L’ESPERIENZA CONTRATTUALE DI FILCAMS VENETO
L’ESPERIENZA CONTRATTUALE DI FILCAMS VENETO
Le peculiarità dei settori commercio e pulimento
Xxxxxx Xxxxxxxxxx
Paper Ires n°78 – giugno2014
00000 Xxxxxx Xxxxxxx Via Peschiera, 5 - Tel. 0415497820-1-2-3 Fax 0000000000 P.IVA 02309080279 xxxx://xxx.xxxxxxxxxx.xx e-mail: xxxx@xxxxxx.xxxx.xx
L’ESPERIENZA CONTRATTUALE DI FILCAMS VENETO
LE PECULIARITA’ DEI SETTORI COMMERCIO E PULIMENTO
Xxxxxx Xxxxxxxxxx
giugno 2014
SOMMARIO
Capitolo 1 – Il contesto socio-economico | pag. | 5 |
1.1 L’economia veneta tra calo dei redditi e dell’occupazione | » | 5 |
1.2 Le peculiarità dei settori del commercio e del pulimento | » | 8 |
Capitolo 2 – Il contesto della contrattazione | » | 14 |
2.1 Vincoli e opportunità Capitolo 3 – Le relazioni industriali e la rappresentanza sindacale | » » | 14 25 |
3.1 Le caratteristiche del rapporto fra le parti | » | 25 |
Capitolo 4 – Gli enti bilaterali | » | 38 |
4.1 Funzioni e sviluppo degli enti bilaterali | » | 38 |
Capitolo 5 – La contrattazione aziendale | » | 46 |
5.1 Tematiche affrontate e regolazione | » | 46 |
Capitolo 6 – La tutela individuale e la concertazione territoriale | » | 73 |
6.1l Il sindacato e il rapporto con lavoratori e istituzioni locali | » | 73 |
Capitolo 7 – Conclusioni | » | 80 |
Appendice metodologica | » | 85 |
CAPITOLO PRIMO
IL CONTESTO SOCIO-ECONOMICO
1.1 L’economia veneta tra calo dei redditi e dell’occupazione
L’economia mondiale, a partire dalla fine del 2008, è stata attraversata da una profonda crisi che, da finanziaria, è divenuta ben presto economica, provocando un calo dei redditi reali di famiglie e cittadini assieme ad una persistente e marcata crescita della disoccupazione. Ma mentre gli Stati Uniti hanno ricominciato a crescere già dal 2010, e i paesi emergenti hanno riagganciato percentuali elevate di incremento del Pil, il Vecchio Continente continua ad avere difficoltà e costituisce, sotto questo profilo, un freno alla crescita del Pil globale (Callegari, 2012). Ciò è dimostrato dal fatto che, per esempio, nel 2012, solo 2 paesi, Germania e Polonia, hanno registrato un segno positivo nella propria produzione di ricchezza, rispettivamente con un + 0,9 e + 2%. In tale contesto, la situazione più pesante si ravvisa nei paesi dell’Europa meridionale. In Italia, il Pil, dopo la brusca caduta degli anni 2008-2009, ha conosciuto una breve ripresa per poi tornare a calare vistosamente nel 2012 e ancora nel 2013. Tra il 2008 e il 2012 la ricchezza prodotta è complessivamente diminuita di 8 punti percentuali con una riduzione nel numero di occupati pari a 500.000 unità, che ha conseguentemente innalzato il tasso di disoccupazione, passato dal 5,1% di inizio 2007 all’11% circa a fine 2012 (Veneto Lavoro, 2013a).
La situazione veneta riflette i problemi evidenziati dal paese, pur registrando un andamento migliore (Unioncamere Veneto, 2013), la cui profondità è testimoniata da tutti i principali indicatori economici. Infatti, tra il 2008 e il 2012, il Pil veneto è arretrato del 7,8%, e per il 2013 si prevede un’ulteriore diminuzione dell’1,2% (Veneto Lavoro, 2013b). Fortunatamente, la riduzione dell’occupazione non ha seguito
in modo parallelo questo trend, ma i numeri evidenziano comunque uno stato pesante di crisi. Il tasso di occupazione è passato dal 66,4% del 2008 al 65% del 2012, mentre il tasso di disoccupazione è salito al 6,7 del 2012 dal 3,4% del 2007, percentuali quest’ultime che corrispondono rispettivamente all’11,6% e all’8% se si considera la definizione allargata di disoccupazione. Quest’ultima definizione, adottata dall’Istat assieme ad una più circoscritta allineata con i criteri definiti dall’Eurostat che si basa solo sulle persone con più di 15 anni in cerca di occupazione, include le forze di lavoro potenziali, ovvero quelle persone che affermano di non aver svolto alcuna attività di ricerca negli ultimi 30 giorni, ma di aver effettuato un'azione di ricerca da 2 a 6 mesi prima, o anche oltre tale limite temporale, fino a 24 mesi, se l'azione citata si riferisce alle procedure del Collocamento o riguarda la partecipazione a un concorso pubblico. L’incremento del tasso di disoccupazione è anche dovuto al fatto che l’esclusione di un numero sempre più ampio di persone dal mercato del lavoro retribuito genera chiaramente problemi di reddito per le famiglie, e ciò ha implicato, in tutto il paese e anche in Veneto, il tentativo di inserimento o re-inserimento nel mondo del lavoro di membri di nuclei famigliari in precedenza inattivi, portando il tasso di attività regionale al 70% (Veneto Xxxxxx, 0000x).
Per quanto profonda e lunga, la crisi, come sempre accade, non agisce in modo indistinto ma sulla base di criteri selettivi, cosicché alcuni settori e imprese risultano essere più colpite di altre. Sotto il profilo settoriale, sono i settori manifatturiero, dell’edilizia, dei trasporti della logistica e del pubblico impiego ad aver subito le perdite più consistenti. Analoghi effetti selettivi si possono rinvenire nel funzionamento del mercato del lavoro. I soggetti più colpiti risultano essere i maschi, la cui presenza è maggiormente diffusa nei settori posti sotto pressione dalla crisi economica, quindi per un effetto di composizione, ovvero di somma di effetti individuali che assumono conseguenze in termini macro-aggregati. Le donne si trovano, invece, parzialmente al riparo dalla crisi come aggregato, in quanto occupate in settori meno colpiti e grazie all’espansione del lavoro terziario e a quello di cura retribuito. Nonostante tale differenza, il differenziale nel tasso complessivo di occupazione tra maschi e femmine rimane elevato, in quanto pari a 20 punti percentuali.
Per quanto concerne i giovani, è interessante notare come i dati relativi al tasso di disoccupazione siano eccessivamente enfatizzati dagli organi d’informazione. Infatti, se si analizza la quota di giovani
disoccupati in età 15 – 24 anni sull’intera popolazione della medesima classe d’età, l’Italia, con il 10%, si trova in linea con il resto dell’UE, mentre rispetto al tasso di disoccupazione (calcolato in base al rapporto tra numero di disoccupati e di attivi) la percentuale è alta, in quanto pari quasi al 25%, ma pur sempre inferiore a quella che si registrava nei primi anni ‘80. Il Veneto segue la tendenza del paese, pur con risultati meno pesanti anche in quest’ambito. Tuttavia, quanto detto non significa che la crisi non abbia comportato un peggioramento delle prospettive occupazionali della popolazione giovanile, che si è invece verificato, come dimostrano alcuni dati, anche nel territorio regionale veneto. Infatti, la quota di giovani disoccupati in età 15-24 sull’intera popolazione racchiusa in tale classe d’età risulta essere all’8%, quindi più bassa rispetto al livello nazionale, ma era pari al 4% nel 2008. Di conseguenza, la crisi ha certamente ritardato l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, e la serie storica dal 2008 al 2012 evidenzia anche una loro maggiore difficoltà ad entrare in posizioni stabili e con prospettive di carriera (Veneto Lavoro, 2013a).
La situazioni di crisi dell’economia regionale veneta ha spinto gli attori locali ad elaborare una risposta basata sull’estensione e il rafforzamento delle politiche del lavoro. Il punto di riferimento, al riguardo, è costituito dall’Accordo del 2009 “Linee guida misure anti crisi”, con il quale Regione e parti sociali si sono impegnate al raggiungimento di quattro obiettivi fondamentali: 1) garantire il sostegno al reddito dei lavoratori coinvolti nei processi di crisi; 2) integrare a tale politica passiva forme di politica attiva del lavoro in termini di riqualificazione e riallocazione del personale; 3) migliorare le performance dei Servizi per l’impiego; 4) rilanciare le politiche in favore dell’occupazione giovanile.
Fra gli obiettivi delineati dall’accordo non v’è dubbio che gli ammortizzatori sociali abbiano drenato molte risorse a disposizione, a causa del numero crescente di lavoratori coinvolti nelle crisi aziendali e per periodi di tempo più prolungati, con una spesa che nella regione Veneto ha raggiunto la somma di 1,8 miliardi di euro. Ma anche le politiche attive del lavoro hanno esercitato un loro ruolo positivo. I servizi per l’impiego hanno incrementato in misura considerevole le loro attività, anche a causa delle maggiori richieste loro pervenute, ma il ruolo più importante è venuto dallo strumento della Dote Lavoro, costituito da un pacchetto di servizi, accompagnato da un’indennità economica, erogato ai lavoratori per favorirne l’inserimento o il mantenimento del posto di lavoro. Con la programmazione del Fondo
sociale europeo (Fse) 2007-2013, tale modalità è diventata anche in Veneto la più importante per contrastare la mancanza di occupazione e migliorare la qualità dell’impiego; con essa, ai lavoratori sospesi dal lavoro (compresi coloro che beneficiano della Cassa Integrazione in deroga), o in stato di disoccupazione, è stata data l’opportunità di utilizzare il proprio tempo per migliorare la spendibilità delle proprie competenze nel mercato del lavoro. Nel caso dei lavoratori in cassa integrazione in deroga si tratta di una opportunità anche per l’impresa che, superate le difficoltà, potrà giovarsi di lavoratori più preparati e competenti. Da notare, inoltre, come il sistema della formazione professionale abbia generato risultati positivi nonostante la crisi, dimostrando così la sua vitalità e importanza.
Infine, un breve cenno relativo agli effetti prodotti in Veneto dalla Legge 92/2012, meglio conosciuta come Riforma Fornero. Sostanzialmente, la nuova regolamentazione ha prodotto effetti compensativi tra le norme incentivanti e disincentivanti diverse forme contrattuali. I contratti di lavoro intermittente, lavoro parasubordinato e lavoro in associazione hanno subito un forte calo nel loro utilizzo, a causa di una più stringente regolazione, con una spinta a trasformarli in altre forme contrattuali. Dall’altro lato si è avuta una crescita, seppur modesta, nell’impiego dei contratti a termine, sia quelli di nuova stipula, grazie alla causalità introdotta per il loro utilizzo, che quelli successivi ad altre forme contrattuali sottoposte a maggiori vincoli. Un ulteriore effetto positivo per il mercato del lavoro è stato successivamente esercitato dal Decreto dell’ottobre 2012, con il quale si sono introdotti incentivi per la stabilizzazione di donne e giovani (Veneto Lavoro, 2013a).
1.2 Le peculiarità dei settori del commercio e del pulimento
Prima di addentrarsi nei dati relativi ai settori del commercio e del pulimento oggetto della ricerca, è opportuno precisare che una spinta forte a questo studio risiede nel fatto che, nel 2014, Filcams-Cgil raggiungerà il maggior numero di iscritti all’interno della confederazione Cgil nella regione Veneto. Dopodiché, la scelta, nell’ambito del comparto del terziario, verso i settori del commercio e pulimento è legato, come si vedrà, sia alla loro consistenza socio- economica e occupazionale, sia al fatto che rappresentano due settori
coinvolti in forti processi di trasformazione, il che rende la loro analisi particolarmente stimolante e utile.
I dati riportati in precedenza forniscono una sintesi dello stato dell’economia nazionale e veneta, ma, per analizzare i settori del commercio e del pulimento oggetto dello studio, è fondamentale fare riferimento alle loro specifiche dinamiche.
Iniziando dal settore del commercio, il primo elemento da evidenziare riguarda l’andamento negativo del comparto dovuto alla contrazione dei consumi, la cui diminuzione ha seguito un andamento parallelo alla riduzione del Pil, tanto in Italia che in Veneto, perdendo così la sua capacità di assorbire, sotto il profilo occupazionale, la forza lavoro espulsa dal settore manifatturiero. A livello nazionale, la riduzione dei consumi reali delle famiglie è stata pari all’1,2% nei quattro anni successivi al 2007, seppur con differenze rilevanti tra differenti tipologie di beni e servizi (Pellegrini, 2013). La caduta dei consumi ha parimenti interessato la regione Veneto, che ha registrato, nel primo trimestre del 2013, una nuova, per quanto attenuata, diminuzione, pari al 2,5% rispetto al primo trimestre del 2012. Ciò è quanto emerge dall’analisi trimestrale svolta da Unioncamere Veneto su un campione di 1085 imprese con almeno 3 addetti (Unioncamere 2013). Tale contrazione ha coinvolto i comparti del commercio al dettaglio non alimentare e alimentare che hanno evidenziato un calo del volume di affari pari rispettivamente al 5,1 e al 4,5%. Al contrario, la dinamica nei supermercati, ipermercati e grandi magazzini si è rivelata stabile (+ 0,2%). Sotto il profilo dimensionale l’andamento negativo delle vendite al dettaglio è stato più rilevante per gli esercizi di piccola dimensione (<400 mq) con un calo del -5,6 per cento. Meno marcata la variazione della media e grande superficie (≥400 mq) che ha segnato un -0,6 per cento, una tendenza rilevata anche in ambito nazionale.
Sul piano occupazionale, il numero dei dipendenti nel settore commercio, ricavato dai dati Inps, è stato in media pari a 190.862 unità nel 2012. In prospettiva diacronica, si registra un leggero incremento pari al 1,4% su base annua con riferimento al terzo trimestre 2013, grazie alla crescita verificatasi nei supermercati, ipermercati e grandi magazzini, mentre il saldo resta negativo nel commercio al dettaglio sia alimentare che non alimentare. Questa differenza tra imprese di medio-grande e piccola dimensione (Xxxxxxxx e Xxxxxxxxx, 2013) sembra essere parallela all’ampliamento della forza lavoro dipendente con la speculare diminuzione dell’occupazione indipendente (titolari e coadiuvanti famigliari), e sembra mettere in
evidenza un processo più generale rilevato in ambito nazionale (Pellegrini, 2013). In Veneto l’occupazione su base annua, sempre con riferimento al terzo trimestre 2013, ha registrato un incremento pari al 2,5% nei supermercati, ipermercati e grandi magazzini, mentre la dinamica è stata negativa nei settori del commercio al dettaglio alimentare e non alimentare (rispettivamente pari a -1,2 e -1,4%) (Veneto Congiuntura, 2013).
Per avere un quadro più specifico della situazione veneta rispetto agli occupati nel settore del commercio nell’ambito di un quadro temporale più lungo, è possibile fare riferimento ai dati raccolti dal Sistema Informativo Regione Veneto (Silv) rispetto al lavoro dipendente (con l’esclusione quindi dei contratti a chiamata e dei contratti parasubordinati) in un arco temporale che dal 2008, l’anno della crisi, arriva sino al 2012. In particolare, è utile osservare i dati relativi al saldo delle posizioni lavorative dipendenti:
Tabella 1. Anno e saldo occupazionale nel settore commercio
Anno Saldo occupazionale
2008 | 1160 |
2009 | -220 |
2010 | 805 |
2011 | 305 |
2012 | -65 |
I dati riportati evidenziano come il saldo negativo dell’occupazione del lavoro dipendente risulti largamente inferiore se confrontato alla ben più forte caduta del Pil. Tuttavia, i dati relativi ai primi 5 mesi del 2013 sono peggiori, il che fa ritenere che il protrarsi della crisi stia erodendo la capacità di alcune imprese di continuare a resistere sul mercato.
Il settore dei servizi di pulizia richiede di procedere in modo diverso (Zanotti, 2013), trattandosi di un comparto meno esplorato e il cui funzionamento si fonda su meccanismi più complicati. Inoltre, le caratteristiche dei dati a disposizione impongono di mantenere l’analisi ad un livello nazionale, inserendo ad integrazione numeri raccolti a livello regionale quando possibile. Non si tratta, in ogni caso, di un grosso limite, poiché quanto verrà enunciato con
riferimento all’Italia corrisponde, in larga misura, a quanto delineato dagli attori sociali intervistati nel territorio regionale.
Un primo fattore da analizzare riguarda la consistenza economica del settore. Secondo i dati raccolti dalla Filcams nazionale, non precisi a causa della mancata iscrizione nel proprio codice Ateco di alcune grandi imprese di pulizia, il fatturato sarebbe pari a circa 11 miliardi di euro. Tuttavia alcuni elementi potrebbero mettere in crisi il settore. Innanzitutto, da alcune interviste effettuate, emerge come diverse imprese private abbiano deciso di internalizzare i servizi di pulizia a causa della crisi economica in atto, anche se non pare si tratti di una tendenza diffusa. Più pericolosi potrebbero essere invece gli effetti generati dalla cosiddetta spending review della pubblica amministrazione decisa dal Governo Xxxxx con il Decreto Legge 95/2012, che inevitabilmente sta provocando pressioni per un’offerta di servizi, anche di pulizia, a costo più basso. Il risultato finale sarebbe una riduzione dell’occupazione, sia in termini di occupati che di ore lavorate, in quanto il contenimento dei costi finisce per essere scaricato sui lavoratori, peraltro già gravati da salari modesti (Zanotti, 2013). Si tratta di un fenomeno riscontrato, come si vedrà meglio nel capitolo successivo, da tutti gli attori intervistati, difficilmente quantificabile, anche se, secondo la Filcams-Cgil di Modena, i tagli di spesa potrebbero provocare una riduzione del personale del settore pari al 15-20%. Percentuali analoghe si ricavano dai dati raccolti dalla Filcams Veneto negli appalti della sanità regionale. Naturalmente, le stesse imprese subiranno un contraccolpo nel loro percorso di crescita, già in diminuzione prima di tale provvedimento.
Ma la spending review potrebbe produrre effetti negativi, e siamo ad un secondo fattore, anche rispetto alla tipologia di aziende attive nel settore. Il D.L. 95/2012, all’art.1, invita esplicitamente l’attore pubblico a non escludere dalle gare la partecipazione delle piccole e medie imprese. Ciò anche in virtù della posizione che si va sempre più affermando all’interno dell’Unione Europea, dove, recentemente, sono state avanzate proposte per la creazione, in ogni paese membro, di un Osservatorio sui contratti pubblici tramite il quale monitorare l’incidenza delle commesse affidate alle piccole e medie imprese. Qualora la percentuale dovesse risultare inferiore al 50%, il paese in esame dovrebbe svolgere un’attenta analisi per favorire i processi di rivitalizzazione di tali aziende. Ma per quanto, a livello formale, il decreto ponga attenzione al tema della concorrenza nel settore, in realtà i meccanismi indotti dalla spending review agiscono in direzione opposta, poiché il contenimento dei costi e i ritardi nei
pagamenti della pubblica amministrazione sono più difficilmente sostenibili proprio dalle imprese di minore dimensione. Al momento, nel settore, sono attive 5-6 mila società di pulizia di maggiori dimensioni che coprono in larga parte il fatturato di settore, cui si aggiungono 35-40 mila aziende di dimensione microscopica che comunque garantiscono una certa concorrenza. Come detto, sono proprio quest’ultime che rischiano di non resistere alle pressioni economico-finanziarie prodotte dal contenimento dei costi imposto alla pubblica amministrazione (Zanotti, 2013).
Il terzo fattore da considerare riguarda l’occupazione. Stimare il numero degli occupati nel settore è un’operazione molto difficile, ma le fonti convergono nel stimare tale cifra attorno alle 500 mila unità. Al di là dei valori assoluti, comunque importanti per fornire un’idea della rilevanza sociale del settore, ciò che più interessa è rilevare tendenze e forme tipiche di tale occupazione. Sotto questo profilo, in primo luogo, si può notare una continua crescita dell’occupazione. In Europa, nel periodo 1989-2008, si è passati da 1,65 a 3,75 milioni di occupati, mentre, in Italia, le cooperative di Legacoop Servizi hanno avuto, nel biennio 2009-2011, un incremento occupazionale del 9,6% (Zanotti, 2013). Anche in ambito Veneto, i dati raccolti dal Silv evidenziano un saldo sempre positivo anche negli anni di crisi per quanto concerne le posizioni di lavoro dipendente:
Tabella 2. Anno e saldo occupazionale nel settore pulimento
Anno Saldo occupazionale
2008 | 12760 |
2009 | 1675 |
2010 | 3045 |
2011 | 2150 |
2012 | 1685 |
In secondo luogo, prevalgono le forme occupazionali a tempo parziale. Secondo i calcoli dell’European Federation of Cleaning Industries, l’Italia avrebbe raggiunto una media dell’occupazione a tempo parziale pari al 70% nel 2008, allineandosi così alla media europea oscillante tra il 68 e il 70%. Il fenomeno sembra essere legato al fatto che le operazioni di pulizia, dovendo essere effettuate prima e/o dopo gli orari di apertura degli uffici, comportano l’esigenza di
moltiplicare le prestazioni lavorative a tempo parziale. Ciò implica due differenti problemi. In primo luogo, come ravvisato dall’Agenzia europea per la salute e sicurezza sul lavoro (2011), i dati sperimentali raccolti dimostrano come in caso di prestazione giornaliera aumenti la produttività dei lavoratori e diminuisca il rischio di infortuni sul lavoro. Per tale ragione, l’Agenzia sollecita le imprese a compiere ogni sforzo organizzativo possibile per favorire un’erogazione della prestazione lavorativa che sia, appunto, giornaliera. La seconda questione fa invece riferimento alla qualità del lavoro. Infatti, per una persona, risulta stressante lavorare poche ore al giorno, al mattino presto e nel tardo pomeriggio o alla sera, per salari modesti; una situazione resa ancor più precaria, anche a livello economico, dalla necessità di compiere diversi spostamenti nell’arco della giornata.
CAPITOLO SECONDO
IL CONTESTO DELLA CONTRATTAZIONE
2.1 Vincoli e opportunità
Gli attori hanno sempre l’opportunità di progettare e attuare proprie strategie nell’ambito delle regole che ne circoscrivono le possibilità d’azione, ma, certamente, tali norme ne condizionano il comportamento (Xxxxxx, 2009). Tra queste, le regole di carattere istituzionale hanno una loro rilevanza e, per tale ragione, prima di procedere all’analisi delle relazioni industriali e della contrattazione, è fondamentale comprendere quali siano tali caratteristiche nei settori del commercio e del pulimento.
Il comparto del terziario, negli ultimi anni, è stato investito da cambiamenti radicali a livello normativo e di concorrenza, cambiamenti che esercitano conseguenze dirette e sostanziali rispetto alle attività di contrattazione. Anche i due settori al centro dell’analisi, il commercio e il pulimento, sono stati interessati da mutamenti specifici di grande rilevanza.
