella Dir. n. 2013/36/UE del
(40) Il profilo risulta di recente analizzato specificamente da Xxxx. 16 marzo 2018, n. 6664, in Banche dati DeJure.
(41) In ragione della possibilità di massimizzare il valore atteso della cooperazione.
(42) Sia consentito rinviare a X. Xxxxxxxx, Il principio di propor- zionalità tra prezzo inefficiente e inefficienza delle regole:
l’esempio della regulation bancaria, in Europa e dir. priv. Osserva- torio, 2018, 185 ss.
(43) Si vedano in particolare il terzo, il settimo e il quattordice- simo considerando del Reg. (UE) n. 575/2013.
(44) Nel 2010 il comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (composto dai rappresentanti delle Autorità di vigilanza di
26 giugno 2013, ha in particolare e per quanto qui d’interesse introdotto:
1) nuove regole in punto di rafforzamento dei coeffi- cienti patrimoniali, prevedendo l’incremento sia quantitativo che della composizione qualitativa del patrimonio di vigilanza con l’obiettivo di aumentare la capacità di assorbimento delle perdite;
2) l’obbligo di conservare l’esposizione al rischio di credito in una certa percentuale del valore nominale, tutte le volte in cui l’azienda di credito assuma la veste di cedente di crediti destinati ad operazioni di cartolarizzazione;
3) l’obbligo di costituire adeguate riserve di liquidità. L’opera di adeguamento al rinnovato contesto rego- lamentare impone agli intermediari di credito costi imponenti. Per poter, infatti, assicurare il rispetto dei ratios patrimoniali minimi, giorno per giorno esposti ad un continuo inarrestabile processo di erosione, in ragione soprattutto dell’elevato numero di crediti deteriorati nei bilanci, gli istituti bancari sono sempre più alle prese con problemi di continuo reperimento di (nuove) risorse, da devolvere essenzialmente a tal fine. Il che finisce fisiologicamente per sottrarre capitali al mercato primario del prestito. Senza che a ciò sia possibile sopperire, come accadeva un tempo, attraverso il riutilizzo per nuovi impieghi delle risorse (o di parte delle stesse), utilizzate a copertura dei crediti deteriorati, che siano state liberate con la cessione di crediti in blocco destinati ad operazioni di cartolarizzazione.
La disciplina di settore non è infatti d’incentivo all’adozione di tecniche di smobilizzo dei prestiti
deteriorati in blocco, benché queste possano rappre- sentare una preziosa opportunità per il mercato del prestito. Ciò rimanda al tema delicato della gestione delle sofferenze bancarie (45), divenuto sempre più attuale ed in particolare a quello delle inefficienze indotte dalla normativa europea di vigilanza pruden- ziale. Quest’ultima, nella misura in cui finisce per imporre agli istituti di credito accantonamenti di capitale (peraltro divenuti sempre più massicci) non proporzionati agli effettivi rischi assunti, pro- duce in concreto esiti non efficienti.
Vero è, infatti, che la cessione dello stock di crediti in sofferenza, pur determinando la liberazione del patri- monio dagli oneri di gestione del recupero del credito e da quelli imposti dalla necessità di provvedere a progressive (e crescenti) appostazioni di capitale, per far fronte al rischio d’incasso del credito, comporta per l’ente creditizio, in ragione del (re)pricing che dei crediti sia stato fatto dal mercato, l’immediata regi- strazione delle perdite. Queste ultime devono essere parametrate sulla differenza tra il (più elevato) valore di bilancio (dei crediti) e quello (più ridotto) di effettivo realizzo (coincidente proprio con il prezzo di rivendita dei crediti sul mercato secondario). E di ciò dovrà poi tenersi conto al fine della individua- zione del c.d. loss given default, utilizzato in base alla normativa di settore per la misurazione del tasso di perdita in caso di insolvenza, specialmente se siano stati adottati, come accade per la maggior parte delle banche italiane ed europee, modelli interni (46) di tipo avanzato per la stima del rischio di credito. L’adozione di modelli interni di tipo avanzato per
ventisette Paesi del mondo e che ha l’obiettivo di promuovere e rafforzare le pratiche di vigilanza e di gestione del rischio a livello mondiale) ha emanato disposizioni dettagliate riguardanti nuovi requisiti regolamentari, validi a livello mondiale, sull’adegua- tezza patrimoniale e la liquidità degli enti creditizi, denominate collettivamente “accordo di Basilea III” (sfociato nella pubbli- cazione del c.d. Schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche e dei sistemi bancari cit.e del c.d. Schema internazionale per la misurazione, la regolamentazione e il monitoraggio del rischio di liquidità). In relazione ai contenuti dell’Accordo di Basilea III si vedano R Costi, L’ordinamento bancario cit., 580 s. ed in particolare 582; X. Xxxxxxxxxx, L’ac- cordo di Basilea III: contenuti e processo di recepimento all’in- terno del diritto UE, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, 462 s.; X. Xxxxxxxx-Bonaura, L’attività degli intermediari finanziari nella regolamentazione sopranazionale, in Orizzonti del Diritto Com- merciale - Rivista on line, 2013, 1 s.; X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxx- rello, La riforma regolamentare proposta dal comitato di Basilea, in Bancaria, 2010, 18; Xxxxx - Chan - Xxxxx, Xxxxxx, Basel III: is the cure worse than the disease? 2010, 1 s. SSRN W.
P. http: // xxxx.xxx/xxxxxxxxx0000000.
(45) L’espressione è da intendersi riferita ai crediti la cui riscos- sione è incerta e/o comunque problematica per le difficoltà finan- ziarie temporanee o permanenti e/o per lo stato d’insolvenza del debitore. E così in genere ai c.d. non performing loans. Va detto, comunque, per ragioni di completezza, che le c.d. non performing
exposures, stando alla nuova definizione di matrice europea (cfr. Circolare 30-11-2008 n. 275, aggiornata il 20-1-2015, della Banca d’Italia; ma si veda ancor prima il Final Draft Implementing Technical Standards -ITS- On Supervisory reporting on forbea- rance and non-performing exposures under article 99(4) of Regu- lation (EU) No 575/2013, pubblicato il 24-7-2014 dall’European Banking Authority), risultano adesso suddivise in tre categorie e cioè sofferenze (crediti di incerta esazione in ragione dello stato di insolvenza dei debitori), inadempienze probabili (crediti vantati nei confronti di debitori in stato di temporanea difficoltà, difficilmente recuperabili in assenza di iniziative giudiziarie volte anche a far valere le garanzie) ed esposizioni scadute deteriorate (crediti non classificabili alla stregua di sofferenze o inadempienze probabili ma scaduti da oltre 90 giorni). In relazione alle definizioni EBA -ITS/ 2013/03- dei crediti deteriorati, cfr. X. Xxxxxxxxx, Inuovi implemen- ting technical standard dell’EBA in materia di forbearance mea- sure e forborne exposure, in Riv. dir. banc., xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 19, 2014.
(46) In relazione ai metodi per la misurazione del rischio di credito previsti dalle nuove disposizioni di vigilanza prudenziale si veda in particolare R Costi, L’ordinamento bancario cit., 591 s., il quale in relazione al metodo dei rating interni sottolinea che la componente che (tra le altre) deve essere necessariamente tenuta presente dalla banca è il tasso di perdita in caso di default (Loss Given Default, Lgd) cioè il valore atteso del rapporto, espresso in termini percentuali, tra la perdita a causa del default
la stima del rischio di credito in caso di alienazione a prezzi più bassi rispetto al valore di carico del credito in bilancio genera un duplice inconveniente. Una prima perdita pari alla differenza tra il (maggior) valore del credito non performing, indicato in bilan- cio e il (minor) prezzo, al quale lo stesso è stato venduto sul mercato ed una seconda, dovuta all’in- cidenza che la prima produce sul parametro denomi- nato loss given default (LGD). L’innalzamento di quest’ultimo valore avrà in concreto l’effetto di incre- mentare anche la stima dell’ammontare delle perdite attese in relazione ai prestiti dell’intero portafoglio di crediti (anche quelli ancora in bonis) dell’interme- diario creditizio. Provando ad esemplificare con qual- che approssimazione, per averne idea, in una situazione in cui un credito di valore nominale pari ad euro 100, che al momento della cessione risulti iscritto in bilancio per euro 40, sia alienato ad un prezzo di euro 20, si renderà necessario per l’istituto bancario: a) sopportare costi per accantonamenti a copertura della minusvalenza pari ad euro 20 (= alla differenza tra euro 40 - il valore di libro del credito - ed euro 20 - il suo prezzo di vendita sul mercato); b) farsi carico di (altri) costi a copertura di una perdita attesa (anch’essa da fronteggiarsi nell’immediatezza con idonei accantonamenti), da calcolarsi con riferi- mento all’intero asset di crediti residuato in portafo- glio (e costituito sia da crediti deteriorati ma non
ancora ceduti sia da crediti performing) in misura pari alla perdita registrata (= 50% del valore di bilancio del credito). Ne deriva che i coefficienti patrimoniali sono esposti all’erosione derivante, per un verso, dalle perdite già verificatesi, all’esito dello smobilizzo in blocco dei crediti deteriorati a prezzo più basso rispetto a quello contabilmente assunto e, per altro verso, dalla riduzione attesa del valore medio di recupero dei crediti (quello, cioè misurato attraverso il criterio c.d. loss given default), conseguente all’au- mento della stima delle perdite per default (calcolata, come detto, sull’intero asset creditizio) (47).
