Dispensa di diritto civile
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Il contratto : principi generali, struttura e causa. Dal contratto ai contratti.
Indice
1 – IL CONTRATTO CONQUISTA IL BENE DELLA GIUSTIZIA : Corte Costituzionale n. 248 del 2013 e 77 del 2014;
2- LA CAUSA AL TEMPO DELLA LIBERTA’: DALLA FUNZIONE ECONOMICO- SOCIALE ASTRATTA ALLA FUNZIONE ECONOMICO-
INDIVIDUALE CONCRETA: Corte di Cassazione, sentenza del 8 maggio 2006, n. 10490;
3 – LA CAUSA DIVENTA REQUISITO DINAMICO E FUNZIONALE DEL
CONTRATTO: Corte di Cassazione n. 16315 del 2007 e n. 26958 del 2007;
4 – IL GIUDIZIO DI RAGIONEVOLEZZA ED EQUITA’ NELL’ASSICURAZIONE CLAIMS MADE: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 6 maggio 2016, n. 9140
Selezione giurisprudenziale
1. IL CONTRATTO CONQUISTA IL BENE DELLA GIUSTIZIA :
Con ordinanza n. 248 del 2013, prima, e ordinanza n. 77 del 2014, poi, la Corte Costituzionale afferma che l’art. 1385, comma 2, c.c. non può considerarsi illegittimo nella parte in cui non ammette la riducibilità della caparra manifestamente eccessiva.
Il giudice rimettente aveva, in entrambi i casi, ritenuto che il comma 2 dell’art. 1385 c.c. contrastasse con l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza nella parte in cui non prevede alcun strumento di riequilibrio dell’assetto contrattuale.
In entrambi i casi la Corte dichiara inammissibile la questione sotto il profilo della non manifesta infondatezza e della rilevanza.
In particolare si afferma che, nel caso di clausola negoziale che rifletta un regolamento degli opposti interessi non equo, il giudice potrebbe rilevare d’ufficio la nullità ex art. 1418 co 1 c.c. per contrasto con l’art. 2 Cost.
Corte Costituzionale n. 248 del 2013
(omissis)
Ritenuto che − in un giudizio civile promosso per ottenere la restituzione di somma che gli attori assumevano versata come anticipo (in misura di circa un terzo del pattuito) per l’acquisto di un immobile, che non aveva poi potuto, però, aver luogo per la mancata erogazione, ad essi, di un mutuo bancario destinato a coprire il residuo prezzo − l’adito Tribunale ordinario di Tivoli, premesso che nel preliminare di vendita, l’importo corrisposto dai promissari acquirenti, era stato testualmente qualificato come “caparra confirmatoria”, ha sollevato d’ufficio, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non dispone che – nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra – il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove […] sussistano giustificati motivi»;
che, ad avviso del rimettente, si prospetta, nella specie, una esigenza di bilanciata tutela del diritto della parte non inadempiente (cioè del venditore), a percepire la caparra, e dell’opposto interesse di quella inadempiente (cioè del promissario acquirente) a non perdere un capitale notevole, ed eccessivo nella sua quantificazione, a fronte di un (proprio) inadempimento che, «seppur colposo, certamente non è stato voluto e rispetto al quale si è adoperato in ogni modo per trovare una soluzione»;
che, però, l’automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al
giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell’equità oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale;
dal che il dubbio, appunto, della sua “irragionevolezza”;
(omissis)
Considerato che, dal contesto dell’ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile, nell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui non risulta fondata l’eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall’Avvocatura;
che la questione in esame è, però, comunque, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, in punto sia di non manifesta infondatezza che di rilevanza;
che, infatti, per il primo profilo, nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria da parte dell’accipiens (e, specularmente, tra l’inadempimento dell’accipiens e il diritto della controparte ad esigerne il doppio), il rimettente omette di
considerare che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’articolo 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «gravemente colpevole, […] cioè imputabile (ex art. 1218 x.x. x xxx. 0000 x.x.) x xx xxx xxxxxx importanza (ex art. 1456 c.c.)», come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009;
che, in punto poi di rilevanza, il Tribunale rimettente, per un verso, trascura di indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, così da poter esprimere un necessario coerente giudizio di
corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria; per altro verso, non tiene conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come, nella specie, egli prospetta) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o
parziale) ex articolo 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2
Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa,
«funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale
nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato» (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009).
Visti gli artt. 26, secondo xxxxx, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.
Corte Costituzionale 77 del 2014;
(omissis)
che, comunque, questione identica a quella odierna – già sollevata dal medesimo Tribunale ordinario di Tivoli in fattispecie speculare, di ritenzione della caparra da parte del promittente del venditore – con sentenza di questa Corte n. 248 del 2013, è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza. Quanto al primo profilo, perché – nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento dell’accipiens o del tradens, e, rispettivamente, la restituzione del doppio, ovvero la ritenzione, della caparra confirmatoria – il rimettente aveva omesso di considerare, al fine del decidere, che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’art. 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «“gravemente colpevole […], cioè imputabile (ex artt. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)” come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009». E, quanto al secondo profilo, perché quel Tribunale non aveva tenuto conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’art. 2 Cost. (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «“funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato” (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)»;
che – stante l’assoluta identità di contenuto tra l’ordinanza di rimessione oggetto della richiamata sentenza n. 248 del 2013 e quella odierna – la questione da quest’ultima riproposta (in relazione a fattispecie analoga, ancorché a parti invertite, rispetto a quella precedente) va, conseguentemente, a sua volta, dichiarata, per le stesse ragioni, manifestamente inammissibile.
Visti gli articoli 26, secondo xxxxx, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all’art. 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.
2- LA CAUSA AL TEMPO DELLA LIBERTA’: DALLA FUNZIONE ECONOMICO- SOCIALE ASTRATTA ALLA FUNZIONE ECONOMICO-
INDIVIDUALE CONCRETA: Corte di Cassazione, sentenza del 8 maggio 2006, n. 10490;
La definizione di causa fornita dal codice civile è quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall'ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell'autonomia privata. Tuttavia si discorre da tempo di una fattispecie causale "concreta quale sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Xxxxxxx (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale e non anche della volontà delle parti. “Causa, dunque, ancora iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale”.
Pertanto, sarebbe nullo il contratto ( ancorchè tipico) nel caso si verifichi la mancanza di causa in concreto (…nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal N.)
(omissis)
Con il quinto motivo viene contestato il vizio di violazione ed errata applicazione dell'art. 1418 c.c.. per essere stata predicata la fattispecie della nullità "sopravvenuta" - in alternativa, la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., ed omessa motivazione in relazione alla preesistenza delle cariche amministrative in capo al ricorrente. Xxxxxxx, in particolare, il ricorrente che, a suo avviso, l'espressione adottata dal giudice milanese ("mancanza di giustificazione concreta del contratto") andava piuttosto intesa nel senso che, a mancare (ovvero a risultare impossibile), fosse in realtà l'oggetto del contratto.
Il motivo è destituito di giuridico fondamento.
Tanto il primo quanto il secondo giudice hanno, difatti, rettamente predicato la nullità della doppia vicenda negoziale collegata sotto il profilo dei difetto causale (così il tribunale milanese), ovvero della mancanza di giustificazione concreta del contratto consequenziale alla luce della sostanziale identità delle
prestazioni svolte dal N. una volta nella qualità di amministratore della società, l'altra in quella di consulente esterno ad essa (così la Corte d'appello).
