MARIO BARCELLONA
XXXXX XXXXXXXXXX
Responsabilità extracontrattuale e vizi della volontà contrattuale
Sommario: 1.- I comportamenti turbativi del potere di autodeterminazione e la responsabilità della controparte negoziale: la deriva “correttiva” del rimedio aquiliano. - 2. (segue) rimedio risarcitorio e contratto invalido: sulla pretesa generale esperibilità dell’azione aquiliana in luogo delle possibili azioni demolitorie; 3. (segue) rimedio risarcitorio e contratto valido: sulla dottrina dei c.d. vizi incompleti e sulla loro generale tutela risarcitoria. - 4. Gli illeciti antitrust e l’azione di risarcimento ex art. 33 L. n. 287/1990: ancora sui rapporti tra rimedi contrattuali (demolitori) e rimedio aquiliano.
1.- I comportamenti turbativi del potere di autodeterminazione e la responsabilità della controparte negoziale: la deriva “correttiva” del rimedio aquiliano.
Prim’ancora che da terzi del tutto estranei al contratto, i comportamenti che costringono o inducono un soggetto a scelte e determinazioni diverse da quelle cui si sarebbe spontaneamente orientato possono provenire dalle controparti negoziali (o da persone con esse variamente colluse).
Tuttavia, il problema dei pregiudizi che da tali comportamenti possono scaturire, fino a qualche tempo addietro, ha interessato il rimedio aquiliano in modo molto marginale.
La communis opinio della dottrina e la prassi giurisprudenziale, per lo più, muoveva dall’idea generale che la protezione di un contraente rispetto alle insidie provenienti dalla sua controparte trovasse risposta nelle tutele demolitorie (annullabilità e rescissione), che un problema risarcitorio potesse insorgere, di norma, solo in conseguenza dell’esperimento di tali tutele e che esso trovasse esaustiva disciplina nell’art. 1338.
Proprio in ragione di questa idea sistematica generale la comunicazione tra il sistema delle invalidità ed il rimedio del risarcimento era rimasta fino a poco tempo addietro confinata all’ambito dell’art. 1338 e non aveva interessato l’istituto della responsabilità civile se non per quell’aspetto, alla fine abbastanza marginale, che riguardava la “natura” della responsabilità prevista in tale norma e la disciplina (di prova, prevedibilità e prescrizione) ad essa applicabile (1).
Ma quel che più conta è che in quest’ordine di idee si dava per pressoché scontato che il rimedio risarcitorio dell’art. 1338, quale che ne fosse la natura, si prospettasse come successivo al rimedio demolitorio e dipendente dalla sua disciplina: successivo, perché si riteneva
(1) Per una rassegna dei diversi orientamenti in proposito si v. X. Xxxxx – X. Xxxxx, Responsabilità preontrattuale e contratti standard, in Il Codice civile - Commentato diretto da X. Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, 34 ss. e X. Xxxxxxx, Responsabilità precontrattuale, in Enc. del dir., XXXIX, Milano, 1988, 1269 ss.
supponesse che il contratto fosse stato invalidato; dipendente, perché proprio per questo la sua esperibilità si riteneva supponesse necessariamente che si dessero le condizioni di accesso alle azioni di invalidità.
Nel sistema ricevuto, dunque, un contratto invalidabile non dà luogo a responsabilità ove non sia stato invalidato e un contratto valido non dà luogo a responsabilità se non nel caso, ritenuto eccezionale, dell’art. 1440.
Da qualche tempo a questa parte, però, questo assetto dei rapporti tra invalidità e responsabilità appare insidiato da enunciazioni dottrinarie che lo vorrebbero addirittura, in tutto o in buona parte, capovolto.
Con sempre maggiore insistenza si sostiene, infatti:
(a) che di fronte ad una causa di annullabilità o di rescissione del contratto si dia (al contraente la cui volontà sia viziata da errore, dolo, violenza o da stato di necessità o di bisogno), in generale e senza limiti, l’alternativa tra l’esperimento dell’azione di annullamento o di rescissione e l’esperimento di un’azione di responsabilità che mantenga in vita il negozio annullabile o rescindibile (2);
(b) che a carico della parte che abbia insidiato scorrettamente l’autonoma determinazione negoziale dell’altra sia configurabile in via generale una responsabilità anche quando la scorrettezza commessa non giunga ad integrare gli estremi di uno dei vizi della volontà nominati dalla disciplina del contratto (3).
Come appresso si vedrà, l’esito manifesto (ma anche il proposito dichiarato) di entrambe queste proposte interpretative è quello di utilizzare la responsabilità extracontrattuale in funzione correttiva di un equilibrio contrattuale che appare impropriamente raggiunto: consentendo il ricorso al rimedio aquiliano nonostante il mancato esperimento dell’azione di annullamento o di rescissione o in assenza delle condizioni per esperirla si attribuisce al contraente, la cui volontà sia stata turbata dai comportamenti scorretti dell’altro, un “compenso” volto a ripristinare l’equilibrio contrattuale mancato.
(2) X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, Il contratto, I, in Trattato di diritto civile diretto da X. Xxxxx, Xxxxxx, 0000, 000 xx. x, xxxxxx in parte, X. Xxxxx, I vizi del consenso, in Trattato dei contratti diretto da x. Xxxxxxxx, I Contratti in Generale, II, 1999, 469-470.
Questa tesi è sostenuta anche muovendo dall’assunto che l’art. 1338 non richiederebbe come necessaria condizione del risarcimento in essa previsto la previa invalidazione del contratto: cfr. X. Xxxxx – X. Xxxxx, La responsabilità precontrattuale, cit., 220 ss., riprendendo le vecchie posizioni di X. Xxxxxxx, In tema di responsabilità precontrattuale, in Temi, 1965, 458. Ma per la critica di questa tesi v. le approfondite considerazioni di X. Xxxxx, L’obbligo precontrattuale di informazione, Napoli, 1990, 57 ss. e 164 ss., il quale, giustamente, conclude ribadendo che la responsabilità dell’art. 1338 suppone la dichiarazione di invalidità del contratto.
(3) V. per tutti X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti» del contratto e rimedi risarcitori, Torino, 1995, passim., ma anche le critiche di X. X’Xxxxx, La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto, diretto da X. Xxxxx, X, X xxxxxx-0, Xxxxxx, 0000, 977 ss.
Fra l’altro, di tali enunciazioni dottrinarie (soprattutto della seconda) una recente e nota sentenza di merito ha fatto letterale e clamorosa (per l’ammontare del risarcimento concesso) applicazione.
Per decidere sull’ammissibilità di una domanda di risarcimento del danno causato dalla conclusione di una transazione svantaggiosa imputata all’influenza che sulla determinazione delle sue condizioni sarebbe stata esercitata dall’emanazione di una sentenza (relativa alla controversia transatta) inquinata dalla corruzione di un giudice, il Tribunale di Milano (4) muove, per l’appunto, dai due seguenti assunti:
a) che “non è del tutto vero che, ontologicamente e da un punto di vista fattuale, detto fatto illecito (= la corruzione di un giudice del Collegio giudicante) non ingenerò alcun vizio della transazione: detto vizio c’è ed è grave … [ma poiché] non sussiste nessun rimedio contrattuale al fatto illecito [e, però] un illecito vi fu, [allora] è gioco forza far rifluire detto illecito nella previsione generale dell’art. 2043” (5);
b) che, comunque,”la fattispecie … presenta una certa “vicinanza” con la fattispecie normativa, di cui all’art. 1440 cc, relativa al dolo incidente: in entrambe le fattispecie la trattativa negoziale è inquinata; in entrambe le fattispecie il contratto rimane valido ed efficace; in entrambe le fattispecie il contraente in mala fede è tenuto al risarcimento del danno in favore della controparte”.
Così, infatti, tale decisione, per la prima volta, si giova apertamente del principio enunciato da questa dottrina: quello che assegna alla responsabilità aquiliana una funzione supplente della disciplina delle invalidità rispetto alle “zone franche” da questa lasciate e che, perciò, generalizza il dispositivo dell’art. 1440 che vede convivere la validità del contratto con l’obbligo di risarcire il danno che dalla sua conclusione sarebbe derivato (6).
Per il vero, qualche recente massima giurisprudenziale sembrerebbe convalidare entrambe queste direttive interpretative.
Da un lato, Cass. civ. n. 20260/2006 ha enunciato che «Il contraente, il cui consenso risulti viziato da dolo, può richiedere il risarcimento del danno conseguente all'illecito della
(4) La sentenza è quella già prima citata di Xxxx. Milano, 03/10/2009 n. 11786, nella controversia CIR/FININVEST.
(5) Per il vero, il rimedio sussisteva, ed era, in ogni caso, quello, da un lato, di agire ex art. 395 n. 6 c.p.c. per la revocazione della sentenza “inquinata” e, dall’altro, di impugnare la transazione ex art. 1972, comma 2. E se non è stato utilizzato è stato solo perché – con tutta evidenza – parte attrice intendeva non mettere in discussione la transazione che le aveva attribuito, fra l’altro, importantissime testate giornalistiche come “L’Espresso” e “La Repubblica” e si proponeva piuttosto di ottenere in via aquiliana soltanto (per così dire) un surplus sul datum/retentum convenuto. Ma proprio questa è una delle ragioni principali che, sul piano funzionale, fa dubitare del principio dottrinario di cui il Tribunale si è avvalso (v. infra nei parr. successivi).
(6) Ma – a ben vedere, si avvale implicitamente anche del principio di compatibilità tra conservazione di un contratto invalido e azione di responsabilità a misura che non ritiene di soffermarsi sul carattere solo incidente, invece che determinante, del “vizio”, così, nella sostanza, dando per scontata una sorta di potere (della “vittima”) di libera “conversione” del vizio incidente in vizio determinante (su cui v. infra nel par. 3 di questa sez.).
controparte, lesivo della libertà negoziale, sulla base della generalissima previsione in tema di responsabilità aquiliana, ai sensi dell'art. 2043 cod. civ., anche senza proporre contemporaneamente domanda di annullamento del contratto ai sensi dell'art. 1439 cod. civ.».
Dall’altro, Xxxx. civ. n. 19024/2005 ha affermato che «La responsabilità per violazione del dovere di buona fede durante le trattative, o di più specifici obblighi precontrattuali (ad esempio informativi) riconducibili a quel dovere, non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto invalido o inefficace; bensì si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto».
In realtà, contro le apparenze, entrambe queste “massime” della Corte di legittimità non sono, alla fine, molto significative.
Per un verso, infatti, i casi, che in base a queste declamazioni vengono affrontati, avrebbero potuto, e dovuto, essere risolti dalla Corte nel medesimo senso sulla base di diversi e sperimentati dispositivi normativi (7).
E per un altro verso, la stessa Corte, nel medesimo torno di tempo, ha ribadito il proprio insegnamento tradizionale, escludendo che il comportamento contrario a buona fede praticato da un contraente nella fase precontattuale possa dare accesso, una volta concluso il contratto, ad una responsabilità extracontrattuale.
Ed infatti, decidendo un caso molto complesso (nel quale la controparte del contraente incapace di un contratto preliminare ne chiedeva la condanna in via extracontrattuale al risarcimento del danno per il comportamento contrario a buona fede da questo tenuto nella fase precontrattuale), Cass. civ. n. 16937/2006 ha concluso che «stipulato un contratto preliminare … con un soggetto incapace…, l’unica azione a disposizione della [contro]parte … si individua in quella contrattuale prevista dall’art. 1443, senza che possa farsi luogo, in via cumulativa, all’esperimento di altra azione, di tipo extracontrattuale, riconducibile alla supposta malafede del predetto soggetto [incapace] durante le trattative, … [giacché] la stipula del preliminare … comporta… la perdita di ogni autonomia e di ogni giuridica rilevanza di dette trattative, convergendo, sotto il profilo risarcitorio, nella nuova struttura contrattuale che, pertanto, viene a costituire la sola fonte di responsabilità, per l’appunto, risarcitoria».
E’ alle enunciazioni dottrinarie che occorre, dunque, rivolgere l’attenzione.
2.- (segue) rimedio risarcitorio e contratto invalido: sulla pretesa generale esperibilità dell’azione aquiliana in luogo delle possibili azioni demolitorie.
(7) Ad es., Cass. civ. n. 19024/2005 concerne un caso di violazione degli obblighi informativi previsti in materia di negoziazione di strumenti finanziari che la stessa Corte nella medesima decisione ammette indiscutibilmente riducibile ad un’ipotesi di ordinario dolo incidente. Ed è del tutto evidente che la parte della motivazione, da cui sono tratti i passaggi massimati, è solo funzionale alla critica di quella giurisprudenza di merito che insisteva nell’idea che la violazione di tali obblighi legali configurasse una nullità per violazione di norme imperative. Ma in proposito si v. le precisazioni della successiva Cass. civ. n. 26724/2007, su cui v. M. Barcellona, Mercato mobiliare e tutela del risparmio, cit., 44 ss.
La prima, e più attrezzata, enunciazione dottrinaria della superiore duplice indicazione interpretativa (8) muove dalla tesi che sia nella insindacabile disponibilità del contraente la cui volontà sia “viziata” (in conseguenza di una scorrettezza dell’altro) tanto il rimedio del risarcimento che quello dell’invalidazione del contratto, quest’ultimo, a sua volta, compreso come una sorta di “risarcimento in forma specifica”.
L’argomentazione è essenziale e si risolve nei seguenti passaggi:
- la “regola d’insieme” che spiega e fonda la repressione dei comportamenti di una parte turbativi della volontà dell’altra è costituita dal dovere di buona fede dell’art. 1337 (9);
- per questa via “la struttura del vizio del volere … si apparenta ad un fatto illecito in senso specifico … [donde si dà una] consustanzialità del vizio del volere … con un fatto colorato di antigiuridicità” (10);
- si dovrebbe ritenere, perciò, che in generale, e cioè anche al di fuori dei tipici vizi invalidanti, “la vittima [della scorrettezza della controparte] può certamente invocare l’art. 1337 per giustificare il diritto di risarcimento del danno … [e] può altresì invocare l’art. 2058 affinché il risarcimento venga prestato in forma specifica, ossia mediante la rimozione del contratto” (11);
- mentre anche, in presenza di un vizio invalidante tipico, lo stesso art. 1338 non solo abilita “all’eliminazione … del danno cagionato dalla rimozione del contratto, [ma] in virtù dell’art. 2058 questa eliminazione, ove … [la vittima] lo chieda, deve avvenire in natura, cioè tenendo in piedi le obbligazioni contrattuali purgate dalle condizioni inique” (12).
- con l’esito finale e generale che “il vizio del consenso è dunque, di norma, idoneo … a scatenare la distruzione di tutto il contratto … o, alternativamente, la riduzione a giustizia del rapporto contrattuale mediante decurtazione della prestazione del contraente vittima o imposizione di una prestazione supplementare alla controparte” (13).
(8) E’ quella di X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, Il contratto, I, cit.,617 ss. Di recente questa tesi è stata riproposta come
communis opinio da X. Xxxxxxx, Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, Torino, 2008, 187 ss.
(9) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Xxxx, op. cit., 620.
(10) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Xxxx, op. cit., 623.
(11) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Xxxx, op. cit., 621, i quali così affossano la tipicità dei vizi del consenso e ne riducono la previsione normativa a manifestazione rapsodica di un principio la cui applicazione non abbisogna neanche della mediazione del procedimento analogico.
(12) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Xxxx, op. cit., 621.
(13) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Xxxx, op. cit., 621.
Ma poiché è evidente che la mediazione dell’art. 2058 non è nient’altro che un espediente del tutto improprio ed assolutamente improponibile (14), la sostanza di questo ragionamento si risolve, allora, in questo: che il turbare colposamente o dolosamente la determinazione negoziale della propria controparte integra comunque un illecito, che tale illecito trova tutela specifica nelle invalidità del contratto, che tale illecito, però, reclama tutela anche quando non si diano gli estremi dei tipici vizi della volontà nominati dal codice, che, in ogni caso (e cioè tanto in presenza delle condizioni di invalidità che in loro assenza), tale illecito “reclama le ben note conseguenze descritte dall’art. 2043” (15) e che, perciò, “annullamento e risarcimento operano alternativamente o cumulativamente a favore dello stesso soggetto per raggiungere un solo risultato: cancellare un’ingiustizia” (16).
L’obbiettivo cui mira questo corto-circuito di illiceità e invalidità è, dunque, duplice: da un lato, il sostanziale superamento del principio di tassatività delle ipotesi di annullamento (17); dall’altro, la piena fungibilità, a discrezione della “vittima”, dell’azione di annullamento con un’azione aquiliana rivolta a conseguire il risarcimento del danno corrispondente all’interesse che questa aveva affidato al contratto concluso e che il vizio che lo affligge ha lasciato deluso, e per questa via (risarcitoria) giungere, alla fine e nella sostanza, ad una correzione del contratto invalido (ma così mantenuto in vita).
La prospettiva nella quale queste questioni vengono qui in considerazione induce ad esaminare, di seguito, solo il secondo di questi due obbiettivi: la generale sostituibilità del rimedio demolitorio (= annullamento e rescissione) con un’azione aquilana intesa a correggere un equilibrio contrattuale malato.
(14) L’esito, discutibile, di questa impostazione è che le fattispecie dei vizi della volontà si riducono al dovere generale di buona fede, e quindi appaiono - al limite - superflue, e che l’apparato dei rimedi si riduce al risarcimento del danno somministrabile per equivalente o in forma specifica, e quindi le stesse discipline delle invalidità appaiono – al limite – anch’esse superflue; sicché tutta questa parte della disciplina generale del contratto potrebbe essere interamente assorbita dall’art. 2043. Il che, se si ricorda che anche lo stesso contratto, nel diritto romano arcaico, era dedotto dall’illecito, potrebbe far pensare che oltre duemila anni di razionalizzazioni giuridiche, tutto sommato, avrebbero potuto essere evitate.
Comunque, a proposito della distinzione tra rimedi reintegrativi del diritto e risarcimento in forma specifica v. X. Xxxxxxxxxxxx, Il risarcimento del danno in forma specifico, in Riv. tri. Dir. e proc. civ., 1957, 201 ss.; M. Barcellona, Sul risarcimento del danno in forma specifica (ovvero sui limiti della c.d. interpretazione evolutiva), in Rass. dir. civ., 1989, 505 ss. e ora X. Xxxxxxxxx, La responsabilità contrattuale in senso debole, in corso di pubbl. su Eur. e dir. priv.
(15) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Xxxx, op. cit., 625.
(16) X. Xxxxx in R Sacco – X. Xx Nova, op. cit., 622.
Anche C.M. Xxxxxx, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, 173 ss., ravvisa nella colposa induzione in errore, nel dolo e nella violenza altrettante lesioni della libertà contrattuale dell’errante, del deceptus e del minacciato. Ma non si avvale di ciò per sostenere che quando ricorra una causa di invalidità sia possibile in generale esercitare in suo luogo l’azione aquiliana.
(17) V. per tutti X. Xxx Xxxxx, Le annullabilità, in Trattato del contratto diretto da X. Xxxxx, XX, X xxxxxx-0, Xxxxxx, 0000, 182 ss.
Orbene, quest’idea, che i vizi della volontà possano aprire la via, indifferentemente, alle tutele tanto dell’annullamento/rescissione che del risarcimento, e che, perciò, chi sia caduto in errore (per la negligenza o il dolo dell’altro), chi sia stato vittima di una minaccia, ecc. possa, a suo piacimento, agire per l’annullamento/rescissione del contratto oppure tener fermo il contratto e agire in responsabilità (onde – nella sostanza – modificarne le condizioni) (18), non sembrerebbe, a prima vista, compatibile con l’assetto che l’ordinamento positivo ha conferito al principio di autonomia privata (19). E ciò per molteplici ragioni.
La prima ragione è che la tutela demolitoria, a differenza di quella risarcitoria, sembra essere la sola pienamente compatibile con il principio di autodeterminazione, su cui – piaccia o no – continua ad essere fondato il sistema del contratto (20). Per un verso, infatti, essa consente di continuare a riferire la vincolatività del contratto alla volontà di entrambi i contraenti, a misura che legittima quello di essi la cui volontà sia viziata a far cadere l’accordo ed esonera la sua controparte dal dover subire un contratto che per essere stato corretto non è stato da essa voluto (21). Per un altro verso, essa implementa il principio che al giudice non compete di fare il contratto al posto delle parti, mentre un risarcimento del danno concesso in permanenza del contratto viziato (22) finirebbe necessariamente per acquisire, in un’economia dove tutto è traducibile in denaro, una portata puramente e semplicemente modificativa delle ragioni di scambio che non può sfuggire a nessuno (23).
