Contract
1. Diritto sindacale e sue fonti 3
2. Natura del contratto collettivo 8
3. Organizzazione Sindacale 13
5. Contrattazione collettiva di pari livello 22
6. Contrattazione collettiva di diverso livello 26
7. Contratto collettivo e Legge 28
9. Esercizio di attività sindacale nei luoghi di lavoro 41
10. Organizzazioni sindacali e diritti di consultazione e informazione 56
12. Serrata dell'imprenditore 72
14. Procedimento di repressione della condotta antisindacale 78
15. Giudizio di opposizione ex art. 28 stat. lav 83
16. Fattispecie più significative di ricorso ex art. 28 stat. lav 85
1. Diritto sindacale e sue fonti
1.1 Fonti del diritto; 1.2 Carta Costituzionale; 1.3 Ordinamento corporativo; 1.4 Estensione erga omnes dei contratti collettivi
1.1 Fonti del diritto
L’art. 1 delle «Disposizioni sulla legge in generale» che precedono il nostro codice civile stabilisce che le fonti del diritto sono:
1) le leggi;
2) i regolamenti;
3) le norme corporative;
4) gli usi.
Alla luce della caduta dell’ordinamento corporativo, al vertice del nostro sistema giuridico si trova la legge Costituzionale, che può essere modificata o integrata solo da altre leggi di pari rango.
Ad un livello inferiore si trovano le leggi ordinarie emanate dal Parlamento che non possono né modificare la Costituzione né contenere norme in contrasto con le disposizioni costituzionali.
Al medesimo livello rinveniamo i provvedimenti legislativi emanati dal potere esecutivo, cioè i decreti legislativi (emanati dal Governo su legge delega del Parlamento) e i decreti legge (emanati solo «in casi straordinari di necessità e di urgenza» e che necessitano di un’apposita conversione ad opera del Parlamento), nonché le leggi regionali nelle materie di competenza.
Al gradino immediatamente inferiore si collocano i regolamenti che possono essere di
«organizzazione» (aventi la stessa efficacia delle leggi ordinarie) oppure di «esecuzione» (emanati per disciplinare l’applicazione delle leggi statali e regionali, non hanno alcun potere di deroga nei confronti della legge stessa).
Infine, il nostro legislatore contempla gli usi, che vengono distinti in normativi (generale ripetizione di un comportamento con la convinzione dell’obbligatorietà giuridica dello stesso), di fatto (ad esempio quelli contrattuali) e interpretativi (servono ad integrare ed interpretare i contratti).
Quanto agli usi aziendali (rientranti nella categoria degli usi negoziali o di fatto), secondo la giurisprudenza essi, ex art. 1340 c.c. (clausole d’uso), si inseriscono nei contratti individuali e, quindi, possono essere derogati solo attraverso un nuovo accordo tra le parti e sono idonei a derogare in melius la disciplina collettiva, mentre i contratti collettivi non possono derogare in peius il loro contenuto.
Tra le fonti del diritto rientra, infine, il diritto comunitario, atteso che i Giudici dei singoli Stati membri devono disapplicare le norme interne che siano in contrasto con norme comunitarie vincolanti.
Una delle fonti previste nel codice civile del 1942, cioè le norme corporative, è scomparsa: vero è, tuttavia, che molte delle disposizioni che facevano espresso riferimento al sistema corporativo non furono eliminate, venendosi così a creare notevoli problemi a livello interpretativo.
Con specifico riferimento alla materia sindacale vi è una pluralità ed eterogeneità delle fonti.
In primis si devono citare gli artt. 39, 40 e 41 della Carta Costituzionale, cui a partire dagli anni Settanta si è affiancata sempre più frequentemente la legislazione ordinaria, come dimostra la promulgazione dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), ancora oggi un testo fondamentale in materia di relazioni industriali.
Tra le fonti improprie o indirette del diritto sindacale deve essere annoverata anche la contrattazione collettiva, di cui il contratto collettivo rappresenta il prodotto tra le parti.
L’autonomia collettiva svolge un ruolo determinante soprattutto relativamente alla parte obbligatoria dei contratti collettivi, finalizzata a disciplinare i rapporti tra le organizzazioni sindacali firmatarie (si pensi alle c.d. clausole di tregua, volte a mantenere la pax sindacale nell’arco delle trattative per il rinnovo, oppure alla fissazione delle regole per l’interpretazione del contenuto del contratto e per la sua applicazione. A tal proposito, l'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 ha previsto che la clausola di tregua contenuta in un contratto collettivo aziendale – stipulato dalle RSU con il voto favorevole della maggioranza dei suoi membri o da una o più delle RSA titolari della maggioranza delle deleghe in seno all'azienda – è vincolante per tutti i sindacati).
Costituiscono fonti del diritto sindacale anche i provvedimenti di alcuni organismi internazionali, quali l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e la Comunità economica europea (CEE).
Infine, seppur fonte impropria, occorre ricordare il ruolo di primaria importanza rivestito dalla giurisprudenza nell’evoluzione del diritto sindacale.
1.2 Carta Costituzionale
Tre sono le norme della nostra Costituzione aventi un ruolo determinante in materia di diritto sindacale: l’art. 39 sulla libertà sindacale; l’art. 40 sul diritto di sciopero; l’art. 41 sulla libertà di iniziativa economica.
L’art. 39 della Carta Costituzionale sancisce tre principi fondamentali:
a. la libertà sindacale, fondamento delle relazioni industriali;
b. la registrazione, presupposto del riconoscimento della personalità giuridica (presupposto a sua volta necessario per la capacità di stipulare contratti collettivi aventi efficacia erga omnes);
c. l’attribuzione di «capacità contrattuale» alle rappresentanze unitarie dei sindacati registrati, in proporzione dei loro iscritti.
La libertà sindacale sancita dall'art. 39 ha innanzitutto come destinatari le singole organizzazioni sindacali che, avendo la possibilità di autodeterminare il proprio ambito di operatività, possono articolarsi per categorie professionali o sulla base dei comparti determinati dalla contrattazione collettiva; le possibilità sono numerose, e si può anche arrivare ad ipotesi di sindacati c.d. «trasversali» (in altri Paesi europei chiamati general unions) capaci di organizzare al loro interno molteplici categorie di lavoratori.
La libertà sancita nel comma 1 della norma in esame si riferisce altresì ai singoli individui sotto un duplice punto di vista.
Si parla, infatti, di libertà sindacale positiva (cioè la facoltà riconosciuta ad ogni soggetto di costituire un sindacato, di potervi aderire, di raccogliere contributi per esso ecc.) e
negativa (cioè la libertà di non aderire a un sindacato o di recedere da esso in qualunque momento per qualsiasi ragione), in netto contrasto con le closed shop tipiche dei Paesi anglosassoni, in base alle quali per esempio l’assunzione in un'azienda è subordinata all’iscrizione ad un determinato sindacato.
Il comma 1 prevede altresì a favore dei soggetti sindacali una libertà c.d. di azione, cioè la libertà, soprattutto nell’ambito delle trattative contrattuali, di procedere a rivendicazioni, di fare proposte e di tenere tutti quei comportamenti considerati strumentali al raggiungimento dell’accordo nella più completa autonomia.
L’art. 40 attribuisce effettività e concretezza al principio di libertà dell’organizzazione sindacale contenuto nel già citato art. 39, comma 1: infatti, secondo alcuni Autori con l’art.
40 si è voluto realizzare un riequilibrio dei rapporti a livello di relazioni industriali, ridimensionando il divario sociale ed economico esistente tra i datori di lavoro e i singoli prestatori di lavoro attraverso il riconoscimento a favore di questi ultimi della facoltà di rivendicare i propri diritti attraverso lo sciopero.
La norma in esame prevede altresì un rinvio al legislatore ordinario che avrebbe dovuto emanare una legge volta a dare una disciplina adeguata al diritto di sciopero: in assenza di un siffatto intervento (l’unica legge in materia che preveda una disciplina compiuta è la 146/1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, novellata dalla legge 83/2000), la giurisprudenza le diede immediata precettività considerando il diritto di sciopero come un diritto pubblico soggettivo.
La «effettività» e intangibilità di tale diritto vennero ulteriormente rafforzate da successivi interventi legislativi che ne hanno indirettamente garantito l’esercizio, come ad esempio l’art. 4 della legge 604/1966, che sancisce la nullità del licenziamento intimato a causa della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali (comprensive, ovviamente, anche del diritto di sciopero).
Inoltre, lo Statuto dei lavoratori vieta qualsiasi forma di discriminazione compiuta ai danni del lavoratore sulla base della partecipazione ad uno sciopero (artt. 15 e 16) nonché qualsiasi comportamento del datore di lavoro volto ad impedire o limitare l’esercizio del diritto di sciopero (art. 28).
Infine, deve essere menzionato l'art. 41 della Costituzione, che sancisce la libertà dell’iniziativa economica privata.
Un problema fortemente dibattuto è quello della titolarità della libertà sindacale in capo agli imprenditori, atteso che, mentre l’attività sindacale dei lavoratori è necessariamente organizzata, quella dei datori di lavoro può essere svolta anche individualmente.
Sulla base di tale presupposto, una parte della dottrina ha cercato di ricondurre la libertà sindacale dei datori di lavoro nell’ambito della libertà di associazione (art. 18 Cost.) e di iniziativa economica (art. 41 Cost.).
In realtà, non sussistono motivi idonei ad escludere gli imprenditori dalla generale tutela prevista dall’art. 39 della Costituzione, il cui dettato sembra essere così ampio da ricomprendere al proprio interno anche l’attività sindacale svolta dagli imprenditori. Vero è, comunque, che le tutele più penetranti previste dal nostro ordinamento a favore dei soli lavoratori sono espressione del tentativo di ottenere l’eguaglianza sostanziale, prevista dal comma 2 dell’art. 3 Costituzione, tra l’imprenditore e i singoli lavoratori.
1.3 Ordinamento corporativo
In seguito all'instaurazione del regime fascista, con la legge n. 563/1926 venne sancito il monopolio delle organizzazioni sindacali fasciste, che mediante apposito decreto ottenevano personalità giuridica di diritto pubblico, diventando veri e propri enti ausiliari dello Stato, cui veniva attribuito il potere di concludere contratti collettivi con efficacia vincolante per tutti gli appartenenti alla medesima categoria, in quanto tali inderogabili da parte dei contratti individuali (salva la previsione di condizioni più favorevoli per il lavoratore).
In altre parole tali contratti collettivi avevano, nell’ambito della categoria di riferimento, efficacia pari a quella delle leggi.
Con il crollo del regime fascista e, conseguentemente, dell’ordinamento corporativo, i contratti collettivi esistenti furono «salvati» dal legislatore con l’art. 43 del D.Lgs.Lgt. 23 novembre 1944, n. 369, che, nell’abrogare l’ordinamento corporativo, mantenne in vigore tutti i contratti corporativi fino a quel momento stipulati, fatte naturalmente salve «le successive modifiche».
Quest’ultima disposizione fu successivamente interpretata in modo estensivo dalla giurisprudenza nel senso di «autorizzare» l’autonomia collettiva a derogare anche in peius i contenuti di tali contratti.
Si parlò, a tal proposito, di «ultrattività» dei contratti collettivi corporativi, atteso che essi rimanevano efficaci anche in presenza di nuovo contratto collettivo, ma solo per i lavoratori non iscritti ai sindacati firmatari del nuovo accordo.
Atteso il «ritorno» della contrattazione collettiva nel genus dei contratti di diritto comune, si decise di intervenire a livello costituzionale per garantire l’ormai perduta efficacia generale dei contratti collettivi corporativi.
A seguito di un acceso dibattito all’interno della Costituente, si arrivò alla redazione dell’art. 39 che, ai commi 2, 3 e 4, prevede la possibilità per i sindacati riconosciuti (all'unica condizione che «gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica»), riuniti in rappresentanze unitarie e con un «peso» differente in proporzione degli iscritti, di stipulare contratti collettivi con efficacia vincolante per tutti i lavoratori appartenenti alla categoria di riferimento.
È notorio che la norma non ha mai trovato concreta attuazione: a ciò contribuirono sia l’assenza di interventi legislativi finalizzati a specificare il contenuto dell’art. 39, sia – a livello sindacale – il pericolo percepito da molte organizzazioni sindacali che il procedimento di riconoscimento potesse determinare un'intrusione dello Stato negli affari interni delle organizzazioni medesime nonché il deciso rifiuto opposto dalla CISL alla attuazione della norma costituzionale.
1.4 Estensione erga omnes dei contratti collettivi
Preso atto dell’inattuabilità dell’art. 39 della Costituzione, il legislatore decise di intervenire con la legge 14 luglio 1959, n. 741 (c.d. legge Vigorelli), al fine di attribuire indirettamente efficacia erga omnes ai contratti collettivi stipulati anteriormente a tale data.
Infatti, il Governo venne delegato a emanare una serie di decreti legislativi, per definizione aventi efficacia vincolante per tutti i consociati, finalizzati a determinare le condizioni minime di lavoro per ogni settore industriale, uniformandosi alle clausole dei contratti collettivi esistenti.
In concreto il Governo, nell’emanare i decreti in esame, non operò alcuna particolare distinzione, recependo integralmente il contenuto dei contratti collettivi. Tale recezione appariva pertanto in netto contrasto con il disposto dell’art. 76 della Costituzione.
Le disposizioni contenute in tali decreti costituiscono tuttora fonti normative subordinate alla legge, ma sovraordinate rispetto alla contrattazione collettiva di diritto comune.
Nonostante l’eccezionalità del ricorso allo strumento del decreto legislativo e i dubbi che ne erano seguiti, il legislatore decise di procedere al rinnovo della delega con la legge 1° ottobre 1960, n. 1027.
Contro quest’ultimo provvedimento, tuttavia, intervenne la Corte Costituzionale con la sentenza del 19 dicembre 1962, n. 106, bloccando sul nascere la prassi delle proroghe: il Giudice delle leggi respinse i rilievi di incostituzionalità sollevati nei confronti della legge delega 741/1959 ma accolse l’eccezione di incostituzionalità relativa all’art. 1 della legge del 1960, che venne pertanto abrogato.
Conseguentemente i decreti emessi in attuazione di tale ultima legge furono dichiarati illegittimi, sì che numerose categorie professionali rimasero prive di una tutela contrattuale con efficacia generalizzata per tutti gli appartenenti alla categoria.
Ben presto i parametri retributivi contenuti nei decreti legislativi ed estesi erga omnes a tutti i lavoratori di una determinata categoria merceologica si rivelarono inadeguati allo sviluppo dell’economia del Paese, rendendo evidente la difformità tra le vecchie tariffe e il principio sancito dall’art. 36 Cost.
Su tale questione è successivamente intervenuta la giurisprudenza, che ha elaborato sostanzialmente tre linee guida sulla base delle quali risolvere il problema:
a) è compito del Giudice valutare la conformità con l’art. 36 Cost. delle clausole collettive recepite nei decreti;
b) l’inadeguatezza rileva automaticamente nel caso di nuova disciplina collettiva;
c) in caso di non conformità con i parametri dettati dall’art. 36, il Giudice ha il potere di disapplicare le clausole difformi, procedendo egli stesso alla determinazione della giusta retribuzione.
2. Natura del contratto collettivo
2.1 Natura, forma e contenuto del contratto collettivo; 2.2 Efficacia soggettiva; 2.3 Contrattazione collettiva e autonomia individuale; 2.4 Interpretazione del contratto collettivo; 2.5 Recesso
2.1 Natura, forma e contenuto del contratto collettivo
Con la caduta dell’ordinamento corporativo, i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e dai datori di lavoro rientrarono nell’area del diritto privato, trovando così la loro disciplina negli artt. 1321 e seguenti del codice civile.
Quale principale conseguenza di ciò, i contratti collettivi così stipulati hanno efficacia solo nei confronti dei lavoratori e dei datori di lavoro iscritti alle associazioni sindacali stipulanti o, comunque, dei soggetti che, pur non aderendo ad alcun sindacato, hanno fatto riferimento alla contrattazione collettiva attraverso un generale o specifico rinvio contenuto nel contratto individuale.
Quanto alla loro forma, in giurisprudenza si è ormai affermato il principio secondo cui deve escludersi che la forma scritta sia necessaria ad substantiam per la validità dei contratti collettivi, in virtù del principio generale della libertà di forma desumibile dall'art. 1350 c.c. – che indica espressamente, senza includervi i contratti collettivi, gli atti che devono farsi per iscritto a pena di nullità –, principio confermato dall'art. 39, c. 1, della Costituzione, che rimette alle contrapposte organizzazioni sindacali la libera formazione degli accordi e la scelta della forma relativa (Cass. 3 aprile 1993, n. 4030). Tuttavia, precisa la giurisprudenza, la forma scritta è necessaria per attribuire al contratto collettivo di diritto comune effetti ulteriori rispetto a quelli prodotti tra le parti. Si pensi all’inderogabilità della contrattazione collettiva o alle elaborazioni giurisprudenziali volte a estendere il campo di applicazione dei contratti collettivi di diritto comune: in entrambi i casi la forma scritta appare necessaria non per la validità del contratto tra le parti, ma per estenderne il contenuto oltre le parti medesime. Si pensi, ancora, a tutte le obbligazioni, contenute nella parte obbligatoria del contratto collettivo, dirette ai soggetti stipulanti, oppure agli organismi bilaterali costituiti per regolare i rapporti tra i soggetti sindacali medesimi.
Quanto al contenuto del contratto collettivo, si distingue la parte normativa da quella obbligatoria. In particolare, si definiscono clausole normative quelle destinate a regolare i rapporti individuali riconducibili al contratto e clausole obbligatorie quelle che disciplinano esclusivamente i rapporti tra le associazioni sindacali partecipanti alla stipulazione dei contratti medesimi, creando obblighi e diritti per le parti stipulanti e non per i singoli lavoratori.
La parte normativa (che comprende anche la parte economica relativa alla determinazione della retribuzione dei lavoratori) pone le basi, determina i contenuti e fissa le condizioni cui le parti dovranno attenersi nella futura attività contrattuale, di fatto predeterminando le clausole che andranno inserite nei singoli contratti individuali di lavoro, soprattutto con riferimento ai minimi retributivi.
Le clausole obbligatorie, finalizzate ad instaurare rapporti obbligatori direttamente a carico dei soggetti collettivi stipulanti e non delle parti del rapporto individuale, mirano a disciplinare la durata, le modalità di disdetta e di rinnovo del contratto collettivo, nonché le attività di interpretazione ed esecuzione del contratto medesimo.
Inoltre, sempre nella parte obbligatoria si collocano le clausole c.d. di tregua sindacale, aventi lo scopo di garantire una pax sindacale nella fase delle trattative precedenti
l'approvazione del nuovo contratto, e tutte quelle clausole finalizzate a tutelare gli organi sindacali per garantirne la funzione e facilitarne i compiti.
Rientrano altresì in tale categoria le clausole che programmano la futura produzione negoziale, regolamentano il funzionamento degli organi di conciliazione e di arbitrato e contemplano e disciplinano i diritti di informazione sindacale.
2.2 Efficacia soggettiva
Il contratto collettivo di diritto comune, in quanto soggetto alle regole privatistiche (artt. 1321 e ss. c.c.), esplica i suoi effetti solo nei confronti dei soggetti iscritti alle associazioni sindacali stipulanti.
Preso atto del limitato ambito di efficacia dei singoli contratti collettivi, la giurisprudenza è intervenuta a più riprese nel tentativo di estenderne la portata anche nei confronti dei soggetti non affiliati ad alcuna organizzazione sindacale, statuendo ad esempio, con un orientamento datato ed ormai superato, che il datore di lavoro aderente all'associazione sindacale firmataria di un contratto collettivo fosse tenuto ad applicarlo indistintamente a tutti i propri dipendenti, anche se non iscritti.
Risulta ben più frequente l'ipotesi che il datore di lavoro, pur non essendo affiliato ad alcuna organizzazione sindacale, decida di applicare i trattamenti previsti dalla contrattazione collettiva o implicitamente per facta concludentia o per mezzo di una manifestazione esplicita di volontà, mediante un rinvio espresso alla disciplina collettiva contenuto nel contratto individuale. La recezione esplicita del contratto collettivo può essere formale – qualora le parti facciano riferimento al contratto collettivo vigente per una determinata categoria, comprensivo, quindi, di tutte le modifiche e le stipulazioni contrattuali successive –, oppure materiale, nel caso in cui le parti richiamino specificamente un determinato contratto collettivo senza comprendere le eventuali e successive modifiche al contenuto dello stesso.
Tra le elaborazioni giurisprudenziali dirette ad estendere l'efficacia della contrattazione collettiva una soluzione interessante è quella fondata sul combinato disposto dell'art. 36 della Costituzione, che fissa il concetto di retribuzione minima sufficiente, e dell’art. 2099, comma 2, c.c., in base al quale «in mancanza di norme corporative o di accordo tra le parti la retribuzione è determinata dal Giudice…». Su queste premesse la giurisprudenza, in virtù dell'immediata precettività dell’art. 36 Cost. e utilizzando i minimi tariffari contenuti nei contratti collettivi come parametri su cui verificare la conformità del trattamento economico fissato nei contratti individuali, ha dichiarato la nullità dei trattamenti individuali eventualmente inferiori a tali minimi. Equiparando, poi, tale nullità all'assenza di accordo tra le parti, si è ritenuto direttamente applicabile l'art. 2099 c.c., consentendo in tal modo ai giudici, chiamati a determinare la retribuzione, un intervento equitativo che si è sostanziato nel richiamare e dare concreta applicazione ai minimi retributivi contenuti nei contratti collettivi anche se non direttamente applicabili a quei rapporti di lavoro.
L'estensione dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi di lavoro è stata recentemente oggetto di due importanti interventi.
In primo luogo, l'Accordo Interconfederale sottoscritto il 28 giugno 2011 sancisce l'efficacia erga omnes degli accordi collettivi di livello aziendale se approvati dalla maggioranza dei componenti delle RSU elette secondo le regole interconfederali vigenti. In presenza, invece, di rappresentanze sindacali aziendali, l'Accordo Interconfederale stabilisce all'articolo 5 le condizioni alle quali è subordinata l'efficacia generalizzata degli accordi aziendali.
L'art. 8 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148, attribuisce alle associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero alle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda il potere di sottoscrivere contratti collettivi – anche in deroga alle disposizioni di legge e di quelle contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro – aventi efficacia erga omnes, a condizione di essere sottoscritti sulla base di un criterio maggioritario relativo alle citate rappresentanze sindacali. Tali contratti collettivi possono riguardare materie «inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione», ivi comprese anche «le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro», fatta eccezione per talune ipotesi tassativamente previste (licenziamento discriminatorio, in concomitanza di matrimonio, in caso di adozione o affidamento, ecc.). Unico limite previsto è il rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro.
2.3 Contrattazione collettiva e autonomia individuale
Nel nostro ordinamento vige il principio generale della inderogabilità in pejus del contratto collettivo da parte dei contratti individuali. Nell’ordinamento corporativo tale inderogabilità era sancita dall’art. 2077 c.c., che prevede la sostituzione di diritto delle clausole difformi contenute nei contratti individuali con quelle del contratto collettivo, salvo che le prime prevedano un trattamento più favorevole per il lavoratore.
La mancanza di una disposizione analoga per la contrattazione collettiva di diritto comune ha determinato un ampio dibattito tanto dottrinale quanto giurisprudenziale. Le soluzioni proposte sono state numerose, ma la teoria più convincente si basa sul disposto del vigente art. 2113 c.c., secondo cui «le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 cod. proc. civ., non sono valide». Sulla base di questa disposizione si è sostenuto in dottrina che le clausole del contratto collettivo che non sono espressamente dichiarate derogabili concorrono a determinare la disciplina dei rapporti di lavoro individuali al pari delle disposizioni legislative.
Per quanto concerne la possibilità pacificamente ammessa di derogare in melius il contratto collettivo, il criterio elaborato dalla giurisprudenza maggioritaria è quello dell'assorbimento (o conglobamento), il quale prevede che per la determinazione del trattamento più favorevole devono mettersi a confronto non le singole clausole contrattuali ma i trattamenti complessivamente previsti a favore del lavoratore.
2.4 Interpretazione del contratto collettivo
Atteso l'assoluto silenzio legislativo al riguardo, la soluzione pressoché concordemente condivisa dalla giurisprudenza è quella secondo cui l'interpretazione del contratto collettivo deve essere condotta applicando i criteri ermeneutici dettati in generale dagli articoli 1362 e seguenti del codice civile per l’interpretazione del contratto di diritto comune.
Tuttavia, occorre sottolineare come nell'interpretazione del contratto collettivo il criterio prioritario sia quello letterale delle espressioni utilizzate dai contraenti, con la conseguenza che «quando esso risulti univoco non è consentito il ricorso a ulteriori criteri interpretativi i quali esplicano soltanto una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui una clausola si presti a diverse e contrastanti interpretazioni» (Cass. 21 febbraio 2008, n. 4502).
La giurisprudenza ha altresì precisato che nell’interpretazione dei contratti collettivi di lavoro non può ricorrersi all’analogia. Ciò non impedisce, peraltro, che nel procedimento ermeneutico si possa utilizzare il canone dell’interpretazione estensiva.
Infine, appare opportuno ricordare come il giudice, al fine di pervenire a una corretta interpretazione del contratto collettivo, nell’esercizio dei poteri istruttori attribuiti dall’art.
421 c.p.c. possa disporre d’ufficio in qualsiasi momento la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali. In una delle poche occasioni in cui la Suprema Corte si è espressamente pronunciata sul valore di tali informazioni in relazione all'interpretazione del contratto collettivo, è stato evidenziato che «le informazioni e le osservazioni dei rappresentanti delle associazioni sindacali (art. 425 cod. proc. civ.) sono utili per la ricostruzione dello svolgimento della vicenda contrattuale e, in particolare, per la determinazione dell’oggetto dibattuto fra le parti e della posizione da queste assunta nel corso delle trattative» (Xxxx. 12 febbraio 1985, n. 1197).
2.5 Recesso
Per quanto riguarda il recesso dal contratto collettivo, in dottrina è stato osservato che l'applicazione tout court dei principi mutuati dalla disciplina dei contratti in generale di cui all'art. 1373 c.c. pone alcune problematiche di carattere giuridico.
In particolare, mentre il recesso come istituto generale di diritto comune ha la funzione di estinguere gli effetti giuridici del contratto, nell’ambito del diritto sindacale la finalità dell’istituto è differente: infatti, il recesso ha la funzione non di estinguere il pregresso rapporto giuridico bensì piuttosto quella di intervenire sulla vigente disciplina contrattuale al fine di modificarla.
Di conseguenza, il recesso da un contratto collettivo non è un atto che assume una propria autonoma funzione, ma è inserito in una fattispecie procedimentale modificativa a formazione progressiva. Infatti, nonostante il contratto collettivo sia efficace nel solo lasso temporale previsto dalle parti, esso mantiene comunque un effetto giuridico anche successivamente alla scadenza, in considerazione del fatto che i valori retributivi ivi indicati costituiscono parametro di applicazione dell’art. 36 della Costituzione. Pertanto, la funzione del recesso nell'ordinamento sindacale è normalmente quella di avviare la procedura per concludere un nuovo contratto che sostituisca la precedente disciplina pattizia, la quale però medio tempore conserva, sia pure indirettamente, efficacia limitatamente alla parte retributiva.
La titolarità del potere di recesso spetta a ognuna delle parti che hanno stipulato il contratto, ovvero alle associazioni sindacali e alle organizzazioni dei datori di lavoro nel caso della contrattazione collettiva di livello nazionale e territoriale, e al singolo datore di lavoro e alla controparte contrattuale nel caso del contratto aziendale. Per ciò che concerne invece la forma del recesso, la dottrina ha posto in evidenza come all'atto di recesso debba ritenersi applicabile il principio generale della libertà di forma, ferma restando la natura recettizia di tale atto, che per essere efficace deve essere quindi portato a conoscenza della parte nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetto.
Nel comunicare il recesso, la parte recedente non ha alcun obbligo di indicare le motivazioni: infatti, i motivi che hanno condotto uno dei soggetti stipulanti ad assumere la decisione di estinguere il rapporto contrattuale non sono suscettibili di alcun vaglio, nemmeno da parte dell’autorità giudiziaria. Tuttavia, l’eventuale recesso che integri gli estremi della condotta antisindacale ben può essere rimosso con lo speciale procedimento previsto dall’art. 28 della legge 300/1970.
La problematica dell’ammissibilità del recesso da un contratto collettivo di diritto comune assume differenti connotati a seconda che si tratti di un contratto a tempo determinato oppure di un contratto a tempo indeterminato.
Nella vigenza dell’ordinamento corporativo l’art. 2071 c.c. stabiliva i requisiti essenziali del contratto collettivo tra i quali vi era, appunto, la durata. Tuttavia tale norma, come del resto tutte quelle che riguardano i contratti collettivi di diritto corporativo, è stata ritenuta inapplicabile ai contratti collettivi di diritto comune, i quali possono essere pertanto stipulati sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Peraltro, con il protocollo tra Governo e CGIL, CISL e UIL sul costo del lavoro del 23 luglio 1993 è stato stabilito che «il CCNL ha durata quadriennale per la materia normativa e biennale per la materia retributiva». Successivamente, l'Accordo Interconfederale del 15 aprile 2009 (per l'attuazione dell'accordo-quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009) stipulato tra Confindustria, CISL e UIL – senza la partecipazione della CGIL – ha previsto che il contratto collettivo nazionale di lavoro ha «durata triennale tanto per la parte economica che normativa».
La fattispecie di gran lunga prevalente è quella dei contratti collettivi a tempo determinato, relativamente alla quale la dottrina, in modo pressoché unanime, ha negato la possibilità per le parti stipulanti di recederne ante tempus. Pertanto, nel caso di tale tipologia di contratti collettivi l’unica ipotesi nella quale deve ritenersi ammissibile il recesso è quella in cui le parti abbiano espressamente previsto in via convenzionale siffatta possibilità.
Per quanto riguarda gli accordi collettivi a tempo indeterminato, la tesi maggiormente condivisa in dottrina e in giurisprudenza è quella della libera recedibilità, attesa l'impossibilità di ipotizzare nel nostro ordinamento vincoli contrattuali perpetui (Cass. 10 novembre 2000, n. 14613). In giurisprudenza si è comunque affermato che la parte che intende recedere da un contratto collettivo è tenuta a dare un congruo preavviso all'altra parte.
3. Organizzazione Sindacale
3.1 Nozione; 3.2 Disciplina giuridica delle organizzazioni sindacali; 3.3 Modalità di finanziamento; 3.4 Rapporti interni; 3.5 Sindacato maggiormente rappresentativo e relativa attività; 3.6 Modelli organizzativi dei sindacati
3.1 Nozione
L’art. 39 Cost. sancisce la libertà di organizzazione sindacale, la cui nozione è frutto di elaborazioni da parte della dottrina che ha individuato una serie di criteri.
In base al criterio strutturale la fattispecie sindacale, in quanto organizzazione, presuppone un’aggregazione di soggetti, non essendo comunque necessario che l'organizzazione stessa assuma la forma associativa.
Secondo il diverso criterio funzionale-teleologico, può definirsi sindacale un atto o un’attività diretta all’autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro.
Il criterio soggettivo stabilisce che i soggetti che svolgono attività sindacale devono essere investiti del potere di rappresentanza «direttamente» dai lavoratori o dai datori di lavoro in quanto tali.
Infine, in base al criterio strumentale, le organizzazioni sindacali si distinguono dai partiti politici non solo per le finalità perseguite ma anche per gli strumenti di lotta utilizzati, economici i primi e politici i secondi.
3.2 Disciplina giuridica delle organizzazioni sindacali
La mancata attuazione dell’art. 39, comma 2, Cost. ha comportato due conseguenze sulla qualificazione e sulla disciplina delle organizzazioni sindacali sia dei lavoratori sia dei datori di lavoro:
1) accentuazione della natura privatistica;
2) appartenenza al genere «associazioni non riconosciute», fatta eccezione per le strutture aziendali, Commissioni interne e Consigli di fabbrica, organismi elettivi su base non associativa.
Dalla natura privatistica del sindacato consegue che sia la disciplina del sindacato inteso come organizzazione quanto la disciplina dell’attività, in particolare la contrattazione, siano sorrette dai principi civilistici dettati per le associazioni non riconosciute dagli artt. 36, 37 e 38 c.c.