L'affermazione, corretta in punto di diritto, necessita, peraltro, di alcune puntualizzazioni, avendo la parte ricorrente invocato, nella specie, una diversa eziogenesi della nullità negoziale - conseguente, a suo dire, ad una pretesa "impossibilità dell'oggetto" -, atteso che, a suo dire, il tradizionale concetto di causa intesa come "schema economico-giuridico" posto in essere dalle parti non consentiva di affermare che il negozio stipulato tra le parti ne fosse privo, corrispondendo esso allo schema tipico delineato dall'art. 2222 c.c..
Va preliminarmente escluso che la nullità della convenzione negoziale in parola derivi dalla pretesa impossibilità dell'oggetto del contratto, così come opinato dal ricorrente.
E' noto come la dottrina manualistica sia solita distinguere, quanto all'oggetto della prestazione dedotta in obbligazione, tra impossibilità fisica e giuridica, definendo fisica la impossibilità derivante da prestazione impossibilis in rerum natura (quale la traditio di una cosa distrutta), giuridica quella che, pur non consistendo di per sè in un illecito (ciò che distingue la prestazione ad oggetto impossibile da quella ad oggetto illecito, come la vendita di banconote contraffatte), è purtuttavia inattuabile in conseguenza di un divieto normativo (quale quello di edificazione violando le distanze legali).
E' palese come, nel caso di specie, non ricorra nessuna delle così descritte fattispecie di impossibilità, trattandosi di prestazione (attività di consulenza) possibile tanto nella sua fisicità che sotto il profilo della conformità a norme di diritto, di talchè l'assunto difensivo risulta, in parte qua, infondato.
Merita ulteriore considerazione, invece, la questione, del pari sollevata dal ricorrente, della causa del negozio giuridico stipulato tra le parti.
E' innegabile che, intesa nel comune significato di "funzione economico sociale" del contratto - secondo un approccio ermeneutico, peraltro, di tipo "astratto" -, il negozio oggetto della presente controversia non possa legittimamente dirsi "privo di causa", corrispondendo esso, addirittura, ad uno schema legale tipico, quello disegnato dall'art. 2222 c.c..
Ma, a giudizio di questo collegio, la nozione di causa così delineata non corrisponde, nella specie (così come in via di principio generale) a quella che, dopo attenta riflessione della più recente dottrina, deve ritenersi concetto correttamente predicabile con riferimento al profilo oggettivo della struttura contrattuale.
E' opinione corrente quella secondo cui la prima elaborazione del concetto di causa (sostanzialmente estranea all'esperienza romana come elemento costitutivo del negozio, che doveva corrispondere essenzialmente a "modelli" formali) sia stata il frutto della riflessione dei giuristi d'oltralpe che, tra il 1625 ed il 1699, distinguendo per la prima volta sul piano dogmatico i contratti commutativi dalle donazioni, individueranno nell'obbligazione di una parte verso l'altra il fondamento della teoria causale (e di qui, l'origine storica della perdurante difficoltà a superare la dicotomia contratto di scambio-liberalità donativa). Gli stessi rapporti tra la causa e gli altri elementi del contratto, apparentemente indiscussi nei relativi connotati di alterità, paiono, nel progressivo dipanarsi del concetto di causa negotii, talvolta sfumare in zone di confine più opache (si pensi alla relazione causa/volontà nei negozi di liberalità; a quella causa/forma ed all'avvicinamento delle due categorie concettuali verificabile nei negozi astratti; a quella causa/oggetto, con le possibili confusioni a seconda della nozione che, di entrambe le categorie giuridiche, ci si risolva di volta in volta ad adottare, oggetto del contratto essendo tanto la rappresentazione ideale di una res dedotta in obbligazione, quanto la res stessa, causa risultando la funzione dello scambio in relazione proprio a quell'oggetto).
Tutte le possibili definizioni di causa succedutesi nel tempo (che un celebre civilista degli anni '40 non esita a definire "oggetto molto vago e misterioso") hanno visto la dottrina italiana in permanente disaccordo (mentre negli altri paesi il dibattito è da tempo sopito), discorrendosi, di volta in volta, di scopo della parte o motivo ultimo (la c.d. teoria soggettiva, ormai adottata dalla moderna dottrina francese, che parla di causa come But); di teoria della controprestazione o teoria oggettiva classica (che sovrappone, del tutto incondivisibilmente, il concetto di causa del contratto con quello di causa/fonte dell'obbligazione); di funzione giuridica ovvero di funzione tipica (rispettivamente intese in guisa di sintesi degli effetti giuridici essenziali del contratto, ovvero di identificazione del tipo negoziale - che consente ad alcuni autori di predicare la sostanziale validità del negozio simulato sostenendone la presenza di una causa, intesa come "tipo" negoziale astratto, sia pur fittizio, quale una
donazione, una compravendita, ecc. -); di funzione economico-sociale, infine, cara alla c.d. teoria oggettiva, formalmente accolta dal codice del 42, del tutto svincolata dagli scopi delle parti all'esito di un processo di astrazione da essi (per tacere delle teorie anticausalistiche, di derivazione tedesca, con identificazione della causa nell'oggetto o nel contenuto - Inhalt - del contratto, non indicando il codice tedesco la causa tra gli elementi costitutivi del contratto).
La definizione del codice è, in definitiva, quella di funzione economico-sociale del negozio riconosciuta rilevante dall'ordinamento ai fini di giustificare la tutela dell'autonomia privata (così, testualmente, la relazione del ministro guardasigilli); ma è noto che, da parte della più attenta dottrina, e di una assai sporadica e minoritaria giurisprudenza (Cass. Sez. 1^, 7 maggio 1998, n. 4612, in tema di Sale & lease back) Sez. 1^, 6 agosto 1997, n. 7266, in tema di patto di non concorrenza; Sez. 2^, 15 maggio 1996, n. 4503, in tema di rendita vitalizia), si discorre da tempo di una fattispecie causale "concreta", e si elabori una ermeneutica del concetto di causa che, sul presupposto della obsolescenza della matrice ideologica che configura la causa del contratto come strumento di controllo della sua utilità sociale, affonda le proprie radici in una serrata critica della teoria della predeterminazione causale del negozio (che, a tacer d'altro, non spiega come un contratto tipico possa avere causa illecita), ricostruendo tale elemento in termini di sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare (al di là del modello, anche tipico, adoperato). Sintesi (e dunque ragione concreta) della dinamica contrattuale, si badi, e non anche della volontà delle parti. Causa, dunque, ancora iscritta nell'orbita della dimensione funzionale dell'atto, ma, questa volta, funzione individuale del singolo, specifico contratto posto in essere, a prescindere dal relativo stereotipo astratto, seguendo un iter evolutivo del concetto di funzione economico-sociale del negozio che, muovendo dalla cristallizzazione normativa dei vari tipi contrattuali, si volga alfine a cogliere l'uso che di ciascuno di essi hanno inteso compiere i contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale.
Così rottamente intesa la nozione di causa del negozio, appare allora evidente come, nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal N..