L’erosione correlata a quest’ultimo fattore finisce così, per avere forte impatto sul patrimonio di vigi- xxxxx, determinando un aumento automatico dei requisiti patrimoniali (a cui sarà necessario rialli- nearsi) per tutti i crediti della banca, ogni volta che siano stati ceduti crediti non performing di elevato ammontare a prezzi di saldo (48).
Il che si verifica puntualmente, allorché lo smalti- mento dei crediti deteriorati tenda a confluire sul mercato secondario, nel quale, come ormai noto, i principali protagonisti sono gli specialisti dei distressed debts. Operatori essenzialmente specula- tivi, come hedge funds (49) e banche d’investi- mento (50), disponibili all’acquisto di grossi pacchetti di crediti in sofferenza ma a prezzi iper- svalutati, in media non superiori (o di poco) al 20%
e l’importo dell’esposizione al momento del default. Per una descrizione puntuale in termini tecnici delle componenti del modello di misurazione del rischio di credito basato sugli “internal ratings” cfr. Le Leslé-Xxxxx Xxxxxxxx, Revisiting Risk-Weighted Assets: “Why Do RWAs Differ Across Countriesand What Can Be Done About It?” 21 (Int’l Monetary Fund, Working Paper, 2012), disponibile all’indirizzo xxxx://xxx.xxx.xxx/xxxxxxxx/xxxx/xx/xx/ 2012/wp1290.pdf.
(47) La svendita del credito, infatti, ha l’effetto di peggiorare le serie storiche di recupero dei crediti in portafoglio.
(48) Il fenomeno è descritto in modo puntuale anche quanto alla sua concreta incidenza da X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxx - X. Xxxxx Xxxxx -
X. Xxxxx, Why exceptional Npls sales should not affect the esti- mated LGDs of a A-IRBs banks, Notes on Financial Stability and Supervision, n. 6, January 2017, in Banca d’Italia,2 s.
(49) Né la regolamentazione americana né quella europea definiscono in positivo cosa sia un hedge fund; sia l’una (cfr. il Xxxx Xxxxx Wall Street Reform and Consumer Protection Act- Xxx.X.Xx. 111-203, 124 Stat. 1376 (2010)) che l’altra (cfr. Dir. 8 giugno 2011, n. 61 del Parlamento e del Consiglio Europeo sui Gestori di Fondi di Investimento Alternativo, G.U.U.E. 1° luglio 2011, nota come Alternative Investment Fund Managers Direc- tive) preferiscono piuttosto precisare cosa l’hedge fund non sia e cioè un fondo comune di investimento (cfr. rispettivamente la Section 402(a) del richiamato Xxxx Xxxxx Act e l’art. 4, co. 1, in particolare lett. a e b della citata dir. 61/11 c.d. AIFMD), al fine di non assoggettarlo alla specifica disciplina concernente i fondi comuni d’investimento. Ed, infatti, stando ai tratti salienti di un hedge fund può dirsi che esso sfugge alle restrizioni, ai divieti operativi e alle regole prudenziali di contenimento e fraziona- mento del rischio, a cui sono assoggettati i fondi comuni d’inve- stimento e che il gestore di un hedge fund gode di ampia libertà
nella scelta degli assets in cui investire e nella determinazione delle strategie di investimento (es. vendite allo scoperto -short selling; utilizzo della leva finanziaria (indebitamento) oltre certi limiti o ancora ricorso a derivati), sulla base di un mandato in genere svincolato dalle performances di uno specifico benchmark e piuttosto definito in termini di rendimento e rischio assoluti. Trattasi pertanto certamente di fondi ad alto rischio per gli inve- stitori, come d’altro canto segnalato dalla normativa italiana, che regola e disciplina gli hedge funds e segnatamente dall’art. 16 del
d. 24 maggio 1999 n. 228 e successive modificazioni e integrazioni (regolamento attuativo dell’art. 37, X.Xxx. 24 febbraio 1998 n. 58, concernente la determinazione dei criteri generali cui devono essere uniformati i fondi comuni di investimento). In relazione agli hedge funds e al loro modo di operare come fondi speculativi interessanti spunti in C.A. Xxxxx X. Xxxxxx, La regolamentazione degli hedge funds negli Usa: dal quasi collasso di Long Term Capital Management al Xxxx Xxxxx Act, in Il xxxx.xx, 26 maggio 2013, 1 s.; X. Xxxxxxx, Un asset class a pieno titolo, in Risk Italia, novembre 2004, 1 s., disponibile all’indirizzo xxxx://xx.xxxxxxxxxx. com/global/risk/foreign/italia/Nov2004/cdo.pdf. Si vedano anche
D.A. Xxxxxxx, Selected Definitions of “Hedge Fund”, Comments for the U.S. Securities and Exchange Commission Roundtable on Hedge Funds, May 14-15, 2003 disponibile all’indirizzo internet xxxx://xxx.xxx.xxx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxxx/ xxxxx-xxxxxx.htm;
H. Nobilou - X. Xxxxxx, The hedge fund regulation dilemma: direct vs. indirect regulation, 6 Wm. & Xxxx Bus. L. Rev. 183 (2015).
(50) In relazione alle banche d’investimento va osservato che con delibera del Cicr del 6-2-1987 viene regolata in Italia l’attività di investment banking. Sulle attività in genere delle banche d’investimento cfr. X. Xxxxx, L’investment banking: descrizione dell’attività e caratteristiche degli operatori, 1999, 1 s. disponibile all’indirizzo xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xxxxx.xx/xxxxxxxxx/xxxxxxxx ceradi/
del valore nominale del credito originario (51). Ne è che, in ragione del contesto regolamentare vigente, proprio il prezzo di vendita dei crediti in sofferenza, pagato sul mercato secondario dagli specialisti del distressed (52), benché sia sottodi- mensionato rispetto a quello che potrebbe in con- creto estrarsi dal credito originario in sofferenza, viene assunto come benchmark per la stima delle perdite attese (in relazione alle esposizioni, delle quali dovrà ancora valutarsi il rischio di credito) in caso d’insolvenza. Tale stima, infatti, come detto poco più avanti, dovendo effettuarsi in base al parametro del loss given default, non considera affatto il valore economico reale del credito. Sic- ché, quest’ultimo, quand’anche risultasse più ele- vato di quello (invece assai più contenuto) offerto sul mercato secondario (all’atto della cessione in blocco dei Npls), come del resto è emerso all’esito di recenti rilevazioni curate dalla Banca d’Ita- lia (53), nessun beneficio potrebbe conferire all’in- termediario creditizio cedente.
La conseguenza è scontata: l’aver assunto a livello regolamentare per la misura del tasso di perdita in caso di insolvenza un prezzo inefficiente, perché incapace di riflettere pienamente le informazioni disponibili (54) e/o acquisibili all’esito di oppor- tuna due diligence (55), genera inefficienze. Che sono agevolmente percepibili, allorché si consideri che i costi per accantonamenti richiesti agli inter- mediari di credito, come poco prima anticipato,
risultano non proporzionati all’effettiva rischiosità dei non performing loans. Se, infatti, la sua stima dovrà avvenire (anche) in base al dato statistico rappresentato dalle perdite manifestatesi in prece- denza, ne discende che l’apprezzamento del rischio di credito delle esposizioni, in procinto di essere sottoposte a valutazione, risulterà condizionata dall’infedele segnalazione (che di questo, in rela- zione ad esposizioni simili, sia stata antecedente- mente) desunta dal prezzo della cessione in blocco sul mercato secondario. Quest’ultimo, proprio per- ché si atteggia come prezzo di saldo, formatosi nell’ambito di transazione speculativa (con acqui- renti smaniosi di realizzare extra profitti), avrà, invero, segnalato un rischio di credito non corri- spondente a quello effettivo e così ben maggiore di quello reale. Con la conseguenza di esigere dagli istituti bancari accantonamenti di capitale propor- zionati proprio al maggior rischio. Il che, all’evi- denza ed in base, peraltro, a ciò che sta accadendo, non è d’incentivo alla rivendita dei crediti dete- riorati in blocco. L’impossibilità di liberare risorse per nuovi impieghi attraverso la cartolarizzazione dei crediti, in un contesto in cui gli intermediari di credito mostrano propensione a destinare i loro capitali piuttosto ed in maggior misura all’opera di adeguamento normativo, imposto dalla disci- plina cogente di settore (e così non soltanto per assicurare le necessarie coperture degli Npls), determina criticità rilevanti. Che pesano in
impresa/banca/invbank_Bello.pdf; utili spunti anche in X. Xxxx Xxxxxxxx - X. Xxxxx, La valutazione delle investment banks: modelli di business e value drivers, in Banche e Banchieri, 2006, 199 s.
(51) Cfr. L.A. Xxxxxxxxxxx - F. Ciocchetta - F.M. Conti - I. Guida -
A. Xxxxxxx - X. Xxxxxxx, Quanto valgono i crediti deteriorati?, in Note di stabilità finanziaria e vigilanza, n. 3 aprile 2016 della Banca d’Italia, 1 s. Ma in proposito riscontri nel senso di cui al testo si ricavano un pò da tutte le notizie della stampa economica specia- lizzata degli ultimi tempi.