3.3 Modalità di finanziamento
L’art. 26, commi 2 e 3, Stat. Lav., antecedentemente al referendum indetto con d.p.r. 5 aprile 1995, xxxxxxx un vero e proprio diritto del sindacato nei confronti del datore di lavoro a che quest’ultimo operasse la ritenuta richiesta dal lavoratore.
Sebbene tali disposizioni siano state abrogate, vi sono analoghe disposizioni contrattuali in quasi tutti i contratti collettivi.
E' sorto, invece, un contrasto interpretativo con riguardo alla disciplina applicabile nelle ipotesi in cui l’associazione sindacale beneficiaria della delega del lavoratore non sia firmataria di alcun contratto collettivo che disciplini tale materia.
A dirimere la querelle sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 21 dicembre 2005, n. 28269, secondo cui è illegittimo il rifiuto del datore di lavoro di effettuare la trattenuta, essendo la fattispecie riconducibile alla figura giuridica della cessione del credito. Sempre secondo tale orientamento, ormai prevalente, il rifiuto del datore di lavoro integra altresì un’ipotesi di condotta antisindacale, in quanto pregiudica il diritto del sindacato di acquisire dai propri aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività, a meno che il datore di lavoro non dimostri che la cessione comporta in concreto, a suo carico, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto all’organizzazione aziendale, e perciò inammissibile ex artt. 1374 e 1375 c.c.
Un’ulteriore fonte di finanziamento dei sindacati, di natura tipicamente contrattuale, è la
«quota servizio», costituita dai contributi versati dai lavoratori a fronte dell’azione svolta dal sindacato.
3.4 Rapporti interni
Atteso che l’art. 36 c.c. consacra il principio di autonomia organizzativa, in dottrina si è affrontato il problema dei rapporti interni al sindacato.
La dottrina è concorde nel ritenere che il principio della democraticità interna del sindacato richiesta dall’art. 39 Cost. come condizione per la registrazione debba ritenersi vigente anche per i sindacati di fatto.
Dal principio di democraticità deriva, altresì, il carattere elettivo delle cariche sociali ed il principio di maggioranza.
Inoltre, le decisioni generali per la vita dell’associazione sono di competenza dell’organo assembleare, e la disciplina del rapporto sociale è contenuta negli statuti delle organizzazioni sindacali.
3.5 Sindacato maggiormente rappresentativo e relativa attività
Numerose norme legislative prevedono la partecipazione del sindacato in funzioni statali, di carattere legislativo, amministrativo o giudiziario.
Si può ricordare la partecipazione sindacale alla composizione ed all’attività del CNEL, prevista dall’art. 99 Cost.
Il sindacato espleta inoltre alcune funzioni di carattere legislativo:
a) poteri di integrazione della disciplina legale (ad esempio in materia di contratti di solidarietà, somministrazione di lavoro, lavoro intermittente e contratto di inserimento);
b) poteri di xxxxxx in peius a precetti di legge, eventualmente con la mediazione di organi amministrativi (si veda l'art. 4, comma 11, legge 223/1991, in materia di licenziamenti collettivi).
Tra le forme di partecipazione del sindacato all’attività amministrativa e giudiziaria si menzionano:
a) partecipazione al collocamento pubblico e alla gestione in senso più generale del mercato del lavoro;
b) partecipazione negli organismi istituzionali degli enti previdenziali;
c) partecipazione alle politiche di formazione professionale;
d) partecipazione al procedimento amministrativo di concessione dell’integrazione salariale ordinaria;
e) partecipazione ad organismi di composizione delle controversie di lavoro.
Il sindacato, inoltre, influenza in modo significativo sia l’attività legislativa sia gli indirizzi di politica economica.
Basti citare le leggi c.d. «contrattate» di recezione del contenuto di accordi stipulati fra le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, come l’accordo del 26 gennaio 1977 sul costo del lavoro e quello del 23 luglio 1993 che ha suggerito la riforma del contratto di formazione e lavoro.
Per quanto concerne l’attività di indirizzo di politica generale del governo, si ricordi a titolo esemplificativo l’accordo del 22 gennaio 1983 sul costo del lavoro, ove il governo è intervenuto accanto ai sindacati al fine di perseguire l’obiettivo del contenimento dell’inflazione entro limiti prefissati.
3.6 Modelli organizzativi dei sindacati
Dal principio di libertà dell’organizzazione sindacale sancito dall’art. 39 Cost. deriva altresì che il sindacato possa liberamente scegliere in quale ambito operare.
I modelli attraverso i quali il sindacato si è di norma organizzato sono il sindacalismo di mestiere (che ha avuto scarsa fortuna nel nostro Paese, fatta eccezione per il periodo corporativo) e quello d’industria, modello attualmente predominante in base al quale il sindacato raggruppa tutti i lavoratori che prestano la propria attività all’interno di una determinata industria a prescindere dalla natura dell’attività svolta, e quindi dal semplice operaio al quadro.
4. Soggetti sindacali
4.1 Maggiore rappresentatività e sindacato comparativamente più rappresentativo; 4.2 CGIL – CISL – UIL; 4.3 Sindacalismo autonomo; 4.4 Struttura organizzativa delle organizzazioni sindacali; 4.5 Organizzazioni dei lavoratori nei luoghi di lavoro; 4.6 Sindacalismo di mestiere; 4.7 Organizzazioni sindacali internazionali; 4.8 Imprenditori e organizzazione sindacale
4.1 Maggiore rappresentatività e sindacato comparativamente più rappresentativo
Non è possibile individuare nel nostro ordinamento una nozione unitaria di maggiore rappresentatività dovendo ricorrere alla nozione di volta in volta fornita dal Legislatore.
Su tale nozione il dibattito giurisprudenziale si è svolto soprattutto con riferimento all’art. 19 Stat. Lav. nella formulazione antecedente al referendum abrogativo del luglio 1995.
Secondo l’orientamento della Suprema Corte la nozione di maggiore rappresentatività deve essere ricostruita alla luce dei seguenti indici:
a) consistenza numerica del sindacato;
b) equilibrata consistenza associativa in tutto l’arco delle categorie;
c) significativa presenza territoriale distribuita sul territorio nazionale;
d) partecipazione a trattative sindacali e alla stipulazione di contratti collettivi.
A partire dalla metà degli anni '90 il Legislatore ha individuato quali soggetti designati alla rappresentanza dei lavoratori i sindacati «comparativamente più rappresentativi» anziché quelli «maggiormente rappresentativi».
II ricorso alla nozione di sindacato comparativamente più rappresentativo è oggi pressoché costante.
Occorre peraltro segnalare come il legislatore delegato con il D.Lgs. 276/2003 abbia significativamente modificato la tecnica in precedenza utilizzata per selezionare i soggetti sindacali.
Infatti, pur restando immutato il rinvio ai sindacati comparativamente più rappresentativi, è stata introdotta per la prima volta l'espressione «contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro» in luogo di quella «contratti collettivi stipulati dalle associazioni dei datori e prestatori di lavoro», e ciò con l'evidente finalità di attribuire legittimità agli accordi che siano stati sottoscritti non da tutte le organizzazioni sindacali "comparativamente più rappresentative" ma soltanto da una o alcune di esse.
Quanto alla nozione, la dottrina più accreditata ritiene che ai fini dell'individuazione del sindacato comparativamente più rappresentativo occorra rifarsi agli stessi indici tradizionalmente elaborati per i sindacati maggiormente rappresentativi (consistenza numerica, diffusione sul territorio nazionale, partecipazione effettiva alla dinamica delle relazioni industriali).
Si segnala, tuttavia, che il criterio della presenza sull'intero territorio nazionale deve considerarsi ormai superato dalla legislazione vigente, che in più norme (come nell'art. 8, comma 1, della legge 148/2011) ha inserito il riferimento alle associazioni comparativamente più rappresentative nel più ristretto ambito territoriale.
4.2 CGIL - CISL - UIL
Le più importanti confederazioni dei lavoratori sono la CGIL, la CISL e la UIL, pacificamente considerate come maggiormente rappresentative, nate dalla scissione avvenuta nel 1948 della CGIL unitaria.
Le tre Confederazioni hanno stipulato il 3 luglio 1972 un patto federativo con il quale prevedevano di costituire, in via transitoria, una «federazione tra le confederazioni, articolata ai vari livelli, con prerogative articolate e organi propri, ferma restando la piena sovranità di ogni confederazione per le materie non delegate».
A partire dal 1975 si verificarono tuttavia una serie di contrasti all'interno di tale fenomeno organizzativo, contrasti culminati nello scioglimento della Federazione nel 1984. Nel 1991 le tre Confederazioni hanno sentito nuovamente la necessità di stipulare un protocollo di intesa ispirato ad una «visione di rinnovata unita d'azione». Tale protocollo veniva poi trasfuso, con alcune modifiche, nell'Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993, finalizzato ad istituire le rappresentanze sindacali unitarie, ove si ribadisce la volontà di procedere all'elaborazione delle piattaforme rivendicative, conduzione dei negoziati, stipula di contratti ed accordi, proclamazione di scioperi e organizzazione delle altre forme di lotta) in maniera unitaria.
E' notorio come negli ultimi anni si stia nuovamente assistendo ad un periodo di frattura tra le 3 citate Confederazioni, peraltro talvolta temporaneamente superato da interventi di carattere unitario (si pensi in particolare alla sottoscrizione dell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011.
4.3 Sindacalismo autonomo
In Italia il sindacalismo autonomo ha sempre avuto un'importanza limitata quasi esclusivamente al settore ma pubblico, sebbene caratterizzata da una particolare efficacia nell'azione.
I sindacati autonomi si configurano perlopiù come sindacati di mestiere o professionali, anche se progressivamente si sono riuniti in organizzazioni di settore e in forma confederale, tra i quali si ricordano la CISAL, la CONFSAL e lo SNALS nel settore della scuola, la CISAS nel settore dei servizi, ANPAC, ATV e ANPAV nel trasporto aereo, la ANAAO nel settore sanitario e la FABI nel settore bancario.
4.4 Struttura organizzativa delle organizzazioni sindacali
La struttura sindacale si basa su una duplice linea organizzativa: una cd. verticale (che raggruppa i lavoratori o le imprese in base alla categoria produttiva di appartenenza, con compiti di conduzione dell'attività sindacale) ed una c.d. orizzontale (che comprende tutti i lavoratori e le imprese (nonché gli organismi verticali) dei vari settori merceologici presenti in un determinato territorio).
Con riferimento alle strutture sindacali dei lavoratori si possono distinguere:
1) strutture presenti nei luoghi di lavoro: inizialmente erano presenti le Commissioni di lavoro, progressivamente sostituite dalle RSA e dalle RSU;
2) strutture territoriali a livello di zona: comprendono tutti i consigli dei delegati;
3) strutture territoriali a livello comprensoriale o provinciale;
4) strutture sindacali regionali, normalmente compiti di organizzazione, di coordinamento e di collegamento: comprendono sia le organizzazioni verticali di categoria che le organizzazioni orizzontali intercategoriali;
5) strutture sindacali nazionali, formate dalle federazioni nazionali di categoria - che raggruppano le federazioni provinciali e regionali della medesima categoria - e dalla Confederazione, che costituisce l'apice sia della struttura verticale di categoria sia della struttura orizzontale intercategoriale.
4.5 Organizzazioni dei lavoratori nei luoghi di lavoro
Le commissioni interne – costituite su base elettiva e non associativa – sono sorte in seguito ad un accordo stipulato nel 1906 tra la FIOM (Federazione italiana operai metalmeccanici) e la FIAT.
I loro compiti principali erano di concorrere a mantenere normali rapporti tra i lavoratori e la direzione dell'azienda per il regolare svolgimento dell'attività produttiva; di vigilare sull'applicazione della disciplina legislativa di tutela e contrattuale in azienda, esperendo anche tentativi di conciliazione in prima istanza delle controversie giuridiche di lavoro; di esprimere parere preventivo non vincolante sul regolamento interno d'azienda; di contribuire alla elaborazione degli statuti e dei regolamenti delle istituzioni interne sociali e vigilare sul loro funzionamento.
A partire dagli anni 1970 le commissioni interne sono state di fatto sostituite dai consigli di fabbrica.
L'adozione del sistema di contrattazione articolata ha comportato la necessità per il sindacato di istituire una forma di rappresentanza diretta in azienda: da questa esigenza nascono le sezioni sindacali aziendali, che si presentano come organismi di tipo associativo e non rappresentativi di tutti i lavoratori dell'impresa.
Tali organismi non hanno avuto larga diffusione anche perché non erano riconosciute come strutture dotate di pieni poteri sindacali, soprattutto per quanto riguarda il potere di condurre la contrattazione articolata che era mantenuta in capo ai sindacati territoriali provinciali.
Quanto ai delegati di fabbrica, essi sono eletti in modo unitario da un gruppo ristretto di lavoratori (reparto, ufficio), di solito collocato nella stessa condizione produttiva, ed il loro insieme costituisce il Consiglio di fabbrica.
Con il patto federativo del 1972 i Consigli di fabbrica venivano riconosciuti come istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro, alla cui formazione concorrono in primo luogo gli iscritti alle tre Confederazioni e i lavoratori non iscritti che, su iniziativa delle stesse, per loro libera iniziativa intendono parteciparvi.
Al fine di garantire la rappresentanza delle forze sindacali, le tre confederazioni avevano a loro volta previsto un modello elettorale secondo il quale alcuni membri del Consiglio di fabbrica venivano eletti direttamente da parte dei sindacati provinciali oppure venivano adottati aggregati elettorali più ampi del gruppo omogeneo al fine di eleggere un numero di delegati superiore all'unità e permettere un pluralismo rappresentativo fra le confederazioni.
Nella generalità dei casi il Consiglio dei delegati, per espressa previsione dei contratti collettivi che si sono succeduti nel tempo, viene identificato con le RSA di cui all'art. 19 dello Statuto dei lavoratori e quindi gode o ha goduto dei privilegi previsti dal titolo III della stessa legge.
Tale disposizione statutaria stabilisce i requisiti per la costituzione delle RSA («Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell'ambito: b) delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell'unita produttiva. Nell'ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento») allo scopo di individuare i soggetti titolari dei diritti sindacali di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori.
La norma non identifica un modello organizzativo definito né la procedura di costituzione delle RSA, che sono rimesse alle regole che i soggetti autonomamente si pongono nell'esercizio della libertà loro riconosciuta dall'art. 39, comma 1, Costituzione, e dall'art. 14 Stat. Lav.
Quanto alla natura giuridica delle RSA, esse sono configurate quale organo periferico dell'associazione sindacale nell'ambito della quale è stata costituita, che rimane libera di determinare la struttura nonché i criteri di sce1ta-elezione dei componenti dell'organo stesso.
Le RSU sono state istituite con l'Accordo Interconfederale del 20 dicembre1993, il cui art.
2 prevede in particolare che «al fine di assicurare il necessario raccordo tra le organizzazioni stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari delle deleghe assegnate dai contratti medesimi la composizione delle rappresentanze deriva per 2/3 da elezione da parte di tutti i lavoratori e per 1/3 da designazione o elezione da parte delle organizzazioni stipulanti il CCNL,che hanno presentato liste, in proporzione ai voti ottenuti ... ».
La differenza delle RSU rispetto alle RSA è proprio l'unitarietà della rappresentanza con il ritorno al sistema elettivo od elettorato attivo e passivo riconosciuto a tutti i lavoratori a prescindere dalla loro affiliazione.
Peraltro i sindacati esterni, in particolare le XX.XX. firmatarie dell'A.I. del 1993, hanno mantenuto il monopolio della presentazione delle liste nonché il diritto all'attribuzione di un terzo dei seggi a prescindere dal risultato elettorale.
4.6 Sindacalismo di mestiere
Il sindacato di mestiere (che nel nostro Paese ha avuto una scarsa diffusione, fatta eccezione per il periodo corporativo) è la prima forma di organizzazione nei Paesi di più antica industrializzazione.
Secondo tale forma organizzativa, il sindacato associa tutti coloro che professionalmente svolgono una determinata attività (falegnami, carpentieri, saldatori ecc.) a prescindere dal tipo di industria.
Le forme residuali di sindacalismo di mestiere sono oggi rappresentate dalle associazioni sindacali degli agenti, dei dirigenti e dei quadri, la cui rappresentanza sindacale autonoma è sorta con l'introduzione della relativa categoria ad opera della legge 190/1985.
V'è comunque da precisare che il sindacalismo dei quadri, a differenza di quello dei dirigenti, riveste attualmente una scarsa rilevanza in considerazione del fatto che spesso la relativa disciplina è contenuta nella contrattazione collettiva prevista per gli impiegati e per gli operai.
4.7 Organizzazioni sindacali internazionali
Le maggiori confederazioni sindacali italiane aderiscono a organizzazioni sindacali di carattere internazionale, tra le quali vanno ricordate la Federazione sindacale mondiale (FSM), la Confederazione internazionale dei sindacati liberi (CISL) e la Confederazione mondiale del Lavoro (CMT) che nasce da una trasformazione in senso aconfessionale della confederazione internazionale dei sindacati cristiani.
I Comitati Aziendali Europei sono stati istituiti con la Direttiva del Consiglio dell'Unione europea del 22 settembre 1994, n. 45 (abrogata in data 6 giugno 2011 dall'entrata in vigore della nuova Direttiva 2009/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 maggio 2009), inizialmente «recepita» nell'Accordo Interconfederale del 27 novembre 1996 stipulato tra Confindustria, Assicredito, CGIL, CISL e UIL, e poi attuata dal D.Lgs. 2 aprile 2002, n. 74, che riproduce pressoché integralmente le definizioni e le procedure contenute nella citata Direttiva del 1994.
Con particolare riferimento alla delegazione speciale di negoziazione, il D.Lgs. 74/2002 stabilisce che «i membri della delegazione sono designati dalle organizzazioni sindacali di cui all'articolo 5, comma 1» (ovvero quelle «che abbiano stipulato il contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell'impresa o nel gruppo di imprese interessate»)
«congiuntamente con le rappresentanze sindacali unitarie dell'impresa o del gruppo di imprese.
Ove in uno stabilimento o in un'impresa manchi una preesistente forma di rappresentanza sindacale le organizzazioni sindacali di cui all'articolo 5, comma 1, convengono con 1a direzione aziendale le modalità di concorso dei lavoratori di detto stabilimento o detta impresa alla designazione dei rappresentanti della delegazione» (art. 6).
L'art. 7 stabilisce invece la composizione della delegazione speciale di negoziazione.
Qualora le parti non raggiungano l'accordo per l'istituzione del Comitato Aziendale Europeo ovvero di una procedura per l'informazione e la consultazione dei lavoratori, l'art.
16 prevede che nell'impresa o nel gruppo di imprese di dimensioni comunitarie sia comunque istituito un CAE, la cui composizione e le cui competenze sono regolate legislativamente da tale norma.
È interessante sottolineare che «i membri della delegazione speciale di negoziazione, dipendenti dall'impresa o dal gruppo di imprese di dimensioni comunitarie, i membri del CAE, nonché i rappresentanti dei lavoratori che operano nell'ambito della procedura per l'informazione e la consultazione, hanno diritto, se dipendenti dalla sede italiana, per l'espletamento del loro mandato, a permessi retribuiti, in misura non inferiore a otto ore trimestrali, consensualmente assorbibili fino a concorrenza in caso di accordi che abbiano stabilito condizioni di miglior favore rispetto a quanta previsto dalla legge vigente. Agli stessi si applicano altresì le disposizioni contenute negli articoli 22 e 24 della legge 20 maggio 1970, n. 300» in materia di trasferimento e di permessi non retribuiti (art. 13).
Valga aggiungere che ad oggi il nostro Legislatore non ha ancora dato attuazione alla nuova Direttiva 2009/38/CE.
4.8 Imprenditori e organizzazione sindacale
L'organizzazione sindacale dei datori di lavoro nasce come fenomeno di risposta rispetto all'organizzazione sindacale dei lavoratori, fermo restando che i datori di lavoro possono essere soggetti sindacali anche come singoli (per esempio possono stipulare, senza che sia necessaria l'assistenza dell'associazione sindacale di appartenenza, contratti collettivi aziendali).
Anche le organizzazioni sindacali imprenditoriali si articolano in strutture verticali ed in strutture orizzontali, al cui vertice ci sono le Confederazioni, suddivise per settori economici: la Confindustria e la CONFAPI organizzano gli imprenditori industriali rispettivamente della grande e piccola-media industria; la Confcommercio organizza gli imprenditori del commercio e la Confagricoltura quelli dell'agricoltura.
Si segnala inoltre la Federazione fra le Organizzazioni nazionali per le imprese del terziario innovativo che raggruppano le imprese che forniscono servizi ad alto contenuto intellettuale (consulenza, engineering ecc.).
Nel settore dell'agricoltura operano inoltre la Coldiretti e la Confederazione italiana coltivatori.
Le organizzazioni imprenditoriali svolgono non solo funzioni di rappresentanza sindacale ma anche compiti di servizio e di assistenza in problemi tecnici.
In ambito internazionale gli imprenditori sono rappresentati dall'Organisation Internationale des Employeurs (OlE).
Per quanto riguarda l'ambito europeo si segnala l'Unione delle industrie della Comunità europea (UNICE), con sede a Bruxelles, la quale raggruppa le organizzazioni imprenditoriali dei Paesi membri per settori di attività.
5. Contrattazione collettiva di pari livello
5.1 Modificabilità in peius e diritti quesiti; 5.2 Efficacia temporale
Sebbene il contratto collettivo sia un contratto di diritto comune, disciplinato dalle relative norme del codice civile, non può essere dimenticata la sua precipua funzione normativa, cioè di regolare una serie indefinita di rapporti di lavoro individuale. Ciò porta il contratto stipulato dalle parti sociali ad essere a tutti gli effetti anche fonte regolatrice del singolo rapporto di lavoro.
Le parti sociali hanno altresì la facoltà di stipulare contratti collettivi efficaci a vari livelli (nazionale, provinciale, aziendale) con la conseguente possibile sovrapposizione delle relative discipline.
Il summenzionato dualismo, che vede il contratto collettivo come fonte regolatrice di singoli rapporti e come accordo negoziale, è la causa principale delle problematiche giuridiche che si verificano allorché vi è la necessità di applicare tale tipologia di contratti al caso singolo, dal momento che le modifiche e la stipula di nuovi contratti collettivi sono fatti tutt’altro che infrequenti.
Diviene quindi di fondamentale importanza pratica il coordinamento delle varie discipline contrattuali succedutesi nel tempo o contestualmente presenti a differente livello.
5.1 Modificabilità in peius e diritti quesiti
La derogabilità della disciplina collettiva, in senso peggiorativo, è certamente una delle questioni di maggiore rilievo pratico poiché le parti sociali nei momenti di maggiore crisi economica, pur di preservare i livelli occupazionali, in alcuni casi concordano una disciplina che modifica in senso peggiorativo le condizioni contrattuali applicabili ai singoli lavoratori.
Problemi sorgono allorché si tratta di applicare tali previsioni peggiorative al singolo rapporto di lavoro.
L’art. 1372 c.c. prevede che il contratto ha forza di legge tra le parti, sì che può risultare difficile comprendere la ragione per la quale nel caso del contratto di lavoro subordinato le norme pattizie che lo regolano possano mutare in costanza di rapporto.
La questione oggetto di esame è, in particolare, la modalità con la quale il contratto collettivo interviene a disciplinare quello individuale, ovvero in quale modo si manifesta la funzione normativa del contratto collettivo.
L'art. 2077 c.c. prevede che le clausole del contratto collettivo sostituiscano ex lege le clausole del contratto individuale difformi, salvo che queste ultime non contengano un trattamento di miglior favore per il lavoratore.
Con tale assunto la norma in esame ha, di fatto, vietato per il contratto individuale di derogare in peius la disciplina di quello collettivo.
Tuttavia, la giurisprudenza ha osservato che nel caso in cui ad una disciplina collettiva privatistica succeda altra disciplina di analoga natura, si verifica l’immediata sostituzione delle nuove clausole a quelle precedenti, ancorché la nuova disciplina sia meno favorevole ai lavoratori, poichè il divieto di deroga in peius è posto dall’art. 2077 c.c. unicamente per il contratto individuale di lavoro in relazione alle disposizioni del contratto collettivo, con la conseguenza che un contratto collettivo successivo ben può derogare anche in senso peggiorativo uno precedente.
Rimane tuttavia aperta la questione giuridica legata alla modalità con la quale il contratto collettivo interviene nel regolare quello individuale. Infatti, se si risolvesse la questione, come è stato prospettato da una parte della dottrina, in termini di incorporazione del contratto collettivo in quello individuale, si troverebbero insormontabili ostacoli nell’ammettere la derogabilità in senso peggiorativo della disciplina applicabile al contratto individuale in conseguenza del mutamento della disciplina collettiva.
Occorre quindi seguire un differente percorso giuridico per ricostruire il meccanismo operativo del contratto collettivo.
In particolare, per risolvere in modo soddisfacente la problematica in esame occorre avere riguardo alla natura di fonte regolatrice del contratto collettivo.
Contrariamente a quanto avviene nel caso della ricostruzione in termini di incorporazione, se si mantiene ferma la caratteristica di fonte del contratto collettivo, le modifiche della relativa disciplina, perché di natura contrattuale, in qualunque senso esse avvengano, sono idonee a produrre effetti anche sui rapporti giuridici preesistenti ed in corso.
Tale natura cd. "eteronoma" del contratto collettivo rispetto a quello individuale è stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza che l’ha per l’appunto postulata al fine di ammettere la derogabilità in peius della disciplina applicabile al rapporto di lavoro individuale.
Una volta riconosciuta come pienamente legittima la derogabilità, anche in senso peggiorativo, delle condizioni previste in un contratto collettivo, occorre individuare il limite di tale derogabilità. che è stato identificato dalla giurisprudenza nei diritti quesiti, intendendosi con tale espressione i diritti sorti sulla base del contratto collettivo ed entrati definitivamente nel patrimonio del singolo lavoratore.
Per opportuna completezza espositiva si segnala che, in ogni caso, eventuali modifiche in senso peggiorativo introdotte dalla contrattazione collettiva non possono travalicare il limite imposto dall’art. 36 della Costituzione, che prevede che al lavoratore sia riconosciuta un’equa retribuzione per l’attività svolta, che gli consenta in ogni caso un’esistenza libera e dignitosa.
Quanto alla differente fattispecie del contratto collettivo di diritto comune che deroghi in peius la precedente disciplina di un contratto collettivo con efficacia erga omnes ai sensi della legge 14 luglio 1959, n. 741, la giurisprudenza ha affermato che «i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti con efficacia erga omnes non possono essere derogati da successivi contratti collettivi con efficacia di diritto comune, salvo che la regolamentazione sopravvenuta contenga disposizioni che, valutate complessivamente nell’ambito dei singoli istituti contrattuali, risultino più favorevoli ai lavoratori» (Cass. 7 gennaio 1992, n. 84), e ciò in quanto i contratti con efficacia erga omnes sono anch’essi fonti di diritto ma di rango superiore rispetto al contratto collettivo di diritto comune, essendo stati recepiti a suo tempo in norme legislative.
Infine, per completezza si deve considerare che l’inderogabilità in peius dei contratti con validità erga omnes pone un ulteriore problema di ordine giuridico e pratico che è dato dalla valutazione del trattamento successivamente previsto: si pone, infatti, l’esigenza di valutare se il trattamento successivo sia o meno un trattamento peggiorativo.
Sul punto la giurisprudenza, da tempo e ormai univocamente, ha aderito al criterio del conglobamento (che confronta il contratto complessivamente o comunque tra istituti), superando quello del cumulo (in base al quale la disciplina andrebbe valutata clausola per clausola).
5.2 Efficacia temporale
Anche nel caso della contrattazione collettiva è essenziale stabilire l’efficacia temporale di un accordo contrattuale, tanto più in considerazione dell’idoneità della disciplina collettiva sopravvenuta a mutare le condizioni del rapporto individuale.
Essendo l’art. 2074 c.c. (secondo cui «il contratto collettivo, anche quando è stato denunziato, continua a produrre i suoi effetti dopo la scadenza, fino a che sia intervenuto un nuovo regolamento collettivo») considerato inapplicabile ai contratti collettivi di diritto comune, si deve ritenere che i contratti collettivi hanno efficacia nel solo lasso temporale indicato dalle parti stipulanti.
Talvolta le parti prevedono clausole che dispongono l’ultrattività del contratto collettivo, stabilendo che il precedente contratto collettivo continui a trovare applicazione fintanto che non intervenga la stipula dell’accordo di rinnovo o la nuova disciplina collettiva; occorre tuttavia esaminare le conseguenze della scadenza del contratto collettivo nel caso in cui non vi sia alcuna disciplina circa l’eventuale ultrattività del medesimo.
Sul punto era sorto un contrasto giurisprudenziale, risolto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 30 maggio 2005, n. 11325, che ha confermato l’orientamento tradizionale ed assolutamente maggioritario, ritenendo che l’affermata
«ultrattività del contratto oltre la sua naturale scadenza (...) si pone obiettivamente come un limite della libera volontà delle organizzazioni sindacali, e prospetta un contrasto con la garanzia posta dall’art. 39 cost. ove si configuri una regola che sottrae alla disponibilità delle parti contraenti la quantità di retribuzione pattuita in sede collettiva, attribuendo a tale elemento un carattere di intangibilità oggettiva».
Con tale affermazione la Corte certamente non oblitera la connessa questione della tutela della retribuzione ex art. 36 Cost. Viene precisato, infatti, che tale tutela è operante sul piano del contratto individuale, e non su quello del contratto collettivo ed indipendentemente dal carattere direttamente vincolante delle clausole collettive; pertanto, «sul piano del rapporto individuale di lavoro, risulta garantito il trattamento economico goduto dal lavoratore, che può certamente far valere la violazione di tale tutela, derivante dall’eventuale riduzione dei livelli salariali, indicando come valido parametro di determinazione della retribuzione equa e sufficiente il contratto collettivo scaduto».
La medesima conclusione non può invece valere con riferimento alla parte normativa del contratto collettivo, che è invece strettamente legata all’efficacia dello stesso, così come agli istituti che, sebbene abbiano natura retributiva in senso ampio, non costituiscono direttamente il corrispettivo per l’attività lavorativa svolta.
Un’altra questione dal significativo rilievo pratico è l’eventuale retroattività delle clausole della disciplina collettiva intervenuta successivamente.
Infatti, essendo il contratto collettivo un contratto di diritto comune, non possono essere invocati i principi validi per la successione delle discipline di legge.
L’unico limite esistente all’efficacia retroattiva del contratto collettivo è dato dai diritti già entrati nel patrimonio del singolo lavoratore in conseguenza di fattispecie già perfezionatesi, che come tali non sono più nella disponibilità dei soggetti collettivi.
Individuato il generale principio di ammissibilità dell’efficacia retroattiva del contratto collettivo, resta aperta l’ulteriore questione relativa all’applicabilità del medesimo ai casi in cui il rapporto di lavoro si sia estinto precedentemente alla data di stipula del nuovo contratto collettivo con efficacia retroattiva.
L’applicabilità al rapporto di lavoro estinto della nuova disciplina contrattuale, anche se peggiorativa, è stata ammessa sulla base dell’osservazione che «il potere conferito al sindacato cessa soltanto con il venire meno del rapporto associativo costituitosi con l’iscrizione del lavoratore al sindacato stesso e, pertanto, il nuovo contratto di lavoro vincola il lavoratore iscritto anche se è cessato il rapporto di lavoro, sempre che quel contratto contenga una clausola che si riferisca (in ragione della sua efficacia retroattiva, quale prevista dalle parti) all’epoca in cui il lavoratore era in servizio» (Cass. 8 marzo 1986, n. 1571).
Tale principio tuttavia, non può ritenersi pacifico. Non mancano, infatti, pronunce di segno contrario che negano l’ammissibilità di modifiche peggiorative dovute alla stipulazione di contratti collettivi successivi nei confronti dei lavoratori cessati, proprio in quanto nei loro confronti verrebbe meno la legittimazione dell’associazione sindacale a rappresentarli.