3 – LA CAUSA DIVENTA REQUISITO DINAMICO E FUNZIONALE DEL CONTRATTO:
Corte di Cassazione n. 16315 del 2007
Nell’impossibilità di utilizzazione della prestazione essa è in astratto ancora eseguibile ma viene meno la possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto. Essa implica il venir meno dell'interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del creditore .
L'impossibilità sopravvenuta della utilizzabilità della prestazione estingue invero il rapporto obbligatorio per il venir dell'interesse creditorio, e di conseguenza il contratto che dell'obbligazione costituisce la fonte per irrealizzabilità della relativa causa concreta.
L'impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente prevista, costituisce - analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - (autonoma) causa di estinzione dell'obbligazione.
Nella vicenda che ne occupa, secondo quanto accertato dai Giudici di merito l'epidemia di dengue emorragico in atto nell'isola di Cuba ha invero indubbiamente determinato nell'acquirente del "pacchetto turistico" tutto compreso de quo il venir meno dell'interesse pratico che la relativa complessa prestazione era, nella sua unitaria considerazione, nel caso funzionalmente volta a soddisfare.
Tale impossibilità dell’esecuzione della prestazione complessa del contratto di viaggio “tutto compreso” è da valutarsi avuto riguardo allo "scopo turistico" che il medesimo è funzionalizzato a soddisfare che "si sostanziava non nella semplice messa a disposizione di un pacchetto turistico ma nella necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio".
Con il 1^ motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., xxxxx 1, n. 5.
Si duole essere stata nel caso erroneamente ritenuta integrata un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione, tale viceversa non essendo la "prestazione dedotta in contratto" (nella specie il viaggio ed il soggiorno nella destinazione pattuita), in difetto di "prova alcuna dell'esistenza di provvedimenti di interdizione o di restrizione ai flussi turistici per la destinazione prescelta, ovvero dell'oggettiva impossibilità di raggiungere e soggiornare nella città di Xxxxxxxx de Cuba".
Lamenta che si sono a tale stregua privilegiate piuttosto le "finalità ulteriori" in base alle quali l'acquirente del "pacchetto turistico" si è nel caso indotto ad esercitare il "recesso" dal contratto, indebitamente assegnandosi rilievo a mere "soggettive valutazioni circa l'opportunità e la convenienza di effettuare il viaggio (non volendo egli esporsi neppure a rischi modesti)", anzichè all'"effettiva impossibilità di fruire dei servizi offerti dall'organizzazione in conformità del contratto".
Si duole che non si sia tenuto conto come già "dalla comunicazione in data 17.7.1997 dell'Ambasciata di Cuba a Xxxx (xxx. 0 xxx xxxxxxxxx xx xxxxx xxxxx)", e quindi in epoca precedente all'esercizio del recesso", la situazione sanitaria risultava essere "totalmente sotto controllo, e ricondotta in condizioni di normalità", essendosi altresì trascurato di considerare che "il dengue emorragico è malattia endemica nell'isola di Cuba, mai debellata. Non a caso il Ministero degli Esteri italiano non ha mai diramato alcuna comunicazione intesa a vietare, o anche solo a sconsigliare, i viaggi verso Cuba e verso la città di Xxxxxxxx de Cuba".
(omissis)
Va quindi sotto altro profilo sottolineato come risulti dai Giudici di merito accertato, e del resto emergente anche dagli odierni scritti difensivi delle parti (v. pag. 2 del ricorso della Y. s.a.s., in atti), che nel caso l'agenzia di viaggi
X. ha "prenotato" per conto del cliente V. un "pacchetto turistico comprensivo di volo e soggiorno per due persone a Xxxxxxxx De Cuba nel periodo 6-19 agosto 1997".
Negozio che il giudice dell'appello ha ricondotto al contratto di "viaggio tutto compreso", caratterizzato da una "complessiva prestazione cui era tenuta la X che si sostanziava non nella semplice messa a disposizione di
un pacchetto turistico ma nella necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio".
A tale stregua, attesa l'accertata sussistenza di una epidemia di dengue emorragico nell'isola di Cuba, nel confermare "in diritto" la "decisione del Giudice di Xxxx, che aveva "ritenuto (art. 1463 c.c.) essere divenuta impossibile la complessiva prestazione cui era tenuta la X.", traendone "la duplice conseguenza" che la medesima "doveva essere ritenuta liberata da quella prestazione e ..., al tempo stesso, non poteva pretendere alcuna controprestazione dalla Aternum", il Giudice dell'appello ha considerato come invero "più proprio" il "riferimento all'art. 1464 c.c. (in luogo dell'art. 1463 c.c.)", atteso che la prestazione della X. era divenuta solo parzialmente impossibile, nel senso che quella poteva, sì, assicurare lo svolgimento del soggiorno, ma non anche adeguati standard di sicurezza sanitaria: in questo caso, quindi, l'altro contraente aveva facoltà di scegliere tra la
riduzione del prezzo ed il recesso dal contratto (così come è poi in concreto accaduto), se non avesse avuto interesse a quella prestazione monca".
Ha al riguardo sottolineato il tribunale che "il V. si recava a Cuba per un viaggio di piacere", sicchè l'accertata sussistenza di un "focolaio endemico non ... ancora completamente debellato" non consentiva invero al predetto di poter compiutamente godere della prestazione dovutagli, residuando "il pericolo di contrarre la malattia, specialmente in considerazione del fatto che essa, propagandosi con la puntura d'insetti, da un canto non consente alcuna efficace e tranquillizzante forma di difesa e, dall'altro, può in breve tempo propagarsi anche in zone che erano rimaste fino a quel momento immuni".
A tale stregua, il Giudice dell'appello ha ritenuto in effetti giustificata la "scelta" del medesimo di "non volersi esporre neppure ad un rischio di modesta entità".
Xxxxxx, va anzitutto posto in rilievo come risulti corretta la qualificazione operata dal giudice dell'appello della vicenda posta nella specie in essere dalle parti in termini di contratto viaggio vacanza "tutto compreso" (cd. "pacchetto turistico" o package) previsto dal D.Lgs. n. 111 del 1995, ed ora trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 82 e segg. (cd. Codice del Consumo).
Ipotesi che va invero distinta dal contratto di organizzazione (art. 5 e segg.) o di intermediazione (art. 17 e segg.) di viaggio (CCV) di cui alla Conv. Bruxelles del 23/4/1970 (resa esecutiva con L. 27 dicembre 1977, n. 1084), in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, ecc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno.
Rispetto a quest'ultimo, in cui le prestazioni ed i servizi si profilano come separati, e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione (cfr. Cass., 17/7/2001, n. 9691; Cass., 6/11/1996, n. 9643), con applicazione in particolare della disciplina del trasporto (x. Xxxx., 6/11/1996, n. 9643; Cass., 26/6/1964, n. 1706) ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto dei clienti - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi (x. Xxxx., 23/4/1997, n. 3504; Cass., 6/1/1982, n. 7; Cass., 28/5/1977, n. 2202), ed al di là del diverso ambito di applicazione derivante dai (differenti) limiti territoriali, il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (o di package) si caratterizza sia sotto il profilo soggettivo che per l'oggetto e la finalità.