La seconda ragione è che una tutela risarcitoria che si desse contemporaneamente alla permanenza in vita del contratto si risolverebbe in una sorta di “convalida onerosa” (per l’altro contraente). In proposito si consideri quanto segue.
(18) Di “diritto di scelta” parla adesso X. Xxxxxxx, op. loc. citt.
(19) Già così sotto il Cod. civ. del 1865 si v. X. Xxxxxxxx, Xxxxx cosiddetta culpa in contahendo, in Xxxxxxxxxx, 1900, 724.
Rispetto al Codice del 1942 questa incompatibilità è ribadita, tra gli altri, da X. Xxxxxx, Colpa «in contrahendo» e prescrizione (nota a Cass., 12 gennaio 1954), in Foro it., !954, I, 432 ss.; X. Xxxxxxxxx, La reticenza nella formazione dei contratti, Milano, 1972, 175; e X. Xxxxxxxx, Rapporti non vincolanti e regole di correttezza, Milano, 1977, 304 ss.
(20) Essendo ovvio che tra il principio di autodeterminazione (e cioè il principio dell’autonomia privata) e le tradizionali dottrine volontaristiche del contratto non c’è coincidenza, sicché sarebbe solo ingenuo scambiare la crisi di queste dottrine con la crisi del principio di autodeterminazione, e di ciò che ad esso sta dietro: ossia niente di meno che la stessa economia di mercato (cfr. in proposito X. Xxxxx, «Culpa in contraendo» e determinazione del danno risarcibile (nota a Cass. 23 aprile 1947), in Giur. compl. Cass. civ., 1947, III, 434; ma v. infra nel testo).
(21) Cfr. in proposito X. Xxxxxxxxxx, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, 270 ss.
(22) Xxxxxx per come viene concepito e determinato da questa dottrina.
(23) E d’altronde, questo, per l’appunto, è l’obbiettivo dichiarato di quest’operazione interpretativa: cfr. X. Xxxxx in X. Xxxxx
– X. Xx Xxxx, op. cit., 622 e passim.
Chi, deducendo un fatto che integra una causa di invalidità, si limitasse a denunciare l’illiceità della condotta che vi ha dato luogo ed a richiedere il risarcimento del danno subito non potrebbe, poi, agire per l’invalidazione del contratto. Diversamente infatti, se una volta ottenuto
– come si dovrebbe ritenere scontato (24) - il risarcimento del pieno interesse positivo (soggettivamente perseguito), l’errante o la vittima della violenza, del dolo o dell’altrui approfittamento del proprio stato di necessità o di bisogno potessero, successivamente, chiedere anche l’invalidazione del contratto, si farebbe luogo ad una inammissibile duplicazione della tutela: l’interesse leso dal vizio che affligge il contratto verrebbe tutelato due volte, per equivalente attraverso l’azione di responsabilità e (usando l’impropria terminologia di questa dottrina) in forma specifica attraverso il successivo esperimento dell’azione di invalidità. Dallo scontato effetto preclusivo che l’esperimento dell’azione di responsabilità eserciterebbe sull’azione di invalidazione, discende, quindi, che la domanda di risarcimento implicherebbe necessariamente la convalida “tacita” (25) del contratto viziato.
Ciò impone di riformulare i termini nei quali questa dottrina va considerata. Il problema dell’esperibilità alternativa dell’azione di danni in presenza di un contratto invalido sta, a questo punto, nella compatibilità tra convalida e risarcimento e si riassume, perciò, nella questione: se chi ha convalidato un contratto possa tuttavia agire per il risarcimento del danno che la sua conclusione gli avrebbe tuttavia procurato.
Ora una tale convalida, che aggiunge all’utilità del contratto con essa confermato il ristoro delle disutilità che la sua conclusione aveva in un primo momento fatto registrare, dà vita ad una (sorta di) convalida onerosa, che fuoriesce dalla giustificazione sistematica propria di quest’istituto. La convalida, infatti, trova la sua ratio nella doppia valutazione che chi se ne avvale (26) alla fine giudica conveniente il contratto nonostante inizialmente lo abbia concluso per errore, sotto l’impulso di una minaccia, ecc. (27) e che chi la subisce non ha di che lamentarsi
(24) Ed infatti, dal fatto che il fondamento del rimedio risarcitorio sia indicato nell’art. 2043, segue che il danno dovrà commisurarsi alla lesione della libertà contrattuale che ne determina l’«ingiustizia» e, per tal via, all’interesse (positivo) che il contraente, esercitando tale liberta, aveva affidato al contratto “viziato” e che proprio a causa della violazione di tale libertà rimane deluso. Un tal risarcimento, dunque, non guarda all’interesse oggettivamente programmato nel contratto bensì al “diverso” interesse soggettivamente perseguito dal contraente vittima della scorrettezza dell’altro (v. infra nel testo). Per questo la prospettiva di chi intende questo risarcimento come una semplice “correzione” del contratto invalido è sbagliata ed è indebitamente tratta dal paradigma dell’art. 1440 che ha, invece, tutt’altro senso e tutt’altra funzione (v. infra, par. succ.).
(25) In questo senso anche X. Xxxxx – X. Xxxxx, La responsabilità precontrattuale, cit., 223.
In generale sulla “convalida tacita” v. X. Xxxxxxxxx – X. Xx Xxxx, Dell’azione di annullamento - Artt. 1441-1446, in Il Codice civile commentato diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2009, 182 ss.
(26) In quanto “miglior giudice dei propri interessi”.
(27) Non sembra condivisibile al riguardo la considerazione di X. X’Xxxxx, La responsabilità precontrattuale, in Trattato del contratto diretto da X. Xxxxx, V, I rimedi – 2, Milano, 2006, 1033, nt. 72, secondo cui «E’ ben vero che la convalida è di regola sintomo che il contraente valuta il contratto come per lui non pregiudizievole. Ma ciò può affermarsi solo come presunzione di fatto (corrispondente all’id quod plerumque accidit), non potendosi escludere in assoluto che la scelta di mantenere
proprio perché non patisce altro effetto che quello di rimanere vincolato allo scambio che aveva accettato (28).
Dunque, il porre nella disponibilità del contraente la cui volontà sia “viziata” l’alternativa tra l’esperimento dell’azione di invalidità del contratto (accompagnata – se del caso – dal risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338) e la promozione di un’azione aquiliana (accompagnata necessariamente dall’implicita convalida del contratto invalidabile) sembra contraddire un assetto dei rapporti generali tra rimedi demolitori e rimedio risarcitorio (= quello che dà l’alternativa tra invalidare il contratto o tenerlo fermo senza ulteriori pretese) che corrisponde ai principi dell’autonomia privata e, segnatamente, alla logica profonda secondo la quale per mezzo di essa è organizzata la circolazione della ricchezza.
Quest’ordine di riserve non può essere seriamente prevenuto ascrivendole a “condizionamenti culturali che possono legare il giurista a sistemazioni non più fruibili” o a un “dogmatismo [che] vest(e) i panni della giurisprudenza degli interessi” (29).
A ciò ostano diverse buone ragioni, tanto di c.d. metodo che di merito.
Preliminari, ovviamente, sono le ragioni che attengono a quel che un tempo si definiva (un po’ impropriamente) il piano del metodo. Anche perché quest’azzeramento dei confini tra campo delle invalidità e campo della responsabilità muove proprio da una generale concezione del diritto che si propone di smobilitare l’architettura codicistica in pro di un controllo giudiziale diffuso volto a proteggere ogni contraente, che sia rimasto “vittima” della scorrettezza o della mala fede dell’altro, nel modo che più si conforma alle sue aspirazioni.
Ebbene, deve ritenersi del tutto scontato che il diritto è un sistema assolutamente artificiale deputato a selezionare i problemi del suo ambiente nel modo che di volta in volta gli appare più opportuno e ad apprestare loro le soluzioni che gli appaiono di volta in volta più congrue (30). E
in vita il contratto (convalidandolo) sia motivata da altre ragioni, e prescinda quindi dal danno economico subito, del quale non si vede perché dovrebbe essere precluso al contraente chiedere il risarcimento».
In realtà, la convalida non si fonda affatto su di una mera “presunzione” bensì sulla volontà, espressa o implicita, del contraente legittimato all’azione di annullamento, la quale integra niente di più e niente di meno che quel “libero e consapevole” consenso al contratto (o a quel “diverso” contratto che gli si manifesta in seguito alla scoperta dell’errore in cui era incappato o del dolo che aveva subito) che prima mancava. E’, allora, questo nuovo consenso al contratto (cfr. X. Xxxxxxx, Le invalidità, in Trattato dei contratti diretto da X. Xxxxxxxx, I contratti in generale, II, cit., 1402), e non ad una mera “presunzione di fatto”, che necessariamente incorpora un giudizio di convenienza (che ben può essere non soltanto economica come non soltanto economiche possono ben essere le ragioni che inducono alla conclusione di un negozio) rispetto al quale la pretesa di assumere tale contratto a ragione di responsabilità si dà come un venire contra factum proprium.
(28) Mentre così non sarebbe se lo scambio gli venisse modificato attraverso il risarcimento.
(29) Così X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 622.
(30) In proposito si rinvia alle analisi di X. Xxxxxxx in Sociologia del diritto, Bari, 1977; Sistema giuridico e dogmatica giuridica, Bologna, 1978; La differenziazione del diritto, Bologna, 1990; e – sia consentito – a M. Barcellona, Diritto, sistema e senso. Lineamenti di una teoria, Torino, 1996, 101 ss.
deve, perciò, ritenersi scontato che per l’ordinamento non si dava, e non si dà, alcuna necessità (ontologica o logica) che la circolazione della ricchezza sia fondata sulla volontà individuale e che tutti i problemi ai quali tale circolazione può dar luogo vengano risolti in forza di deduzioni operate a partire da un’idea di tale volontà come “esercizio del potere sovrano del contraente sulla sua sfera giuridica” e da una concezione sostantiva ed essenzialistica dei suoi vizi.
Ma deve ritenersi altrettanto scontato che decidendo di fondare la circolazione della ricchezza sulla volontà individuale, e cioè sull’accordo e sul libero scambio, il sistema giuridico ha scelto di ordinare le relazioni sociali secondo una razionalità essenzialmente procedurale (31): quella per cui la razionalità del comando normativo non sta nel suo contenuto bensì nella forma (consensuale) che esso impone alle relazioni individuali, sicché è razionale, e quindi “giusto”, tutto ciò e solo ciò che sia stato liberamente voluto, che sia rivestito della forma del reciproco consenso (32). Questa decisione, dunque, incorpora una logica funzionale, quella dell’economia di mercato che assume a proprio agente il libero scambio, la quale, però, si dà in una logica simbolica, quella del solus consensus obbligat (33). Questa positiva incorporazione della funzione (= subordinazione della circolazione della ricchezza al libero scambio e al mercato) nel simbolo (= l’autodeterminazione individuale come condizione necessaria di qualsiasi trasferimento di ricchezza con efficacia incrementativa della sfera dell’altro) implementa una logica che, in linea di massima, assegna al diritto soltanto controlli procedurali sulla formazione della volontà individuale e dell’accordo con l’altro, che tali controlli subordina all’iniziativa (e dunque alla volontà) della parte la cui volontà possa temersi “viziata” e che in esito a tali controlli fa cadere quel trasferimento di ricchezza che a sua giustificazione non possa addurre un consenso di entrambe le parti reso in conformità al procedimento che lo regola (34).
La logica funzionale dell’economia di mercato e la logica simbolica del principio di autodeterminazione individuale si dispongono così in un rapporto di coalescenza e di implicazione reciproca, che, però, non esclude affatto tensioni e turbolenze: non c’è mercato senza signoria della volontà ma non ogni corollario della signoria della volontà è sempre e necessariamente coerente con i corollari dell’economia di mercato. E poiché non vuole, né può, giungere a impiccare il mercato all’albero della volontà individuale, di fronte a queste tensioni ed a queste turbolenze l’ordinamento procede attraverso “compromessi” (tra volontà e dichiarazione / apparenza / affidamento, ecc.). Ma questi “compromessi” – ed è questo il punto – non azzerano affatto la logica simbolica dell’autodeterminazione individuale e le sue implicazioni normative ma si limitano, ordinariamente, a correggerle per quel tanto (poco o
(31) Basta rileggere le splendide pagine di X. Xxxxx, Sociologia del diritto, in Economia e società, II, Milano, 1961.
(32) In proposito v. X. Xxxxxxxxxx, Clausole generali e giustizia contrattuale, cit., 278 e più diffusamente in Diritto, sistema e senso, cit., 79 ss.. e Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 122 ss.
(33) E’ d’obbligo rinviare in proposito a X. Xxxxx, Il potere della volontà nella promessa come negozio giuridico, in Riv. dir. comm., I, 1956, 24 ss.
(34) Si rinvia a X. Xxxxxxxxxx, Clausole generali e giustizia contrattuale, cit., 276 ss.
molto che sia) che è necessario a fluidificare il suo imprescindibile rapporto con l’economia degli scambi (35). A questi “compromessi” presiede, dunque, un criterio utilitaristico (= retto dalla ragione strumentale) che privilegia le ragioni economiche della circolazione giuridica della ricchezza e che, però, può anche implementare soluzioni che, al tempo stesso, soddisfano esigenze di giustizia materiale avanzate dall’errante, dall’ingannato, dal minacciato o dall’approfittato. Ma, proprio per la loro ratio innanzitutto strumentale, questi “compromessi” non consentono affatto di mettere questa giustizia materiale al posto di quella giustizia procedurale che costituisce il codice simbolico della Modernità (36). L’interpretazione delle norme che attuano questi “compromessi” soggiace, dunque, ad un canone, ad un vincolo sistemico che le impedisce di spingersi oltre la ragione strumentale che vi presiede e di far luogo ad una loro dilatazione che giunga a risolverli in una generale manipolabilità dei rapporti contrattuali secondo una misura “etica” svincolata da qualsiasi razionalità precostituita ed intesa come questione singolare e individuale (37).
Ora, non solo la disciplina delle invalidità e l’alternativa tra l’avvalersene ed il convalidare il contratto senza ulteriori pretese si conformano – come prima si è visto – al paradigma moderno di circolazione della ricchezza e al relativo modello macroeconomico che in linea di principio rifiutano di convalidare qualsiasi trasferimento di risorse che non trovi giustificazione in un libero scambio e nel consenso di entrambe le parti (38). Ma, soprattutto, non sembra si diano ragioni reali o esigenze che non appaiano apertamente disattese dall’ordinamento le quali permettano di deviare da tale paradigma e dalla sua ratio sistemica.
In realtà, questa tesi, che sembra equiordinare in generale tutela demolitoria e tutela aquiliana e che, altrettanto in generale, sembra rimetterne la scelta alla discrezione della “vittima”, costituisce
(35) Il che nel lessico comune si designa come quella “sicurezza dei rapporti e dei traffici giuridici” di cui con qualche scetticismo parla X. Xxxxx in X. Xxxxx – G. De Nova, op. cit., 622.
(36) X. Xxxxxx, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, 1974; X. Xxxxxx, Homo Aequalis, Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Milano, 1984, passim; P. Barcellona, L’individualismo proprietario, Torino, 1987.
(37) Ovviamente, questo vincolo si dà finché l’interprete condivida con H.G. Gadamer (Verità e metodo, Milano, 1983, 385) “il fatto che il senso che si dà a comprendere si concreta e si compie solo nell’interpretazione, ma che d’altra parte questa operazione interpretativa si mantiene sempre legata al senso del testo”.
Xxxxxx, di certo, impedisce che l’interprete cessi di comprendersi come interprete e decida di rompere il “senso del testo”, di sovvertirlo e di introdurre un senso generale che contraddice il “senso del testo”. Ma sarebbe auspicabile che faccia questo sapendo quel che fa, essendosi prefigurato tutto ciò che implica quel che ha deciso di fare, dichiarando apertamente quel che in realtà sta facendo e, soprattutto, chiarendosi e chiarendo l’orizzonte di senso verso il quale così si muove: ma su questo si rinvia a M. Barcellona, Diritto, sistema e senso, cit., 202 ss. e Critica del nichilismo giuridico, cit., 218 ss. ed alla bibliografia ivi citata.
(38) Xx invero l’alternativa tra avvalersi dell’invalidità e convalidare il contratto senza ulteriori pretese ha a che vedere anche con il principio di tipicità delle fonti delle obbligazioni e con il principio dell’ingiustificato arricchimento, che tale paradigma e tale modello contribuiscono (anche) a sancire.
la teorizzazione esorbitante di un trattamento equitativo che riferito alle fattispecie minori per le quale evidentemente è pensato (= i c.d. “vizi incidenti” sui cui v. infra) propone un tipo di problema in buona parte diverso e ben più circoscritto (= v. infra) e che, invece, quando sia riferito alle ipotesi canoniche e nominate dei vizi della volontà contrattuale (= i c.d. “vizi invalidanti”) si mostra teoricamente inappropriato ed anche equitativamente ingiustificato.
Ed invero, la ratio sistemica, la quale fa dire che la tutela dei vizi della volontà si esaurisce nell’alternativa secca tra l’avvalersi del rimedio demolitorio (39) ed il convalidare il contratto senza ulteriori pretese, corrisponde ad un trattamento delle parti coinvolte nel contratto viziato che tiene conto delle loro posizioni reciproche anche sul piano – per così dire – microeconomico degli “interessi in gioco”.
A ben vedere, infatti, le ragioni della “vittima”, che dovrebbero indurre a riconoscere che “annullamento e risarcimento operano alternativamente o cumulativamente a favore dello stesso soggetto per … cancellare un’ingiustizia”, appaiono bilanciate, dal lato della controparte, dal principio che l’invalidabilità di un contratto non può legittimare comportamenti opportunistici del contraente a protezione del quale è disposta, ossia non può costituire il pretesto per lucrare un surplus nel nome di una iniziale disutilità (del contratto) che si è successivamente riconosciuta insussistente, né tanto meno per imporre all’altro contraente un doppio scambio, quello “non voluto” che (non facendone valere l’invalidità) si convalida e quello “creduto” che si pretende di veder compensato per equivalente.
La considerazione delle ipotesi di errore essenziale previste dall’art. 1429 si mostra in proposito illuminante.
Si consideri, innanzitutto, il caso di errore “sull’identità o sulla qualità dell’altro contraente” previsto dal n. 3. La disutilità che legittima chi fosse caduto in un tale errore per la negligenza della controparte o a causa del suo inganno a richiedere l’annullamento del contratto sta nel fatto che se l’errante avesse saputo a chi stava realmente affidando la realizzazione dei suoi programmi non avrebbe concluso l’accordo. Ma è evidente che siffatta disutilità si mostra interamente riassorbita dalla sua convalida a misura che questa inconfutabilmente sancisce che, se anche inizialmente la loro conoscenza sarebbe stata ostativa della conclusione del contratto, tuttavia la reale identità o l’effettiva qualità dell’altro contraente risultano, seppur ex post, irrilevanti rispetto al soddisfacimento dell’interesse che muoveva alla conclusione del contratto. Rispetto ad un tal tipo di errore, allora, la possibilità di esperire un’azione di risarcimento ex art. 2043, nonostante la conferma del contratto, trasforma tale vizio in un mero pretesto per lucrare opportunisticamente un surplus che economicamente si mostra del tutto ingiustificato (40).
Ma ad analoghe conclusioni si giunge anche considerando i casi di errore “sull’oggetto del contratto” o “sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità [essenziale]
(39) Con l’aggiunta del risarcimento – ove ne ricorrano le condizioni - del c.d. interesse negativo ex art. 1338.