6. Contrattazione collettiva di diverso livello
6.1 Contrattazione collettiva di livello locale; 6.2 Disciplina applicabile al rapporto di lavoro individuale
6.1 Contrattazione collettiva di livello locale
Poiché la contrattazione nazionale non è in grado di rispondere alle esigenze delle realtà economiche e produttive locali, che hanno evidentemente ciascuna la propria particolarità, sono sorti i contratti collettivi di livello locale.
Un così articolato e complesso sistema di contrattazione pone non pochi problemi laddove sia necessario applicare contemporaneamente al singolo rapporto contratti collettivi di diverso livello.
Tale problema è agevolmente risolvibile nel caso in cui vi sia un preventivo coordinamento tra la contrattazione nazionale e quella locale (come nel caso di clausole della contrattazione nazionale che non disciplinano in dettaglio alcuni aspetti del rapporto di lavoro, rinviando alla contrattazione di livello inferiore per una più compiuta regolamentazione).
La giurisprudenza ha ricondotto tale fattispecie alla figura giuridica del negozio complesso a formazione progressiva: peraltro, in caso di mancata stipulazione dei contratti integrativi cui la contrattazione nazionale rinvii per la regolamentazione in dettaglio, i lavoratori non hanno diritto agli emolumenti eventualmente previsti nel CCNL, atteso che neppure il giudice può determinare la disciplina di dettaglio, sostituendosi al contratto collettivo di livello inferiore.
Tuttavia, non sempre accade che la disciplina sia coordinata, e in questo caso si pone l’esigenza di individuare i criteri attraverso i quali individuare la disciplina applicabile al rapporto di lavoro individuale.
6.2 Disciplina applicabile al rapporto di lavoro individuale
In tempi ormai risalenti dottrina e giurisprudenza avevano elaborato una serie di tesi giuridiche tutte ispirate al principio secondo il quale, in caso di conflitto tra due discipline di differente livello, si debba applicare necessariamente quella più favorevole al lavoratore.
In particolare, la giurisprudenza era pervenuta ad un siffatto risultato ritenendo applicabile l’art. 2077 c.c. che, nella vigenza dell’ordinamento corporativo, disponeva la sostituzione automatica delle clausole contrattuali individuali difformi da quelle del contratto collettivo, salvo che le prime fossero migliorative per il lavoratore.
Tale impostazione giuridica è stata successivamente superata, vuoi per la dichiarata inapplicabilità dell’art. 2077 c.c. ai contratti collettivi di diritto comune, vuoi perché tale norma regola esclusivamente i rapporti tra il contratto collettivo ed il contratto individuale di lavoro.
Un differente orientamento ha indicato quale criterio risolutore dei possibili conflitti di discipline quello gerarchico, che tuttavia ha avuto scarso seguito in giurisprudenza.
Anche tale tesi, infatti, da un punto di vista strettamente giuridico non è riuscita a superare l’ostacolo rappresentato, ancora una volta, dalla natura di diritto comune del contratto collettivo.
Infatti, avendo in mente tale presupposto non si può non osservare come tra due contratti di diritto privato aventi stessa natura collettiva, e quindi pari dignità, non possa operare un principio di tipo gerarchico valido solo in ambito normativo, dove le fonti del diritto hanno una loro propria e predeterminata gerarchia loro ricollegata dall’ordinamento giuridico.
E' stato elaborato anche il criterio cronologico, che attribuisce rilevanza decisiva al dato temporale della stipulazione del contratto, ritenendo che a prescindere dal livello del contratto ciò che conta sia la volontà delle parti di sostituire la precedente disciplina.
In realtà, tale criterio non è risultato del tutto appagante in ragione della circostanza che la problematica dei rapporti tra contratti collettivi di differente livello sovente si pone nell’ambito di un rapporto tra disciplina speciale e generale.
Pertanto, una parte della giurisprudenza ha ritenuto che il concorso tra la disciplina dettata dal contratto collettivo nazionale e quella prevista da un contratto collettivo territorialmente più circoscritto vada individuato secondo il criterio di competenza e di specialità nel rispetto del principio di autonomia, sì che la fonte collettiva più prossima agli interessi disciplinati è, nei limiti della normativa inderogabile di legge, prevalente sulle altre consimili, anche se di livello superiore.
E' stato tuttavia evidenziato che il ritenere in ogni caso come applicabile la disciplina della fonte collettiva più vicina al lavoratore potrebbe costituire una sorta di incentivazione indiretta del sindacalismo di comodo.
La giurisprudenza più recente ed ormai prevalente, valorizzando l’aspetto prettamente civilistico del contratto collettivo, afferma che il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello deve essere risolto dando prevalenza all’effettiva volontà delle parti collettive; assumono quindi un rilievo decisivo tutti quegli elementi dai quali è desumibile la volontà delle parti collettive contraenti, quali per esempio le note a verbale che, sebbene non facciano parte in senso tecnico del contratto collettivo, sono molto utili ai fini dell’individuazione dell’intendimento delle parti sociali che hanno concluso e sottoscritto il contratto collettivo.
7. Contratto collettivo e Xxxxx
7.1 Inderogabilità in peius; 7.2 I “tetti” alla contrattazione collettiva; 7.3 Contrattazione collettiva aziendale
7.1 Inderogabilità in peius
I rapporti individuali di lavoro trovano la loro fonte sostanziale di disciplina tanto nel contratto collettivo quanto nella legge.
In linea di principio, nel sistema delle fonti del diritto delineato dal nostro legislatore la contrattazione collettiva, tanto più se di diritto comune, è gerarchicamente subordinata alla legge.
In particolare, il rapporto tra legge e contratto collettivo si fonda sul principio della derogabilità in melius/inderogabilità in peius della prima fonte ad opera della seconda.
In virtù di tale impostazione, la norma legale fissa il trattamento minimo inderogabile a favore del prestatore di lavoro, mentre quella convenzionale può ampliare in senso migliorativo le soglie di tutela oppure disciplinare le materie riservate alla competenza della contrattazione collettiva o quelle che il legislatore ha deciso di non regolare per una forma di volontaria astensione.
Pertanto, le clausole dei contratti collettivi che si rivelassero peggiorative rispetto al trattamento minimo legale devono essere considerate nulle ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c.
Vero è che, in virtù del rilevante significato sociale del contratto collettivo, in ipotesi di tal fatta deve trovare applicazione particolarmente rigorosa il principio della conservazione del contratto, sì che quando la nullità investe singole clausole di un contratto collettivo, l’estensione all’intero contratto della nullità deve essere provata rigorosamente dalla parte interessata che, a tal fine, deve dimostrare che la clausola colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto nel senso che le parti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.
Il paradigma della inderogabilità in peius/derogabilità in melius della legge da parte del contratto collettivo ha subìto molteplici eccezioni nel corso degli anni settanta e ottanta, attraverso una duplice modalità: in primo luogo, attribuendo alla contrattazione collettiva la facoltà di scendere al di sotto dei livelli minimi di tutela approntati dalla legge; in secondo luogo, fissando limiti insuperabili (i c.d. «tetti») alla possibilità del contratto collettivo di introdurre trattamenti migliorativi rispetto a quelli previsti dal legislatore.
Le numerose previsioni normative di deroga in peius degli standard previsti dalla legge da parte della contrattazione collettiva appaiono alquanto disomogenee tra di loro.
In linea generale, si può tuttavia rilevare come tali interventi abbiano con tutta evidenza perseguito l’intento di attenuare i rigidi schemi previsti dalla norma legislativa, attribuendo alla contrattazione collettiva la facoltà di modificare e derogare i precetti normativi ogniqualvolta la disciplina legale richiedesse un intervento in funzione di una maggiore flessibilità.
Tra le principali ipotesi di deroga in peius della legge da parte della contrattazione collettiva si segnalano le seguenti:
- art. 4 Stat. Lav.: viene contemplata la possibilità di prevedere attraverso un contratto collettivo aziendale l’installazione di impianti e apparecchiature di controllo a distanza dei lavoratori in presenza di esigenze organizzative e produttive ovvero della sicurezza del lavoro;
- art. 27 D.Lgs. 198/2006: il contratto collettivo, in deroga al divieto di discriminazione sessuale, può sancire l’esclusione delle donne dall’espletamento di mansioni particolarmente pesanti;
- art. 5 Legge 223/1991: l’accordo collettivo stipulato nell’ambito della procedura di mobilità può stabilire l’assegnazione dei lavoratori a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, anche in deroga all’art. 2103 c.c.;
- art. 4 Legge 223/1991: l’accordo collettivo stipulato nell’ambito della procedura di mobilità può stabilire i criteri di scelta che l’imprenditore è tenuto a osservare nell’individuazione dei lavoratori da collocare in mobilità;
- art. 6 Legge 190/1985: viene riconosciuta alla contrattazione collettiva la facoltà di stabilire un termine per la promozione automatica del lavoratore a mansioni superiori più lungo rispetto a quello di tre mesi fissato dall’art. 2103 c.c.;
- art. 47 Legge 428/1990: in determinate ipotesi, l’accordo collettivo di mantenimento, anche parziale, dei livelli occupazionali può derogare alle disposizioni garantistiche dettate dall’art. 2112 c.c.;
- art. 8 Legge n. 148/2011: gli accordi collettivi di livello aziendale o territoriale sottoscritti da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese nelle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione in deroga alle disposizioni di legge ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro.
Appare tuttavia importante sottolineare come la previsione di ipotesi in cui l’autonomia collettiva possa scendere al di sotto dei limiti indicati dal legislatore o derogare a norme altrimenti imperative costituisca senz’altro un’eccezione che, in quanto tale, conferma la regola generale dell’inderogabilità in peius della legge da parte della contrattazione collettiva.
Pertanto, in caso di conflitto tra le due fonti, la legge continua senz’altro a prevalere sul contratto collettivo, salvo il caso in cui quest’ultimo introduca un trattamento migliorativo a favore dei lavoratori.
In assenza di un’espressa deroga legislativa a tal fine, infatti, il contenuto delle disposizioni legali non può essere modificato in senso peggiorativo per il prestatore di lavoro.
Naturalmente la contrattazione collettiva riacquista appieno il proprio potere dispositivo nelle materie in cui il legislatore non abbia ritenuto di intervenire, rinunciando in tal modo ad imporre limiti minimi ed a comprimere l’autonomia delle parti.
7.2 I «tetti» alla contrattazione collettiva
La seconda modalità di superamento dello schema classico della inderogabilità in peius/derogabilità in melius della legge da parte del contratto collettivo è rappresentata dall’apposizione di «tetti» massimi alla libertà negoziale delle parti collettive.
In tale ipotesi, la compressione della sfera di operatività dell’autonomia collettiva è giustificata dalla necessità di natura politico-economica di perseguire ed attuare specifici piani di programmazione economica finalizzati a soddisfare superiori esigenze di bilancio pubblico (Legge 31 marzo 1977, n. 91; Legge 29 maggio 1982, n. 297; D.L. 17 aprile 1984, n. 70 sul contenimento dei processi inflattivi attraverso la limitazione degli automatismi salariali e, più specificamente, dell’indennità di contingenza).
L’introduzione di siffatti limiti ha determinato l’insorgere di dubbi di legittimità costituzionale, atteso che i vincoli imposti all’autonomia contrattuale dei sindacati sono apparsi in palese conflitto con il principio della libertà sindacale sancito dall’art. 39 della Costituzione.
Tuttavia la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità degli interventi legislativi finalizzati ad imporre limiti inderogabili alla contrattazione collettiva, ne ha a più riprese confermato la compatibilità con l’assetto costituzionale, a partire dalla storica pronuncia n. 106 del 19 dicembre 1962 relativa alla legittimità della Legge 14 luglio 1959, n. 741 (la nota "legge Vigorelli"), nella quale il Giudice delle leggi ha affermato che l’art.
39 della Costituzione non sancisce alcuna riserva esclusiva a favore dei sindacati in merito alla regolamentazione dei rapporti di lavoro, sì che il legislatore ha la facoltà di intervenire in tale materia, pur nel rispetto di alcuni limiti fissati dalla Costituzione a tutela di altri interessi di pari rango.
In ogni caso, gli interventi restrittivi dell’autonomia collettiva nella forma di tetti massimi imposti alla contrattazione sono legittimi a condizione che la compressione dello spazio di libertà negoziale delle parti collettive avvenga in situazioni eccezionali ed in quanto tali temporanee, dettate dalla necessità di salvaguardare superiori interessi generali.
7.3 Contrattazione collettiva aziendale
Il contratto collettivo aziendale consente di adattare la disciplina dei rapporti individuali di lavoro agli specifici aspetti della singola realtà locale ma anche di introdurre forme di flessibilità laddove la contrattazione collettiva nazionale si sia dimostrata troppo rigida.
In termini generali, il contratto collettivo aziendale ha la medesima natura giuridica di quello nazionale post-corporativo e rientra, quindi, nella categoria civilistica dei contratti atipici.
Quanto alla forma, la giurisprudenza si è ormai consolidata nel senso che la forma scritta del contratto collettivo anche aziendale, lungi dall’essere richiesta a pena di nullità, è semplicemente strumentale alla sua pubblicità e alla possibilità di concreta diffusione tra gli interessati.
In merito al diverso tema dell'efficacia soggettiva del contratto collettivo aziendale, le soluzioni prospettate si differenziano a seconda della pluralità di funzioni che esso può espletare: normativa (cioè incidente sul contenuto dei contratti individuali di lavoro) oppure derogatoria della disciplina legale.
In relazione alla prima ipotesi può dirsi pressoché consolidato l’orientamento che circoscrive l’efficacia dell’accordo aziendale ai soli lavoratori iscritti alle organizzazioni sindacali che lo abbiano stipulato, non essendo applicabile il principio maggioritario ai fini
della efficacia vincolante degli accordi sindacali aziendali nei confronti dei dipendenti non partecipanti o dissenzienti relativamente a diritti individuali.
Con riferimento, invece, ai contratti collettivi aziendali che derogano in peius alle tutele minime approntate dal legislatore, l'orientamento della Suprema Corte è nel senso di ritenere che essi vincolano, indipendentemente dalla iscrizione ai sindacati stipulanti, tutti i lavoratori dell'azienda, stante la sua natura sostanzialmente erga omnes in quanto regolano unitariamente indivisibili interessi collettivi aziendali dei lavoratori (Cass. 26 giugno 2004, n. 11939).
Tuttavia, la Cassazione ha talvolta affermato l'efficacia del contratto aziendale nei confronti dei soli iscritti alle associazioni stipulanti, affermando che «l'efficacia soggettiva erga omnes dei contratti collettivi aziendali va conciliata, da un lato, con il limite invalicabile del principio di fondamentale di libertà sindacale e va collocata, dall'altro, nel nostro sistema giuridico, che resta fondato esclusivamente su principi privatistici e sulla rappresentanza negoziale, e non già legale o istituzionale, delle organizzazioni sindacali. L'estensione generalizzata dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali costituisce dunque regola di carattere generale, in funzione delle esigenze che ne risultano perseguite (tutela di interessi collettivi e inscindibilità della disciplina), ma con l'eccezione imposta dal principio di libertà sindacale che la stessa efficacia non può essere estesa ai lavoratori i quali, aderendo a un'organizzazione sindacale diversa da quella che ha stipulato l'accordo aziendale, ne condividano l'esplicito dissenso» (Cass. 28 maggio 2004, n. 10353).
Con specifico riferimento ai contratti di solidarietà difensivi previsti dall’art. 1 della legge 863/1984, diretti ad evitare in tutto o in parte la dichiarazione di esubero del personale anche attraverso un più razionale impiego della manodopera, la giurisprudenza ne ha giustificato l’estensione generalizzata affermando che «la fattispecie della riduzione dell’orario di lavoro con la relativa integrazione salariale prescinde dall’esigenza di interessare tutti o, comunque, la maggioranza dei lavoratori. Pertanto la clausola del contratto di solidarietà che disponga la riduzione di orario in funzione di evitare i licenziamenti è legittima, a nulla rilevando che i lavoratori interessati non sono iscritti ad organizzazioni firmatarie dell’accordo di gestione, e ciò proprio per la sussistenza del fine essenziale della salvaguardia dell’occupazione» (Tribunale Milano, 9 settembre 1995).
Un approfondimento particolare merita la disciplina dettata dall’art. 5, comma 1, della legge 223/1991, che attribuisce ai contratti collettivi stipulati dalle rappresentanze sindacali aziendali (o, in ipotesi di loro assenza, dalle rispettive associazioni di categoria) la possibilità di indicare i criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità.
Al riguardo, occorre ricordare come l’allora Pretore di Torino avesse sollevato dubbi di legittimità costituzionale della norma in esame, ritenendo che essa, attribuendo implicitamente efficacia erga omnes ai contratti collettivi aziendali di mobilità, costituisse uno strumento elusivo dell’art. 39 della Costituzione.
Ebbene, con la sentenza n. 268 del 30 giugno 1994 la Corte Costituzionale ha respinto la tesi avanzata dal Xxxxxxx remittente affermando che in relazione alla «censura di violazione dell’art. 39, comma 4, Costituzione, il problema dell’efficacia erga omnes del contratto collettivo si pone per i contratti normativi, non per quelli del tipo ora in discorso, la cui efficacia nei confronti dei singoli lavoratori si fonda sulla legge che ad essi rinvia».
Ciò premesso, per quanto attiene più specificamente il problema dell’efficacia degli accordi sindacali stipulati ex art. 5, comma 1, legge 223/1991, il Giudice delle leggi ha in tale occasione sostenuto che l’«efficacia diretta di tali contratti – in termini di limiti e modalità di esercizio del potere di licenziamento finalizzato alla riorganizzazione del
lavoro nell’impresa – si esplica esclusivamente nei confronti degli imprenditori stipulanti (o del singolo imprenditore nel caso di accordo aziendale)».
Vero è che l’efficacia generalizzata degli accordi in esame nei confronti di tutti i dipendenti dell’impresa, compresi quelli non iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti, si realizza ugualmente in via mediata, atteso che «il contratto collettivo, cui rinvia la norma in esame, incide sul singolo prestatore di lavoro indirettamente, attraverso l’atto di recesso del datore in quanto vincolato dalla legge al rispetto dei criteri di scelta concordati in sede sindacale».
La ricostruzione giuridica offerta in tale occasione dalla Corte Costituzionale è stata contestata da alcuni Autori secondo i quali la distinzione formale tra contratti normativi e contratti gestionali era stata introdotta esclusivamente per respingere le censure di illegittimità costituzionale della norma sottoposta al vaglio dei Giudici delle leggi.
Occorre però rilevare come le argomentazioni svolte in tale sentenza siano state successivamente condivise in maniera pressoché costante dalla giurisprudenza di legittimità.
Ancora recentemente, infatti, la Suprema Corte ha ribadito che «gli accordi sindacali che stabiliscono i criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità non appartengono alla categoria dei contratti collettivi normativi, con la conseguenza che gli stessi – sempre che non ne sia compromessa la validità dal mancato rispetto del principio di razionalità e di quello di non discriminazione di cui all’art. 15 della legge n. 300 del 1970 – incidono direttamente non già sulla posizione del lavoratore, di cui non rileva quindi l’eventuale non iscrizione alle organizzazioni sindacali sottoscrittrici dell’accordo, ma su quella del datore di lavoro, il quale nella scelta dei dipendenti da porre in mobilità deve applicare i criteri concordati» (Cass. 20 marzo 2000, n. 3271).
Per completezza, infine, si segnala che il 1° comma dell'art. 8 della Legge 14 settembre 2011, n. 148, attribuisce efficacia vincolante (c.d. erga omnes) ai contratti collettivi "di prossimità", a condizione che gli stessi siano sottoscritti «sulla base di un criterio maggioritario relativo alle … rappresentanze sindacali» presenti in azienda.
Risulta allora evidente come la verifica della "maggioranza" rappresenti il fulcro su cui il legislatore fonda l'efficacia generale della nuova contrattazione collettiva.
Ebbene, laddove le «specifiche intese» di cui all'art. 8 siano raggiunte nell'ambito di imprese nei cui confronti trova applicazione l'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, il criterio maggioritario andrà verificato sulla base dei criteri dettati dall'Accordo stesso, giusto anche il richiamo espresso contenuto nella disposizione in commento.
Conseguentemente, in presenza della RSU, organo collegiale ed elettivo, il rinvio è al principio della rappresentatività "indiretta" dettato dall'art. 4 dell'Accordo Interconfederale, secondo cui l'effetto vincolante nei confronti dell'intero personale si realizzerà mediante l'approvazione dell'intesa da parte della maggioranza (semplice) dei suoi componenti.
Quanto alle RSA, a condizione che esse siano non solo espressione di associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva bensì siano costituite nell'ambito di associazioni sindacali che risultino altresì comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale, l'efficacia erga omnes dipenderà dall'approvazione del contratto collettivo "di prossimità" da parte di tali rappresentanze, purché «costituite nell'ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dal lavoratori dell'azienda nell'anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione».
La questione si presenta più complessa nei casi in cui il citato Accordo Interconfederale non trovi applicazione, a meno di voler sostenere un'estensione generalizzata – in virtù del riferimento contenuto nell'art. 8 – dei meccanismi di determinazione della maggioranza sopra esposti: il che, francamente, desta numerosi dubbi sulla legittimità, anche costituzionale, di un'operazione ermeneutica siffatta.
Xxxx è che, quanto alla RSU, sembra comunque utilizzabile il criterio della maggioranza (semplice) espressa dai suoi componenti, trattandosi di un principio generale applicabile agli organismi collegiali e/o assembleari.
Con riferimento, invece, alle RSA, una prima soluzione potrebbe essere quella di attribuire un voto a ciascuna RSA, indipendentemente dal livello di rappresentatività dei lavoratori di cui sono portatrici: tale opzione, tuttavia, appare irrimediabilmente in contrasto con la finalità di individuazione di un criterio di democrazia sindacale che traspare dalla novella legislativa, come si evince anche dal richiamo alla «maggioranza dei lavoratori» contenuto nel comma 3.
Sembra allora molto più coerente con la ratio legis una maggioranza verificata sulla base delle effettive deleghe conferite alle RSA dai lavoratori interessati: siffatta opzione, peraltro, lascerebbe aperta la strada ad ipotesi estreme, in cui gli unici iscritti alle RSA siano i soli dirigenti delle stesse (anche uno per ciascuna RSA), sì che l'efficacia erga omnes potrebbe conseguire ad accordi sottoscritti da RSA rappresentative di un numero limitatissimo di lavoratori.
8. Diritti Sindacali
8.1 Associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro; 8.2 Titolarità delle libertà sindacali; 8.3 Profilo oggettivo delle libertà sindacali; 8.4 Divieto di atti discriminatori; 8.5 Sindacati di comodo; 8.6 Nuove tipologie contrattuali e diritti sindacali
8.1 Associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro
L'ambito in cui opera l’art. 14 dello Statuto dei lavoratori è quello dato dall’art. 39 della Costituzione che dispone che l’organizzazione sindacale è libera.
In particolare, l’art. 14 dello Statuto, concretizzando ed estendendo il contenuto della norma costituzionale, stabilisce:
– che l’attività sindacale può essere svolta anche all’interno dei luoghi di lavoro;
– che la libertà di fruire del diritto di svolgere attività sindacale è riconosciuta a tutti i lavoratori.
La più importante conseguenza di ordine pratico dei due precetti derivanti dalla norma in esame è che il datore di lavoro non può limitare l’esercizio delle libertà sindacali costituzionalmente garantite all’interno dell’azienda opponendo il proprio diritto di proprietà o altri diritti relativi alla disponibilità dei beni aziendali.
Di contro, il limite all’esercizio dell’attività sindacale è dato dalla contrapposizione a tale diritto costituzionalmente garantito degli ulteriori diritti, egualmente costituzionalmente garantiti, di libertà di iniziativa economica e di organizzazione dell’impresa.
In sede di applicazione dell’art. 14 dello Statuto si è sempre ritenuto che la norma si riferisse a tutti i lavoratori dell’azienda, dovendosi intendere come tali solo coloro che risultano legati alla medesima da un contratto di lavoro subordinato.
Peraltro, come è noto, l’evoluzione del mercato del lavoro è stata estremamente rapida e nel passato recente le imprese hanno utilizzato sempre più frequentemente forme di collaborazione atipica quali le collaborazioni a progetto e la somministrazione di lavoro.
Con riferimento ai lavoratori somministrati, è opportuno ricordare che per espresso richiamo dell'art. 24 del D.Lgs. 276/2003, essi godono dei medesimi diritti sindacali previsti dallo Statuto.
8.2 Titolarità delle libertà sindacali
La libertà sindacale dal punto di vista dei soggetti coinvolti riguarda tanto l'organizzazione sindacale quanto il singolo lavoratore.
È ormai pacifico che con riferimento al singolo individuo la libertà sindacale possa operare sia come libertà positiva, ovvero come libertà di aderire ad un organismo sindacale, sia come libertà negativa, ovvero come libertà di non aderire ad alcuna organizzazione sindacale, con conseguente nullità della clausola di closed shop (che fa obbligo al datore di lavoro di assumere solo lavoratori iscritti al sindacato) o di union shop (che obbliga il lavoratore al momento dell’assunzione ad iscriversi al sindacato).
Dal punto di vista soggettivo, attesa la mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39 della Costituzione, che prevedeva come condizione per l’acquisizione della personalità giuridica la registrazione delle organizzazioni sindacali, i sindacati godono dello status giuridico proprio delle associazioni non riconosciute.
La libertà sindacale esplica la sua efficacia nei confronti di tali soggetti collettivi intesi come strumento dell’attività sindacale, e sono quindi riconosciute non solo alle organizzazioni vere e proprie, ma anche ai comitati spontanei di lavoratori, ai gruppi organizzati ad hoc e a qualsiasi espressione della volontà collettiva volta a tutelare interessi attinenti alla sfera del rapporto di lavoro.
Di conseguenza, qualunque sia la natura delle organizzazioni, è riconosciuta loro la massima autonomia, sì che non vi potrà essere alcuna ingerenza esterna in merito alla modalità di costituzione, alla elezione degli organi rappresentativi interni ed alla successiva manifestazione della volontà dell’organizzazione, ed inoltre il datore di lavoro non può in alcun modo sollevare eccezioni relativamente alla democraticità, alla effettiva rappresentatività degli organi sindacali o alla effettiva rispondenza delle posizioni da questi assunte nel corso di trattative con la volontà dei lavoratori rappresentati.
8.3 Profilo oggettivo delle libertà sindacali
Il profilo oggettivo attiene alle attività che concretamente le organizzazioni sindacali, e quindi i singoli, possono svolgere all’interno dell’azienda.
In primo luogo è indubbio che la libertà sindacale presupponga una certa mobilità dei lavoratori all’interno dell’azienda e presupponga altresì che nessuna autorizzazione per l’esercizio di quest’ultima debba essere richiesta al datore di lavoro.
Dovranno, pertanto, ritenersi rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 14 le attività di informazione, di proselitismo, di promozione dei mezzi di lotta quale lo sciopero e anche la riscossione dei contributi sindacali (compresa, secondo la giurisprudenza, quella effettuata da associazioni sindacali dei lavoratori che non abbiano costituito RSA), fermo restando che l’azione sindacale individuale incontra il limite che le modalità del suo esercizio devono mantenersi nell’ambito di una forma corretta di protesta o di rivendicazione e che non devono in ogni caso pregiudicare l’attività dell’impresa. Conseguentemente, l’esercizio dei diritti sindacali deve essere attuato al di fuori dell’orario di lavoro e anche quando svolto da lavoratori in pausa il contenuto dell’attività deve essere tale da non arrecare disturbo all’attività degli altri lavoratori in quel momento in servizio.
Un ulteriore limite all’esercizio dei diritti sindacali è dato dallo stesso Statuto del lavoratori, che riserva alcuni diritti (per esempio diritto di indire referendum, di convocare assemblee, di fruire di permessi retribuiti ecc.) alle sole RSA costituite ex art. 19 della medesima legge, implicitamente escludendo che essi siano esercitabili anche dalle altre organizzazioni, costituite ex art. 14.
Altra questione di particolare rilievo pratico riguarda l’accesso dei lavoratori in azienda finalizzato a svolgere attività sindacali, che si ritiene debba essere consentito anche ai lavoratori il cui rapporto di lavoro risulta temporaneamente sospeso, per consentire anche a costoro di partecipare alle attività sindacali aziendali.
Di contro, il datore non è tenuto a consentirne l’accesso in azienda al di fuori dell’orario di lavoro.
L’ambito di efficacia delle clausole di tregua sindacale, che obbligano una determinata organizzazione sindacale a non promuovere azioni di lotta nella vigenza del contratto collettivo, è dubbio. Infatti, in dottrina l’opinione prevalente ritiene che tali clausole vincolino esclusivamente le organizzazioni che le hanno sottoscritte e non anche i lavoratori in azienda.
La correttezza di tale interpretazione trova riscontro nell'art. 6 dell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, sottoscritto da Confindustria, CGIL, CISL e UIL, il quale stabilisce espressamente che i contratti collettivi aziendali (approvati in base a specifiche condizioni ivi previste) «che definiscono clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l'esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale operanti all'interno dell'azienda e non per i singoli lavoratori».
La contrattazione aziendale rappresenta l’attività più rilevante svolta delle organizzazioni sindacali presenti all’interno dell’impresa a prescindere dalla forma costitutiva di tali soggetti. Gli accordi aziendali possono, infatti, essere stipulati da qualunque organizzazione che sia in grado di rappresentare un certo numero di lavoratori, quindi tanto dalle organizzazioni costituite ex art. 19, quanto da quelle costituite ex art. 14 dello Statuto.
8.4 Divieto di atti discriminatori
L’art. 15 della legge 20 maggio 1970 sancisce la nullità di ogni atto o patto discriminatorio compiuto dal datore di lavoro volto a danneggiare il lavoratore.
Nel concetto normativo di atto discriminatorio sono certamente compresi non solo gli atti giuridici in senso stretto, ma anche ogni comportamento materiale che il datore di lavoro può porre in essere, compresi quelli a contenuto privativo, ovvero tendenti a incidere negativamente nella sfera soggettiva del lavoratore, nonché quelli aventi un contenuto concessivo, ovvero atti che, diretti a migliorare la sfera soggettiva di altri lavoratori, omettono di ampliare anche la sfera soggettiva del lavoratore discriminato. Occorre peraltro segnalare come – a seguito dell’entrata in vigore, rispettivamente, del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215 e del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 – sia stato introdotto nel nostro ordinamento giuridico il principio di discriminazione indiretta, che si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto un patto o un comportamento apparentemente neutri possano mettere una persona in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
La norma dello Statuto fornisce un'elencazione dei motivi discriminatori che determinano la nullità degli atti posti in essere dall’imprenditore. Si tratta di atti posti in essere dal datore di lavoro al fine esclusivo di discriminare un lavoratore per motivi di affiliazione o attività sindacale ovvero a causa della partecipazione ad uno sciopero, nonché per motivi di ordine politico, religioso, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basati sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali del lavoratore.
In questo ambito, peraltro, non va dimenticato che l'art. 43 del Testo Unico sull'immigrazione (D.Lgs. 286/1998), pur non modificando l'art. 15 dello Statuto, ha meglio specificato il concetto di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Tale elencazione è considerata dalla prevalente dottrina come tassativa.
Tuttavia, la giurisprudenza ha mostrato una tendenza a considerare illeciti atti o comportamenti del datore di lavoro per motivi discriminatori non espressamente indicati dalla norma in esame (come ad esempio in tema di licenziamento ritorsivo, ossia intimato a seguito di comportamenti risultati sgraditi al datore di lavoro, quali asserite iniziative giudiziarie intraprese dal lavoratore, (Cass. 3 maggio 1997, n. 3837).
La sanzione prevista dalla legge in tali casi è data dalla nullità dell’atto posto in essere dal datore di lavoro. In realtà, esiste una tendenza estensiva che costruisce la fattispecie degli atti discriminatori come illecito e non come semplice atto invalido, con la duplice
conseguenza che l’atto posto in essere sarebbe produttivo di un danno risarcibile e che diverrebbero rilevanti anche i comportamenti omissivi del datore di lavoro quali, per esempio, la mancata promozione.
Affinché sia integrata la fattispecie dell’atto illecito è necessario che l’atto giuridico o il comportamento materiale del datore di lavoro abbiano un intento esclusivamente discriminatorio: ove questo non sia dimostrato o sia da escludersi, si può ipotizzare solo una violazione da parte del datore di lavoro dei doveri di correttezza e buona fede che darebbe luogo a un’obbligazione risarcitoria.