(52) Con la locuzione crediti distressed si intende far riferi- mento ai crediti (o titoli di altra natura) vantati nei confronti di aziende che affrontano difficoltà finanziarie temporanee o perma- nenti o che versano già in stato d’insolvenza. In proposito cfr. Cardascia, Fondi speculativi, uno strumento per investitori sofi- sticati, in Amministrazione & Finanza, 18/2006, 52, ss. ed in particolare 55 in cui l’autore specifica che i titoli distressed inclu- dono le azioni, le obbligazioni, i crediti commerciali o finanziari di aziende che affrontano difficoltà finanziarie. Sia consentito il rinvio anche al mio contributo Cessione del credito e “Bankruptcy Claims Trading”, in Riv. crit. dir. priv., 2009, 431. In una prospettiva più ampia sul distressed debt si vedano Mann, Strategy and force in the liquidation of secured debt, 1996, Mich. L. Rev., 159 ss.; Goldschmind, More Phoenix than vulture: the case for distressed investor presence in the bankruptcy reorganization process, 2005, Colum. Bus. X. Xxx., 191 ss.; Xxxxxx, The corporate gover- xxxxx and public policy implications of activists distressed debt investing, 2008, 77 Fordham L. Rev. 703 il quale, dopo aver premesso che l’espressione distressed debt si presta a multiple definizioni (spesso anche imprecise), osserva che: “the phrase
essentially is used to describe the debt of a financially troubled company that carries a high risk of default or nonpayment and, in turn, a potentially high rate of return”. L’A. fa menzione in parti- colare del prestito bancario (bank loan) e delle pretese creditorie (claims) vantate nei confronti di società in difficoltà.
(53) Su quanto recuperano le banche sulle sofferenze, si veda l’indagine condotta da L.A. Xxxxxxxxxxx - F. Ciocchetta - F.M. Conti -
I. Guida - A. Xxxxxxx - X. xxxxxxx, I tassi di recupero delle soffe- renze, in Note di stabilità finanziaria e vigilanza, n. 7, gennaio 2017 della Banca d’Italia, 4 s.; cfr. altresì X. Xxxxxxxxxx - X. Xxxxxxxxx -
X. Xxxxxxxxxx - X. xxxxx, La gestione dei crediti deteriorati: un’in- dagine presso le maggiori banche italiane, in Questioni di econo- mia e finanza, della Banca d’Italia, n. 311 febbraio 2016, 14 s. In ogni caso dai contributi citati emerge con riferimento al sistema bancario del nostro Paese che il tasso di recupero dei crediti in sofferenza è stato stimato nell’ultimo decennio in misura in media pari al 43% del credito.
(54) Proprio le rilevazioni della Banca d’Italia danno atto del fatto che in base alle informazioni correttamente acquisibili (benché non di facile acquisizione se non all’esito di pertinente due dili- gence) il valore che in concreto potrebbe estrarsi dai crediti deteriorati sarebbe assai più elevato di quello coincidente con il prezzo di mercato, conseguibile con cessioni in blocco sul secondario.
(55) Sulle modalità di svolgimento della due diligence, in parti- colare con riferimento al contesto degli Npl c.d. secured, utili spunti in C.F. Maggi-X. Xxxxxxxx, NPLs secured in Italia: profili e problematiche valutative dei soggetti specializzati nell’acquisto mirato e nella gestione giudiziale, Dir. bancario, 2016, 1 s.
termini di esternalità negative (56) con impatto sul mercato del prestito. Contrazione del credito, incremento del costo dei finanziamenti e rigorosa selezione delle aziende da ammettere alla conces- sione del prestito, ne rappresentano i riflessi più emblematici. E all’evidenza consentono di
apprezzare che il fenomeno delle esternalità nega- tive non è riducibile soltanto alla traslazione sul mercato dell’incremento delle commissioni ban- carie e di intermediazione (conseguenza delle inef- ficienze prodotte da certa regolamentazione giuridica).
(56) Sulla nozione di esternalità negative intese come conse- guenze pregiudizievoli subite dai terzi (e/o dalla collettività) senza alcuna forma di compensazione a causa dell’esercizio di una certa attività che genera (non soltanto costi ricadenti direttamente sull’e- sercente l’attività imprenditoriale ad es. per i danni direttamente cagionati dall’attività imprenditoriale o per l’adeguamento alla nor- mativa di settore ma) anche costi che non sono sostenuti dall’eser- cente l’attività, che li ha prodotti (ad es. i costi sociali che, in relazione ad una situazione come quella oggetto d’indagine in cui viene in rilievo l’esercizio dell’attività bancaria, si traducono in declino econo- mico, crescita della disoccupazione, impoverimento diffuso, difficol- toso accesso al credito etc.) cfr. in particolare e con riferimento al settore finanziario S.L. Xxxxxxxx, Regulating shadows: financial regulation and responsability failure, 19 Wash. & Xxx X. Xxx. 1781
(2013); Id. Sistemic risk, cit. Più in generale sulla specifica connota- zione delle esternalità, come fonte di market failure che produce inefficienze economiche, si vedano anche X.X. Xxxxx, Efficient Capital Markets, Corporate Disclosure, and Enron, 89 Xxxxxxx
L. Rev. 394, 411-12 (2004) (il quale ben osserva che”Externalities are economic side effects, arising when contracting parties’actions affect third parties, who cannot be charged or compensated for the benefits or costs they receive.”; X. Xxxxxx & X. Xxxx, Law & Econo- mics 44 (2004) (che osservano proprio che “source of market failure is the presence of what economists call externalities”); P.H. Xxxxxxxx, Urban Development and Human Development, 25 Ind. L. Rev. 741, 763 (1991) (che ha puntualizzato che “The Chicago School of law and economics recognizes market failures, including externalities ...”).
Risarcimento del danno
Danno e vantaggio nel sistema della responsabilità civile: la c.d. compensatio lucri cum damno
di Xxxxxx Xxxxxxx (*) (**)
L’evoluzione che più di recente ha interessato il settore della responsabilità civile ha comportato un rinnovato interesse per il principio della compensazione del lucro con il danno, regola in forza della quale nella determinazione del danno risarcibile si devono computare, in negativo, gli effetti vantag- giosi che hanno causa nel fatto dannoso. A fronte delle incertezze che contrastanti orientamenti giurisprudenziali hanno generato, le Sezioni unite della Cassazione hanno da ultimo chiarito la portata applicativa della regola in questione, attribuendo portata decisiva alla funzione insita al beneficio collegato all’evento dannoso. Attraverso l’accertamento della funzione attribuibile al vantaggio di volta in volta preso in considerazione, è possibile determinare quali benefici debbano essere computati nella determinazione e liquidazione del danno risarcibile, al fine evitare che l’evento dannoso si traduca in una occasione di guadagno per il danneggiato, il quale contrariamente potrebbe trovarsi in una situazione migliore rispetto a quella in cui si trovava prima dell’evento dannoso. In tal modo, si conferma opportunamente la soluzione che limita l’operatività della regola in questione ai soli vantaggi che hanno natura risarcitoria, non essendo invece sufficiente che gli stessi siano solo causalmente connessi all’evento dannoso.
Vantaggi e determinazione del danno
Il sistema della responsabilità civile è senz’altro il settore del diritto privato in cui, negli ultimi decenni, si è assistito più di ogni altro ad una dirompente evoluzione della disciplina, la quale, a fronte di set- toriali interventi da parte del legislatore, si è caratte- rizzata per una incessante lettura evolutiva delle norme da parte della giurisprudenza.
Più di recente, si registra un certo interesse circa i criteri di quantificazione del danno risarcibile, tanto che la giurisprudenza di legittimità, oltre ai noti arresti in tema di danni punitivi e funzione deterrente della responsabilità civile (1), ha preso
in considerazione l’applicazione dei criteri tabellari di liquidazione del danno (2) e, per quanto qui interessa, quello della compensazione del lucro con il danno, che, pur diffusamente studiato dalla dot- trina, era tradizionalmente marginalizzato nelle applicazioni pratiche mentre oggi si assiste ad un rinnovato e fervido interesse per l’argomento.
A tale ultimo riguardo, a fronte delle varie posizioni assunte dalla giurisprudenza sul tema, con conse- guente incertezza delle regole applicabile, le Sezioni unite (3) hanno finalmente fornito una risposta sen- z’altro convincente al problema - sollevato con quat- tro ordinanze di rimessione (4) - della liquidazione
(*) Il presente contributo è stato sottoposto, in forma anonima, al vaglio del Comitato di valutazione.
(**) Il testo, con l’integrazione delle note, costituisce l’elabo- razione della relazione tenuta l’11 maggio 2018 presso l’Università degli Studi di Pavia nell’àmbito del seminario “Il diritto vivente tra legge e giurisprudenza”.
(1) Cass., SS.UU., 5 luglio 2017, n. 16601, in Foro it., 2017, I, 2613 ss.
(2) Cass. 12 settembre 2011, n. 18641, in Giur. it., 2012, 1543 ss.
(3) Cass., SS.UU., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566 e 12567, in Foro it., 2018, I, 1900 ss.
(4) Si tratta di Xxxx. 22 giugno 2017, n. 15534, ord., in Foro it., 2017, I, 2242 ss., Cass. 22 giugno 2017, n. 15535, ord., in DeJure, Cass. 22 giugno 2017, n. 15536, ord., in DeJure e Cass. 22 giugno 2017, n. 15537, ord., in Danno e resp., 2017, 710 ss. Successiva- mente, numerose ordinanze di sospensione sono state emesse dalla Corte di cassazione, ritenendo opportuno attendere la riso- luzione della questione in esame da parte delle Sezioni unite (da ultimo si segnala Cass. 23 aprile 2018, n. 9950, ord., allo stato inedita).
del danno in presenza di eventuali vantaggi che il danneggiato abbia ottenuto in occasione dell’evento dannoso, ad esempio percependo emolumenti da assicuratori privati, da assicuratori sociali, enti di previdenza o da soggetti comunque terzi rispetto al fatto ed in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante (5), con ciò ponendo fine ai dubbi che negli ultimi anni aveva generato un innovativo orientamento giurisprudenziale.