Nel settore del commercio, uno dei cambiamenti più importanti è rappresentato dall’uscita delle imprese della grande distribuzione, riunite in Federdistribuzione, dall’associazione datoriale di Confcommercio, nell’ambito di un generale processo di frammentazione che coinvolge anche le associazioni imprenditoriali dell’industria, come dimostrato dall’uscita di Fiat da Confindustria (Pedersini, 2010, Fondazione Rete Imprese Italia, 2012). La crisi economica senza dubbio riduce le risorse economiche a disposizione delle aziende, che sentono più forte la necessità di rispondere ai propri bisogni specifici in termini di competitività. Ma ci sono ragioni di disgregazione che vanno oltre lo sfondo economico difficile, maggiormente attinenti alla crisi di rappresentanza delle associazioni datoriali anche nell’ambito del commercio.
La separazione tra Confcommercio e Federdistribuzione si è formalmente consumata in seguito alla diversa posizione tenuta dai due gruppi di imprese rispetto alla liberalizzazione delle aperture domenicali, approvata dal Governo Monti nel 2011, ma riflette una più generale crisi di rappresentanza di Confcommercio nei confronti delle grandi imprese della distribuzione organizzata, che chiedono misure di flessibilità non condivise dalla maggior parte della base associativa, costituita ancora da piccoli negozi. Le richieste di flessibilità provenienti dalla grande distribuzione riguardano soprattutto l’organizzazione del lavoro in termini di orari, in riferimento a domeniche, possibilità di avere turni spezzati in base alle esigenze aziendali dei singoli punti vendita, ecc.. Tutte misure non gradite ai piccoli negozi i quali, essendo molto spesso a conduzione famigliare, vedrebbero le proprie vite sacrificate al lavoro:
“Secondo Federdistribuzione il contratto nazionale del commercio ha troppi vincoli e loro vogliono essere molto più liberi. Il problema dei lavoratori è che li vogliono h24, vogliono che arrivino e vadano a casa quando vogliono loro. Xxxxxx parlando della possibilità di fare tre turni spezzati in un giorno per fare un totale di 7 ore e mezza. Questo perché la grande distribuzione vuole tenere aperto per più tempo, dalle 9,00 alle 21,00, 7 giorni su 7, con lo stesso personale; per cui loro vogliono più personale nei tre momenti clou della giornata o alla domenica (Filcams Treviso)”.
La flessibilità d’orario, come evidente dalle parole dell’intervista ad un dirigente sindacale sopra riportate, corrisponde all’esigenza di coprire, con lo stesso personale, un orario di apertura che si è notevolmente allungato negli ultimi anni; sotto questo profilo, come si vedrà in dettaglio nel capitolo relativo alla contrattazione, la liberalizzazione delle aperture domenicali ha comportato il cambiamento più rilevante, in quanto tutte le imprese della grande distribuzione hanno provveduto, in breve tempo, a sfruttare tale possibilità. Le campagne messe in atto dalle organizzazioni sindacali per bloccare la riforma, con l’appoggio delle altre associazioni imprenditoriali del commercio, più deciso nel caso di Confesercenti rispetto a Confcommercio, nonché della Chiesa Cattolica, non hanno sortito gli effetti sperati. In primo luogo, il conflitto di attribuzione tra la Legge Regionale del Veneto prima esistente, che permetteva un certo numero di aperture domenicali (22) stabilito dopo un processo di
concertazione con le parti sociali, e il Decreto del Governo Xxxxx, è stato risolto dalla Corte Costituzionale in favore di quest’ultimo. La Corte, infatti, ha affermato che nella suddetta materia la competenza spetta al livello centrale dello Stato. In secondo luogo, la legge di iniziativa popolare promossa da Confesercenti con il sostegno della Conferenza Episcopale Italiana e depositata in Parlamento dopo la raccolta delle firme difficilmente verrà esaminata, vista l’attuale situazione politica del paese.
E’ importante notare come le richieste di flessibilità avanzate da Federdistribuzione si inseriscano in una nuova strategia competitiva incentrata primariamente sulla flessibilità d’orario, per la quale le direzioni aziendali vorrebbero ottenere il supporto sindacale, facendo anche leva sul fatto che, in realtà, le organizzazioni sindacali hanno una propria rappresentanza solo nelle imprese di medio-grandi dimensioni. Di conseguenza, sarebbe anche nel loro interesse privilegiare i bisogni della grande distribuzione rispetto ai piccoli negozi:
“Federdistribuzione, in seguito alla sua scelta di uscire da Confcommercio, non ha né rotto né modificato i suoi rapporti con il sindacato. Però confermano che questa scelta è legata al fatto di sentirsi diversi dal piccolo commercio, e chiedono anche a noi di rapportarci con loro in modo diverso. Ovvero, ci chiedono di condividere, in qualche misura, la loro analisi e la loro strategia, perché secondo loro non ci sono alternative. E quindi ci considerano arretrati o come coloro che vanno a frenare lo sviluppo del commercio moderno, sulla base di principi e valori che sono da rivedere (Filcams Verona)”.
L’intrecciarsi dei fattori di cambiamento con la crisi economica in atto rende la situazione del commercio radicalmente diversa anche solo rispetto ad alcuni anni fa. Sotto il profilo analitico, è possibile distinguere gli effetti verificatisi sul piano della concorrenza e della rappresentanza.
Iniziando dalla concorrenza, non c’è dubbio che i piccoli negozi stiano soffrendo le aperture domenicali e, più in generale, la maggiore flessibilità d’orario, anche nei centri storici, poiché, essendo spesso a conduzione famigliare, non riescono a tenere il passo con questi ritmi frenetici di apertura, né possono chiedere tale sforzo ai pochi dipendenti da loro impiegati. Ciò ha implicato, unitamente ad una crisi economica che è anche crisi di consumi, la chiusura di parecchi
esercizi negli ultimi anni, come dimostrato dai dati prima illustrati a proposito delle tendenze parallele all’aumento dell’occupazione dipendente ed alla riduzione di quella indipendente. Chiaramente, sono soprattutto le associazioni di rappresentanza dei piccoli negozi ad avvertire la negatività di questo processo, per diverse ragioni. In primo luogo, perché vedono assottigliarsi progressivamente la propria base associativa, fatto che rende nel contempo più difficile l’iscrizione all’associazione degli esercizi commerciali rimasti, che non si sentono adeguatamente tutelati. In secondo luogo, i dirigenti delle associazioni datoriali, così come alcuni rappresentanti sindacali, intravvedono rischi più generali legati a questo processo, come l’indebolimento del negozio di prossimità, utile per le persone anziane, e la riduzione della democrazia economica, con il potere concentrato in alcune grandi imprese, peraltro in contraddizione con il principio europeo di concorrenza.
Tuttavia, la liberalizzazione delle domeniche a vantaggio della grande distribuzione comporta anche l’indebolimento dei centri storici non solo per la chiusura degli esercizi commerciali, ma anche per gli eventi socio-culturali ad esso potenzialmente legati, poiché sempre più persone decidono di trascorrere parte della domenica presso un centro commerciale. Ciò implica un problema più profondo di natura culturale, ovvero il fatto di abituare le persone a considerare il proprio tempo libero come tempo rivolto al consumo. Si tratta di un problema evidenziato sia dai rappresentanti sindacali che datoriali:
“I lavoratori ci raccontano che, alla domenica, arrivano tante persone che non sanno dove andare, per cui il centro commerciale diventa un luogo di accoglienza; proprio per chi, senza grandi sforzi, alla domenica si guarda attorno e dice: dove vado? Ma sì, vado al centro commerciale. Perché c’è quest’idea di mescolare il tempo libero con il consumo, anche solo per guardare le vetrine. [...]. C’è anche quest’effetto negativo delle aperture domenicali, secondo noi, perché si abituano le persone, anche i bambini che vengono portati lì da piccoli, all’idea che il consumo è l’unico momento libero (Filcams Verona)”.
“La liberalizzazione delle domeniche ha anche portato un problema socio-culturale. Un società deve decidere quale modello di sviluppo intende seguire, e allora non è certo intelligente un modello in base al quale tutte le persone devono consumare sempre. Ma non solo perché oggi non ci sono i soldi,
non c’entra nemmeno questo problema. Anche se fossimo pieni di soldi, che modello di società e di vita è quello secondo cui tutto il nostro tempo deve essere dedicato al consumo? Sembra che se non c’è la possibilità di acquistare si muore (Confesercenti)”.
Per contrastare questo fenomeno di deriva culturale, in attesa di una modifica legislativa che limiti le aperture domenicali, un elemento di fondamentale importanza è rappresentato dalle iniziative volte a rilanciare e rivitalizzare i centri storici mediante l’organizzazione di eventi di vario genere, in grado di richiamare l’interesse della popolazione cittadina e non solo. La progettazione di tali attività spetta all’attore pubblico locale, e, sino a questo momento, le azioni di questo tipo hanno registrato un certo successo, soprattutto se dotate di alcune caratteristiche. Innanzitutto, non deve trattarsi di argomenti delineati in modo eccessivamente sofisticato, poiché si finirebbe per coinvolgere un numero limitato di persone competenti che non formerebbero la necessaria massa critica per dare un impulso, almeno in quei giorni, al centro storico cittadino. Nel contempo, le attività culturali che vengono presentate alla cittadinanza non dovrebbero solo essere esteticamente apprezzabili, ma essere dotate di un loro contenuto, avere una certa sostanza. Per esempio, nella città di Treviso, recentemente, l’amministrazione cittadina ha voluto chiamare Xxxxx Xxxxxxx, esponente di punta del teatro di narrazione, per tenere uno spettacolo che si è rivelato un vero e proprio successo, con una piazza stracolma ad ascoltarlo.
Più in generale, alcuni funzionari sindacali intervistati hanno posto l’accento sul fatto che, per quanto ben pensate ed organizzate, le singole iniziative sono utili ma non sono in grado di invertire la tendenza verso un ripopolamento dei centri storici, per raggiungere il quale servirebbe una progettazione di più lungo termine da parte dell’attore pubblico. Riqualificare il centro storico sotto il profilo urbanistico, renderlo più attraente, allargare le aree pedonali e costruire ampi parcheggi in prossimità del centro sono tutte operazioni in direzione della costituzione di smart cities che richiedono investimenti con un orizzonte temporale lungo. Investimenti che le Amministrazioni locali fanno fatica ad effettuare in questo periodo di difficoltà di bilancio e di taglio dei trasferimenti provenienti dal governo centrale. A tali problemi economici, senza dubbio rilevanti, si sommano debolezze politiche. Di ordine generale, legate ad una classe dirigente locale non ancora sufficientemente competente in materia di sviluppo moderno delle città, e orientata ad ottenere un consenso di
breve termine più che ad una progettualità di lungo respiro, ma anche legate ai singoli territori (come, per esempio, l’alto tasso di litigiosità tra istituzioni collocate in diverse aree della provincia di Rovigo).
Di conseguenza, le maggiori quote di mercato che la grande distribuzione progressivamente acquisisce sembrano comportare una progressiva identificazione tra tempo libero e consumo. Tuttavia, va specificato come la liberalizzazione delle aperture domenicali, in realtà, abbia portato più problemi che vantaggi alle imprese. Secondo un’indagine della Regione Veneto, condotta con il supporto tecnico di Unioncamere, nel 2012 su un campione di quasi 1000 operatori commerciali, la grande maggioranza (circa il 70%) ha affermato che le aperture domenicali/festive e l’estensione degli orari di vendita non hanno portato benefici, poiché non si è verificato un aumento né del fatturato né dell’occupazione, mentre sono cresciuti i costi (Unioncamere, 2013). Soprattutto, sulla base di quanto riportato dai lavoratori e di quanto informalmente riferito dai dirigenti aziendali della grande distribuzione, la tendenza sembra essere abbastanza chiara per gli stessi grandi gruppi. Ovvero, i centri commerciali aumentano di poco il loro fatturato pur procurandosi la maggior parte delle entrate alla domenica, in virtù del fatto che, in un periodo di crisi dei consumi, molte famiglie semplicemente plasmano su più giorni la propria spesa concentrandola alla domenica, ma senza incrementare l’ammontare complessivo. Nel contempo, le spese di apertura crescono soprattutto sotto il profilo del consumo di energia, poiché i metri quadrati da illuminare, riscaldare o ventilare sono estesi e, di conseguenza, si riducono i margini di profitto.
In secondo luogo, l’organizzazione del lavoro è stressata anche per la necessità di poter contenere le spese da questo punto di vista, considerati gli alti costi energetici e il fatto che il personale rappresenta una parte importante, e soprattutto quella più immediata su cui intervenire, del costo totale di gestione. Infatti, i centri commerciali restano aperti 7 giorni su 7 utilizzando, più o meno, lo stesso personale che avevano in forza prima, e ciò determina orari di lavoro lunghi e spezzati. Una simile organizzazione del lavoro, per quanto sia legittimamente attuabile dalle direzioni aziendali, riverbera inevitabili effetti negativi rispetto al clima aziendale e comporta grosse difficoltà organizzative. Nonostante queste criticità, non appare semplice tornare alla regolazione preesistente la liberalizzazione delle aperture, poiché manca un coordinamento efficace tra imprese della grande distribuzione. Infatti, non essendoci fiducia reciproca tra le aziende coinvolte, ciascuna impresa ha il timore che, qualora
decidesse di chiudere alla domenica, pur in accordo con i concorrenti, molti altri centri commerciali resterebbero in realtà aperti, sottraendole la clientela. Un danno non sopportabile, vista la crisi dei consumi e la loro progressiva concentrazione proprio alla domenica, e quindi un rischio impossibile da correre. Si tratta di un classico esempio nel quale la competizione senza vincoli significativi (in questo caso per quanto riguarda i giorni e l’orario di apertura) prevale sul coordinamento tra imprese (Xxxxxxx, 1994).
Se questi sono gli effetti che i cambiamenti menzionati stanno concretamente provocando nei diversi territori del Veneto sul piano della concorrenza, e c’è ragione di ritenere che non siano dissimili da quelli verificatisi in ambito nazionale, altrettanto forti sono le conseguenze che si stanno producendo sul piano della rappresentanza datoriale.
Al momento, nel settore del commercio, come accennato, si può individuare la presenza di tre diversi attori collettivi: la grande distribuzione, il piccolo commercio al dettaglio e le aziende cooperative. Questa è una frammentazione che complica già di per sé il lavoro delle rappresentanze sindacali, chiamate a confrontarsi con un attore aggiuntivo. La situazione è resa poi più difficile dal fatto che le tre rappresentanze datoriali esprimono bisogni di flessibilità e tradizioni di relazioni industriali differenti. In breve, il mondo della cooperazione si è storicamente caratterizzato per un comportamento collaborativo con le organizzazioni sindacali (Xxxxxxxx et al., 2011); i piccoli negozi, associati in Confcommercio e Confesercenti, hanno sempre guardato con diffidenza alla regolazione sindacale ma sono più propensi, per propria convenienza, al mantenimento di certi vincoli in particolare sull’orario; mentre le imprese associate a Federdistribuzione chiedono una flessibilità deregolamentata, che consenta all’azienda l’utilizzo di strumenti, soprattutto in termini di orario, in grado di corrispondere alle esigenze aziendali. L’eterogeneità delle richieste pone forti condizionamenti alle organizzazioni sindacali, soprattutto in occasione del rinnovo del contratto collettivo nazionale di settore, visto che da parte datoriale si auspica sostanzialmente la firma di tre differenti accordi. Pur non essendo il tema del presente studio, vale la pena sottolineare due aspetti relativi alla contrattazione nazionale, un processo ancora in atto nel momento in cui scrivo, ma che avrà conseguenze dirette e assai rilevanti sui livelli contrattuali più decentrati, siano essi territoriali o aziendali.
In primo luogo, un’eventuale differenziazione contrattuale tra le diverse categorie, oltre a ledere il principio dell’uguale regolazione di base del rapporto di lavoro in un determinato settore, porterebbe ad una marcata diminuzione dei diritti dei lavoratori impegnati nella grande distribuzione organizzata, in virtù delle richieste di maggiore flessibilità avanzate da queste imprese.
Un secondo rischio risiede nella possibilità che Federdistribuzione decida di creare anche propri fondo previdenziali integrativi e un proprio Ente Bilaterale, un rischio già in parte concretizzatosi visto che Federdistribuzione ha disdettato la propria adesione al fondo sanitario integrativo. Ciò provocherebbe un forte indebolimento dei fondi integrativi e dei singoli Enti poiché, trattandosi essenzialmente di forme assicurative, la loro capacità di erogare servizi in favore di lavoratori e imprese dipende dalle risorse che sono in grado di ottenere. Di conseguenza, più si riduce la massa critica a loro disposizione, minori saranno i benefici su cui persone e imprese potranno contare, fino a rischiare l’insostenibilità finanziaria.
Per evitare tali pericoli, le organizzazioni sindacali hanno presentato una piattaforma unitaria e identica a tutte le associazioni datoriali per il rinnovo del contratto nazionale, manifestando la volontà di arrivare ad un unico accordo per tutti i lavoratori del terziario, con l’obiettivo di contrastare così le divisioni emerse in seno all’attore datoriale e garantire il principio della parità di trattamento per tutti i dipendenti di uno stesso settore:
“Federdistribuzione chiede un proprio contratto nazionale, anche per avere legittimazione come soggetto politico. La risposta unitaria del sindacato è stata: noi presentiamo una piattaforma uguale per tutte le controparti. La risposta politica è: voi vi frantumate, noi ci ri-uniamo, perché i lavoratori devono essere uguali, non possiamo fare un discount dei diritti, dove un’impresa passa da un contratto ad un altro a seconda della sua convenienza (Filcams Padova)”.
In ogni caso, resta da vedere quanto sarà davvero forte la divisione intercorsa tra Confcommercio e Federdistribuzione, per quanto le esigenze di piccoli e grandi negozi appaiano sempre più incompatibili. Mentre Confesercenti ha sostenuto apertamente le campagne per la regolamentazione delle aperture domenicali, il sostegno di Confcommercio è stato più informale, il che lascia pensare che siano ancora in atto tentativi di riunificazione. Infatti, la divisione
consumatasi, se confermata, produrrebbe un indebolimento del ruolo politico di Confcommercio e danneggerebbe l’associazione anche sotto il profilo economico, per cui non si può escludere un tentativo di ri-aggregare tali interessi, sebbene tale percorso appaia difficile da realizzare.
Passando al settore del pulimento, il cambiamento più rilevante, con effetti diretti e significativi sulle attività di contrattazione, si è verificato con l’approvazione della spending review da parte del Governo Xxxxx, tramite la quale si è cercato di procedere ad una razionalizzazione e maggiore efficienza della spesa pubblica, al fine di recuperare diversi miliardi di euro nell’arco di un triennio. Tale decisione ha prodotto effetti immediati e dolorosi nel settore degli appalti pubblici, con le amministrazioni costrette a ridurre le risorse da destinare a tal fine. Ma tali effetti si sono riversati, in larga misura, sulla qualità del servizio, con una diminuzione degli standard qualitativi, che pone non pochi problemi ai cittadini, e sulle condizioni occupazionali dei lavoratori, determinandone un peggioramento:
“Il problema della spending review è che si è scaricato tutto verso il basso. [...]. In ospedale si facevano i ripassi tutti i pomeriggi, mentre adesso si fanno una volta alla settimana, dove si pulivano i vetri una volta al mese ora si puliscono ogni sei mesi. Magari non nei reparti ma soprattutto nei corridoi e negli spazi comuni (Filcams Rovigo)”.
“Oggi il meccanismo degli appalti, con la riduzione dei soldi, è diventato micidiale, nel senso che entra chi propone il prezzo più basso e, logicamente, quando vai a vedere il motivo lo capisci subito. E’ legato a condizioni lavorative pesanti, al mancato pagamento degli stipendi o al fatto che vengono pagati in ritardo, qualche azienda salta e non paga più i lavoratori. (Filcams Vicenza)”.
Il principio della spending review genera una revisione degli appalti che moltiplica i passaggi di consegne tra imprese appaltatrici, un fatto che rende di cruciale importanza le norme del cambio di appalto codificate nel D.Lgs. 276/2003 (Zanotti, 2013). Tale normativa prevede che l’azienda subentrante in un determinato appalto abbia l’obbligo di assumere gli stessi lavoratori già impegnati in tale attività pur se assunti da un’altra impresa, un principio le cui norme procedurali sono state stabilite dalle parti con l’art. 4 del
contratto nazionale. Le condizioni occupazionali di tali operatori, tuttavia, dipendono dalle condizioni di appalto, e, in un quadro di riduzione della spesa, l’attività di contrattazione volta alla salvaguardia di tali condizioni si rivela alquanto complicata e prevalentemente orientata alla riduzione del danno. In questo capitolo, ciò che preme sottolineare sono alcuni aspetti tecnici che, pur non rientrando nell’attività negoziale, potrebbero utilmente supportarla.
In primo luogo, talvolta si ravvisa un deficit di competenze nei funzioni responsabili per la redazione dell’appalto, reale oppure mascherato dalla volontà di favorire un’azienda piuttosto che un’altra, un fatto che si traduce nell’opacità dei criteri alla base della valutazione delle imprese che si offrono per la fornitura del servizio. Essenzialmente, la mancanza di trasparenza si traduce nel premiare le aziende che presentano l’offerta al costo più basso, senza prendere in esame le garanzie che vengono date relativamente alla qualità del servizio. Sarebbe pertanto auspicabile una modifica nella normativa che rendesse obbligatorio prendere in considerazione diversi criteri per la valutazione delle offerte delle imprese che concorrono per l’assegnazione di un appalto, non limitati al costo del servizio. In particolare, Xxxxxxx ritiene centrale che quanto promesso da capitolato dall’impresa che vince l’appalto sia oggetto di controllo obbligatorio da parte dell’azienda appaltante, stabilendo sanzioni importanti in caso di mancato rispetto. In secondo luogo, manca anche una cultura, nei funzionari che scrivono l’appalto, di tutela dei lavoratori e, per tale ragione, il sindacato sta spingendo per essendo preventivamente coinvolto nella definizione degli appalti delle grandi aziende:
“Noi ci accorgiamo, come sindacato, che manca, da parte di scrive l’appalto, una cultura, un’attenzione di scrivere determinate cose a protezione del lavoratore. Il grosso lavoro che stiamo facendo qui a Treviso, quando affrontiamo il cambio di appalto, consiste nel spiegare che se nell’appalto fosse stata inserita una frase che si riferisse al rispetto del contratto nazionale di settore è logico che ci sarebbe stato un aiuto in più (Filcams Treviso 2)”.
Altro principio di grande importanza per la tutela dei diritti dei lavoratori è costituito dal principio di responsabilità solidale, stabilito dall’art. 29 del D.Lgs. 276/2003, in base al quale si afferma che il committente è responsabile della corresponsione al lavoratore dei trattamenti retributivi e previdenziali previsti dalle leggi e dal
contratto nazionale. Più complicata la situazione nel momento in cui l’appaltatore ricorre alle prestazioni di un sub-appaltatore, anche se l’interpretazione prevalente indica che il lavoratore assunto presso il sub-appaltatore debba godere degli stessi trattamenti. Come rilevato dalle interviste, il principio si rivela particolarmente utile nei confronti delle aziende che vincono gli appalti e, successivamente, non si comportano in modo corretto con i lavoratori, poiché tali imprese vengono progressivamente escluse dal sistema.