È pacifico che la prova della discriminazione grava sul lavoratore che la allega. Tuttavia, conscia dell'estrema onerosità di tale onere probatorio, la giurisprudenza ammette che esso possa essere assolto anche con l'allegazione di una serie di indizi che, valutati complessivamente, siano in grado di orientare il convincimento del giudice. Peraltro, tali elementi di fatto, per espressa previsione normativa, possono essere anche di carattere statistico (art. 44 D.Lgs. 286/1998, art. 4 D.Lgs. 215/2003)
Nel quadro complessivo qui descritto diviene certamente di notevole rilievo la dibattuta questione circa la sussistenza o meno nel nostro ordinamento di un principio di parità di trattamento, che implicherebbe una automatica inversione dell’onere della prova, per cui sarebbe il datore di lavoro a dover fornire l’evidenza della giustificatezza del trattamento differenziato.
La questione è stata oggetto negli ultimi anni di un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza ed è solo a seguito di un duplice intervento delle sezioni unite della Corte di Cassazione che si può oggi negare l’esistenza nel nostro ordinamento di un principio di parità di trattamento nell’ambito dei contratti di lavoro.
Il singolo lavoratore colpito dall’atto discriminatorio potrà certamente adire il Giudice, anche in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., affinché sia dichiarata la nullità dell’atto posto in essere dal datore di lavoro e affinché quest’ultimo sia condannato al risarcimento del danno. Inoltre, nei casi in cui il comportamento del datore di lavoro, se pure riferito ad un singolo lavoratore, possa essere qualificato come condotta antisindacale, oltre al procedimento individuale potrà essere esperito, a cura degli organismi locali delle organizzazioni sindacali nazionali, lo speciale procedimento previsto dell’art. 28 dello Statuto.
Il Decreto Legislativo 198/2006, conosciuto anche come «codice delle pari opportunità», ha disciplinato in modo organico la parità di trattamento dell'uomo e della donna nei rapporti etico-sociali, economici (compreso il lavoro), civili e politici. In particolare, nell'ambito lavorativo, gli articoli 25 e 26 del Decreto in oggetto forniscono una definizione molto precisa di disposizioni, criteri, prassi, atti, patti o comportamenti (direttamente o indirettamente) discriminatori fondati sul sesso, includendovi espressamente anche ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza (nonché di maternità e paternità, anche adottive), in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti e le molestie sessuali. La normativa in esame ha introdotto un'ampia e organica disciplina vietando di fatto ogni tipo di discriminazione nei confronti delle lavoratrici o dei lavoratori in ragione del loro sesso, con particolare riferimento all’accesso al lavoro, al trattamento retributivo, alla posizione di lavoro quanto a qualifica, mansioni e progressione di carriera, all'accesso a prestazioni previdenziali, alle forme pensionistiche complementari collettive. Lungi dal potersi trattare in questa sede con la dovuta completezza una problematica complessa e in costante evoluzione quale quella in esame, basti in questa sede ricordare in primo luogo che la discriminazione sessuale si verifica ogni qual volta il datore di lavoro pone in essere atti determinati esclusivamente dal sesso del lavoratore.
Inoltre, il D.Lgs. 198/2006 disciplina le azioni positive per la realizzazione della parità tra uomo e donna, intese come misure volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità.
Anche in questo caso, per valutare la liceità del comportamento diviene essenziale l’indagine psicologica sugli effettivi intenti del datore di lavoro.
Oltre alla ordinaria tutela giudiziaria prevista avverso gli atti illegittimi, in caso di licenziamento eventualmente comminato per motivi discriminatori è applicabile la disciplina prevista dall’art. 18 dello Statuto sulla reintegrazione nel posto di lavoro.
La discriminazione per motivi religiosi risulta vietata dalla norma statutaria in commento. Anche in questo caso per essere illeciti gli atti del datore di lavoro debbono necessariamente avere come unica finalità quella di discriminare il lavoratore a causa delle sue convinzioni religiose, restando invece esclusi i casi in cui la decisione deriva da esigenze di altra e lecita natura (si pensi, ad esempio, alle c.d. organizzazioni di tendenza).
Nell’ambito della generale problematica dei limiti posti dall’art. 15 dello Statuto all’azione del datore di lavoro, particolare importanza riveste l’applicazione dei criteri di scelta nella procedura di mobilità o nella procedura per la messa in cassa integrazione dei lavoratori, questione di particolare rilevanza sul piano delle relazioni industriali con le organizzazioni sindacali.
In questo caso il potere di scelta del datore di lavoro risulta non solo condizionato dalla sussistenza di limiti esterni dovuti all’applicazione del generale principio di non discriminazione sancito dall’art. 15 dello Statuto, ma anche da ulteriori limiti, definiti come interni, dati dai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare indicati dalla legge 23 luglio 1991, n. 223.
È opportuno inoltre sottolineare che l’obbligo di non discriminare in alcun modo i lavoratori coinvolti nelle anzidette procedure permane anche nella ipotesi in cui si raggiunga un accordo sindacale.
La tutela giurisdizionale avverso gli atti discriminatori prevede la possibilità per il lavoratore discriminato di agire per ottenere o la declaratoria di nullità dell’atto nel caso in cui questo incida direttamente nella sua sfera giuridica e, ove ne sussistano i requisiti, per ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno cagionato.
A ciò si aggiunga che, qualora l’attività del datore sia discriminatoria per motivi di ordine sindacale, sarà esperibile da parte dell’organismo locale di una associazione nazionale anche la peculiare tutela giudiziaria prevista dall’art. 28 dello Statuto.
L’art. 16 dello Statuto dei lavoratori, che vieta trattamenti collettivi che presentino una natura discriminatoria, è strettamente connesso con la disciplina di cui al precedente art. 15, espressamente richiamato con riferimento alla tipizzazione dei motivi discriminatori.
La norma in esame disciplina le pattuizioni inserite dalla contrattazione collettiva tendenti ad attribuire a determinate categorie di lavoratori un differente trattamento fondato in via esclusiva su uno dei motivi tipizzati dall’art. 15, ed in ogni caso qualunque accordo del datore di lavoro che intenda realizzare il medesimo fine.
Con riferimento al necessario nesso di causalità tra l’atto del datore di lavoro e i motivi illeciti del recesso tipizzati dall’art. 15 dello Statuto vale quanto già riferito per le discriminazioni a livello individuale nei confronti dei singoli, ovvero che per essere illecito il comportamento deve avere quale esclusivo fondamento un motivo illecito che il giudice dovrà desumere non solo dalla oggettiva valutazione dell’atto posto in essere, ma anche
dalla indagine sotto il profilo psicologico del comportamento di xxxxx che pone in essere l’atto contestato.
La violazione della norma in esame determina la nullità dell’atto riconosciuto come discriminatorio. La conseguenza, oltre alla summenzionata nullità dell’atto è anche la possibile condanna al risarcimento del danno a favore di coloro che siano rimasti esclusi dal provvedimento contestato.
Inoltre, si rileva che, anche nel caso della declaratoria di nullità dell’atto, eventuali somme percepite dai lavoratori illegittimamente avvantaggiati non potranno essere oggetto di restituzione secondo quanto previsto dall’art. 2126 c.c.
Infine la norma prevede, quale ulteriore sanzione della riconosciuta natura discriminatoria dell’atto da parte del giudice, la possibile condanna al pagamento di una somma a favore del Fondo adeguamento pensioni pari all’importo dei trattamenti economici di maggior favore corrisposti illegittimamente nel periodo massimo di un anno.
8.5 Sindacati di comodo
L’art. 17 dello Statuto dei lavoratori vieta ai datori di lavoro e alle loro associazioni di costituire o sostenere le organizzazioni sindacali, con l’evidente finalità di evitare che il datore di lavoro possa alterare mediante la concessione di benefici economici l’attività e la effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali.
Si tratta di una fattispecie di difficile individuazione nella dinamica delle relazioni sindacali, in quanto se è vero che la disposizione in esame intende vietare la concessione di benefici alle organizzazioni sindacali, è altresì vero che talvolta possa accadere che all’esito di un confronto sindacale il datore decida di riconoscere a un sindacato una posizione di obbiettivo vantaggio.
Pertanto, il confine tra le concessioni lecite e illecite è da ricercarsi nella finalità delle concessioni stesse: in tutti i casi in cui sia ravvisabile una intenzione dell’imprenditore di limitare l’azione del sindacato, l’atto posto in essere è da considerarsi illecito.
È ormai pacifico che nell’ordinamento vigente non esiste un principio di parità di trattamento che consenta alle organizzazioni sindacali di esigere di essere poste tra di loro su di un piano paritario, atteso che il datore di lavoro ha la facoltà di attuare un comportamento differenziato tra organizzazioni sindacali purché tale comportamento non determini una lesione effettiva dei diritti sindacali.
La conseguenza dell’assenza di un diritto di parità di trattamento tra soggetti sindacali collettivi determina l’assenza anche di un obbligo per il datore di lavoro a trattare con tutte le organizzazioni sindacali presenti in azienda. Rimane irrisolta la questione se il datore di lavoro possa individuare un interlocutore sindacale privilegiato o meno.
Tale questione pertanto non potrà che essere risolta attraverso una valutazione caso per caso delle condizioni di opportunità di escludere o di ammettere una determinata organizzazione al tavolo delle trattative, e ciò a prescindere evidentemente da obbligazioni contrattuali in tal senso previste dalla contrattazione collettiva.
In presenza delle condizioni di esperibilità dell’azione prevista dell’art. 28 dello Statuto è pacifico che le organizzazioni sindacali contrapposte ai sindacati di comodo possano adire il giudice per chiedere che lo stesso inibisca all’imprenditore di proseguire dal sostenere o costituire sindacati di comodo ferma in ogni caso la possibilità di ricorrere al procedimento ordinario per l’accertamento dell’illiceità dell’atto o del comportamento del datore di lavoro e la conseguente declaratoria di nullità del medesimo.
Non sarebbe invece ammissibile una domanda giudiziale volta ad ottenere lo scioglimento del sindacato di comodo atteso il diritto costituzionalmente garantito di associazione.
8.6 Nuove tipologie contrattuali e diritti sindacali
Il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, ha introdotto nel nostro ordinamento la somministrazione di lavoro, il lavoro ripartito o job sharing ed il lavoro a chiamata o job on call, riconoscendo espressamente a favore dei lavoratori assunti con queste nuove tipologie contrattuali il godimento dei diritti sindacali.
In relazione ai diritti sindacali riconosciuti ai lavoratori somministrati, l’art. 24 del D.Lgs. 276/2003 garantisce loro le medesime tutele spettanti agli altri prestatori di lavoro subordinato, distinguendo l’ipotesi dell’attribuzione dei diritti sindacali presso l’impresa fornitrice (comma 1) da quella dell’esercizio dei diritti di libertà e di attività sindacale nei confronti della diversa impresa utilizzatrice (comma 2).
In particolare, il comma 2 della norma in esame prevede che i lavoratori somministrati possano partecipare alle assemblee del personale dipendente delle imprese utilizzatrici, mentre il successivo comma 3 garantisce ai prestatori di lavoro che dipendono da uno stesso somministratore e che operano presso diversi utilizzatori il diritto di riunione, rinviandone la disciplina o alla normativa vigente ovvero alla contrattazione collettiva.
Il lavoro ripartito o job sharing è definito come «uno speciale contratto di lavoro mediante il quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di una unica e identica obbligazione lavorativa».
Con specifico riferimento al tema dei diritti sindacali, l’art. 44, comma 1, del D.Lgs. 276/03 dispone la validità del principio di non discriminazione a favore dei lavoratori ripartiti.
Inoltre, ai sensi del successivo comma 3, i lavoratori coobbligati, salvo condizioni contrattuali di miglior favore, dispongono di un monte ore pari a 10 ore all’anno per partecipare alle riunioni assembleari che siano indette nell’unità produttiva alla quale appartengono.
Peraltro, sembrerebbe trattarsi di un monte ore complessivo a favore dei due coobbligati e ripartibile proporzionalmente tra i medesimi, atteso il tenore letterale della norma in esame.
Al lavoro intermittente o job on call può farsi ricorso «per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale o, in via provvisoriamente sostitutiva, dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali» (art. 34, comma 1, D.Lgs. n. 276/03).
In relazione ai diritti sindacali, l’art. 38, comma 1, del D.Lgs 276/03, richiama (al pari di quanto previsto per i lavoratori “ripartiti”) il divieto di discriminazione diretta ed indiretta previsto dalla legislazione vigente.
9. Esercizio di attività sindacale nei luoghi di lavoro
9.1 Campo di applicazione del titolo III dello Statuto dei Lavoratori; 9.2 RSA/RSU; 9.3 Assemblea dei lavoratori; 9.4 Referendum; 9.5 Tutele e guarentigie per i dirigenti delle RSA/RSU: trasferimento, licenziamento e permessi; 9.6 Permessi e aspettativa per i dirigenti sindacali provinciali e nazionali; 9.7 Diritto di affissione; 9.8 Proselitismo; 9.9 Raccolta di contributi sindacali; 9.10 Locali per le rappresentanze sindacali aziendali
9.1 Campo di applicazione del titolo III dello Statuto dei Lavoratori
Le norme contenute nel titolo III dello Statuto dei lavoratori impongono al datore di lavoro di porre in essere un comportamento positivo al fine di consentire ai lavoratori l’espletamento dell’attività sindacale.
Tuttavia il legislatore, in considerazione dell’onerosità delle forme di sostegno all’attività sindacale, ne ha circoscritto l’applicabilità a quei datori di lavoro che presentano i requisiti dettati dall’art. 35 Stat. Lav., che fa riferimento a due diversi criteri: quello dell’unità produttiva, quello territoriale costituito dal comune.
Infatti, le disposizioni di cui al titolo III, fatta eccezione per l’art. 27, si applicano alle imprese industriali e commerciali purché si presentino con sedi, stabilimenti, filiali, uffici o reparti autonomi occupanti più di 15 dipendenti (art. 35, comma 1), oppure con pluralità di unità produttive aventi meno di 16 dipendenti ma che ne occupino complessivamente più di 15 nell’ambito territoriale dello stesso comune.
Per quanto riguarda le imprese agricole, la soglia numerica è ridotta a sei prestatori di lavoro.
La norma in esame fa espresso riferimento alle imprese industriali, commerciali e agricole: sono quindi esclusi i soggetti non imprenditori.
L’opinione dominante ritiene che il legislatore, attraverso il termine impresa, abbia inteso riferirsi, in generale, «all’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi» nonché, per le imprese agricole, alla nozione di cui all’art. 2135
c.c. (Cass. 11 aprile 1994, n. 3353).
La giurisprudenza di legittimità è costante nel qualificare «unità produttiva» non una qualsiasi partizione aziendale nella quale operino uno o più lavoratori, bensì solo quell’articolazione indipendente avente sotto il profilo funzionale o finalistico, idoneità a esplicare, in tutto o in parte, l’attività dell’impresa della quale costituisca una componente connotata da autonomia tecnica e organizzativa sì da rappresentare una struttura distinta dal punto di vista economico, produttivo e spaziale, ferma la possibilità che la contrattazione collettiva possa introdurre una propria nozione di unità produttiva.
Per la determinazione del numero dei dipendenti deve farsi riferimento ai lavoratori in forza normalmente occupati, ossia assumendo quale parametro le medie e ordinarie esigenze produttive.
9.2 RSA/RSU
L’art. 19 Stat. Lav. è una norma di carattere definitorio, finalizzata all’individuazione dei soggetti titolari dei diritti sindacali di cui agli artt. 20 e ss. Stat. Lav.
La costituzione della RSA deve avvenire a «iniziativa» dei lavoratori, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie dei contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
L’iniziativa spetta ai lavoratori in quanto tali e non in quanto iscritti a particolari associazioni sindacali.
Quanto al secondo criterio, la giurisprudenza ha precisato che «la partecipazione negoziale di un’organizzazione sindacale debba riferirsi a un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro almeno per un settore o per un istituto importante della loro disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale, oppure a contratto nazionale o provinciale già applicato nella stessa unità produttiva» (Pret. Milano, 23 giugno 1997). Inoltre la giurisprudenza ritiene che non è sufficiente che il sindacato sia firmatario del contratto collettivo di settore, ma è necessario che il suddetto contratto sia effettivamente applicato all’interno dell’unità produttiva, ed a tal fine non è determinante la spontanea applicazione, da parte del datore di lavoro, di alcune soltanto delle clausole contrattuali previste nel contratto collettivo, se ad esse si accompagna l’esclusione di altre o comunque la esplicitazione della volontà di non intendere prestare adesione all’intero contratto.
Alla luce di principi giurisprudenziali espressi nel vigore del precedente art. 19 Stat. Lav., deve escludersi valore alla mera sottoscrizione successiva – c.d. firma per adesione – di un contratto oggetto di trattativa con altri sindacati e da costoro concluso, occorrendo l’effettiva partecipazione del soggetto firmatario al procedimento formativo e negoziale del contratto collettivo.
Ai sensi dell’art. 19 Stat. Lav. per contratto collettivo deve intendersi una regolamentazione negoziale riferita alla generalità dei lavoratori appartenenti all’unità produttiva nella quale il contratto collettivo trova applicazione e che si ponga quale obiettivo la stabile regolamentazione delle relazioni di lavoro all’interno dell’azienda.
Al riguardo, la Suprema Corte ritiene che la legittimazione a costituire RSA spetti anche alle organizzazioni sindacali che abbiano stipulato contratti collettivi cd. gestionali.
Si ritiene che il contratto debba rivestire la forma scritta e ciò non solo perché tale interpretazione è conforme al dettato della norma ma anche perché coerente con la ratio legis di garantire l’effettività della rappresentatività sindacale, e ciò sebbene la giurisprudenza di legittimità ritenga che il contratto aziendale debba essere ritenuto valido anche se non stipulato per iscritto.
Va poi precisato che il datore di lavoro per essere obbligato all’applicazione di un contratto collettivo non deve essere necessariamente iscritto all’associazione sindacale stipulante tale accordo, ben potendo il contratto collettivo essere applicato in azienda anche de facto mediante adesione implicita, che si verifica quando il datore di lavoro applichi numerose clausole del contratto collettivo ai rapporti individuali di lavoro, oppure mediante adesione esplicita, che si ha qualora nei contratti individuali vi sia un esplicito rinvio al testo collettivo.
Nella diversa ipotesi in cui il datore di lavoro non applichi nessun contratto collettivo, atteso il tenore letterale della norma in esame, si deve escludere che un’organizzazione sindacale possa essere legittimata a costituire RSA.
La disciplina generale della RSU è dettata dall’Accordo Interconfederale del 1° dicembre 1993, che ha recepito il Protocollo stipulato il 23 luglio 1993 tra Governo e parti sociali.
La RSU è un organismo a carattere unitario rappresentativo dei lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro con scopi di tutela e attività sindacale: le medesime possono essere costituite nell’ambito delle unità produttive nelle quali l’azienda occupi più di 15 dipendenti a iniziativa delle associazioni sindacali firmatarie del Protocollo 23 luglio 1993 e un terzo
dei loro componenti è assegnato alle organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto il CCNL applicato nell’unità produttiva.
L’iniziativa per la loro costituzione, da esercitarsi entro tre mesi dalla stipula dell’accordo, spetta alle associazioni sindacali firmatarie del Protocollo del 23 luglio 1993 (CGIL, CISL, UIL) nonché alle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva ovvero alle associazioni sindacali abilitate alla presentazione delle liste elettorali di cui all’art. 5 dell’Accordo Interconfederale, sempreché abbiano espresso adesione formale al contenuto del medesimo Accordo.
Per i successivi rinnovi, l’iniziativa può essere assunta anche dalla RSU stessa e dovrà essere esercitata almeno 3 mesi dalla scadenza del mandato.
Quanto alla loro composizione, due terzi dei componenti delle RSU sono nominati mediante elezione a suffragio universale e a scrutinio segreto tra liste concorrenti.
Il restante terzo viene assegnato alle liste presentate dalle associazioni sindacali firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva, e alla sua copertura si procede mediante elezione o designazione, in proporzione ai voti ricevuti.
L’art. 4 dell’Accordo Interconfederale stabilisce poi che «i componenti delle RSU subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità dei diritti, permessi, libertà sindacali e tutele di cui al titolo III dello statuto».
Inoltre, le RSU subentrano alle RSA e ai loro dirigenti nella titolarità dei poteri e nell’esercizio delle funzioni a essi spettanti per effetto di disposizioni di legge (art. 5).
I componenti delle RSU restano in carica per tre anni, al termine dei quali decadono automaticamente.
Le associazioni sindacali firmatarie dell’Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993 e quelle che vi abbiano successivamente aderito, oppure la RSU uscente, devono indire, almeno tre mesi prima dalla scadenza del mandato, le elezioni mediante comunicazione da affiggersi nell’apposito albo e da trasmettersi alla direzione aziendale.
Le elezioni sono valide se vi hanno partecipato almeno la metà dei lavoratori aventi il diritto di voto.
Hanno diritto di voto tutti gli operai, impiegati e quadri non in prova in forza all’unità produttiva.
Possono essere eletti gli operai, impiegati e quadri non in prova in forza all’unità produttiva. Tuttavia la contrattazione collettiva può regolare i limiti e l’esercizio del diritto di elettorato passivo dei lavoratori non a tempo determinato.
Possono presentare delle liste elettorali le associazioni sindacali firmatarie dell’Accordo Interconfederale e del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, nonché le associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto e atto costitutivo che accettino espressamente e formalmente la regolamentazione di cui all’Accordo Interconfederale e che presentino una lista corredata da un numero di firme dei lavoratori dipendenti dell’unità produttiva pari ad almeno il 5% degli aventi diritto. Non possono essere candidati coloro che hanno presentato la lista e i membri della Commissione elettorale.
Il compito di vigilare sul corretto e ordinato svolgimento delle elezioni spetta alla Commissione elettorale, la quale stabilisce, in accordo con la Direzione aziendale, data e luogo delle votazioni.
Le liste dei candidati devono essere portate a conoscenza dei lavoratori a cura della Commissione elettorale mediante affissione nell’apposito albo almeno 8 giorni prima della data fissata per le elezioni.
Il seggio elettorale è costituito da 5 scrutatori, che sono designati dai presentatori di ciascuna lista elettorale, e dal Presidente, nominato dalla commissione elettorale.
Ai fini dell’elezione dei due terzi dei componenti la RSU, il numero dei seggi sarà attribuito secondo il criterio proporzionale, in relazione ai voti conseguiti dalle singole liste concorrenti.
È ammesso ricorso avverso i risultati degli scrutini entro 5 giorni dall’affissione alla Commissione elettorale, la quale deve pronunciarsi entro 48 ore.
Contro la decisione della Commissione elettorale è ammesso ricorso entro 10 giorni ad apposito comitato dei garanti costituito a livello provinciale.
La nomina dei componenti della RSU deve essere comunicata per iscritto alla Direzione aziendale per il tramite della locale organizzazione imprenditoriale d’appartenenza a cura delle organizzazioni sindacali di rispettiva appartenenza.
Le organizzazioni sindacali, dotate dei requisiti di cui all’art. 19 Stat. Lav., che siano firmatarie dell’Accordo interconfederale o che comunque vi aderiscano, partecipando alla procedura di elezione delle RSU rinunciano formalmente e espressamente a costituire RSA ai sensi della norma citata.
9.3 Assemblea dei lavoratori
La funzione precipua dell’assemblea è quella di consentire ai lavoratori, anche non appartenenti al sindacato, di partecipare e discutere dei problemi di natura contrattuale e sindacale.
L’art. 20 Stat. Lav. costituisce esplicazione del principio di libertà di manifestazione del pensiero sancito dall’art. 1 Stat. Lav. e garantisce incondizionatamente il diritto d’assemblea che, in quanto tale, non incontra limiti in relazione alle contrapposte esigenze della parte imprenditoriale.
La disposizione in esame nulla prescrive in merito alle modalità di convocazione dell’assemblea operando, di contro, un rinvio alla contrattazione collettiva, anche aziendale, che può intervenire solo in melius e che, in ogni caso, può avere ad oggetto, a pena di nullità, esclusivamente le modalità di esercizio e non anche la titolarità e il contenuto del diritto.
L’ambito in cui si è registrato un più significativo intervento della contrattazione riguarda la disciplina del preavviso.
In assenza di disciplina collettiva, la soluzione circa i termini di preavviso va ricercata caso per caso in considerazione della finalità dell’istituto, consistente nel dare notizia tempestiva al datore di lavoro affinché il medesimo possa predisporre quanto necessario per il suo svolgimento.
Il mancato rispetto del termine di preavviso contrattualmente previsto legittima il rifiuto del datore di lavoro di concedere l’assemblea.
L’assemblea deve avere a «oggetto materie di interesse sindacale e del lavoro»: con siffatta espressione si devono intendere non solo i problemi specifici del sindacato
nell’azienda e del sindacato in generale, bensì tutta la tematica complessiva dell’iniziativa del sindacato.
Sotto diverso profilo, titolari del potere di convocazione sono le rappresentanze sindacali aziendali dell’unità produttiva, le quali possono agire sia singolarmente sia congiuntamente.
Al riguardo, si osserva come il diritto delle RSA di indire singolarmente l’assemblea non possa essere compresso atteso il carattere imperativo dell’art. 20 Stat. Lav.
In ogni caso, la giurisprudenza ha riconosciuto che i poteri conferiti dalla legge alle RSA, e in particolare quello di indire assemblee, sono esercitabili, in luogo o accanto a tali rappresentanze, anche da organismi aziendali – come i consigli di fabbrica o i consigli di delegati – che la disciplina collettiva abbia previsto separatamente dalle RSA, sempre che in relazione a detti organismi risultino sussistenti i requisiti stabiliti dall’art. 19 della legge 300/1970 per la costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali (con le quali i consigli di fabbrica sono fatti coincidere da moltissimi contratti collettivi).
Possono partecipare all’assemblea tutti i lavoratori appartenenti all’unità produttiva, fermo restando il diritto delle RSA di indire l’assemblea solo per un gruppo di lavoratori.
Il diritto di partecipare all’assemblea presuppone la sussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata e non anche l’attualità della prestazione, sì che ad essa possono partecipare anche i lavoratori sospesi in cassa integrazione, quelli in sciopero ed in ferie.
Si osserva, inoltre, che alle riunioni possono partecipare dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale, ponendo quale unica condizione il rispetto dell’onere della preventiva comunicazione al datore di lavoro.
Salva l’ipotesi in cui vi sia stato espresso invito, è da escludersi che il datore di lavoro possa partecipare, neppure per il tramite di propri incaricati, all’assemblea dei dipendenti, atteso che la medesima è riservata ai lavoratori e ai loro rappresentanti sindacali.
La norma in esame stabilisce che «i lavoratori hanno diritto di riunirsi, nell’unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dell’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore l’anno, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione».
Come osservato dalla giurisprudenza «i lavoratori ben possono convocare l’assemblea in un luogo diverso da quello dell’unità produttiva senza che il datore di lavoro possa legittimamente opporre – al fine di negare l’obbligazione retributiva – un suo preteso, ma irrilevante interesse a che l’assemblea abbia corso proprio nei locali dell’azienda, atteso anche che egli non ha potere di controllo sullo svolgimento dell’assemblea» (Cass. 17 maggio 1985, n. 3038), pretendendo a esempio che l’assemblea si svolga nei propri locali.
V’è altresì da considerare che la retribuzione decorre dal momento in cui il lavoratore sospende l’attività lavorativa per partecipare all’assemblea.
Quanto al luogo di svolgimento, l’art. 20 Stat. Lav. non configura un obbligo del datore di lavoro di porre a disposizione dei lavoratori un locale per le assemblee, ma solo un’obbligazione negativa a fronte di una facoltà dei lavoratori di scegliere, nell’ambito dell’unità produttiva in cui prestano la loro opera, il luogo in cui riunirsi.
Peraltro, il datore di lavoro non è vincolato dalla scelta effettuata dai lavoratori potendovisi opporre qualora questa comporti la compromissione di interessi giuridicamente tutelati.
In ogni caso se il datore di lavoro, pur non essendovi contrattualmente tenuto, abbia messo a disposizione dei lavoratori un locale idoneo per le assemblee, si deve escludere
la facoltà dei medesimi di scegliere, a loro discrezione, un luogo diverso, salvo che il locale sia obiettivamente inidoneo.
Inoltre, l’assemblea retribuita prevista dall’art. 20 Stat. Lav. può essere legittimamente convocata anche presso locali esterni all’unità produttiva.
9.4 Referendum
Il referendum previsto dall’art. 21 Stat. Lav. è un istituto di democrazia diretta finalizzato a consentire una più larga e immediata partecipazione dei lavoratori alle problematiche sindacali, il cui esercizio è sottoposto a specifiche condizioni e limitazioni.
La prima è rappresentata dalla legittimazione a indire il referendum, conferita a tutte le rappresentanze sindacali presenti in azienda.
Pertanto, il potere di indire il referendum è subordinato all’iniziativa congiunta di tutte le RSA ovvero delle RSU, ai sensi dell’art. 1 dell’Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993.
È pertanto da escludere che altri soggetti – quali le organizzazioni extra-aziendali o, addirittura, il datore di lavoro – siano legittimati a ricorrere a tale istituto.
Il referendum, poi, deve vertere su «materie inerenti all’attività sindacale».
Quanto alle modalità di svolgimento, la disciplina del referendum è alquanto scarna, stante l’assenza di disciplina contrattuale, alla quale rinvia l’art. 21 Stat. Lav.
Il referendum può svolgersi nell’ambito aziendale e deve comunque tenersi al di fuori dell’orario di lavoro, al fine di garantire le esigenze della produttività.
Il diritto di partecipare al referendum spetta a tutti i lavoratori appartenenti all’unità produttiva e alla categoria interessata, a prescindere dall’affiliazione sindacale.
Analogamente a quanto osservato in materia di assemblea, la consultazione è aperta anche ai lavoratori posti in cassa integrazione, atteso che, durante il periodo di sospensione, i lavoratori conservano tutti i diritti autonomi rispetto all’espletamento dell’attività lavorativa.
L’esito del referendum, sia esso propositivo o successivo di approvazione, assume un valore prettamente politico dovendosi escludere che il medesimo possa ritenersi in qualche modo vincolante.
Valga tuttavia segnalare che ai sensi dell'art. 5 dell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, in caso di presenza in azienda di RSA costituite ex art. 19 della legge n. 300/70, i contratti collettivi aziendali cd. di prossimità esplicano efficacia erga omnes «se approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che, singolarmente o insieme ad altre, risultino destinatarie della maggioranza delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori dell’azienda nell’anno precedente a quello in cui avviene la stipulazione, rilevati e comunicati direttamente dall’azienda… Inoltre, i contratti collettivi aziendali approvati dalle rappresentanze sindacali aziendali con le modalità sopra indicate devono essere sottoposti al voto dei lavoratori promosso dalle rappresentanze sindacali aziendali a seguito di una richiesta avanzata, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto, da almeno una organizzazione firmataria del presente accordo o almeno dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del 50% più uno degli aventi diritto al voto. L’intesa è respinta con il voto espresso dalla maggioranza semplice dei votanti».
9.5 Tutele e guarentigie a favore dei dirigenti delle RSA/RSU: trasferimento, licenziamento e permessi
Gli artt. 22 e 18, commi 4, 5, 6, 7, Stat. Lav. disciplinano rispettivamente il trasferimento e il licenziamento del dirigente sindacale,
Le particolari tutele contenute in tali disposizioni si applicano ai dirigenti delle RSA e ai membri delle commissioni interne «sino all’anno successivo a quello in cui è cessato l’incarico» e ai candidati di commissioni interne «sino al terzo mese successivo a quello in cui è stata eletta la commissione interna» (art. 22, comma 2).
L’art. 22 Stat. Lav. prevede innanzitutto, al comma 1, che il trasferimento dei dirigenti delle RSA, dei candidati e dei membri delle commissioni interne possa essere disposto solo previo nulla osta delle associazioni sindacali di appartenenza.