(40) Non vale in contrario rilevare che in tal caso l’azione di risarcimento sarebbe rigettata per l’assenza del pregiudizio. L’esempio, infatti, serve a mostrare le ragioni per quali è sensato che l’ordinamento, già in radice, abbia escluso il cumulo di convalida e risarcimento.
dello stesso” previsti, rispettivamente dai n. 1 e 2. La disutilità che legittima ad esperire l’azione di annullamento qui consiste nel fatto che l’errante (sempre per la negligenza della controparte o a causa del suo inganno) ha preso fiches per fichi, trovandosi così ad aver acquistato una partita di gettoni invece che una partita di frutta secca, o un festone per una grande festa, scoprendo poi di aver così prenotato una ghirlanda invece che la partecipazione al cenone di capodanno, o bergamotti per agrumi come gli altri commestibili, accorgendosi poi che si possono utilizzare solo per trarne un’essenza. Questi esempi mostrano, allora, che se si desse la possibilità di pretendere ex art. 2043 il risarcimento del c.d. interesse positivo perseguito attraverso il negozio che si era creduto di concludere e, al tempo stesso, di tener fermo il programma negoziale erroneamente convenuto, si darebbe all’errante di veder compensato per equivalente l’interesse contrattuale originariamente perseguito (attraverso il risarcimento delle aspettative deluse dalla violazione della sua libertà contrattuale) e di operare opportunisticamente per conseguire (attraverso la convalida implicita del contratto viziato) un sopravvenuto interesse ulteriore quale quello di trattenere la partita di fisches, ad es., per rivenderla ad un prezzo superiore o di pretendere la consegna della ghirlanda perché, ad es., avendo preferito organizzare il cenone a casa propria, gli viene buona per addobbarla o di confermare l’ordine dello stock di bergamotti perché, ad es., ha trovato conveniente estendere le sue attività alla produzione di essenze. Segnatamente, quel che questi esempi (magari di per loro un po’ improbabili) mostrano è che quest’altro tipo di errori implica necessariamente una divergenza tra l’interesse soggettivamente perseguito (dall’errante) (o “interesse reale”) e l’interesse oggettivamente programmato (nel contratto) (o “interesse regolato”) (41), la quale fa sì che il cumulo del rimedio risarcitorio ex art. 2043 e della conferma del negozio viziato, altrettanto necessariamente, si risolva nel paradosso di una ragione di invalidità che partorisce una doppia efficacia negoziale: quella che si esprime nella tutela per equivalente dell’interesse soggettivamente perseguito (= l’id quod interest corrispondente a quel che l’errante avrebbe voluto e che l’errore gli ha fatto mancare) e quella che si compie nella conferma dell’interesse oggettivamente programmato (= quel che il contratto convalidato gli dà sebbene inizialmente non lo avesse voluto). E dimostrano, inoltre, che l’esclusione di un tal cumulo ha il senso precipuo di impedire il comportamento opportunistico dell’errante (42) che, invece di esperire l’azione di annullamento ed accontentarsi del risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338 (che lo ristora integralmente di ogni pregiudizio conseguente al fallimento del contratto), incassa ex art. 2043 il pieno ristoro risarcitorio dell’interesse che l’errore ha lasciato deluso e xxxxx in più, del tutto
(41) V. in proposito X. Xxxxxxxxxx, Errore (dir. priv.), in Enc. del dir., Milano, 1966, 253 ss.
Ma ciò emerge chiaramente anche da X. Xxxxx in R: Xxxxx – G. De nova, op. cit., 573, ove si legge che iIl dolo è determinante quando induce la vittima a procurarsi un bene o un servizio di cui non ha bisogno (o a privarsi di un bene che gli è necessario)”.
(42) Del quale si è costretti a prendere atto quando si avverte che la scelta tra annullamento e responsabilità incontra il “limite per cui la vittima non può adoperare il contratto annullabile tenendolo in vita apposta per fabbricarsi in tal modo perdite che altrimenti non esisterebbero” (così X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 573).
ingiustificatamente, la soddisfazione di quel diverso interesse che può essere legato ad un altro oggetto del contratto (= un oggetto di altra identità), ad un’altra prestazione (= una prestazione il cui oggetto abbia una diversa identità) o ad un bene o servizio qualitativamente diversi (= quel bene o servizio che è identificato dalla qualità essenziale che lo connota e che è diversa da quella che identificava il bene o servizio per il quale l’errante aveva manifestato il proprio consenso).
Ma a conclusioni simili si giunge anche considerando le ipotesi di violenza.
Le possibili ragioni di chi assume di aver concluso un contratto solo a cagione delle minacce della controparte o di un terzo appaiono interamente coperte dall’annullamento del contratto e dal risarcimento del c.d. interesse negativo (ossia dei costi affrontati per il trasferimento del bene, dei frutti non percepiti fino alla sua restituzione e delle eventuali occasioni di guadagno che la sua indisponibilità gli avesse impedito di cogliere). In queste condizioni la decisione di tenere, invece, fermo il contratto non potrebbe avere altra spiegazione che la convenienza in ultima istanza dell’operazione subita, la quale, però, fa escludere qualsiasi pregiudizio residuo (43). Sicché un’azione aquiliana che, mantenendo fermo il contratto, deducesse la violazione della libertà negoziale di chi è stato minacciato non varrebbe a recuperare una sua ricchezza perduta o comunque irrecuperabile e si presterebbe, invece, solo a strategie opportunistiche.
Dunque, nel caso dell’errore (di cui l’errante non sia stato negligentemente avvertito), del dolo e della violenza l’alternativa secca tra l’annullamento del contratto accompagnato dal risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338 e la sua convalida senza ulteriori pretese si spiega, anche a livello microeconomico, con la considerazione che la conferma del contratto “viziato” e la possibilità, al contempo, di agire ex art. 2043 per conseguire per equivalente il ristoro dell’interesse deluso si presterebbero, inevitabilmente, a strategie opportunistiche atte ad operare ingiustificati trasferimenti di ricchezza (44).
D’altronde, una conferma testuale di questa direttiva dell’ordinamento si ricava anche dalla disciplina del c.d. quarto vizio della volontà (= le ipotesi di rescissione).
L’art. 1447, evidentemente, assume come casus legis quello che le obbligazioni assunte da chi versa in stato di pericolo si prospettino come corrispettivo di un fare della controparte inteso a scongiurarlo. Rientra, altresì, nella fattispecie presa in considerazione da tale norma la circostanza che questa prestazione di soccorso della controparte sia stata già eseguita. Il dispositivo della rescissione del contratto (1° comma) e dell’equo compenso (2° comma) si risolve, allora, in una semplice correzione dello scambio tra prestazione di soccorso e corrispettivo per essa convenuto, la quale rinviene la sua spiegazione nella considerazione che la prestazione è già stata effettuata e che, perciò, l’ordinario rimedio della caducazione del
(43) Xxxxx che chi abbia subito la minaccia xxxxxx non che non avrebbe concluso il contratto bensì che non lo avrebbe concluso al corrispettivo che ha dovuto subire: qui, però, si verserebbe nel diverso caso della c.d. violenza incidentale su cui
v. infra nel par. successivo.
(44) Non solo – come è evidente – dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista di quella stessa “giustizia contrattuale” nel nome della quale questa possibilità è invocata: un’ingiustizia non si “cancella” autorizzando un’ingiustizia di ritorno, e cioè autorizzando la vittima a locupletare sul torto subito.
contratto si mostrerebbe impraticabile e del tutto insensato. Ma si ritiene per lo più che il rimedio dell’art. 1447 possa riferirsi anche al caso diverso che il contratto che si sia accettato “per la necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” consista, invece, nella promessa di un bene contro un corrispettivo assolutamente diverso dall’opera svolta (ad es., ti salvo “gratuitamente” ma a condizione che tu mi venda magari al “giusto prezzo” il De Xxxxxxx che possiedi e che non mi hai mai voluto vendere) (45). Il trattamento giuridico che dovrebbe seguire all’applicazione del dispositivo dell’art. 1447 a questa diversa ipotesi consisterebbe, allora, in ciò: che l’unico rimedio esperibile sia quello della caducazione del contratto concluso sull’impellenza della situazione di pericolo e che, tuttavia, alla controparte, che eventualmente si sia adoperata per scongiurarla, spetti comunque un “equo compenso”, anche quando maliziosamente si sia approfittata di tale situazione per far proprio un accordo che diversamente non sarebbe riuscita a concludere. Ora, un tal trattamento di questa diversa ipotesi non sembra possa essere accantonato in pro di una correzione dello scambio ottenuta per la via indiretta di un’azione di risarcimento E perché questa ipotesi è assolutamente irriducibile a quella del casus legis ed alle ragioni (= l’essere la sperequazione interna al rapporto tra corrispettivo e prestazione di soccorso e, soprattutto, la già avvenuta effettuazione di tale prestazione) che in essa suffragano il rimedio correttivo. E perché, al contrario, non si rinviene in capo alla “vittima” alcun interesse (non opportunistico) alla conservazione di un contratto che le è stato estorto e rispetto al quale (la rescindibilità per) lo stato di pericolo si presenterebbe solo come un’occasione per un affare che diversamente non si sarebbe mai concluso: la protezione di un tale interesse, perciò, rischierebbe solo di assecondare una strategia opportunistica della “vittima” (che, scongiurato il pericolo, decide di approfittare, a sua volta, dell’affare correggendone il corrispettivo).
Ed ancor più esplicito è, al riguardo, il combinato disposto degli artt. 1451 e 1450, che, rispettivamente, escludono la convalidabilità del contratto concluso in stato di bisogno e rimettono esclusivamente all’approfittatore di evitare la rescissione offrendo di ricondurre lo scambio ad equità. Queste disposizioni espressamente impongono a chi abbia concluso un contratto in siffatta situazione di avvalersi esclusivamente del rimedio meramente demolitorio della rescissione. Espressamente gli precludono, infatti, il risultato (che, tutt’al contrario, riservano a chi di tale situazione si sia approfittato) di tener fermo il contratto (con la convalida
(45) A questo proposito v. per tutti X. Xxxxxxx, La rescissione del contratto. Art. 1447-1452, in Il Codice civile. Commentario diretto da X. Xxxxxxxxxxx, Milano, 2000, 25 ss., in critica all’opinione di X. Xxxxxxxxx, La rescissione del contratto, Napoli, 1952, 262, che limitava l’ambito di applicazione della norma alle ipotesi di “contratto di salvataggio”, ossia ai casi in cui la prestazione consistesse nel fare necessario a togliere dalla stato di pericolo.
E d’altronde, sembrerebbe difficile negare che abbia accesso in qualche modo al rimedio dell’art. 1447 un contratto che sia stato estorto in forza dello stato di pericolo in cui versava un contraente anche quando lo scambio con esso convenuto non concernesse la prestazione di fare che da tale pericolo lo ha salvato bensì (anche) un bene o un servizio diversi (ad es., ti darò il salvagente che ti salverà dall’annegamento se mi venderai la barca che è affondata). E ciò sebbene il requisito delle “condizioni inique” appaia in un caso siffatto non proprio giustificato.
o lasciando inutilmente decorrere il termine per impugnarlo) conseguendo, al tempo stesso, il riequilibrio dello scambio (per via risarcitoria). Un’azione del contraente in stato di necessità o di bisogno, che, invece della caducazione del contratto o dopo la prescrizione dell’azione di rescissione, deducesse l’approfittamento del proprio stato di bisogno e la conseguente violazione della propria libertà contrattuale per esser risarcito ex art. 2043 del danno consistente nella differenza tra corrispettivo convenuto e prezzo di mercato del bene ceduto, troverebbe, perciò, nel dispositivo apprestato da queste disposizioni un ostacolo certamente insormontabile. Un ostacolo che, ancora una volta, non ha altra ragione che il proposito di impedire che lo stato di bisogno possa essere opportunisticamente trasformato in uno strumento di “assistenza coattiva” (46) ancorché a carico di chi maliziosamente abbia provato ad approfittarne.
Dunque, la repressione della negligenza sull’ ”errore essenziale” della controparte e dello stesso inganno che la abbia indotta in un errore siffatto non tollera che il rimedio demolitorio possa essere surrogato, a discrezione della “vittima”, da un’azione aquiliana che, tenendo fermo il negozio “viziato”, miri al contemporaneo ristoro del “diverso” interesse in origine soggettivamente perseguito che il “vizio” ha lasciato deluso. Così come la repressione della minaccia e dell’approfittamento dell’altrui stato di pericolo o di bisogno non tollera che questi comportamenti negoziali scorretti possano trasformarsi per la loro “vittima” in pretesti per incassare i benefici di un contratto che le è stato estorto e provare, al tempo stesso, a perseguire per via aquiliana un surplus, un beneficio ulteriore a carico della controparte scorretta che apparirebbe ingiustificato (o in ragione dell’acquiescenza prestata al contratto o in ragione della funzione assistenziale cui la sua correzione giudiziale lo piegherebbe).
(46) La correzione del contratto (anche per via risarcitoria) equivale, infatti, ad imporre alla controparte l’acquisto di un bene, la vendita del quale risolve i problemi di chi versa in stato di bisogno: il che non si limita a privare l’approfittatore del maltolto ma si spinge fino a trasformarlo coattivamente in benefattore della vittima.
D’altronde, non si deve dimenticare che il Progetto ministeriale conteneva un’altra disposizione, l’art. 210, comma 6, la quale conferiva al giudice la facoltà di disporre un’equa modificazione delle condizioni del contratto, la quale fu soppressa dalla Commissione delle Assemblee Legislative proprio perché giudicata “inopportuna”.
In realtà, la correzione del contratto verrebbe incontro ad un apprezzabile interesse dell’approfittato quando il suo stato di bisogno non abbia carattere temporaneo: non si dimentichi, infatti, che la rescissione comporta la restituzione del corrispettivo ricevuto cui l’approfittato potrebbe non essere ancora in grado di provvedere. Sarebbe ingenuo, però, pensare che questo sia sfuggito al Legislatore, il quale, al contrario, escludendo un tale rimedio ha inteso piuttosto evitare che per questa xxx xx xxxxxxxx un circuito contrattuale retto coercitivamente da una logica assistenziale: tra il “bisognoso” e l’“approfittatore” si conclude una vendita solo perché il prezzo è “stracciato” e poi il “bisognoso” recupera l’intero valore vincolando l’“approfittatore” ad uno scambio che questi probabilmente non avrebbe concluso, e così obbligandolo ad un “acquisto di soccorso” cui non era certo intenzionato.
Certo, dell’opportunità di questa scelta del Legislatore si può anche discutere, ma non si può negare che essa risponda ad una qualche razionalità.
In tutti questi casi l’annullamento o la rescissione del contratto ed il risarcimento del c.d. interesse negativo ex art. 1338 offrono alla “vittima” una copertura assolutamente integrale, sicché la possibilità di rinunciarvi e di optare per una “convalida onerosa”, che al mantenimento del contratto accompagni l’esperibilità di un’azione aquiliana, non varrebbe ad integrare un deficit sistematico di tutela e si presterebbe, invece, a strategie opportunistiche (47).
Ma – come dovrebbe essere chiaro – le strategie opportunistiche che per lo più animerebbero l’opzione aquiliana della vittima (oltre che privare di non poche ragioni una soluzione – per così dire - iperpunitiva del contraente scorretto) attivano un principio generale del sistema giuridico che dà conto della esclusività del rimedio demolitorio coadiuvato dal risarcimento del c.d. interesse negativo: Thus the fundamental function of contract law (and recognized as such at last since Xxxxxx’x day) is to deter people from behaving opportunistically toward their contracting parties (48).
E le strategie opportunistiche sono sistematicamente contrastate dall’ordinamento proprio per impedire fenomeni – che nell’analisi economica del diritto si dicono - di hold-up, ossia per impedire che un contraente si appropri di benefici che non gli spettano in pregiudizio della controparte (49).
(47) Di questo rischio si avvedono i sostenitori del “diritto di scelta” tra invalidità e responsabilità e, perciò, si affrettano a precisare (X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 573) che “chiunque sia vittima di un raggiro può chiedere il risarcimento del danno in aggiunta o in sostituzione dell’annullamento, con il solo limite per cui la vittima non può adoperare il contratto annullabile tenendolo in vita apposta per fabbricarsi in tal modo perdite che altrimenti non esisterebbero”.
Ovviamente, non si può escludere che si diano casi (v. infra nel testo) nei quali una simile opzione della “vittima” possa non corrispondere necessariamente ad una strategia opportunistica. Ma la funzione del sistema giuridico è proprio quella di risolvere i problemi del suo ambiente attraverso semplificazioni (= la struttura generale ed astratta dei suoi precetti) ed ogni semplificazione ha necessariamente un costo che consiste nel trattamento indifferenziato dei casi marginali che, a rigore, potrebbero non rientrare pienamente nella ragione che la sorregge. Rispetto alla questione qui considerata, peraltro, questo costo appare bassissimo perché la caducazione del contratto ed il risarcimento ex art. 1338 offrono alla “vittima” – come si è detto – una copertura pressoché integrale. Sicché un tal costo non sembra possa giustificare l’abbandono di questa semplificazione normativa (= l’alternativa secca tra invalidazione e convalida) in favore di una soluzione, quella che in via generale dà l’opzione tra invalidità e responsabilità, la quale affiderebbe il campo economicamente sensibile dei rimedi contro i “vizi” della volontà ad una sorta di giustizia del Cadì.
(48) Così X. Xxxxxx, Economic analysis of law, New York, 1998, 103 ss.
(49) O.E. Xxxxxxxxxx, Le istituzioni economiche del capitalismo, Milano, 1987, 129 ss., spiega che “per opportunismo intendo il perseguire con astuzia finalità egoistiche” e, dopo aver precisato che “l’opportunismo non si limita alle sue forme più appariscenti quali mentire, rubare e imbrogliare”, conclude che “ l’insegnamento più importante per i fini dello studio dell’organizzazione economica è questo: se si possono escogitare adeguate salvaguardie ex ante, le transazioni, che sono esposte all’opportunismo, ex post ne beneficeranno”. Il principio dell’alternativa tra invalidazione e convalida si inscrive, per l’appunto, in queste “salvaguardie ex ante”.
Ma sulle ragioni specifiche della repressione delle condotte opportunistiche rispetto al rischio di ingiustitificati trasferimenti di ricchezza da una parte all’altra v., specificamente, X. Xxxxx, Hold-Up problem, in X. Xxxxxx, Palgrave Dictionary of Economics and the Law, II, London, 241 ss.
E’, però, verosimile, e traspare chiaramente dall’ argomentazione che la supporta, che questa dottrina intesa ad equiordinare il rimedio risarcitorio al rimedio demolitorio ed a rimetterne la scelta alla “vittima” del comportamento scorretto si riferisca a fattispecie – per così dire – minori, dove il “vizio” non giunge a configurare una divergenza tra l’interesse soggettivamente perseguito dall’errante o dal deceptus e l’interesse oggettivamente programmato nel contratto o dove la minaccia o l’approfittamento non appaiono ab initio incompatibili con i propositi che il minacciato o l’approfittato nutrivano a proposito degli assetti del loro patrimonio. Come, peraltro, sembrerebbe confermato dalla circostanza che l’obbiettivo dichiarato dell’azione risarcitoria è quello di permettere una correzione dell’equilibrio contrattuale.
Va, quindi, detto che le critiche che a tale dottrina si sono rivolte potrebbero sembrare improprie ove il suo oggetto si dovesse circoscrivere a queste “fattispecie minori”. Esse, però, valgono a dimostrare tre cose che è importante mettere in chiaro e sottolineare.
La prima cosa è che l’equiordinazione del rimedio aquiliano a quello demolitorio è assolutamente improponibile quando si versi in fattispecie che rientrano nei “vizi nominati” del consenso (= l’errore essenziale dell’art. 1429, di cui l’errante non sia stato negligentemente avvertito dalla controparte o nel quale sia stato indotto dall’inganno di questa, la minaccia che abbia determinato alla conclusione di un contratto che non rientrava già nei programmi della “vittima”, le condizioni inique di un contratto carpito approfittando di uno stato di necessità o la lesione ultra dimidium di uno scambio ottenuto approfittando di uno stato di bisogno).
La seconda cosa è che qualsiasi teorizzazione di rimedi correttivi che muova da una tale generale equiordinazione è manifestamente esorbitante (50), oscura i reali rapporti sistematici tra invalidità e responsabilità e, perciò, non sembra possa essere condivisa. Come non possono essere condivise quelle enunciazioni giurisprudenziali che – come in passaggi di Cass. civ. n. 20260/2006 - in via generale sembrano affermare che «il contraente, il cui consenso risulti viziato … può richiedere il risarcimento del danno conseguente all’illecito … senza proporre contemporaneamente domanda di annullamento del contratto».
Segnatamente, il rischio di hold-up spiega non solo le discipline di dolo, errore, violenza, deficienze informative, ecc. ma spiega, in egual modo, le ragioni per cui l’opportunismo della parte che abbia agito scorrettamente non legittimi la parte che lo abbia subito ad un opportunismo di ritorno (Xxxxx, Opportunistic behavior and the law of contracts, in Minnesota Law Rev., 1981, 521 ss.; ma v. in proposito l’efficace e ricco quadro generale messo a punto da X. Xxxxxx – X. Xxxxxx – P.G. Monateri – X. Xxxxxxxxx – X. Xxxx, Il mercato delle regole. Analisi economica del diritto civile, Bologna, 1999, 259 ss. e le analisi di X. Xxxxxx – X. Xxxxxx, Economia dei contratti, Roma, 2005).