Infine, è importante notare che, se il principio della spending review ha portato ad un peggioramento delle condizioni occupazionali negli appalti pubblici, la situazione non appare molto diversa nel sistema degli appalti del settore privato, dove, quando non si decide di internalizzare tali funzioni, le risorse da destinarvi si restringono sempre di più:
“Quanto si sta verificando nel settore pubblico avviene anche con le imprese private, perché un’azienda metalmeccanica che fa un appalto non lo fa con gli stessi soldi. Se è in crisi, perché ha determinati problemi, come prima cosa va a tagliare sull’appalto. Se prima negli uffici le pulizie si facevano ogni giorno, adesso si fanno due volte alla settimana, cambia la struttura dell’appalto, e quindi diventa difficile, se non impossibile, mantenere l’appalto alle condizioni precedenti (Filcams Vicenza)”.
CAPITOLO TERZO
LE RELAZIONI INDUSTRIALI E LA RAPPRESENTANZA SINDACALE
3.1 Le caratteristiche del rapporto tra le parti
In termini generali, il clima delle relazioni industriali nella regione Veneto nei settori del commercio e del pulimento non appare ispirato ai principi della collaborazione e della fiducia reciproca, e le previsioni ottimistiche sulla natura partecipativa dei rapporti tra le parti sociali non trovano riscontro nella realtà (Regalia, 1988). Ci sono alcune differenziazioni da fare, perché, per esempio, il mondo della cooperazione risulta più incline al coinvolgimento dell’attore sindacale nel definire l’organizzazione del lavoro, ma il quadro complessivo appare difficoltoso.
Da parte dei dirigenti sindacali si è messo in evidenza, in primo luogo, un comportamento imprenditoriale volto a gestire direttamente e in modo unilaterale con lavoratrici e lavoratori le modalità di erogazione della prestazione lavorativa, cercando di evitare l’intermediazione sindacale. Sembra perciò prevalere un orientamento imprenditoriale o manageriale volto a “comandare” più che a favorire il coinvolgimento degli addetti alla vita aziendale, sulla base di una modalità gestionale paternalistica, con il datore di lavoro che concede al dipendente, in cambio di un impegno supplementare, benefits da lui stesso determinati (Xxxxxxx and Xxxxxxxxx, 2006). Una modalità gestionale non applicabile nel momento in cui c’è una rappresentanza sindacale con la quale l’azienda è chiamata a confrontarsi, la quale viene perciò spesso concepita come un fattore di rigidità, e quindi come un freno alla competitività dell’impresa. Una concezione della rappresentanza organizzata che, in alcuni casi, può sfociare nell’adozione di comportamenti anti-sindacali, legato alla volontà imprenditoriale di razionalizzare il più possibile l’impiego dei propri dipendenti:
“Credo che il primo elemento che manca sia il sistema di relazioni, e il sistema di relazioni viene quando una parte riconosce l’altra ed entrambi, su alcuni temi, oltre al conflitto, riescono a lavorarci assieme. Io questa cosa l’ho in qualche modo vissuta nel settore dell’industria, mentre nel commercio manca completamente. Se devo fare qualcosa, come datore di lavoro, mi arrangio da solo, e, se posso, cerco di far perdere all’organizzazione sindacale, qualora presente, ogni conoscenza degli eventi (Xxxxxxx Xxxxxxx)”.
“Le organizzazioni sindacali sono sentite dalle imprese come un fastidio, e il comportamento anti-sindacale c’è, a volte effettivo, a volte strisciante. Ciò perché nel terziario le imprese vogliono fare quello che vogliono. Oggi non c’è lavoro? Vai in ferie, lo decide il datore di lavoro quando ci vai, senza porsi il problema, se non c’è il sindacato, del riposo psico-fisico previsto dalla Costituzione, e il lavoratore si fa fuori tutte le ferie così. Se c’è il sindacato, queste cose, non si possono fare. E la cultura imprenditoriale è: arraffa, pur con i dovuti distinguo del caso (Filcams Venezia)”.
La diffidenza manifestata dalle imprese nei confronti dell’attività sindacale è particolarmente avvertita nel caso della Cgil, secondo i dirigenti Xxxxxxx intervistati. Tale atteggiamento appare riconducibile allo sviluppo storico della regione ed alla sua sub-cultura politica locale, volti a privilegiare la sussidiarietà di matrice cattolica rispetto alla regolazione e all’intervento pubblico, perorati dalle organizzazioni sindacali di sinistra (Messina, 2012). In tale ambito, l’organizzazione sindacale Cgil viene ancora vista da talune imprese come un sindacato comunista, il cui obiettivo consisterebbe nel bloccare e irrigidire al massimo livello possibile le attività aziendali:
“Questo è il Veneto bianco, abbiamo ancora logiche che risalgono all’’800, dove, in mancanza dello Stato, le risposte ai cittadini le ha date la Chiesa, attraverso la rete delle parrocchie. Il sindacato è sempre stato malvisto, contrastato. Ma quale sindacato? Il sindacato rosso (Filcams Padova)”.
Gli stessi dirigenti delle associazioni datoriali hanno riconosciuto la persistenza di una certa diffidenza da parte di molte imprese nei confronti delle organizzazioni sindacali, tra le quali però non notano
differenze particolari nell’affrontare i problemi, a parte un approccio più normativo, e quindi anche rigido, da parte della Xxxxxxx, che non pregiudica tuttavia la possibilità di risolvere le questioni sul tavolo:
“Stiamo parlando di parti sociali che si sono guardate con diffidenza da sempre [...].La Cgil ha un approccio sempre normativo rispetto alle altre organizzazioni sindacali, ma ciò non toglie la possibilità di contrattare anche cose complicate, non impedisce di entrare nel merito dei problemi. Hanno una tradizione di un certo tipo, è evidente. Le altre organizzazioni sindacali hanno un approccio meno dogmatico, e questo può facilitare i rapporti, ma, per essere sinceri, noi non notiamo grosse differenze tra le organizzazioni sindacali (Confcommercio Treviso)”.
Quanto detto sino a questo momento riguarda le relazioni industriali con le aziende in generale, ma è interessante notare come i funzionari Filcams esprimano posizioni diverse rispetto alla possibilità di differenziare, sotto il profilo qualitativo, le relazioni industriali esistenti tra piccole e medie imprese da una parte, con una proprietà prevalentemente locale, e grandi aziende dall’altra, a proprietà internazionale. Mentre si distinguono, in tutti i territori, le relazioni sindacali sviluppate con il mondo della cooperazione, storicamente caratterizzate da una buona collaborazione tra le parti.
Secondo alcuni rappresentanti sindacali, non ci sono differenze di rilievo tra imprese di diverse dimensioni o proprietà, volte a perseguire, in diversi casi, un rapporto diretto con lavoratrici e lavoratori e maggiori margini d’azione, al fine di rendere immediatamente esigibili richieste di flessibilità che sarebbero invece bloccate, o comunque da negoziare, in presenza della rappresentanza sindacale.
Altri rappresentanti sindacali hanno invece distinto il comportamento di differenti tipologie di imprese. A Verona, per esempio, la relazione più difficile si riscontra con gli imprenditori locali, proprietari di imprese di medie dimensioni, mentre con le multinazionali il rapporto si configura in termini più regolari e corretti. Magari più burocratico, poiché il responsabile aziendale con cui sindacalista si confronta rimanda alla sede centrale della propria impresa la risoluzione del problema, ma senza dubbio l’organizzazione sindacale riceve una risposta e può iniziare la discussione di merito con i rappresentanti dell’impresa.
Viceversa, altri funzionari sindacali hanno evidenziato come le relazioni industriali abbiano maggior qualità con le medie imprese locali piuttosto che con le grandi multinazionali. Ciò perché le aziende locali hanno i propri interessi nel territorio, e pongono quindi attenzione al fatto di avere uno sviluppo aziendale che sia equilibrato e sostenibile nel lungo termine, cercando quindi di far crescere il proprio capitale umano e di avere rispetto dell’ambiente circostante. Per esempio, a Padova, una catena di supermercati locali continua ad assumere apprendisti, poi riconfermati, nonostante il periodo di crisi, senza ricorrere al contratto a chiamata o ad altre forme di precariato. Al contrario, le multinazionali definiscono la loro strategia all’estero e fanno in Italia investimenti che sono, nello stesso tempo, poco onerosi e altamente remunerativi. Non avvertendo una responsabilità sociale nei confronti dei territori in cui operano, le imprese globali talvolta utilizzano relazioni di lavoro precarie e cercano, spesso con successo, di aprire e chiudere punti vendita a seconda della propria convenienza, senza prestare attenzione alla questione ambientale. In realtà, il problema del consumo eccessivo del territorio legato alle manovre della grande distribuzione è stato comunque messo in evidenza da diversi dirigenti sindacali.
Il settore del pulimento presenta, negli ultimi tempi, una sua peculiarità rispetto alla tipologia di imprese attive al suo interno, sottolineata da diversi segretari Filcams, che esercita dirette conseguenze sulla qualità dei rapporti sindacali. Ovvero, sono sempre più attive cooperative che hanno la propria sede in regioni del Sud, soprattutto in Sicilia e Calabria, in parte probabilmente perché il Sud Italia è stato ancora più colpito dall’azione della spending review rispetto alle altre aree d’Italia, ragion per cui le aziende operanti in tale area stanno cercando nuove opportunità di operare. Tuttavia la diffusione di imprese con sede nel Sud Italia evidenzia un problema di legalità, poiché ci possono essere imprese che operano come copertura e perciò disponibili a lavorare in perdita oppure a non retribuire adeguatamente i propri dipendenti per riuscire a rimanere sul mercato. In ogni caso, confrontarsi con imprese così lontane si rivela arduo per i sindacalisti, poiché si tratta di dialogare con persone con le quali non si ha un rapporto diretto e così diventa difficile risolvere i problemi sindacali o dei singoli lavoratori. Il problema è acuito dal fatto che, talvolta, nel settore del pulimento, le controversie possono riguardare argomenti che implicano la discussione attorno a poche decine di euro, per quanto importanti sia come diritto di per sé che per il reddito delle lavoratrici o dei lavoratori. Di conseguenza, spendere tempo e
anche risorse economiche per dirimere la questione può risultare dannoso per la persona sotto il profilo del calcolo costi-benefici.
Nel complesso, i dati qualitativi raccolti indicano una comunanza nelle esperienze sindacali vissute, relative a rapporti sindacali non molto collaborativi. Al contrario, le differenze territoriali nella qualità dei rapporti tra le parti in diverse tipologie di imprese riflettono le peculiarità di ciascun territorio e degli attori imprenditoriali in esse operanti. Anche in questo caso, tuttavia, si possono individuare alcune tendenze comuni, come la diffidenza della piccola impresa nei confronti dell’azione sindacale o il consumo immotivato del territorio. Il panorama di relazioni industriali, definitosi nell’arco di decenni,
è in rapida e continua evoluzione, soprattutto in questa fase di difficoltà economica. Infatti, la crisi e le normative approvate per attutirne gli effetti sociali o economici hanno comportato la necessità, anche per imprese di piccole dimensioni, di dover ricorrere al confronto con le organizzazioni sindacali per utilizzare lo strumento della Cig in deroga. In altri casi, invece, il confronto tra le parti si è reso necessario per concordare una diversa organizzazione dell’orario di lavoro, in termini di turni o straordinari. Quest’incontro “obbligato” tra le parti sta producendo effetti positivi sul piano della reciproca conoscenza, come riconosciuto sia dai rappresentanti sindacali che datoriali, con la possibilità di sviluppare rapporti più collaborativi e di maggior fiducia:
“Nei casi di crisi in cui interveniamo, perché c’è il bisogno di attivare la Cig in deroga oppure per problemi di altra natura, ci sono tanti imprenditori che stanno scoprendo il vantaggio di concordare alcune cose con il sindacato. Nel senso che possono accedere a determinati ammortizzatori sociali, si possono rivedere alcuni aspetti organizzativi che aiutano a ridurre i costi o a rendere più efficienti le aziende. La Direzione aziendale che deve rispondere sull’efficienza e sui costi ti dice: qua non ce la facciamo più. Facciamo la cassa o altre cose? Allora si ragiona assieme e a volte trovi soluzioni che loro ti dicono: ah, caspita, allora anche a noi così va bene (Filcams Verona)”.
“La premessa è che il settore del terziario non ha una grande storia di sindacalizzazione, questo è pacifico. Una storia di sindacalizzazione necessitata si sta avendo proprio oggi, con la crisi, dove l’utilizzo di alcuni strumenti rende obbligatorio il passaggio sindacale. Così, anche l’imprenditoria che non era
abituata a confrontarsi con il sindacato ma solo con i lavoratori comincia a capire a volte la necessità, a volte l’opportunità, a volte anche la difficoltà, è evidente, di trovare degli accordi. Però, comincia anche a capire l’importanza della co-gestione di alcuni aspetti del lavoro (Confcommercio Treviso)”.
“Io ho sempre trovato un sindacato molto responsabile nell’affrontare i problemi, sempre con un atteggiamento volto ad aiutare le imprese a risolvere le questioni, pur sempre dentro le regole ovviamente. Quindi, purtroppo, la diffidenza della piccola impresa verso il sindacato, molto radicata ancora oggi, è culturale, perché nel loro immaginario il sindacato è quel soggetto che arriva e ti rompe le scatole, non è visto come un soggetto con cui puoi arrivare ad una soluzione. E’ comunque un problema che si deve porre anche il sindacato di capire perché la piccola e piccolissima azienda hanno questo atteggiamento. Poi, quando le parti si conoscono, le stesse aziende sono contente rispetto a come sono andate le cose, il problema è la loro non conoscenza. Con la crisi il sindacato sta entrando in contatto con molte piccole aziende, e il risultato è molto positivo (Confesercenti)”.
Tuttavia, la crisi non ha solo favorito lo sviluppo di una relazione, che sembra rivelarsi positiva, tra le parti, ma ha anche incrementato i bisogni di flessibilità delle imprese che, in alcuni casi, sembrano aver scelto la strada dell’intensificazione degli orari di lavoro. Ciò ha complicato le relazioni sindacali, anche in aziende che pure vantavano una tradizione di rapporti collaborativi e di risoluzione condivisa dei problemi con il sindacato:
“Negli ultimi anni, l’acuirsi della crisi ha determinato, in alcuni casi, un peggioramento dei rapporti con alcune grandi aziende. Mi viene in mente l’impresa A che occupa migliaia di dipendenti in tutta Italia, che negli ultimi 2-3 anni ha molto peggiorato le relazioni sindacali. Agiscono in base al principio: faccio, poi ti comunico, se tu sei contrario faccio lo stesso (Xxxxxxx Xxxxxx)”.
Passando alle forme e alle modalità di rappresentanza, il primo punto da analizzare riguarda la possibile approvazione di un accordo interconfederale che regoli come calcolare e quali diritti conferire alla
rappresentanza sindacale, sia in ambito nazionale che aziendale, sulla falsariga di quanto stipulato recentemente tra organizzazione sindacali e Confindustria (Mariucci, 2011, Rassegna Sindacale, 2011). Nei settori del commercio (in particolare) e del pulimento, tutti i sindacalisti intervistati considerano necessario un accordo sulla rappresentanza per la contrattazione di livello nazionale (a livello aziendale le organizzazioni sindacali agiscono in modo unitario e non si ravvisano particolari divergenze, anche per la più debole presenza sindacale), per evitare che si firmino contratti da parte di organizzazioni sindacali non sufficientemente rappresentative dei lavoratori coinvolti. Una volta definita la rappresentanza sindacale, diventerebbe possibile controllare che i contratti nazionali firmati siano effettivamente rappresentativi della volontà della maggioranza dei lavoratori. In tal modo, sarebbe possibile evitare la frattura generatasi tra le organizzazioni sindacali nel settore Terziario, distribuzione e servizi dopo la stipula del contratto separato, nel 2008, da parte di Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, non sottoposto all’approvazione dei lavoratori nonostante non fosse stata determinata la capacità rappresentativa delle organizzazioni sindacali firmatarie, così come quella della Filcams. E’ fondamentale, hanno sottolineato tutti i rappresentanti sindacali consultati, che i contratti firmati abbiano l’assenso della maggioranza dei lavoratori, poiché quanto in essi contenuto determina le loro condizioni lavorative, quindi è necessario verificare la loro opinione.
Nel momento in cui si scrive è già iniziata la discussione tra le parti, a livello nazionale, per la stipula di tale accordo sulla rappresentanza. Tuttavia, sia nel settore del commercio che del pulimento, e nel terziario in generale, risulta complicato, più di quanto non lo sia nel comparto dell’industria, definire un simile accordo.
In primo luogo, occorre capire come si calcolano gli iscritti ad una certa organizzazione sindacale, un processo non semplice nei settori del commercio e del pulimento, dove un numero non trascurabile di lavoratori non utilizza la ‘delega’, cioè non versa il contributo tramite busta paga:
“Una volta definite le percentuali minime di rappresentatività che un’organizzazione sindacale deve avere per partecipare al tavolo negoziale, occorre capire cosa calcoliamo come iscritto. Il lavoratore che versa il contributo per delega? In certi settori ne abbiamo assai pochi. Brevi manu? E va bé, se io non ho una certificazione valida dico che ne ho 2 milioni (Filcams Venezia)”.
Una volta stabilito come calcolare gli iscritti rimane la questione della definizione della soglia minima di rappresentatività per partecipare al processo di contrattazione, partendo dal presupposto che tale soglia deve essere reale e non effimera, e deve perciò discostarsi da quanto pattuito nel comparto industriale. Infatti, la soglia del 5% della rappresentanza per affermare il diritto delle singole organizzazioni sindacali a partecipare al tavolo negoziale (per il rinnovo del contratto nazionale) non risulta raggiungibile nei settori del commercio e del pulimento:
“L’accordo stipulato con Confindustria non si può attuare con delle modifiche nei nostri settori, per questo non è stato ancora firmato. Perché se noi guardiamo al 5%, nessuna delle 3 organizzazioni sindacali la raggiunge, in nessun settore del terziario. Noi non abbiamo luoghi di lavoro grandi, abbiamo una parcellizzazione, per cui tu devi dare una modalità diversa di rappresentanza (Filcams Padova)”.
Ci sono quindi difficoltà strutturali che renderanno complicato e, probabilmente, lungo il processo di negoziazione per un accordo sulla rappresentanza. Ma tale approdo è ulteriormente frenato dalle associazioni datoriali di rappresentanza. Non tanto perché disinteressate o contrarie alla definizione di regole in questo campo, quanto piuttosto perché afflitte da una crisi interna di rappresentanza, di cui si è dato conto nelle pagine precedenti, che le porta a concentrare il proprio impegno sulle dinamiche interne alle proprie associazioni:
“ Abbiamo iniziato a discutere anche a livello locale di un accordo sulla rappresentanza. Diciamo che c’è una reticenza, perché le associazioni datoriali sono un pò in crisi, sia perché meno imprese si iscrivono sia perché ci sono tante piccole società in crisi di fatturato. Per cui loro tendono a coltivare la loro rappresentanza e rappresentatività più che pensare a quella degli altri (Filcams Vicenza)”.
A ciò si aggiunge, sempre per quanto attiene alle caratteristiche delle associazioni imprenditoriali del commercio, il fatto che, a differenza di Confindustria, il livello organizzativo territoriale tende ad avere, e a voler conservare, una marcata autonomia rispetto alle
sedi centrali. Ciò rende difficile l’aggregazione delle posizioni locali in un’unica linea che l’associazione possa esprimere, in modo chiaro, in ambito nazionale:
“Nel commercio noi abbiamo un’associazione commercianti che non è rappresentata realmente a livello nazionale. Abbiamo un Confcommercio di Treviso che ragiona per Treviso, una Confcommercio di Padova che ragiona per Padova, e così via. Pur essendo anche loro rappresentati a livello nazionale tale livello è debole, così diventa difficile mettere assieme tutte le teste e raggiungere un accordo (Filcams Treviso 1)”.
Per quanto concerne le forme della rappresentanza, va innanzitutto sottolineato come le organizzazioni sindacali, nei settori del commercio e pulimento, non siano presenti in molti luoghi di lavoro, a causa della frammentazione delle imprese e della recente sviluppo del sindacato in questi settori. Inoltre, è interessante notare come in alcuni territori della regione manchi la stessa consapevolezza dell’esistenza e dell’azione sindacale da parte di molti lavoratori, un elemento di conoscenza da non dare quindi per scontato:
“Noi non siamo una città con una grande storia sindacale, come possono essere Venezia o Padova nel Veneto. Vicenza è sempre stato il territorio della balena bianca, quindi non c’è molta consapevolezza del sindacato. [...]. Qui, in alcune aree, ci sono persone che sono iscritte al sindacato ma non sanno a quale organizzazione, e in qualche posto magari c’è anche il funzionario che va a parlare direttamente con gli iscritti (Filcams Vicenza)”.
Al di là di ciò, la rappresentanza sindacale può essere costituita dalle Rsa, rappresentanze sindacali aziendali, oppure dalle Rsu, rappresentanze sindacali unitarie; due formule che presentano differenze qualitative importanti, innanzitutto perché nel primo caso i delegati vengono nominati dall’organizzazione sindacale, mentre nel secondo sono eletti direttamente dai lavoratori.
Laddove presenti, le rappresentanze sindacali, in tutte le province venete, assumono in larga maggioranza la forma delle Rsa, mentre le Rsu sono presenti nella cooperazione e in poche grandi imprese. Questa diversa diffusione è segno di debolezza da parte dei lavoratori nelle piccole imprese, dove i dipendenti possono avere timore di
andare a votare per eleggere il proprio rappresentante sindacale, portando quindi le organizzazioni sindacali a preferire la formazione delle Rsa. Infatti, la costituzione delle Rsu è la soluzione di gran lunga preferita dalla Filcams per ragioni di democrazia, innanzitutto, poiché si coinvolgono direttamente i lavoratori, ma si tratta di un’opzione perseguibile solo laddove chi si candida alla rappresentanza ha davvero un certo seguito tra i dipendenti.
Lo sviluppo delle Rsu, secondo i segretari Xxxxxxx, non è nemmeno favorito dall’approccio seguito dalle altre organizzazioni sindacali, soprattutto la Cisl, che, in alcuni casi, sembrano preferirvi le Rsa, per due motivi principali. In primo luogo, per mantenere una propria presenza sindacale nei luoghi di lavoro che potrebbe essere cancellata nel momento in cui si procedesse all’elezione e l’organizzazione sindacale non ottenesse una quantità di voti sufficienti. Infatti, avere un proprio rappresentante sindacale all’interno dei luoghi di lavoro, anche se debole, rende obbligatorio il coinvolgimento dell’organizzazione sindacale da parte delle altre organizzazioni. Ovvero, se la Filcams decide di indire un’assemblea deve concordare la data, e naturalmente convocare, le altre organizzazioni sindacali dotate di rappresentanza aziendale. In secondo luogo, le altre organizzazioni sindacali sembrano avvertire meno l’esigenza rispetto alla Filcams, e alla Cgil in generale, di consultare e coinvolgere direttamente i lavoratori nell’elezione dei propri rappresentanti.