Le garanzie di cui all’art. 22 Stat. Lav. sono invocabili solo dai dirigenti sindacali delle RSA (e non anche dai meri componenti della stessa) i quali, per le specifiche funzioni da essi espletate, svolgano un’attività tale da poterli far considerare responsabili della conduzione dei suddetti organismi e, quindi, risultino anche titolari del diritto ai permessi retribuiti di cui al successivo articolo 23.
Secondo l’interpretazione giurisprudenziale e dottrinale prevalente, la disposizione in esame è considerata una norma di natura eccezionale e come tale insuscettibile di applicazione analogica estensiva: ne consegue che essa non può essere invocata dai lavoratori appartenenti a organismi sindacali diversi dalle RSA.
L’art. 22 Stat. Lav. non introduce alcuna limitazione numerica dei soggetti destinatari della tutela.
Le associazioni sindacali devono comunicare all’imprenditore i nominativi dei dirigenti sindacali delle RSA, fatta salva l'ipotesi in cui il datore di lavoro conosca personalmente il nominativo dei dirigenti sindacali.
L’Accordo Interconfederale 20 dicembre 1993 prevede espressamente che la nomina dei componenti della RSU debba essere comunicata per iscritto alla direzione aziendale a cura delle organizzazioni sindacali di rispettiva appartenenza.
Come già anticipato, l’art. 22 Stat. Lav. subordina il trasferimento dei dirigenti delle RSA, dei candidati e dei membri delle commissioni interne al preventivo nulla osta delle associazioni sindacali, il quale costituisce un’ulteriore limitazione al diritto dell’imprenditore di esercitare lo jus variandi.
In dottrina la questione della natura giuridica è tuttora dibattuta: per alcuni, esso costituisce una condizione sospensiva, per altri, un atto autorizzativo.
Al riguardo la giurisprudenza, aderendo alla prima tesi sopra esposta, ritiene che il nulla osta abbia efficacia di condizione sospensiva dell’atto unilaterale con il quale l’imprenditore trasferisce il prestatore di lavoro.
Sotto il profilo oggettivo, l’art. 22 Stat. Lav. ricomprende tutti i trasferimenti da un’unità produttiva all’altra, a prescindere dall’effetto pregiudizievole sul lavoratore nonché dal fine perseguito dal datore di lavoro, atteso che, in tale fattispecie, si verifica una presunzione legale circa il carattere discriminatorio del trasferimento disposto in assenza del nulla osta delle associazioni sindacali: peraltro, la giurisprudenza maggioritaria esclude dalla tutela della norma in esame gli spostamenti del dirigente sindacale interni all'unità produttiva, cioè da un reparto ad un altro.
La norma in esame non si applica invece alle ipotesi di trasferimento collettivo, di soppressione dell’unità produttiva e di trasferimento conseguente a promozione.
Il rifiuto opposto dal datore di lavoro alla prestazione lavorativa offerta dal dirigente sindacale trasferito in violazione dell’art. 22 Stat. Lav. configura mora credendi. Pertanto, il dirigente sindacale illegittimamente trasferito avrà diritto alle retribuzioni maturate.
Legittimata ad agire per l’impugnazione del trasferimento disposto in violazione dell’art.
22 Stat. Lav. è l’associazione sindacale di appartenenza del lavoratore, restando ovviamente salva l’esperibilità del ricorso ex art. 28 Stat. Lav., rimedio generale per la repressione della condotta sindacale.
Quanto al licenziamento, l’art. 18 Stat. Lav. prevede una particolare tutela nei confronti dei soggetti indicati dall’art. 22 Stat. Lav., ossia dirigenti sindacali, candidati e membri delle commissioni interne, stabilendo che l’istanza di reintegrazione, per la quale non sono previste particolari formalità, possa essere presentata in ogni stato e grado del giudizio di merito congiuntamente dal lavoratore e dal sindacato cui questo aderisce o conferisce mandato.
L’istanza congiunta non comporta un intervento in giudizio del sindacato il quale, pertanto, non assume la qualità di parte.
Tuttavia, si ha un allargamento del contraddittorio atteso che, ai meri fini processualistici, il sindacato è parte nel senso che il medesimo è contitolare ex lege della legittimazione ad attivare l’istanza in parola.
Il procedimento disciplinato dall’art. 18, ultima parte, ha natura cautelare, in quanto l’ordinanza di reintegrazione è caratterizzata dalla provvisorietà e dalla strumentalità rispetto alla sentenza di merito della quale tende a garantire l’effettività di tutela, neutralizzando il pericolo nel ritardo derivante dalle lungaggini del procedimento ordinario.
Sotto il profilo del periculum in mora, atteso che la norma richiede unicamente la sussistenza del fumus boni juris, la dottrina ha dedotto come l’interruzione della continuità dell’attività sindacale conseguente a licenziamento del sindacalista interno costituisca periculum in re ipsa.
Si osserva altresì che non è disciplinata la fase dell’istruzione sommaria che precede l’emanazione del provvedimento, anche se si può fare riferimento alle norme che regolano il procedimento d’urgenza, con il quale presenta forte analogia.
Si ritiene che il giudice debba fissare apposita udienza anche senza il rispetto dei termini di cui all’art. 415 c.p.c., in ragione del carattere d’urgenza della procedura, restando tuttavia esclusa la possibilità che il giudice adito possa emettere un decreto inaudita altera parte.
L’ordinanza di reintegrazione è soggetta a reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c. entro dieci giorni dalla comunicazione, anche in caso di provvedimento di xxxxxxx.
Nell’istituto del permesso vanno ricomprese tutte quelle fattispecie nelle quali viene previsto a favore del lavoratore subordinato un esonero temporaneo dall’espletamento dell’attività lavorativa, con la conseguenza che per il periodo di fruizione del permesso il rapporto di lavoro deve considerarsi sospeso.
All’interno della variegata tipologia dei permessi lavorativi vi sono anche quelli concessi ai rappresentanti sindacali per consentire loro lo svolgimento dell’attività sindacale.
L’art. 23 Stat. Lav. disciplina la fattispecie dei permessi retribuiti spettanti ai dirigenti sindacali aziendali, la cui ratio consiste nella necessità di assicurare loro il libero e pieno
esercizio del mandato ricevuto, senza che l’espletamento delle funzioni sindacali possa in alcun modo essere disincentivato dalla perdita della retribuzione relativa al tempo impiegato nello svolgimento dei compiti inerenti alla posizione rivestita.
Pertanto la norma configura, attraverso una prescrizione di carattere inderogabile, un diritto soggettivo, pieno e incondizionato, che esclude ogni potere discrezionale di concessione o autorizzazione del datore di lavoro in ordine alla fruizione dei permessi sindacali retribuiti, nonché ogni subordinazione dei medesimi alla compatibilità con le esigenze aziendali, la cui fruizione è subordinata soltanto alla previa tempestiva comunicazione al datore di lavoro, affinché quest’ultimo sia reso edotto delle intenzioni del lavoratore di esercitare tale diritto.
I beneficiari dei permessi in esame, in assenza nel nostro ordinamento giuridico della definizione legale di «dirigente sindacale aziendale», vanno individuati nei lavoratori che, a prescindere dalla qualificazione meramente nominalistica della loro posizione nell’organismo sindacale, svolgano, per le specifiche funzioni da essi espletate, un’attività tale da poterli far considerare responsabili della conduzione della RSA.
Naturalmente, nell’ipotesi in cui la RSA risulti composta da un solo esponente, costui ne sarà l’unico dirigente con diritto di fruire dei permessi.
Occorre peraltro sottolineare come la problematica in esame sia superata in concreto dalla circostanza che spesso la contrattazione collettiva, derogando in melius i limiti minimi prefissati dal legislatore, determina un «monte ore» annuo complessivo delle ore fruibili a titolo di permessi retribuiti, in tal modo attribuendo alle RSA la facoltà discrezionale di designare di volta in volta il lavoratore che beneficia degli stessi, il quale può anche essere privo della qualifica formale di dirigente della rappresentanza sindacale.
Sotto diverso profilo, i permessi retribuiti per l’espletamento di attività sindacale spettano esclusivamente ai dirigenti delle RSA che siano state regolarmente costituite, e non anche ai responsabili di organizzazioni sindacali che non abbiano acquisito legittimazione ai sensi dell’art. 19 Stat. Lav.
V’è infine da rilevare che, laddove siano costituite RSU, in base all’Accordo Interconfederale del 20 dicembre 1993 i componenti di queste ultime subentrano ai dirigenti delle RSA nella titolarità del diritto in esame.
Nell’ipotesi in cui all’interno della medesima azienda siano costituite una pluralità di RSA, al dirigente di ciascuna di esse spetta il diritto di fruire del numero di ore di permessi retribuiti stabiliti dalla norma in esame o dalla contrattazione collettiva, senza alcun frazionamento tra le diverse rappresentanze sindacali.
La norma in esame stabilisce il numero minimo dei dirigenti sindacali che hanno diritto a fruire dei permessi retribuiti, limite derogabile in melius da parte della contrattazione collettiva.
L’art. 23 Stat. Lav. fissa altresì il numero di ore fruibili a titolo di permessi retribuiti da parte dei dirigenti sindacali aziendali nella misura di un’ora all’anno per ogni dipendente nelle unità produttive con meno di 200 dipendenti, e di otto ore mensili nelle altre ipotesi.
Anche in questo caso i limiti minimi prefissati dal legislatore sono derogabili in melius
dalla contrattazione collettiva.
Quanto alla modalità di fruizione dei permessi retribuiti, la Suprema Corte ha affermato la legittimità della richiesta avanzata dal lavoratore anche per un notevole periodo di tempo continuativo.
Trattandosi di un diritto pieno e incondizionato, la fruizione dei permessi è subordinata esclusivamente alla previa tempestiva comunicazione al datore di lavoro, da effettuare per il tramite della RSA di appartenenza.
Per quanto attiene il requisito della tempestività, la norma prevede che la comunicazione venga inviata al datore di lavoro «di regola» almeno 24 ore prima della fruizione del permesso, affinché l’imprenditore possa assumere gli accorgimenti organizzativi utili a sopperire all’assenza del lavoratore.
Peraltro, in casi di assoluta e oggettiva urgenza è legittima la richiesta di fruizione dei permessi retribuiti avanzata con un preavviso inferiore.
In termini generali, al datore di lavoro è preclusa qualsiasi possibilità di controllo preventivo sui permessi retribuiti richiesti, atteso che la fruizione degli stessi non è in alcun modo subordinata a un intervento discrezionale di natura autorizzativa o concessoria: la giurisprudenza è tuttavia orientata nel senso di riconoscere al datore di lavoro la possibilità di contestarne l’uso per fini diversi da quelli per i quali è stata formulata la richiesta, per evitare che la fruizione dei permessi retribuiti venga effettuata per interessi personali del lavoratore.
Non è invece rinvenibile un orientamento univoco circa l’attribuzione al datore di lavoro della facoltà di esercizio del potere disciplinare nei confronti del rappresentante sindacale che abbia richiesto i permessi retribuiti per attività di natura non sindacale.
Con riferimento al tema della quantificazione della retribuzione spettante al lavoratore assente per permesso sindacale, la giurisprudenza è pressoché univoca nell’affermare che la base di calcolo è rappresentata dal trattamento retributivo ordinario, con esclusione degli emolumenti economici corrisposti in relazione alle concrete modalità di espletamento della prestazione lavorativa.
Il comportamento datoriale consistente nel diniego o comunque nella limitazione dell’esercizio del diritto disciplinato dalla norma in esame costituisce a tutti gli effetti condotta antisindacale.
L’art. 24 Stat. Lav. attribuisce ai dirigenti sindacali aziendali il diritto di fruire di permessi non retribuiti per «la partecipazione a trattative sindacali o a congressi e convegni di natura sindacale», con elencazione peraltro ritenuta meramente esemplificativa.
Tale riconoscimento costituisce un’ipotesi legale di esonero dalla prestazione lavorativa con conservazione del posto di lavoro, sebbene in questa specifica ipotesi non permanga a carico del datore di lavoro l’obbligazione retributiva.
È pacificamente ritenuto che la norma in esame introduce un vero e proprio diritto soggettivo, il cui esercizio non risulta in alcun modo condizionato da interventi discrezionali di concessione o di autorizzazione da parte del datore di lavoro.
I soggetti titolari del diritto di fruizione dei permessi non retribuiti sono i dirigenti sindacali aziendali indicati nell’art. 23 Stat. Lav.
Peraltro, la dottrina è orientata nel senso di ritenere che il beneficiario di tale tipologia di permessi può anche non coincidere con quanti usufruiscono dei permessi retribuiti, atteso che sono le rappresentanze sindacali aziendali a comunicare di volta in volta al datore di lavoro i loro rappresentanti.
Quanto alla loro durata, ciascun dirigente sindacale aziendale ha il diritto di assentarsi per un minimo di otto giorni all’anno, a prescindere dal numero di lavoratori impiegati nell’unità produttiva.
La fruizione dei permessi sindacali in esame deve essere preceduta dalla comunicazione scritta al datore di lavoro, per il tramite della RSA di appartenenza, da effettuare con un preavviso di tre giorni, sì da consentire all’imprenditore di adottare gli accorgimenti organizzativi utili a sopperire all’assenza del prestatore.
9.6 Permessi e aspettativa per i dirigenti sindacali provinciali e nazionali
L’art. 30 Stat. Lav. attribuisce ai dirigenti sindacali, membri degli organi direttivi provinciali e nazionali delle associazioni riconosciute ai sensi dell’art. 19 Stat. Lav., il diritto di usufruire di permessi retribuiti, in tal modo consentendo e incoraggiando l’esercizio dell’attività sindacale.
È pacifico in giurisprudenza che tali permessi costituiscono l’oggetto di uno specifico diritto che non tollera condizionamenti da parte del datore di lavoro, sì che il loro esercizio non risulta in alcun modo condizionato da interventi discrezionali di concessione o di autorizzazione da parte del datore di lavoro.
Secondo la giurisprudenza di legittimità l’art. 30 Stat. Lav. non ha carattere meramente programmatico ma immediatamente precettivo: pertanto, nell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva non sia intervenuta a disciplinare la fruizione di tale tipologia di permessi, il relativo diritto potrà essere azionato sulla base di un accordo individuale o, in assenza di quest’ultimo, a seguito dell’intervento del giudice, il quale ne determina le modalità di esercizio tenendo conto degli usi e dell’equità, nonché delle previsioni contenute negli artt. 23 e 24 Stat. Lav., cui è possibile fare riferimento in via analogica.
La disposizione esclude i dirigenti provinciali e nazionali delle confederazioni sindacali, fatta ovviamente salva la possibilità che la contrattazione collettiva ammetta espressamente costoro a fruire di tali permessi.
Nell’ipotesi in cui la struttura organizzativa dell’organizzazione sindacale non preveda organi direttivi provinciali, ma soggetti periferici diversi (per esempio a livello di comprensorio), la giurisprudenza di merito è orientata nel senso di riconoscere il diritto ai permessi a favore dei dirigenti di tali organismi periferici.
La norma rinvia ai «contratti di lavoro» per la determinazione quantitativa dei permessi in esame, che di regola avviene attraverso la fissazione di un monte ore annuo.
Al pari dei limiti quantitativi, anche le concrete modalità di esercizio dei permessi in esame sono determinate dalla contrattazione collettiva, la quale «può prevedere, oltre alla quantificazione dei permessi, l’indicazione al datore di lavoro dei lavoratori legittimati a fruirne e la comunicazione (non già la richiesta) preventiva dei permessi da utilizzare in concreto» (Cass. 20 luglio 1989, n. 3430), comunicazione che «deve provenire dall’organizzazione sindacale di appartenenza, non essendo al riguardo sufficiente una sorta di «autocertificazione» da parte del dirigente beneficiario del permesso» (Trib. Milano, 7 aprile 1993).
Quanto all’individuazione del preavviso con il quale tale comunicazione deve pervenire al datore di lavoro, in mancanza di una espressa indicazione in tal senso da parte della contrattazione collettiva essa può essere compiuta dal giudice, in sede di valutazione dell’antisindacalità della condotta del datore di lavoro che abbia rifiutato il permesso, alla stregua degli usi o dell’equità, tenendo altresì conto del principio di correttezza, rapportato alle finalità della norma, nonché di disposizioni riguardanti casi simili o analoghi; pertanto, l’anzidetto termine di preavviso ben può essere considerato pari a quello di almeno 24 ore previsto dall’art. 23 Stat. Lav.
Secondo l’orientamento pressoché univoco della giurisprudenza, ai fini della quantificazione della retribuzione spettante al lavoratore assente per permesso sindacale occorre utilizzare quale base di calcolo il trattamento retributivo ordinario, escludendo pertanto gli emolumenti economici corrisposti in relazione alle concrete modalità di espletamento della prestazione lavorativa, così come già osservato in occasione dell’art. 23 Stat. Lav.
L’articolo 31 dello Statuto dei Lavoratori è finalizzato a consentire ai lavoratori chiamati a ricoprire cariche pubbliche elettive oppure cariche sindacali provinciali o nazionali l’espletamento delle relative funzioni, in applicazione del principio sancito dall’articolo 51 della Carta Costituzionale, in base al quale tali soggetti devono disporre del tempo necessario all’adempimento della loro funzione con diritto alla conservazione del posto di lavoro.
La norma introduce nel nostro ordinamento giuridico un vero e proprio diritto potestativo il cui esercizio è assicurato sulla base della sola richiesta del lavoratore senza che occorra una manifestazione di volontà da parte del datore di lavoro cui si dirige, che viene a trovarsi in una posizione di immediata e incondizionata soggezione, così come avviene per i permessi di cui agli artt. 23, 24 e 30 Stat. Lav.
L’aspettativa non retribuita spetta, per espressa previsione normativa, ai lavoratori subordinati chiamati a ricoprire cariche sindacali provinciali e nazionali, nonché agli eletti al Parlamento nazionale, europeo o regionale, ovvero in altre cariche pubbliche elettive.
Per quanto attiene il diverso profilo della modalità di fruizione dell’aspettativa, la giurisprudenza di legittimità ritiene che «il collocamento in aspettativa non retribuita non consiste necessariamente in un unico periodo coincidente con l’intera durata del mandato (o compreso in esso), ma può essere frazionato in distinti periodi, di maggiore o minore durata, nel corso dell’espletamento del mandato stesso, atteso che l’art. 31 Stat. Lav. non pone alcuna limitazione di carattere temporale» (Cass. 1° dicembre 1986, n. 7097).
Infine, la norma in esame attribuisce ai lavoratori il diritto a vedersi computato il periodo di aspettativa «sotto ogni profilo, ai fini previdenziali, come periodo di effettivo lavoro» (Cass. 1 luglio 1998, n. 6430), il cui relativo onere economico grava direttamente sugli enti previdenziali erogatori.
Nell’ipotesi in cui durante il periodo di aspettativa non retribuita insorga la malattia, al lavoratore «spettano tutte le prestazioni, tanto sanitarie che economiche, a carico dei competenti enti preposti all’erogazione delle prestazioni dovute in caso di malattia, ivi compresa l’indennità giornaliera» (Cass. 20 gennaio 1993, n. 678).
Inoltre, in base all’orientamento pressoché prevalente, «la lavoratrice in stato di gravidanza che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, si trovi – anche da più di sessanta giorni – in aspettativa politica o sindacale non retribuita, ha diritto a norma dell’art. 31 Stat. Lav. alle prestazioni previdenziali comprendenti non solo quelle sanitarie, ma anche quelle economiche, quale l’indennità giornaliera di maternità» (Cass., SS.UU., 16 marzo 1993, n. 3092).
9.7 Diritto di affissione
L’articolo 25 dello Statuto dei Lavoratori introduce a favore delle RSA il diritto di affiggere gli atti e il materiale in genere che le medesime vogliano portare a conoscenza non soltanto dei dipendenti a esse associati, ma anche di quelli non aderenti nonché del datore di lavoro.
Il limite posto all’esercizio del diritto in esame è costituito dal requisito che «pubblicazioni, testi e comunicazioni» devono essere «inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro».
L’esercizio del diritto in esame compete esclusivamente alle RSA, e non anche all’organizzazione sindacale priva del requisito di rappresentatività richiesto dall’art. 19 Stat. Lav.
La Suprema Corte ha anche precisato che l’art. 25 Stat. Lav. impone al datore di lavoro la messa a disposizione di un apposito spazio per ciascuna RSA, mentre lo spazio di affissione deve essere uno solo nell’ipotesi in cui nell’unità produttiva sia stata costituita una RSU.
Il datore di lavoro è obbligato a predisporre spazi idonei a consentire l’affissione del materiale inerente a materie di interesse sindacale, ma sono esclusi ulteriori obblighi accessori a suo carico come, per esempio, la predisposizione di bacheche o il loro ripristino in caso di danneggiamento.
Il datore di lavoro deve altresì individuare gli appositi spazi in luoghi facilmente accessibili a tutti i destinatari delle comunicazioni e interni all’unità produttiva.
Il comportamento datoriale consistente nel diniego o comunque nella limitazione dell’esercizio del diritto disciplinato dalla norma in esame costituisce a tutti gli effetti condotta antisindacale, sì che l’organismo locale sindacale è legittimato a esperire l’azione giudiziale prevista dall’art. 28 Stat. Lav.
In linea puramente teorica, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro abbia proceduto alla defissione del materiale informativo sindacale, le RSA possono tutelare l’esercizio del diritto in esame anche attraverso il ricorso allo strumento offerto dall’azione di spoglio prevista dall’art. 1168 c.c.
9.8 Proselitismo
Nella sua formulazione originaria l’art. 26 Stat. Lav. riconosceva, al comma 1, il diritto dei lavoratori di svolgere attività di proselitismo all’interno dei luoghi di lavoro e, ai commi 2 e 3, il diritto delle organizzazioni sindacali di percepire contributi dai lavoratori tramite ritenuta operata sul salario di questi ultimi.
Per effetto del referendum abrogativo svoltosi il 13 giugno 1995, con decorrenza dal 28 settembre 1995 è rimasto in vigore solo il comma 1 della disposizione in esame, il cui relativo diritto spetta, da una parte, ai dipendenti e, dall’altro, alle associazioni sindacali dei lavoratori, che devono essere identificate con quelle individuate dall’art. 14 Stat. Lav., e non dall’art. 19.
L’attività di proselitismo si esplica sostanzialmente nell’attività di propaganda, in qualunque forma essa venga svolta, e nella raccolta di iscrizioni al sindacato, da esercitarsi nel rispetto del limite testuale «del normale svolgimento dell’attività aziendale»: pertanto, l’attività di proselitismo può essere svolta tanto durante le pause di lavoro, quanto durante l’orario lavorativo, purché essa «non si traduca nell’indiscriminata autorizzazione del singolo dipendente, ancorché dirigente sindacale, a interrompere di propria iniziativa l’attività lavorativa per intraprendere discussioni di carattere sindacale» (Cass. 3 marzo 1978, n. 1066) e non «comporti il sacrificio di interessi opposti, ma altrettanto meritevoli di tutela, come quelli (costituzionalmente protetti) relativi alla libertà d’iniziativa economica e di organizzazione dell’impresa» (Cass. 22 febbraio 1983, n. 1325), come avviene nelle ipotesi di sospensione o di disfunzione dell’attività produttiva.
Tali principi valgono anche con specifico riferimento all’attività di volantinaggio di materiale di contenuto sindacale svolta all’interno del luogo di lavoro, che deve essere assimilata a quella di proselitismo disciplinata dalla norma in esame.
9.9 Raccolta di contributi sindacali
Una recente pronunzia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite sembrerebbe aver risolto l’annoso contrasto giurisprudenziale relativo alla natura giuridica dell’istituto in esame, statuendo che «il referendum del 1995, abrogativo del comma 2 dell’art. 26 Stat. Lav., e il susseguente D.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo. Pertanto, ben possono i lavoratori, nell’esercizio della propria autonomia privata ed attraverso lo strumento della cessione del credito in favore del sindacato – cessione che non richiede, in via generale, il consenso del debitore – richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato stesso» (Cass. SS.UU. 21 dicembre 0000,
x. 00000; successivamente, in senso conforme, Cass. 6 giugno 2006, n. 13250; Cass. 14 marzo 2007, n. 5917).
Il diritto alla riscossione dei contributi sindacali è attribuito genericamente alle associazioni sindacali e non soltanto a quelle affiliate a confederazioni maggiormente rappresentative, né si richiede che l’organizzazione sindacale sia firmataria dei contratti collettivi applicati in azienda: l’unico presupposto imprescindibile è rappresentato dal fatto che l’organizzazione abbia effettivamente natura sindacale.
Le cd. quote di servizio consistono invece nei contributi a favore delle organizzazioni sindacali previsti dalla contrattazione collettiva a carico di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro iscrizione alle associazioni sindacali medesime, a titolo di concorso nelle spese sostenute per le attività di negoziazione, ed eventualmente di stampa e di distribuzione del contratto collettivo.
Tale istituto si realizza concretamente attraverso una trattenuta sulla retribuzione corrisposta ai dipendenti dal datore di lavoro.
9.10 Locali per le rappresentanze sindacali aziendali
L’articolo 27 dello Statuto dei lavoratori introduce il diritto delle RSA all’utilizzazione di un locale, prevedendo al riguardo due diverse ipotesi a seconda delle dimensioni dell’unità produttiva: più specificamente, laddove l’unità produttiva occupi almeno 200 dipendenti, il datore di lavoro deve mettere permanentemente a disposizione delle RSA un locale comune; qualora invece l’unità produttiva sia di dimensioni più ridotte, il locale deve essere posto a disposizione della RSA soltanto quando questa ne faccia apposita richiesta nei confronti del datore di lavoro, richiesta che deve essere formulata in occasione di ogni successiva riunione della rappresentanza medesima.
In tale seconda ipotesi, pertanto, il locale viene concesso (a titolo di comodato) solo provvisoriamente alle RSA e resta, almeno di regola, nella piena disponibilità dell’imprenditore ai fini dello svolgimento della normale attività produttiva.
La fruizione del locale messo a disposizione dal datore di lavoro spetta esclusivamente alle RSA e non anche agli altri soggetti sindacali privi dei requisiti previsti dall’articolo 19 Stat. Lav.
Qualora l’impresa sia articolata in una pluralità di unità produttive, ma sia stata costituita una sola RSA, il datore di lavoro non è obbligato a individuare un locale in ciascuna autonoma unità produttiva.
Nella più frequente ipotesi in cui nell’ambito della medesima unità produttiva sono presenti una pluralità di RSA, il tenore letterale della norma comporta a carico del datore di lavoro la messa a disposizione di un idoneo locale comune per tutte le RSA, le quali devono disciplinare autonomamente le modalità di fruizione dello stesso.
La giurisprudenza di legittimità esclude che alle riunioni tenute nei locali ubicati all’interno dell’azienda possano essere «invitati, senza il consenso del datore di lavoro, soggetti estranei all’impresa ad accedere e trattenersi nel locale stesso» (Xxxx. 27 marzo 1982, n. 1906).
Infine, devono considerarsi antisindacali i comportamenti del datore di lavoro consistenti nel rifiuto di concedere alle RSA un locale per l’esercizio delle loro funzioni, nel disturbo all’uso del medesimo o nella concessione di spazi inadeguati.
10. Organizzazioni sindacali e diritti di consultazione e informazione
10.1 Mobilità e licenziamento collettivo; 10.2 Cassa integrazione ordinaria e straordinaria;
10.3 Trasferimento d’azienda; 10.4 Part time e somministrazione di lavoro; 10.5 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro.
Il D.Lgs. 6 febbraio 2007, n. 25, ha attuato la Direttiva Comunitaria n. 14/2002 in materia di diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori.
Il Decreto chiarisce sia la nozione di informazione (trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai rappresentanti dei lavoratori finalizzata alla conoscenza ed all’esame di questioni attinenti all’attività d’impresa), sia quella di consultazione (ogni forma di confronto, scambio di opinioni e dialogo tra rappresentanti dei lavoratori e datore di lavoro su questioni attinenti all’attività d’impresa) (art. 2). L’informazione è volta a rendere possibile e preparare, se del caso, la consultazione (art. 4, comma 4).
L’informazione e la consultazione devono riguardare: l’andamento recente e quello prevedibile dell’impresa, nonché la sua situazione economica; la situazione, la struttura e l’andamento prevedibile dell’occupazione, oltre che, in caso di rischio per i livelli occupazionali, le relative misure di contrasto; le decisioni suscettibili di comportare rilevanti cambiamenti dell’organizzazione del lavoro (art. 4, comma 3).
Sono onerate dei segnalati obblighi di informazione e consultazione le imprese che occupano almeno 50 dipendenti. (art. 3).
La contrattazione collettiva, deputata a stabilire le modalità di informazione e consultazione (art. 2, comma 2), determina le sedi, i tempi, i soggetti, le modalità e i contenuti dei diritti di informazione e consultazione riconosciuti ai lavoratori (art. 4, comma 1).
È prevista una deroga all’obbligo generale di procedere a consultazioni e comunicazioni quando sussistano comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o da arrecarle danno (art. 5 comma 2). Inoltre, vi è il divieto in capo ai rappresentanti dei lavoratori e agli esperti che eventualmente li assistono di rivelare a terzi nonché ai lavoratori rappresentati le informazioni che siano state loro fornite in via riservata e qualificate come tali dal datore (art. 5 comma 1).
Il legislatore italiano ha introdotto all'art. 7 un articolato sistema sanzionatorio in caso di violazioni dei rispettivi obblighi commesse da parte dei datori di lavoro, dei rappresentanti dei lavoratori o degli esperti che li assistano.
L’organo competente a ricevere le segnalazioni ed a irrogare le sanzioni amministrative pecuniarie a carico di datori di lavoro ed esperti è la Direzione Provinciale del Lavoro.
Oltre alla disciplina di carattere generale introdotta nel nostro ordinamento specifiche disposizioni normative prevedono espressamente l’obbligo del datore di lavoro di avviare una procedura di informazione e consultazione con le rappresentanze sindacali in relazione a determinati specifici istituti.
10.1 Mobilità e licenziamento collettivo
Le imprese che intendano avviare la c.d. procedura di mobilità per riduzione del personale hanno l’obbligo di darne comunicazione scritta, contenente i requisiti prescritti dall’art. 4, legge n. 223/1991, alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (nonché alla Regione o agli uffici delegati quali, per esempio,
l’Agenzia regionale per l’impiego), al fine di coinvolgere nel confronto le organizzazioni esterne che abbiano un sicuro referente rappresentativo presso l’azienda e che, pertanto, assumono il ruolo di naturali interlocutori dell’azienda. In ogni caso, al fine di consentire comunque al sindacato di intervenire nella procedura, in mancanza delle rappresentanze sindacali aziendali, la comunicazione di apertura della procedura di mobilità va effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Entro 7 giorni dal ricevimento di tale comunicazione, a richiesta dei destinatari sindacali, le parti procedono all’esame congiunto allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza del personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale personale.
Tale prima fase della procedura sindacale deve esaurirsi entro 45 giorni dal ricevimento della richiesta di esame congiunto da parte dell’imprenditore.
Nel caso in cui venga raggiunto l’accordo durante tale prima fase il datore di lavoro può intimare immediatamente i licenziamenti concordati. In ogni caso il datore di lavoro è tenuto a comunicare alla Regione il risultato della consultazione. Analoga comunicazione può essere inviata anche alle associazioni sindacali dei lavoratori.
Qualora non sia stato raggiunto l’accordo, l’imprenditore deve comunicare i motivi per i quali ciò non sia stato possibile alla Regione la quale deve convocare le parti al fine di un ulteriore esame.
Tale seconda fase deve in ogni caso concludersi entro ulteriori 30 giorni.
Raggiunto l’accordo o allo spirare del termine dei 30 giorni, l’imprenditore può collocare in mobilità gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso nel rispetto dei termini di preavviso.
Contestualmente deve essere comunicato per iscritto alla Regione e alle associazioni di categoria alle quali è stata effettuata la comunicazione di apertura della procedura l’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto del nominativo, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia nonché, con puntuale indicazione, delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta.
10.2 Cassa integrazione ordinaria e straordinaria Cassa integrazione ordinaria.
Il datore di lavoro è tenuto, nei casi di eventi oggettivamente non evitabili che rendono non differibile la contrazione o la sospensione dell’attività produttiva, a comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, alle organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più rappresentative operanti nella provincia, la durata prevedibile della contrazione o sospensione nonché il numero dei lavoratori interessati (art. 5, comma 1, legge 164/1975): in tale ipotesi la procedura di consultazione è successiva alla sospensione.