Il quesito posto investe direttamente il problema della compensatio lucri cum damno (6), vale a dire la regola - non enunciata da una norma generale (7), trovando piuttosto espressione in specifiche disposi- zioni normative (8) - per cui nella determinazione del danno risarcibile si devono computare, in negativo, gli effetti vantaggiosi che hanno causa nel fatto dannoso.
Come noto, la rimessione a cui ci si è riferiti ha fatto seguito ad una precedente ordinanza (9) con la quale era stato già chiesto l’intervento delle Sezioni unite,
che, tuttavia, avevano omesso di fornire una risposta all’interrogativo, ritenendo che la questione “della compensatio lucri cum damno, pur di estremo interesse sul piano giuridico, si presenta in concreto quanto meno prematura” (10).
Ciò posto, è innegabile l’importanza dell’interroga- tivo che ruota attorno alla portata applicativa della compensazione del lucro con il danno, non fosse altro perché, avendo più in generale ad oggetto il problema della liquidazione e della quantificazione del danno risarcibile, è destinato ad impattare e condizionare il modo di intendere il sistema della responsabilità civile e la sua funzione.
La centralità del tema risulta peraltro da un serie di indici ulteriori.
In primo luogo, il problema della compensazione del lucro con il danno è potenzialmente in grado di porsi con indubbia frequenza pratica, posto che lo stesso è destinato a trovare applicazione tanto per la responsabilità extracontrattuale quanto per quella da
(5) I quesiti contenuti nelle ordinanze di rimessione sono così formulati: “se la c.d. compensatio lucri cum damno [...] possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie” (Xxxx. 22 giugno 2017, nn. 15534-15535, ord., cit.); “se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla c.d. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell’ordinamento); e di conseguenza stabilire, quanto l’evento causato dall’illecito costitui- sce il presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, se di essi il giudice deve tenere conto nella stima del danno, escludendone l’esistenza per la parte ristorata dall’intervento del terzo” (Xxxx. 22 giugno 2017, nn. 15536-15537, ord., cit.).
(6) Nella nostra dottrina, il primo completo studio sull’argomento è da ricondurre a X. Xxxxx, Compensatio lucri cum damno, in Filangieri, 1916, 176 ss. e 356 ss. Maggiormente indagato è il tema nella dottrina tedesca, su cui v. X. Xxxxxx, Compensatio lucri cum damno, Göttinger, 1896; X. Xxxxxxx, Über die Compensatio lucri cum damno, Elberfeld, 1898; X. Xxxxxxxx, Compensatio lucri cum damno, Rostock, 1900; X. Xxxxxxxx, Die Vorteilsausgleichung beim Schadensersatzanspruch im römischen und deutschen bürgerli- chen Recht, Berlin, 1901; W. Stintzing, Findet Vorteilsanrechnung beim Schadenersatzanspruch statt? Zur sogenannten compensatio lucri cum damno, Xxxxxxx, 0000.
(7) In prospettiva comparatistica, è interessante notare che nell’ordinamento francese il Projet de Réforme de la responsabi- lité civile, presentato il 13 marzo 2017, all’art. 1258 code civil, prevede che “La réparation a pour objet de replacer la victime autant qu’il est possible dans la situation où elle se serait trouvée si le fait dommageable n’avait pas eu lieu. Il ne doit en résulter pour elle ni perte ni profit”. Per la disciplina francese v. X. Xxxxx-
X. Xxxxxxxx, Les conditions de la responsabilité4, in Traité de droit civil sours la direction de X. Xxxxxxx, Paris, 2013, 149, ove - pur non facendosi espresso riferimento alla compensatio lucri cum damno - si rinviene una ampia analisi della disciplina del cumulo o non cumulo nell’ordinamento francese, rilevando che
«l’évolution du droit positif à ce propos on constate une extension constante du principe du non-cumul, qui reste pourtant affecté de certaines limites»; in termini più generali v. X. Xxxxx, Introduction
à la responsabilité3, in Traité de droit civil sours la direction xx
X. Xxxxxxx, Xxxxx, 0000, 65 ss., dove il problema viene affrontato nella prospettiva della sicurezza sociale. Per un riscontro circa la dottrina sudamericana, in particolare brasiliana, v. R. da Xxxx Xxxxx, Compensatio lucri cum damno: problemas de quantificaçäo à luz da unidade e complexidade do dano patrimonial, in Rev. dir. priv., 2018, 91 ss.; Id., Compensatio lucri cum damno no direito brasi- leiro: estudo a partir da jurisprudência do Superior Tribunal de Justiça sobre o pagamento do DPVAT, in Rev. Bras. dir. civ., 2018, 139 ss.
(8) Per una ampia rassegna delle applicazioni pratiche cfr.
X. Xxxxxxxxxx, Il problema della compensatio lucri cum damno, Milano, 2018, 35 ss.; X. Xxxxxx, Compensatio lucri cum damno, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., Agg. VI, Torino, 2011, 190 ss.;
X. Xxxxxxx, La compensatio lucri cum damno comeutilestrumento di equa riparazione del danno, Milano, 2008, 121 ss. A titolo di esempio, tra le varie ipotesi in cui sembra farsi applicazione della regola della compensazione del lucro con il danno, si può pensare alla traslazione del danno nell’illecito anticoncorrenziale (sul punto
v. X. Xxxxxxxxx, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 242; F. Mezzanotte, Il trasferimento del sovrap- prezzo anticoncorrenziale, in Nuove leggi civ., 2018, 232). Non sembra invece propriamente ascrivibile alla compensazione del lucro con il danno la previsione di cui all’art. 18 Stat. lav., la quale prevede che dal risarcimento del danno (che sia tale la sua qua- lificazione è stato chiarito da ultimo da Corte cost. 23 aprile 2018,
n. 86, allo stato inedita, ove si legge che “il ragguaglio dell’inden- nità sostitutiva all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore è, a sua volta, coerente alla qualificazione risarcitoria della fattispecie in esame”) debba essere dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, atteso che l’aliunde perceptum è frutto di una scelta discrezionale del danneggiato successiva al licenziamento illegittimo, con la conseguenza che in mancanza della richiamata previsione norma- tiva non si potrebbe ritenere che l’illecito sia la causa del vantaggio, in quanto quest’ultimo è determinato, appunto, da una scelta autonoma e successiva del danneggiato, di cui non potrebbe profittarne il danneggiante.
(9) Cass. 5 marzo 2015, n. 4447, ord., in Foro it., 2015, I,
1204 ss.
(10) Cass., SS.UU., 30 giugno 2016, n. 13372, in Foro it., 2016, I, 2711 ss.
inadempimento, stante l’applicazione delle mede- sime regole di cui agli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., e che rispetto al passato con sempre maggiore fre- quenza a fronte di eventi dannosi si ha la correspon- sione di vantaggi da parte di assicuratori privati o sociali.
A ciò si aggiunga la rilevanza trasversale del tema, come dimostra l’interesse che anche la giurispru- denza amministrativa ha recentemente mostrato per il problema della compensatio lucri cum damno (11), laddove l’Adunanza Plenaria del Consi- glio di Stato, anticipando le decisioni delle Sezioni unite, ha affermato che “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbliga- zioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di una rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennita- rio” (12). L’affermazione non è di secondaria impor- tanza, specie se si considera che con la decisione in parola si è ribaltato l’orientamento tradizionale e consolidato risultante da diverse precedenti decisioni della stessa Adunanza Plenaria (13), che, al contra- rio, avevano ammesso il cumulo in questione.
Infine, ad ulteriore riprova dell’importanza del tema, si può considerare l’eterogeneità delle fattispecie sottese alle ordinanze di rimessione cui si è fatto riferimento, dalle quali è agevole concludere che l’impatto pratico della soluzione offerta dalle Sezioni unite avrà una importanza dirompente sulla disci- plina dell’illecito costituendo un ulteriore e decisivo passo verso la costruzione del nuovo sistema della responsabilità civile.
I casi sottesi ai provvedimenti interlocutori citati, da cui è opportuno prendere le mosse, coprono gran parte delle ipotesi in relazione alle quali si pone la questione dell’incidenza dei benefici collaterali sul
risarcimento del danno, avendo ad oggetto: il danno subito dalla compagnia aerea Itavia nella strage di Ustica, in relazione alla quale ci si interroga sul possibile cumolo del danno patrimoniale domandato alla Pubblica amministrazione per omessa vigilanza del traffico aereo con quanto già liquidato dalla compagnia di assicurazione privata della società per perdita dell’aeromobile; il possibile cumulo del risar- cimento del danno subito con la rendita vitalizia erogata dall’INAIL per incidente sul lavoro; il possi- bile cumulo del risarcimento del danno patrimoniale conseguente alla morte del coniuge con la pensione di reversibilità; il possibile cumulo del danno causato al nascituro per errore medico con l’indennità di accompagnamento erogata dall’Inps e, più in gene- rale, dei benefici di assistenza pubblica erogati al danneggiato.
Gli interrogativi sono stati risolti dalle Sezioni unite con quattro provvedimenti di analogo tenore, acco- munati dalla stessa ratio decidendi, sui cui si tornerà nel prosieguo, escludendo, come risulta dal princi- pio di diritto affermato in ciascuna sentenza, il cumolo nei primi due casi e nell’ultimo ed ammet- tendolo solo nel caso del danno patrimoniale da perdita del coniuge, il quale non subisce la riduzione dell’importo pari alla pensione di reversibilità con cui, invece, si cumula.