La Filcams preferisce poi il ricorso alla costituzione delle Rsu, oltre che per motivi di democrazia, anche per il fatto che tali rappresentanze sindacali risultano avere maggiore potere contrattuale, essendo più legittimate, e godono di maggior autonomia. Sono perciò in grado di svolgere un’importante funzione di filtro che evita il ricorso diretto di lavoratrici e lavoratori ai funzionari, un fatto che mette quest’ultimi in grande difficoltà essendo già spesso impegnati nella risoluzione di problemi individuali. Inoltre, tramite le elezioni, le organizzazioni sindacali hanno modo di verificare nel tempo il consenso che l’attività sindacale svolta dal rappresentante riscuote tra lavoratrici e lavoratori. Nel complesso, la maggiore capacità contrattuale delle Rsu derivante dal maggiore coinvolgimento degli addetti, e quindi dalla più elevata legittimazione della rappresentanza nei confronti della controparte datoriale, sembra confermata dal fatto che, tra i contratti pervenuti in occasione dell’ indagine, quasi la metà hanno la firma delle Rsu, pur essendo la presenza generale di quest’ultime, come detto, piuttosto rara. Peraltro, la rappresentanza unitaria è vista con maggior favore dalle stesse imprese, poiché semplifica le relazioni industriali interne,
permettendo di arrivare più facilmente ad un accordo condiviso da tutte le rappresentanze sindacali aziendali.
Tuttavia, vi sono situazioni nelle quali, per motivi strategici, è più conveniente per lavoratrici e lavoratori e per le stesse organizzazioni sindacali mantenere le Rsa, soprattutto quando pochi dipendenti partecipano all’attività sindacale e quindi, presumibilmente, anche ad eventuali elezioni. In siffatte situazioni, il rischio concreto è, in primo luogo, che le elezioni per le Rsu non raggiungano una partecipazione sufficiente per la loro elezione. In secondo luogo, laddove sono poche le persone che prendono parte alla votazione, c’è il pericolo che il delegato eletto abbia una posizione troppo filo-aziendale in quanto l’eletto avrebbe un’insufficiente legittimazione nel confrontarsi con l’azienda, e, inoltre, la sua attività potrebbe non essere verificata dai rappresentati. Ciò avrebbe la conseguenza di indebolire ulteriormente, nel tempo, la presenza sindacale in quel luogo di lavoro. Va specificato che, nel settore del commercio, la nomina delle Rsa è cruciale, in quanto consente l’agibilità sindacale nei luoghi di lavoro. Ovvero, il contratto nazionale del commercio non prevede la possibilità, per il sindacato esterno, di indire un’assemblea nei luoghi di lavoro nei quali non dispone di una rappresentanza diretta. Considerata tale regolazione, è evidente che conservare una rappresentanza sindacale interna risulta fondamentale affinché il sindacato possa mantenere una sua presenza e un canale di dialogo diretto con i lavoratori.
Un altro tema approfondito nel corso delle interviste è relativo agli iscritti alle organizzazioni sindacali, che risultano essere in aumento un pò in tutte le province del Veneto, anche nei settori del commercio e del pulimento, complice, purtroppo, le numerose situazioni di crisi aziendali. Sul piano delle categorie maggiormente presenti tra gli iscritti, con riferimento alle ampie classificazioni costituite da quadri, operai e impiegati, sono emersi spunti di analisi interessanti.
In primo luogo, i quadri sono raramente parte delle organizzazioni sindacali, e quando ciò avviene, questo è soprattutto il risultato di un iniquo trattamento che essi ritengono di aver subito da parte dell’azienda. In ogni caso, la maggior parte dei funzionari sindacali sembra mostrare un certo scetticismo nei confronti della loro sindacalizzazione, in quanto considerati troppo vicini all’impresa per poter rappresentare, con successo, gli interessi di lavoratrici e lavoratori. Nel complesso, gli operai costituiscono ancora la principale constituency del sindacato, sebbene non siano pochi gli iscritti che si registrano anche tra la forza lavoro impiegatizia. Al riguardo, si è in
particolare indagato se, secondo i dirigenti sindacali intervistati, gli impiegati, e, più in generale, le lavoratrici e i lavoratori dotati di competenze più elevate e inseriti in ruoli di una certa importanza, i cosiddetti lavoratori della conoscenza, possono fornire un qualche valore aggiunto nelle attività di contrattazione, un maggior contributo qualitativo derivante dalle loro maggiori competenze e, soprattutto, dalle più ampie informazioni di cui dispongono rispetto all’organizzazione e all’andamento economico dell’impresa, in virtù del ruolo ricoperto. Su questo punto, la maggior parte dei funzionari intervistati ha risposto in senso affermativo, notando come la forza lavoro impiegatizia o più qualificata, pur ancora difficile da sindacalizzare, abbia competenze e informazioni che possono effettivamente aumentare la qualità della contrattazione, oggi sempre più funzione delle conoscenze che si hanno più che dei rapporti di forza e del conflitto tra le parti, come avveniva in passato:
“Credo che gli impiegati possano essere utili per migliorare l’attività di contrattazione, con una precisazione di questo tipo. Non reputo l’impiegato più intelligente dell’operaio, il fatto è che dispone, in virtù del lavoro che svolge, di informazioni e competenze per avere una migliore lettura del quadro economico aziendale. Una delle difficoltà che abbiamo consiste nel fatto di rappresentare, spesso, solo il lavoro manuale e non quello impiegatizio. Questo perché credo, con molta franchezza, che la possibilità di migliorare la tutela dei lavoratori dipende non più dal grado di conflitto che riesci ad esercitare a forza di spallate, come pensano alcune categorie, ma dalle conoscenze che si hanno rispetto ai movimenti dell’impresa o del grande gruppo nel mercato. E queste conoscenze le puoi avere solo se hai rappresentanti e iscritti di un certo livello (Xxxxxxx Xxxxxxx)”.
Non tutti i funzionari condividono questo ragionamento, a testimonianza dell’eterogeneità territoriale dell’esperienza sindacale, anche per le difficoltà che si riscontrano nell’ottenere le informazioni dal personale impiegatizio, che fatica ad esporsi. Ma quasi tutti indicano comunque l’importanza di avere conoscenze e competenze adeguate circa l’organizzazione e la strategia aziendale per poter difendere gli interessi di lavoratrici e lavoratori, specie di fronte ad aziende e gruppi che hanno strategie più flessibili e mobili rispetto al passato, nonché bilanci complessi a causa delle attività di finanziarizzazione sempre più diffuse. Di qui l’importanza di avere
delegati preparati e in grado di disporre di informazioni utili rispetto all’organizzazione aziendale. Così, altri funzionari hanno messo in evidenza quanto potrebbe essere utile riuscire a coinvolgere nelle attività sindacali non tanto il personale impiegatizio quanto altre categorie di lavoratori, come gli agenti di vendita:
“Il mondo degli agenti/rappresentanti di vendita ti consente di avere informazioni ampie sull’azienda, anche perché hanno molti meno problemi a dialogare con il sindacato. Se in un’azienda riesci ad avere un buon numero di agenti/rappresentanti puoi ricostruire tutti i passaggi intermedi che vanno dal processo produttivo alla vendita (Filcams Vicenza)”.
CAPITOLO QUARTO
GLI ENTI BILATERALI
4.1 Funzioni e sviluppo degli Enti Bilaterali
Gli Enti Bilaterali rappresentano un’esperienza peculiare del sistema di relazioni industriali nel panorama italiano, e sono il frutto della contrattazione tra le parti (Perulli e Sabel, 1997). La loro istituzione, ad opera delle parti sociali, si è rivolta ai settori economici caratterizzati da frammentazione produttiva, instabilità occupazionale ed elevato impiego di lavoratori atipici, e quindi al mondo dell’artigianato, del commercio e del turismo, solo per fare alcuni esempi (Leonardi, 2006). Tramite la creazione di tali Enti si è cercato di erogare benefici integrativi a molti lavoratori che difficilmente sarebbero stati raggiunti dalla contrattazione aziendale e, inoltre, la rappresentanza paritaria delle parti sociali al loro interno ha favorito una maggior frequenza di incontri e la possibilità di attivare forme di collaborazione concrete e durature. La diffusione degli Enti è stata più forte in alcune regioni (Veneto ed Xxxxxx-Romagna, per esempio) che non in altre, ed ha avuto uno sviluppo complesso sotto il profilo funzionale, ovvero in termini di tipologia di servizi erogati, e territoriale (Giaccone, 2008).
Per quanto concerne la regione Veneto e i settori coinvolti nell’indagine, un Ente Bilaterale per il settore del pulimento ancora non esiste, sebbene si stia discutendo la sua istituzione a livello regionale, mentre nel settore del commercio tali Enti, nel caso delle imprese aderenti a Confcommercio, sono già sviluppati da parecchio tempo su base provinciale in tutta la regione. Poiché l’Ente Bilaterale del commercio è talvolta associato al settore del turismo, si può schematicamente riassumere nella seguente tabella 1 la presenza e articolazione di tali istituti all’interno delle 7 province venete tra i settori del commercio e del turismo:
Tabella 3. Provincia e Ente Bilaterale Confcommercio/Cgil Cisl Uil
Provincia Ente Bilaterale
Belluno Commercio/Turismo assieme
Padova Separati
Rovigo Commercio/Turismo assieme
Venezia Separati
Verona Separati
Vicenza Commercio/Turismo assieme (ma bilanci separ.)
Treviso Commercio/Turismo assieme
La tabella dimostra la differenziazione degli Enti Bilaterali nelle province venete; va specificato che, nel caso di Vicenza, pur essendo commercio e turismo riuniti nello stesso istituto, i due settori hanno in realtà bilanci separati ed erogano perciò servizi differenti. Quanto alle funzioni espletate dagli Enti, pur con alcune differenze minori in termini di singoli servizi forniti o della quantità di risorse ad essi destinati, si denota, a livello regionale, una sostanziale omogeneità. Ovvero, gli istituti svolgono prevalentemente funzioni in materia di: Osservatori congiunti per il monitoraggio e la programmazione dello sviluppo a livello territoriale del settore, Osservatori per la salute e sicurezza, analisi dei fabbisogni formativi e attività di formazione continua per lavoratori e imprese, forme di sostegno al reddito dei lavoratori, soprattutto nel momento in cui hanno difficoltà occupazionali, Commissioni paritetiche per le attività di conciliazione, certificazione dei contratti di apprendistato, anche professionalizzante. Tutti gli Enti Territoriali sono coordinati nelle loro attività dall’Ente Bilaterale nazionale.
La struttura organizzativa descritta riguarda, come detto, le imprese associate a Confcommercio, mentre nel caso di Confesercenti l’Ente Bilaterale è costituito a livello inter-regionale, ovvero raggruppa Veneto e Friuli-Venezia Giulia, ed è relativo a commercio e turismo assieme. Le funzioni svolte dall’Ente Bilaterale costituito tra organizzazioni sindacali e Confesercenti sono molto simili a quelle citate per l’Ente Bilaterale formato con Confcommercio, con una particolare attenzione dedicata dal primo ai servizi innovativi per le imprese (sviluppo dell’e-commerce, wi-fi, ecc.).
Il parere fornito dai soggetti intervistati, sia di parte sindacale che datoriale, sono positivi nei confronti dell’operato degli Enti Bilaterali,
che vantano una tradizione storica importante in tutte le province. Si tratta di strutture snelle, con bassi costi di gestione, in grado quindi di destinare il 70-80% delle risorse incassate all’erogazione dei servizi a favore di lavoratori e imprese, evitando così il problema che tali istituti possano mascherare forme di finanziamento per le organizzazioni coinvolte. Anche per tale ragione, imprese e lavoratori risultano essere soddisfatti del sostegno ricevuto tramite l’Ente, per quanto si tratti di una soddisfazione misurata sul piano economico, mentre l’aspetto culturale e valoriale che sta dietro tali attività è più difficilmente colto.
Soprattutto, le organizzazioni sindacali valutano positivamente l’Ente in quanto consente di raggiungere lavoratori che non potrebbero mai beneficiare di una contrattazione integrativa aziendale, operando in aziende di piccole e anche piccolissime dimensioni. Le rappresentanze organizzate dei lavoratori sono quindi orientate non solo ad accettare ma a valorizzare il ruolo della mutualità, pur ribadendo che essa deve rimanere integrativa e non alternativa all’intervento pubblico. Nel contempo, va anche evidenziata un’evoluzione culturale da parte del mondo imprenditoriale, poiché non si poteva dare per scontato, come invece verificatosi, che le aziende, o perlomeno una parte significativa di esse, fossero disponibili ad assumere un ruolo di erogazione di beni comuni, pur se a livello locale e settoriale:
“Secondo me l’Ente Bilaterale è uno strumento fondamentale in quei settori che sono frammentati, perché è l’unico strumento che oggi si conosca per ricomporre un pò questi settori. E’ un luogo in cui tu ti confronti con la controparte per fare cose utili al settore, e quindi sia all’impresa che ai lavoratori, e che permette di avere un minimo di governo del settore. Questi Enti possono rispondere in modo mutualistico a problemi cui non si riuscirebbe a porre rimedio a livello aziendale. In questi settori frammentati, per dare qualcosa di generalizzato ai lavoratori, gli Enti Bilaterali sono fondamentali. [...]. Ci sono luoghi di decisione dove si decide all’unanimità. Ci vediamo ogni settimana con Confcommercio, ed è un’occasione per parlare di tante cose. Questa frequenza di permette di fare dei patti, sia formali che informali, che possano poi tenere nel tempo. E quindi tu, in una Provincia come Verona, hai delle relazioni, nel commercio, che possono solo costruire, date dalla fiducia che ti
dà il confronto nel tempo. A volte ovviamente si litiga, ma si litiga sul merito delle cose (Filcams Verona)”.
“Noi siamo molto soddisfatti del funzionamento dell’Ente Bilaterale, come dimostrato anche dal fatto che continua a crescere il numero delle imprese che ne fanno parte. Il nostro Ente Bilaterale è un vero e proprio modello, nato 20 anni fa da persone che ci credevano fortemente (Confcommercio Treviso)”.
“Le imprese sono molto contente dell’Ente Bilaterale, perché, attraverso l’Ente, trovano soddisfazione anche i lavoratori. Quindi il ritorno che hanno i datori di lavoro è soprattutto indiretto, a parte il sostegno che si dà per alcune spese, come le divise, o di servizi legati all’innovazione. Ma si tratta soprattutto di servizi per i lavoratori (Confesercenti)”.
La soddisfazione per il funzionamento degli Enti Bilaterali è quindi forte; per questo tutti i soggetti intervistati hanno auspicato un ampliamento delle loro attività in futuro. Il giudizio positivo deriva certamente anche dalla velocità di risposta rispetto alle richieste avanzate, una velocità resa possibile dalla gestione territoriale della struttura. Per tale ragione, i soggetti interpellati ritengono che tale livello debba rimanere il più importante nella struttura organizzativa, ma non mancano le voci di chi, sia in ambito sindacale che datoriale, auspicano un ruolo di coordinamento più forte a livello nazionale o regionale, e una razionalizzazione degli Enti esistenti accorpandoli per settori, in modo tale da acquisire una maggiore massa critica al fine di erogare servizi più differenziati e sostanziosi.
Non mancano comunque alcune difficoltà associate agli Enti Bilaterali. Alcune sono peculiari ai singoli territori, come il caso di Vicenza, dove possono beneficiare dei servizi soltanto le imprese che versano i contributi ma che sono associate a Confcommercio. Ne consegue che le aziende in regola con i contributi da versare all’Ente, ma non associate a Confcommercio, non ricevono alcunché. La norma è stabilita dallo Statuto dell’Ente, che richiede l’unanimità per essere modificata, e non si è ancora riusciti ad arrivarci, nonostante le organizzazioni sindacali spingano da tempo in questa direzione. Ciò si verifica perché l’associazione provinciale si muove, come spesso avviene all’interno di Confcommercio, in modo autonomo rispetto alla struttura centrale dell’organizzazione, che non prevede tali forme di esclusione.
Tuttavia, le questioni più frequentemente emerse rispetto alle attività degli Enti Bilaterali fanno riferimento al fatto che il loro sviluppo non deve mettere in discussione il principio della solidarietà generale tra i lavoratori. Per tale ragione, alcuni funzionari hanno espresso alcuni suggerimenti.
In primo luogo, un accorpamento inter-settoriale tra Enti Bilaterali, poiché, laddove separati formalmente o a livello di bilancio, essi finiscono per erogare servizi differenti ai lavoratori, differenziandone il livello di tutela. Al contrario, procedere ad un loro accorpamento sia in termini finanziari che di servizi erogati costituirebbe un’importante operazione solidaristica, in quanto uniformerebbe il trattamento in favore dei lavoratori pur in presenza di settori che raccolgono risorse quantitativamente diverse.
In secondo luogo, si sottolinea il carattere integrativo e non sostitutivo rispetto al welfare pubblico, per cui devono essere attentamente definiti i loro ambiti di intervento. In particolare, alcuni dirigenti ritengono che, per quanto concerne gli ammortizzatori sociali, il compito di sostenerli dovrebbe spettare esclusivamente allo Stato, trattandosi di una funzione di welfare fondamentale:
“L’Ente Bilaterale deve avere un ruolo aggiuntivo e non sostitutivo rispetto a quanto viene dato dal welfare pubblico. Per esempio, io ho forti perplessità sul fatto di intervenire nel sostegno al reddito dei lavoratori per gli ammortizzatori sociali, come è il caso dei lavoratori in sospensione, con i fondi dell’Ente. Tale compito spetterebbe allo Stato, perché è uno strumento universale, mentre agli Enti Bilaterali, per esempio, alcune imprese non aderiscono. Se invece fornisco un contributo per mandare i bambini agli asili nido allora va bene, perché è un qualcosa di aggiuntivo rispetto a quanto il lavoratore riceve dallo Stato (Xxxxxxx Xxxxxx)”.
Ci sono alcune differenze a livello territoriale nel funzionamento degli Enti. Per esempio, in province come Treviso e Verona, gli Enti Bilaterali si configurano come strumenti davvero utili per costruire un rapporto collaborativo e fiduciario tra le parti. In altri casi, come a Belluno, pur lavorando bene, l’Ente non è ancora riuscito ad acquisire un ruolo politico nel rapporto tra le parti, in relazione all’analisi, monitoraggio e programmazione di attività condivise nel settore. Ma, nel complesso, i giudizi sono dappertutto positivi.
Per tale ragione, la maggior parte dei sindacalisti vede con preoccupazione la possibilità che Federdistribuzione, oltre a chiedere un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) specifico per le proprie imprese, decida di costituire propri Enti Bilaterali abbandonando quelli già costituiti tramite Confcommercio (Confesercenti rappresenta esclusivamente le piccole aziende per cui non si pone questo problema), e che possa seguire la stessa logica per il fondo di assistenza integrativa. In realtà, come detto, il rischio si è già concretizzato per i Fondi, disdettati a partire dal 1° gennaio 2014. Qualche dirigente si è mostrato più preoccupato per gli effetti sui diritti dei lavoratori che potrà scaturire dall’autonomia negoziale che reclama Federdistribuzione, più che per la situazione degli Enti Bilaterali. La maggior parte, tuttavia, considera pericoloso il rischio “spezzatino”, ovvero che gli Enti Bilaterali, anziché procedere ad una loro razionalizzazione ed unificazione inter-settoriale tra settori vicini, quali commercio e turismo ad esempio, consentendo loro di fornire più servizi in una prospettiva di solidarietà tra lavoratori di settori diversi, finisca per dividersi ulteriormente a livello intra-settoriale. Ne deriverebbe una marcata riduzione delle risorse finanziarie e, conseguentemente, delle prestazioni erogabili, da parte dei singoli Enti Bilaterali, ed una differenziazione ancora maggiore dei benefici per imprese e dipendenti. Ma, da parte dell’associazione datoriale, non si ravvisano rischi di questo tipo, sia per la solidità e per la capacità di resistenza dell’Ente a livello territoriale sia per la convinzione che le imprese della grande distribuzione rimarranno al loro interno:
“Il ridimensionamento degli Enti legato all’uscita delle aziende della grande distribuzione va visto in relazione ai territori. Nel nostro territorio non c’è questo rischio. Tra l’altro, le imprese che si sono tolte da Confcommercio sono rimaste con l’Ente Bilaterale, non hanno dato la disdetta (Confcommercio Treviso)”.
In ogni caso, visti i giudizi positivi riscossi dall’Ente Bilaterale nel settore del commercio, non sorprende che la sua assenza nel pulimento, nonostante le organizzazioni sindacali stiano da tempo cercando di costituirne uno a livello regionale, sia vista negativamente dai funzionari sindacali intervistati. Infatti, come si vedrà, il settore del pulimento è caratterizzato da redditi bassi in continua diminuzione, poiché le lavoratrici, essendo quasi tutte donne le persone occupate nel settore, vengono assunte anche per 8 ore alla
settimana, ore che sono ulteriormente in riduzione a causa della spending review. Inoltre, per quanto i dipendenti del settore abbiano quasi sempre un contratto a tempo indeterminato, tale contratto è legato alla presenza di determinati appalti, la cui incerta consistenza e persistenza nel tempo comportano un’inevitabile instabilità occupazionale. A ciò si aggiunge la frammentazione del settore, analoga a quella del commercio, che rende molto complicato se non impossibile, per le organizzazioni sindacali, poter raggiungere tutte le lavoratrici tramite la contrattazione aziendale. Infatti, per quanto il settore sia dominato dalla presenza di alcune grandi cooperative, queste stesse cooperative impiegano un numero ridotto di persone sul territorio nazionale nella gestione dei singoli appalti. Per tutte queste ragioni i segretari ritengono che un Ente Bilaterale in questo settore aiuterebbe ad alzare un livello di tutela che rimane sostanzialmente basso:
“Un Ente Bilaterale sarebbe fondamentale nel pulimento, perché si tratta di un settore che soffre di redditi particolarmente bassi e precari, e può contribuire a risolvere problemi che non riesci ad affrontare in ambito aziendale in settori così frammentati (Filcams Verona)”.
Ci sono tuttavia due problemi strutturali che rendono difficile la stipula di Ente Bilaterale nel settore. In primo luogo, non ci sono associazioni di rappresentanza inclusive e forti, con le quali si possa effettivamente contrattare la costituzione di un Ente Bilaterale. Anche nel momento in cui si arrivasse, come si sta tentando di fare, alla creazione di un Ente regionale, le singole realtà territoriali devono poi associarsi, altrimenti l’istituto non può durare nel tempo. Perciò sono necessarie organizzazioni di rappresentanza dotate di un sufficiente grado di consistenza e di coordinamento territoriale.
In secondo luogo, a fronte di investimenti iniziali limitati di capitale, il costo del lavoro sul totale del costo di un’impresa è elevato, per cui i margini di profitto sono molto ridotti e si sono ulteriormente assottigliati con la spending review. Ciò rende difficile la contrattazione di ulteriori contributi da versare a carico dell’impresa, soprattutto per le cooperative di piccole dimensioni. Inoltre, in presenza di margini così bassi, la debolezza associativa diventa un problema ancora più grande, poiché le imprese associate non sono disposte ad assumersi oneri ulteriori che, avvantaggiando altre aziende concorrenti, potrebbero metterle fuori mercato:
“C’è un grande problema di associazionismo datoriale, che investe Confcommercio ma in modo ancor più forte il settore dei multi-servizi. Ciò rende difficile riunire tutte le imprese. Con le aziende più grosse si potrebbe anche farcela, ma abbiamo anche aziende che sono gestite da un singolo consulente. Quindi, tu con chi fai l’accordo?Abbiamo provato a farlo in ambito regionale e poi, visto che non si riusciva a farlo, abbiamo provato in ambito provinciale, ma ci hanno risposto che non ci sono le condizioni per farlo, perché non vanno fuori mercato, non è che le imprese si prendono costi aggiuntivi se i margini sono così bassi (Filcams Vicenza)”.