(50) Significativa al riguardo è la posizione di X. Xxxxxxx, La responsabilità precontrattuale per violazione di obblighi di informazione, in Trattato della responsabilità contrattuale diretto da X. Xxxxxxxxx, I, Inadempimento e rimedi, Padova, 2009, che dopo aver sostenuto in generale il diritto di scelta tra annullamento e conservazione del contratto (765 ss.), quando poi passa a discutere dei criteri di determinazione del risarcimento finisce per considerare esclusivamente ipotesi di errore (procurato o colpevolmente non rilevato dalla controparte) che incidono non sull’identità ma solo sul valore dell’oggetto del contratto (ma v. già in Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, cit.).
La terza cosa è che le “fattispecie minori” (= quelle dei c.d. “vizi incidenti” su cui v. infra), rispetto alle quali questa esorbitante teorizzazione è stata verosimilmente pensata, propongono, in realtà, un tipo di problema del tutto specifico e molto diverso da quello che si propone nelle fattispecie dei “vizi nominati” (= invalidanti).
Precisamente, nelle fattispecie dei “vizi nominati” si tratta di situazioni nelle quali – come si è visto - vi è una divergenza tra l’interesse soggettivamente perseguito e l’interesse oggettivamente programmato o è stato concluso un contratto ab initio incompatibile con i propositi della “vittima”, ecc. Il tipo di problema che in tali ipotesi si propone concerne, perciò, casi nei quali la “vittima” si approprierebbe di un’utilità diversa (= fisches per fichi, festoni per cenoni, ecc.) da quella che l’aveva indotta a concludere il contratto o di un un’utilità cui assume di non essere stata interessata (= il corrispettivo dell’orologio del padre alla cui vendita senza le minacce mai avrebbe acconsentito), ecc.
In quelle che si sono dette “fattispecie minori” (o – meglio – in quelle di esse riconducibili ai “vizi incidenti”: v. infra), invece, si tratta, tutt’al contrario, di situazioni ove si dà solo una imperfetta sovrapponibilità dell’interesse soggettivamente perseguito e dell’interesse oggettivamente programmato (nelle quali, in altri termini, non si fa questione di un diverso oggetto del contratto o della prestazione o della mancanza delle qualità che ne designano tipicamente il valore d’uso e che li fanno assegnare a differenti settori merceologici) o dove il tipo di contratto concluso può ritenersi già inscritto nel quadro dei programmi della vittima, ecc., ossia, e in generale, di situazioni nelle quali il comportamento scorretto della controparte ha giocato solo sulla rappresentazione che una parte si era fatta (in relazione a quel che avrebbe dato o a quel che avrebbe ricevuto) della convenienza dell’operazione programmata o solo sull’accettazione di ragioni di scambio cui diversamente non avrebbe acconsentito.
Il tipo di problema che in tali diverse ipotesi si propone non concerne, perciò, l’appropriazione di un’utilità diversa o di un’utilità cui non si era all’inizio interessati, bensì il carattere incompleto dell’appropriazione che un contraente ha subito per la scorrettezza della sua controparte: l’esigenza, che, nelle ipotesi per le quali è stata pensata, questa correzione per via risarcitoria del contratto è destinata a soddisfare, è quella di un contraente che ha dato di più di quel che in cambio gli è stato pagato o ha ricevuto di meno di quel che ha pagato.
Ma su questo tipo diverso di problema si ragiona appropriatamente non mescolando in generale invalidità e responsabilità, bensì entro il cerchio ristretto del tradizionale principio di irrilevanza dell’errore sulla convenienza (51) e della ragione e dei limiti dell’art. 1440 che conferisce rilevanza solo risarcitoria al dolo incidente, ossia entro quell’ambito ristretto che va sotto il nome di c.d. dottrina dei vizi incompleti.
3.- (segue) rimedio risarcitorio e contratto valido: sulla dottrina dei c.d. vizi incompleti e sulla loro generale tutela risarcitoria.
(51) Per una prima informazione in proposito si v. X. Xxxxxxxx, L’errore nel contratto – Artt.1427-1433, in Il codice civile – Commentario fondato da X. Xxxxxxxxxxx e diretto da F.D. Xxxxxxxx, Milano, 2004, 67 ss., alla cui bibliografia si rimanda.
La tesi che si debba riconoscere in generale un diritto della “vittima” di scegliere tra l’invalidazione del contratto ed un rimedio risarcitorio accompagnato dalla conservazione del negozio invalido si basa su di una incontrollata semplificazione del sistema normativa e va certamente disattesa. E tuttavia, si dà un ambito limitato nel quale il ricorso al rimedio risarcitorio potrebbe sembrare, almeno a prima vista, plausibile.
Come si è detto, infatti, questa tesi, che nella formulazione generale con cui viene prospettata si mostra insostenibile, in realtà appare pensata e promossa in funzione di una correzione del contratto che lo riconduca ad equità (52). Ma il campo di applicazione, ove si può immaginare quest’uso correttivo (impropriamente) attribuito all’azione aquiliana, appare ristretto a quelle ipotesi soltanto ove si può sensatamente porre un tal tipo di problema. Ora, un tal tipo di problema sembra proponibile in quelle ipotesi soltanto ove il vizio della volontà abbia inciso essenzialmente sulle ragioni di scambio convenute dalle parti. Queste ipotesi sono, perciò, costituite, nella sostanza, dai casi in cui si dia un’erronea rappresentazione dell’oggetto negoziale che non giunga ad interessarne l’identità ma concerna solo una sua qualità (53) rilevante solo ai fini della determinazione del suo corrispettivo (ad es.: una sua qualità non “essenziale”, un difetto, ecc.) o si dia una erronea rappresentazione di circostanze ad esso (esterne ma) relative che ne possano influenzare il valore di scambio (ad es.: la situazione patrimoniale di una società rispetto alla cessione delle relative quote o azioni, ecc.), nonché dai casi ove la determinazione negoziale abbia subito indebite influenze (ad es.: timori, soggezioni, impellenze economiche, ecc.) le quali, però, si siano limitate a condizionare la pattuizione del corrispettivo (54).
Nella sostanza, dunque, l’ambito limitato, nel quale il rimedio risarcitorio potrebbe sembrare, a prima vista, appropriato rispetto alle finalità essenzialmente perequative che gli si vorrebbero assegnare, è rappresentato dalle ipotesi in cui sembri possibile sostenere che i turbamenti subiti dal processo di formazione della volontà di una parte non siano giunti ad attingere la soglia delle invalidità e tuttavia l’abbiano spinta a concludere un contratto a condizioni differenti da quelle alle quali, diversamente, lo avrebbe concluso.
(52) Per tutti X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 621 e passim.
(53) La quale non sia tale da retroagire sulla identità dell’oggetto del contratto o della prestazione (cfr. X. Xxxxxxxxxx, Errore, cit., 621 ss. e 671 ss.).
(54) Come prima si è visto, infatti, quando l’erronea rappresentazione concerna l’identità dell’oggetto del contratto o della prestazione o qualità tali da retroagire sulla loro identità ovvero quando le indebite influenze giungano ad integrare una violenza ai sensi dell’art. 1435 o un approfittamento dello stato di bisogno ai sensi dell’art. 1448, allora il tipo di problema che il vizio propone non concerne le ragioni di scambio ma l’utilità stessa dello scambio, sicchè il ricorso al rimedio risarcitorio invece che al rimedio xxxxxxxxxxx non potrebbe assolvere ad una funzione perequativa dello scambio ma si presterebbe, invece, alle strategie opportunistiche che si sono illustrate nel par. prec.
Ciò spiega perché la tesi della generale fungibilità di rimedio demolitorio e rimedio risarcitorio si ritrovi di solito completata o affiancata da una tesi, non meno ardita, che sostiene la generale configurabilità di una responsabilità in presenza di un contratto valido (55).
Questa tesi, che prende anche il nome di dottrina dei c.d. vizi incompleti (56), consiste, alla fine, nell’estensione del paradigma dell’art. 1440, per il quale la “vittima” di un dolo solo “incidente” è tuttavia legittimata a richiedere il risarcimento del danno, a tutte le ipotesi nelle quali non si diano le condizioni per il ricorso alla tutela demolitoria e tuttavia ricorrano comportamenti scorretti della controparte di per loro suscettibili di essere considerati illeciti.
Segnatamente, l’idea da cui muove questa tesi è che la tutela risarcitoria disposta da tale norma troverebbe fondamento nella considerazione che il dolo anche quando solo “incidente” integra pur sempre una violazione del dovere generale di buona fede dell’art. 1337, che tale previsione, perciò, sancirebbe il principio secondo cui la scorrettezza precontrattuale, dando vita ad un illecito, è pur sempre fonte di responsabilità aquiliana anche quando non sia tale da permettere l’invalidazione del contratto e che proprio tale spiegazione generale ne autorizzerebbe l’estensione (analogica) a “tutti gli spazi vuoti lasciati dalla regola di validità” (57).
Un passaggio della motivazione di Xxxx. civ. n.19024/2005, enfatizzato da una massimazione del tutto inadeguata, enuncia ora un principio che (58) – come prima si è accennato - sembra far proprio questo percorso argomentativo: «La responsabilità per violazione del dovere di buona fede durante le trattative … non è limitata ai casi in cui alla trattativa non segua la conclusione del contratto o segua la conclusione di un contratto invalido … bensì si estende ai casi in cui la trattativa abbia per esito la conclusione di un contratto valido ed efficace, ma pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto» (59) (60).
(55) Xx infatti, v. per tutti X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op.cit, ….
(56) V. soprattutto X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti» e rimedio risarcitorio, cit., passim.
(57) Così X. Xxxxxxxxx, op. cit., 195, per la quale tali “spazi vuoti” sarebbero costituiti tanto dalle ipotesi di “vizi incompleti” che da quelle di “vizi incidenti” (v. infra nel testo) .
(58) Xxx, in realtà, non gioca alcun ruolo nella decisione della controversia a misura che la Corte finisce per riconoscervi un caso di ordinario solo incidente.
(59) Giova ricordare che tale principio è stato immediatamente dopo ridimensionato da Cass. civ. n. 26724/2007 e, soprattutto, che il senso reale del ragionamento della Corte si coglie solo se si considera che esso serviva essenzialmente a confutare la tesi, prevalsa fino a quel momento nella giurisprudenza di merito, che alla violazione degli obblighi legali previsti a carico degli intermediari finanziari connetteva la nullità del contratto per violazione di norme imperative ed a sostenere, invece, semplicemente l’applicazione diretta alla fattispecie dell’art. 1440 (o degli artt. 1394-1395).
(60) Si ricordi anche, però, che Xxxx. civ. n.16937/2006 ha subito smentito tale decisione ribadendo il principio che la stipila del contratto comporta “la perdita di ogni autonomia e di ogni giuridica rilevanza” dei comportamenti tenuti nel corso delle trattative.
Occorre, dunque, verificare fino a che punto funzione e portata dell’art. 1440 autorizzino la prospettazione di una generalizzata responsabilità aquiliana per i comportamenti precontrattuali scorretti di un contraente che non siano giunti ad infirmare la validità del contratto.
Come si è prima riferito, solitamente si è ritenuto che il comportamento scorretto di un contraente possa dar luogo ad una sua responsabilità (ex art. 1338) solo ove abbia condotto alla conclusione di un contratto invalido (ed alla sua conseguente invalidazione).
A fondamento di questo principio sta l’opinione, generalmente condivisa, che la corretta formazione della volontà dei contraenti è tutelata dall’ordinamento alle condizioni ed entro i limiti della disciplina dei vizi della volontà. Sicché turbamenti delle determinazioni negoziali che non attingano le soglie fissate da tale disciplina sono intenzionalmente destinati a rimanere irrilevanti: con la conseguenza che non si può dare una responsabilità in presenza di un contratto valido, proprio perché la sua validità suppone necessariamente che la scorrettezza di un contraente, non essendo giunta a “viziare” la volontà dell’altro, sia da ritenere giuridicamente irrilevante (61).
E su questa linea si è mossa fin qui anche la giurisprudenza: Cass. civ. n. 3621/1994 assumeva che «la stipulazione del contratto preclude la configurabilità di una responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c., non rilevando ai fini dell’applicazione della predetta norma il danno concretatesi nella conclusione di un negozio a condizioni diverse da quelle che si sarebbero avute se una delle parti avesse tenuto un comportamento conforme a buona fede»; Cass. civ. n. 2080/2001 precisava che «ai fini della responsabilità per danni nel vigente ordinamento, rileva soltanto l’inadempimento di obbligazioni nascenti dal contratto e non più gli eventuali comportamenti scorretti delle parti in momenti ad esso antecedenti, che restano assorbiti dal raggiungimento dell’accordo»; e proprio di recente Cass. civ. n. 16937/2006 ha ribadito che «la stipula del … [contratto] comporta… la perdita di ogni autonomia e di ogni rilevanza giuridica d[elle] … trattative».
Contro quest’orientamento consolidato si rivolge, per l’appunto, la critica di questa dottrina, eccependo che la sanzione della invalidità per i “vizi completi” (o “vizi determinanti”, e cioè che presentano i requisiti voluti dalle relative discipline) non vale ad escludere la diversa sanzione della responsabilità per i “vizi incompleti” (o “vizi incidenti”, e cioè che mancano dei caratteri richiesti per legittimare l’azione di annullamento o di rescissione) (62) ed assumendo ad
(61) Ma v. ampiamente X. X’Xxxxx, La responsabilità precontrattuale, cit., 1007 ss.
(62) In critica a questa tesi si è osservato (X. Xxxxxxx, I principi del diritto contrattuale europeo: tendenze e prospettive, in X. Xxxx – E.N. Buccico, Il codice civile europeo, Milano, 2001, 116) che “l’ordinamento non può – al di fuori di ipotesi specificamente e tassativamente previste e specificate – da un lato riconoscere validità ed efficacia ad un dato regolamento negoziale, e dall’altro porre a carico di una delle parti del contratto l’obbligo di risarcire all’altra i danni che, dall’esecuzione di esso, derivano”. Da questo punto di vista, però, non sembrerebbe proprio infondata la considerazione (di X. Xxxxxxxxx, op. cit., 1ss.) che regole di validità e regole di responsabilità operano su piani di rilevanza diversi. In realtà, all’ordinamento non è affatto estraneo il dispositivo di divaricare le proprie tutele (M. Barcellona, Diritto, sistema e senso, cit., 396) quando ciò serve a comporre istanze multiverse (si pensi alla opponibilità della seconda vendita trascritta per prima ed alla contemporanea
argomento testuale della compatibilità tra validità del contratto ed esperibilità di un’azione di danni proprio il disposto dell’art. 1440 (63).
Nel disposto dell’art. 1440 viene così indicata la base normativa per una generalizzata tutela risarcitoria della “vittima” in tutte quelle “fattispecie in cui, pur non essendo presenti tutti i requisiti che integrano una delle ipotesi tipiche di vizio – e per le quali l’impugnativa è perciò preclusa – il concreto assetto di interessi, che risulta dal contratto, appaia comunque il frutto di una decisione in qualche modo ‘deformata’ in ragione della condotta sleale e scorretta di una delle parti, nella fase che ha preceduto la conclusione del contratto” (64).
Il presupposto generale da cui muove l’estensione del dispositivo risarcitorio dell’art. 1440 a tutte le altre ipotesi di “vizi incompleti” è che “[il legislatore] ha ricordato la distinzione tra vizio determinante e vizio incidentale quando ha trattato del dolo [e] se ne è scordato negli altri casi” (65) e che spetta, perciò, all’interprete colmare “tutti gli spazi vuoti lasciati dalla regola di validità” (66).
Questo presupposto è del tutto destituito di fondamento.
responsabilità del secondo acquirente verso il primo). Ma questo dispositivo ha, evidentemente, un rigoroso limite funzionale: quello, appunto, che la divaricazione delle tutele è chiamata a far fronte ad interessi tra loro divaricati, sicché la concessione di un tipo di tutela soddisfa un interesse diverso, ulteriore ed esterno rispetto a quello considerato da un altro tipo di tutela (nell’esempio della doppia alienazione: l’interesse alla certezza della circolazione immobiliare tutelato dall’opponibilità connessa al sistema della trascrizione rispetto all’affidamento del primo acquirente tutelato dalla responsabilità). Nelle fattispecie che qui si considerano, invece, il conflitto intercorre tra i medesimi interessi degli stessi soggetti (= i contraenti), sicché l’ordinamento finirebbe con il dare con una mano (= la tutela risarcitoria) quel che ha tolto con l’altra (= il diniego della tutela demolitoria) senza che si dia un terzo interesse (o un interesse di terzi) che da un tal marchingegno tragga vantaggio.
(63) Cfr. X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 225-226 e X. Xxxxxxxxx, op. cit., 18 ss., che vi aggiunge anche le previsioni degli artt. 1494 (vizi della cosa venduta), 1587 (vizi del bene locato) e 1821 (vizi del bene concesso in comodato). Segnatamente, X. Xxxxxxxxx, op. cit., 255, sottolinea che “la norma sul dolo incidente … prospetta … una fattispecie paradigmatica, espressione di un generale principio di compatibilità tra rimedio risarcitorio – legato ad una scorrettezza in contrahendo – e validità del contratto … rappresenta il «modello» che apre il varco alla possibilità di estendere la disciplina della responsabilità precontrattuale”.
Va detto subito che, già a prima vista, il tipo di problema considerato dall’art. 1440 sembra del tutto diverso da quello considerato da tali altre norme: il risarcimento dell’art. 1440 sembra riferirsi al danno che dipende dalle “diverse condizioni” alle quali il deceptus avrebbe senza il dolo concluso il contratto; la responsabilità degli artt. 1494, 1587 e 1821, invece, sembra riferirsi ai danni che il vizio della cosa venduta, locata o concessa in comodato ha cagionato alla persona dell’acquirente, del conduttore o del comodatario o al di loro patrimonio. Ma sul punto si v. la critica puntuale di X. X’Xxxxx, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto, Milano, 1996, 101 ss.
(64) Così X. Xxxxxxxxx, op. cit., 187. Ma per una critica accurata e puntuale di questa dottrina v. G. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, cit., 1007 ss.
(65) Così X. Xxxxx in X. Xxxxx – G. De Nova, Il contratto, I, cit., 618.
(66) Così X. Xxxxxxxxx, op. cit., 195.
Nella Relazione al Re il Ministro Guardasigilli, a proposito dell’art. 1440, al n° 182 espressamente spiega: «Circa i vizi incidenti … soltanto il dolo produce responsabilità per danni a carico del contraente in mala fede. L’errore incidente è sempre un fatto dell’errante, e non può essere fonte di responsabilità per danni a carico della controparte che non lo ha provocato. La violenza, quando esiste, non ha mai carattere incidentale: nel timore provato dalle minacce concernenti punti secondari, il minacciato conclude il contratto anche quando vi avrebbe rinunziato. Prevale, invero, il timore che le minacce si realizzino, qualora il contratto, per la resistenza su clausole secondarie, non viene a conclusione».
Dunque, non è che il Legislatore si sia ricordato della distinzione tra vizi determinanti e vizi incidenti solo a proposito del dolo. E’, invece, che intenzionalmente ha voluto escludere la rilevanza dei secondi nelle altre ipotesi di vizi del consenso (errore e violenza).
Ma a ciò si aggiunge un generale principio ermeneutico che va al di là del senso esplicitamente attribuito dal Legislatore alla omessa considerazione degli altri c.d. vizi incidenti.
Questo principio ermeneutico dice che quel che fuoriesce dai mezzi di impugnazione non è necessariamente un vuoto normativo che “deve” essere colmato attraverso un rimedio aquiliano concepito come “cerotto universale” di qualsiasi insoddisfazione equitativa.
Tutt’al contrario, le condizioni normative delle diverse ipotesi di invalidità sono rivolte a definire intenzionali ambiti di immunità la cui evidente funzione giuridica è quella di dar rilevanza ad esigenze sistematiche di carattere diverso da, ed opposto a, quelle che prendono corpo nelle discipline dei mezzi di impugnazione (diverse ed opposte esigenze che vengono solitamente riassunte nella necessità di assicurare stabilità ed efficienza al sistema dei contratti).
Ad es., una vendita non è rescindibile ai sensi dell’art. 1448 se la lesione non eccede la metà del valore del bene venduto; ma non sembra seriamente sostenibile che non potendosi far luogo alla rescissione “è gioco forza” attribuire al venditore il diritto ad essere risarcito del danno che gliene è derivato; e questo anche quando l’acquirente, in modo del tutto contrario a buona fede e prevaricando l’autodeterminazione del venditore, abbia approfittato del suo stato di bisogno per trarne vantaggio.