A questo punto, prima di entrare nel merito della questione, un chiarimento si impone, la formula compensatio lucri cum damno, comunemente usata ed a cui si continuerà a fare riferimento nel prosieguo in ragione dell’uso diffuso della stessa, non è scevra di equivoci. In primo luogo, al di là di quanto potrebbe sembrare, è quanto mai dubbia la sua conoscenza già nel diritto romano (14); inoltre, ed il punto è senz’al- tro più rilevante ai nostri fini, il fenomeno in esame non afferisce alla compensazione in senso tecnico ma all’accertamento del danno. In altri termini, la com- pensazione del lucro con il danno non rappresenta, appunto, l’elisione di un debito con un credito, quale è la compensazione, ma l’accertamento e la quanti- ficazione del danno subito mediante il computo dei vantaggi percepiti dal danneggiato, che andranno a ridurre il danno risarcibile (15).
(11) Cons. Stato 6 giugno 2017, n. 2719, ord., in Foro it., 2017, III, 394 ss.
(12) Cons. Stato, Ad. Plen., 23 febbraio 2018, n. 1, in Danno e resp., 2018, 163 ss., la quale espressamente dichiara di affrontare il tema “limitatamente alla questione relativa al cumulo tra risarci- mento e indennità dovute da entri pubblici e non anche, perché non rilevante, da assicuratori privati o sociali”.
(13) Si allude a Cons. Stato, Ad. Plen., 16 aprile 1985, n. 14, in
Foro it., 1985, III, 237 ss.; Cons. Stato, Ad. Plen., 16 luglio 1993,
n. 9, in Resp. civ. prev., 1995, 110 ss.; Cons. Stato, Ad. Plen., 8 ottobre 2009, n. 5, in Foro it., 2011, III, 549 ss.
(14) Al riguardo v. X. Xxxxxxxxx, Diritto civile italiano, IV. Dei delitti equasi delitti, Padova, 1940, 121 ss.; nonché, più di recente,
X. Xxxx, La compensatio lucri cum damno come “latinismo di ritorno”, in Resp. civ. prev., 2012, 1746 ss. e spec. 1753.
(15) Il rilievo si legge già in X. Xxxxxxx, Il problema dei vantaggi connessi con il fatto illecito. La c.d. compensatio lucri cum damno, in Studi per Xxxxxxx Xxxxxxx, III, Milano, 1965, 411. Più di recente
X. Xxxxxxxxx, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010,
L’impostazione tradizionale e i suoi presunti vulnera
Volendo a questo punto considerare le varie ricostru- zioni sul tema, può dirsi genericamente riconosciuto, pur a fronte delle non secondarie differenziazioni che caratterizzano le posizioni della dottrina, che la com- pensatio lucri cum damno sia legata a presupposti specifici, i quali escludono che ogni vantaggio occa- sionato dal fatto dannoso sia idoneo a comportare una riduzione del danno risarcibile.
Al riguardo, fatta eccezione per l’impostazione mino- ritaria, che negava lo stesso fenomeno della compen- satio lucri cum damno, ritenendo questa incapace di avere una coerenza nel sistema della responsabilità civile (16), la dottrina maggioritaria, sulla base della teoria differenziale del danno, risalente come noto alla pandettistica tedesca (17), afferma che la posi- zione del danneggiato successiva al risarcimento del danno non può essere migliore di quella precedente al fatto dannoso (18) e che, pertanto, qualora da que- st’ultimo siano derivati dei vantaggi, questi dovranno essere computati in detrazione nella liquidazione del danno subito (19).
Riscontrata una generica concordanza di opinioni a tale ultimo riguardo, passando a considerare la posi- zione della dottrina tradizionale in merito ai presup- posti di operatività della compensatio lucri cum damno
non si riscontra, come si è accennato, una analoga uniformità di vedute.
La dottrina maggioritaria si esprime da tempo nel senso di ammettere la regola della compensatio lucri cum damno, il cui fondamento viene generalmente individuato nell’art. 1223 c.c. (20), pur limitando la sua operatività al solo caso in cui lucro e danno derivino dallo stesso fatto (21). Si afferma infatti che per esserci compensatio lucri cum damno “è neces- sario che col danno prodotto dall’illecito concorra un autentico lucro prodotto dallo stesso atto illecito, vale a dire un gratuito vantaggio” (22).
In senso analogo, si ritiene che l’operatività della compensatio richiede che “il lucro trovi nell’atto ille- cito, o nell’incidente, una condizione necessaria e non costituisca il risultato di decisioni economiche che il danneggiato avrebbe potuto assumere ugual- mente, o la contropartita di prestazioni o meriti del danneggiato, o di rischi da lui assunti”, “che il lucro non sia la contropartita di una prestazione del dan- neggiato” e “che essa non si risolva nell’imposizione al danneggiato di “pagare”, attraverso la riduzione del risarcimento, per un arricchimento non pecuniario impostogli contro la sua volontà, subendo così uno scambio non voluto” (23).
Più compatta, anche se non mancano oscillazioni di un certo rilievo, si presenta la posizione della giuri- sprudenza (24), quantomeno fino ai recenti arresti
188, il quale parla di “somma algebrica fra poste omogenee e contrapposte”. Diversamente, un certo parallelismo con la com- pensazione si trova di recete in X. Xxxxx, Compensatio lucri cum damno e benefici collaterali. Parteprima: la compensatio lucri cum damno e le sue trasformazioni, in Riv. dir. civ., 2018, 861, il quale, pure evidenziando le debite differenze, conclude affermando che “la dottrina della compensatio lucri cum damno costituisce dun- que un evidente ampliamento delle possibilità di procedere a compensazione anche nei casi in cui la pretesa restitutoria non sarebbe azionabili di per sé”. L’affermazione è senz’altro da disattendere, non fosse altro in ragione del fatto che nella com- pensatio lucricum damno non vi è la reciprocità di posizioni attive e passive tra soggetti, i quali invece sono e restano distinti sul piano obbligatorio, mantenendo sempre e comunque la posizione di danneggiato e danneggiante.
(16) In tal senso v. in X. Xxxxxxx, Il problema dei vantaggi, cit., 458, cui xxxx X. Xxxxxxxxxx, Note critiche in tema di compensatio lucri cum damno, in Riv. dir. civ., 1977, II, 332 ss. e spec. 338.
(17) Sul punto cfr. X. Xxxxx, Danno patrimoniale, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., IV, Torino, 1990, 90 ss.; Id., La quantificazione del danno non patrimoniale e i danni punitivi, in La funzione deterrente della responsabilità civile alla luce delle riforme straniere e dei Principles of European Tort Law, a cura di P. Sirena, Milano, 2011, 209 ss., ove, dopo aver segnalato l’insufficienza della Differenztheorie, si rileva che quest’ultima “si preoccupa soprattutto di tenere conto dei vantaggi eventualmente conseguiti dal danneggiato poiché mira ad evitare un arricchimento” (212); X. Xxxxxxxxxx, Responsa- bilità civile, Milano, 2018, 51 ss.
(18) Per una prima e sommaria ricognizione in grado di fornire una informazione di massima sul tema v. X. Xxxxxx, Il principio generale della riparazione integrale dei danni, in Contr. e impr., 1998, 1144 ss.
(19) V. già X. Xxxxxxxxxxxx, In tema di “compensatio lucri cum damno”, in Foro it., 1952, I, 634 ss. e spec. 637, il quale muove dalla nozione di danno-interesse per affermare che “la nozione d’interesse implica che si prendano in considerazione anche le conseguenze vantaggiose dell’illecito”.
(20) Diversamente X. Xxxxxxx, La compensatio lucri cum damno, cit., 102, la quale sembra ricondurre la compensatio lucri cum damno all’art. 1226 c.c. quale manifestazione della valutazione equitativa del giudice, con ciò ipotizzando un ampio potere discrezionale del giudice che, tuttavia, non sembra trovare fondamento nel sistema (al riguardo v. i rilievi di X. Xxxxxxxxxx, Il problema, cit., 26 ss.).
(21) V. S. Xxxxx, Compensatio lucri cum damno, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 29 ss., il quale ritine che “occorre fare riferimento, non all’azione da cui l’evento dannoso è derivato, ma all’evento medesimo; sicché potranno essere computati soltanto i vantaggi prodotti dal fatto che integra l’illecito” (31).
(22) Così A. De Cupis, Il danno. Teoria generale della respon- sabilità civile2, I, Milano, 1966, 274 ss. e spec. 283 e 286, il quale più genericamente afferma che “la compensatio lucri cum xxxxx va circostanziata ai soli casi nei quali così il lucro come il danno derivano dallo stesso fatto. Altrimenti, essa esorbiterebbe dai suoi giusti limiti” (277).
(23) X. Xxxxxxxxx, La responsabilità civile, cit., 603 ss.
(24) A partire da Xxxx. 7 febbraio 1958, n. 370, in Rep. Foro it., 1958, voce Responsabilità civile, n. 581; cui hanno prestato ade- xxxxx Xxxx. 7 ottobre 1964, n. 2530, ivi, 1964, voce Responsabilità civile, n. 191; Cass. 17 ottobre 1966, n. 2491, ivi, 1966, voce Responsabilità civile, nn. 158 s.; Cass. 10 ottobre 1970, n. 1928, in Resp. civ. prev., 1971, 408 ss.; Cass. 22 dicembre 1987,
n. 9528, in Arch. giur. circ., 1988, 303 ss.; Cass. 14 marzo 1996,
n. 2117, in Resp. civ. prev., 1996, 588 ss.; Cass. 31 maggio 2003,
che hanno concretizzato il contrasto giurispruden- ziale che ha poi condotto alla rimessione alle Sezioni unite della questione, secondo la quale la compensatio lucri cum damno opera solo quando sia il danno sia il vantaggio discendono dallo stesso evento e conse- guono con rapporto di causalità diretto ed immediato dall’evento dovendo, altresì, essere omogenei tanto nel titolo quanto nella natura giuridica (25). Ciò posto, si è quindi escluso che i benefici ottenuti dal danneggiato posano incidere sul danno subito, ridu- cendolo, quanto il vantaggio origini non da un fatto dannoso ma da un altro titolo, essendo il primo mera condizione per l’efficacia dell’attribuzione che trova la sua fonte nel secondo (26).