CAPITOLO QUINTO
LA CONTRATTAZIONE AZIENDALE
5.1 Tematiche affrontate e regolazione
In questo capitolo si prenderanno in considerazione alcuni aspetti fondamentali della contrattazione aziendale,1 così come definiti dalla letteratura specialistica (Xxxxxxx e Xxxxxx, 1988, Terragni, 1996, Cella e Treu, 2009), concentrando poi l’attenzione a quegli argomenti messi in maggiore evidenza dai dirigenti sindacali e datoriali. Attraverso questa duplice operazione emergono i seguenti temi fondamentali di contrattazione: a) la gestione delle crisi aziendali; b) la modulazione dell’orario di lavoro; c) le attività di formazione continua; d) i contratti atipici; e) l’organizzazione del premio di risultato; f) le forme di partecipazione diretta e indiretta. I contratti che sono stati analizzati in dettaglio, prima di intervistare al riguardo i dirigenti della associazioni sindacali e datoriali, sono di livello provinciale, inter- provinciale e regionale. In ogni caso, le interviste hanno interessato la contrattazione in tutte le aziende del territorio nei settori del commercio e del pulimento e le dinamiche emerse sono state più o meno le stesse, fatto salvo per la maggiore articolazione e sofisticazione dei contratti stipulati con gruppi di ambito nazionale o internazionale.
5.1.1 La gestione delle crisi aziendali
La parte preponderante delle attività sindacali, purtroppo, è al momento occupata dalla gestione delle crisi aziendali, sempre più
1 Contratti territoriali sono stati stipulati nelle province venete. Tuttavia, il capitolo si concentra sulla contrattazione aziendale in quanto molto più diffusa e considerata cruciale dai sindacalisti intervistati.
numerose anche nei settori del commercio e del pulimento e che, nonostante le previsioni di un inizio di crescita economica, seppur modesta, per il nostro paese, non accennano ad arrestarsi. Tali attività sottraggono tempo e risorse per ragionare, in modo maggiormente innovativo, in termini di contrattazione integrativa laddove ancora possibile; un problema messo in evidenza tanto dai dirigenti sindacali che datoriali. Nel contempo, il fatto di dover concretamente porre rimedio a situazioni di crisi e, quindi, di perdita di reddito o di occupazione per le lavoratrici e i lavoratori, porta le organizzazioni sindacali a lavorare in modo condiviso e a mettere da parte eventuali divisioni, con una tendenza all’unitarietà, in ambito territoriale, sottolineata da tutti i segretari intervistati.
Nel rapporto con gli altri attori sociali, come detto in precedenza, la difficoltà economica di molte imprese implica un incontro tra le parti mai verificatosi in precedenza, vista l’obbligatorietà del confronto con il sindacato per l’attivazione degli ammortizzatori sociali. Ma ciò comporta anche la possibilità, per le organizzazioni sindacali, di dialogare come fasce di lavoratrici e lavoratori con le quali, in situazioni normali, non sarebbero mai entrate in contatto, un dialogo fruttuoso che sta portando un numero crescente di iscritti e l’opportunità di conoscere più direttamente condizioni lavorative e domande di rappresentanza.
Per quanto concerne la tipologia degli ammortizzatori sociali, il settore del terziario, inclusi quindi commercio e pulimento, presenta minori e più differenziati strumenti di tutela del reddito delle lavoratrici e dei lavoratori rispetto all’industria. Gli strumenti della Cassa Integrazione Straordinaria e della mobilità sono attivabili solo nelle imprese commerciali al di sopra dei 50 dipendenti (prima della crisi il limite era fissato a 200 dipendenti), mentre la Cassa Integrazione Ordinaria non trova applicazione nel comparto. Sotto i 50 dipendenti, le parti sociali possono ricorrere alla Cassa Integrazione in deroga, qualora vi sia una sospensione temporanea dell’attività commerciale e, in caso di licenziamento, all’indennità di disoccupazione (Assicurazione sociale per l’impiego, Aspi). Rimane sempre utilizzabile, invece, il contratto di solidarietà.
Dopo questa breve ricognizione degli ammortizzatori sociali a disposizione del comparto del terziario, è importante verificare quali sono gli strumenti maggiormente utilizzati nei settori del commercio e del pulimento. Nei settori indagati il contratto di solidarietà resta la soluzione teoricamente preferita dalle parti, in quanto economicamente vantaggioso per entrambi e, per le organizzazioni
sindacali, più solidaristico e maggiormente verificabile nella sua attuazione rispetto alla Cig.
Tuttavia, non risulta sempre possibile utilizzare il contratto di solidarietà, come nel caso delle imprese di piccole dimensioni o nelle situazioni in cui il calo di lavoro è così profondo da non poter essere gestito con una limitata riduzione di orario. In altri casi, sono le aziende stesse che non vedono positivamente il contratto di solidarietà in quanto, per quanto conveniente sotto il profilo economico, risulta dispendioso sul piano della gestione burocratica. In tutti questi casi, si ricorre quindi allo strumento della Cig in deroga, molto utilizzato negli ultimi anni. Nel settore del commercio, in Veneto, le ore di Cig in deroga autorizzate ammontano a 227.208 nel solo mese di gennaio 2014 (dati ricavati dall’Inps). Per motivi solidaristici, le organizzazioni sindacali cercano sempre di gestire a rotazione la Cig in deroga, ma neppure tale obiettivo è sempre raggiungibile poiché, nelle imprese del terziario in generale, convivono nei luoghi di lavoro figure professionali anche molto diverse tra loro, come ruolo e competenze, che possono avere una differente importanza relativa nei periodi di crisi economica, un fatto che implica una diversa modulazione tra loro nella riduzione d’orario, anche quando si riesce a far ricorso al contratto di solidarietà:
“Noi non siamo una fabbrica che produce. Nell’ambito del terziario ci sono professionalità diverse che devono avere una diversa modulazione nella riduzione d’orario. Però, mediamente, il contratto di solidarietà consente di spalmare in modo più equo le ore di riduzione, anche se non uguale per tutti, nemmeno nel contratto di solidarietà (Filcams Rovigo)”.
Tuttavia, numerosi funzionari sindacali hanno affermato di voler sempre meno ricorrere allo strumento della Cig in deroga, in quanto, oltre a comportare un’importante riduzione di reddito per lavoratrici e lavoratori che già non percepivano stipendi elevati, sta diventando sempre più insostenibile dal punto di vista economico. Ormai, infatti, i dipendenti devono attendere mediamente 8 mesi prima di ricevere le risorse, un periodo di tempo troppo lungo che mette in grossa difficoltà persone e famiglie. Inoltre, la Cig in deroga non permette un reale controllo delle attività aziendali, cioè di verificare se le imprese vi stanno facendo ricorso perché sono davvero in difficoltà oppure se lo utilizzano come forma impropria per risparmiare sul costo del lavoro. Per queste ragioni i funzionari sindacali si stanno ingegnando
per trovare soluzioni alternative, in termini di organizzazione del lavoro, che sappiano coniugare le esigenze dell’impresa e delle lavoratrici soprattutto, come il ricorso temporaneo al part-time per le persone interessate:
“Come prima cosa noi partiamo con il part-time. Diciamo: scusate, fermi tutti, qua c’è un problema, i lavoratori ci confermano un calo delle attività. Allora chiediamo se ci sono persone impiegate a tempo pieno che sono disponibili a lavorare part-time. E spesso trovi qualcuno che dice: io ho problemi a casa, per cui per 6 mesi o un anno il part-time mi andrebbe bene (Filcams Verona)”.
“La Cig in deroga l’abbiamo utilizzata tantissimo negli anni scorsi. Secondo me è stata usata in modo improprio. In Italia non c’è modo di verificare le cose, per cui se un’azienda diceva di essere in crisi e in realtà poi mandava lo stesso i dipendenti a lavorare, non c’era modo di verificarlo. Poi io di Cig in deroga adesso non ne faccio più perché sta diventando uno strumento troppo pesante per i lavoratori. I tempi di attesa per ricevere i soldi della Cig sono di 8 mesi circa, e queste persone, nel frattempo, come vivono? Quindi lì io punto sul contratto di solidarietà, altrimenti, se non si riesce, e non ho la Cigs, comincio a togliere, anche se per un anno, i superminimi. Oppure faccio ricorso al part-time, è questa la direzione verso cui stiamo andando (Filcams Padova)”.
Tuttavia, l’uso degli ammortizzatori sociali o di soluzioni alternative risulta essere sempre più difficile da usare. Se le imprese erano predisposte a farvi ricorso all’inizio della crisi per mantenere il capitale umano costruito negli anni in vista di una possibile ripresa ora, con il perdurare di difficoltà economiche che non sembrano terminare, guardano con diffidenza a tali strumenti, preferendo procedere ad una ristrutturazione.
In generale, risulta anche interessante capire qual è la valutazione che le parti sociali danno rispetto al sistema di ammortizzatori sociali progettato nel settore terziario dall’inizio della crisi. Dalle valutazioni espresse è emerso che il sistema di ammortizzatori sociali si è rivelato fondamentale per contenere gli effetti socio-economici negativi che si sarebbero prodotti con una chiusura immediata delle imprese. Tuttavia, secondo alcuni rappresentanti sindacali e datoriali, il
sistema, pur valutato positivamente, potrebbe essere migliorato eliminando in particolare il rischio che il sostegno al reddito si trasformi in una forma di assistenzialismo, con la conseguenza di non incentivare un comportamento pro-attivo di imprese, lavoratrici e e lavoratori e di pesare eccessivamente sui conti pubblici:
“Non credo che stiamo usando gli ammortizzatori nel miglior modo possibile per gestire la crisi. Io personalmente ti dico anche che è sbagliato e diseducativo dare i soldi alle persone per stare a casa a non far niente. Secondo me, tutti questi soldi che stiamo usando come Paese potremmo usarli per fare in modo che le persone si attivino: o in lavori socialmente utili oppure in altre aziende per imparare nuove attività, oppure attraverso percorsi formativi, stage o altro ancora. Ma una persona deve aver l’idea che deve fare qualcosa per avere in cambio qualcosa d’altro. Perché altrimenti si alimenta l’assistenzialismo (Filcams Verona)”.
“La Cig in deroga è molto pratica ma può avere anche il rischio che non venga utilizzata come ammortizzatore sociale, ma come facilitatore in un momento di crisi enorme. E su questo occorrerebbe fare riflessioni importanti, perché la Cig costa. Si dovrebbe ragionare per trovare coperture adeguate per la riduzione del costo del lavoro, lasciando l’ammortizzatore sociale alle situazioni di effettivo esubero di personale. Ormai, come gli altri settori, stiamo facendo Cig da 5-6 anni, più o meno sulla stessa platea di aziende, e questo è un dato. (Confcommercio Treviso)”.
“E’ vero, con gli ammortizzatori sociali il lavoratore, in alcuni casi, può rilassarsi, e anche l’azienda corre il rischio di attestarsi, accettando quella condizione. Ovvero può dire: ok, questo costo non ce l’ho più, e ha meno spinta ad investire. Il sistema di ammortizzatori sociali va ripensato, questo è fuori discussione (Confesercenti)”.
Sembra emergere, nel complesso, un approccio condiviso da parte sindacale e datoriale per rafforzare le politiche attive del lavoro, ancora deboli nel nostro paese nonostante le riforme fatte, legando ad esse gli ammortizzatori sociali che, seppur da modificare, vanno
mantenuti per sostenere il reddito delle lavoratrici e dei lavoratori e la vitalità delle imprese.
5.1.2 Orario di lavoro
L’orario di lavoro rappresenta probabilmente l’elemento più importante della contrattazione, tanto nel settore del commercio quanto del pulimento, seppur per motivi e con modalità di regolazione differenti, in quanto la sua organizzazione è necessariamente demandata alla contrattazione decentrata, e aziendale laddove fattibile (Sateriale, 1999). Si tratta di una questione antica nel settore del commercio (Pizzinato et al., 1985), ma che oggi assume forme e problemi diversi rispetto al passato, andando a costituire probabilmente il tratto più importante caratterizzante la Filcams. L’importanza della negoziazione sull’orario di lavoro è legata a due caratteristiche fondamentali, ovvero l’elevato livello di occupazione femminile e l’alta flessibilità richiesta nei due settori, un intreccio reso ancor più problematico dal periodo di recessione. Le difficoltà economiche, infatti, da un lato hanno spinto le imprese ad agire per una maggiore deregolazione dei rapporti di lavoro e, dall’altro, hanno reso più forte la necessità per le donne di rimanere nel mercato del lavoro, per sopperire alla riduzione di entrate famigliari legate alla perdita del posto di lavoro, temporanea o permanente, che ha interessato anche un numero crescente di maschi. Ciò rende complicata la situazione dell’occupazione femminile, già caratterizzata da elevata vulnerabilità (Xxxxxxx, 2013).
Nel settore del commercio, la liberalizzazione delle aperture domenicali ha comportato un aumento dell’intensità di lavoro attraverso un allungamento dell’orario. Infatti, non essendoci stato un numero significativo di nuove assunzioni da parte delle aziende che hanno deciso di aprire durante i giorni festivi e le festività, il peso dell’allungamento degli orari di lavoro si è scaricato sulle stesse persone occupate in precedenza. Le norme contrattuali non sono sufficienti per proteggere adeguatamente lavoratrici e lavoratori. In primo luogo, nonostante il contratto nazionale in vigore permetta in linea teorica ai dipendenti di rifiutare tali forme di flessibilità, in realtà l’affermazione di tale diritto è rara e possibile solo laddove vi sia una presenza sindacale sufficientemente forte e radicata. Inoltre, ai nuovi
assunti viene sottoposto un contratto di assunzione che prevede tale forma di impiego flessibile, con le persone costrette ad accettare viste le difficoltà nel trovare lavoro. Così, lavoratrici soprattutto e lavoratori si trovano a lavorare sempre il sabato e la domenica, ed hanno come giorno di riposo un giorno infra-settimanale che non consente loro di vivere adeguatamente il proprio tempo libero. Questa pervasività del lavoro è solo parzialmente attenuata dall’azione solidaristica che si è verificata in diversi luoghi di lavoro, dove i dipendenti part-time, oppure le persone già assunte prima delle aperture domenicali liberalizzate, si sono rese disponibili a dare il cambio alle lavoratrici impegnate di norma nei giorni festivi. Chiaramente, l’organizzazione delineata degli orari di lavoro priva i lavoratori della possibilità di poter utilizzare il proprio tempo libero o di riposo per costruirsi propri percorsi di crescita personale, culturale o professionale (Xxxxx e Potepan, 1988), e rende più precaria la vita famigliare. Ciò sia per la difficoltà di equilibrare tempi di cura e di lavoro, ma anche per il fatto che, concretamente, le persone in famiglia riescono ad incontrarsi, e quindi a parlare e discutere, sempre più raramente.
In questo senso, appare deludente la scarsa consapevolezza che i cittadini, in generale, sembrano manifestare nei confronti dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori occupati alla domenica. Ciò è dimostrato, innanzitutto, dal fatto che molte persone, oggi, vanno a fare la spesa o compere proprio nei giorni festivi, come testimoniato dai bilanci aziendali, segno che sempre più cittadini si stanno abituando a dedicare la propria domenica al consumo. Inoltre, durante le manifestazioni organizzate dal sindacato per protestare contro le aperture domenicali alcune persone dicevano loro che chi lavora di domenica dovrebbe essere contento, perché un lavoro almeno ce l’ha; un sentimento comprensibile, come riconosciuto dagli stessi dirigenti sindacali, da parte di chi ha perso il proprio posto di lavoro ma che, in generale, sembra indicare la diffusione di un certo individualismo.
Il problema dell’orario di lavoro è reso ancor più difficile dalla pressione che i capo reparto ricevono dai livelli superiori aziendali per incrementare la produttività del lavoro; una pressione cui i responsabili intermedi rispondono spesso in termini di suddivisione in più fasce (solitamente due, ma in alcuni casi anche tre) del turno di lavoro giornaliero. Ovvero, se un lavoratore deve fare un turno di 7 ore, per esempio, il responsabile del punto vendita può organizzare tale turno dividendolo in due parti, alla mattina e alla sera, negli orari in cui si registra un maggior afflusso di clientela. Ciò comporta, evidentemente, una peggior qualità della vita lavorativa, nonché un
maggior costo economico visti gli spostamenti che una persona deve effettuare nell’arco della giornata.
Altro tema è quello della banca delle ore, che alcune imprese sembrerebbero imporre a lavoratrici e lavoratori per incrementare l’orario di apertura tenendo nel contempo sotto controllo i costi quando, in realtà, sarebbero i dipendenti a doverla richiedere. Peraltro, far rispettare quanto contenuto nel CCNL risulta difficile, analogamente alla facoltà per il dipendente di rifiutarsi di prestarsi sempre al lavoro domenicale, poiché molte persone hanno paura di perdere il posto in questo periodo, e alcuni stessi contenuti previsti dal CCNL sono stati superati con l’avvento della liberalizzazione delle aperture domenicali. Può essere utile riportare, per comprendere la difficoltà della situazione, alcuni passaggi di interviste su questo punto:
“Spesso la cosa che sento dai lavoratori, soprattutto nei punti vendita più piccoli, è che le ore in più che vengono fatte dai lavoratori vengono accantonate in una banca delle ore, non richiesta dal lavoratore ma indotta dall’azienda. Invece, il contratto prevede il pagamento diretto delle ore di straordinario, a meno che non sia il dipendente a chiedere l’accantonamento. Quindi le imprese si stanno finanziando le aperture domenicali o l’allungamento dell’orario di apertura attraverso una sorta di finanziamento occulto da parte dei lavoratori. [...]. Quindi il tema degli orari sarebbe fondamentale, con l’inciso che, su questo punto, non si riesce a creare la profonda arrabbiatura dei lavoratori. [...]. L’altro giorno ho scoperto che in un supermercato qui in montagna fanno fare ai lavoratori uno spezzato di 1 ora e mezza al mattina, dalle 8 alle 9.30, e poi la chiusura dalle 17.00 alle 19.30. Ma un lavoratore deve farsi 00 xx xx xxxxxx xx xxxxxxxx per fare un’ora e mezza di lavoro al mattino e poi la sera? E il responsabile dice che è necessario, perché altrimenti non si riescono a fare gli orari perché mancano le persone (Xxxxxxx Xxxxxxx)”.
“La situazione sugli orari di lavoro è disastrosa. Qua c’è la discussione se è possibile fare meno di due ore per turno, questa è la modernità per alcune aziende. [..]. Ti fanno firmare la flessibilità, ovvero che possono cambiarti i turni quando vogliono, dandoti 10 euro al mese in più (Filcams Venezia)”.
Naturalmente, forme di flessibilità così spinte come quelle descritte sono particolarmente penalizzanti per le donne con figli. Tuttavia, va anche specificato che ci sono imprese, non solo nel mondo della cooperazione, dove si è riusciti a contrattare un’equa distribuzione dell’orario di lavoro che tenesse conto anche delle esigenze dei dipendenti.
Concentrandoci sull’occupazione femminile, di gran lunga maggioritaria nel commercio, va rilevato come il fatto di favorire il passaggio da tempo pieno a tempo parziale inizia a non rappresentare più gli interessi di alcune donne le quali, a causa della perdita di reddito da parte di mariti e compagni, si trovano costrette al full-time. Di conseguenza, il part-time ‘subito’ sta diventando il problema principale per l’attività sindacale di contrattazione aziendale. In tali situazioni rivestono ancora maggiore importanza altre formule di flessibilità, già rilevanti di per sé, volte a sostenere gli impegni famigliari e la combinazione di tempi di cura e di lavoro, come l’ingresso flessibile di un’ora, oppure la pausa ridotta con la conseguente possibilità di terminare prima la giornata lavorativa:
“Anche il discorso della flessibilità del lavoro, ovvero che una persona possa avere in entrata un’ora di flessibilità è una cosa importante, perché se deve portare il bambino all’asilo nido o fare altre cose può entrare alle 9.30 anziché alle 8.30. Quindi abbiamo difficoltà sul part-time, ma in alcuni casi siamo riusciti a mettere in campo altri strumenti. Per esempio facendo una pausa più corta di 30 minuti, così alle 16.00 possono uscire (Filcams Treviso 1)”.
Il part-time rappresenta comunque ancora uno strumento utile nelle attività di contrattazione per consentire alle donne di bilanciare tempo di cura e tempo di lavoro. Sotto questo profilo, il CCNL prevede l’obbligo da parte aziendale, fino ad un massimo del 3% della forza lavoro, di concedere il part-time post-maternità alle donne che lo richiedono fino al terzo anno di età del bambino. Quindi l’attività di contrattazione sindacale su questo tema si concentra, innanzitutto, nel far rispettare la norma contrattuale, un’azione non semplice. Nel contempo, laddove possibile, si cerca di allargare la regolazione in merito alla conciliazione tra lavoro e famiglia. In primo luogo, stabilendo percentuali di trasformazione da tempo pieno a parziale in percentuali maggiori rispetto a quanto pattuito nel CCNL. Per esempio, nell’azienda Xxxx, la percentuale di part-time è stata alzata
al 10%, nell’ambito della quale il 70% deve essere riservato a questioni legate alla cura dei figli. In Man, le parti hanno invece concordato che “l’azienda concederà a tutte le lavoratrici madri che ne faranno richiesta la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale fino al compimento del terzo anno di età del bambino. La lavoratrice rientrerà poi in azienda automaticamente a tempo pieno”. In Volkswagen troviamo un sistema diverso, incentrato sull’operare di una Commissione paritetica di Conciliazione Lavoro e Famiglia, nell’ambito della quale le parti cercano soluzioni condivise sul tema, e, sottolineano i dirigenti sindacali, tale modalità di analisi congiunta sta producendo risultati positivi.
Tuttavia, il problema maggiormente avvertito rispetto al part-time da parte dei dirigenti sindacali si riferisce alla sua modulazione. Ovvero, risulta inutile concedere un part-time ad una persona se poi l’orario di lavoro stabilito non risulta compatibile con i compiti di cura della lavoratrice, fatto che si verifica, ad esempio, quando il tempo parziale viene collocato nel pomeriggio, visto che gli impegni di assistenza dei figli sono di solito concentrati in tale fascia giornaliera. Si ritiene perciò che il nuovo CCNL debba occuparsi anche di quest’aspetto:
“Il problema è, quando io ti ho concesso il part-time, per amore o per forza [...], la modulazione degli orari. Io il part-time te lo chiedo non perché mi diverto a guadagnare di meno, ma perché ho delle necessità di gestire per esempio il figlio fino a 3 anni. A quel punto la grande discussione con l’azienda diventa: ok, mi dai il part-time, ma il part-time deve avere una modulazione oraria che sia utile anche per me, altrimenti...Quindi la discussione è come coniugare questo con l’azienda che ti dice: sì, il part-time te lo concedo perché magari anche devo, ma devi venire tutti i pomeriggi. Allora io cosa me ne faccio? Io al mattino il bambino lo mando al nido, mi serve essere a casa nel pomeriggio. Tant’é che nella piattaforma per il nuovo CCNL abbiamo inserito come richiesta propria questa (Xxxxxxx Xxxxxx)”.