Tale richiesta deve essere effettuata entro 3 giorni dalla precedente comunicazione e la procedura deve esaurirsi entro i 5 giorni successivi (art. 5, legge 164/1975).
Nel caso in cui la contrazione o sospensione dell’attività produttiva sia dovuta ad altre cause (eventi non oggettivamente evitabili) l’imprenditore è, invece, tenuto ad effettuare una comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali nonché alle organizzazioni sindacali di categoria più rappresentative a livello provinciale, relativa alle cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, all’entità e alla durata prevedibile, al numero dei lavoratori interessati: pertanto, la procedura di consultazione in tale ipotesi è preventiva.
A tale comunicazione segue, a richiesta di una delle parti, l’esame congiunto. La procedura deve esaurirsi entro 25 giorni dalla richiesta di esame congiunto, ridotti a 10 per le aziende fino a 50 dipendenti.
Cassa integrazione straordinaria.
Ai sensi del D.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, il datore di lavoro che intenda richiedere l’intervento straordinario di integrazione salariale deve darne tempestiva comunicazione alle RSU o, in mancanza, alle organizzazioni sindacali di categoria comparativamente più rappresentative a livello provinciale (art. 2, D.P.R. 218/2000).
10.3 Trasferimento d’azienda
L’art. 47 della legge 29 dicembre 1990, n. 428, come modificato dal X.Xxx. 2 febbraio 2001, n. 18, sancisce in caso di trasferimento di un'azienda in cui sono occupati più di 15
dipendenti (o di un ramo di essa) l’obbligo di comunicazione a carico del cedente e del cessionario nei confronti delle «rispettive rappresentanze sindacali unitarie, ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali costituite, a norma dell’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nelle unità produttive interessate, nonché ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento. In mancanza delle predette rappresentanze aziendali, resta fermo l’obbligo di comunicazione nei confronti dei sindacati di categoria comparativamente più rappresentativi».
Su richiesta scritta dei destinatari, comunicata entro 7 giorni dal ricevimento della predetta comunicazione, il cedente ed il cessionario sono tenuti ad avviare, entro i successivi sette giorni dal ricevimento della predetta richiesta, un esame congiunto con i soggetti sindacali richiedenti.
La consultazione si intende esaurita qualora, decorsi 10 giorni dal suo inizio, non sia stato raggiunto un accordo.
Il mancato rispetto da parte del cedente o del cessionario dell’obbligo di esame congiunto (così come la comunicazione di informazioni false o incomplete) costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav., ma non comporta l’invalidità dell’intero negozio giuridico traslativo.
10.4 Part time e somministrazione di lavoro
Part time.
Il datore di lavoro è tenuto a informare le rappresentanze sindacali aziendali, ove esistenti, con cadenza annuale, sull’andamento delle assunzioni a tempo parziale, la relativa tipologia ed il ricorso al lavoro supplementare. Tale obbligo d’informazione non è stato in alcun modo modificato dall’art. 46 del D.Lgs. 276/2003.
Somministrazione di lavoro.
Ai sensi dell’art. 24, comma 4, del D.Lgs. 276/03, l’impresa utilizzatrice ha l’obbligo di comunicare alla rappresentanza sindacale unitaria, ovvero alle rappresentanze sindacali aziendali e, in mancanza, alle associazioni territoriali di categoria aderenti alle confederazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale:
a) il numero e i motivi del ricorso alla somministrazione di lavoro prima della stipula del contratto di somministrazione;
b) ogni dodici mesi il numero e i motivi dei contratti di somministrazione di lavoro conclusi, la durata degli stessi, il numero e la qualifica dei lavoratori interessati.
10.5 Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro
Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato delle assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta. Tale rapporto deve essere trasmesso alle rappresentanze sindacali aziendali e al consigliere regionale di parità.
11. Diritto di sciopero
11.1 Qualificazione, natura e finalità; 11.2 Titolarità del diritto; 11.3 Forme attuative; 11.4 Limiti all’esercizio; 11.5 Condotte connesse o alternative allo sciopero; 11.6 Effetti dell’esercizio del diritto di sciopero; 11.7 Rifiuto datoriale delle prestazioni lavorative offerte dai non scioperanti; 11.8 Rimedi esperibili dal datore di lavoro; 11.9 Disciplina nei servizi pubblici essenziali
11.1 Qualificazione, natura e finalità
Con il riconoscimento del diritto di sciopero nella Carta Costituzionale, il suo esercizio viene qualificato come diritto soggettivo di libertà e, quindi, viene considerato un fatto giuridicamente lecito.
Ciò comporta, da una parte, che il legislatore non possa emanare alcun provvedimento che contrasti con tale diritto e, dall’altra, l’impossibilità del datore di lavoro di compiere atti diretti a reprimerlo: infatti, è stata dapprima prevista la nullità del licenziamento determinato dalla partecipazione del lavoratore alle attività sindacali e quindi dalla partecipazione allo sciopero (art. 4, legge n. 604/1966) e, successivamente, estesa la tutela del lavoratore contro atti di discriminazione determinati dalla partecipazione allo sciopero (art. 15 Stat. Lav.).
Pertanto, la partecipazione a uno sciopero non comporta alcuna responsabilità contrattuale del lavoratore, poiché l’esercizio di tale diritto comporta la sospensione delle obbligazioni dedotte nel contratto.
Quanto alla sua natura, l'iniziale qualificazione dello sciopero come diritto potestativo del lavoratore connesso direttamente al rapporto di lavoro è stata abbandonata a favore della più recente definizione dello sciopero come diritto assoluto della persona, che presuppone l’esistenza di un contratto di lavoro ma non è necessariamente inerente a tale rapporto giuridico, ammettendo così la legittimità dello sciopero attuato anche per fini non contrattuali.
Infatti, accanto allo sciopero effettuato per fini contrattuali sono state via via riconosciute altre fenomenologie.
Lo sciopero economico-politico è finalizzato a ottenere o impedire un intervento su materie di immediato interesse dei lavoratori ma è diretto, anziché contro il proprio datore di lavoro, verso gli organi politici, il Governo e il Parlamento: l’unico limite è che lo sciopero non sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale.
Lo sciopero di solidarietà ricorre, invece, quando l’astensione di un gruppo di lavoratori viene effettuata per sostenere e solidarizzare con le rivendicazioni di altri lavoratori e non per far valere pretese che influiscano sul proprio rapporto di lavoro.
11.2 Titolarità del diritto
Il diritto di sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo, essendo rimessa ai singoli lavoratori la decisione sulle concrete modalità di esercizio dell’astensione collettiva.
Al di fuori del settore dei servizi pubblici essenziali, non è necessaria una preventiva formale proclamazione dello sciopero né una preventiva autorizzazione da parte dell’assemblea sindacale, essendo comunque necessario che l’astensione, totale o parziale, dal lavoro sia collettivamente concordata, a prescindere da chi prenda l’iniziativa
della sua attuazione, in presenza di una situazione conflittuale implicante la tutela di un interesse collettivo.
In linea generale non è nemmeno necessario un obbligo di preavviso minimo, come invece previsto eccezionalmente dalla legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali.
Neppure il numero dei dipendenti che partecipa allo sciopero è rilevante: ai fini della sua legittimità è necessario, infatti, valutare la funzione dello sciopero, il fine al quale tende l’astensione concertata dal lavoro quale mezzo di pressione di un interesse collettivo.
Di certo l’astensione dal lavoro di un singolo lavoratore, posta in essere per motivi individuali, non può essere considerata esercizio del diritto di sciopero, che rappresenta invece un mezzo di lotta attuato in forma collettiva e per la difesa di interessi collettivi.
Strettamente connesso al tema della titolarità del diritto di sciopero è quello relativo alle
c.d. clausole di tregua, mediante le quali i lavoratori, per il tramite delle loro rappresentanze sindacali o aziendali, si impegnano, per un periodo di tempo determinato, all’osservanza di un comportamento di collaborazione attiva, tale da garantire la normalità dei rapporti e la produttività dell’impresa, rinunziando a far valere, nello stesso periodo, le loro pretese, accolte e soddisfatte mediante l’accordo stesso.
L’obbligo di tregua sindacale non costituisce una rinuncia al diritto di sciopero, ma è un temporaneo impedimento al suo esercizio concordata a livello collettivo e quindi si pone come una limitazione lecita e consentita dell’azionabilità di pretese che si considerano già soddisfatte.
Di regola le clausole di tregua sindacale sono vincolanti solo per le associazioni che hanno stipulato il contratto collettivo e per i lavoratori che hanno accettato (mediante mandato o rinvio) che per quel periodo le condizioni di lavoro siano quelle e non altre. Nella pratica può accadere che la clausola sia formulata come una c.d. clausola obbligatoria e non come una vera e propria clausola normativa del contratto: nella prima ipotesi è quindi vincolante solo per le XX.XX. stipulanti e non per i singoli lavoratori.
Recentemente, l'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011 ha previsto che i contratti collettivi aziendali – stipulati con il voto favorevole della maggioranza delle RSU o da una o più RSA titolari della maggioranza delle deleghe in azienda – che «definiscono clausole di tregua sindacale finalizzate a garantire l'esigibilità degli impegni assunti con la contrattazione collettiva, hanno effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali firmatarie del presente accordo Interconfederale operanti all'interno dell'azienda e non per i singoli lavoratori».
Nel caso in cui i sindacati violino la clausola contrattuale di tregua organizzando o non ostacolando lo sciopero, incorrono in responsabilità risarcitoria per inadempimento nei confronti dell’associazione imprenditoriale e dei singoli imprenditori danneggiati, essendo ritenuti applicabili i rimedi risarcitori attinenti alla responsabilità contrattuale ex art. 1460 c.c.
I lavoratori che violano il patto di tregua sono responsabili nei confronti del datore di lavoro sia sotto il profilo della responsabilità civile per inadempimento contrattuale sia sotto il diverso profilo disciplinare.
Il Protocollo 23 luglio 1993, sottoscritto da CGIL, CISL e UIL, prevede un periodo di raffreddamento di quattro mesi (tre mesi prima e uno dopo la scadenza del contratto) durante il quale le parti collettive si obbligano a non assumere iniziative unilaterali o ad adottare azioni dirette durante la presentazione delle piattaforme contrattuali per il rinnovo del contratto collettivo nazionale.
La violazione di tale periodo comporta come conseguenza a carico della parte inadempiente l’anticipazione o lo slittamento di tre mesi del termine a partire dal quale decorre l’indennità di vacanza contrattuale.
11.3 Forme attuative
In assenza di norme regolatrici di carattere generale, l’esercizio del diritto di sciopero può avvenire con varie modalità attuative, tant’è che lo sciopero viene definito come un fenomeno a carattere multiforme. Nella prassi sono state individuate diverse tipologie che si distinguono sotto il profilo dell’estensione, della durata e dell’articolazione dell’astensione collettiva.
Sotto il profilo dell’estensione lo sciopero viene definito:
- generale, se esteso ai lavoratori di tutto il Paese, di un territorio o di un grande settore produttivo;
- categoriale, se riguarda una particolare categoria professionale o industriale;
- aziendale, che si distingue a sua volta in totale, se coinvolge tutti i dipendenti, o parziale se l’astensione è esercitata limitatamente dagli addetti a un singolo reparto o stabilimento.
Sotto il profilo della durata vengono individuate le seguenti tipologie di sciopero:
- a oltranza, cioè programmato e praticato senza limiti di tempo, per settimane o mesi interi. Attualmente non trova diffusione nell’esperienza sindacale italiana;
- breve; è lo sciopero attuato per un tempo inferiore all’orario giornaliero;
- dello straordinario;
- dimostrativo o simbolico, consistente nell’astensione dal lavoro per un tempo molto breve, anche di pochi minuti.
Sotto il profilo dell’articolazione si distinguono lo sciopero a singhiozzo (la sospensione dell’attività lavorativa è frazionata nel tempo in modo intermittente) e quello a scacchiera che consiste, invece, nell’articolazione dello sciopero diversificata nel tempo e nello spazio in modo tale che l’astensione non sia unitaria e contestuale: in sostanza si attua una sospensione in un solo reparto dell’azienda cui segue la sospensione in un altro reparto.
11.4 Limiti all’esercizio
La tipologia dello sciopero articolato ha dato adito ad un'analisi giurisprudenziale e dottrinale tesa a individuare e delimitare i limiti dell’esercizio del diritto di sciopero.
La sentenza della Cassazione n. 711 del 1980 ha sancito quale limite del diritto di sciopero quello della libertà di iniziativa economica dell’imprenditore sancito dall’art. 41 della Costituzione: alla stregua di tale indirizzo, successivamente consolidato, lo sciopero deve qualificarsi come illegittimo ogniqualvolta sia in contrasto con valori e interessi altrettanto protetti e garantiti dall’ordinamento.
Lo sciopero, pertanto, per essere legittimo, non deve ledere l’attività imprenditoriale intesa come diritto del datore di lavoro di preservare la propria organizzazione aziendale, attività che nel contempo garantisce la promozione del diritto al lavoro di tutti i cittadini secondo quanto sancito dall’art. 4 della Costituzione: alla luce di tale orientamento, di fronte a forme anomale di sciopero si deve distinguere tra danno alla produttività (che pregiudica radicalmente l’interesse dell’imprenditore a poter continuare a svolgere la propria attività
produttiva e quindi rende illegittimo lo sciopero) e danno alla produzione (che consiste nella impossibilità di ricavare un risultato produttivo ed è riferito alla quantità dei beni prodotti: in tal caso lo sciopero deve considerarsi legittimo in quanto tale pregiudizio è conseguenza fisiologica dello sciopero).
Per quanto riguarda i problemi relativi alla tutela dell’integrità degli impianti a ciclo continuo in costanza dello sciopero, essi generalmente vengono affrontati e risolti attraverso accordi tra l’imprenditore e i sindacati, in base ai quali un determinato numero di lavoratori si impegna a prestare la propria attività al fine di evitare danni agli impianti produttivi e con modalità tali da non sminuire l’efficacia dello sciopero.
In assenza di tali accordi, il datore di lavoro potrà procedere alle c.d. «comandate unilaterali», decise in assenza di previa intesa.
11.5 Condotte connesse o alternative allo sciopero
Vi sono altre condotte attuate dai dipendenti che, pur essendo considerate forme di agitazione sindacale, tuttavia non possono ritenersi azioni di sciopero e, conseguentemente, l’ordinamento in alcuni casi non ne riconosce la legittimità, in altri ne condiziona la legittimità a determinati presupposti.
Lo sciopero delle mansioni è ritenuta una condotta illegittima dalla giurisprudenza, poichè l’astensione dalla prestazione deve riguardare l’intera attività dello scioperante il quale non può scegliere a propria discrezione quali compiti adempiere e quali, invece, sospendere.
Rientra invece nel concetto di sciopero, e pertanto è legittimo, il picchettaggio attuato dai dipendenti e volto unicamente a convincere i dipendenti ad aderire allo sciopero: esso è tuttavia illecito nel momento in cui, da azioni di mera persuasione nei confronti dei dipendenti al fine di convincerli ad aderire allo sciopero, sfocia in condotte penalmente illecite dirette a impedire l’ingresso in azienda ai lavoratori che non intendono aderire allo sciopero, quali azioni intimidatorie, minacce, oppure la c.d. muraglia umana che consiste nell’ostruzionismo posto in essere dai lavoratori all’ingresso dello stabilimento mediante il proprio corpo.
Il rallentamento dei ritmi di cottimo entro il minimo preventivato costituisce una legittima attività sindacale di autotutela e, pertanto, comporta l’antisindacalità delle sanzioni disciplinari irrogate dal datore di lavoro nei confronti dei cottimisti.
Quando, invece, la diminuzione del rendimento attuata dai cottimisti sotto forma di lotta sindacale va al di sotto del minimo contrattualmente previsto, tale condotta configura inadempimento contrattuale e pertanto legittima, da una parte, l’adozione di sanzioni disciplinari e, dall’altra, la proporzionale trattenuta sulla retribuzione, incidendo anche sulla quota minima fissa.
Lo sciopero del rendimento è caratterizzato dall’adempimento irregolare o parziale della prestazione che, configurandosi come illecito contrattuale, legittima il datore di lavoro a trattenere la parte di retribuzione corrispondente alla prestazione non resa.
L'ostruzionismo (chiamato anche sciopero pignolo o alla rovescia) consiste nell’applicazione pedante e cavillosa delle direttive impartite al fine di rendere difficoltosa l’attività aziendale.
Il blocco merci consiste invece nell’azione operata dagli scioperanti diretta a impedire l’entrata e l’uscita delle merci dallo stabilimento. Tale forma di agitazione sindacale è
stata da sempre considerata illecita, in quanto lesiva dei diritti dell’imprenditore e dei dipendenti che non aderiscono all’agitazione.
Diversamente dallo sciopero bianco, che si attua senza impedimento della normale attività lavorativa, l’occupazione d’azienda si verifica quando i lavoratori aderenti allo sciopero permangono nell’azienda astenendosi dal prestare l’attività lavorativa al preciso fine di ostacolare il normale svolgimento del lavoro.
E' una fattispecie che fuoriesce dalla nozione di sciopero ed è una condotta penalmente perseguibile in virtù dell’art. 508, comma 1, c.p. ai sensi del quale è punito chiunque «col solo scopo d’impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro, invade o occupa l’altrui azienda …».
Contro tale condotta illecita sono esperibili i mezzi di tutela del possesso (azione di spoglio o azione di manutenzione) nonché l’azione di risarcimento del danno.
Il sabotaggio, consistente nel danneggiamento degli edifici adibiti ad azienda agricola o industriale o delle macchine e degli strumenti adibiti alla produzione allo scopo di turbare o impedire il normale svolgimento dell’attività produttiva, è espressamente incriminato dall’art. 508, comma 2, c.p., norma ritenuta costituzionalmente legittima.
Quanto al boicottaggio, l’ordinamento incrimina la condotta di chi, mediante propaganda o valendosi della forza e autorità di partiti, leghe o associazioni, induca una o più persone a non stipulare patti di lavoro o a non somministrare materie o strumenti necessari al lavoro, ovvero a non acquistare gli altrui prodotti agricoli o industriali con lo scopo, quindi, di isolare un determinato datore di lavoro dai rapporti economico-commerciali. E ciò al fine di ottenere particolari obiettivi contrattuali, politici, di protesta o solidarietà e di coazione dell’autorità pubblica (art. 507 c.p.).
Il blocco stradale è escluso dalla nozione di sciopero ed è considerato illecito penale dall’art. 1 del d.l. 66/1948 in tema di libera circolazione sulle strade ferrate e ordinarie qualora la condotta degli agenti sia mossa dalla precisa intenzionalità di impedire la circolazione stradale.
11.6 Effetti dell’esercizio del diritto di sciopero
Lo sciopero determina la sospensione delle due obbligazioni fondamentali del rapporto di lavoro: la prestazione lavorativa e la corrispettiva retribuzione.
A fronte della sospensione dell’attività lavorativa, in virtù del principio di sinallagmaticità che caratterizza il rapporto di lavoro, viene meno l’obbligo retributivo del datore di lavoro per le ore di sciopero effettuate nei confronti di coloro che hanno partecipato allo sciopero.
Per la determinazione dell’importo giornaliero della retribuzione da trattenere, in genere è la contrattazione collettiva a prevedere che la retribuzione mensile debba essere divisa per un determinato coefficiente numerico.
Poiché le mensilità aggiuntive (tredicesima e quattordicesima) hanno natura di retribuzione differita, è opinione giurisprudenziale dominante la legittimità della riduzione proporzionale della gratifica natalizia e delle altre mensilità aggiuntive, data la loro natura retributiva, a meno che la contrattazione collettiva non disponga diversamente.
Si ritiene, poi, che il periodo di assenza dal lavoro per sciopero non sia utile ai fini del conseguimento del diritto alle ferie annuali retribuite e, pertanto, è legittima la decurtazione dei ratei di ferie afferenti il periodo di sciopero (Cass. 15 febbraio 1985, n. 1315).
Quanto alla malattia, secondo l'orientamento prevalente il diritto all’integrazione retributiva del lavoratore già assente per malattia non viene meno a causa dell’astensione collettiva poiché la speciale disciplina dettata dall’art. 2110 c.c., che è ispirata da ragioni di carattere sociale, investe in via esclusiva il rapporto tra datore e lavoratore. Conseguentemente, su tale rapporto esclusivo non possono incidere le ragioni che, nel medesimo periodo di sospensione del rapporto, rendano impossibile la prestazione di altri dipendenti in servizio.
Sotto altro profilo, invece, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che ai fini della determinazione del periodo di comporto debbano essere computati i giorni di malattia concomitanti ad astensioni collettive per sciopero (Cass. 12 agosto 1994, n. 7405).
Il trattamento di integrazione salariale non può essere decurtato a causa dello sciopero effettuato dai dipendenti già sospesi in cassa integrazione guadagni, sia in caso di sospensione totale che a orario ridotto, sia perché la natura previdenziale del trattamento di integrazione salariale esclude il nesso di sinallagmaticità, sia per il fatto che i lavoratori sono stati già sospesi dal datore di lavoro e quindi devono essere considerati esonerati dalla prestazione lavorativa).
Il diritto delle lavoratrici madri di usufruire dei riposi per allattamento non può essere escluso o ridotto per la partecipazione della lavoratrice madre a uno sciopero, a condizione che lo sciopero non coincida con le ore stabilite per i riposi, mentre l’indennità giornaliera di maternità non spetta alle lavoratrici gestanti che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, siano assenti dal lavoro senza diritto alla retribuzione da più di sessanta giorni ancorché tale assenza sia dovuta all’esercizio del diritto di sciopero cui le lavoratrici hanno aderito.
Durante l’esercizio dello sciopero, benché siano sospese le obbligazioni relative alla prestazione di lavoro e al pagamento della retribuzione, non restano sospesi gli altri diritti e obblighi connessi o derivanti dal rapporto di lavoro. Infatti, la sospensione del lavoro non può incidere sulla sfera dei diritti sindacali non collegati direttamente con l’esecuzione della prestazione, e in particolare sull’attuazione del diritto di assemblea garantito dall’art. 20 Stat. Lav., che anzi ha un nesso immediato con l’esercizio del diritto di sciopero.
11.7 Rifiuto datoriale delle prestazioni lavorative offerte dai non scioperanti
Il datore di lavoro può rifiutare di ricevere le prestazioni offerte dai dipendenti che non aderiscano allo sciopero non corrispondendo la relativa retribuzione, a condizione che la prestazione offerta risulti inutilizzabile e non proficua, avuto riguardo all’organizzazione aziendale preesistente allo sciopero.
Il crumiraggio diretto è il comportamento adottato da quei lavoratori che, non aderendo all’agitazione sindacale, svolgono, in concomitanza dello sciopero, le proprie prestazioni lavorative o accettano di sostituire i lavoratori scioperanti.
Quello indiretto consiste, invece, nella sostituzione dei lavoratori in sciopero con personale già dipendente (crumiraggio interno) oppure con personale appositamente assunto (crumiraggio esterno).
Quanto al crumiraggio interno, secondo la giurisprudenza di merito non pone in essere un comportamento antisindacale il datore di lavoro che sostituisce il personale scioperante se tale sostituzione avviene senza finalità ritorsive e solo per attenuare, senza vanificarli, gli effetti negativi dello sciopero.
È invece discussa in giurisprudenza la possibilità di adibire i dipendenti in servizio a mansioni inferiori al fine di sostituirli temporaneamente al personale aderente all’agitazione in corso.
A questo proposito si segnala un recente orientamento giurisprudenziale, secondo cui la sostituzione dei lavoratori «è legittima purché non siano violate norme di tutela di tali lavoratori, il che non si verifica se siano assegnate ai crumiri mansioni inferiori marginali e accessorie» (Cass. 26 settembre 2007, n. 20164).
È illegittimo il ricorso a personale esterno all’azienda per sostituire i dipendenti aderenti all’astensione collettiva in quanto considerato lesivo del diritto di sciopero.
Da ultimo si rileva che il D.Lgs. 276/2003 vieta espressamente la somministrazione di lavoro per la sostituzione del personale in sciopero.
11.8 Rimedi esperibili dal datore di lavoro
Contro le azioni di sciopero ritenute illegittime, il datore di lavoro può avvalersi degli ordinari rimedi giudiziari al fine del risarcimento dei conseguenti danni, e competente è il giudice del lavoro.
Il datore di lavoro può fare ricorso al procedimento cautelare ex art. 700 c.p.c qualora dall’astensione collettiva derivi un pericolo di danno grave ed irreparabile alla produttività dell’azienda, alla sicurezza degli impianti o all’incolumità delle persone, ovvero quando lo sciopero superi i c.d. limiti esterni.
Il lavoratore si espone a procedimento disciplinare se le modalità dei comportamenti posti in essere dal medesimo superano i limiti c.d. esterni allo sciopero.
Diversamente, l’adozione di provvedimenti disciplinari a carico di lavoratori che hanno aderito a uno sciopero legittimo costituisce condotta antisindacale.
11.9 Disciplina nei servizi pubblici essenziali
La legge 146/1990, successivamente novellata dalla legge 11 aprile 2000, n. 83 costituisce la prima regolamentazione organica dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, ovverosia quelli «volti a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione» (art. 1, comma 1), essendo irrilevanti sia la forma di organizzazione del servizio (concessione o convenzione) che la natura giuridica del rapporto di lavoro.
Le forme di autotutela dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori regolati dalla riformata legge 146/1990 sono definite quali «astensione collettiva delle prestazioni, a fini di protesta o di rivendicazioni di categoria» (art. 2-bis, legge 146/1990).Oggetto della disciplina non è qualsiasi astensione collettiva dei lavoratori autonomi indicati, ma solo quella che incida «sulla funzionalità» dei servizi pubblici essenziali. I lavoratori autonomi sono quindi tenuti a rispettare l’obbligo di garantire le misure volte a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili, misure individuate mediante codici di autoregolamentazione la cui promozione è affidata alla Commissione di garanzia.
Per i lavoratori autonomi vale la stessa disciplina descritta per lo sciopero dei lavoratori subordinati, restando, ovviamente, inattuabili le sanzioni disciplinari previste per i lavoratori subordinati sia le sanzioni per i sindacati.
La legge impone 3 limiti all’esercizio del diritto di sciopero:
1) preavviso e indicazione della durata;
2) indicazione della motivazione;
3) erogazione della prestazione indispensabile.
La legge prevede un termine di preavviso non inferiore a dieci giorni, aumentabili dal contratto collettivo applicato, cui è collegata la necessità di indicazione non solo del giorno ma anche dell'ora di inizio dello sciopero e delle modalità dell'agitazione.
L’obbligo di indicazione della durata impedisce la proclamazione di uno sciopero ad oltranza, che per definizione non è predeterminato nella durata.
Le uniche eccezioni agli obblighi di preavviso minimo e di indicazione della durata si verificano «nei casi di astensione dal lavoro in difesa dell’ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori» (art. 2, comma 7), fermo restando l’obbligo di erogare le prestazioni indispensabili.
Si sottolinea la necessità dell'obbligo di motivazione dello sciopero, che risponde alla ratio
di agevolare l’intervento mediatorio dell’ente eventualmente preposto a tale attività.
Al termine dell’astensione, le amministrazioni e le imprese erogatrici hanno l’obbligo di
Il legislatore, con la legge 83/2000 ha statuito che le misure volte a garantire l’erogazione delle prestazioni indispensabili «devono altresì indicare intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione di uno successivo, quando ciò sia necessario a evitare che, per effetto di scioperi proclamati in successione da soggetti sindacali diversi e che incidono sullo stesso servizio finale o sullo stesso bacino di utenza, sia oggettivamente compromessa la continuità dei servizi pubblici di cui all’art. 1» (art. 2, comma 2, legge 146/1990).
La legge, quindi, fornita un’indicazione di massima della nozione di prestazione indispensabile, rimette alla contrattazione collettiva la determinazione delle prestazioni indispensabili, per quanto riguarda il rapporto di lavoro privato, e agli accordi o ai regolamenti di servizio, per quanto riguarda l’impiego pubblico.
Le parti, se non intendono adottare le procedure previste da accordi o contratti collettivi, devono chiedere l’espletamento del tentativo di conciliazione presso la prefettura o il
comune, in caso di sciopero locale, oppure presso il Ministero del lavoro, qualora lo sciopero abbia rilievo nazionale.
In caso di mancato raggiungimento di un accordo circa le prestazioni indispensabili, la Commissione di garanzia ha il potere di regolamentazione provvisoria delle medesime nel limite del «50% delle prestazioni normalmente erogate» in relazione a «quote strettamente necessarie di personale non superiori mediamente a un terzo del personale normalmente utilizzato per la piena erogazione del servizio nel tempo interessato dallo sciopero». In ogni caso la Commissione può introdurre, per casi particolari, deroghe che
Gli accordi collettivi stipulati nell’ambito del pubblico impiego, ai sensi dell’art. 45, legge 29/1993, sono dotati di efficacia erga omnes, atteso che le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di adempiere agli obblighi assunti con gli stessi.
Per quanto riguarda l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi di diritto comune, la dottrina maggioritaria ritiene che la legge 146/1990 abbia esteso, con due espresse previsioni, la vincolatività delle previsioni per tutti i prestatori di lavoro subordinato poiché prevede che la determinazione delle prestazioni indispensabili debba essere contenuta nei «regolamenti di servizio, da emanarsi in base agli accordi con le rappresentanze sindacali del personale».
Inoltre, l’art. 2, comma 3, statuisce che i soggetti destinatari della legge 146/1990 siano tenuti «all’effettuazione delle prestazioni indispensabili, nonché al rispetto delle modalità e delle procedure di erogazione delle altre misure di cui al comma 2».
Peraltro, le tesi esposte circa un’estensione dell’efficacia soggettiva erga omnes dei contratti collettivi di diritto comune ad opera della legge 146/1990 sono state disattese dalla Corte Costituzionale, la quale ha affermato che la generale applicazione della regolamentazione in tema di prestazioni indispensabili non deriva da un’attribuzione di efficacia generale del contratto collettivo, bensì quale effetto di un procedimento in cui ha valore decisivo la delibera discrezionale di un’autorità imparziale.
L’art. 16 della legge 146/1990 prevede che «le clausole di cui al comma 2 dell’art. 2 della presente legge restano in vigore fino a eventuale specifica disdetta comunicata almeno sei mesi prima della scadenza dei contratti collettivi o degli accordi cui alla legge 29/1993».
La Commissione di garanzia ha affermato, contrariamente a quanto sostenuto in dottrina, che gli accordi dichiarati idonei, anche se disdettati, continuano a regolare la materia finché non vengano sostituiti da successive determinazioni valutate idonee.
L’autoregolamentazione costituisce uno degli strumenti normativi di disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, diffusi soprattutto nell’ambito del pubblico impiego.
I codici di autoregolamentazione hanno natura unilaterale e non vincolante, in quanto hanno una mera valenza endoassociativa.
Tuttavia, atteso il ruolo principale riconosciuto dalla legge 146/1990 alla contrattazione collettiva, i codici di autoregolamentazione rivestono attualmente una rilevanza secondaria.
La legge 146/1990, inoltre, da una parte ha abrogato le norme di cui agli artt. 330 e 333
c.p. e ha depenalizzato le sanzioni in materia di precettazione, mentre dall’altra ha
introdotto un articolato sistema sanzionatorio avente come destinatari tutti i soggetti del conflitto collettivo, definendo analiticamente l’iter procedurale che la Commissione è tenuta a rispettare per giungere – previa valutazione negativa del comportamento di una parte – a deliberare eventuali sanzioni a suo carico.
L’apertura del procedimento – avviato anche d’ufficio – «viene notificata alle parti che hanno trenta giorni per presentare osservazioni e per chiedere di essere sentite».
Decorso tale termine – e comunque entro 60 giorni dall’apertura del procedimento – la Commissione esprime la propria valutazione e, nel caso in cui questa sia negativa, dispone le sanzioni «tenuto conto anche delle cause di insorgenza del conflitto» e indicando il termine entro il quale la delibera deve essere eseguita.
La Commissione, inoltre, vigila sull’effettiva irrogazione delle sanzioni da parte del datore di lavoro alla quale quest’ultimo deve dare comunicazione dell’avvenuta esecuzione nei trenta giorni successivi (art. 4, comma 4-quater, legge 146/1990).