La necessità di tali requisiti ha tradizionalmente ridotto la portata applicativa della regola ad ipotesi eccezionali (27), in particolare in ragione della diffi- coltà di individuare casi in cui il titolo del danno e del vantaggio siano coincidenti atteso che tale requisito si risolve nella necessità che entrambi derivino dal fatto illecito o dall’inadempimento.
Si può al riguardo fare l’esempio della mancata ese- cuzione da parte dell’istituto di credito della richiesta del cliente di disinvestire alcuni titoli per acquistarne altri, laddove sembra ovvio che il danno subito dal cliente, pari all’incremento di valore dei titoli non acquistati, debba essere ridotto dell’eventuale incre- mento di valore che i titoli da disinvestire possano nel frattempo aver acquisito (28).
È tuttavia evidente che l’ipotesi del danno e del vantaggio che siano derivanti direttamente del medesimo fatto non esaurisce i casi in cui può porsi un problema di compensazione del lucro con il danno, ben potendosi porre un analogo problema quanto il lucro derivi non direttamente dal fatto dannoso ma da questo in concorrenza con fattori esterni.
Proprio con riguardo a tali ipotesi, le ordinanze di rimessione che hanno consentito alle Sezioni unite di
pronunciarsi sul punto sottopongono ad analisi cri- tica l’orientamento tradizionale, individuando, o meglio riproponendo (29), i vulnera che condurreb- bero al superamento dello stesso (30).
In particolare, secondo i provvedimenti in questione, sarebbe erroneo ritenere che sia necessario il mede- simo titolo e che il vantaggio debba derivare solo ed esclusivamente dal fatto dannoso non potendo con lo stesso concorrere altri fattori umani o giuridici, in quanto la compensatio lucri cum damno costituisce una regola per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno, con ciò attribuendo rilevanza a tutte le circostanze che siano conseguenza immediata e diretta del fatto dannoso. Ciò che rileva non sarebbe la derivazione del danno e del lucro dal fatto dannoso e, quindi, la loro derivazione da una unica condotta, ma che danno e lucro scaturiscano dalla stessa causa, con la conseguenza di ritenere rilevanti anche i vantaggi derivanti dalla legge o da un contratto, non potendosi in tal caso ritenere che il fatto illecito sia mera occasione di lucro e non causa dello stesso, affermazione quest’ultima che, sempre secondo le ordinanze di rimessione, sarebbe incoerente tanto con i principi generali della responsabilità civile quanto con il suo sistema per quanto attiene le regole che governano l’accertamento del nesso di causalità. A tali rilievi i provvedimenti richiamati aggiungono, infine, quello attinente il diritto di surroga di cui agli artt. 1203 e 1916 c.c., che, sempre secondo le ordi- nanze di rimessione, verrebbe meno con conseguente abrogazione di fatto delle citate disposizioni norma- tive qualora si prestasse adesione all’orientamento tradizionale che nega la compensatio tra danno e benefici erogati alla vittima dell’ente previdenziale o dall’assicurazione, in quanto il limite oggettivo di operatività della surrogazione sarebbe costituito dal danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non potrebbe essere tenuto a risarcire due volte lo stesso danno.
n. 8828, in Xxxxx e resp., 2003, 816 ss.; Cass. 19 agosto 2003, n. 12124, in Resp. civ. prev., 2003, 1329 ss.; Cass. 25 agosto 2006,
n. 18490, in Arch. giur. circ., 2007, 1086 ss.; Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357, in Danno e resp., 2009, 556 ss.; Cass. 10 marzo 2014, n. 5504, in DeJure.
(25) Con riguardo all’omogeneità in parola, pur in senso diffe- rente da quanto indicato nel testo, v. P.G. Xxxxxxxx, La responsa- bilità civile, in Tratt. dir. civ. diretto da X. Xxxxx, 1998, 352, il quale, dopo aver affermato che la “compensatio dovrebbe applicarsi solo quando vantaggi e benefici per la vittima del danno derivano “direttamente” dall’azione del danneggiante, senza postulare una nuova decisione allocativa necessitata dall’azione di quest’ul- timo”, con riferimento al caso specifico della lesione all’immagine e del vantaggio derivante dalla pubblicità di cui si è beneficiato, esclude la compensatio tra le due voci sul rilievo che “il bene
rappresentato dalla tutela dell’immagine e il vantaggio derivante dall’aumento di pubblicità non siano omogenei e pertanto non si possa dar luogo a compensatio”.
(26) Cfr. Cass. 15 aprile 1993, n. 4475, in Riv. giur. circ. e trasp., 1993, 967 ss.; Cass. 28 luglio 2005, n. 15822, in DeJure.
(27) V. la rassegna di F. Xxxxxx, La compensatio lucri cum damno alla luce delle più recenti pronunce della Corte di cassa- zione, in questa Rivista, 2018, 211 ss.
(28) Analogo esempio si trova in A. De Cupis, Ildanno, cit., 277.
(29) Gli argomenti in parola si ritrovano infatti già in Cass. 13 giugno 2014, n. 13537, in Danno e resp., 2015, 25 ss.
(30) In senso critico, sul punto, v. X. Xxxx, Ènato prima ildanno o la sicurezza sociale (Saggio in tre atti), in Resp. civ. prev., 2015, 1816 ss. e 2016, 40 ss., 399 ss.
La rimeditazione suggerita dalle ordinanze di rimessione
Ciò posto, le ordinanze di rimessione, anche sul punto riprendendo quanto già affermato in alcune recenti decisioni della stessa Corte (31), dopo aver sottoposto a critica l’orientamento tradizionale, si premurano di fornire delle indicazioni volte al suo superamento, suggerendo quella che avrebbe dovuto essere la soluzione ai quesiti posti alle Sezioni unite. In particolare, si ritiene che una razionale applica- zione della regola di causalità enunciata dall’art. 1223
c.c. con riguardo al danno anche ai vantaggi derivanti dall’illecito o dall’inadempimento, imporrebbe di superare il requisito dell’omogeneità della fonte per attribuire rilevanza esclusiva al profilo causale che caratterizza tanto il danno quanto gli eventuali van- taggi in ciò facendo applicazione della medesima regola di causalità, che come noto la giurisprudenza sintetizza nella formula della condicio sine qua non (32).
Tale ultima soluzione, che ha come premessa la giurisprudenza che all’inizio del secolo ha escluso il cumulo del danno con l’indennizzo connesso a vac- cinazioni obbligatorie, trasfusioni ed emoderi- vati (33), consentirebbe di individuare “l’esistenza d’un principio generale, secondo cui vantaggi e svan- taggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge” (34).
Su tali presupposti si ritiene quindi che la soluzione al problema della compensatio lucri cum damno debba passare per l’applicazione del principio per cui il risarcimento del danno deve essere limitato al pregiudizio esistente al momento della sua liquida- zione, che nella stima dello stesso si debba tener conto dei vantaggi che, prima della liquidazione,
siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che, in applicazione della stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito, il vantaggio sia causato dal fatto illecito (35).
Per tale via, si registra una sostanziale adesione all’o- pinione della dottrina più recente, la quale ha avuto modo di affermare che la compensatio lucri cum damno è “un principio privo di alcuna autonomia operativa. Solo astrattamente esso vale ad indicare la funzione compensativa propria del risarcimento, in concreto tutti i problemi posti al vaglio della giurisprudenza vengono risolti applicando le regole della causalità giuridica”, tanto da ricondurre la stessa al “modo di operare dell’art. 1223 c.c.” (36), con ciò ipotizzando, in definitiva, una ampia operatività della regola in questione, con la conseguenza che ogni vantaggio comunque occasionato dal fatto dannoso comporte- rebbe una riduzione del danno risarcibile.
La soluzione coerente e ponderata delle Sezioni unite
Le Sezioni unite hanno tuttavia opportunamente disatteso, come avremmo modo di vedere, con argo- menti condivisibili, la posizione delle ordinanze di rimessione, riconoscendo che l’applicazione del mero criterio della causalità risulta insoddisfacente, por- tando a soluzioni inique e difficilmente giustificabili alla luce dei principi che regolano il sistema della responsabilità civile.
Ciò premesso, secondo le decisioni in parola, occorre invece attribuire rilevanza “alla funzione di cui il beneficio collaterale si rileva espressione”, da ciò derivando che “la determinazione del vantaggio computabile richiede che il vantaggio sia causal- mente giustificato in funzione di rimozione dell’ef- fetto dannoso dell’illecito: sicché in tanto le prestazioni del terzo incidono sul danno in quanto
(31) Cass. 11 giugno 2014, n. 13233, in Foro it, 2014, I, 2064 ss.; Cass. 13 giugno 2014, n. 13537, cit.; Cass. 20 aprile 2016, n. 7774, in DeJure.
(32) Cass., SS. UU., 11 gennaio 2008, n. 584, in Foro it., 2008, I, 451 ss.; Cass. 6 aprile 2006, n. 8096, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, 207 ss. Sul tema v. X. Xxxxxxxxxx, Responsabilità civile, cit., 349 ss.; X. Xxxxxxx, Il nesso di causalità, in Eur. dir. priv., 2018, 399 ss.