Sotto questo profilo, l’esperienza di Rovigo dimostra l’utilità, per quanto non risolutiva, dell’esistenza di una Commissione provinciale di conciliazione per le pari opportunità, dove si è riusciti a dirimere alcuni problemi con le aziende. Infatti, le imprese, quando discutono con le istituzioni pubbliche, possono risultare più accomodanti, sia per
il livello istituzionale della discussione, sia per mantenere una buona reputazione nel territorio.
Nel settore del pulimento, il problema più importante rispetto all’orario di lavoro è l’eccessiva riduzione nel numero delle ore di lavoro legata alla riduzione delle capacità di spesa delle pubbliche amministrazioni, che diventa una pesante forma di precarietà. Infatti, in questo settore le lavoratrici sono spesso impiegate, pur se a tempo indeterminato, a circa 20 ore alla settimana se non meno, e quindi già percepiscono un salario basso. Come detto, i meccanismi della spending review stanno provocando l’assegnazione degli appalti a costi inferiori rispetto ai precedenti, il che implica anche una diminuzione delle ore di lavoro. Quindi, nel momento in cui si procede al cambio di appalto, l’azione sindacale, e le relative competenze specifiche, è fondamentale per evitare che la riduzione nel numero delle ore diventi eccessiva e che le imprese ne approfittino. Le persone hanno paura in questo periodo di crisi economica e occupazionale, hanno rilevato alcuni segretari, per cui accettano di tutto, anche in termini di riduzione e organizzazione dell’orario. Non mancano, per la verità, azioni di protesta che arrivano fino allo sciopero, come nel caso dell’aeroporto di Verona dove le donne delle pulizie non venivano retribuite:
“Il lavoratore oggi è debole. Con la paura e l’incertezza del futuro non reagisce più alle situazioni come poteva reagire semplicemente 5 anni fa. Quindi questa paura del futuro e la mancanza di prospettive effettive ti fanno tenere qualsiasi cosa, bella o brutta che sia. La cosa è particolarmente evidente nei comparti più poveri, come il pulimento, dove c’è il cambio di appalto, dove c’è di tutto e di più, e dove vengono a volte applicati contratti firmati da altri sindacati al massimo ribasso (Filcams Treviso 2)”.
“L’effetto della spending review si è scaricato sul basso. Alla fine, l’amministrazione pubblica riduce il costo, e così fa l’appaltatore, che chiede alle donne di fare gli stessi metri quadrati di pulizia di prima con meno ore. La spending rewiew l’abbiamo vissuta male perché è stato il meccanismo con cui si sono nascoste queste operazioni di taglio. Le aziende ti dicono: c’è la spending review, dobbiamo diminuire l’orario a tutti. Come? Mettiamoci a tavolino, capiamo cosa vuol dire (Filcams Belluno)”.
Commercio e pulimento, pur nella diversità di problemi, risultano avere due aspetti in comune. In primo luogo, una buona regolazione è possibile laddove sono presenti tante lavoratrici e lavoratori con una buona parte di essi iscritti al sindacato. Per esempio, per quanto concerne il pulimento, quando la contrattazione si svolge con ospedali e case di riposo i risultati sono soddisfacenti, come dimostrato dal fatto che, in aziende come Cooperative Solidarietà, Maskas o Copma, i contratti integrativi riguardano, tra gli altri temi, la flessibilità per le madri lavoratrici, la gestione delle ferie e il premio di risultato, e gli aspetti di riduzione dell’orario sono più contenuti e spesso risolti in modo congiunto tra le parti. La stessa cosa dicasi per le grandi catene distributive con solida presenza sindacale.
In secondo luogo, tutti i dirigenti intervistati hanno rilevato la necessità che la negoziazione degli orari e, più in generale, dell’organizzazione del lavoro venga discussa e, almeno su alcuni punti, contrattata, a livello decentrato, in ambito territoriale e/o aziendale, pur con il supporto di norme contrattuali nazionali. E’ infatti a livello decentrato che si può comprendere meglio come coniugare esigenze aziendali e caratteristiche della prestazione di lavoro.
Oltre agli strumenti di carattere negoziale, alcuni soggetti intervistati hanno fatto riferimento ad altri interventi che potrebbero aiutare la realizzazione di una miglior combinazione tra tempi di vita e di lavoro. In particolare, dal lato sindacale, in alcuni casi, si chiede l’approvazione di leggi che regolamentino l’orario su diversi aspetti e non solo relativamente alle 11 ore che devono trascorrere tra vari turni di lavoro. L’intervento legislativo è cruciale, poiché le norme contrattuali sono più deboli, sia perché le sanzioni previste sono ridotte in caso di mancata ottemperanza, sia perché possono essere disattese se una delle parti decide di disdettare il contratto firmato. Dal lato datoriale, invece, si ritiene (ed è un’affermazione condivisa, per alcuni punti, da parte sindacale) che per aiutare lavoratrici e lavoratori a coniugare compiti di lavoro e di cura non sia sufficiente la negoziazione tra le parti, in quanto l’intervento delle istituzioni pubbliche è fondamentale. In primo luogo, per rendere meno costoso il part-time, poiché, al momento, due lavoratori a tempo parziale costano più di uno full-time. Considerato che il lavoro a tempo parziale comporta già un inevitabile onere organizzativo per il datore di lavoro, si è rilevato, renderlo appetibile sotto il profilo economico rappresenterebbe un incentivo in più per le imprese. In secondo luogo, i funzionari hanno evidenziato come il supporto dei compiti di cura
delle lavoratrici debba essere inserito nel contesto di politiche sociali e territoriali che mettano a disposizione dei cittadini servizi e strutture flessibili in grado di aiutare le persone nella cura dei bambini o nell’assistenza di genitori anziani.
5.1.3 Formazione continua
La formazione continua, nel settore terziario in generale, è sempre stato giudicato un aspetto centrale delle relazioni di lavoro. Dal lato delle imprese, le attività di formazione troverebbero necessità nel valorizzare il contributo di dipendenti che rappresentano in prima persona l’azienda nel loro operare quotidiano, essendo costantemente a contatto con i clienti. In questo modo, lavoratrici e lavoratori, da parte loro, sentirebbero anche di essere gratificati dall’impresa, in linea con le proprie aspettative occupazionali diverse dalle attività tipicamente manuali, e offrirebbero una prestazione più collaborativa.
Queste riflessioni teoriche non sembrano però trovare corrispondenza nella realtà analizzata, in quanto tutti i soggetti intervistati hanno evidenziato come la formazione continua sia poco praticata, e ciò indipendentemente dalla crisi, in quanto la tendenza era la medesima anche nei periodi di crescita economica. Ciò conferma quanto registrato in ambito nazionale (D’Xxxxx, 2008). In sostanza, le politiche formative messe in atto dalle imprese riguardano la tutela della salute e sicurezza dei dipendenti, e quindi quanto stabilito obbligatoriamente da leggi e contratti collettivi, argomenti rispetto ai quali gli Enti Bilaterali svolgono una funzione di supporto importante. Si tratta di azioni formative che sono fondamentali in alcuni ambiti, pensiamo solo all’uso corretto dei prodotti da parte delle donne delle pulizie.
Qualche ulteriore attività formativa rispetto ai temi della salute e sicurezza viene svolta dalle aziende più illuminate del commercio su aspetti specifici, come ad esempio corsi legati alla vendita alla Metro, ma nulla di organico, fatti salvi un paio di casi di successo che verranno descritti successivamente in modo dettagliato. In generale, nei contratti pervenuti, la voce Formazione è contenuta, per quanto concerne le attività non strettamente connesse alla formazione obbligatoria sulla salute e sicurezza dei lavoratori, solo in alcuni di
essi, come Moda Center, Volkswagen, VF Italy, Società Xxxx Cooperativa, Man, Siderurgica Gabrielli (in via più limitata).
Ma le attività di formazione, è stato chiesto alle persone intervistate, sarebbero davvero utili per migliorare la qualità del lavoro e la produttività aziendale? La risposta, per quanto concerne il settore del commercio, è stata unanime, sia da parte sindacale che datoriale, in favore dell’importanza delle attività formative rispetto a diversi compiti, come la sistemazione della merce, l’uso delle lingue, l’accoglienza del cliente, ecc., tutti aspetti rilevanti per la modernizzazione del settore. Ma di fatto, è stato osservato, non vi è una vera cultura della formazione, innanzitutto da parte delle imprese, le quali tendono a considerare tali attività esclusivamente come un costo. Un costo, peraltro, relativo al fatto di non avere a disposizione lavoratrici e lavoratori quel giorno, visto che il finanziamento dei corsi è già solitamente coperto dai vari fondi esistenti, bilaterali e non (cui comunque contribuiscono collettivamente sia imprese che dipendenti). Così, la formazione si manifesta semplicemente nel dire a lavoratrici e lavoratori come si devono comportare nei confronti della clientela, senza far acquisire loro delle competenze relazionali, di vendita e marketing più strutturate e formalizzate:
“Non c’è spirito illuminato verso la formazione, costa troppo, perché io ho l’organico tarato al millesimo e devo levare 20-30 persone alla volta, altrimenti ci metto 8 mesi a fare il corso. Quindi chi li sostituisce se ho l’organico taratissimo? (Filcams Venezia)”.
“La formazione continua diventerà sempre più necessaria in futuro, occorre convincere le imprese e i lavoratori dei vantaggi che la formazione porta. Anche in questo caso si tratta di un cambiamento culturale del tipo: entro due anni da quando sei entrato in azienda, l’impresa dovrebbe dire, devi cambiare mansione, in termini di lingua o altro. Se non c’è questa convinzione diventa difficile che un’azienda mandi i lavoratori in formazione (Confcommercio Treviso)”.
“La mancanza di attività di formazione continua è legata ad un aspetto culturale, ovvero le piccole imprese vedono la formazione come un costo e una perdita di tempo, questo è il problema. Il costo è relativo alla perdita di personale, perché le imprese già sono in sofferenza quando devono mandare i
dipendenti per la formazione obbligatoria, figuriamoci per quella che non lo è. Qui il gap da coprire è grande. Le possibilità di fare formazione senza pagare oggi ci sono, noi facciamo fatica a riempire i nostri corsi finanziati. E di formazione c’è grande bisogno, pensiamo solo all’accoglienza (Confesercenti)”.
In ogni caso, è emerso come anche lavoratrici, lavoratori e sindacato dovrebbero considerare maggiormente strategiche le attività di formazione. Per i primi, ciò vale soprattutto in termini di occupabilità, un aspetto cui le persone devono prestare sempre più attenzione, per l’incertezza che inevitabilmente grava sul proprio posto di lavoro e per l’allungamento dell’età lavorativa combinato alla rapida obsolescenza delle qualifiche professionali acquisite in precedenza. Le stesse organizzazioni sindacali, Cgil inclusa, potrebbero fare di più, per esempio permettendo che negli accordi una parte della formazione sia a carico di lavoratrici e lavoratori.
Nel pulimento, invece, la situazione risulta differente. Le attività formative relative all’uso dei prodotti sono fondamentali sia per la salute e sicurezza dei dipendenti, che devono conoscere le eventuali sostanze nocive in essi contenute, sia per la qualità del lavoro, poiché è necessario utilizzarli correttamente nei diversi ambienti da sanificare, basti pensare alle sale operatorie degli ospedali. Ma, al di là di questo, i corsi di formazione non sembrano configurarsi come un aspetto importante di contrattazione. Infatti, diversi segretari intervistati hanno sottolineato come nel settore le lavoratrici si trovino in una condizione di sofferenza sociale, legata ai salari ridotti e all’incertezza occupazionale aggravata dalle conseguenze della spending review, per cui l’azione sindacale e gli interessi delle persone si concentrano sul mantenimento dell’occupazione e dello stipendio.
Per concludere, si ritiene utile illustrare due esperienze di valore rispetto all’organizzazione delle attività formative (e non solo, ovviamente) che, per quanto non unici, costituiscono delle best practice potenzialmente da estendere in altre aziende.
Il primo caso è rappresentato dall’azienda Moda Center Spa, impegnata nel commercio al dettaglio di abbigliamento uomo, donna e bambino e di articoli sportivi (divisione primaria) e nel commercio di arredo e mobili per la casa, nonché nella progettazione ed installazione nel settore del design di ambienti (divisione secondaria). L’impresa ha registrato un forte calo dei ricavi soprattutto a partire dal 2011, trovandosi così costretta a procedere ad una ristrutturazione che
prevedeva 15 esuberi. Tuttavia, le parti sono riuscite a trovare una soluzione che mantiene l’occupazione per i 63 dipendenti. Infatti, 55 di questi verranno collocati in Cigs per 24 mesi, durante i quali continueranno a lavorare in azienda ad orario ridotto, seguendo corsi di formazione teorici e pratici, volti ad accrescere il capitale umano aziendale soprattutto nel settore arredo e dell’aggiornamento tecnologico. Le attività formative saranno inoltre accompagnate dal potenziamento del marketing dei prodotti. In questo caso, la formazione è stata progettata in termini di vera e propria politica attiva del lavoro, utile a conservare l’occupazione (le persone lavorano) migliorando nel contempo la professionalità di lavoratrici e lavoratori. Con effetti utili sia ai dipendenti, che aumentano le proprie competenze e quindi la propria occupabilità, sia all’azienda la quale potrà beneficiare di un personale più preparato e in grado di meglio contribuire al rilancio dell’impresa.
Altro caso è quello della Volkswagen, dove, nell’ambito di un sistema di relazioni industriali partecipativo, è previsto, dal contratto integrativo, il coinvolgimento continuo delle Rsu nei lavori del Gruppo di Lavoro Formazione, attivo dal 2004. In particolare, il contratto stabilisce l’impegno aziendale a concedere permessi retribuiti ai lavoratori affinché frequentino, durante l’orario di lavoro, corsi di formazione proposti dall’Ente Bilaterale e riguardanti le lingue straniere e l’informatica. Il confronto continuo tra le parti comporta l’allargamento degli interventi formativi qualora se ne ravvisi in modo condiviso la necessità, contribuendo così a creare un sistema aziendale aperto di formazione continua.
5.1.4 Contratti atipici
E’ difficile stimare quanto siano diffusi i contratti di lavoro non standard nei settori del commercio e del pulimento. In quest’ultimo, peraltro, i lavoratori sono solitamente assunti con contratto a tempo indeterminato, ma rimangono precari poiché la loro occupazione è di poche ore giornaliere, e la durata del rapporto di lavoro dipende dall’appalto. Nell’ambito del commercio, le percezioni dei funzionari sindacali sono differenti.
Da un lato, ci sono coloro che ritengono i contratti atipici poco diffusi, per motivi legati alla loro onerosità contributiva in rapporto ad
un fatturato in costante diminuzione, e a motivi di funzionamento dei punti di vendita. Sotto quest’ultimo profilo, è stato citato, ad esempio, il contratto integrativo (nazionale) di una catena di supermercati, nel quale si è stabilito che, alle casse, i lavoratori atipici non possono rappresentare più di 1/3 del totale. Infatti, poiché i barcode degli articoli non sono sempre leggibili, gli operatori devono essere in grado di sopperire a tali lacune avendo dimestichezza diretta con i codici (che sono centinaia, se non migliaia) pena il fatto di bloccare le casse, una conoscenza che richiede tempo e perciò un’occupazione di lungo termine.
Dall’altro lato, alcuni segretari hanno invece evidenziato come i contratti atipici siano numerosi e, vista la debole presenza sindacale nei luoghi di lavoro, le organizzazioni dei lavoratori non siano in grado di avere un’idea precisa del fenomeno. Essi lamentano il mancato rispetto da parte di alcune aziende delle norme legati ai contratti atipici, con supermercati che assumono i lavoratori tramite voucher oppure con il contratto di associato in partecipazione. Quest’ultima tipologia, per quanto recentemente regolata in senso più restrittivo, risulta ancora talvolta presente, secondo alcuni rappresentanti, in qualche negozio dei centri commerciali. Queste normative vengono evase anche perché i controlli sono limitati, visto il sotto-dimensionamento degli Enti preposti alla vigilanza. A ciò si aggiunge la paura che le stesse persone assunte con contratto atipico hanno di esercitare i propri diritti. Per esempio, pur essendo un diritto del lavoratore affermare il diritto di precedenza in caso di assunzioni a tempo indeterminato o di nuove assunzioni a tempo determinato nell’azienda presso cui ha già lavorato, in realtà sono pochi i dipendenti che decidono di far valere tale diritto, proprio per timore di non essere poi riconfermati dall’azienda.
La regolazione dei contratti atipici, per esempio attraverso la definizione di soglie percentuali per il loro utilizzo rispetto al totale della popolazione aziendale, oppure attraverso percorsi certi di stabilizzazione, compare in pochi contratti, cooperative a parte. Sicuramente, i controlli limitati da parte delle istituzioni preposte, la ridotta presenza sindacale nei luoghi di lavoro e la paura di lavoratrici e lavoratori atipici giocano un ruolo importante al riguardo, ma ci sono altri elementi da prendere in considerazione. Innanzitutto, sono le stesse aziende a non voler talvolta concedere la propria disponibilità alla contrattazione su questi temi, preferendo gestire tale situazione direttamente con i singoli dipendenti. Una scelta difficilmente contrastabile da parte di organizzazioni sindacali che, come rilevato,
sono piuttosto deboli nelle imprese, e la cui forza su questo tema non è supportato dai dipendenti a tempo indeterminato, che spesso tengono una posizione di solidarietà verso i colleghi atipici solo in teoria. Ma il problema maggiore sembra risiedere nella difficoltà che le organizzazioni sindacali incontrano nell’intercettare queste/i lavoratrici/lavoratori, in realtà per i motivi già delineati (rappresentanza debole, timore di esporsi), cosicché i rappresentanti sindacali finiscono per conoscere queste persone solo quando, a contratto scaduto, alcuni di essi, individualmente, si recano nelle sedi sindacali per verificare se il datore di lavoro ha rispettato le norme contrattuali:
“Il grande tema per il sindacato è: come intercettiamo i lavoratori atipici? Perché anche chi volesse contattare il sindacato, fra loro, è più titubante a farlo, quindi ti capita di vederli a contratto finito, oppure quando gli anticipano che non gli rinnoveranno il contratto oppure quando proprio li sfruttano. Altrimenti fai fatica ad intercettarli. Quindi hai il problema del rapporto con le aziende per definire le percentuali e così via, ma ti resta il problema del rapporto con i lavoratori stessi (Filcams Rovigo)”.
In una situazione di questo tipo non è affatto semplice, per le parti sociali, riuscire a trovare un modo per regolare meglio il mercato del lavoro. I dirigenti sindacali e datoriali intervistati, peraltro, ritengono che la regolazione spetti al livello nazionale, mentre ai sottostanti livelli, territoriali o aziendali a seconda della dimensione delle imprese considerate, spettano interventi integrativi o la possibilità di attivare sperimentazioni, approcci già praticati in passato con qualche successo nella regione Veneto. Ma sotto questo profilo, sul piano territoriale, i rappresentanti delle piccole imprese, che sarebbero interessati a sviluppare una negoziazione integrativa del mercato del lavoro, lamentano la mancanza di una reale volontà di contrattare il mercato del lavoro, un comportamento alimentato da reciproche diffidenze. In realtà, i rappresentanti delle associazioni datoriali hanno evidenziato come sia convenienza di tutti gli attori in gioco chiarire quando le imprese possono utilizzare certe forme contrattuali non standard e con quali vincoli, una regolazione che contribuirebbe ad educare i giovani alla legalità, evitando così che le imprese finiscano per utilizzare in modo improprio gli strumenti previsti. Questa non è un’operazione impossibile ma certamente faticosa da raggiungere
visto che, per esempio, la contrattazione integrativa sul contratto di lavoro a chiamata stipulato alcuni anni fa nella Provincia di Treviso non è stato firmato dalla Cgil.
5.1.4 Organizzazione e criteri del premio di risultato
Il premio di risultato è, assieme all’orario di lavoro, la materia che compare più frequentemente nei contratti territoriali e aziendali analizzati, sia per la sua istituzionalizzazione nel sistema di relazioni industriali a partire dal Protocollo del 1993 sia per la pressione di lavoratrici e lavoratori ad integrare la propria busta paga. Chiaramente, pur avendo la crisi economica portato alla disdetta, al ridimensionamento o alla revisione di parecchi premi di risultato, esso rimane comunque uno strumento importante di vitalità contrattuale e di partecipazione.
Dal punto di vista della loro struttura, i premi di risultati possono essere output- o input-oriented (Xxxxx, 2008). Nel primo caso i criteri alla base del bonus aziendale sono di tipo finanziario o, anche qualora inerenti alla qualità della prestazione, suddivisi in modo eguale tra i lavoratori con riferimento ad obiettivi collettivi. Nei premi di risultato di tipo input-oriented, invece, i criteri fanno riferimento a comportamenti organizzativi e risultati suddivisi per squadre di lavoro, in modo tale che ciascun lavoratore sia stimolato a fare meglio e possa incidere sulla performance della squadra cui appartiene. Solo in questo secondo caso, dimostrano le ricerche empiriche, si può effettivamente raggiungere un incremento significativo della produttività (Cappelli e Neumark, 2001).
A differenza di quanto riscontrato in ambito industriale (Signoretti, 2013), e più in generale a livello nazionale e inter-settoriale (Banca D’Italia, 2008), la lettura dei contratti e le interviste con i segretari evidenziano una prevalenza di bonus input-oriented. Ciò in base della convinzione sindacale, in linea con lo spirito che dovrebbe animare lo strumento, che per premiare davvero l’impegno e il valore aggiunto portato da lavoratrici e lavoratori sia necessario che una parte del premio sia differenziata tra reparti:
“Differenziare il premio di risultato è più serio perché comporta la creazione di premi che possono essere meglio misurati, controllati, corretti, e per misurare esigenze molte chiare. Io credo che efficienza e migliori condizioni di lavoro possono andare assieme, e quel punto tu fai davvero un premio
che permette ai lavoratori di contribuire alle decisioni, di lavorare con qualità e anche con una certa gratificazione (Filcams Verona)”.
Inoltre, i funzionari sindacali hanno sottolineato come la differenziazione dei premi non comporti invidie o rivalità tra i lavoratori: nel momento in cui i criteri sono chiari, trasparenti e verificabili, i processi funzionano bene.
Interessante notare come, nel settore del pulimento, i contratti riguardanti il premio di risultato abbiano una struttura pressoché identica, in realtà non ricercata, come emerso dalle interviste, ma generata dai meccanismi di confronto e imitazione tra le diverse sigle e sedi sindacali. Tale premio è solitamente composto da tre criteri:
- l’obiettivo assiduità al lavoro, con il quale si vogliono premiare le persone che registrano un minor numero di assenze, con l’esclusione di alcuni istituti, che pur variando tra aziende, solitamente comprendono le ferie, l’infortunio, i permessi sindacali, il periodo di assenza anticipata/obbligatoria di maternità (cinque mesi), solo per citarne alcuni;
- l’obiettivo di qualità. In questo caso, il/la capo servizio compila ogni mese la scheda di controllo qualità, con la quale verifica la qualità del lavoro prestato dall’operatrice, rendendo noto a quest’ultima il risultato della valutazione. L’operatrice, a sua volta, può non condividere e quindi non firmare la scheda, fatto che implica il coinvolgimento delle parti sociali, comunque verificatosi molto raramente;
- l’obiettivo produttività. Con esso si stabilisce che, qualora l’operatrice riesca a svolgere il servizio affidatole in minor tempo e rispettando i canoni di qualità, potrà usufruire dei permessi per le festività abolite e per la riduzione dell’orario di lavoro.