Il "pacchetto turistico", che può essere dall'organizzatore alienato direttamente o tramite un venditore (D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 3,comma 2, ora trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 83, comma 2, - Codice del consumo -), risulta infatti dalla prefissata combinazione di almeno due degli elementi costituiti dal trasporto, dall'alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite, escursioni con accompagnatori e guide turistiche, ecc.) costituenti parte significativa del "pacchetto turistico", con durata superiore alle 24 ore ovvero estendentesi per un periodo di tempo comportante almeno una notte (D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 2 e segg., ora trasfuso nell'art. 84 del Codice del Consumo).
La pluralità di attività e servizi che compendiano la prestazione valgono in particolare a connotare la finalità che la stessa è volta a realizzare.
Il trasporto o il soggiorno o il servizio alberghiero assumono infatti al riguardo rilievo non già singolarmente e separatamente considerati bensì nella loro unitarietà funzionale, non potendo al riguardo prescindersi dalla considerazione dei medesimi alla stregua della "finalità turistica" che la prestazione complessa di cui si sostanziano appunto quali elementi costitutivi è funzionalmente volta a soddisfare.
I plurimi aspetti e profili in cui viene a compendiarsi la complessa prestazione ideata ed organizzata dal cd. tour operator sono infatti funzionalizzati al soddisfacimento dei profili - da apprezzarsi in condizioni di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - di relax, svago, ricreativi, ludici, culturali, escursionistici, ecc. in cui si sostanzia la "finalità turistica", o lo "scopo di piacere" assicurato dalla vacanza, che il turista- consumatore in particolare persegue nell'indursi alla stipulazione del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso".
Diversamente da quanto sostenuto dall'odierna ricorrente, la suddetta "finalità turistica" (o "scopo di piacere") non costituisce pertanto un irrilevante motivo del contratto de quo.
La "finalità turistica" non si sostanzia infatti negli interessi che rimangono nella sfera volitiva interna dell'acquirente il package costituendo l'impulso psichico che lo spingono alla stipulazione del contratto, ma viene ad (anche tacitamente) obiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, pertanto connotandone la causa concreta (cfr. Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 8/5/2006, n. 10490).
Causa concreta che, da un canto, vale a qualificare il contratto, determinando l'essenzialità di tutte le attività ed i servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero, e cioè il benessere psico-fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare. Da altro canto, assume rilievo quale criterio di adeguamento del contratto.
La causa concreta viene a rivestire, come non si è mancato di osservare in dottrina, decisiva rilevanza altresì in ordine alla sorte della vicenda contrattuale, in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo svolgimento del rapporto, quali ad es. l'impossibilità o l'aggravio della prestazione, l'inadempimento, ecc..
Eventi negativamente incidenti sull'interesse creditorio (nel caso, turistico) sino a farlo venire del tutto meno laddove - in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - essi depongano per l'impossibilità della relativa realizzazione.
In tal caso, il venir meno dell'interesse creditorio determina invero l'estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto dell'elemento funzionale (art. 1174 c.c.).
E ove come nella specie il rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno dell'interesse creditorio comporta la irrealizzabilità della causa concreta del medesimo, assumendo conseguentemente rilievo quale autonoma causa di relativa estinzione.
Il venir meno dell'interesse creditorio e della causa del contratto che ne costituisce la fonte, va al riguardo sottolineato, può essere invero determinata anche dalla sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione.
Deve trattarsi di impossibilità di utilizzazione della prestazione non imputabile al creditore, incidente sull'interesse che risulta anche tacitamente obiettivato nel contratto e che ne connota la causa concreta. Trattandosi di contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (o di package) la sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve essere come nella specie tale da vanificare o rendere irrealizzabile la "finalità di vacanza", laddove irrilevanti rimangono viceversa le finalità ulteriori per le quali il turista si induce a stipulare il contratto (es., desiderio di allontanarsi per un po' dal coniuge o dalla ci cerchia degli amici o dall'ambiente di lavoro), in cui si sostanziano propriamente i motivi.
Come è stato posto in rilievo in dottrina, l'impossibilità sopravvenuta di utilizzazione della prestazione costituisce figura diversa dall'impossibilità sopravvenuta (totale o parziale) della prestazione, cui non è invero riconducibile. La totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1463 c.c.), che consiste in un impedimento assoluto ed oggettivo, a carattere definitivo, della prestazione (x. Xxxx., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 22/10/1982, n. 5496; Cass., 6/2/1979, n. 794; Cass., 27/6/1978, n. 3166; Cass., 8/10/1973, n. 2532; Cass., 14/10/1970, n. 2018;
Cass., 29/10/1962, n. 3076), integra infatti un fenomeno di automatica estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte ai sensi dell'art. 1463 c.c. e art. 1256 x.x., xxxxx 0 (x. Xxxx., 28/1/1995, n. 1037; Cass., 9/11/1994, n. 9304; Cass., 24/4/1982, n. 2548; Cass., 14/10/1970, n. 2018), in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte (cd. sinallagma funzionale), a tale stregua conseguendo la irrealizzabilità della causa concreta del contratto (cfr. Cass., 24/4/1982, n. 2548; Cass., 15/12/1975, n. 4140; Cass., 26/3/1971, n. 882; Cass., 14/4/1959, n. 1092; Cass., 26/3/1954, n. 894).
L'impossibilità parziale (art. 1464 c.c.) consiste invece nel deterioramento della cosa dovuta, o più generalmente nella riduzione materiale della prestazione (cfr. Xxxx., 10/4/1995, n. 4119) che dà luogo ad una corrispondente riduzione della controprestazione o al diritto al recesso per la parte che non abbia un apprezzabile interesse al mantenimento del contratto, laddove la prestazione residua venga a risultare incompatibile con la causa concreta del contratto (cfr. Cass., 15/12/1975, n. 4140).
Diversamente da tale ipotesi, l'impossibilità di utilizzazione della prestazione non viene in realtà a sostanziarsi in un impedimento precludente l'attuazione dell'obbligazione, non presupponendone di per sè l'obiettiva ineseguibilità da parte del debitore.
Pur essendo la prestazione in astratto ancora eseguibile (cfr. Xxxx., 27/9/1999, n. 10690), il venir meno della possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel caso, lo "scopo di piacere" in cui si sostanzia la "finalità turistica"), essa implica il venir meno dell'interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera del creditore (in dottrina si segnala l'esempio secondo cui il fatto che il compratore si sia procurata la merce da altro fornitore non impedisce al venditore di effettuare la consegna prevista).
Come osservato in dottrina, mentre nelle ipotesi in cui la prestazione diviene impossibile l'obbligazione si estingue per il concorso delle due cause estintive, l'impossibilità sopravvenuta della utilizzabilità della prestazione estingue invero il rapporto obbligatorio per il venir dell'interesse creditorio, e di conseguenza il contratto che dell'obbligazione costituisce la fonte per irrealizzabilità della relativa causa concreta.
La sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve dunque distinguersi dalla sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione (omissis).
Superando le perplessità in passato avvertite in argomento (x. Xxxx., 9/11/1994, n. 9304), e in accordo con quanto anche autorevolmente sostenuto in dottrina, va pertanto affermato che l'impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non specificamente prevista, costituisce
- analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - (autonoma) causa di estinzione dell'obbligazione.
Nella vicenda che ne occupa, secondo quanto accertato dai Giudici di merito l'epidemia di dengue emorragico in atto nell'isola di Cuba ha invero indubbiamente determinato nell'acquirente del "pacchetto turistico" tutto compreso de quo il venir meno dell'interesse pratico che la relativa complessa prestazione era, nella sua unitaria considerazione, nel caso funzionalmente volta a soddisfare.