(33) In prima istanza con Trib. Roma 8 gennaio 2003, in Foro it., 2003, I, 622 ss., la quale ha disatteso l’opposta soluzione fornita da Trib. Roma 27 novembre 1998, in Foro it., 1999, I, 313 ss., e successivamente con l’avvallo dalla giurisprudenza di legittimità (x. Xxxx., SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 584, in Foro it., 2008, I, 451 ss., nonché, più di recente, Cass. 14 giugno 2013, n. 14932, in DeJure).
(34) Così, in motivazione, tutte le ordinanze di rimessione del 22 giugno 2017, citate alla nt. n. 3.
(35) La presa di posizione delle ordinanze di rimessione ha trovato una recente e meditata critica in X. Xxxxxxx, Le Sezioni unite restituiscono un ordine auspicabilmente definitivo al discorso sulla compensatio lucri cum damno, in Resp. civ. prev., 2018, 1160 ss. e spec. 1165, il quale rileva che attribuire rilevanza al solo nesso causale per determinare l’attribuzione cumulativa o meno dei benefici importa che “il test di causalità […] prende il posto dell’ingiustizia (o delle funzioni omologhe)”, sembrando in ciò alludere ad una inversione metodologica che contrasta con quella che l’A. chiama “struttura sequenziale della fattispecie attributiva”.
(36) Così X. Xxxxxxxx, La compensatio lucri cum damno, in Resp. civ., 2010, 52; Id., La compensatio lucri cum damno, in Dannoeresp., 2017, 18, secondo il quale la compensatiolucricum damno non è figura autonoma ma applicazione del principio della causalità giuridica.
siano erogate in funzione di risarcimento del pregiu- dizio subito dal danneggiato”.
Viene in tal modo espressamente e testualmente accettata la concezione della dottrina che, da tempo, ha evidenziato l’insufficienza del criterio della mera causalità, essendo necessario, affinché possa operare la compensatio lucri cum damno, che le prestazioni che realizzano un beneficio siano “erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito” (37). In altri termini, in linea con la ricostruzione recen- temente offerta in dottrina, che espressamente la Corte richiama quanto parla di “giustizia’ del bene- ficio” (38), il ruolo determinante per individuare i vantaggi in grado di incidere sul danno risarcibile è da attribuire alla funzione specifica del vantaggio stesso, vale a dire alla causa di giustificazione dell’attribuzione (39).
Le Sezioni unite non mancano di supportare la moti- vazione richiamando opportunamente anche alcuni indici risultanti dal diritto europeo, quali i Principles of European Tort Law, che all’art. 10:103 attribuiscono rilevanza agli scopi dei vantaggi (40), ed il Draft Common Frame of Reference, che similmente, all’art. 6:103 del libro VI, richiede di considerare lo scopo perseguito conferendo il beneficio al danneggiato.
Così individuati i principi che dovrebbero guidare l’interprete nell’applicazione della tegola della
compensatio lucri cum damno, viene infine presa in considerazione la questione della surroga che, utiliz- zato nelle ordinanze di rimessione quale argomento per superare l’orientamento tradizionale, al contrario le Sezioni unite funzionalizzano per l’accertamento dello scopo dell’attribuzione collaterale.
Infatti, proprio i meccanismi di surroga o di rivalsa, la cui previsione è prerogativa del legisla- tore (41), consentono di attribuire a questi il ruolo di valido criterio rivelatore di una causa attributiva propriamente risarcitoria con conse- guente detrazione del vantaggio dal danno risar- cibile, in quanto permettendo di trasferire sul danneggiante l’importo del beneficio corrisposto al danneggiato risulterebbe confermata la funzione risarcitoria del beneficio stesso. Tale ultimo chia- rimento è senz’altro rilevante, posto che, indipen- dentemente dal fatto che la surroga o la rivalsa siano effettivamente esercitati dal prestatore del vantaggio nei confronti del danneggiante (42), consente di evidenziare che, posta in questi ter- mini la questione, la compensatio lucri cum damno non comporta un vantaggio per il danneggiante, il quale, in realtà, risulta indifferente al beneficio collaterale, essendo tenuto, proprio per l’effetto della surroga o della rivalsa, al risarcimento inte- grale del danno subito dal danneggiato (43).
(37) Così C.M. Xxxxxx, Dell’inadempimento delle obbligazioni (Art. 1218-1229)2, in Comm. cod. civ. a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna-Roma, 1979, 310, il quale ha tuttavia cura di precisare che “la determinazione del vantaggio computabile esige piuttosto [...] che la fattispecie dell’illecito sia fattispecie di acquisto del vantag- gio ovvero che questo sia causalmente giustificato in funzione di rimozione dell’effetto dannoso dell’illecito” (p. 311) e che esi- gendo, con formula definita in nota come angusta, che “il vantag- gio dovrebbe derivare o avere titolo dallo stesso fatto da cui deriva il danno”, con la conseguenza che “le prestazioni del terzo inci- dono sul danno quanto sono erogate in funzione di risarcimento del pregiudizio subito”. Sul punto, più di recente, Id., Diritto civile.
5. La responsabilità2, Milano, 2012, 169 s., ove si legge che “il vantaggio dev’essere causato dall’inadempimento o dall’illecito e dev’essere inerente al bene o all’interesse leso”.
(38) Il riferimento è all’analisi di X. Xxxx, La “giustizia” del beneficio. Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Napoli, 2018, passim e spec. 381 ss., dove si propone di valutare la rilevanza giuridica del beneficio, al cui esito, qualora risulti una giustificazione speculare a quella di ingiustizia del danno, non si potrebbe procedere alla riduzione del danno risarcibile in misura pari al vantaggio, con ciò dando rilevanza, appunto, alla finalità del beneficio.
(39) In questo senso v. anche X. Xx Xxxx, Intorno alla com- pensatio lucri cum damno, in xxxxxxxxx.xx, 2018, 58, secondo il quale “il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo sia non tanto il criterio del nesso causale [...] quanto il criterio della ragione giustificatrice del beneficio collaterale che il danneggiato riceve, per accertare se sia compatibile o incompatibile con una imputazione al risarcimento”.
(40) Il richiamo si trova già in X. Xx Xxxx, Intorno alla compen- satio lucri cum damno, cit., 56, che segnala il commento alla disposizione citata, secondo cui a livello europeo vi sarebbe una
preferenza per il cumulo piuttosto che per la riduzione (X. Xxxxxx, sub Art. 10:103, in Principles of European Tort Law. Text and Commentary, European Group on Tort Law (ed.), Wien-New York, 2005, 157).
(41) Nelle fattispecie sottese alle decisioni in rassegna, oltre alla previsione di cui all’art. 1916 c.c., per l’assicurazione contro i danni e contro gli infortuni sul lavoro, cui si aggiunge per queste ultime l’art. 142 cod. ass. priv., viene preso in considerazione l’art. 41 della L. 4 novembre 2010, n. 183, che consente il recupero nei confronti del responsabile civile e della compagnia di assicura- zione di quanto corrisposto a titolo di pensione, assegno o inden- nità spettanti agli invalidi civili.
(42) Sul punto, di recente, Cass. 12 ottobre 0000, x. 00000, xxx.
, allo stato inedita, la quale, con riguardo alla rivalsa di cui all’art. 18, co. 2, L. n. 990 del 1969, ma con principio che sembra applicabile anche oltre tale fattispecie, ha affermato che onere dell’assicura- tore che agisce contro l’assicurato è quello di allegare l’esistenza del contratto assicurativo, la previsione della clausola di rivalsa e l’avvenuto pagamento del danno ai terzi danneggiati, mentre l’assicuratore non ha l’onere di provare la congruità delle somme erogate ai danneggiati, spettando all’assicurato contra- stare la domanda di regresso formulando tutte le possibili ecce- zioni in ordine alla sua responsabilità e alla entità del risarcimento, con conseguente onere della prova a carico dello stesso.
(43) Maggiormente problematica è, sulla base degli assunti delle Sezioni unite, la questione della derogabilità convenzionale del diritto di surrogazione (lo spunto si rinviene in X. Xxxxxxxxx,
«Compensatio», cumulo e «second best», in Foro it., 2018, I, 1939, il quale segnala le contrastanti posizioni della giurispru- denza sul punto: per l’invalidità Cass. 11 giugno 2014, n. 13233, in Foro it., 2014, I, 2064 ss.; in senso contrario Xxxx. 4 maggio 2018, n. 10602, ord., in DeJure. In questo ultimo senso, in dottrina, X. Xxxxxxxxx, La responsabilità civile, cit., 605).
La funzione della responsabilità civile e la liquidazione del danno
Volendo fornire qualche considerazione conclusiva, sembra possibile prendere le mosse dal rilievo secondo cui, come si è detto in precedenza, una soluzione al problema della compensatio lucri cum damno non può porsi se non attraverso la definizione preliminare del modo di intendere il sistema della responsabilità civile ed in particolare la sua funzione (44).
Tale approccio non può dirsi viziato all’origine da una inversione del metodo o frutto della precompren- sione dell’interprete, ma costituisce, in quanto neces- sariamente basato sui principi che ispirano e governano il sistema della responsabilità civile, il solo metodo che - specie, in un settore come quello in esame, caratterizzato da poche ma significative disposizioni normative - può contribuire ad indivi- duare una risposta soddisfacente agli interrogativi posti.
D’altronde, proprio in questa direzione si muove la soluzione offerta dalle Sezioni unite, le quali non mancano di dare rilevanza ad alcuni profili di centrale importanza per la costruzione del sistema della responsabilità civile, non potendosi certamente con- dividere soluzioni che si fondano su ragioni di mera opportunità, come nel caso del cumulo della pen- sione di reversibilità, in relazione al quale si è ipo- tizzato di valorizzare l’esigenza di contenimento della spesa pubblica (45).