È inoltre prevista una sanzione amministrativa sostitutiva di natura pecuniaria a carico di coloro che rispondono legalmente dell’organizzazione sindacale responsabile, disposta dalla Direzione provinciale del lavoro con ordinanza ingiunzione, «qualora le sanzioni di cui al comma 2 (e 4) non risultino applicabili perché le organizzazioni sindacali che hanno promosso lo sciopero o vi hanno aderito non fruiscono dei benefici di ordine patrimoniale di cui al comma 2 o non partecipano alla trattativa» (art. 4, comma 4-bis, legge 146/1990).
La legge 83/2000 ha modificato le sanzioni poste a carico delle organizzazioni sindacali:
«sono sospesi i permessi sindacali retribuiti ovvero i contributi sindacali comunque trattenuti dalla retribuzione, ovvero entrambi per un ammontare economico complessivo non inferiore a Euro 2.582,28 e non superiore a Euro 25.822,84» (art. 4, comma 2, legge 146/1990).
È altresì prevista a carico delle organizzazioni sindacali l’esclusione dalle trattative per un periodo di due mesi dalla cessazione del conflitto.
I soggetti di parte datoriale destinatari delle norme sanzionatorie non sono più i preposti al settore nell’ambito delle amministrazioni pubbliche ma i «dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche» nonché i «legali rappresentanti delle imprese e degli enti che erogano i servizi pubblici di cui all’art. 1, comma 1».
Sono sanzionate, analogamente a quanto previsto per le organizzazioni sindacali, con la sanzione amministrativa da Euro 2.582 a Euro 25.822 la mancata assicurazione delle prestazioni indispensabili nonché, a seguito della legge 83/2000, la violazione dell’obbligo di «dare corretta informazione agli utenti di cui all’art. 2, comma 6», ossia di comunicare l’avvenuta proclamazione dello sciopero almeno cinque giorni prima della data prevista.
Anche per le sanzioni a carico delle aziende, la Commissione deve seguire l’iter procedurale previsto dall’art. 4, comma 4-quater, e dall’art. 13, lettera i).
La Commissione di garanzia è stata istituita con la legge 146/1990 «al fine di valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati».
La Commissione di garanzia ha poteri sanzionatori, il potere di promuovere l’adozione da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate
all’adozione di codici di autoregolamentazione, quello di deliberare, in assenza di accordi o di accordi idonei, la regolamentazione provvisoria, quello di sollecitare, nei casi che legittimano l’ordinanza di precettazione, l’intervento di un ministro o di un prefetto e di invitare le parti a desistere dal comportamento.
Essa, inoltre:
– valuta, anche di propria iniziativa, l’idoneità delle prestazioni indispensabili, delle procedure di raffreddamento e conciliazione e delle altre misure previste dalla legge e, qualora non le giudichi idonee, sottopone alle parti una proposta;
– esprime il proprio giudizio nelle questioni interpretative o applicative degli accordi o codici di autoregolamentazione e, su richiesta congiunta delle parti interessate, può emanare un lodo sul merito della controversia;
– ricevuta la comunicazione di cui all’art. 2, può assumere informazioni e convocare le parti in apposite audizioni per verificare se esistono le condizioni per la composizione della controversia, e nel caso di conflitti di particolare rilievo, può invitare i soggetti che hanno indetto lo sciopero a differire l’astensione dal lavoro;
– indica immediatamente ai soggetti interessati eventuali violazioni delle disposizioni e può invitare le parti a riformulare la proclamazione dello sciopero;
– rileva l’eventuale concomitanza tra interruzioni e riduzioni di servizi di utenza che riguardino il medesimo bacino e può invitare al differimento dello sciopero.
Con la legge 146/1990 è stata prevista un’apposita precettazione in materia di sciopero, che consiste in un'ordinanza motivata diretta a garantire le prestazioni indispensabili (art. 8, comma 2, legge 146/1990). Il presupposto sostanziale per l’emanazione di tale ordinanza è rappresentato dalla sussistenza di un «fondato pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati di cui all’art. 1, comma 1, che potrebbe essere cagionato dall’interruzione o alterazione dei servizi pubblici di cui all’articolo 1, conseguente all’esercizio dello sciopero o a forme di astensione collettiva di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori» (art. 8, comma 1, legge 146/1990).
Il secondo presupposto, di ordine procedurale, è rappresentato dal rispetto «dell’articolato procedimento per l’emissione dell’ordinanza di precettazione» previsto dall’art. 8, legge 146/1990.
Inoltre, la Commissione ha la facoltà di intervenire, di propria iniziativa, con la segnalazione e l’eventuale proposta specifica di ordinanza, dalla quale l’autorità precettante potrà discostarsi, ma con adeguata motivazione.
L’ordinanza di precettazione, che deve essere adottata non meno di 48 ore prima dell’inizio del conflitto, salvo che sia ancora in corso il tentativo di conciliazione o vi siano
ragioni di urgenza, «deve specificare il periodo di tempo durante il quale i provvedimenti dovranno essere osservati dalle parti» (art. 8, comma 2, legge 146/1990), e deve essere portata a conoscenza mediante comunicazione ai soggetti che promuovono l’azione, alle amministrazioni o alle imprese erogatrici del servizio nonché alle altre persone fisiche indicate nell’ordinanza.
L’ordinanza di precettazione può essere impugnata avanti al Tar entro sette giorni che decorrono dal giorno della comunicazione, o dal giorno successivo all’affissione nei luoghi di lavoro, da parte di «coloro che promuovono lo sciopero, le amministrazioni, le imprese e i singoli prestatori destinatari del provvedimento che vi abbiano interesse».
In caso di inosservanza dell’ordine di precettazione, è prevista la sanzione pecuniaria da Euro 258 a Euro 516 per ogni giorno di mancata ottemperanza a carico dei singoli prestatori di lavoro, professionisti o piccoli imprenditori che non osservino le disposizioni di cui all’ordinanza di precettazione.
Le organizzazioni sindacali e le associazioni e gli organismi di rappresentanza dei lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori soggiacciono alla sanzione pecuniaria per ogni giorno di mancata ottemperanza.
I preposti al settore nell’ambito delle amministrazioni, degli enti o delle imprese erogatrici di servizi sono soggetti alla sanzione amministrativa della sospensione dall’incarico per un periodo non inferiore a 30 giorni e non superiore ad un anno.
Le sanzioni sono irrogate con decreto dalla stessa autorità che ha emanato l’ordinanza.
12. Serrata dell'imprenditore
12.1 Qualificazione giuridica; 12.2 Serrata di ritorsione
12.1 Qualificazione giuridica
La serrata rappresenta il tipico strumento di lotta sindacale degli imprenditori e consiste nella decisione datoriale di sospendere l’attività produttiva, attraverso la chiusura totale o parziale dell’impresa, e nel rifiuto di accettare la prestazione lavorativa offerta dai propri dipendenti, con il conseguente diniego di corrispondere la retribuzione.
A differenza dello sciopero, che trova un espresso riconoscimento nella nostra Carta Costituzionale e assurge giuridicamente a vero e proprio diritto, la serrata non viene invece contemplata in alcun articolo della Costituzione.
Pertanto, nel nostro ordinamento giuridico sciopero e serrata non costituiscono strumenti di lotta simmetrici, poiché il Costituente ha individuato e valorizzato una situazione di disuguaglianza tra i lavoratori e i datori di lavoro.
La serrata può consistere tanto in un atto collettivo (quando viene attuata in modo concertato e contemporaneo da tutte le aziende di un determinato territorio appartenenti al medesimo settore, in base alle precise indicazioni fornite dall’associazione sindacale degli imprenditori di categoria), quanto in un atto individuale (quando è disposta da una singola azienda di propria iniziativa, eventualmente anche in disaccordo con l’associazione sindacale di appartenenza).
Sono possibili diverse classificazioni della serrata: le principali sono quella sospensiva (che determina la sospensione parziale dell’attività produttiva), risolutiva (quando il datore di lavoro assume la decisione di cessare definitivamente l’attività aziendale ricorrendo alla chiusura totale dell’impresa), offensiva (iniziativa di parte datoriale finalizzata ad anticipare possibili rivendicazioni della controparte sindacale; un esempio classico di serrata offensiva è quella attuata da una o più imprese come forma di solidarietà con la serrata effettuata da un’altra azienda, quando la sospensione dell’attività produttiva presso quest’ultima assume rilevanza per l’intera categoria) e difensiva (attuata come strumento imprenditoriale di contrapposizione rispetto all’indisponibilità della controparte sindacale di ridefinire, eventualmente anche a condizioni peggiorative per i lavoratori, le clausole di un precedente accordo collettivo aziendale).
Fermo restando che soltanto lo sciopero è riconosciuto costituzionalmente come un diritto, nell’ordinamento post-corporativo la serrata costituisce comunque una manifestazione di libertà pienamente lecita, e come tale non perseguibile ai sensi dell'art. 502 c.p.
Tuttavia, con la sentenza n. 141 del 1967 la Corte Costituzionale, affrontando il problema della legittimità costituzionale della serrata di protesta prevista all’articolo 505 c.p., ne ha escluso la rilevanza penale limitatamente ai soli episodi conflittuali strettamente connessi ai rapporti di lavoro, confermando implicitamente l’illiceità della serrata attuata per ragioni estranee alla disciplina del lavoro.
A fondamento di tale conclusione è stato richiamato il precetto contenuto nell’articolo 41 della Costituzione, secondo il quale la libertà di iniziativa economica privata non deve svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo tale da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
Coerentemente al summenzionato orientamento si deve ritenere che la serrata a fine politico e di coazione alla pubblica autorità, essendo attuate per finalità extracontrattuali, costituiscano comportamenti penalmente perseguibili.
Dal diverso punto di vista civilistico la serrata attuata per fini contrattuali, sebbene non penalmente rilevante, mantiene tuttavia la natura di vero e proprio illecito, atteso che la sospensione dell’attività aziendale decisa unilateralmente dall’imprenditore costituisce violazione degli obblighi assunti con la stipulazione del contratto di lavoro.
Da ciò consegue che il ricorso alla serrata fa sorgere in capo all’imprenditore una precisa responsabilità di natura contrattuale, che può tuttavia essere astrattamente ricondotta a due differenti fattispecie.
In primo luogo può sostenersi che il datore di lavoro, in quanto debitore della retribuzione, è tenuto ai sensi dell’articolo 1218 del codice civile a corrispondere comunque ai propri dipendenti la normale retribuzione nell’ipotesi di sospensione dell’attività produttiva dal momento che non è in alcun modo imputabile ai prestatori di lavoro la decisione dell’imprenditore di non adempiere la propria obbligazione contrattuale.
Sotto un diverso profilo, il datore di lavoro è tenuto a cooperare per l’adempimento della prestazione lavorativa: se questi non si adopera per consentire ai lavoratori di espletare regolarmente la propria prestazione di lavoro, in tal modo impedendo illegittimamente loro di adempiere la loro obbligazione contrattuale, si realizza la fattispecie della mora del creditore disciplinata dall’art. 1206 c.c.
La scelta tra le due ipotesi sopra prospettate non è priva di conseguenze giuridiche, andando a incidere in maniera differente sulla misura del risarcimento del danno dovuto dall’imprenditore.
Infatti, accogliendo la soluzione in base alla quale il risarcimento trova il proprio fondamento giuridico nell’art. 1218 c.c., il danno subìto dal prestatore di lavoro dovrà essere liquidato in relazione al pregiudizio economico effettivamente sofferto da quest’ultimo, con la conseguente possibilità (per lo meno in astratto) di detrarre dalle retribuzioni non corrisposte per effetto della serrata il c.d. aliunde perceptum, cioè l’importo che il lavoratore abbia percepito durante la sospensione dell’attività produttiva prestando altrove la propria attività lavorativa.
Qualora invece si ritenesse applicabile il regime giuridico dettato dall’art. 1206 c.c., il lavoratore manterrebbe il diritto a ricevere il pagamento integrale delle retribuzioni maturate nel corso della serrata senza detrazione dell’eventuale aliunde perceptum, atteso che il risarcimento del lucro cessante è dovuto per intero con riferimento al corrispettivo spettante per le prestazioni di lavoro rifiutate dal datore.
12.2 Serrata di ritorsione
La serrata di ritorsione costituisce lo strumento tipico di reazione dell’imprenditore rispetto a forme di lotta sindacale dei lavoratori ritenute illegittime dal datore di lavoro come, per esempio, scioperi articolati, a singhiozzo o attuati negli impianti a ciclo continuo.
Essa è legittima quando lo sciopero attuato dai prestatori di lavoro travalica i c.d. limiti esterni indicati dalla giurisprudenza: in caso contrario, configura un’ipotesi di condotta antisindacale ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.
In altre parole, la serrata costituisce comportamento lesivo del diritto di esercizio di sciopero quando l’azione sindacale dei lavoratori non oltrepassa i limiti di tollerabilità e quindi di legittimità individuati dalla giurisprudenza, quali «le modalità dell’azione
sindacale, della natura del ciclo produttivo, delle dimensioni dell’attività industriale e della sua articolazione, del comportamento tenuto dalle organizzazioni sindacali nella ricerca di una possibile mediazione degli interessi in gioco» (Cass. 20 aprile 1995, n. 4426).
13. Condotta antisindacale
13.1 Definizione; 13.2 Condizioni di proponibilità dell’azione: attualità e intenzionalità;
13.3 Condotta plurioffensiva
13.1 Definizione
L’art. 28 Stat. Lav. definisce come condotta antisindacale i comportamenti del datore di lavoro «diretti a impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero», con ciò tutelando l’interesse collettivo all’effettivo esercizio dell’attività e della libertà sindacale nonché al diritto di sciopero.
La definizione «classica» in ambito giurisprudenziale è che «l’antisindacalità della condotta del datore di lavoro … è configurabile solo con riguardo ad atti (lesivi di interessi di una larga parte dei lavoratori) che siano diretti a reprimere in radice il conflitto con i sindacati, non anche con riguardo ad atteggiamenti del medesimo datore di lavoro nell’ambito di tale conflitto» (Cass. 17 gennaio 1990, n. 207): pertanto, deve ritenersi antisindacale il comportamento del datore di lavoro quando l’opposizione al sindacato è opposizione al conflitto, ovvero quando l’opposizione è repressione dello stesso. Diversamente, è legittimo il comportamento del datore di lavoro che si oppone al sindacato nell’ambito del conflitto accettandone, quindi, la logica che lo caratterizza.
Conseguentemente, gli interessi collettivi (alla libertà e all’attività sindacale nonché al diritto di sciopero) tutelati dalla norma in esame non possono che essere diversi da quelli spettanti a ogni singolo lavoratore, e cioè interessi che trascendono quelli derivanti dal singolo rapporto di lavoro, sì che il comportamento antisindacale, se non è mai identificabile con una condotta violatrice di meri interessi patrimoniali o morali di singoli, dovendo risultare di pregiudizio agli interessi collettivi di una larga sfera di lavoratori, può essere integrato anche da un comportamento che, pur lesivo di interessi di singoli lavoratori, sia altresì diretto a limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero.
Il legislatore non ha inteso individuare ogni singolo comportamento del datore che possa assurgere a condotta antisindacale: infatti, la norma statutaria pone una fattispecie tipizzata solo dal punto di vista dei beni protetti, ma non anche da quello dei comportamenti, atteso che il bene tutelato può essere aggredito in una molteplicità di modi che risultano difficilmente tipizzabili.
Ciò che conta, quindi, non è la caratteristica strutturale del comportamento, bensì l’idoneità del medesimo a ledere oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali.
13.2 Condizioni di proponibilità dell’azione: attualità e intenzionalità
L’azione ex art. 28 Stat. Lav., in quanto diretta a una pronuncia costitutiva e non di mero accertamento, può essere esperita nei confronti di comportamenti del datore di lavoro connotati dall’attualità della condotta antisindacale lamentata.
L’attualità della condotta deve essere riferita al comportamento antisindacale posto in essere dal datore di lavoro o, quantomeno, al fatto che ne perdurino gli effetti al momento della presentazione della domanda.
La dottrina ha correttamente osservato che l’art. 28 Stat. Lav. è uno strumento urgente per proteggere l’esercizio dell’attività sindacale non tanto allo scopo repressivo della
condotta dell’imprenditore, quanto a quello protettivo dell’attività stessa nel momento in cui si esercita, qualora il datore di lavoro tenti di impedirne il libero esplicarsi.
Il requisito dell’attualità, pur non essendo espressamente richiesto dalla norma in esame, è stato desunto dalle caratteristiche dell’azione che è diretta a una pronuncia costitutiva (rimozione degli effetti): infatti, non è utilizzabile la tutela ex art. 28 Stat. Lav. al fine di ottenere una pronuncia meramente dichiarativa, laddove, in punto di fatto, non esistano più atti o effetti lesivi da rimuovere.
Come già accennato, il procedimento per condotta antisindacale può essere esperito in difetto del presupposto dell’attualità della condotta solo nelle ipotesi in cui il comportamento sia già esaurito ma se ne tema la continuazione o la reiterazione, ovvero quando, alla stregua di una valutazione globale, tale comportamento risulti idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo.
L’accertamento da parte del giudice di merito del requisito dell’attualità – da compiere anche d'ufficio – deve essere effettuato in concreto valutando in particolare l’attitudine della condotta a produrre gli effetti lesivi della libertà e attività del sindacato o del diritto di sciopero.
La mancanza del requisito dell’attualità rileva, sotto il profilo processualistico, quale difetto di interesse ad agire: in mancanza l’azione non è ammissibile.
Collegata alla necessaria attualità della condotta datoriale censurata come antisindacale è la possibilità per il giudice di emettere una c.d. condanna in futuro prevedendo a carico del datore di lavoro il divieto di ripetere comportamenti analoghi, se non identici.
Ebbene, l’orientamento da sempre prevalente sostiene che ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. è inammissibile la richiesta di emanare decisioni aventi per contenuto la prescrizione di determinati comportamenti da tenere per l’avvenire, poiché l’interesse a rimuovere la condotta antisindacale deve essere concreto e attuale.
Tale orientamento si basa sull’assunto che se al giudice fosse consentito di ordinare al datore di lavoro di attenersi per il futuro al rispetto di determinati comportamenti, il medesimo verrebbe a creare un precetto la cui violazione è passibile di sanzione penale ai sensi dell’art. 650 c.p., con la conseguenza che verrebbe attribuita all’autorità giurisdizionale una funzione normativa non consentita.
Sotto diverso profilo, la questione circa la rilevanza o meno dell’elemento soggettivo del datore di lavoro nel porre in essere la condotta antisindacale è stata, soprattutto in passato, oggetto di un acceso contrasto giurisprudenziale.
Le Sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 5295 del 12 giugno 1997, hanno risolto tale contrasto affermando che «per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 Stat. Lav., è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate perché consistenti nel legittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle RSA a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate e in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, cioè la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero».
13.3 Condotta plurioffensiva
Sebbene l’azione ex art. 28 Stat. Lav. sia diretta a tutelare gli interessi collettivi e non quelli del singolo lavoratore, può accadere nella pratica che il comportamento attuato dal datore di lavoro sia contemporaneamente lesivo sia degli interessi del singolo lavoratore che di quelli del sindacato.
Tali ipotesi configurano la c.d. condotta plurioffensiva del datore di lavoro, che può dare àdito a due diverse azioni: quella proposta dal singolo lavoratore e quella ex art. 28 attivata dal sindacato, considerate distinte e autonome «per la diversità dei soggetti legittimati, degli interessi tutelati e dei profili di illiceità» della condotta attuata dal datore di lavoro (C. Cost. 21 luglio 1988, n. 860).
I due procedimenti attivati – dal singolo lavoratore e del sindacato – vivono dunque di propria autonomia in quanto volti a tutelare interessi ontologicamente e funzionalmente diversi.
Da ciò consegue – con le parole del Giudice delle leggi – che «a causa della strutturale diversità dei due giudizi e degli accertamenti in essi compiuti, il medesimo fatto storico può essere oggetto, in sede di procedimento ex art. 28 Stat. Lav. e in sede di giudizio individuale, di pronunce di segno differente, ma non per questo contraddittorie, insuscettibili, quindi, di produrre alcun contrasto tra giudicati; è infatti evidente che l’atto o il comportamento plurioffensivo del datore di lavoro, che viene sottoposto a un duplice vaglio (nel procedimento ex art. 28 Stat. Lav. e nel giudizio individuale), potrà essere considerato esente da censure solo quando esso avrà superato positivamente entrambe le verifiche giudiziali, mentre sarà sufficiente che uno dei due distinti accertamenti si concluda con esito negativo per il datore di lavoro perché dell’atto o del comportamento sia alternativamente dichiarata o decretata la rimozione degli effetti» (C. Cost., 21 luglio 1988, n. 860).
14. Procedimento di repressione della condotta antisindacale
14.1 Legittimazione e interesse ad agire; 14.2 Legittimazione passiva; 14.3 Individuazione della competenza territoriale; 14.4 Procedimento
14.1 Legittimazione e interesse ad agire
Attesa la peculiare natura del diritto che il legislatore ha inteso tutelare con lo speciale procedimento ex art. 28 dello Stat. Lav. – strumento di salvaguardia della libertà sindacale all’interno delle aziende – ed in considerazione della particolare incisività di questo strumento processuale, il Legislatore ha circoscritto la legittimazione ad agire alle sole organizzazioni sindacali che siano effettivamente rappresentative degli interessi collettivi dei lavoratori, individuate nei soli organismi locali delle organizzazioni sindacali nazionali.
Uno dei due requisiti previsti dalla norma in esame per la sussistenza della legittimazione attiva è l’appartenenza dell’organismo locale ad una associazione sindacale nazionale.
Al riguardo, la giurisprudenza afferma che, ai fini della qualificazione della nazionalità dell’organizzazione, non è sufficiente che quest’ultima abbia un grado di diffusione su gran parte del territorio ove è presente la categoria organizzata di riferimento e che si ponga la finalità di tutelare interessi collettivi anche in ambito nazionale ma è necessario che essa svolga effettivamente un’azione sindacale sull’intero territorio nazionale.
Peraltro, l’individuazione del requisito della nazionalità dell’organizzazione compiuta dal giudice non può fondarsi sulla autoqualificazione proveniente dallo stesso sindacato ma va desunto dalla concreta articolazione che l’organizzazione ha effettivamente assunto sul territorio.
L’art. 28 precisa poi che la legittimazione ad agire è degli organismi locali, che rappresentano le organizzazioni più vicine alle problematiche dei lavoratori in una data area territoriale.
Pertanto, devono ritenersi privi di tale legittimazione gli organismi delle organizzazioni nazionali territorialmente sovraordinati rispetto a quelli provinciali, gli organismi intermedi e anche quelli locali delle organizzazioni confederali, le RSA/RSU, i comitati di lavoratori e, a maggior ragione, i lavoratori stessi.
Ove le previsioni statutarie non istituiscano direttamente determinate articolazioni locali, definendone l’organizzazione, ma si limitino a contemplare l’iniziativa di altre strutture (nella specie quelle regionali, i cui consiglieri debbono elaborare le necessarie indicazioni), la circostanza che non risultino di fatto costituite strutture più periferiche rispetto a quelle regionali vale a qualificare queste ultime come organismi locali ai sensi e per gli effetti dell’art. 28, legge n. 300/1970.
Il potere rappresentativo delle associazioni sindacali nel giudizio per la repressione della condotta antisindacale spetta alle persone fisiche investite delle cariche cui tale potere è attribuito in base agli statuti delle associazioni stesse.
Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, sussiste l’interesse ad agire dell’organizzazione sindacale ogni qual volta il comportamento del datore di lavoro, ancorché non coinvolga un proprio aderente o un lavoratore dell’azienda in cui essa abbia i propri iscritti, sia suscettibile di pregiudicare la libertà e l’attività del sindacato, tenuto conto della categoria rappresentata e degli interessi implicati.
Resta invece esclusa la sussistenza dell’interesse ad agire «contro comportamenti lesivi della libertà o dell’attività sindacale estranei al gruppo professionale dal sindacato ricorrente, a meno che quest’ultimo non si identifichi in un organismo territoriale intercategoriale» (Cass. 26 gennaio 1979, n. 602).
E' stato invece ritenuto sussistente l’interesse ad agire dell’organizzazione sindacale, pur nell’inerzia del lavoratore interessato, avverso un licenziamento determinato da motivi sindacali, in quanto tale comportamento è idoneo a ledere l’interesse collettivo alla libertà ed alla attività sindacale.
14.2 Legittimazione passiva
La legittimazione passiva alla speciale azione disciplinata dall’art. 28 della legge 300/1970 spetta esclusivamente al datore di lavoro, che è il solo possibile destinatario di quell’ordine di cessare il comportamento illegittimo e di rimuovere gli effetti, che costituisce l’oggetto e il fine del relativo procedimento; pertanto, non possono essere considerati soggetti passivi di tale procedimento le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro, per esempio, nel caso in cui vi sia un rifiuto da parte di queste di trattare con alcune organizzazioni sindacali.
Nell’ambito di tale principio generale è interessante segnalare che «nel caso in cui dopo l’inizio della procedura di repressione della condotta antisindacale, un datore di lavoro diverso da quello convenuto in giudizio succeda a titolo particolare in rapporti di lavoro incisi dal denunciato comportamento antisindacale, non sussiste la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tale soggetto, benché lo stesso possa essere coinvolto dai provvedimenti volti a rimuovere gli effetti della condotta denunciata, data l’estensione nei confronti del successore degli effetti della sentenza pronunciata contro l’alienante, a norma dell’art. 111, comma 4, c.p.c.» (Cass. 8 agosto 1997, n. 7368).
14.3 Individuazione della competenza territoriale
Ai fini dell’individuazione del giudice territorialmente competente, il luogo della commissione del comportamento antisindacale è quello in cui viene compiuto o omesso l’atto del quale si denunzi l’antisindacalità, e non il luogo o i luoghi nei quali stiano per verificarsi o si siano verificati gli effetti nè il luogo nel quale tale comportamento è stato deliberato.
Così determinata, la competenza è inderogabile; ciò significa che le parti non possono nell’ambito della loro autonomia scegliere quale giudice adire per l’esperimento del procedimento.
Nel caso in cui la condotta antisindacale, decisa con un’unica deliberazione, coinvolga una pluralità di unità produttive poste in diverse circoscrizioni, attesa l’idoneità del provvedimento del giudice se non opposto a formare giudicato, si pone il problema processuale di possibili contrasti tra diversi giudicati. In realtà, si tratta di un problema affrontato e risolto dalla giurisprudenza nel senso di dover «escludersi la possibilità di un conflitto di giudicati, in quanto i provvedimenti, eventualmente diversi, dei vari giudici avrebbero una efficacia limitata alla condotta realizzata nella circoscrizione di ciascuno di essi» (Cass. 2 maggio 1994, n. 4220).
Diversamente, «nel caso di una pluralità di violazioni è sufficiente, anche per un criterio di economia processuale, che il Pretore adìto sia competente per uno solo degli episodi denunziati» (Cass. 10 febbraio 1994, n. 1048).
14.4 Procedimento
Il ricorso con il quale si introduce la domanda di declaratoria di antisindacalità deve indicare il nominativo del datore di lavoro convenuto, l’oggetto e le ragioni della domanda, che devono concretarsi nella specificazione del comportamento denunciato non essendo a tal fine sufficienti generiche doglianze sul comportamento del datore di lavoro.
La dottrina afferma che non si applicano i meccanismi propri del processo del lavoro previsti dall’art. 414 c.p.c., attesa la natura sommaria del procedimento: pertanto, la prospettazione dei fatti proposta nel ricorso non è da considerarsi come vincolante o preclusiva potendo il giudice tenere conto anche di fatti successivi alla proposizione del ricorso, purché anche rispetto ad essi sia rispettato il contraddittorio ed i fatti nuovi oggetto di accertamento costituiscano la conferma della condotta denunciata o della sua reiterazione.
Inoltre, secondo la giurisprudenza nel procedimento speciale regolato dall’art. 28 Stat. Lav. non è richiesta l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi ma solo l’allegazione degli elementi della dedotta fattispecie di condotta antisindacale, restando affidata all’iniziativa del giudice e al mezzo delle sommarie informazioni l’acquisizione di tutte le circostanze strumentali al relativo accertamento.
Il giudice adìto non può provvedere inaudita altera parte ma deve necessariamente provvedere alla preventiva convocazione del datore di lavoro.
Di norma, a seguito del deposito del ricorso il giudice designato fissa l’udienza di prima comparizione delle parti, previa fissazione di un termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza.
In termini strettamente giuridico-processuali, l’obbligo di notificazione non è previsto espressamente a carico dell’organizzazione sindacale ricorrente, ben potendo essere la notifica eseguita d’ufficio: vero è che nella prassi è il soggetto che ha proposto il ricorso che si incarica di tale onere al fine della corretta e celere instaurazione del contraddittorio.
Sempre dal punto di vista rigorosamente processuale, la norma non prevede alcun obbligo di concedere un termine a difesa al datore di lavoro e analogamente non esiste alcun onere per il datore di lavoro di costituirsi prima dell'udienza di comparizione delle parti.
Peraltro, è prassi processuale diffusa, derivante dall’esigenza che le parti e soprattutto il giudice alla data dell’udienza conoscano le reciproche posizioni in modo compiuto, concedere al datore di lavoro un termine per il deposito di note difensive per proporre le proprie difese prima della data fissata per l’udienza, non assumendo comunque tale termine natura perentoria.
Anche in questo caso la mancata costituzione nel termine indicato nel decreto non è idonea a provocare alcuna preclusione o decadenza a carico del datore di lavoro, potendo però essere tale comportamento liberamente valutato dal giudice ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.c.
In dottrina si è sostenuto che alla prima udienza esiste un obbligo di comparizione personale delle parti al fine di consentire al giudice di interrogarle liberamente sui fatti oggetto del procedimento.
Nella fase dell’istruzione probatoria del procedimento ex art. 28 Stat. Lav. al giudice sono attribuiti ampi poteri in merito all’assunzione delle prove.
Infatti, come detto, se l’organizzazione ricorrente non ha l’onere di indicare i mezzi di prova idonei a sostenere i fatti dedotti nel ricorso, il giudice ha la facoltà di acquisire i mezzi di prova che ritiene necessari ai fini della decisione della controversia.
Inoltre, in tale tipo di procedimento possono essere assunte prove anche non espressamente tipizzate come tali dal c.p.c. e senza le modalità di cui agli artt. 202-262 del codice di rito.
Tali ampi poteri, peraltro, incontrano un limite nel monopolio delle parti in ordine all’allegazione dei fatti costitutivi, impeditivi o modificativi.
Nel corso del procedimento il giudice può altresì farsi assistere da un consulente tecnico e può convocare le organizzazioni sindacali come previsto dagli artt. 421, comma 2, e 425 c.p.c. per rendere informazioni o osservazioni.
L’onere della prova relativamente al comportamento antisindacale del datore di lavoro è a carico dell’associazione sindacale ricorrente, in ottemperanza al generale principio stabilito dall’art. 2697 c.c.
L’art. 28, comma 1, Stat. Lav. dispone che il giudice provveda nei due giorni successivi dalla data di deposito del ricorso, termine peraltro ritenuto ordinatorio e non già perentorio, sì che dalla sua inosservanza non consegue l’illegittimità del provvedimento tardivamente emesso.
Il procedimento in esame si conclude con l’emanazione di un decreto motivato, avente natura giurisdizionale e dotato di immediata efficacia esecutiva, che permane fino al momento della definizione dell’eventuale giudizio di opposizione.
Il decreto, se non validamente opposto, è idoneo a passare in giudicato ovvero a costituire una decisione irrevocabile in merito all’oggetto della controversia. Peraltro, il giudicato formatosi sul decreto con il quale sia stata negata la legittimazione ad agire dell’associazione ricorrente per difetto di prova in ordine alla sussistenza della medesima, non preclude la riproposizione dell’istanza tra le medesime parti ove tale condizione dell’azione venga successivamente documentata.
Il contenuto del decreto, in caso di accoglimento del ricorso, ha una duplice natura: da un lato, si tratta di un provvedimento che ha natura inibitoria della condotta antisindacale mentre, dall’altro, trattasi di provvedimento di condanna alla rimozione degli effetti della condotta antisindacale.