Premesso che (anche) l'impossibilità della esecuzione della prestazione complessa del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" o package è da valutarsi avuto riguardo allo "scopo turistico" che il medesimo è funzionalizzato a soddisfare, va sottolineato come nell'impugnata sentenza risulti in effetti posto in rilievo che il contratto de quo "si sostanziava non nella semplice messa a disposizione di un pacchetto turistico ma nella necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio".
Il Giudice dell'appello, nell'escludere la ricorrenza nel caso dell'ipotesi di sopravvenuta impossibilità di esecuzione della prestazione ai sensi dell'art. 1463 c.c., viceversa ravvisata dal Giudice di prime cure, ha ritenuto nella specie configurabile un'ipotesi di impossibilità parziale ex art. 1464 c.c., della prestazione, in presenza di prestazione ravvisata effettuabile pur se "monca", stante l'accertata mancanza degli "adeguati standard di sicurezza sanitaria".
Xxxxxx, anche la parziale impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui all'art. 1464 c.c., appare invero nel caso non correttamente evocata.
L'epidemia di dengue emorragico costituisce infatti evento determinante non già il deterioramento o la riduzione della prestazione (x. Xxxx., 17/7/1987, n. 6299) bensì il venir meno del normale standard di sicurezza sanitaria del luogo di esecuzione della prestazione turistica.
Nella situazione nel caso determinatasi, certamente non deponente per la normalità delle condizioni igienico- sanitarie dell'Isola di Cuba, l'esecuzione della prestazione turistica è venuta a risultare infatti comunque inidonea al soddisfacimento dell'interesse del V. al godimento della vacanza "tutto compreso" nei suoi molteplici aspetti di relax, svago, culturali, ecc., pienamente godibili solamente in presenza delle imprescindibili condizioni di sicurezza sanitaria, secondo i normali standard del luogo di destinazione prescelto, come dai Giudici del merito correttamente posto in rilievo nel sottolineare che l'accertata sussistenza di "focolaio endemico non ... ancora completamente debellato" non rispondeva alla "necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio".
Tale mancanza ha nella specie inciso, in termini di relativo venir meno, sull'interesse creditorio del suindicato acquirente del "pacchetto turistico", con conseguente sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto de quo dal medesimo stipulato.
Alla stregua di quanto sopra esposto va allora affermato che è piuttosto la sopravvenuta impossibilità (non ascrivibile alle parti) di utilizzazione della prestazione in argomento da parte del V. a venire nel caso propriamente in rilievo.
Nell'adeguatamente valorizzare l'interesse creditorio e la causa concreta del contratto di package anche sotto il profilo della sorte del rapporto obbligatorio e della vicenda contrattuale, tale figura non privilegia invero la "impossibilità del raggiungimento delle soggettive finalità ulteriori del creditore", e pertanto i motivi, attribuendo decisivo rilievo al suo "sopravvenuto sgradimento" per "la destinazione prescelta per il viaggio", ma consente di valorizzare gli specifici ed essenziali interessi perseguiti mediante la stipulazione di tale tipo di contratto, che ne integrano la causa concreta.
Inconfigurabili soluzioni estreme come quella prevista all'art. 1463 c.c., la figura della sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione si rivela istituto dotato di flessibilità, là dove consente di pervenire, nel coerente contemperamento delle diverse esigenze, a soluzioni differenti in presenza di situazioni diverse, senza che le parti incorrano in responsabilità.
Lo "scopo turistico" consente infatti di spiegare come la relativa persistenza giustifichi l'esecuzione del contratto in favore del turista che intenda usufruirne, anche a costo di correre il rischio di contrarre il morbo, senza esporre il tour operator alle conseguenze dell'inadempimento in cui incorrerebbe laddove intendesse non darvi più attuazione. E al contempo permette al turista che come nella specie quel rischio non voglia viceversa correre di non avvalersi della prestazione senza essere comunque tenuto alla corresponsione del corrispettivo.
Emerge con tutta evidenza a tale stregua come, quand'anche obiettivamente eseguibili il trasporto ed il soggiorno nella loro autonoma e separata considerazione, la complessa prestazione del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" in questione risulta nel caso divenuta per il V. inutilizzabile, stante la non disponibilità del medesimo ad usufruirne anche a rischio della contrazione del morbo. Xxxxxxx che, diversamente da quanto sembra invero in qualche modo adombrare l'odierno ricorrente laddove si duole che "il recesso del viaggiatore era stato dettato esclusivamente da sue soggettive valutazioni circa l'opportunità e la convenienza di effettuare il viaggio (non volendo egli esporsi neppure a rischi modesti...."), certamente al medesimo non può invero, quand'anche - in ipotesi - minimo, "imporsi" di correre.
Essendo la prestazione de qua divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio, l'estinzione dello stipulato contratto in argomento per irrealizzabilità della causa concreta comporta, va infine sottolineato, l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni.
Il debitore non è pertanto più tenuto ad eseguirla, ed il creditore non ha l'onere di accettarla.
Non vi è pertanto luogo nel caso alla corresponsione dell'indennità per il recesso di cui alla evocata disciplina in tema di contratto di viaggio (C.C.V.).
Va, d'altro canto, posto al riguardo in rilievo che il principio di buona fede oggettiva o correttezza (quale generale principio di solidarietà sociale che trova applicazione a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, imponendo al soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, nonchè volto alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi) impone invero al creditore di avvisare il debitore dell'inutilità della prestazione, essendo in difetto tenuto al risarcimento dei danni (cfr. Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 20/2/2006, n. 3651).
Una siffatta domanda, anche riguardandosi alla stregua del suindicato profilo la lamentata tardività della "disdetta", non risulta peraltro dall'odierna ricorrente formulata.(omissis)
Corte di Cassazione n. 26958 del 2007;
L'impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non disciplinata in modo espresso, costituisce - analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - autonoma causa di estinzione dell'obbligazione: essendo la prestazione divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio, la conseguente estinzione del rapporto obbligatorio scaturente dal contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della sua causa concreta comporta l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni: il debitore non è più tenuto ad eseguirla, il creditore non ha l'onere di accettarla.
(omissis)
La prima e preliminare questione di diritto sottoposta all'esame di questo collegio è, dunque, quella dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione con riferimento al soggetto legittimato a rilevarla ed invocarla. Va in premessa ricordato come comunemente vengano individuati, in dottrina, tre diverse ipotesi di impossibilità, la prima consistente nel perimento della cosa (al quale è parificato il suo smarrimento), la seconda integrante il caso della sua incommerciabilità, la terza. (che postula, come noto, più complesse valutazioni fattuali) predicabile nei casi di obbligazioni di fare, con particolare riguardo a fattispecie di impedimenti di carattere personale: in tali ipotesi, al fine della liberazione del debitore, viene comunemente sottolineato il necessario carattere di assolutezza e di obiettività della impossibilità stessa, concetto che, come sovente evidenziato ancora in dottrina, pare certamente applicabile (salvo poi valutare le cause della stessa impossibilità) ai casi di perdita delle facoltà fisiche necessarie per l'adempimento. A tali requisiti, si suole poi aggiungere, alternativamente, quelli dell'infungibilità della prestazione divenuta impossibile e della riconducibilità del concetto di impossibilità alla prestazione e non alla persona del debitore. Un primo dato appare dunque certo, quello, cioè, per il quale ha carattere sicuramente liberatorio l'impossibilità fisica materiale, e per questo assoluta, del debitore. L'analisi si sposta, così, sul piano degli effetti dell'impossibilità sopravvenuta: mentre la non imputabilità ad alcuna delle due parti è senz' altro idonea ad attivare il meccanismo previsto dalla norma ex art. 1463 c.c., e mentre, pacificamente, di questa disposizione viene esclusa la applicabilità in caso di impossibilità imputabile al debitore, fortemente controversa risulta la conseguenza della impossibilità imputabile al creditore: la dottrina è, in proposito, divisa tra chi ritiene che i relativi effetti sarebbero del pari disciplinati dalla norma in parola, e chi, al contrario, ne opina la riconducibilità all'art. 1453, in quanto prodotti dall'inadempimento del creditore agli obblighi di cooperazione con il debitore nell'adempimento della prestazione di quest'ultimo.
Contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, anche in dottrina, oltre che nella risalente giurisprudenza di questa corte di cui a Cass. 23.8.1949 n. 2394 (pubblicata in una nota rivista giuridica l'anno successivo a quello del suo deposito), si ritiene configurabile l'ipotesi di impossibilità tanto unilaterale (ossia legata ad una sola delle contrapposte obbligazioni), quanto di entrambe le prestazioni dedotte in contratto. Non erra il ricorrente nel sottolineare che il modus operandi del rimedio risolutorio non sia lo stesso per tutte le fattispecie previste dal codice, considerando che, nel caso di risoluzione per inadempimento, l'azione è rimessa alla facoltà dell'altro contraente (il non inadempiente), mentre, nel caso di impossibilità sopravvenuta, l'effetto risolutorio opera in modo automatico, con la liberazione del contraente obbligato alla prestazione divenuta impossibile: ma è altrettanto innegabile che (il dato è testuale nella norma di cui all'art. 1463 c.c.), nel caso in cui sia riscontrata l'impossibilità assoluta di effettuare la propria prestazione, la parte liberata non può chiedere la controprestazione e deve restituire quella che abbia già ricevuto secondo le norme relative alla ripetizione dell'indebito. Ciò comporta, quale definitivo approdo dell'esegesi del testo normativo, che la risoluzione de qua possa legittimamente essere invocata da entrambe le parti: da quella, cioè, la cui prestazione rimane possibile, così come da colui la cui prestazione sia divenuta impossibile (in tali sensi, in passato, Cass. 18.9.1956 n. 3222): non avrebbe altrimenti senso prevedere un rimedio restitutorio da indebito se non sulla premessa per cui la parte che abbia eseguito la propria prestazione (prestazione della quale, dunque, non avrebbe
più senso discutere in termini di possibilità/impossibilità) può del tutto legittimamente richiedere alla controparte la restituzione a seguito dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione di controparte stessa. Non è pertanto meritevole di accoglimento la doglianza contenuta nel motivo di ricorso in esame nella parte in cui vorrebbe allocare presso il solo obbligato alla prestazione impossibile l'interesse ad agire in giudizio (inconferente, dunque, è il richiamo all'art. 100 c.p.c.) per la propria liberazione: lo stesso interesse conserva, specularmente, la parte che, eseguita la propria prestazione - ipso facto possibile proprio perchè (come nella specie)... già eseguita - ne richieda poi la restituzione a fronte della sopravvenuta impossibilità della prestazione di controparte. Nella specie, la prestazione del cliente (pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo del soggiorno in albergo), possibile e già eseguita, non va incontro ad alcuna mutazione, nè genetica nè funzionale, a seguito della morte sopravvenuta alla stipula del contratto (nonchè all'adempimento della propria obbligazione): la morte, difatti (come correttamente rileva, in proposito, il ricorrente), non è causa di impossibilità della prestazione del defunto (che l'ha già eseguita), bensì ragione di non fruibilità, da parte sua, della controprestazione offerta dall'albergatore. L'analisi si sposta, allora, sugli aspetti contenutistici di quest'ultima obbligazione. Sostiene, difatti, il ricorrente, a fronte della (invero non esaustiva) ricostruzione operata in diritto dal Giudice di merito - il quale discorre di impossibilità della prestazione dell'albergatore senza ulteriori specificazioni al riguardo - che tale prestazione non sarebbe mai stata nè mai sarebbe divenuta tecnicamente "impossibile" a causa della morte del cliente, pena una inammissibile confusione concettuale tra prestazione, da un canto, e fruizione (da parte del creditore) della prestazione, che, nella specie, consisterebbe (trovandovi al tempo stesso il suo insuperabile limite contenutistico - esecutivo) nel "mettere a disposizione la struttura alberghiera secondo quanto contrattualmente concordato".
L'argomentazione non può essere condivisa.
E' innegabile che, così articolata in parte qua la tesi difensiva, il discorso sia destinato ad orbitare, preliminarmente, sul piano del sinallagma contrattuale, id est della causa negoziale intesa nel suo aspetto funzionale. Questa corte ha già avuto recentemente modo di affermare il principio secondo cui un concetto "di funzione astratta" di causa non può più ritenersi soddisfacente criterio di ermeneutica contrattuale, dovendosene più correttamente procedere, di converso, ad una ricostruzione in termini di "causa concreta". (Cass. n. 10490 del 2006, che adotta tale criterio ricostruttivo dell'elemento causale del negozio con riferimento, peraltro, ad una vicenda nella quale il difetto di causa, emergeva sul piano non funzionale ma genetico, integrando conseguentemente una ipotesi di nullità contrattuale). Il concetto di causa concreta non può, peraltro, non attenere altresì all'aspetto funzionale del predetto essentiale negotii. Alla stregua del concetto di "causa negoziale concreta" va allora affermato che non soltanto la totale impossibilità sopravvenuta della prestazione (id est, della sua esecuzione, tale da costituire un impedimento assoluto ed oggettivo a carattere definitivo) integra una fattispecie di automatica estinzione dell'obbligazione e risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte ai sensi dell'art. 1463 c.c., e art. 1256 c.c., comma 1, in ragione del venir meno della relazione di interdipendenza funzionale in cui la medesima si trova con la prestazione della controparte (Cass., 28/1/1995, n. 1037; Cass., 9/11/1994, n. 9304; Cass., 24/4/1982, n. 548; Cass., 14/10/1970, n. 2018), ma che lo stesso effetto consegue altresì alla impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore. Tale principio di diritto risulta di recente affermato da questa stessa corte con la sentenza n. 16315 del 2007 (la fattispecie concreta di cui quel collegio ha avuto modo di occuparsi riguardava una vicenda relativa ad un soggiorno turistico all'estero dove una epidemia di dengue emorragica aveva indotto il contraente ad invocare la risoluzione del contratto di package). Nella motivazione della sentenza (che afferma principi di diritto dai quali questo giudice non ha motivi per discostarsi) si rileva, in limine, come, nella specie, non fosse in realtà predicabile l'esistenza di un vero impedimento preclusivo dell'esecuzione dell'obbligazione, precisandosi, peraltro, che il soggiorno o il servizio alberghiero "assumono, al riguardo, rilievo non già singolarmente e separatamente considerati, bensì nella loro unitarietà funzionale, non potendo prescindersi dalla considerazione dei medesimi alla stregua della finalità turistica che la prestazione complessa in cui si sostanziano quali elementi costitutivi è funzionalmente volta a soddisfare. Tale finalità non costituisce, pertanto, un irrilevante motivo del contratto de quo, e non si sostanzia in specifici interessi che rimangono nella sfera volitiva interna del creditore della prestazione alberghiera costituendo il semplice impulso psichico interiore