Volendo invece cercare ulteriori e più decisivi argomenti, si può senz’altro prendere spunto dal rilievo secondo cui il sistema della responsabilità civile, nell’incessante opera creativa della giuri- sprudenza, è stato di recente oggetto di un muta- mento di prospettiva di indubbio rilievo. Si allude, in particolare, alle implicazioni sottese alla deci- sione delle Sezioni unite della Corte di cassazione in tema di danni punitivi (46), la quale, pur legando la loro ammissibilità al principio di lega- lità, hanno in tale occasione affermato la natura polifunzionale della responsabilità civile (47). Si è quindi detto che questa non ha la sola funzione
indennitaria, vale a dire quella di compensare le perdite subite dal danneggiato, ma anche una funzione punitiva e deterrente, distinte tra loro, in quanto l’una destinata a manifestarsi dopo l’il- lecito, l’altra operante anticipatamente in una pro- spettiva preventiva.
A ben vedere, la posizione della giurisprudenza che, come visto, nelle ordinanze di rimessione più volte richiamate si mostra favorevole ad una ampia appli- cazione della regola della compensatio lucri cum damno, sembra non essere del tutto coerente con l’impostazione di fondo che ispira la giurisprudenza più recente. Infatti, se con riguardo alle ipotesi legal- mente ammesse di danni punitivi si produce l’effetto di ampliare il risarcimento, in ossequio ad una fun- zione non solo compensativa, per il tramite della compensatio lucri cum damno si produce invece, specie nella lettura offerta dalle ordinanze di rimessione, l’effetto opposto, ampliando la limitazione del danno risarcibile tenendo conto di tutti i vantaggi percepiti dal danneggiato.
In altri termini, mentre l’ammissibilità dei danni punitivi incide negativamente sul danneggiante, incrementando la funzione sanzionatoria della responsabilità civile, una applicazione estesa della compensatio lucri cum damno, condizionata unica- mente dal presupposto della sua derivazione causale dal fatto dannoso, produce l’effetto opposto, allegge- rendo la posizione del danneggiante, il quale vedrà ridotto l’obbligo risarcitorio in ragione dei vantaggi conseguiti dal danneggiato, anche indipendente- mente dalla riconducibilità di questi al fatto del danneggiante.
Peraltro, e sotto differente punto di vista, si può rilevare che concepire la quantificazione del danno come mera somma algebrica di poste positive e nega- tive, come sembrano consigliare le ordinanze di rimessione, significa snaturare il momento risarcito- rio, il quale, tramite la determinazione del danno, attribuisce disvalore all’atto illecito come anche, per certi versi, all’inadempimento.
Proprio in base a tale ultimo riferimento si hanno degli spunti utili per ricostruire coerentemente
(44) Sul tema di estrema attualità sono i contributi raccolti in
P. Sirena (a cura di), La funzione deterrente della responsabilità civile, cit., passim.
(45) Così X. Xxxxx, La compensatio lucri cum damno ed i suoi confini, in Giur. it., 2018, 1350; nonché, più in generale, Id. Com- pensatio lucri cum damno e benefici collaterali. Parte seconda: applicazioni e confini, in Riv. dir. civ., 2018, 1146.
(46) Cass., SS. UU., 5 luglio 2017, n. 16601, cit. Sul tema cfr.
X. Xxxxxxxxxx, Responsabilità civile, cit., 902 ss.; X. Xxxxxxx, La riconoscibilità delle sentenze nordamericane di condanna a
punitive damages, in X. Xxxxxxxx (a cura di), I nuovi orientamenti della Cassazione civile. 2017, Milano, 2017, 535 ss.; nonché, da ultimo, C. De Menech, Le prestazioni pecuniarie sanzionatorie. Studio per una teoria dei “danni punitivi”, Padova, 2018, passim.
(47) In merito a tali profili, di recente, è centrale la riflessione, anche in prospettiva di politica del diritto, di X. Xxxxxxxx, La responsabilità civile tra libertà individuale e responsabilità sociale. Contributo al dibattito sui “risarcimenti punitivi”, Napoli, 2017, passim, il quale evidenzia opportunamente e condivisibilmente la natura sociale del sistema della responsabilità civile.
l’ambito di applicazione della compensatio lucri cum damno, dovendosi intendere che i pregiudizi che possono incidere sul danno risarcibile riducendolo, in applicazione della regola in questione, non è suffi- ciente che siano solo occasionalmente connessi al fatto illecito o all’inadempimento.
L’eterogeneità delle ipotesi in cui si ritiene operante la compensatio lucri cum damno rende difficile enun- ciare una regola unitaria valvole tanto per i casi in cui il vantaggio derivi direttamente ed unicamente dal fatto dannoso quanto per quelli in relazione ai quali per la determinazione del vantaggio abbia avuto una rilevanza essenziale un fatto avulso dalla sfera di controllo del danneggiante ed il beneficio derivi da una prestazione cui è tenuto un terzo, come per il caso in cui vi sia un contratto di assicurazione stipulato dal danneggiato (48), che quest’ultimo ha liberamente e volontariamente deciso di concludere, o un emolu- mento riconosciuto dalla legge.
In tali ultime ipotesi, la regola della causalità non è evidentemente sufficiente a determinare quali van- taggi incidano sul risarcimento del danno, essendo piuttosto necessaria una regola concorrente che con- senta di selezionare i vantaggi rilevanti rispetto a quelli non rilevanti.
Come riconosciuto da ultimo dalle Sezioni unite, la corretta applicazione dei principi normativi in tema di liquidazione del danno, impongono di valorizzare, al fine di determinare quanto la compensatio lucri cum damno possa operare, il titolo del vantaggio di volta in volta preso in considerazione, affermando che solo a fronte del medesimo titolo la regola in questione potrà ritenersi applicabile.
In tale contesto, se si vuole attribuire un fondamento razionale alla regola della compensatio lucri cum damno, che sia validamente destinato ad influenzare e delimi- tare la sua operatività, questo sembra doversi rinvenire nel principio generale per cui è da escludere l’ammissi- bilità di arricchimenti ingiustificati (49), il che, in uno con il fondamento che connota il sistema della
responsabilità civile, conduce a ritenere che i vantaggi cui si dovrà attribuire rilevanza nella determinazione del danno risarcibile saranno quelli che hanno la mede- sima causa, nel senso di ragione giustificatrice e non anche di mera causalità, dell’obbligazione risarcitoria. Assumendo come principio generale, desumibile dalle regole proprie della gestione di affari altrui, del pagamento dell’indebito e dell’azione generale di arricchimento, quello per cui il conseguimento di un vantaggio patrimoniale deve essere giustificato da un interesse meritevole di tutela (50), ne deriva che, al contrario, non si può ammettere un vantag- gio patrimoniale che non sia giustificato causal- mente da un interesse meritevole di tutela (51). Se, quindi, ogni spostamento patrimoniale ha una sua causa giustificatrice, l’interprete sarà tenuto a individuare la stessa e, nel caso in cui da tale indagine emerga il fondamento risarcitorio dell’at- tribuzione, scomputare la stessa dalla rispettiva voce di danno risarcibile.
In altri termini, tutte le volte in cui il vantaggio non derivi direttamente dal fatto dannoso, ma sia determinato da un concorrente fatto umano o giuridico estraneo alla sfera del danneggiante, il criterio della causalità giuridica dovrà necessa- riamente combinarsi con quello della coinci- denza della causa giustificativa dell’attribuzione lucrativa con quella risarcitoria, con ciò limi- tando l’operatività della compensatio lucri cum damno ai soli vantaggi che abbiano, appunto, natura risarcitoria.
Xxxxxx detto con specifico riguardo alla compen- sazione del lucro con il danno sembra inserirsi a pieno titolo nella tendenza, acutamente rilevata in dottrina, a delineare un nuovo volto della respon- sabilità civile, da intendere non più come una “responsabilità civile [...] quale specchio della responsabilità sociale” ma “due responsabilità [...] strettamente connesse, l’una incidendo sull’al- tra” (52), come dimostra il tema in esame, dove i
(48) Sembrano non porre un problema di compensatio lucri cum damno le ipotesi di assicurazione contro i danni stipulata dal danneggiante, in quanto in questo caso il fenomeno crediamo sia da ricondurre all’adempimento del terzo.
(49) Uno spunto in tal senso sembra rinvenirsi già in X. Xxxxxx- chi, Arricchimento (azione di), in Enc. dir., III, Milano, 1958, 64, il quale ritiene che una manifestazione del divieto di arricchimento sia costituito proprio dalla compensatio lucri cum damno.
(50) Sul punto v. C.M. Xxxxxx, La responsabilità, cit., 823.
(51) Sotto altro profilo, non pertinente con il tema in oggetto, ma di indubbio rilievo, sembrano senz’altro da accogliere i rilievi della dottrina che in virtù di una lettura coerente del sistema ha affermato l’ammissibilità dei rimedi ultracompensativi, che
prescindono dalle regole proprie del risarcimento del danno, nel caso in cui un soggetto, senza generare un danno in senso proprio, si avvantaggi senza titolo nei confronti del terzo (v. P. Sirena, La restituzione dell’arricchimento e il risarcimento del danno, in Riv. dir. civ., 2009, I, 82 ss.).
(52) Il riferimento è a X. Xxxxxxxx, La responsabilità civile, cit., 46 s., il quale, pur con specifico riferimento alla responsabilità extracontrattuale, ma con rilievi che si prestano anche ai fini che ci occupano, individua le ragioni ed il senso del cambiamento, oltre che nella connessione e interdipendenza tra responsabilità civile e responsabilità sociale, cui si è fatto riferimento nel testo, anche nell’aumento delle situazioni giuridiche meritevoli di tutela, anche in sede risarcitoria.