Pertanto, l’inoppugnabilità di un contratto che superi indenne le maglie delle discipline dell’invalidità si prospetta, in linea di massima, non come un deficit equitativo della relativa disciplina da colmare per via aquiliana bensì come l’esito di una valutazione normativa che non è lecito disattendere per mere ragioni d’equità.
Ed allora, anche ad ammettere che la pur manifesta intenzione del legislatore storico non costituisca un criterio ermeneutico sempre vincolante, si deve tuttavia riconoscere che per disattenderla occorrono quanto meno significative indicazioni normative di segno contrario ovvero una ratio insopprimibilmente espansiva della norma da interpretare.
Né l’una né l’altra di queste condizioni ricorrono rispetto al dispositivo dell’art. 1440, sicchè non si dà che ad esso si imputi un principio più generale che ne consenta l’estensione alle altre “fattispecie incomplete” di vizi della volontà (67).
(67) Neanche attraverso la mediazione degli artt. 1337-1338.
Dalle disposizioni normative che concerno l’errore, la violenza e l’approfittamento dell’altrui stato di bisogno sembrano ricavarsi indicazioni addirittura contrarie ad una tale espansione del dispositivo risarcitorio alle ipotesi in cui questi vizi presentino carattere incompleto o solo incidente.
Sono molte le indicazioni normative che sembrano deporre contro la rilevanza risarcitoria di un
errore incidente (68) ovvero di un errore incompleto, quand’anche limitato al caso dell’errore sui motivi
(69) magari riconosciuto (70). Ma decisiva sembra, soprattutto, la considerazione che la rilevanza di un tal tipo di errore (specie di quello sui motivi) implichrerebbe una duplice sottovalutazione: da un lato, la sottovalutazione dei termini in cui i “motivi” giocano nell’economia del contratto e, dall’altro, la sottovalutazione degli effetti che su tale economia è in grado di esplicare il rimedio risarcitorio.
Come si sa, il principio della irrilevanza dell’errore sui motivi costituiva uno snodo centrale della teoria del negozio giuridico (71).
In tale contesto, questo principio, ad intenderlo bene, corrispondeva, e corrisponde, ad una ratio economica fondamentale che il sistema giuridico ha elevato a logica generale del dispositivo negoziale, e che è riassumibile nelle seguenti due proposizioni:
- l'ordinamento garantisce che il contraente riceva dal mercato ciò per cui si è ad esso rivolto, e perciò gli attribuisce rimedi (= l'azione di annullamento per errore essenziale) per il caso in cui ciò che risulta dall'accordo (= “interesse programmato”) non corrisponda a ciò per cui l'aveva concluso (= “interesse perseguito”) (72);
- l'ordinamento non garantisce, invece, (salvo che le parti, nell'esercizio dei loro poteri di autonomia, non lo abbiano incluso nel contenuto negoziale) che ciò per cui il contraente si è rivolto al mercato sia proprio ciò di cui aveva bisogno, e perciò non gli attribuisce rimedi (= irrilevanza dell’errore sui motivi) per il caso in cui si accorga che ciò che lo scambio gli dà è proprio ciò che voleva ma che ciò che voleva, contrariamente a quel
(68) L’esposizione più esauriente di questa proposta estensiva è di X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti», cit., 255 ss.
(69) Con questa limitazione X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti», cit., 198 ss., a proposito della cui argomentazione v. l’analisi critica di X. X’Xxxxx, La responsabilità precontrattuale, cit., 1021 ss.
(70) Anche se un tal requisito può far pensare che l’avvenuto riconoscimento del motivo per cui la controparte addiviene al contratto segua una qualche sua manifestazione di tale motivo e, quindi, la sua incorporazione nel contratto: con la conseguenza che tale incorporazione rende contrattualmente “essenziale” il motivo e fa accedere l’errore su di esso direttamente alla tutela demolitoria.
(71) V. per tutti X. Xxxxxxxxxx, Profili della teoria dell’errore nel negozio giuridico, Milano, 1962 e X. Xxxxxxxxx, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Padova, 1963.
(72) Per quest’impostazione e per questa nomenclatura v. P. Barcellona, Errore, cit., 247 ss.
che aveva supposto, non è in grado di soddisfare le esigenze in vista delle quali aveva concluso lo scambio (73).
Codesti due principi complementari identificano, dunque, due rischi differenti che ricevono trattamenti normativi diversi: la prima regola concerne l'eventualità di divergenze tra “interesse reale” del contraente e “interesse oggettivamente programmato” nel negozio ed integra, perciò, una disciplina della rilevanza di quello che, approssimativamente, si potrebbe chiamare un rischio comunicativo (74); la seconda regola, invece, concerne l'eventualità di una inidoneità dello scambio perseguito e coerentemente programmato a soddisfare le esigenze individuali che lo avevano motivato, ed integra, perciò, una disciplina della irrilevanza di quello che, sempre approssimativamente, si potrebbe chiamare un rischio economico (75).
La tendenziale irrilevanza di quello che si è detto rischio economico è il portato di una strategia generale del diritto in ordine al contratto (76). L'assunzione del contratto a mediatore universale delle relazioni sociali suppone ed implica non solo la separazione tra produzione e consumo ma anche quella dei produttori tra loro, dei consumatori tra loro e, soprattutto, dei primi rispetto ai secondi, e quindi, più in generale, la separazione delle economie individuali e delle sfere personali. Lo scambio, e perciò il contratto, è deputato a risolvere tale dispersione atomistica della società ma senza negarla (giacché su di essa si struttura quel principio dell’individualismo proprietario che costituisce il senso nucleare dei sistemi giuridici moderni). E ciò fa, appunto, realizzando tra gli individui, attraverso il mercato, una connessione puntuale, e cioè non istituendo tra essi una socializzazione reciproca permanente delle rispettive sfere patrimoniali e personali (di guisa che l’economia di un contraente sia chiamata a farsi carico della gestione che l’altro fa della sua economia) ma stabilendo una connessione episodica, limitata allo scambio ed a ciò che in esso viene dedotto, la quale lascia, perciò, distinta ciascuna sfera individuale / economica dall'altra (di guisa che l’economia di un contraente deve farsi carico solo del necessario a produrre il bene o il servizio dall’altro richiesto e rimane, invece, estranea a quel che l’altro co n tale bene o servizio farà nella sua economia).
A codesta separazione delle economie individuali e delle sfere personali ed al carattere puntuale ed episodico della relativa connessione mercantile corrisponde il principio giuridico dell'autoresponsabilità nella determinazione del rapporto mezzi-fini: ciascuno è autonomo nella determinazione del bisogno da soddisfare e risponde dell'idoneità dello strumento (= bene o servizio) individuato per soddisfarlo, e perciò non può trasferire ad altri (= al mercato, e perciò all'altro contraente) la propria eventuale inefficienza (ossia l’incapacità di determinare in modo appropriato quel che in effetti gli è utile).
(73) P. Barcellona, Errore, cit., 264 ss.
(74) L’approfondimento dell’errore nella prospettiva della comunicazione si deve a P. Barcellona, Errore, cit., 247 ss.
(75) M. Barcellona, op. loc. citt.
(76) Così M. Barcellona, Diritto, sistema e senso, cit., 417 ss.
A questa ratio corrisponde, appunto, il principio della irrilevanza dei motivi: un funzionamento corretto del mercato esige che a ciascuno sia dato ciò che realmente ha chiesto, ma esige, allo stesso tempo, che ci si disinteressi del perchè taluno abbia chiesto qualcosa e non qualcos'altro. E ciò che si è richiesto al mercato costituisce, grossomodo, il contenuto del contratto (= quel che della volontà dei contraenti si trasformato in oggettivo programma negoziale), mentre il perchè lo si è chiesto corrisponde al motivo del contratto (= a quel che dell’intento di ciascun contraente è rimasto semplicemente un loro programma individuale ed è restato, perciò, fuori dal contratto) (77).
Così intesi, perciò, i motivi attengono al nesso tra il bene o la prestazione fatti oggetto del contratto e l’economia individuale del contraente che attraverso tale negozio se li procura, ossia stanno a designare l’utilità ulteriore che con il loro uso e la destinazione economica che intende loro dare il contraente si propone di acquisire al proprio patrimonio; di guisa che l’errore sui motivi consiste in ciò, che il bene o la prestazione fatti oggetto del contratto non offrono al contraente il contenuto di utilità che questi, sbagliando, loro soggettivamente attribuiva per il suo patrimonio.
(77) Questa ratio non è smentita dalla rilevanza dell'errore sulle qualità e dell'errore di diritto. E' indubbiamente vero, infatti, che tanto le qualità materiali che quelle giuridiche dell'oggetto del contratto rimettono in campo la destinazione del bene nel patrimonio del contraente, e quindi, inevitabilmente, danno spazio ai motivi per i quali questi si è rivolto al mercato. Ma la risposta a questa (apparente) contraddizione non sta nell'oblio di codesta ratio ma in una sua ulteriore e più approfondita comprensione.
La separazione delle economie individuali ed il carattere rigidamente puntuale della connessione, che tra esse è stabilita dal contratto, si traducono nell'astrazione dello scambio dai c.d. valori d'uso individuali (= dalle utilità che l’acquirente si ripromette di ricavare dalla destinazione economica che al bene o al servizio si ripropone di dare nel proprio patrimonio) e nella esclusiva rilevanza di ciò che pertiene al c.d. valore di scambio (= la quantità di moneta a fronte della quale il bene o servzio si scambio nel mercato). Ma il valore di scambio non è che l'astrazione mercantile del c.d. valore d'uso sociale (= le utilità che solitamente si traggono da un tipo di bene o di servizio): una merce vale in ragione della sua domanda e la sua domanda dipende dall'uso che generalmente (ossia socialmente) di essa si può fare e del quale è, perciò, rappresentativo il suo valore di scambio.
Allora, il principio dell'irrilevanza dei motivi, e quindi dell'eventuale inidoneità dell'oggetto del contratto alla destinazione prefiguratasi dal contraente, non va bandito, ma va precisato distinguendo motivi rilevanti e motivi irrilevanti ed articolando tale distinzione sulla differenza tra valore d'uso sociale (= a che serve?) e valore d'uso individuale (= a che ti serve?). Xx interrogando su questa base le ipotesi normative dell'errore sulle qualità materiali o giuridiche si potrà trovare che codeste ipotesi ricorrono solo allorché il contraente con la sua dichiarazione ha inteso evocare un bene con qualità che la comunità di mercato non gli attribuisce (= con un diverso valore d'uso sociale). Sicché l'errore sulle qualità ridonda in un errore sulla stessa identità dell'oggetto (P. Barcellona, Errore, cit., 261).
Il principio dell'irrilevanza dei motivi attua, dunque, la ratio generale del contratto escludendo la rilevanza di ciò che pertiene all'ambito concettuale del valore d'uso individuale. Ma ciò non costituisce una riduzione del valore normativo consegnatogli dalla tradizione. Poichè - come appena si è visto - l'errore su ciò che pertiene al valore d'uso sociale concerne, in realtà, quello che prima si è chiamato rischio comunicativo (= l'eventualità di divergenze tra interesse realmente perseguito (=volontà) e interesse oggettivamente programmato (= dichiarazione): il contraente ha evocato un bene con qualità che la comunità di mercato non gli attribuisce, e quindi, in ultima istanza, un bene diverso da quello oggettivamente richiesto al mercato), resta confermato che l'irrilevanza dei motivi sancisce - come inizialmente si diceva - il principio dell'irrilevanza di quello che si è chiamato rischio economico, e cioè il principio di autoresponsabilità nelle scelte mezzi / fini e l'intrasferibilità (salvo diversa pattuizione) delle proprie inefficienze al riguardo.
Il principio tradizionale della irrilevanza dell’errore sui motivi (78), allora, corrisponde ad una ratio forte, sistemica dell’ordinamento ma concerne anche un inconveniente che per il contraente che vi sia incorso può prospettarsi particolarmente grave.
L’errore sui motivi, infatti, designa una situazione nella quale l’errante, avendo attribuito al bene o alla prestazione della controparte un contenuto di utilità per la sua economia che non presentano, si ritrova con un bene o una prestazione per lui (tendenzialmente) inutili e, perciò, vincolato ad uno scambio che ha mancato del tutto (o in buona parte) il proposito soggettivo (= motivo) per il quale era stato concluso.
Ora, la situazione che così prospetta (o può prospettare) l’errore sui motivi mostra due
cose.
La prima cosa è che il rimedio risarcitorio (proposto da questa dottrina) si mostra,
almeno in via generale (79), un mero palliativo, giacchè il problema, che tale situazione (= un bene o una prestazione che si scopre non servono a quello per cui l’acquirente soggettivamente intendeva utilizzarli) in sé solleva, sarebbe semmai quello di esonerare il contraente dal contratto “inutile” che per errore ha concluso piuttosto che quello di risarcirlo.
La seconda cosa è che rispetto ad una tale situazione, se il risarcimento si prendesse sul serio, allora il suo ammontare dovrebbe coincidere con l’interesse positivo rimasto deluso dalla mancanza nell’oggetto del contratto o della prestazione del contenuto dell’utilità per la propria economia che il contraente erroneamente loro attribuiva, e quindi consistere nell’equivalente pecuniario del pregiudizio che verrebbe da un inadempimento del contratto quale lo aveva inteso l’errante (80).
(78) Xxx inteso, con il limite, chiarito nella nota precedente, di quei motivi che dipendono da “qualità essenziali” del bene o della prestazione, i quali, invece, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1428-1429, abilitano all’azione di annullamento
Nonché con l’ulteriore, e ovvio, altro limite che il principio dell’irrilevana dei motivi è un principio dispositivo e che, perciò, le parti, in forza del loro potere di autonomia, possono ben contrattualizzare i motivi, e cioè conferire rilevanza nel contratto ai motivi che li spingono a concluderlo (il che può avvenire con apposite clausole e tecniche diverse): con la conseguenza che, quando ciò avviene, l’errore su tali motivi contrattualizzati costituirà errore essenziale ai sensi dell’art. 1429.
(79) E’ chiaro, infatti, che l’errore sul motivo potrebbe anche non giungere alla situazione estrema di rendere del tutto “inutile” il bene o la prestazione fatti oggetto del contratto. Ma è altrettanto evidente che il diritto risolve i problemi del suo ambiente (nella specie i problemi delle negoziazioni e degli scambi) istituendo un ordine che richiede di “semplificarli” e le “semplificazioni si operano, essenzialmente, attraverso l’astrazione (normativa), la quale, per l’appunto, configura tipi di problema (= fattispecie astratte) e, in linea di massima, preclude di deciderli “caso per caso”. Sicché è scontato che tra la valutazione normativa ed il caso concreto può sempre darsi uno scarto.
(80) C.M. Xxxxxx, Il contratto, cit., 668 scrive che “nell’ipotesi di dolo incidente il risarcimento del danno si adegua ad un criterio analogo a quello valevole per l’inadempimento. Ciò si spiega tenendo presente che il contratto rimane validamente concluso, e che la vittima non lamenta il pregiudizio per l’invalidità del contratto ma la mancanza di quel risultato economico positivo che essa avrebbe raggiunto se la controparte avesse agito lealmente”.
E difatti. in Cass. civ. n. 2956/1999, secondo cui «il danno risarcibile nell’ipotesi di dolo incidente, prevista dall’art. 1440, non si esaurisce nelle diverse condizioni alla quali l’accordo viene concluso, bensì si estende alla totalità dei danni, valutati
Ma un risarcimento siffatto incontra due ostacoli.
Il primo ostacolo è rappresentato dalla circostanza che un tal risarcimento sarebbe potenzialmente in grado di sovvertire l’economia del contratto, finirebbe con il porre a carico della controparte il “rischio economico” che, invece, per il principio di autoresponsabilità ha da gravare sull’errante e, soprattutto, contraddirebbe egualmente quelle esigenze di stabilità (= la connessione atomistica e puntuale secondo cui è ordinato il sistema del mercato) che hanno indotto l’ordinamento ad escludere il rimedio demolitorio (81). Il che, specie in assenza di un comportamento propriamente doloso, appare poco plausibile.
Il secondo ostacolo ha carattere positivo ed è costituito dal disposto dell’art. 1432. Un tal risarcimento sarebbe inteso a ricostituire il patrimonio dell’errante nella consistenza che avrebbe avuto ove il contratto avesse detto quel che l’errante aveva soggettivamente in mente e fosse stato eseguito nel modo in cui l’errante lo aveva inteso. Esso, perciò, attuerebbe una sorta di rettifica per equivalente del contratto. Ma contro una tale eventualità depone, per l’appunto, l’art. 1432, il quale, rimettendo al potere della controparte il mantenimento del contratto rettificato, a contrariis esclude che la “rettifica” dello scambio possa esserle imposta, seppur per via risarcitoria, dall’errante (82): sarebbe, allora, ben strano che l’ordinamento nel caso di “errore incompleto” imponga alla controparte dell’errante quella “rettifica” del contratto che non ha ritenuto di imporle nel caso di “errore completo” (83). Ovviamente, le considerazioni che valgono per l’errore sui motivi non possono non valere, a fortiori, anche per il “minore” errore
nel loro complesso, che xxxxxxxxx collegati da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto, rilevando pertanto sia il danno emergente che il lucro cessante», si spiega che «la tesi della corte di rinvio appare restrittiva e non giustificata, per cui non sembra possa tenersi conto soltanto delle diverse e meno gravose condizioni alle quali il contratto sarebbe stato concluso ... bensì di ogni danno arrecato secondo le regole generali dell’illecito, purchè debitamente provato e strettamente attinente» (e v. in proposito la nota adesiva di T. Dalla Xxxxxxx, in Giur. it., 2000, I, 1192). Tant’è che Xxxx. civ. n. 19024/2005 si è sentita in dovere di aggiustare il tiro precisando che «in caso di responsabilità precontrattuale relativa alla conclusione di un contratto valido ed efficace ma sconveniente il risarcimento del danno … non [può] commisura[r]si al pregiudizio derivante dalla mancata esecuzione del contratto (c.d. interesse negativo)» e che, però non può «neppure … coincidere con la tradizionale figura del c.d. interesse negativo, commisurato alle spese vanamente sostenute e alle occasioni alternative mancate a causa della trattativa poi risultato inutile; bensì deve ragguagliarsi al minor vantaggio o al maggior aggravio economico subito dalla vittima per il comportamento sleale di controparte, salva la prova di ulteriori danni che risultino collegato da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto». Solo che così l’esclusione della risarcibilità dell’intero “interesse positivo” appare del tutto arbitraria.
(81) Il quale – non si dimentichi – fa sì cadere il contratto ma comporta la restituzione del bene o l’esonero dal costo della prestazione convenuta e limita l’eventuale risarcimento al c.d. interesse negativo ex art. 1338.
(82) Cfr. in proposito anche X. Xxxxxx, La teoria generale del contratto, Torino, 1955, 188 ss. e X. Xxxxxx, Dell’annullabilità del contratto, In Commentario del Codice civile diretto da D’Xxxxxx e Xxxxx, Libro delle obbligazioni, I, sub art. 1432, Firenze 1948, 721. La medesima concluione è ora ribadita da X. Xxxxxxxx, L’errore nel contratto – Artt. 1427-1433, in Il Codice civile – Commentario dondato da X. Xxxxxxxxxxx e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2004, 202.
(83) V. in tal senso anche X. Xxxxxx, La rettifica del contratto, Milano, 1973, 77 ss.
incidente (84): non sembra proprio plausibile che un errore che abbia inciso non sulla determinazione di concludere il contratto ma soltanto sulle condizioni con esso convenute sia dato accesso ad un rimedio che, invece, risulta negato all’errore che abbia indotto a concludere un contratto addirittura “inutile”.
Di più immediata percezione sono, invece, le ragioni che depongono per la non estensibilità dell’art. 1440 al fattispecie incomplete di violenza e di approfittamento dell’altrui stato di bisogno.
Anche rispetto alla violenza il problema dell’estensione (analogica) del dispositivo dell’art. 1440 si può porre in due direzioni: per dare rilevanza ad una sorta di violenza incompleta, nella quale manchi taluno dei requisiti richiesti dall’art. 1435, e/o per dare rilevanza ad una sorta di violenza incidente, cioè tale da non aver determinato la conclusione del contratto ma da averne soltanto influenzato le condizioni (85).