che lo spinge alla stipulazione del contratto, ma viene (anche implicitamente) ad obbiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, così connotandone la sua causa sul piano concreto" (in argomento, xxxx Xxxx. 12235/07 oltre alla già citata Xxxx. 10490/06). Il concetto di causa concreta appare, così, funzionale, da un canto, a qualificare il "tipo" contrattuale - determinando l'essenzialità di tutte le attività e servizi strumentali alla realizzazione della finalità turistica (e cioè il benessere psico - fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare) -; dall'altro, assume rilievo quale criterio di adeguamento del rapporto negoziale, considerato nella suo aspetto dinamico-effettuale. Di talchè la causa (come non si è mancato di osservare da parte della più attenta dottrina) finisce per assumere rilievo non meno decisivo in ordine alla sorte della vicenda contrattuale (oltre che con riferimento alla fattispecie negoziale considerata nel suo aspetto genetico), in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo sviluppo del rapporto (inadempimento, impossibilità, aggravio della prestazione, ecc.), eventi negativamente incidenti sull'interesse creditorio (nella specie, turistico), obbiettivato in seno all'elemento causale del contratto, e tali da farlo venire del tutto meno laddove - in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - si accerti l'impossibilità, della relativa realizzazione. La sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione deve dunque distinguersi dalla sopravvenuta impossibilità della esecuzione della prestazione (in argomento, funditus, cfr. Cass., 2/5/2006, n. 10138) di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c., (cfr. ancora Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 28/1/1995, n. 1037 e la già citata Cass. 24/07/2007 n. 16315), ma, nella specie, soltanto sul piano concettuale, e non anche su quello degli effetti. Il venire oggettivamente meno dell'interesse creditorio (nella specie, per la morte del soggetto) non può, difatti, che determinare l'estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto del suo elemento funzionale (art. 1174 c.c.): e se, come nella specie, tale rapporto obbligatorio trovi fonte in un contratto, il venir meno del predetto interesse si risolve in una sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto stesso, assumendo conseguentemente rilievo quale autonoma causa della relativa estinzione. Il venir meno dell'interesse creditorio (e della causa del contratto che ne costituisce la fonte) può essere, dunque, legittimamente determinato anche dalla sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione, qualora essa si presenti come non imputabile al creditore, nonchè oggettivamente incidente sull'interesse che risulta (anche implicitamente) obbiettivato nel contratto: una impossibilità tale da vanificare o rendere irrealizzabile la “finalità turistica” (laddove irrilevanti rimangono viceversa le finalità ulteriori per le quali il turista si induce a stipulare il contratto, quali il desiderio di allontanarsi dalla famiglia o dalla cerchia degli amici; l'esigenza di un distacco dall'ambiente di lavoro; la necessità di riprendersi da un periodo di stress; la ricerca di avventure post-matrimoniali ecc.) in cui si sostanziano, viceversa, i motivi impulsivi sottesi alla stipula del contratto da parte del creditore della prestazione di soggiorno alberghiero. Così, pur essendo la prestazione in astratto ancora eseguibile, deve ritenersi che il venir meno della possibilità che essa realizzi lo scopo dalle parti perseguito con la stipulazione del contratto (nel caso, lo “scopo di vacanza” in cui si sostanzia la “finalità turistica”), implica il venir meno dell'interesse creditorio, quale vicenda che attiene esclusivamente alla sfera giuridico - economico di quest'ultimo. Superando le perplessità in passato avvertite, in argomento, da questa stessa Corte (Xxxx., 9/11/1994, n. 9304), e in consonanza con quanto autorevolmente sostenuto in dottrina, va pertanto affermato che l'impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore, pur se normativamente non disciplinata in modo espresso, costituisce - analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - autonoma causa di estinzione dell'obbligazione: essendo la prestazione divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio, la conseguente estinzione del rapporto obbligatorio scaturente dal contratto per sopravvenuta irrealizzabilità della sua causa concreta comporta l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni: il debitore non è più tenuto ad eseguirla, il creditore non ha l'onere di accettarla. Ad ulteriore conforto di tale conclusione va ricordato, ancora, l'orientamento recentemente espresso da questa stessa corte, a sezioni unite, in ordine alla necessità di un più penetrante controllo dell'autonomia privata da parte del Giudice in sede di tutela della parte ^debole" di un rapporto contrattuale, orientamento puntualmente espresso nella sentenza n. 18128 del 2 005, con la quale le sezioni unite hanno sottolineato - in tema di rilevabilità d'ufficio della clausola penale - che “l'esegesi tradizionale della norma ex art. 1384 c.c., non appare più adeguata alla luce di una ri-lettura degli istituti costituzionali in
senso conformativo ai precetti superiori della Carta fondamentale - individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi, ex art. 2 Cost., e nell'esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie -, integrati con i generali canoni di ermeneutica contrattuale quali quelli della buona fede oggettiva e della correttezza di cui agli artt. 1175, 1337, 1359, 1375 c.c.". La pronuncia evoca, del tutto condivisibilmente, quanto più volte affermato dalla stessa Corte Costituzionale, che, con la sentenza n. 19 del 1994, ha a sua volta sottolineato come "con riferimento a rapporti obbligatori disciplinati da norme inerenti all'ordinamento generale dello Stato" vada riconosciuta "l'esistenza di un principio di inesigibilità come limite superiore alle pretese creditorie", principio a sua volta consacrato dal giudice delle leggi nella precedente sentenza n. 149 del 1992, ove si afferma che "l'interesse del creditore all'adempimento degli obblighi dedotti in obbligazione deve essere inquadrato nell'ambito della gerarchia dei valori comportata dalle norme, di rango costituzionale e ordinario, che regolano la materia in considerazione: e quando, in relazione a un determinato adempimento, l'interesse del creditore entra in conflitto con un interesse del debitore tutelato dall'ordinamento giuridico o, addirittura, dalla Costituzione, come valore preminente o, comunque, superiore a quello sotteso alla pretesa creditoria, allora l'inadempimento, nella misura e nei limiti in cui sia necessariamente collegato all'interesse di valore preminente, risulta giuridicamente giustificato". Mette ancora conto di analizzare l'aspetto, evidenziato dal ricorrente nel sub-motivo 2, della limitazione al solo cliente deceduto di tale situazione oggettiva di impossibilità della controprestazione da parte del soggetto che, avendo già ricevuto la prestazione in denaro, è tenuto alla restituzione "secondo le norme relative all'indebito".
(omissis)
4 – IL GIUDIZIO DI RAGIONEVOLEZZA ED EQUITA’ NELL’ASSICURAZIONE CLAIMS MADE: Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 6 maggio 2016, n. 9140
Nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l'operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. xxxxxxxx claims made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo
n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
(omissis)
4. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono infondate.