Il sistema descritto si è rilevato utile per incrementare la produttività, ma viene considerato anche uno strumento importante per dare maggiore dignità a questa tipologia di lavoro, obiettivo cui le organizzazioni sindacali, giustamente, prestano particolare attenzione:
“ Quello che spieghiamo alle aziende è che nel pulimento le persone fanno un lavoro che non è probabilmente il massimo per la loro vita, e dobbiamo creare strumenti, come il premio di risultato, che le consideri. Perché non credere, all’interno c’è sempre qualcuno
che le guarda un pò così, invece si tratta di un lavoro nobile e dignitoso. Noi dobbiamo dare loro dignità (Filcams Treviso 1)”.
Dal punto di vista delle aziende, secondo i dirigenti sindacali, e il riferimento è ad imprese almeno di medie dimensioni, non c’è a volte la volontà di definire un premio di risultato differenziato, per diversi motivi. Innanzitutto, ci può essere l’obiettivo aziendale di conservare una certa discrezionalità nell’erogazione dei premi, un potere che viene minato nel momento in cui si definiscono criteri misurabili e verificabili. Inoltre, ma non meno importante, sembra mancare una cultura aziendale che consideri il premio di risultato come un’occasione per verificare la qualità e la produttività del lavoro, per far diventare questo strumento una leva strategica della competitività aziendale. Non a caso, diversi sindacalisti hanno riportato come la direzione aziendale indichi spesso la sola presenza come criterio di differenziazione del premio di risultato, nella convinzione che, se le persone sono presenti al lavoro, l’azienda sia in grado di farli lavorare e di stimolare il loro impegno. La presenza è certamente un criterio delicato per le organizzazioni sindacali; non solo perché ci possono essere iscritti che un pò se ne approfittano in termini di assenze, quanto per la necessità di definire cosa va considerato assenza e cosa no, un’operazione che risulta sempre difficile quando si va nel concreto.
Un pò tutti i soggetti intervistati, invece, hanno manifestato un certo scetticismo verso la possibile istituzione di un premio di risultato territoriale per le piccole imprese nel settore del commercio (e la stessa cosa dicasi per il settore del pulimento), poiché le singole realtà aziendali possono avere andamenti anche molto diversi tra loro pur in presenza di trend economici comuni. Di conseguenza, si potrebbero eventualmente definire dei criteri validi per tutti a livello territoriale, ma i cui obiettivi dovrebbero essere poi declinati dalle singole aziende.
5.1.5 Sistemi aziendali di partecipazione diretta e indiretta
Le forme di partecipazione diretta dei lavoratori sono sempre state considerate utili per migliorare la competitività aziendale e per favorire l’autostima e la soddisfazione del sentimento di equità dei
lavoratori, desiderosi di poter avanzare proposte di miglioramento per lo svolgimento delle attività loro assegnate (Xxxxx e Xxxxxxxx, 1976). Tuttavia, in Italia, le analisi empiriche testimoniano chiaramente come sistemi organici e duraturi di coinvolgimento dei dipendenti siano piuttosto rari (Xxxxx e Xxxxxxxxx, 2009); una realtà che sembra confermata dalle interviste fatte ai segretari Xxxxxxx. Essi evidenziano come, nell’ambito della grande distribuzione, non si registrino forme durature di dialogo partecipativo tra capo reparto e lavoratrici/lavoratori, mentre prevale la tendenza dei responsabili ad impartire istruzioni in termini di comportamento organizzativo che il dipendente è tenuto a seguire, peraltro spesso orientati in termini più quantitativi che qualitativi. In ogni caso, alcuni sindacalisti hanno specificato che la collaborazione all’interno dei luoghi di lavoro è correlata all’approccio seguito dal responsabile aziendale, come del resto evidenziato in altre ricerche (Batt, 1994), più che alla qualità delle relazioni sindacali. Quest’ultime influenzerebbero il grado di coinvolgimento delle Rsa, ma non il livello di partecipazione diretto di lavoratrici e lavoratori, una tendenza che sarebbe interessante approfondire in future ricerche empiriche. Dal lato dei piccoli negozi, i sindacalisti mettono parimenti in evidenza la mancanza di un forte coinvolgimento dei dipendenti, anche se, in realtà, come riconosciuto dai dirigenti sindacali stessi, la loro attività li porta ad entrare in contatto con i casi più problematici, per cui si tratta di percezioni non rappresentative dell’intera realtà, ma di uno specifico segmento.
Al contrario, alcuni funzionari sindacali hanno notato come all’interno dei luoghi di lavoro si stiano in realtà diffondendo, a causa delle sempre maggiori pressioni portate dalla crisi economica, comportamenti sempre meno rispettosi delle persone. E’ una tendenza che sembra riguardare i capo reparto ma anche i dipendenti, per cui si auspica un maggior controllo aziendale in merito, anche attraverso corsi di formazione sulle modalità di comunicazione.
La partecipazione diretta può essere complementare o alternativa al coinvolgimento della rappresentanza sindacale. Su quest’ultimo punto è emerso che in alcune realtà aziendali, come ad esempio nelle imprese cooperative, la rappresentanza sindacale è radicata e la direzione è abituata al confronto e al coinvolgimento dei delegati sindacali nella risoluzione dei problemi. Tuttavia, forme partecipative vere e proprie non sono state riscontrate, ad eccezione del caso della Volkswagen, al quale dedicherò un approfondimento specifico.
I motivi di questa mancanza di partecipazione, comune al panorama di relazioni industriali italiano, sono stati descritti in
precedenza e fanno riferimento ad una cultura territoriale non predisposta all’accoglimento in azienda del sindacato ‘rosso’, in quanto considerato propenso a minare il potere datoriale, e ad una gestione paternalistica e diretta dei rapporti di lavoro:
“Per me cogestione vuol dire anche fare assieme il budget per l’anno prossimo individuando tutte le attività. Invece no, qua il budget viene fatto dall’azienda. E’ un modello tedesco che nessun imprenditore vuole adottare (Filcams Vicenza)”.
A ciò va aggiunto un comportamento sindacale che, pur se ideologicamente schierato contro l’organizzazione capitalistica a livello centrale, dove si paventava il passaggio al socialismo, ha nei fatti spesso assunto un approccio di accompagnamento più che di riforma delle esigenze aziendali nel territorio, visto il successo economico che stavano raggiungendo (Soli, 2011). Ne deriva una debole cultura collaborativa per entrambe le parti sociali, ulteriormente stressata dalla perdurante crisi economica.
Ci sono comunque diversità importanti tra le varie aziende, con le imprese cooperative che, come rilevato, sono più propense a concordare con il sindacato le condizioni di lavoro in virtù di un rapporto storico di collaborazione. In alcuni casi, ci sono anche delle commissioni paritetiche su temi specifici, ma non sembrano essere dotate, per quanto meritorie e non meramente formali, di poteri operativi consistenti, né abbracciano un insieme organico di materie. Per quanto concerne la grande distribuzione organizzata, alcuni rappresentanti sindacali hanno raccontato l’esistenza di rapporti sostanzialmente burocratici in diverse realtà, costituiti dal passaggio di carte con la sede centrale più che da un dialogo volto alla risoluzione dei problemi. Ciò poiché i manager periodicamente cambiano all’interno di queste imprese, impedendo così l’instaurarsi di relazioni fiduciarie e informali in grado di risolvere velocemente perlomeno le questioni meno gravi. In sostanza, in diverse realtà aziendali, sembra che il proprio ruolo contrattuale il sindacato se lo debba conquistare radicandosi e dotandosi di una propria strategia, e quindi ricorrendo ai tradizionali rapporti di forza:
“Non c’è partecipazione, il ruolo il sindacato lo ottiene con i rapporti di forza. So che tu sei in grado di bloccare il negozio, allora io mi confronto con te, ma perché so che tu sei in grado di bloccarmi il negozio (Filcams Venezia)”.
Il caso Volkswagen rappresenta, nel contesto descritto, una situazione particolare che appare però importante illustrare, sia negli aspetti contrattuali che nelle sue pratiche conseguenze.
Sotto il profilo contrattuale, il contratto integrativo aziendale è costituito da due accordi di partecipazione per gli anni 2011-2013. Il primo è la cosiddetta Charta dei rapporti di lavoro per le società e gli stabilimenti del Gruppo in Italia, che rappresenta un ampliamento degli accordi di cooperazione fra la direzione del Gruppo e il suo Consiglio di Fabbrica Europeo (CAE) e Mondiale, così come delle dichiarazioni sui diritti sociali e sui rapporti industriali alla Volkswagen e sulla politica di salvaguardia del lavoro nel Gruppo. Concretamente, la Charta declina nel contesto istituzionale italiano quei rapporti collaborativi che l’azienda intende perseguire nei confronti di organizzazioni sindacali e lavoratori in tutti i Paesi in cui opera. Il cuore di questo contratto è rappresentato dall’attribuzione al sindacato dei diritti di partecipazione, ovvero di informazione, consultazione e cogestione in merito a otto diverse aree tematiche (dalle regole riguardanti il personale fino alla sostenibilità sociale ed ecologica dell’attività d’impresa).
Con l’espressione diritto di cogestione, basato sulla cooperazione e partecipazione, chiarisce il contratto, si fa riferimento al “diritto di contrattazione e di iniziativa della Rsu per permettere a quest’ultima di partecipare attivamente alle decisioni condivise, fermo restando il diritto di obbiezione e il diritto di iniziative sindacali relativamente ai casi trattati”. Ciò significa che la partecipazione non implica l’obbligo di accettazione delle proposte datoriale da parte dell’attore sindacale, che conserva la sua autonomia. L’applicazione di un provvedimento presuppone il consenso in merito”. Il diritto di cogestione implica quindi l’attiva partecipazione e il consenso necessario delle organizzazioni sindacali alle decisioni che vengono prese, e, nel caso specifico, tale diritto viene conferito ai delegati sindacali in diversi importanti ambiti della governance aziendale: pari opportunità, conciliazione lavoro e famiglia, tutela e assistenza del personale, uscita del personale, organizzazione del lavoro (esternalizzazioni, management delle idee, processi di miglioramento continuo, gruppi di lavoro), sistemi di valutazione delle prestazioni e di definizione degli obbiettivi, prestazioni sociali, assicurative, previdenziali, ecc., sondaggi fra i dipendenti (analisi del clima aziendale, stress lavoro- correlato, ecc.), tutela del lavoro e della salute e prevenzione degli
infortuni, impiego di personale lavorativo in età avanzata o con capacità prestazionali ridotte.
Il secondo accordo consiste nell’applicazione concreta dei principi enunciati nella Charta. E’ particolarmente rilevante soffermarsi sulle Commissioni paritetiche, lo strumento applicativo dei principi di partecipazione sindacale nel contesto istituzionale italiano, per verificare di quali argomenti si occupa. Nonostante la partecipazione sindacale possa realizzarsi anche in altre forme, l’esistenza delle Commissioni implica, perlomeno a livello teorico, un confronto costante tra le parti sociali. Innanzitutto, c’è il Laboratorio di Relazioni Sindacali, il cui obiettivo consiste nell’ideazione, realizzazione e valutazione di proposte innovative e di sperimentazioni nell’ambito dei rapporti di lavoro, e, in generale, della partecipazione aziendale. Il Laboratorio è gestito da un Comitato Direttivo composto in maniera paritetica da due membri della Rsu, due rappresentanti dell’azienda e due membri esterni, di comprovata competenza e professionalità, concordati dalle Parti. In secondo luogo, è istituita una Commissione Tecnica “Produttività del Centro di Ricambio” che si riunisce una volta al mese e verifica l’organizzazione del lavoro e i suoi risultati rispetto alle attività del magazzino. Altra Commissione importante è la Commissione Conciliazione Lavoro e Famiglia che affronta i temi della differenza di genere e delle pari opportunità tra uomini e donne. Per le tre Commissioni delineate le decisioni devono essere prese con il consenso delle parti, all’unanimità.
Vi sono altre due Commissioni importanti, per quanto al loro interno si esercitino diritti sindacali di informazione e consultazione, e non di cogestione. La Commissione paritetica per il Lavoro in Somministrazione, dotata di compiti di monitoraggio e proposta, per esempio rispetto ai percorsi di stabilizzazione, e i cui risultati possono essere oggetto di contrattazione da parte delle Rsu nell’ambito di quanto legalmente e contrattualmente previsto. Poi c’è il Gruppo di Lavoro Formazione che lavora con il coinvolgimento continuo delle Rsu, le cui modalità di funzionamento sono già state descritte.
Il sistema di partecipazione copre quindi diverse e importanti materie dell’organizzazione aziendale, anche se va detto che quanto illustrato vale a livello formale, poiché le Commissioni possono poi non riunirsi, per esempio a causa degli elevati ritmi di produzione, oppure operare in base a principi diversi rispetto a quelli propri della partecipazione (Fortunato, 2008). Di conseguenza, per comprendere se i rapporti tra le parti e le decisioni prese si ispirano davvero ai criteri
del dialogo e della condivisione è fondamentale verificare come concretamente operano queste commissioni. I dirigenti sindacali hanno confermato l’effettiva condivisione tra le parti all’interno delle commissioni istituite in azienda:
“Le commissioni funzionano molto bene, anche perché abbiamo persone diverse al loro interno, in quanto abbiamo un numero di delegati superiore a quanto previsto a livello nazionale, e fanno parte delle commissioni che affrontano gli argomenti in cui loro sono più preparati. Sono molto importanti e utili le commissioni. [...]. Le decisioni sono normalmente prese all’unanimità, perché abbiamo delegati che hanno buon senso e che parlano di temi che conoscono. Di conseguenza, poiché si tratta di prendere decisioni in grado di coniugare efficienza aziendale e rispetto delle persone, non mi vengono in mente situazioni nelle quali noi siamo dovuti intervenire (Filcams Verona)”.
Dalle parole riportate emerge chiaramente come, per sviluppare sistemi di partecipazione aziendale, sia fondamentale, tra le altre cose, che i delegati sindacali siano preparati per poter discutere con i responsabili aziendali. A tal fine, è certamente utile disporre di delegati particolarmente competenti su specifici argomenti, un risultato che può essere facilitato aumentandone il numero rispetto a quanto previsto in ambito nazionale, come concordato in Volkswagen. In ogni caso, il tema della formazione dei delegati richiederebbe anche un maggior investimento da parte delle organizzazioni sindacali, come dimostra lo stesso caso Volkswagen. Infatti, inizialmente, i responsabili aziendali contattavano i funzionari sindacali per riferire loro che le Rsu non erano abbastanza preparate per affrontare il sofisticato sistema di contrattazione aziendale; in sostanza, si contrattava troppo poco. Nel corso degli anni la situazione è migliorata anche perché i delegati hanno potuto accrescere sul campo le proprie conoscenze, ma i funzionari sindacali non nascondono che tali competenze sono ancora limitate rispetto alle aspettative del sistema di partecipazione aziendale.
Infine, va rilevato come il tema della partecipazione sia ancora attraversato da discussioni ideologiche, per quanto non così forti da causare problemi nel funzionamento del sistema partecipativo e tali da indurre divergenze per lo più formali. Infatti, il sistema Volkswagen viene definito contrattazione dalla Cgil, che non vuole chiamarla
cogestione, come invece fa la Cisl, ma non ci sono poi, nei fatti, differenze concrete di approccio tra le organizzazioni sindacali.
CAPITOLO SESTO
LA TUTELA INDIVIDUALE E LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE
6.1 Il sindacato e il rapporto con lavoratori e istituzioni locali
La tutela individuale è un aspetto centrale dell’attività dei funzionari Filcams, che li distingue da quanto avviene in altre categorie sindacali. L’ampiezza di tale azione è legata a diversi fattori, già spiegati in precedenza, che valgono a pieno titolo per i settori analizzati del commercio e del pulimento: ridotta presenza sindacale, frammentazione delle imprese che implica la risoluzione di problemi spesso individuali di lavoratrici e lavoratori e crisi economica, timore di lavoratrici e lavoratori a far valere direttamente i proprio diritti, dei quali hanno talvolta poca conoscenza.
Nel merito, si tratta, solitamente, del mancato rispetto di quanto previsto dal contratto nazionale, soprattutto in relazione all’orario di lavoro e alla retribuzione, con un forte addensamento di lavoratrici/lavoratori precari coinvolti in queste dinamiche. Tuttavia, l’aspetto più comune sottolineato dai dirigenti sindacali (quelli datoriali si sono legittimamente mostrati più prudenti in quest’ambito) riguarda comportamenti aziendali di mancato rispetto del lavoratore, anche in termini di eccessivo ricorso ai provvedimenti disciplinari. Per esempio, nella grande distribuzione avviene talvolta che le cassiere, pur non beneficiando di un’indennità di cassa, ricevano provvedimenti disciplinari e siano costrette a risarcire all’azienda eventuali errori, anche di modesta entità, commessi sotto la pressione di dover fare un certo numero di scontrini per ora, una condizione che ricorda l’organizzazione del lavoro nelle catene di montaggio. Fatti simili, pur sulla base di meccanismi diversi, sono stati evidenziati nel caso dei piccoli esercizi commerciali, fermo restando che, anche in tale ambito, l’esperienza sindacale porta a conoscere solo le situazioni negative. Si tratta di un fenomeno che conferma quanto detto in precedenza in merito al rapporto che sembra diventare sempre più difficile tra proprietario/capo reparto e dipendenti, legato alle pressioni
economiche delle aziende e ad una strategia competitiva fondata più sulla quantità che sulla qualità del lavoro:
“Ci sono delle prevaricazioni, ti faccio l’esempio delle cassiere. Le cassiere non hanno l’indennità di cassa. Così, in una catena di supermercati, stanno controllando i tempi, siamo tornati al modello fordista della fabbrica, la cassa è la catena di montaggio. Se il lavoratore non fa un certo numero di scontrini in un’ora il direttore o il capo delle casse inizia a “cazziarti”. Cosa succede? Che con tutti i clienti che passano, se devi fare il lavoro velocemente e per 8 ore, molto spesso sbagli. Quindi ci sono delle differenze di cassa, ma non è colpa del cassiere, fa parte del rischio d’impresa. In realtà, se non c’è il sindacato, l’azienda per la differenza di cassa fa un provvedimento disciplinare al lavoratore e gli trattiene i soldi dallo stipendio. E questo succede nella maggior parte dei casi (Filcams Padova)”.
“C’è una parte di lavoratori, che non è ampia ma nemmeno così piccola, che viene per chiedere una propria tutela per diritti violati, e vengono soprattutto dai piccoli esercizi. Perché quando vogliono licenziare qualcuno cercano di fare in modo che sia il lavoratore ad andarsene, soprattutto se è un apprendista, così poi ne possono assumere altri. Così, nell’apprendistato che dura 3 anni, dopo 2 anni e mezzo in alcuni piccoli esercizi cercano di mettere in difficoltà la persona, cambiando gli orari o comunque mettendoli all’angolo, costringendoli alle dimissioni (Xxxxxxx Vicenza)”.
Per quanto non sempre adeguatamente rispettato, il contratto nazionale di lavoro, in settori economici così frammentati come quelli del commercio e del pulimento, assume un ruolo centrale per garantire al lavoratore diritti che difficilmente potrebbe contrattare in un contesto aziendale spesso privo della rappresentanza sindacale.
In generale, secondo i dirigenti sindacali, le regole proteggono adeguatamente lavoratrici e lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato in imprese con più di 15 dipendenti, mentre ciò non si può dire per i lavoratori precari, più esposti all’arbitrarietà aziendale e, in secondo luogo, per coloro che, pur se assunti a tempo indeterminato, sono impiegati in imprese al di sotto dei 15 dipendenti. Rimane il problema di rendere esigibili le norme, un’operazione non facile visti i timori che oggi attanagliano le persone sotto il profilo
occupazionale, nonché il fatto che la legislazione evolve assai più rapidamente del contratto nazionale, creando così problemi interpretativi.
Tornando alle domande di tutela individuale che provengono da lavoratrici e lavoratori, va rilevato che non è facile, per le organizzazioni sindacali, rispondere a tutte queste richieste, che spesso si traducono ad una semplice domanda di informazioni. Le strutture territoriali si impegnano al massimo per cercare di fornire una risposta a tutte le persone che si rivolgono loro, e, a tal fine, viene sempre mantenuto un presidio di accoglienza per lavoratrici e lavoratori nella sede cittadina ed in quelle provinciali più importanti. Ma risulta difficile seguire tutti i casi, un problema acuito dal fatto che le vertenze individuali richiedono tempo per essere risolte e, qualora non si addivenisse ad un accordo, la loro soluzione passa attraverso una causa di lavoro che può durare diversi anni e finisce per intasare l’Ufficio vertenze-legale dell’organizzazione, sponda cruciale per la categoria. In ogni caso, tutti i funzionari intervistati prestano particolare attenzione ai modelli organizzativi da adottare all’interno della categoria per rispondere nel modo più veloce ed efficiente possibile alle istanze avanzate da lavoratrici e lavoratori. Per esempio, a Verona si è deciso di non rispondere al telefono in ufficio, ma tramite email o cellulare, poiché, altrimenti, risulterebbe praticamente impossibile lavorare. Inoltre, l’email, in particolare, lascia più tempo per rispondere e permette di fornire un’informazione più precisa.
Non è nemmeno sempre facile, per i funzionari, gestire i rapporti con i lavoratori che si rivolgono loro per chiedere di essere tutelati. Infatti, a volte, queste persone, ritenendo di non esser stati rispettati nei loro diritti, hanno fretta di essere risarciti e un forte desiderio di rivalsa, sentimenti comprensibili che tuttavia si scaricano sul lavoro dei sindacalisti:
“A volte succede che qualche lavoratore ti dica che ha bisogno dei soldi, che ritiene gli siano stati ingiustamente sottratti, subito. Ma un sindacalista non è un carabiniere. Il sindacalista può scrivere all’azienda, la quale potrà avere timore del sindacato, ma il sindacalista non ha questo potere. Perché per molti lavoratori c’è l’idea che il sindacato possa risolvere subito le cose, ma io gli dico che il sindacato non è l’Ispettorato del Lavoro. A volte quando c’è il fallimento di un’azienda che non ha dato dei soldi ai dipendenti i lavoratori ti chiedono di
averli subito, e allora gli devi spiegare che ci vuole il giudice fallimentare, ecc. (Filcams Venezia)”.