Solitamente si dice che per l’art. 1435 perché una minaccia integri il vizio della violenza sono necessari due requisiti: che presenti i caratteri “[del]la serietà, [del]la verosimiglianza, [del]la attendibilità” e che prospetti un «male ingiusto e notevole» in rapporto al “danno conseguente alla conclusione del contratto”, l’uno e l’altro misurati sul metro di una «persona sensata» (86).
Orbene, contro la rilevanza di una violenza incompleta, e cioè di una minaccia che difetti di uno di tali requisiti depongono, innanzitutto, l’elasticità con la quale sono definiti i caratteri della violenza e la relatività con la quale è richiesto di apprezzarne l’efficacia dall’art. 1435. Elasticità e relatività della violenza, infatti, conferiscono al vizio una latitudine che, a ben intenderle, esclude solo le ipotesi di influenzabilità del tutto inusuali che chiamerebbero piuttosto in causa la capacità del contraente: una minaccia non seria, non verosimile e non attendibile o che prospetti un male sproporzionatamente minore rispetto al danno derivante dalla conclusione del contratto può essere atta ad impressionare solo una persona tanto “insensata” che vi è da chiedersi fino a che punto si possa giudicare propriamente capace (87).
(84) Su cui v. sempre X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti», cit., 256 ss. Sebbene anche rispetto a tale ipotesi vi è sempre da chiedersi se il requisito che l’errore incidente sia «favorito» o «propiziato» dalla controparte (258) non sia sufficiente a configurare la fattispecie normativa del dolo incidente.
(85) Su entrambe queste due ipotesi le argomentazioni più approfondite sono sempre quelle di X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti», cit., 244 ss. e 259 ss.
(86) Così efficacemente riassume la comune interpretazione dell’art. 1435 X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti», cit., 246-247, alla cui completa bibliografia si rimanda.
(87) Specie se la nozione di incapacità dell’art. 428 (su cui v. anche le giuste considerazioni di X. Xxxxxxxxx, op. cit., 244) venga, finalmente, decostruita e relativizzata al tipo di contratto e/o al tipo di affare che ne può costituire oggetto: l’esempio classico è il caso, considerato in Common Law, dell’anziana vedova che stipula un complicato contratto di mutuo. Qualche indicazione in tal senso potrebbe, forse, trarsi dalla recente disciplina della amministrazione di sostegno per “le persone prive in tutto o in parte di autonomia” (artt. 404 ss.): ci si potrebbe chiedere, forse, se (e come) la mancanza di “autonomia”
Come che sia, lo “spazio vuoto” tra una violenza siffatta e l’incapacità, ad intenderlo senza le “rigidità” di una tradizione che assumeva a prototipo del contraente il “mercante borghese” e dell’incapace il “matto”, è, alla fine, così ristretto da far ritenere che la violenza o c’è o non c’è: di guisa che, se c’è, ad essa deve seguire l’annullabilità del contratto, mentre, se non cè, anche il semplice risarcimento del danno appare un di più. Il che, peraltro, sembra trovare un’esplicita conferma normativa nell’art. 1437 che espressamente nega tutela al timore reverenziale: da esso, infatti, si trae con evidenza l’apprezzamento che il Legislatore ha inteso riservare alle irragionevoli influenzabilità di un contraente (88).
Contro la rilevanza di una violenza incidente, e cioè che abbia inciso non sulla conclusione del contratto ma solo sul suo contenuto (ad es., una minaccia che non ha inciso sulla determinazione di vendere ma sull’accettazione del corrispettivo) sembrano, invece, deporre, da un lato, la considerazione che una tale violenza certamente abiliterebbe comunque la vittima all’azione di annullamento (89), e, dall’altro, la considerazione che il (pregiudizio del) suo eventuale interesse alla realizzazione dell’operazione economica su basi diverse avrebbe modo di essere soddisfatto (prim’ancora che dal risarcimento ex art. 1338: ad es., nella misura della differenza tra il valore di mercato del bene ed il minor corrispettivo che si riuscisse a conseguire dopo l’annullamento o del compenso per il ritardato conseguimento di un maggior corrispettivo, ecc.) dalle possibilità di un accordo transattivo che l’azione di annullamento, per lo più, dischiuderebbe.
Alla rilevanza di un approfittamento incompleto dello stato di bisogno (90) sembra opporsi, infine, l’art. 1448 che subordina la rescissione al limite testuale della “lesione enorme” e, soprattutto, l’art. 1450 che riserva all’approfittatore il potere di evitarla offrendo di ricondurre il contratto ad equità: ammettere il risarcimento per una rescissione incompleta significherebbe riconoscere che una lesione infra dimidium possa dar titolo alla “vittima” di pretendere in sede aquiliana una reductio ad aequitatem che gli è negata in sede contrattuale (91), così pervenendo al
che abilita a queste “misure di protezione” non possa farsi refluire sulla validità degli atti compiuti da tali persone in assenza del provvedimento istitutivo dell’amministrazione di sostegno.
(88) In argomento v. X. Xxxxxx, La violenza – Artt. 1434-1438, in Il Codice civile – Commentario fondato da X. Xxxxxxxxxxx e diretto da F.D. Busnelli, Milano, 2005, 135 ss.
(89) Così già X. Xxxxxx, La teoria generale del contratto, cit., 202 ss. e X. Xxxxxxx Passatelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1981, 167, e, con diversa argomentazione X. Xxxxxxx, “Metus causam dans” e “metus incidens”, in Riv. dir. comm., 1952, I, 20 ss. In tal senso v. ora anche X. Xxxxxx, op, cit., 80-81.
L’annullabilità del contratto affetto da una violenza incidente era già stata sostenuta in giurisprudenza da App. Milano, 20/07/1951, in Giur. it., 1951, I, 2, 787.
(90) Su cui v. sempre , per tutti, le considerazioni di X. Xxxxxxxxx, «Vizi incompleti», cit., 273 ss.
(91) Non sembra convincente in proposito il tentativo di distinguere tra riduzione ad equità e risarcimento del danno (elaborato da T.O. Xxxxxxxxxx, Il problema dell’adeguatezza degli scambi e la rescissione del contratto per lesione, in Riv. trim. dir. e proc.
paradosso che a chi ha subito una “lesione minore” sia concesso quel che è negato a chi ha subito una “lesione enorme”.
Ma quel che ancor più conta è che queste indicazioni normative di segno contrario sembrano trovare conferma nella funzione e nella portata dello stesso art. 1440.
Questa tesi della compatibilità di responsabilità e validità muove dall’assunto che all’art. 1440 sia consegnata la funzione di estendere la tutela del contraente che sia rimasto vittima dei raggiri della controparte anche quando questi non siano giunti a determinarne il consenso e che proprio tale funzione incrementativa della tutela della “vittima” ne giustifichi l’estensione alle altre ipotesi di “vizi incompleti”.
Xxxxxx, stando a quel che generalmente si sostiene a proposito dell’errore e del dolo, l’art. 1440, contrariamente alla lettura che ne dà questa dottrina, in realtà sembra concepito dal Legislatore, piuttosto che come un ampliamento della protezione del deceptus, come un limite alla piena tutela che altrimenti gli spetterebbe.
Si suole ripetere infatti, e a ragione, che la rilevanza dell’errore provocato dall’altrui inganno, di norma, non subisce il limite dell’essenzialità previsto dall’art. 1429 (92): diversamente dall’errante che può accedere all’annullamento del contratto solo quando il suo errore possa qualificarsi come “essenziale”, il deceptus, in linea di principio, sarebbe legittimato all’azione di annullamento anche ove l’errore, in cui lo ha indotto il dolo dell’altro contraente, non presenti tale requisito. Ciò implica che, in assenza del 1440, anche lo stesso dolo incidente, in quanto comunque ha influito sul consenso a quello scambio con quelle condizioni, ben potrebbe accedere alla tutela demolitoria.
Con questa premessa, allora, si può ben dire che l’art. 1440 appare chiamato a limitare la virtuale tutela piena del deceptus, precludendogli l’annullamento del contratto quando “i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso … benché senza di essi [il contratto] sarebbe stato concluso a condizioni diverse” e concedendogli in cambio il rimedio minore del risarcimento che lo mantiene vincolato al contratto e lo ristora del pregiudizio cui la conferma del vincolo contrattuale lo espone (93).
civ., 1978, 353 e condiviso da X. Xxxxxxxxx, op. cit., 284), quando l’una e l’altro necessariamente consistono nella differenza tra il corrispettivo convenuto ed il valore di mercato del bene.
(92) Lo spiega bene X. Xxxxxxxxx, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2007, 183, scrivendo che “la maggiore intensità della tutela contro il dolo, rispetto a quella contro l’errore, sta in questo: il dolo rende invalido il contratto a titolo oneroso anche se ha provocato un errore non essenziale e rende invalido il negozio a titolo gratuito anche se ha provocato errore su un motivo non risultante dall’atto”. Ma v. anche C.M. Xxxxxx, op. ult. cit., 667 e, in giurisprudenza, Cass. 975/1995, secondo cui
«il dolo rilevante ai fini dell’annullamento del contratto può riguardare qualsiasi elemento, e quindi anche il motivo, che abbia determinato la controparte al contatto».
(93) Il giudizio normativo che, perciò, sottostà all’art. 1440 è - dicendolo nei termini più immediati della tradizionale comparazione degli interessi in gioco - il seguente: i raggiri del deceptor farebbero venir meno la ragione dei limiti che l’ordinamento impone alla rilevanza dell’errore (in ossequio al vecchio principio fraus omnia corrumpit); ma il deceptus non può neanche approfittare della scorrettezza subita per far cadere un contratto che avrebbe comunque concluso a “condizioni
La funzione normativa dell’art. 1440 è, perciò, del tutto simmetrica a quella che nel combinato disposto degli artt. 1428 e 1429 fa subordinare la rilevanza dell’errore al requisito della sua essenzialità e consiste, propriamente, nel sovrapporre alle ragioni dell’autodeterminazione privata e dell’interesse individuale di un contraente le ragioni della stabilità degli scambi, e cioè della efficienza del sistema di circolazione della ricchezza (94).
Ma se così è, allora l’art. 1440 non costituisce – come di solito si ripete - un ampliamento della tutela del deceptus anche al “vizio incompleto” in ragione dell’apprezzamento negativo che l’ordinamento nutre verso il comportamento scorretto del deceptor, ma, all’opposto, si lascia comprendere come una limitazione della tutela demolitoria che diversamente gli spetterebbe in vista dell’interesse alla sicurezza ed efficienza del mercato (95): non si permette l’accesso alla altrimenti ammissibile azione di annullamento per salvaguardare la sicurezza dei traffici (che l’invalidità per un “vizio minore” rischierebbe di compromettere vieppiù) e si compensa il diniego di tale “piena tutela” con un risarcimento inteso a ristorare chi ha subito i raggiri delle “diverse condizioni” a cui senza di essi avrebbe concluso il contratto.
D’altronde, già all’indomani dell’entrata in vigore del Codice si era detto chiaramente che sotto il nome di “dolo incidente” si nascondeva, in realtà, un errore non essenziale, cui era data la rilevanza ridotta del rimedio risarcitorio (96). E la stessa giurisprudenza, di lì a qualche tempo, avrebbe escluso dall’ambito di applicazione dell’art. 1440, per ricondurlo all’art. 1439 ed alla
diverse” e, perciò, si deve accontentare di esser compensato del pregiudizio che la conservazione del contratto gli impone. Il risarcimento rappresenta, perciò, un bilanciamento tra la “ragione etica” che vorrebbe il deceptor punito per i suoi raggiri e la “ragione pratica” che spinge a salvare un contratto che, in fondo, deve ritenersi atto ad assolvere la sua funzione nel sistema di circolazione della ricchezza: un compromesso che consiste, per l’appunto, nel togliere alla “vittima” il potere di decidere sulla sorte del contratto e nel compensare questa privazione con il ristoro per equivalente del pregiudizio cui le “diverse condizioni” subite la espongono.
(94) Stabilità degli scambi che non sembra possa ritenersi – come vorrebbe Xxxxx in X. Xxxxx – G. De Nova, op. cit., 622 - il feticcio di una dogmatica che si nasconde sotto le vesti della giurisprudenza degli interessi se è vero – come sembra – che quello di conservazione del negozio costituisce uno dei principi dell’ordinamento dell’autonomia dei privati.
D’altronde, una tale indicazione interpretativa sembrerebbe confermata dalla disciplina speciale della vendita di cosa parzialmente altrui (art. 1480), dell’evizione parziale (art. 1484), della vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi (art. 1489), ecc., dove al compratore è concesso il rimedio della risoluzione esclusivamente quando “deve ritenersi, secondo le circostanze, che non avrebbe acquistato la cosa”, mentre “altrimenti può solo ottenere una riduzione del prezzo, oltre il risarcimento del danno”.
(95) Né si dica che, però, l’interesse del deceptus si potrebbe ritenere comunque soddisfatto a misura che il rimedio risarcitorio lo mette in grado di recuperare le “diverse condizioni” alle quali comunque avrebbe concluso il contratto. Questo potrà essere anche vero. Ma è altrettanto vero che la tutela demolitoria avrebbe offerto al deceptus un’opzione nella quale deve ritenersi implicita la possibilità di accedere ad una soluzione transattiva atta a riperequare lo scambio.
(96) X. Xxxxxxxxx, Dei contratti in generale, in Commentario del Codice civile, IV, 2, Torino, 1980, 505 ss.
“sanzione” dell’annullabilità, il caso in cui il dolo avesse determinato un error in negotio (97): così mostrando di intendere il rimedio risarcitorio come una sorta di minus rispetto a quello dell’annullamento piuttosto che come un ampliamento della tutela del deceptus.
Ma se è vero che la funzione normativa dell’art. 1440 è quella di limitare la tutela (demolitoria) del deceptus (compensandola eccezionalmente con la minore tutela risarcitoria) per privilegiare la conservazione del contratto (98) e, per questa via, la sicurezza ed efficienza del mercato, allora non è vero che in tale norma è racchiusa la dimostrazione di una generale rilevanza aquiliana del dovere di buona fede che amplia la tutela del deceptus fino a concedergli un ristoro per equivalente anche in presenza di un contratto valido. E, perciò, appare improponibile un’operazione interpretativa che, facendo leva proprio sulla pretesa funzione espansiva di tale norma, ne proponga l’estensione alle altre ipotesi di vizi incompleti (99).
D’altronde, neanche convincente sembra l’altro argomento, proposto al ulteriore conferma della compatibilità del rimedio risarcitorio con validità del contratto, secondo cui l’art. 1440 configurerebbe una fattispecie di responsabilità aquiliana fondata sulla violazione del dovere di buona fede e che proprio questa ratio aquiliana e questa sua fondazione ne giustificherebbero l’estensione a tutte le altre ipotesi di “vizi incompleti” ove sia ravvisabile un comportamento della controparte suscettibile di una qualche riprovazione.
Verso questa ulteriore “ragione” di estensione (analogica) del trattamento del dolo incidente sembrano di ostacolo la stessa “veduta” con la quale l’ordinamento ha dato corpo alla funzione limitativa assegnata a questa norma ed il dispositivo al quale, di conseguenza, la sua disciplina obbedisce.
Una lettura più attenta del dispositivo messo in opera dall’art. 1440 sembra, infatti, suggerire che, al contrario, la responsabilità cui esso mette capo abbia carattere propriamente contrattuale
(100) e che essa trovi ragione in un “artificio” normativo che si spiega solo con uno specifico trattamento del dolo.
L’oggettiva portata di questo dispositivo si coglie adeguatamente quando si consideri quel che, in realtà, il deceptus è legittimato a lamentare e dedurre nel caso dell’art. 1440, e che consiste in ciò:
(97) Così Xxxx. civ. 1528/1974, sulla considerazione che in tal caso per effetto dei raggiri il deceptus aveva prestato il suo consenso al un negozio diverso da quello che in effetti intendeva stipulare (nella specie un contratto di servitù invece di una transazione del danno arrecato dalla costruzione di un elettrodotto).
(98) X. Xxxxx, Teoria generale del negozio giuridico, I, Milano, 1953, 111.
(99) Per l’eccezionalità della previsione dell’art. 1440 e la sua conseguente non estensibilità analogica v. già X. Xxxxxxx,
“Metus causam dans” e “metus incidens”, cit., 20 ss.
(100) In questo senso già X. Xxxxx, L’obbligo precontrattuale di informazione, cit., 299, ma con diversa argomentazione.
(a) che aveva creduto che il bene o la prestazione acquisiti concludendo il contratto avessero caratteristiche qualitative (101) che il testo contrattuale, senza che se ne accorgesse, non gli assicurava;
(b) che aveva così creduto a causa dell’attività ingannevole del deceptor, il quale aveva tenuto una comportamento prenegoziale atto a suscitargli una rappresentazione delle caratteristiche qualitative dell’oggetto del contratto o della prestazione diverse da quelle che la dichiarazione oggettivamente gli assicurava;
(c) che se non fosse stato così xxxxxxxxx avrebbe concluso sì il contratto, ma “a differenti condizioni”, ossia, per lo più, che lo avrebbe concluso per un corrispettivo minore;
(d) che, perciò, deve essere risarcito del danno dipendente dalla differenza tra le caratteristiche qualitative che il deceptor gli aveva fatto credere possedesse il bene o la prestazione e che riteneva, perciò, dovute e le diverse (e minori) caratteristiche qualitative che il bene o la prestazione ricevuti in effetti presentano.
E dunque, lo schema logico dell’art. 1440 legittima il deceputs da un lato a lamentare di essere stato indotto a “spendere quel che non avrebbe speso” e, dall’altro, a dedurre che “gli manca ciò che si aspettava da quel che aveva speso”.
La questione che il deceptus così propone all’ordinamento è, perciò, che valga in qualche modo ciò che gli si era fatto credere e che gli sia dato quel che per questo gli è venuto a mancare, ossia che valga il contenuto qualitativo che per effetto dei raggiri del deceptor aveva attribuito all’oggetto del contratto o della prestazione ed in vista del quale aveva espresso il suo consenso, e che, per conseguenza, gli sia riconosciuto il risarcimento del danno dipendente dalla differenza tra ciò che si aspettava dall’esecuzione del contratto e ciò (= il meno) che, invece, gli è stato dato (102). La risposta che l’ordinamento appresta a tale questione è coerente alla “veduta” secondo la quale si è rappresentato la pretesa del deceptus, a quanto questi, nella sostanza, appare dedurre:
(a) il contratto resta fermo;
(b) il deceptor risponde del danno, ossia è tenuto a risarcire il deceptus per la differenza tra quel che gli aveva fatto credere e ciò che, invece, gli ha dato (e quindi, per la differenza tra ciò che il deceptus si aspettava dal contratto e ciò che ha, invece, ricevuto in forza di esso).
(101) Caratteristiche qualitative che – è bene ricordarlo – non retroagiscano sulla identità dell’oggetto del contratto o della prestazione, ché, diversamente, si tratterebbe di “qualità essenziali” e si verserebbe, perciò, nella diversa ipotesi del dolo determinante dell’art. 1439.
(102) L’esame della casistica giurisprudenziale mostra che questo (del minor corrispettivo che il deceptus avrebbe accetto di pagare e del risarcimento della differenza con il corrispettivo convenuto a causa degli inganni del deceptor) è il modo nel quale viene comunemente utilizzato l’art. 1440.
Si deve aggiungere che non si può escludere che la mancanza delle qualità “credute” dal deceptus possa essere anche causa di un pregiudizio ulteriore della sua sfera patrimoniale o personale: ad es. la mancanza in un additivo alimentare delle caratteristiche fatte credere dal deceptor potrebbe causare la perdita della materia con esso lavorata.
Si può ben dire, allora, che l’ordinamento, con l’art. 1440, fa propria la “veduta” del deceptus (rectius: che in via ipotetica gli imputa), l’idea che questi si era fatta del contratto concluso (o, più esattamente, del ebene o del servizio che ne costituivano oggetto) facendo valere quel che questi era stato indotto a credere e dandogli di conseguenza quel che su questa base gli è venuto a mancare.
Se, allora, si riflette sulla logica che sottostà a tale configurazione normativa della “domanda” del deceptus e della “risposta” che l’ordinamento gli appresta, sembra fondato supporre che tale configurazione sia rappresentabile nei seguenti termini:
(a) il legislatore “sanziona” l’attività ingannevole del deceptor incorporando nel contenuto del contratto (o “fingendo” che, facendo “come se”, in esso rientri) ciò che a rigore (ossia secondo le regole generali dell’interpretazione del contratto) non ne fa parte ma che il deceptor ha dolosamente fatto credere al deceptus ne facesse parte;
(b) l’esecuzione di una prestazione difforme dal contenuto così sanzionatoriamente “integrato” del contratto si prospetta come un “inadempimento qualitativo” “non grave” (dato il presupposto che il deceptus avrebbe comunque concluso il contratto ancorché a “condizioni diverse”) dal punto di vista dell’interesse del creditore (ex art. 1455);
(c) donde l’esclusione del rimedio demolitorio (= annullabilità / risoluzione per inadempimento) e il diritto ad un risarcimento del danno da determinare secondo la logica dell’inadempimento qualitativo “non grave”.