Va premesso, per una più agevole comprensione delle ragioni della scelta operata in dispositivo, che il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga
denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo lo schema denominato "loss occurrence", o "insorgenza del danno", sul quale è conformato il modello delineato nell'art. 1917 c.c., la copertura opera in relazione a tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto.
Senza addentrarsi nella "storia" della formula e del contesto giurisprudenziale ed economico in cui essa ebbe a germogliare, in quanto esorbitante rispetto ai fini della presente esposizione, mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l'operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all'assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato n e dia comunicazione alla propria compagnia perchè provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l'altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere.
5. Malgrado la variegata tipologia di clausole claims made offerte dalla prassi commerciale, esse, schematizzando al massimo, appaiono sussumibili in due grandi categorie: a) clausole c.d. miste o impure, che prevedono l'operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello dedotto in giudizio, alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del contratto); b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all'assicurato e da questi all'assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
(omissis)
10. L'affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori rilievi - disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva - volti a evidenziare la consustanziale e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione, posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la compagnia, stravolgerebbe, a danno dell'assicurato, la struttura tipica del contratto, quale delineato nell'art. 1917 c.c., che, conformata, come si è detto, sul modello c.d. loss occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza della polizza. Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perchè vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all'assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall'agente all'assicuratore, del rischio derivante dall'esercizio dell'attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell'obbligo di manleva.
11. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell'intagibilità del modello codicistico si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall'art. 1932 c.c., che tra le norme inderogabili non menziona l'art. 1917 c.c., comma 1. Il che, in via di principio, consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l'obbligo del garante di tenere indenne il garantito "di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione", deve pagare a un terzo.
Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro
facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell'assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell'assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale.
12. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c'è la percezione che essa snaturi l'essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l'obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l'assicurato a stipularlo, considerato che l'eventualità di un'aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione.
Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola, operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico, deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso.
13. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell'art. 1341 c.c., ovvero dell'oggetto del contratto, tenendo conto che, in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell'inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all'oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). In siffatta prospettiva si predica che si ha delimitazione dell'oggetto quando la clausola negoziale ha lo scopo di stabilire gli obblighi concretamente assunti dalle parti, laddove è delimitativa della responsabilità quella che ha l'effetto di escludere una responsabilità che, rientrando, in tesi, nell'oggetto, sarebbe altrimenti insorta.
14. Orbene, funzionale al divisato obbiettivo esegetico è anzitutto la considerazione che il fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione di cui parla l'art. 1917 c.c., non può essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma - inserito all'interno di un contesto normativo in cui sono espressamente esclusi dall'area della risarcibilità i danni derivati dai fatti dolosi (art. 1917, comma 1, ultimo periodo); in cui sono imposti all'assicurato, con decorrenza dalla data del sinistro, significativi oneri informativi (art. 1913 cod. civ.); e in cui, infine, è espressamente sancito e disciplinato l'obbligo di salvataggio (art. 1914 c.c.) - si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l'assicurato deve rispondere (cfr. Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624).
Il che, se vale a far tracimare i contratti assicurativi con clausola claims made pura fuori della fattispecie ipotetica delineata nell'art. 1917 cod. civ., non è invece sufficiente a suffragare l'assunto secondo cui anche la clausola claims made mista inciderebbe sulla tipologia stessa del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la responsabilità reclamata. L'affermazione che, si ripete, è certamente sostenibile con riferimento ai contratti assicurativi con xxxxxxxx claims made pura, non resiste, con riguardo alle altre, al dirimente rilievo che, nell'ambito dell'assicurazione della responsabilità civile, il sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l'assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell'assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all'indennizzo - e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo.
15. Se tutto questo è vero, il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola clamis made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall'epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell'art. 1905 c.c., l'assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall'assicurato. E poichè non è seriamente predicabile che l'assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all'archetipo fissato dall'art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l'oggetto, piuttosto che la responsabilità.
(omissis)
17. Ritenuta inoperante la tutela, del resto meramente formale, assicurata dall'art. 1341 c.c., e conseguentemente infondate le critiche svolte nel primo mezzo, si tratta ora di considerare i possibili esiti di uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita, riprendendo il discorso dal punto in cui lo si è lasciato (al n. 12.). Peraltro, se è approdo pacifico della teoria generale del contratto la possibilità di estendere il sindacato al singolo patto atipico, inserito in un contratto tipico, è di intuitiva evidenza che qualsivoglia indagine sulla meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell'interprete. E invero i dubbi avanzati da questa Corte allorchè, interrogandosi in un obiter dictum sulla validità dell'esclusione dalla copertura assicurativa di un sinistro realizzato nel pieno vigore del contratto, in quanto la domanda risarcitoria era stata per la prima volta proposta dopo la scadenza della polizza, ebbe a ipotizzare problemi di validità della clausola, considerato che, in casi siffatti, verrebbe a mancare, "in danno dell'assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all'indennizzo" (cfr. Cass. civ. 17 febbraio 2014, n. 3622), non appaiono passibili di risposte univoche, in disparte il loro indiscutibile impatto emotivo. E' sufficiente al riguardo considerare che la prospettazione dell'immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d. pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell'epoca di commissione del fatto illecito, mentre l'esito dello scrutinio sembra assai più problematico con riferimento alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell'assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento. Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso, l'apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il sinallagma contrattuale, che nell'ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate a fronte di comportamenti dell'assicurato antecedenti alla stipula, di talchè l'eventualità, paventata nell'arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all'indennizzo, non è poi così scontata. Peraltro è evidente che della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l'esordiente, il quale non ha alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talchè anche tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza.
18. Non è poi superfluo aggiungere che, laddove risulti applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, l'indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel "significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto" presidiato dalla nullità di protezione, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art.
36. E ancorchè la pacifica limitazione della tutela offerta dalla menzionata fonte alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata - dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell'esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763) - escluda la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale e marchi comunque di assoluta residualità l'ipotesi di una sua rilevanza in parte qua, va nondimeno sottolineata la maggiore incisività del relativo scrutinio.
Questo, in quanto volto ad assicurare protezione al contraente debole, non potrà invero che attestarsi su una soglia di incisione dell'elemento causale più bassa rispetto a quella necessaria per il positivo riscontro dell'immeritevolezza, affidato ai principi generali dell'ordinamento.
19. Va poi da sè che l'esegesi, ove non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri della clausola, che risultino in sè di fulminante evidenza in un senso o nell'altro, non può prescindere dalla considerazione, da un lato, dell'esistenza di un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorchè in tesi qualificabile come "professionista", è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che
governano il sistema della responsabilità civile; dall'altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l'entità del premio pagato dall'assicurato, così in definitiva risolvendosi in un giudizio di stretto merito che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità.
20. Quanto poi agli effetti della valutazione di immeritevolezza, essi, in xxx xx xxxxxxxxx - xxxxxxxxxxx xxxx'xxxx xxxxx xxxx scorrettezza comportamentale presidiata, per quanto innanzi detto (al n. 7. 2), dalla sola tutela risarcitoria - non possono non avere carattere reale, con l'applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull'abbrivio degli spunti esegetici offerti dall'art. 1419 x.x., xxxxx 0, xxxxxx xxx xxxxxxxxx, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall'art. 2 Cost., "che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa" (Corte cost. n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128).
21. (omissis)
18. Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l'operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.
(omissis)