Come detto, la grande quantità di domande e richieste di supporto che provengono dai singoli lavoratori alle organizzazioni sindacali non riescono ad essere soddisfatte dall’attuale numero di funzionari previsti. E non manca la richiesta alla confederazione di rivedere i criteri in base ai quali viene calcolato il numero dei sindacalisti su cui può contare la categoria, soprattutto in ragione delle sempre maggiori competenze che i funzionari devono possedere. E’ il caso per esempio di Belluno, un’area di alta montagna fortemente penalizzata nell’attività sindacale dalla necessità di monitorare un territorio esteso a bassa densità abitativa:
“Il problema è la nostra condizione di montagna. Oggi credo sia molto più facile fare le cose concentrandosi in grandi centri. Ma tu non puoi, in una marea di interpretazioni legislative, in una marea di prestazioni, in una marea di casistiche come quelle che ci sono oggi in provincia di Belluno avere le stesse persone, perché paghi in termini di capacità di risposta complessiva. [...]. Oggi dovresti avere più persone con diverse competenze specialistiche, ma i numeri non ti permettono di fare questo. [...]. Chi fa le macro cifre dice: x addetti per x abitanti, ed è giusto, ma Milano fa 3 milioni di abitanti in un tot di metri quadrati, mentre Belluno fa 195.000 abitanti in 50 volte il territorio di Milano (Filcams Belluno)”.
C’è poi una questione relativa al settore, dove molti iscritti sono occupati a tempo parziale. A queste persone, correttamente, i funzionari devono dedicare la stessa attenzione che prestano ai dipendenti a tempo pieno, ma, naturalmente, il contributo che pagano al sindacato attraverso la loro delega è inferiore. Ne consegue che, per avere due sindacalisti a tempo pieno, Xxxxxxx deve avere 2000 iscritti paganti, mentre in altre categorie, dove il part-time non è diffuso, 1000 iscritti potrebbero essere sufficienti. Sarebbe giusto da parte dell’organizzazione tenere maggiormente in considerazione le caratteristiche peculiari dei singoli settori, unitamente al fatto che lavoratrici e lavoratori iscritti al sindacato, anche se part-time, devono ricevere la medesima tutela delle persone impiegate a tempo pieno. Ciò sia per ragioni solidaristiche che per il fatto che le domande di tutela nel terziario privato sono più intense che altrove.
Va rilevato, infine, il fatto che non è semplice trovare sindacalisti che abbiano una motivazione ed una preparazione adeguata per operare all’interno della Filcams, dove è richiesta grande flessibilità d’orario e la conoscenza di settori molto diversi tra loro quanto a norme di legge e contrattuali.
Un altro aspetto che differenzia l’attività sindacale dei funzionari e segretari Xxxxxxx fa riferimento ai numerosi rapporti intessuti con altre associazioni e con le istituzioni locali, attorno ad argomenti che vanno dallo sviluppo del territorio a materie più propriamente parte delle relazioni industriali, come la regolazione integrativa del mercato del lavoro o le politiche formative. Un aspetto che, chiaramente, coinvolge la confederazione Cgil nel suo complesso. Sotto questo profilo, come già emerso parlando della rivitalizzazione dei centri storici, non si registrano attività organiche di concertazione a livello territoriale, per quanto il dialogo sociale sia, in generale, abbastanza strutturato. Sembra mancare un interesse delle istituzioni politiche locali ad attivare confronti di questo tipo, in parte dovuto alla scarsa lungimiranza della classe dirigente locale, oltre che a problemi peculiari ai singoli territori, come l’alto tasso di litigiosità tra istituzioni a Rovigo o la situazione di commissariamento che vive da oltre due anni la Provincia di Belluno. Risultati positivi dal confronto tra le parti e con le istituzioni pubbliche si sono comunque ottenuti, basti pensare, a livello regionale, alla legge che regolamentava le aperture domenicali, oppure all’Accordo sulle misure da adottare per fronteggiare la crisi illustrato nel primo capitolo.
Ma il rapporto con le associazioni e le istituzioni territoriali va perseguito con forza da parte delle organizzazioni sindacali, poiché il sistema di relazioni, soprattutto a livello istituzionale, conferisce legittimità al sindacato come soggetto politico. In tal modo, il suo ruolo decisionale può diventare più importante e quindi incidere maggiormente nella difesa di lavoratrici e lavoratori, nell’ambito delle iniziative che vengono intraprese in ambito locale:
“Partecipare ai tavoli è importante perché si fanno delle cose, e poi vieni riconosciuto come soggetto politico, e puoi dire la tua. Se non ti presenti ai tavoli, il confronto si sviluppa solo tra Comune, Provincia o Regione e aziende, e tu ti devi infilare perché rappresenti una parte importante, cioè i lavoratori (Filcams Padova)”.
I temi che possono essere affrontati a livello locale sono diversi. Innanzitutto, c’è la questione dello sviluppo e della valorizzazione delle risorse presenti nel territorio, un argomento di importanza cruciale non solo per dare nuova vitalità ai centri storici, ma anche per attrarre risorse economiche, in termini di investimenti e turismo, quanto mai necessari in questa fase di recessione. Sotto questo profilo, in tutte le province venete, attività da fare ce ne sarebbero diverse:
“Come sindacato abbiamo cercato di attivare un dialogo con la Provincia, anche con il commissario che inizialmente sembrava propenso a questo riguardo, per dare un’idea di sviluppo al territorio, Vedere in quali settori investire, con quali forme di finanziamento, con quali politiche formative, per combattere la crisi. Noi, come organizzazioni sindacali, e la Cgil aveva iniziato il lavoro, questo lo rivendico, avevamo individuato quattro grandi filoni. Uno era il settore del freddo per l’industria, quindi congelatori, ecc., il settore dell’occhialeria, in cui siamo leader mondiali, il settore del turismo, perché abbiamo le Dolomiti, patrimonio mondiale dell’Unesco, e siamo comunque una provincia turistica anche se non si è mai sviluppata, e una ripresa dell’edilizia, non tanto come grandi opere, ma come gestione del territorio, perché abbiamo smottamenti, frane, autostrade vecchie, e poi l’edilizia è il settore a maggior valore aggiunto, per l’indotto che genera. E gli industriali hanno condiviso la nostra piattaforma, è stato un passaggio importante e positivo. Ma poi non si è andati avanti, per la debolezza politica di una provincia commissariata (Filcams Belluno)”.
Poi, come detto, ci sono argomenti rilevanti che appartengono più propriamente al campo delle relazioni industriali. A tal punto che, secondo alcuni dirigenti datoriali, un salto di qualità nelle relazioni industriali lo si potrà realizzare proprio attraverso lo sviluppo di un’organica concertazione territoriale che, partendo dai temi del lavoro vada ad abbracciare altri aspetti:
“Credo che, su alcuni aspetti, un miglioramento della qualità lo si potrebbe avere nelle relazioni industriali ragionando con le istituzioni pubbliche. Penso alla Regione, perché di là passano le politiche del lavoro, ma anche come soggetto che in qualche maniera dovrebbe delineare i progetti di sviluppo economico. Penso, in materia di welfare, alla sanità, e l’altra sfida
importante è la scuola, per creare dei collegamenti più stretti tra scuola e lavoro. Perché dalla scuola passano i futuri imprenditori e lavoratori (Confcommercio Treviso)”.
Fermo restando l’importanza e le potenzialità della concertazione locale come volano per lo sviluppo socio-economico del territorio, non si può non notare come l’attivazione di tali dinamiche, già di per sé difficile, sia messa a dura prova, nel settore del commercio, dall’attuale frammentazione imprenditoriale, che implica la rappresentanza di modelli diversi, tra loro incompatibili, di sviluppo del territorio. Il riferimento è, in particolare, all’apertura di nuovi centri commerciali, che, caldeggiati da Federdistribuzione, incontrano l’opposizione delle altre organizzazioni sindacali e datoriali, come dimostrato in questi giorni dalla polemica relativa all’apertura di un centro Ikea, con l’aggiunti di altri esercizi commerciali, a Verona. Quando ci sono divisioni così forti nell’idea di sviluppo, e di consumo stesso, del territorio, sembra utopistico pensare alla concertazione, perlomeno per quanto concerne il settore del commercio, mentre, in generale, tale modalità di confronto rimane non solo auspicabile ma più fattibile. Comunque, l’attuale situazione di frammentazione non toglie l’utilità di dialogare per arrivare alla condivisione di provvedimenti più specifici di governo socio-economico del territorio anche nel settore del commercio, per esempio in tema di regolamentazione dei contratti di lavoro atipici o delle politiche di raccordo tra scuola e lavoro.
CAPITOLO SETTIMO
CONCLUSIONI
In conclusione appare utile sollevare alcuni punti cruciali.
In primo luogo, i settori del commercio e del pulimento non hanno una lunga tradizione di azione sindacale, per cui si rivela difficile, un pò in tutte le province venete, mobilitare lavoratrici e lavoratori, già penalizzati nella loro aggregazione dalla frammentazione delle imprese. Ma i forti cambiamenti in atto, come ad esempio la liberalizzazione delle aperture domenicali, unitamente alle crisi aziendali che mettono maggiormente in contatto lavoratrici, lavoratori e rappresentanti sindacali, stanno consolidando una storia di azione e rappresentanza sindacale anche in questi settori. Per esempio, le proteste organizzate dalle organizzazioni sindacali contro la liberalizzazione delle aperture domenicali hanno messo in moto processi di costruzione di identità condivise e di interessi collettivi, indipendentemente dai risultati concretamente raggiunti. La dimostrazione più chiara della maggior vicinanza tra lavoratrici, lavoratori e organizzazioni sindacali è costituita dal crescente numero di iscritti che la Filcams registra e che, in Veneto, la porteranno ad essere, nel 2014, la categoria con il maggior numero di membri all’interno della Cgil, un dato di portata storica. Questo “movimentismo sindacale” indotto dalla situazione socio-economica attuale non va abbandonato, poiché le ricerche internazionali più importanti testimoniano come la vitalità delle organizzazioni sindacali e la loro capacità di coinvolgere, oltre ai propri membri, l’opinione pubblica, siano fondamentali per la loro reputazione e l’efficacia della loro azione. Soprattutto fino a quando le organizzazioni sindacali possono contare su un certo supporto normativo, per esempio in termini di tutela delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro e di riconoscimento istituzionale (Xxxxxxx, 2004).
In particolare, potrà risultare utile, per espandere l’area e la forza dell’influenza sindacale sulla negoziazione delle condizioni di lavoro, riuscire ad organizzare quelle persone al momento al di fuori dell’azione sindacale, come le lavoratrici e i lavoratori assunti con contratto atipico o gli occupati nelle piccole imprese. Ciò è quanto
suggerisce la ricerca “Organizzare i non organizzati” curata dall’Ufficio Politiche Giovanili della Cgil. Particolarmente interessante risulta l’esperienza americana, dove il sindacato attivo nel settore dei cosiddetti servizi poveri ha concentrato il proprio impegno in azioni di community organising. Essenzialmente, tali azioni hanno l’obiettivo di radunare attorno ad una serie di obiettivi non solo lavoratrici e lavoratori ma il più ampio territorio circostante composto da associazioni di vario tipo, al fine di formare coalizioni anche inusuali per raggiungere gli obiettivi prefissati (Rassegna Sindacale, 2013). Altro caso interessante è quello del sindacato tedesco il quale, dopo una fase di declino, sta sperimentando nuove forme di attivismo all’interno e all’esterno delle imprese per riguadagnare consenso e forza (Xxxxxx, 2009). Nei confronti dell’azienda Scheckler, intenta a peggiorare le condizioni di lavoro anche in violazione della legge, il sindacato tedesco dei servizi ha modificato la propria strategia, spostandosi dal modello partecipativo ad uno apertamente conflittuale. Ciò ha incluso tattiche d’azione come l’impegno dei lavoratori sottopagati nelle attività sindacali, conferenze stampa, procedimenti legali, pressioni politiche fino al boicottaggio dei prodotti Scheckler in seguito alla morte di un lavoratore, che ha provocato una diminuzione delle vendite del 40% in alcune aree. Nel caso IG Metall, il sindacato metalmeccanico tedesco, l’azione di rivitalizzazione del sindacato in una fabbrica della cittadina di Siegen, necessaria di fronte ad una strategia cooperativa costituita da concessioni che ne stava erodendo il consenso, non è avvenuta costruendo una coalizione all’esterno dell’impresa, ma promuovendo la mobilitazione dei propri membri. Tale mobilitazione si è snodata lungo tre punti: negoziazioni aggressive a livello aziendale, un impegno proattivo per spingere l’impresa ad incrementare la qualità del prodotto e la produttività, la mobilitazione dei rappresentanti sindacali e dei lavoratori per reclutare nuovi membri in un’ottica di cambio strategico di posizione. Tornando alla situazione illustrata per il caso Xxxxxxx in Veneto, queste esperienze internazionali in contesti istituzionali molto diversi tra loro dimostrano che l’ottima esperienza degli Enti Bilaterali territoriali, sicuramente da estendere per favorire relazioni industriali collaborative e, soprattutto, per tutelare al meglio tutte le lavoratrici e i lavoratori del settore, non deve offuscare la capacità di mobilitazione del sindacato, soprattutto nella costruzione di coalizioni in grado di andare oltre il luogo di lavoro. Laddove il sindacato si è orientato in via esclusiva nella gestione del welfare ne è scaturito solitamente un suo progressivo ridimensionamento (Leonardi, 2006).
In secondo luogo, c’è la questione della qualità delle relazioni industriali, messe sotto forte pressione sia nel settore del commercio che del pulimento dall’aumentata competizione tra imprese in un periodo di recessione economica. Si è visto come il rapporto tra le parti non sia, in diversi casi, ispirato alla collaborazione e fiducia reciproca, fatto salvo le imprese cooperative, e nonostante il positivo dialogo sviluppato all’interno degli Enti Bilaterali. Dall’altro lato, tanto i dirigenti sindacali quanto quelli datoriali hanno manifestato l’importanza di sviluppare rapporti più proficui sul piano, per esempio, dell’organizzazione degli orari di lavoro, della concertazione territoriale o di materie, come la formazione, il cui rafforzamento porterebbe risultati positivi a tutti gli attori in campo. Da questo punto di vista, lo sviluppo della contrattazione decentrata, territoriale o aziendale a seconda dei casi, appare ineludibile, poiché solo a tale livello è possibile analizzare in modo adeguato le diverse forme possibili di organizzazione del lavoro e dell’impresa. Fermo restando che deve trattarsi di un “decentramento controllato” (Xxxxxxxx et al., 2013), le cui regole devono essere condivise nell’ambito di un contratto nazionale la cui importanza rimane immutata.
La contrattazione decentrata dovrebbe evolvere in senso partecipativo, una partecipazione necessaria alle imprese, per le caratteristiche intrinseche della prestazione lavorativa, in particolare nel commercio, dove i dipendenti rappresentano direttamente l’azienda nei rapporti con la clientela; ma ugualmente importante per lavoratrici e lavoratori, al fine di essere valorizzati e gratificati nella loro professionalità, e per le organizzazioni sindacali, che sempre meno possono ricorrere al conflitto come strumento di pressione nelle attività negoziali (Xxxxxx, 2011). In tal modo, sarebbe anche possibile concordare forme di flessibilità d’orario che sappiano rispondere meglio al tema della conciliazione tra lavoro e famiglia in settori così fortemente caratterizzati dalla presenza femminile, questione che oggi rappresenta forse l’ambito negoziale più importante per la qualità della vita lavorativa delle persone e per la stessa Xxxxxxx.
Naturalmente, enunciare principi di partecipazione, per quanto sostenuti nella loro utilità da una solida base empirica, è sempre più facile che attuarli nella realtà, ma per facilitarne l’applicazione si può fare riferimento ad alcuni punti emersi dalla ricerca. In primo luogo, i delegati necessitano di un’adeguata preparazione sui temi inerenti l’organizzazione del lavoro, i bilanci aziendali e le strategie d’impresa, come mostra chiaramente il caso della Volkswagen, per potersi confrontare adeguatamente con i responsabili aziendali. In
secondo luogo, è emerso in modo chiaro come oggi l’efficacia della contrattazione sia sempre più funzione delle conoscenze e competenze che i sindacalisti hanno. Sotto questo profilo, si avverte la necessità, per quanto non unanimemente condivisa dai dirigenti sindacali intervistati, di coinvolgere nell’attività sindacale altre categorie di lavoratori oltre a quella operaia, impiegati e quadri, detentori di informazioni pregiate. Si tratta, non bisogna nasconderlo, di un’operazione difficile e forse anche un pò pericolosa, per la maggiore vicinanza che solitamente lega il personale impiegatizio o i cosiddetti lavoratori della conoscenza al management aziendale. Ma tale opzione va perseguita per facilitare la contrattazione di merito, che può aiutare le stesse aziende, come stanno attualmente dimostrando i confronti sindacali nei casi di crisi e lo sviluppo della partecipazione.
Infine, il tema della formazione, utile sia alle imprese, per disporre di un capitale umano più qualificato, che a lavoratrici e lavoratori, per incrementare la propria occupabilità in un periodo di crisi economica e di crescente instabilità occupazionale. La ricerca ha evidenziato come, almeno teoricamente, entrambe le parti sociali considerino le attività formative di grande importanza, ma ciò a livello teorico, poiché, concretamente, la formazione è ancora poco utilizzata, nonostante essa possa essere oggi in gran parte finanziata dai diversi Enti esistenti. Il costo di togliere il personale dalle attività produttive viene ancora giudicato troppo elevato dalle imprese, in una situazione di margini e di personale ridotti. In questa propensione pesa, peraltro, una debole cultura della formazione che storicamente caratterizza le aziende non solo venete ma italiane. Come è possibile uscire da questa situazione di stallo?
Una soluzione potrebbe essere costituita dall’attivazione di politiche formative on-the-job, sperimentate con successo in diverse aziende, come dimostrato da alcune recenti ricerche in ambito industriale. I dipendenti cioè verrebbero formati, mentre lavorano, da consulenti esterni oppure da tutor aziendali, alternando tale modalità formativa con una parte più classica d’aula, dove analizzare anche teoricamente l’utilità di adottare determinati comportamenti organizzativi, il cosiddetto know-why (Xxxxxxxx e Xxxxxxx, 1994); in una parola, intrecciando sperimentazioni pratiche e approcci teorici.
Pur scontando il rischio di un uso improprio da parte delle imprese, come forma di finanziamento, un’attività formativa di questo tipo, qualora adeguatamente pensata e implementata, avrebbe un impatto più immediato in termini di accrescimento della professionalità di lavoratrici e lavoratori, e sarebbe considerata con più attenzione e
interesse da parte dei datori di lavoro. Di conseguenza, è auspicabile che le organizzazioni sindacali, come già fatto con successo in alcune realtà aziendali, possano proporre con sempre maggior convinzione, anche e soprattutto in situazioni di crisi, una formazione sul campo che assumerebbe il carattere di una concreta politica attiva del lavoro all’interno delle stesse aziende in difficoltà. Una pro-attività da attuare, beninteso, con tutte le precauzioni del caso, ovvero concordando con le aziende trasparenza e verifiche, che prevedano anche il coinvolgimento dei funzionari esterni, per verificarne l’efficacia e la soddisfazione dei lavoratori.
Appendice metodologica
La decisione di concentrare l’attenzione sul comparto del terziario è legata da un lato all’espansione massiccia e persistente di occupazione negli ultimi decenni e dall’altro al fatto che Filcams-Cgil diventerà nel 2014 la categoria con il maggior numero di iscritti all’interno della confederazione nella regione Veneto. La scelta, poi, verso i settori del commercio e pulimento è legata, come visto, sia alla loro consistenza socio-economica sia al fatto che rappresentano due settori coinvolti in forti processi di trasformazione, il che rende la loro analisi particolarmente stimolante e utile. Inoltre, circoscrivere lo studio ai due settori del commercio e del pulimento all’interno del comparto terziario si è reso necessario per non essere troppo dispersivi, essendo il comparto molto variegato (Regalia, 1988), e poter coglierne adeguatamente le questioni peculiari. In particolare, il coinvolgimento dei dirigenti del sindacato Filcams e della parte datoriale, assieme alla lettura di un certo numero di contratti, ha arricchito la ricerca di conoscenze analitiche ma anche di indicazioni per l’ attività di contrattazione.
La ricerca si è articolata in due fasi. In primo luogo, sono stati raccolti i contratti aziendali e territoriali stipulati a livello regionale e/o provinciale per la regione Veneto, sia nell’ambito del commercio che del pulimento. La tabella 1 riporta i contratti aziendali stipulati a livello provinciale, con l’esclusione degli Enti Bilaterali (già riportati in Tabella 1), mentre la tabella 2 fa riferimento ai contratti aziendali di livello inter-provinciale o regionale. I contratti sono stati quindi analizzati e comparati nelle loro diverse voci, traendo una prima descrizione ed interpretazione dei dati raccolti. Nella seconda fase, sono stati intervistati, con una traccia d’intervista semi-strutturata, i dirigenti, in particolare i segretari generali della Filcams-Cgil nelle 7 province venete, e due dirigenti delle associazioni datoriali, uno per Confcommercio e uno per Confesercenti (non si è riusciti invece a coinvolgere Federdistribuzione nella ricerca, un pò per le carenze organizzative dell’associazione, ancora in fase di avvio, un pò per l’indisponibilità dei dirigenti contattati). Le interviste hanno riguardato, innanzitutto, i temi della contrattazione, affrontati in riferimento a tutte le aziende presenti nel territorio delle diverse province venete, e si sono estese ai temi della tutela individuale e della concertazione territoriale, di grande rilevanza nei settori del commercio e del pulimento. Le interviste sono state registrate in tutti i
casi ed hanno avuto una durata variabile da un’ora e mezza a due ore e mezza.
Gli esiti della ricerca potrebbero essere approfonditi e valorizzati attraverso un doppio movimento di ampliamento e specificazione della stessa. Infatti, non sono stati intervistati i rappresentanti delle associazioni datoriali del pulimento che, per quanto incerti come rappresentatività, potrebbero essere individuati nei territori e a livello regionale e potrebbero fornire utili informazioni per avere un quadro informativo e interpretativo più preciso della realtà del settore. Per la stessa ragione, qualora si riuscisse a coinvolgere Federdistribuzione, sarebbe utilissimo per conoscere il punto di vista degli attori principali del cambiamento in atto, sia sotto il profilo della concorrenza che delle relazioni industriali.
Infine, potrebbe essere utile coinvolgere i rappresentanti regionali di Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil, per comprendere il loro punto di vista. Infatti, tra le organizzazioni sindacali prevalgono logiche d’azione unitarie a livello aziendale e territoriale, ed ora pare anche in ambito nazionale nel settore del commercio, dopo la divisione del contratto separato del 2008. Tuttavia, gli attori intervistati, in particolare i dirigenti Xxxxxxx, hanno evidenziato delle differenze di approccio e di modalità di contrattazione in alcuni ambiti, come la Cig in deroga solo per fare un esempio, che non sempre sono stati riportati in questa ricerca, per la necessità scientifica di verificare meglio le informazioni raccolte.
Tabella 1. Contratti aziendali provinciali consultati
Provincia Azienda
Belluno Guarnier
Padova Cooperativa Solidarietà, Siderurgica Xxxxxxxxx, Consorzio Triveneto
Rovigo Copma, Markas Service
Treviso VF, Ama Crai, Moda center, Unicomm, Sercam, Xxxx, Epiù
Venezia ITW
Verona Volkswagen, Gruppo Xxxxx, Man
Vicenza Veal
Tabella 2. Principali contratti aziendali interprovinciali consultati/regionali consultati
Livello Azienda
Regionale Colser, Frisiko, Serenissima Ristorazione, Coop Adriatica
Belluno-Padova Supermercato del Libro
Vicenza-Treviso Commerciale Veneta Beltrame
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