Peraltro, questa tecnica di incorporazione “sanzionatoria” può sembrare trovi un precedente “minore” nell’art. 1370 c.c. (103): l’interpretazione contra proferentem, infatti, può ritenersi, in qualche modo, una sorta di “sanzione” che scioglie le ambiguità contrattuali determinando il contenuto del contratto “in danno” di chi le ha “architettate”, e dunque vincolando il predisponente ad un contenuto contrattuale che, per dover essere inteso “a favore dell’altro”, si può immaginare più vicino a quel che questi ha creduto e verosimilmente opposto a quanto “proditoriamente” perseguito con la clausola ambigua. L’art. 1440, perciò, sembra semplicemente andare oltre su questa medesima strada, ricostruendo / integrando il contenuto del contratto addirittura al di là dei margini interpretativi istituiti da un testo ambiguo e fino a far prevalere sul significato oggettivo della dichiarazione del deceptor la volontà artificialmente da questi fatta apparire al deceptus (104).
(103) Ora ripreso dall’art. 1469/quater c.c. Ma una situazione non molto dissimile si può, forse, riscontrare anche rispetto all’art. 1419, quando si pensi che il “requisito” che il contratto sarebbe stato concluso egualmente senza la clausola nulla è sempre fatto valere da un contraente e subìto dall’altro.
(104) Questa tecnica è ora utilizzata incisivamente dalla disciplina comunitaria di protezione del consumatore, ad es., a proposito delle difformità tra pubblicità / informazioni precontrattuali e qualità della prestazione determinate nel contratto (art. 1519/ter c.c., lett. b- e c-, a proposito della vendita di beni di consumo, dove la conformità del bene venduto è fatta dipendere - non dal testo o dalle dichiarazioni negoziali ma - dal raffronto con la “descrizione” fattane dal venditore e con le sue “dichiarazioni pubbliche”; art. 9, comma 2, L. 111/1995, a proposito dei c.d. xxxxxxxxx-vacanze, secondo cui le
Dunque, attraverso l’art. 1440 l’attività ingannevole viene assunta, in chiave “sanzionatoria”, come “impegnativa” nei confronti del deceptus ed “incorporata” nel contenuto del contratto: il suo dispositivo normativo funziona supponendo che il contratto dica non quel che oggettivamente dice ma quello che il deceptor ha fatto credere dicesse.
E, d’altronde, di una siffatta comprensione strettamente contrattuale di tale norma si trova conferma in quelle risalenti pronunce della giurisprudenza per le quali il contenuto del risarcimento previsto dall’art. 1440 deve conformarsi a quello del danno da inadempimento e nelle ragioni che essa adduce in sostegno di tale determinazione: per Cass. civ. n. 1308/1972 «il criterio di determinazione del danno è analogo a quello valevole per l’inadempimento sostanziandosi nel ristoro della mancata realizzazione del risultato positivo che la parte avrebbe realizzato in assenza dell’errore determinato dal comportamento doloso della controparte» e Cass. civ. n. 2840/1976 addirittura espressamente discorre di responsabilità contrattuale e configura il risarcimento come diritto a ripetere la maggiorazione del prezzo causata dai raggiri della controparte (105).
Perciò, la disciplina dell’art. 1440 può comprendersi nei termini dell’”incorporazione” sanzionatoria dell’inganno nel contenuto del contratto e fa, perciò, spiegare il risarcimento in esso previsto come una responsabilità da inadempimento rispetto ad un contenuto contrattuale così “integrato”.
Questo, però, non solo fa fuoriuscire il dispositivo dell’art. 1440 dalla logica della sanzione aquiliana alla violazione del dovere di buona fede su cui si fonda la dottrina dei “vizi incompleti” ma, soprattutto, ne àncora il funzionamento alla presenza del dolo in modo da recidere ogni possibilità analogica.
Il proprium dell’art. 1440 sta nel far prevalere la volontà negoziale che il deceptor ha fatto artificiosamente apparire al deceptus e che questi ha inteso accettare su quel che il primo ha in effetti dichiarato e su cui si è oggettivamente formata la relatio formale con la dichiarazione del secondo: ti vincolo – dice l’ordinamento – a quel che hai fatto credere di aver voluto e dichiarato e non a quello che hai in effetti dichiarato e realmente voluto e/o che sta scritto nel testo del contratto. Il dispositivo dell’art. 1440 è, perciò, necessariamente mediato da un voluto apparente del deceptor che è messo al posto del suo dichiarato reale e dall’artificio che ha indotto il deceptus a far conto sul primo senza avvedersi che non è contenuto nel secondo (106).
Ora questa mediazione, su cui si fonda il dispositivo dell’art. 1440, non solo è improponibile nelle fattispecie di violenza e di approfittamento dello stato di bisogno (dove
informazioni contenute nell’opuscolo informativo “vincolano l’organizzatore ed il venditore” – al di là del testo o delle dichiarazioni negoziali -).
(105) Ma così anche da recente Cass. civ. n. 2956/1999.
(106) Questo dispositivo, quindi, consiste in una rettifica imposta, dove l’offerta della controparte dell’art. 1432 è sopperita dalla “volontà fatta apparire” dal deceptor e dal suo artificio. “volontà fatta apparire” e artificio rappresentano, perciò, le condizioni insostituibili di questo dispositivo.
l’autore della minaccia o dell’approfittamento impone apertamente quel che la “vittima” consapevolmente accetta, sicché l’unica questione che a questo punto si può porre è se questa lo abbia validamente accettato) ma non è neanche presente nelle fattispecie di c.d. errore incidente: in queste, infatti, alla controparte dell’errante non è imputabile una “volontà fatta apparire” diversa dalla “volontà consegnata nella dichiarazione”, né è ascrivibile alcun artificio per indurre l’errante a far conto sulla prima invece che stare alla seconda (107). Sicché neanche rispetto al c.d. errore incidente, di cui la controparte pur potendosi accorgere non si sia accorta, si danno le condizioni di un’applicazione analogica del dispositivo proprio dell’art. 1440.
La logica contrattuale che comunque presiede al dispositivo dell’art. 1440 smentisce, dunque, la possibilità di ridurre tale norma ad una ratio genuinamente extracontrattuale e di ravvisarvi così la manifestazione positiva di un principio aquiliano che consente in xxx xxxxxxxx xx xxxxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxxx di qualsiasi scorrettezza precontrattuale che non procuri un vizio invalidante.
(107) Il che deve, ancor prima, far dubitare della possibilità di ricondurre la semplice “negligenza” del contraente che non si avvede dell’errore dell’altro e perciò manca di avvertirlo alla violazione della correttezza dovuta ex art. 1337 (X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 423-424). E questo non tanto perché la violazione della correttezza dell’art. 1337 supponga necessariamente una “malizia” ma, innanzitutto perché il dovere di correttezza non sembra possa spingersi fino ad includere obblighi tutori di questa portata verso la controparte (= usare diligenza al fine di avvedersi di un errore della controparte su circostanze su cui non si ha il dovere di informare e che non costituirebbe ragione di invalidità). E’ evidente, infatti, che, diversamente, salterebbero, fra l’altro, tutte le ragioni che inducono a ritenere irrilevanti l’errore sulla convenienza e l’errore sui motivi (ancorché inteso nel modo più restrittivo possibile): ogni contraente dovrebbe farsi carico in qualche misura di capire che cosa convenga alla sua controparte e quali motivi la spingono alla conclusione dell’affare onde avvertirla delle sue eventuali erronee valutazioni… ma così il principio di autoresponsabilità andrebbe a quel paese, e con esso tutta la logica della connessione sociale di mercato e la ratio della kantiana “socievole insocievolezza” che presiede al diritto moderno.
Questa considerazione spiega, altresì, perché si possa dubitare della riconducibilità alla violazione del dovere di buona fede anche del comportamento di chi, avendo intuito o essendosi accorto dell’errore non essenziale della controparte (che in quanto “non essenziale” non aveva il dovere di rilevare) non la abbia avvertita: qui o c’è una “malizia” che deborda nel dolo ed abilita ai relativi rimedi ex art. 1440 o c’è solo il mancato assolvimento di una funzione tutoria di un contraente rispetto all’altro che sembra esorbitare dal dovere di buona fede.
Diverso è, invece, il caso in cui un contraente ometta di avvertire la propria controparte, ad es., della pendenza di un giudizio di rivendica sul bene che le sta vendendo (su cui x. Xxxx. civ. n. 10779/1991): qui, infatti, non si ha un obbligo tutorio (= curare che la propria controparte, nonostante le siano state date tutte le informazioni dovute, non si sbagli) bensì l’obbligo di informare l’acquirente di una “condizione negativa” dell’oggetto della vendita la cui violazione probabilmente attiva la “garanzia” degli artt. 1481 ss.
Ovviamente, questo problema non si pone neanche nella prospettiva, per il vero molto plausibile, di G. D’Amico, Responsabilità precontrattuale, cit., 1026 ss., che limita gli obblighi di informazione a quei profili soltanto che, a contratto concluso, si trasformerebbero in cause di invalidità, oltre che agli obblighi espressi di fonte legale (ma in tal senso già X. Xxxxxxxxx, Doveri di informazione e responsabilità precontrattuale, in Banca, borsa e tit. cred., 1994, I, 617 ss.).
Funzione e dispositivo dell’art. 1440 non sembrano, dunque, tollerarne una estensione orizzontale agli altri vizi incompleti e/o incidenti.
Ma se la ratio dell’art. 1440 è quella propriamente contrattuale che prima si è vista, allora si capisce perché non è neanche condivisibile una estensione verticale del suo dispositivo alla fattispecie “più grave” del dolo determinante cui l’art. 1439 connette l’annullabilità del contratto.
Questa estensione è stata prospettata (108) sostenendo che sarebbe possibile al deceptus, che dai raggiri di controparte sia stato indotto alla stipula di un contratto che non avrebbe comunque concluso (= dolo determinante), a riconsiderare l’utilità del negozio ed a chiedere invece del suo annullamento il risarcimento del danno, precludendo così al deceptor di eccepire il carattere determinante del dolo (109).
Ora, che il deceptor non possa eccepire in sé l’annullabilità del contratto discende direttamente dal disposto dell’art. 1441, che limita la legittimazione all’azione di annullamento alla parte nel cui interesse questo è previsto. Ma il deceptor può, invece, eccepire che la mancata proposizione dell’azione di annullamento implica convalida del negozio annullabile e che la convalida è incompatibile con un’azione di danni (v. supra: par. prec.).
E d’altronde, perché sia determinante il dolo deve concernere un errore essenziale e – come prima si è visto (supra: par. prec.) – le ipotesi di errore essenziale, per come definite dall’art. 1429, son tali che una convalida accompagnata da un’azione di danni risponderebbe, in linea di massima, ad una strategia opportunistica del deceptus che l’ordinamento mostra in generale di non assecondare (110): così, infatti, il deceptus si approprierebbe di un affare che non aveva
(108) Da X. Xxxxxxx, Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, cit., 189.
(109) Peraltro, a sostegno di questa tesi si cita Xxxx. civ. n. 9523/1999, che, però, dice una cosa diversa: affermando che «in ipotesi di dolo incidente, il contraente il quale, assumendo che, in assenza dei raggiri sofferti avrebbe concluso il contratto a condizioni diverse e che l’altro contraente fu in mala fede, agisce contro costui chiedendo il risarcimento del danno, non deve esercitare anche l’azione di annullamento del contratto, in quanto la suddetta domanda risarcitoria ha come presupposto che i raggiri non abbiano carattere determiante del consenso e che, pertanto, il contratto resti valido», la Corte non teorizza affatto una conversione del dolo determinante in dolo incidente ma si limita semplicemente a ribadire che la domanda del contraente che l’attore, chiedendo solo il risarcimento del danno «si era chiaramente riferito alla previsione dell’art. 1440 c.c., che consente al contraente vittima dei raggiri dell’altra parte, ove questi non siano tali da determinare il consenso, di ottenere il risarcimento dei danni dal contraente in mala fede».
(110) Infatti scrive X. Xxxxx in X. Xxxxx – X. Xx Xxxx, op. cit., 573: “Il dolo è determinante quando induce la vittima a procurarsi un bene o un servizio di cui non ha bisogno (o a privarsi di un bene che gli è necessario). Il dolo è incidente se induce la vittima a promettere, in vista della controprestazione, più di quanto convenisse. Il primo incide sull’oggetto della stipulazione o della promessa, il secondo sulla misura della prestazione promessa o stipulata. … Questa è la ragione per cui il dolo determinante conduce all’annullamento e il dolo incidente conduce ad un risarcimento che ha tutti i caratteri della rettifica.
… Chiunque sia vittima di un raggiusto può chiedere il risarcimento dei danni, in aggiunta o in sostituzione dell’annullamento, con il solo limite per cui la vittima non può adoperare il contratto annullabile tenendolo in vita apposta per fabbricarsi in tal modo perdite che altrimenti non esisterebbero”.
alcuna intenzione di concludere e pretenderebbe di esser soddisfatto per equivalente dell’affare che erroneamente credeva di avere concluso.
Dunque, l’art. 1440 non solo non può essere utilizzato per dar copertura risarcitoria agli altri vizi “incompleti” o “incidenti” (erroneamente ritenuti assimilabili al dolo incidente) ma neanche giova ad argomentare, anche soltanto per il caso del dolo, la sostituibilità, a discrezione della “vittima”, del rimedio demolitorio con quello risarcitorio.
Ma le conclusioni raggiunte a proposito della incompatibilità tra responsabilità e rinuncia ad avvalersi del rimedio demolitorio e della inestensibilità del dispositivo dell’art. 1440 confermano quel che già si era rilevato in generale (111). E cioè che l’opzione dell’ordinamento per la decostruzione e la scomposizione dell’abuso del diritto nella “trattazione dei singoli istituti” impone nel campo della responsabilità, dove a questo paradigma (attraverso l’introduzione nell’art. 2043 del dolo e dell’«ingiustizia») sembrerebbe sia stata data piena operatività, di tener conto dei modi e dei limiti di rilevanza che ad esso sono stati assegnati negli altri ambiti normativi.
Un uso incontrollato del rimedio aquiliano è in grado di retroagire in modo determinante sulle diverse tutele che contro gli “abusi” sono state predisposte soprattutto in materia contrattuale. E stravolgere, così, gli equilibri, tra la protezione del contraente rimasto vittima dei comportamenti sleali della controparte e le ragioni di efficienza economica affidate allo strumento negoziale, che sono impliciti nell’articolazione e nel dosaggio della disciplina dei vizi della volontà e delle azioni demoltorie a questi riconnesse.
4.- Gli illeciti antitrust e l’azione di risarcimento ex art. 33 L. n. 287/1990: ancora sui rapporti tra rimedi contrattuali (demolitori) e rimedio aquiliano.
Riproducendo un approccio ormai di routine nell’ambito dell’intero diritto privato, quanti si ripropongono di incentivare l’operatività della normativa antitrust si rivolgono alla responsabilità. E quando si accorgono delle difficoltà che le sue tutele frappongono alla strategia di promuovere un controllo diffuso della effettiva concorrenzialità del mercato, finiscono per maturare l’idea che, per superarle, non si debba far altro che allargare le maglie del rimedio xxxxxxxxx.
Gli strumenti principali di questo programma (che si vorrebbe) interpretativo sono costituiti, da un lato, da un’utilizzazione del paradigma aquiliano che appare indiscriminata e che, in molti casi, finisce per sovrapporsi alle discipline del contratto ed ai loro rimedi e, dall’altro,
Sono, allora, proprio questo “diverso oggetto” di dolo determinante e dolo incidente e questo “limite” che impediscono, non occasionalmente ma in generale, l’ammissibilità di una “coneversione” del dolo determinante in dolo incidente.
(111) V. M. Barcellona nel volume di prossima pubblicazione per i tipi di UTET su Danno e responsabilità: Parte prima, cap. V, par. 3.
dall’esplicito indebolimento della funzione compensativa della responsabilità e dalla conseguente primazia che su di essa si ritiene vada finalmente riconosciuta alla funzione di deterrence.
Segnatamente, rispetto alla normativa antitrust a questa strategia sono affidati due compiti distinti, quello di allargare l’area dei soggetti legittimati all’esperimento dell’azione aquiliana ex art. 33 L. n. 287/1990 e quello di estenderne il risarcimento oltre la misura del danno effettivo in guisa da incentivarne l’iniziativa (112).
Rispetto alla normativa antitrust, dunque, la funzione di deterrence affidata alla responsabilità appare compulsata tanto sul piano dell’ an che su quello del quantum..
A sostegno del primo di questi compiti ora si adducono le decisioni della Corte di Giustizia Xxxxxxx e Xxxxxxxx (113) nelle parti in cui affermano che «la piena efficacia dell’art. [81] del Trattato e, in particolare, l’effetto utile del divieto sancito dal n. 1 di detto articolo sarebbero messi in discussione se fosse impossibile per chiunque chiedere il risarcimento del danno causatogli da un contratto o da un comportamento idoneo a restringere o a falsare il gioco della concorrenza».
L’«effettività» richiesta da tali pronunce e l’implementazione della funzione dissuasiva che essa evocherebbe sono, allora, sembrate sufficienti a metter su, fra le altre, un’argomentazione che, chiamando in campo la responsabilità aquiliana e la capacità che ad essa andrebbe riconosciuta di “armare” gli interessi diffusi (114), vorrebbe estendere la tutela risarcitoria dell’art. 33 anche ai
(112) Per questo quadro si v. X. Xxxxxxx, Private enforcement e diritto antitrust: le prospettive comunitarie, infra in questo volume..
Ma in argomento si v. fra gli altri: X. Xxxxxxxxxx, Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per la violazione della normativa antitrust, Milano, 1996; X. Xxxxxxxxx, Violazione della normativa antitrust e risarcimento del danno, in Danno e responsabilità, 1996, 558 ss.; X. Xxxxxxx, La giustiziabilità delle norme e dei provvedimenti antitrust, in Antitrust e globalizzazione, Milano, 2004, 188 ss;
X. Xxxxxxxxx, Intese limitative della concorrenza e danno del consumatore: la decisione delle sezioni unite, punto d’arrivo o punto di partenza?, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 1384 ss.; X. Xxxxxx, I consumatori e la tutela antitrust, in Giur. It., 2005, 1675 ss.X. Xxxxxxxx, Illeciti antitrust e rimedi civili del consumatore, in Contratti, 2006, 146 ss.; X. Xxxxxxxx, Le domande dei consumatori nei confronti dei responsabili di comportamenti anticoncorrenziali: questioni di competenza, legittimazione ed interesse ad agire, in Riv. dir. proc., 2006, 380 ss.
(113) Rispettivamente, Xxxxx xx Xxxxxxxxx 00/00/00, causa C-453/99, in Foro it., 2002, IV, 75 con nota di X. Xxxxxxxx – X. Xxxxxxxxx, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte: “chi è causa del suo mal … si lagni e chieda i danni”, e Xxxxx xx Xxxxxxxxx 00/00/00, causa C-295-298/04 in Danno e responsabilità, 1/2007, 19, con note di X. Xxxxxxx, Il risarcimento del danno per violazione del diritto antitrust comunitario: competenza, danno risarcibile e prescrizione e di D. Carpagnano, Prove tecniche di private enforcement del diritto comunitario della concorrenza.
(114) Ma una sollecitazione in questa direzione è sembrato venire anche dal Libro verde sulle azioni di risarcimento del danno per violazione della norme antitrust comunirie, Bruxelles, 19/12/05, COM (2005) 672.
In ordine a questa prospettiva si v. X. Xxxx, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, Milano, 2003, 171 ss.
consumatori che da intese e comportamenti anticoncorrenziali abbiano ricevuto pregiudizio (115).
La stessa Corte di legittimità sembra aver dato seguito ad una tale prospettiva modificando il proprio precedente indirizzo.
In precedenza l’orientamento della giurisprudenza di legittimità si era attestato sull’idea che la disciplina antitrust rimanesse ancora – come ogni altra regolamentazione della concorrenza – una disciplina essenzialmente “di ceto”, della quale, perciò, erano legittimati ad avvalersi solo gli imprenditori, e che le stesse sue innegabili finalità generali di protezione del mercato e della sua concorrenzialità offrissero ai consumatori finali una tutela solo indiretta: Cass. civ. n. 17475/2002, aveva respinto la domanda di risarcimento che un consumatore aveva promosso contro una compagnia di assicurazione per avergli praticato condizioni di polizza determinate da un’illecita intesa sulla considerazione che «ai fini della risarcibilità dei danni configurabili quali ricadute estreme sul consumatore finale di un’intesa restrittiva della concorrenza, non è sufficiente la semplice sussistenza, a monte della singola operazione conclusa dal consumatore, di un’intesa vietata, ma occorre dimostrare che, nel concreto, il rapporto instauratosi fra quest’ultimo e l’impresa si connoti per la violazione di uno specifico ed autonomo diritto soggettivo» (116).
Ma dopo qualche anno, proprio citando l’orientamento della Corte di Giustizia e la sentenza Courage, le Sezioni Unite, decidendo sempre sull’azione promossa da un altro consumatore contro un’altra compagnia assicuratrice partecipe della medesima intesa, con la sentenza n. 2207/2005 capovolgevano questo orientamento e sancivano che «la legge … antitrust detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque … [possa] allegare uno specifico pregiudizio», che «di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza il consumatore acquirente finale … vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza», che «la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento … integra
… il danno ingiusto ex art. 2043» e che, pertanto, «il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per effetto di una collusione “a monte”, ha a
(115) Al riguardo v., da ultimo, X. Xxxxxxx, New prospects for private enforcement of ec competition law: Courage x. Xxxxxx and the Community right to damages, in Comm. Mark. Law Rev., 2002, 466 ss; X. Xxxxxxxxx, Intese restrittive e legittimazione dei consumatori finali ex art. 33 legge antitrust, in Dir. ind., 2003, 176 ss; X. Xxxxx, «Take Courage»! La Corte di giustizia apre nuove frontiere per la risarcibilità del danno da illeciti antitrust, in Foro, it., 2002, 98 ss; X. Xxxxxxxx, Il consumatore e l’antitrust, in Foro it., 2003, 1130 ss; X. Xxxxxxxxx, Antitrust e tutela civilistica: anno zero, in Danno e resp., 2003, 396 ss.;
(116) V. in proposito X. Xxxxxxxx, Intese restrittive della concorrenza e azione risarcitoria del consumatore finale: argomentazioni extravagantes per un illecito inconsistente, in Foro it., 2003, I, 1125 e X. Xxxxxxxxx, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazione di norme antitrust, in Danno e resp., 2004, 933 ss.
propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza …, l’azione di
… risarcimento del danno di cui all’art. 33 della L. 287/1990» (117).
Dunque, di fronte ad un contratto che appare l’effetto “a valle” di un illecito anticoncorrenziale “a monte” si darebbe una violazione del “diritto ad una scelta effettiva” il quale integrerebbe un “danno ingiusto ex art. 2043”, di cui l’azione ex art. 33 rappresenterebbe una mera specificazione (118).
Xxxxxx, non sembra che quella così tratta dalle Sezioni Unite sia una conseguenza necessaria del dictum della Corte di Giustizia. E sembra, invece, che l’idea di ricorrere al rimedio aquiliano per la tutela dei consumatori tragga origine, piuttosto, dalla mancata considerazione del modo in cui la violazione della disciplina antitrust impatta sulla validità dei contratti “a valle”.
Dalla declamazione della Corte certo si evince che l’”effettività” da essa richiesta concerne l’accesso alla tutela di chi, segnatamente i consumatori, a causa dell’illecito anticoncorrenziale abbia subito un pregiudizio.
Ma quel che da tale declamazione si può, propriamente, argomentare è solo il superamento dell’idea risalente che la normativa antitrust costituisca una disciplina essenzialmente corporativa, e cioè una disciplina rivolta alle imprese e da queste soltanto azionabile (119).
In questo senso il principio così enunciato dalla Corte, in realtà, si limita a ribadire una filosofia generale che traspare dall’intera disciplina del rapporto tra Stato ed economia apprestata dalla Comunità, prima, e dall’Unione, ora. Questa filosofia assume che i fallimenti sociali
(117) X.xx i commenti di X. Xxxxxxxxxxxx, La legittimazione dei consumatori alla richiesta di risarcimento dei danni da condotta anticoncorrenziale, in Giur. it., 2005, 2062 ss., e di X. Xxxxxx, I consumatori e la tutela antitrust, in Giur. it., 2005, 1675 ss X. Xxxxxx, I consumatori e la tutela antitrust, in Giur. it., 2005, 1675 ss.
(118) Questi principi sono stati di recente ridabiti da Cass. civ. n. 2305/2007, secondo cui «L'azione risarcitoria, proposta dall'assicurato - ai sensi dell'art. 33, comma 2, L. 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) - nei confronti dell'assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dall'Autorità Garante per aver partecipato ad un'intesa anticoncorrenziale, tende alla tutela dell'interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso da comportamenti anticompetitivi posti in essere a monte dalle imprese), nonchè alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell'aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l'assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato», precisando che «in siffatta azione l'assicurato ha l'onere di allegare la polizza assicurativa contratta (quale condotta finale del preteso danneggiante) e l'accertamento, in sede amministrativa, dell'intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria), ed il giudice potrà desumere l'esistenza del nesso causale tra quest'ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall'assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l'intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo. Accertata, dunque, l'esistenza di un danno risarcibile, il giudice potrà procedere in via equitativa alla relativa liquidazione, determinando l'importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari». Ma x.xx anche i commenti di X. Xxxxxxxxx, Il danno antitrust i n cerca di disciplina (e identità?), in Foro it., 2007, 1102 ss..
(119) Cfr. X. Xxxxxxxx, Risarcimento del danno da illeciti antitrust: profili di tutela interna e comunitaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, 878 ss., nel testo e nelle note, segnatamente a proposito di Xxxx., sez. un., 2207/2005.
dell’economia, che avevano presieduto all’avvento ed alla crescita smisurata del Welfare State, non fossero ascrivibili al mercato ma al suo stesso mancato funzionamento e che, perciò, contro questi fallimenti non vi è da attivare una ratio politica alternativa bensì, semplicemente, vi è da introdurre forzosamente il mercato e/o i suoi esiti là dove, rispettivamente, esso manchi o non funzioni secondo i suoi canoni teorici.
La disciplina antitrust, di conseguenza, si prospetta, nella costruzione europea, come una delle due leve fondamentali (essendo l’altra quella della disciplina dei contratti di consumo) che sono chiamate ad implementare la protezione sociale dei cittadini dell’Unione (in luogo del tradizionale interventismo pubblico) ed a compensare lo smantellamento del vecchio Welfare State (120).
Checché si pensi di questa filosofia, si può anche ritenere che sul piano normativo essa sia istitutiva di una nuova ratio della disciplina antitrust e che questa nuova ratio ne determini altrimenti i beneficiari ed ampli in coerenza la legittimazione a farne valere le tutele.
Questo vuol dire il «chiunque» della Corte: che, a prescindere dalle – ed eventualmente contro le - funzioni delle normative nazionali, in ogni caso la disciplina della concorrenza recata dal Trattato presenta una ratio – per così dire - sociale (121) la quale esclude che la cerchia delle sue tutele possa essere limitata ai “concorrenti” (122).
Solo che questa ratio e l’indicazione interpretativa che ne consegue non sempre attraversano la responsabilità civile e, comunque, mai la attraversano in un modo che possa sensatamente investire il pregiudizio subito dal consumatore per essersi ritrovato a concludere un contratto a condizioni diverse e peggiori di quello che avrebbe concluso in una condizione di “concorrenza perfetta”.
(120) In proposito v. X. Xxxxxxxxxx, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, 111 ss e I nuovi controlli sul contenuto del contratto e le forme dell’eterointegrazione: Stato e mercato nell’orizzonte europeo, in Riv. crit. dir. priv., 2008, 33 ss.
(121) Nel senso molto “liberista” che alla qualità di “sociale” attribuisce i pensiero ordoliberale.
(122) Sotto questo profilo il superamento di Cass. 17475/2002 (che limitava i destinatari della L. 287/1990, e la relativa competenza della Corte d’Appello, ai soli imprenditori e che però ammetteva la legittimazione dei consumatori a veder tutelati i loro diritti innanzi al giudice ordinariamente competente) ad opera di Xxxx.2207/2005 (che, invece, ha ritenuto la legittimazione anche dei consumatori ad avvalersi dell’art. 33, comma 2, della L. 287/1990), seppur nei fatti determinato dall’evidente intento di accantonare gli orientamenti permissivi dei Giudici di pace, si potrebbe spiegare solo nel quadro di un’interpretazione filocomunitaria della L. 287/1990 (anche in forza dell’espressa previsione del comma 4 dell’art.1), dalla quale, però, non sembrano tratte tutte le inevitabili conseguenze quando si pensi ai limiti che la competenza del giudice d’appello frappone alla giustiziabilità degli interessi dei consumatori.
Quel che viene in discussione nei casi immaginati dalla Corte è la questione delle condizioni alle quali chi abbia subito un pregiudizio per effetto di un illecito antitrust abbia accesso ad una qualche tutela (anche risarcitoria) (123).
Il fatto è, però, che il terreno sul quale il principio così enunciato mostra la sua rilevanza è, propriamente, quello dei “requisiti” della fattispecie aquiliana e, a più, quello delle condizioni di operatività della responsabilità dell’art. 1338, ossia, rispettivamente, quello della qualificabilità del danno come “ingiusto” e quello delle condizioni di applicabilità di una responsabilità precontrattuale che presuppone necessariamente la previa invalidazione del contratto (124). Mentre rispetto ai contratti “a valle” dei consumatori non sembra proprio si dia nessuna di queste due ipotesi di rilevanza.
In linea di massima, intese e comportamenti anticoncorrenziali possono risultare di pregiudizio individuale in due direzioni (125): verso i concorrenti pregiudicati da un’intesa da cui sono esclusi
(126) e verso gli utilizzatori/consumatori dei prodotti/servizi cui l’intesa si riferisce.
Non è difficile immaginare che i primi troveranno legittimazione al ristoro aquiliano dei danni subiti già nella previsione dell’art. 33 L. 287/1999, la quale, per quest’aspetto sì, si presenta come una mera determinazione dell’art. 2600 c.c. a misura che intese e comportamenti restrittivi della concorrenza non possono non ritenersi anche atti di concorrenza sleale (127). La loro tutela, dunque, non richiederà di compulsare nessun particolare argomento funzionale (= plurioffensività dell’illecito anticoncorrenziale e raggio esteso degli interessi protetti dalla disciplina antitrust).
Diversa e più articolata è, invece, la posizione dei secondi (128).
Gli utilizzatori/consumatori possono lamentare di essere stati pregiudicati da intese e comportamenti restrittivi della concorrenza, fondamentalmente, in quanto assumano di essere
(123) Cfr. X. Xxxxxxx, Il risarcimento del danno per violazione del diritto antitrust comunitario: competenza, danno risarcibile e prescrizione (nota a Corte Giustizia CE, sez. III, 13/07/2006, C – 259-298/04), in Xxxxx e resp., 2007, 26 ss.; X. Xxxxxxxxx, Il danno Antitrust in cerca di disciplina (e identità?), cit., 1102 ss.
(124) V. i parr. precedenti.
(125) Ma per una puntuale ed analitica tipologia degli accordi anticoncorrenziali e delle direzioni dei loro effetti pregiudizievoli v. X. Xxxx, Autonomia privata, sistema delle invalidità e disciplina delle intese anticoncorrenziali, cit., 163 ss.
(126) Ma v. le considerazioni di X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx, Intesa illecita e risarcimento a favore di una parte, cit., 75 ss. a proposito della sentenza Courage.
(127) In argomento v. X. Xxxxxx, Concorrenza sleale, violazione di norme pubblicistiche e responsabilità, Milano, 1997 e ora X. Xxxxxxxx,
Il risarcimento del danno da illecito concorrenziale, Napoli, 2005..
(128) In proposito v. anche X. Xxxxxxxxxx, Antitrust e abuso di responsabilità civile, in Danno e resp., 2004, 469 ss. e X. Xxxxxxxxx, Xxxxxx sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, ibidem, 2004, 933 ss. In realtà, la tutela dei consumatori, e dunque la loro legittimazione ad agire, non sembra siano discutibili, ma l’”abuso di responsabilità civile” c’è nel senso appresso chiarito nel testo.
stati indotti a concludere uno scambio a condizioni diverse da quelle alle quali lo avrebbero concluso in un mercato pienamente concorrenziale (129).
Segnatamente, essi possono assumere o di aver dovuto subire un corrispettivo non concorrenziale o di aver ricevuto prodotti o servizi o condizioni implicanti costi (o maggiori costi) non necessari (130). In entrambi questi casi, però, essi dedurranno la loro condizione di contraenti, sicchè la loro tutela interpellerà, innanzitutto, la disciplina delle invalidità e, solo eventualmente e di conseguenza, quella della responsabilità precontrattuale.
Come si sa, le alternative principali al riguardo ruotano intorno alle categorie della “nullità derivata” e della “nullità diretta” per violazione di norme imperative o dell’ordine pubblico (131). Anche se, forse, può cogliere meglio il tipo di problema che in tal caso si propone la considerazione che intese e pratiche anticoncorrenziali pongono le imprese che vi partecipano in una posizione dominante che ne sottopone le pratiche contrattuali “a valle” direttamente al vaglio dell’art. 3 della L. 287/1990: l’invalidità (delle clausole) dei contratti conclusi con gli utilizzatori/consumatori si potrebbe ritenere, così, discenda autonomamente dalla posizione dominante resa possibile dall’intesa anticoncorrenziale e dall’abuso cui essa mirava o che essa ha eventualmente permesso.
Quel che sembra certo, comunque, è che, proprio perché il pregiudizio è qui necessariamente mediato dalla conclusione del contratto, la tutela dell’utilizzatore/consumatore passa inevitabilmente attraverso la disciplina della nullità e che la funzione di protezione che essa evidentemente adempie rende applicabile il 2° comma dell’art. 1419 (adeguatamente ricompreso): con la conseguenza della conservazione del contratto (del consumatore) e l’invalidazione della sola clausola contrattuale abusiva.
Su questa base, allora, la tutela dei consumatori si darà attraverso gli strumenti contrattuali dell’invalidità parziale del contratto “a valle” e della sua integrazione ex art. 1374 (132), e ciò anche quando – come per lo più accade - la clausola invalida concernesse il corrispettivo, che, in questa prospettiva, sarà rideterminato secondo equità, un’equità che dovrà operare interrogando il mercato o simulandone il funzionamento (133).
(129) Del tutto inverosimile si mostra, infatti, l’ipotesi che intese e comportamenti restrittivi siano rivolti a precludere l’accesso al mercato e allo scambio ai loro stessi possibili acquirenti. Né, d’altronde, potrebbe ritenersi risarcibile il danno dei consumatori che abbiano dovuto rinunciare all’acquisto di un bene o servizio per la loro “impotenza economica” a sopportare il maggior peso di un prezzo non concorrenziale.
(130) Ad es., prodotti “selettivi” che imponendo per il loro funzionamento l’uso di un determinato prodotto o servizio impediscono di avvalersi della concorrenza nel mercato dei beni o servizi “secondari”.
(131) In proposito v. X. Xxxx, Autonomia privata e sistema delle invalidità, cit., 157 ss. e la bibliografia ivi citata.
(132) Specificamente per questa prospettiva, X. Xxxxxxxxxx, Clausole generali e giustizia contrattuale. Equità e buona fede tra codice civile e diritto europeo, Torino, 2006, 111 ss.
(133) In modo analogo a quanto avviene, ad es., nel caso dell’art. 9 della L. 192/1998 (su cui v. X. Xxxxxxx, Abuso di dipendenza economica, e autonomia privata, Milano, 2003, 179 ss. e la bibliografia ivi citata).
Mentre quel che, con altrettanta certezza, si deve escludere è, invece, che si possa seriamente immaginare che si diano, ad un tempo, un contratto integralmente valido e una responsabilità aquiliana dell’autore dell’illecito anticoncorrenziale per la lesione del “diritto di scelta” del consumatore: ciò non solo traviserebbe qualsiasi rapporto sistematico tra tutele contrattuali (demolitorie) e tutela aquiliana ma, ancor prima, traviserebbe il senso reale della domanda del consumatore, che solo impropriamente si può dire volta a veder risarcito il danno subito laddove (comprendendola correttamente) intende piuttosto ricevere indietro il maltolto, ossia dedurre l’invalidità della clausola abusiva e la restituzione dell’indebito corrisposto.
Per il vero, si può ipotizzare un’altra categoria di soggetti che possono ricevere pregiudizio da intese e comportamenti anticoncorrenziali e che, però, versano nella posizione di “terzi” rispetto agli autori dell’illecito antitrust.
Si tratta dei consumatori che abbiano subito corrispettivi maggiori di quelli che avrebbero pagato in condizioni di concorrenza in ragione del fatto che intese e comportamenti anticoncorrenziali abbiano fatto lievitare i costi dei rispettivi venditori e fornitori.
La loro qualità di “terzi” potrebbe far pensare alla responsabilità aquiliana. Ma su questo piano la loro tutela incontrerebbe le medesime difficoltà che, ad es., avrebbero incontrato le altre squadre di serie A ad aver risarcite le minore entrate ricavate dalle partite con un Torino decimato dalla tragedia di Superga o privo di un campione come Xxxxxx (134).
Al risarcimento di quest’ordine di pregiudizi sembra ostare una ragione forte ma non ancora adeguatamente spiegata, che, ad es., in Italia si ritrova espressa nel linguaggio metaforico della causalità (un tale danno è detto, per lo più, “mediato e indiretto”) e che nel Common Law, oltre che nell’analogo linguaggio della remotness, è anche rappresentata, altrettanto metaforicamente, nei termini del floodgates argument (135).
A questo genere di pregiudizi ed al modo metaforico in cui essi di solito sono considerati, verosimilmente, si riferiva la Corte quando, tanto in Courage che in Xxxxxxxx, ammoniva che la tutela da essa invocata fosse subordinata alla ricorrenza di un nesso di causalità fra il danno e la pratica vietata.
Qui, infatti, il danno non manca, e dunque le ragioni della responsabilità ci sarebbero tutte. Quel che, invece, sembra opporsi alla sua rilevanza è una ragione che va cercata sul terreno del dimensionamento generale del rimedio aquiliano, ossia in ciò che di un medesimo fatto dannoso fa dire, al tempo stesso, che è (attuazione di) un “rischio specifico” e intollerabile rispetto a chi vi è stato personalmente coinvolto e che, invece, si dà come un “rischio generico” non coperto dal sistema di responsabilità rispetto agli altri (136).
(134) V. M. Barcellona nel volume di prossima pubblicazione per i tipi di UTET su danno e responsabilità: Parte I, cap. IV, par. 4
(135) Per tutti v. B.S. Markesinis – S.F. Xxxxxx, Tort Law, Oxford, 1999, rispettivamente, 191 ss e 88 ss.
(136) Ciò che in questo caso potrebbe, forse, far mettere in discussione la sicura ricorrenza delle ragioni di questo generale dimensionamento della responsabilità è la circostanza che qui il danno subito dai consumatori non è altro che il danno che i loro venditori e fornitori sono riusciti ad evitare trasferendo integralmente il maggior prezzo subito per effetto dell’illecito
Analoghe considerazioni possono farsi rispetto all’uso che talvolta si propone del rimedio aquiliano come strumento di tutela contro le pratiche commerciali abusive previste dagli artt. 18 ss. del D. Lgs. n. 206/2005 (137): La rilevanza di queste pratiche, infatti, si dà certamente sul diverso terreno del dolo incidente dell’art. 1440 e può, forse, anche implicare la necessità di rideterminazioni interpretative di discipline come quelle relative all’incapacità naturale del 2° comma dell’art. 1425, ai requisiti della violenza dell’art. 1435 o al c.d. timore reverenziale dell’art. 1437. Mentre invocare il rimedio aquiliano costituisce sempre un fuor d’opera.
anticoncorrenziale sul prezzo dei loro prodotti o servizi derivati. Ma anche questo, ancora una volta, non ha niente a che vedere con la funzione compensativa o preventiva della responsabilità.
(137) V. in proposito M.R. Xxxxxxx, Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuov. Giur. civ., 2009, 477 ss. e X. Xx Xxxxxxxxxx, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori, in Nuove Leggi civili, 2008, 1057 ss.