In caso di rigetto il contenuto del provvedimento ha invece esclusivamente natura di provvedimento di accertamento negativo in ordine all’antisindacalità del comportamento dedotto in giudizio.
L’effettiva esecuzione da parte del datore di lavoro del provvedimento emanato all’esito della procedura in esame è rafforzata dallo specifico richiamo contenuto nella stessa norma all’art. 650 c.p. Pertanto, per espressa previsione normativa il datore di lavoro che non adempie alle prescrizioni impartite dal giudice commette il reato di mancata osservanza degli ordini impartiti dall’autorità di cui al summenzionato articolo.
Oltre a tale profilo strettamente sanzionatorio vi è da esaminare l’ulteriore aspetto della concreta esecuzione del provvedimento impartito dal giudice. Infatti, in linea generale i provvedimenti dell’autorità giudiziaria in materia civile, qualora non eseguiti spontaneamente, si eseguono attraverso l’esperimento della procedura di esecuzione forzata.
La giurisprudenza di merito ha invece ritenuto che per dare esecuzione a un ordine contenuto in un decreto emesso ex art. 28 dello Stat. Lav. non sono applicabili le forme dell’esecuzione forzata, spettando invece allo stesso giudice che ha emanato il provvedimento determinare le modalità di attuazione.
Poiché lo strumento processuale dell’opposizione di terzo disciplinato dagli artt. 404 e ss.
c.p.c. ha la funzione di consentire a colui che è rimasto estraneo a un procedimento di opporsi a una sentenza che pregiudica i suoi diritti, è stata oggetto di discussione la possibilità per il terzo di opporsi anche a provvedimenti diversi quali i decreti o le ordinanze emesse dall’autorità giudiziaria.
Tuttavia, la dottrina ha ritenuto che tale azione sia esperibile anche nei confronti di provvedimenti che, sebbene non qualificati come sentenze, hanno per il loro contenuto e per l’idoneità a costituire titoli esecutivi analoga funzione.
L’altro presupposto per l’esperimento dell’azione di opposizione del terzo è invece la natura definitiva del provvedimento opposto: valga qui ricordare che il provvedimento che conclude il procedimento della repressione della condotta antisindacale, nonostante sia qualificato dalla legge come decreto, è idoneo tanto a essere un titolo esecutivo quanto a passare in giudicato se non opposto.
15. Giudizio di opposizione ex art. 28 stat. lav.
15.1 Termine per proporre opposizione; 15.2 Giudice competente; 15.3 Legittimazione;
15.4 Natura e limite del giudizio di impugnazione; 15.5 Proponibilità dell’azione in via ordinaria
15.1 Termine per proporre opposizione
L’unico strumento con il quale è possibile opporsi al provvedimento emanato all’esito della procedura per la repressione della condotta antisindacale è l’instaurazione del giudizio di merito di opposizione avverso tale provvedimento, non essendo proponibile né il reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. né ricorso per cassazione ex art. 111 Cost.
L'opposizione deve essere proposta entro 15 giorni dalla data della comunicazione alle parti.
La questione della decorrenza del termine per proporre l’opposizione merita una seppur breve trattazione relativamente alla ipotesi in cui del provvedimento emesso dal giudice venga data lettura nel corso dell’udienza, sia che la lettura riguardi il solo dispositivo, sia che essa riguardi anche la motivazione del provvedimento stesso: la giurisprudenza, muovendo dal presupposto che la norma non prevede la lettura in udienza del provvedimento, ha ritenuto in ogni caso necessaria la comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria.
15.2 Giudice competente
La competenza (anche in questo caso inderogabile) del giudice per l’opposizione si determina con lo stesso criterio per la proposizione del ricorso nella fase sommaria: pertanto, competente per territorio è il giudice del luogo ove è ubicata l’unità aziendale nella quale il comportamento antisindacale è stato posto in essere.
15.3 Legittimazione
La titolarità della legittimazione a proporre opposizione al provvedimento emesso dal giudice all’esito della fase sommaria è, oltre che del datore di lavoro nel caso di provvedimento che dichiari come antisindacale il suo comportamento, anche delle organizzazioni sindacali sia nel caso in cui il giudice abbia accolto la domanda sia nel caso in cui l’abbia rigettata.
15.4 Natura e limite del giudizio di impugnazione
Il giudizio di opposizione si configura come una fase a cognizione piena che ha la funzione di riesaminare il provvedimento emesso all’esito della fase sommaria.
A prescindere dall’inquadramento dogmatico del giudizio di impugnazione, il principale limite dello stesso è dato dal fatto che esso deve avere come oggetto i fatti dedotti o acquisiti nella fase sommaria: tuttavia, il giudice dell’opposizione può tenere conto di episodi non denunciati in ricorso ma dedotti successivamente, che rappresentino la continuazione o il necessario collegamento di quelli in precedenza allegati.
Nel giudizio di opposizione possono altresì essere proposte anche eccezioni non dedotte nella fase sommaria, avendo, il primo, natura e struttura di un ordinario giudizio di cognizione.
E' proponibile opposizione tanto al provvedimento che accoglie le domande quanto al provvedimento di rigetto.
In caso di parziale accoglimento delle domande proposte nella fase sommaria, si ritiene possibile riproporre nel procedimento di opposizione quelle tra le domande che non siano state accolte dal primo giudice senza che per ciò sia necessario riproporre un’autonoma impugnazione del provvedimento del primo giudice.
Infatti, sia che si consideri il giudizio di opposizione come un giudizio di primo grado, sia che lo si consideri un giudizio di gravame, si deve ritenere che le domande in tal modo riproposte nel procedimento di opposizione siano da considerarsi come una domanda riconvenzionale nell’ambito dell’ipotesi di un giudizio di primo grado, come tale pacificamente ammessa, oppure, nella seconda ipotesi, tale riproposizione si configurerebbe come una impugnazione incidentale prevista dall’art. 334 c.p.c. che in appello può essere proposta tardivamente anche se attiene a capi autonomi della decisione del primo giudice.
15.5 Proponibilità dell’azione in via ordinaria
La giurisprudenza ammette la possibilità che le associazioni sindacali chiedano la repressione dell’attività antisindacale anche nelle forme previste dagli artt. 414 e segg. c.p.c., sia in considerazione della natura di diritti soggettivi delle posizioni azionate dalle associazioni sindacali, sia avendo riguardo al fatto che la fase sommaria del procedimento è stata introdotta dal legislatore al fine di predisporre uno strumento di tutela particolarmente efficace a vantaggio delle organizzazioni sindacali, le quali possono quindi rinunciare ad avvalersi di tale strumento processuale.
Si segnala inoltre che, anche in caso di proposizione dell'azione secondo le forme ordinarie, essa è soggetta al rito del lavoro ed è devoluta alla competenza per materia del giudice del lavoro, individuato ratione loci con riguardo al luogo di commissione della condotta antisindacale denunciata.
Si è altresì ritenuto che anche il datore di lavoro possa proporre in prevenzione una domanda di accertamento negativo in ordine alla antisindacalità della propria condotta.
16. Fattispecie più significative di ricorso ex art. 28 stat. lav.
16.1 Obbligo di trattare con le Organizzazioni sindacali; 16.2 Obblighi di informazione a favore delle Organizzazioni sindacali; 16.3 Violazione delle clausole di un accordo collettivo; 16.4 Assemblea dei lavoratori; 16.5 Diritto di sciopero; 16.6 Diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali; 16.7 Serrata; 16.8 Provvedimenti datoriali nei confronti dei rappresentanti sindacali; 16.9 Trasferimento d'azienda; 16.10 Licenziamento individuale;
16.11 Licenziamento collettivo
16.1 Obbligo di trattare con le Organizzazioni sindacali
La giurisprudenza di legittimità è costante nel negare l'esistenza di un principio di necessaria parità di trattamento tra le diverse organizzazioni sindacali, sul presupposto che la legge 300/1970 contempla una disciplina differenziata nei confronti delle organizzazioni sindacali, escludendo dal godimento di determinate facoltà quelle non effettivamente rappresentative perché non firmatarie di alcun accordo o contratto collettivo applicato in azienda, come sancito dall’art. 19 Stat. Lav.
In coerente applicazione del surriferito orientamento deve concludersi che, in linea generale, è irrilevante ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. ogni disparità di trattamento posta in essere dal datore di lavoro nei confronti delle organizzazioni sindacali.
Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha recentemente sottolineato che «viene a configurare una condotta antisindacale il comportamento datoriale che si concretizzi in un rifiuto, a danno di taluni sindacati, di forme di consultazione, di esame congiunto o di instaurazione di trattative, espressamente previste da clausole contrattuali o da disposizioni di legge, allorquando detto rifiuto si traduca – sia per la modalità in cui si esprime, sia per il comportamento globalmente tenuto dall’imprenditore nei riguardi di dette organizzazioni – in condotte oggettivamente discriminatorie, atte ad incidere negativamente sulla stessa libertà del sindacato e sulla sua capacità di negoziazione, minandone la credibilità e l’immagine anche sotto il profilo della forza aggregativi in termini di acquisizione di nuovi consensi» (Cass. 9 gennaio 2008, n. 212).
Inoltre, non costituisce comportamento antisindacale il rifiuto del datore di lavoro di trattare con un’organizzazione sindacale sulla base della piattaforma rivendicativa dalla medesima presentata; la condotta datoriale assume rilievo ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. quando, in base a una valutazione da compiere in relazione alle particolarità del caso concreto, il datore di lavoro abbia fatto un uso distorto della propria libertà negoziale, determinando un’illegittima lesione della libertà sindacale dell’organizzazione esclusa.
La giurisprudenza ha più volte affrontato la tematica della parità di trattamento con riferimento alle singole RSA: tali pronunce, sebbene anteriori alla modifica referendaria dell’art. 19 Stat. Lav., conservano anche oggi la loro validità, atteso che – da una parte – i principii nelle medesime affermati sono comunque da considerarsi applicabili alle RSA costituite in base all’art. 19 vigente, e – dall’altra parte – il criterio della maggiore rappresentatività o, di recente, quello della maggiore «rappresentatività comparativa» è ancora presente in alcune disposizioni normative.
La giurisprudenza di legittimità costantemente ribadisce che «lo Statuto dei lavoratori per i sindacati fa proprio, ai fini del riconoscimento di una particolare tutela, il criterio della maggiore rappresentatività sul piano nazionale, criterio che non impone un’uguaglianza di trattamento dei sindacati forniti di tale requisito, né tantomeno impone l’estensione ad associazioni sindacali diverse da quelle stipulanti condizioni di esercizio dell’attività sindacale, riconosciute da contratti collettivi, più favorevoli di quelle previste per legge. Non costituisce pertanto condotta lesiva della libertà e attività sindacale, repressa dall’art.
28 della medesima legge, l’aver negato ai dirigenti della RSA lo stesso numero di permessi retribuiti concessi ai dirigenti delle RSA di altre organizzazioni stipulanti un apposito accordo» (Xxxx. 5 dicembre 1991, n. 13085).
16.2 Obblighi di informazione a favore delle Organizzazioni sindacali
In linea di principio la giurisprudenza esclude che sussista a carico del datore di lavoro un generale obbligo di informazione a favore delle organizzazioni sindacali, obbligo che può pertanto dirsi esistente solo laddove espressamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
La giurisprudenza si è ripetutamente occupata di esaminare il profilo di legittimità del comportamento datoriale consistito nella violazione di obblighi di informazione posti a favore delle organizzazioni sindacali, individuando le fattispecie più significative di condotta antisindacale nei seguenti casi:
- inadempimento degli obblighi di informazione e consultazione delle organizzazioni sindacali previsti da un accordo collettivo nell’ipotesi in cui il datore di lavoro intenda appaltare all’esterno fasi delle lavorazioni aziendali;
- rispetto formale della procedura di informazione sindacale prevista dal contratto collettivo ma violazione nella sostanza dei relativi obblighi attraverso la comunicazione di informazioni insufficienti;
- ricorso al lavoro straordinario infrasettimanale e nelle giornate di sabato, in assenza di circostanze eccezionali e imprevedibili, in violazione degli obblighi di informazione preventiva e di accordo con le rappresentanze sindacali previsti dal CCNL;
- effettuazione di promozioni nella categoria dei quadri in violazione del numero pattuito contrattualmente.
16.3 Violazione delle clausole di un accordo collettivo
Per stabilire il carattere antisindacale del comportamento datoriale contrastante con il contenuto di un accordo collettivo occorre verificare, attraverso un accertamento da condurre con estremo rigore, se gli atti posti in essere dall’imprenditore siano effettivamente idonei a limitare la libertà sindacale reprimendo alla radice la possibilità di conflitto.
La giurisprudenza di merito ha altresì riconosciuto l’antisindacalità del comportamento del datore di lavoro che indica un referendum tra i lavoratori per ottenere l’approvazione di un’ipotesi di accordo di rinnovo del contratto collettivo aziendale, che avvii trattative individuali con i propri dipendenti mentre sono pendenti trattative con il sindacato o che non corrisponda ai lavoratori gli emolumenti previsti in un accordo integrativo aziendale.
16.4 Assemblea dei lavoratori
L’art. 20 Stat. Lav., nell’attribuire ai lavoratori il diritto di partecipare alle assemblee indette per discutere di problemi di interesse sindacale e del lavoro, garantisce un diritto incondizionato che in quanto tale non incontra limiti in relazione alle contrapposte esigenze della parte imprenditoriale.
Tuttavia, siffatta tutela viene meno di fronte all’esigenza di tutela di interessi superiori quali la salute, l’incolumità delle persone e la tutela della produttività, intesa come possibilità di continuare a svolgere l’iniziativa economica.
Nell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva intervenga a fissare regole che disciplinano l’esercizio del diritto di assemblea al fine di assicurare comunque la funzionalità dell’azienda, non è antisindacale il comportamento datoriale estrinsecatosi nella mancata adesione – per i giorni richiesti – alle richieste di assemblee non conformi alle previsioni contrattuali.
Sotto un diverso profilo, la giurisprudenza di legittimità ha sancito l'antisindacalità della condotta del datore di lavoro che si sia rifiutato di consentire l’assemblea dei lavoratori in sciopero, atteso che durante l'esercizio di tale diritto, mentre restano sospese le obbligazioni relative alla prestazione di lavoro e al pagamento delle retribuzioni, non restano sospesi gli altri diritti e obblighi costituenti il contenuto del rapporto di lavoro estranei all’interruzione della prestazione lavorativa, quali i diritti sindacali non collegati direttamente con l’esecuzione della prestazione.
Sempre in relazione all’esercizio del diritto di assemblea, costituisce «condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro che, ai fini del raggiungimento del monte ore di ore retribuite previsto dall’art. 20 Stat. Lav., anziché riconoscere una dotazione individuale di dieci ore annue di assemblea retribuita sulla base dell’effettiva partecipazione del dipendente alla stessa, cumuli le ore di assemblea convocate disgiuntamente dalla RSU e da una RSA costituita da sindacato non aderente all’accordo istitutivo delle RSU, omettendo di verificare l’effettiva partecipazione di ciascun dipendente all’una o all’altra assemblea» (Pret. Pavia, 9 febbraio 1998).
Quanto al monte ore riservato alle organizzazioni sindacali è stato precisato che «in virtù del combinato delle disposizioni contenute nell’art. 20 Stat. Lav. e nell’art. 4 dell’accordo interconfederale 20 dicembre 1993, che prevedono la possibilità per le organizzazioni sindacali stipulanti di convocare singolarmente e congiuntamente assemblee retribuite entro il limite di tre ore annue, non costituisce esercizio di condotta antisindacale il diniego opposto dal datore di lavoro alla richiesta di convocazione di assemblea sindacale avanzata da uno di tali soggetti, laddove tale richiesta sia esorbitante rispetto al monte ore annuo, da intendersi complessivamente disponibile e assolutamente non applicabile per moltiplicazione o per sommatoria» (Trib. Pordenone, 20 settembre 2003).
16.5 Diritto di sciopero
In termini generali, il comportamento datoriale costituisce condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. quando è diretto a limitare o impedire l’esercizio di uno sciopero legittimo, in quanto attuato nel rispetto dei c.d. limiti esterni individuati dalla giurisprudenza.
Laddove, di contro, lo sciopero travalichi tali limiti – perché idoneo, per le modalità con cui viene attuato, a pregiudicare la stessa produttività dell’azienda –, non costituisce condotta antisindacale il fermo dei macchinari disposto dal datore di lavoro per ovviare al rischio di gravi e irreparabili danni ai propri impianti.
Per la tutela dell’integrità degli impianti a ciclo continuo in costanza di sciopero, vengono di norma conclusi appositi accordi tra imprenditore e sindacati, allo scopo di garantire che un determinato numero di lavoratori presti la propria attività per evitare danni agli impianti produttivi e con modalità tali da non sminuire l’efficacia dello sciopero: in assenza di tali accordi, il datore di lavoro potrà procedere alle c.d. «comandate unilaterali».
Con riferimento al c.d. «sciopero del cottimo», è antisindacale l'irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti dei cottimisti che rallentino i ritmi di cottimo mantenendosi entro il minimo preventivato, mentre non lo è laddove la diminuzione del rendimento va al di sotto del minimo contrattualmente previsto.
Nello sciopero cd. a scacchiera, cioè attuato mediante l’alternarsi di interruzioni dal lavoro dei soli lavoratori appartenenti a determinati reparti, uffici o profili professionali, legittimamente il datore di lavoro rifiuta la prestazione lavorativa e non eroga il relativo corrispettivo ove la prestazione offerta dai lavoratori negli intervalli o nei reparti in cui vi sia astensione risulti, in relazione alla struttura e all’organizzazione dell’impresa, non più proficua, ovvero divenga utilizzabile soltanto attraverso l’assunzione di maggiori spese e oneri.
Nell'ipotesi dello sciopero a xxxxxxxxxx, attuato attraverso un susseguirsi di brevi interruzioni e riprese dell’attività lavorativa, il datore di lavoro può legittimamente rifiutare l’irregolare prestazione offerta, ove questa sia inutilizzabile e non più proficua, in relazione alla particolare tecnologia degli impianti, e quindi rimane esonerato dall’obbligo di corrispondere la relativa retribuzione.
In caso di sciopero del rendimento, quando cioè i lavoratori adempiono in maniera irregolare o parziale alla loro prestazione lavorativa, il datore di lavoro è legittimato a trattenere la parte di retribuzione corrispondente alla prestazione non resa.
Nell’ipotesi di sciopero dello straordinario, è antisindacale il comportamento del datore di lavoro che, senza ricorrere – come di prassi – al previo accordo con le organizzazioni sindacali, richieda ad alcuni lavoratori, aderenti a uno sciopero cosiddetto dello straordinario, di effettuare la prestazione lavorativa oltre l’orario settimanale normale.
Atteso il riconoscimento della legittimità dello sciopero in difesa dell’ordine costituzionale, è stato affermato come antisindacale il comportamento del datore di lavoro che non abbia riconosciuto natura di sciopero all’astensione collettiva dei lavoratori contro l’intervento militare nella ex Jugoslavia nonché contro l’invio di un contingente militare dello Stato italiano sul territorio di altri popoli.
Quando l’esercizio del diritto di sciopero si concreta nel blocco totale delle merci, deve considerarsi legittima la reazione del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori.
Parimenti legittimo deve considerarsi il comportamento del datore di lavoro che reagisca, anche attraverso il ricorso ai mezzi giudiziari di tutela del possesso (azione di spoglio o azione di manutenzione) nonché attraverso l’azione di risarcimento del danno, alla occupazione d’azienda attuata dai lavoratori che aderiscono a uno sciopero permanendo all’interno dell’azienda senza espletare l’attività lavorativa al preciso fine di ostacolare il normale svolgimento del lavoro.
Come noto, in linea di principio lo sciopero determina una sospensione del rapporto di lavoro facendo venire meno l’obbligazione retributiva posta a carico del datore di lavoro per la durata dello sciopero medesimo.
La giurisprudenza, occupandosi della particolare ipotesi in cui le trattenute operate sulle retribuzioni non coincidono con la durata dell’astensione dall’attività lavorativa, ha innanzitutto ritenuto antisindacale il comportamento del datore di lavoro che abbia
effettuato trattenute retributive in relazione non solo alle giornate di sciopero, ma anche alle giornate, ricadenti nel turno interessato dallo sciopero, per le quali vi sia stata l’offerta delle prestazioni lavorative.
Parimenti antisindacale è stata ritenuta la condotta consistita, in caso di sciopero di breve durata, in trattenute corrispondenti non già alla durata dell’astensione del lavoro, ma a quella dei ritardi causati nell’espletamento del servizio dalla astensione medesima.
Nell’ipotesi di sciopero in un impianto a ciclo continuo, la legittimità del rifiuto da parte del datore di lavoro delle prestazioni offerte dagli addetti a reparti diversi da quelli interessati dall'astensione dal lavoro presuppone, ai fini della liberazione dall’obbligo retributivo, l’inutilizzabilità di dette prestazioni nelle mansioni attribuite, in relazione al tipo e alla natura dell’organizzazione produttiva, non essendo infatti richiesto all’imprenditore di modificare i processi produttivi al fine di rendere la prestazione offerta utile.
Nel caso in cui il datore di lavoro non rifiuti le prestazioni offerte e non consenta al contempo la c.d. «messa in libertà» dei dipendenti di un reparto che non intendono aderire allo sciopero, non può essere poi decurtata la retribuzione dei medesimi sostenendo la diminuzione del rendimento dell’attività lavorativa prestata a causa della paralisi dovuta allo sciopero dei dipendenti addetti a un altro reparto.
Il datore di lavoro può sostituire i lavoratori in sciopero con personale già dipendente (crumiraggio interno), purché tale sostituzione avvenga senza finalità ritorsive e solo per attenuare, senza vanificarli, gli effetti negativi dello sciopero, oppure con personale appositamente assunto (crumiraggio esterno).
È invece discussa in giurisprudenza la possibilità di adibire i dipendenti in servizio a mansioni inferiori al fine di sostituirli temporaneamente al personale aderente all’agitazione in corso.
Il lavoratore si espone a procedimento disciplinare se le modalità dei comportamenti posti in essere dal medesimo superano i limiti c.d. esterni allo sciopero: di contro, l’adozione di provvedimenti disciplinari a carico di lavoratori che hanno aderito a uno sciopero legittimo costituisce condotta antisindacale.
16.6 Diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali
Attese le finalità del preavviso previsto dalla legge 146/1990, si è affermata la necessità che il preavviso indichi non solo il giorno ma anche l’ora di inizio dell’agitazione: pertanto, non sono ravvisabili gli estremi della condotta antisindacale nell'irrogazione di sanzioni disciplinari per l’astensione di un’ora da prestazioni indispensabili alla fruizione del servizio, ove non sia stata comunicata l’ora dell’inizio dell’astensione dal lavoro.
L’art. 2, comma 2, della legge 146/1990, rimette alla contrattazione collettiva la determinazione delle prestazioni indispensabili, per quanto riguarda il rapporto di lavoro privato, e agli accordi o ai regolamenti di servizio, per quanto riguarda l’impiego pubblico: al riguardo, è stato precisato che non costituisce un’ipotesi di condotta antisindacale il mancato raggiungimento di tali accordi qualora il datore di lavoro abbia prestato una disponibilità di massima alle trattative e il mancato accordo sia pertanto dovuto a oggettive difficoltà di individuazione della soglia minima di servizio da assicurare.
Quanto al tema della legittimità delle sanzioni irrogate dal datore di lavoro in conseguenza di uno sciopero, in termini generali si è espresso il Tribunale di Milano, secondo cui non deve ritenersi antisindacale la condotta del datore di lavoro che abbia sanzionato lo sciopero dichiarato dalla Commissione di garanzia non conforme al minimo indispensabile a garantire il servizio pubblico (Trib. Milano, 29 novembre 1997).
Parimenti legittimo è stato ritenuto il comportamento dell’azienda esercente servizio pubblico essenziale che, a seguito della valutazione della Commissione di garanzia, abbia irrogato alle organizzazioni sindacali le sanzioni previste nella legge 146/1990 per uno sciopero attuato contro il deliberato aziendale sui turni di lavoro senza il rispetto della regola del preavviso (Pret. Pisa, 10 luglio 1995).
Integra invece gli estremi della condotta antisindacale l’invio di una lettera di contestazione disciplinare indiscriminatamente a tutti i lavoratori che abbiano partecipato a uno sciopero attuato senza il rispetto del preavviso, atteso che la legge 146/1990 trova applicazione solo nei confronti dei lavoratori adibiti a mansioni attinenti all’erogazione del servizio pubblico essenziale (Pret. Torino, 9 dicembre 1994).
16.7 Serrata
Il comportamento datoriale consistito nella serrata di ritorsione costituisce condotta antisindacale quando l’azione sindacale dei lavoratori, complessivamente considerata nelle modalità di attuazione, non oltrepassa i limiti di tollerabilità e quindi di legittimità individuati dalla giurisprudenza.
Ne consegue che quando l’attività sindacale si realizza attraverso comportamenti violenti dei lavoratori che mettono a rischio l’integrità degli impianti e l’incolumità degli impiegati addetti, deve ritenersi legittima la chiusura degli impianti medesimi.
Si consideri altresì che «a fronte dei poteri dispositivi dell’imprenditore in ordine alla organizzazione e al funzionamento delle attività aziendali, non è consentito ai lavoratori e alle loro organizzazioni sindacali sostituirsi all’imprenditore nella decisione di attivare un processo di produzione di cui sia stata disposta la soppressione o la sostituzione», con la conseguenza che la sospensione dell’attività produttiva decisa dall’imprenditore non costituisce condotta antisindacale (Cass. 26 novembre 1987, n. 8754).
16.8 Provvedimenti datoriali nei confronti dei rappresentanti sindacali
In linea di principio deve considerarsi antisindacale ogni comportamento datoriale, assunto nei confronti di rappresentanti sindacali, che costituisca un impedimento o comunque una limitazione dell’esercizio della libertà e dell’attività sindacale. Numerose sono le fattispecie di cui la giurisprudenza si è occupata.
In materia di permessi retribuiti, la giurisprudenza di legittimità ha sancito l’antisindacalità del comportamento del datore di lavoro che abbia concesso alla RSA permessi retribuiti per un numero di ore all’anno pari a quello dei dipendenti occupati nell’unità produttiva diviso per il numero delle RSA in essa operanti; infatti, nell’ipotesi in cui all’interno della medesima azienda siano costituite una pluralità di RSA, al dirigente di ciascuna di esse spetta il diritto di fruire del numero di ore di permessi retribuiti stabiliti dalla norma in esame o dalla contrattazione collettiva, senza alcun frazionamento tra le diverse rappresentanze sindacali (Cass. 30 luglio 1992, n. 9136).
Per quanto attiene il problema dell’attribuzione al datore di lavoro della facoltà di esercizio del potere disciplinare nei confronti del rappresentante sindacale che abbia richiesto i permessi retribuiti per attività di natura non sindacale, in alcune isolate pronunce si è affermata l’illegittimità dell’irrogazione di una sanzione disciplinare, atteso che questa non lederebbe la posizione individuale del lavoratore bensì il diritto dell’organizzazione sindacale nel suo complesso.
Tuttavia, il Tribunale di Milano ha ritenuto che «devono ritenersi legittime la trattenuta retributiva operata dal datore di lavoro per l’utilizzazione del permesso sindacale da parte
del dipendente per presenziare ad un’udienza relativa a un proprio processo, nonché la sanzione disciplinare della multa irrogata, attesa l’inesistenza di una prassi aziendale che tollerasse la fruizione di permessi, formalmente richiesti come sindacali, per assistere ai propri processi» (Trib. Milano, 22 dicembre 1992).
Con riferimento ai permessi dei dirigenti sindacali provinciali e nazionali, poiché l’effetto sospensivo dell’obbligazione lavorativa non si verifica se il permesso previsto dall’art. 30 Stat. Lav. non sia fruito per il compimento dell’attività tipica per il quale è richiesto, deve considerarsi legittima la contestazione disciplinare al dipendente circa l’utilizzazione del permesso richiesto per l’espletamento di un’attività estranea alle finalità sindacali previste dal legislatore.
Al verificarsi di tale ipotesi, anche la giurisprudenza di merito è orientata in senso prevalente ad attribuire al datore di lavoro la facoltà di esercizio del potere disciplinare nei confronti del rappresentante sindacale che abbia richiesto i permessi retribuiti per attività di natura non sindacale.
È stato invece affermato che, qualora non sia stato stipulato l’accordo aziendale previsto dalla contrattazione collettiva al fine di fissare norme idonee ad assicurare la funzionalità dell’impresa in occasione della fruizione di permessi sindacali, integra gli estremi della condotta antisindacale il rifiuto datoriale nei confronti del dirigente sindacale dell’autorizzazione alla partecipazione a riunioni degli organi direttivi delle associazioni sindacali motivato dalla sussistenza di esigenze aziendali.
L’art. 18 Stat. Lav. introduce una particolare tutela a favore dei dirigenti sindacali, dei candidati e dei membri delle commissioni interne, prevedendo che in caso di licenziamento l’istanza di reintegrazione, per la quale non sono previste particolari formalità, possa essere presentata in ogni stato e grado del giudizio di merito congiuntamente dal lavoratore e dal sindacato cui questo aderisce o conferisce mandato.
Dal punto di vista probatorio, ai fini della concessione dell’ordinanza di reintegrazione è sufficiente che il datore di lavoro non fornisca sufficienti o rilevanti elementi di prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento.
È tuttora controverso in dottrina se la tutela approntata dall’art. 18 Stat. Lav. impedisca o meno l’esperibilità del ricorso ex art. 28 Stat. Lav.
Al riguardo, la Corte di Cassazione ha precisato che il licenziamento di un rappresentante sindacale «non costituisce, di per sé, un comportamento illegittimo, reprimibile attraverso il procedimento di cui all’art. 28 Stat. Lav., anche se, di fatto, determina negative ripercussioni sull’interesse del sindacato, la cui tutela attraverso detto procedimento postula la sua diretta attinenza all’attività endoaziendale, con la conseguenza che, ove dette ripercussioni attengano a aspetti esterni, quali lo scadimento di credibilità o l’indebolimento o simili, esse non sono sufficienti a determinare l’illegittimità del licenziamento, e il giudice è tenuto, quindi, a indagare se questo sia assistito da quella effettiva giustificazione, che ne precluda la valutazione come atto diretto ad intaccare la possibilità di azione del sindacato all’interno dell’azienda» (Cass. 16 gennaio 1984, n. 359).
Il trasferimento da un’unità produttiva a un’altra dei dirigenti delle RSA, dei candidati e dei membri delle commissioni interne è subordinato al preventivo nulla osta delle associazioni sindacali, la cui mancata concessione determina la radicale nullità del licenziamento intimato al sindacalista che si sia rifiutato di trasferirsi (Xxxx. 18 novembre 1975, n. 3875).
Per quanto attiene alla diversa ipotesi di trasferimento disposto all’interno della medesima unità produttiva, secondo l’orientamento maggioritario della giurisprudenza esso non
integra l’ipotesi prevista dall’art. 22 Stat. Lav., che attiene al trasferimento vero e proprio, cioè ad altra unità produttiva: ciò nonostante, la giurisprudenza di legittimità non esclude che esso possa comunque costituire una condotta antisindacale quando sia
«oggettivamente idoneo, sia pure sul piano solo potenziale, a ledere la libertà e l’attività sindacale, il cui svolgimento viene compromesso dall’allontanamento definitivo del rappresentante sindacale da tutti i compagni di lavoro o dalla specifica base rappresentata» (Xxxx. 3 settembre 1991, n. 9341).
La giurisprudenza di legittimità si è altresì pronunciata circa la legittimità del mutamento di mansioni disposto dal datore di lavoro nei confronti di un rappresentante sindacale, affermando che esso può essere illegittimo quando concreti un atto antisindacale ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav., in quanto oggettivamente idoneo, sia pure sul piano solo potenziale, a ledere la libertà e l’attività sindacale, implicando ad esempio, a causa dell'effettuazione di trasferte o missioni, un pregiudizio alla possibilità di svolgimento dell’attività sindacale.
Perché il collocamento in cassa integrazione guadagni di un rappresentante sindacale possa costituire condotta antisindacale, occorre verificare se il provvedimento adottato dal datore di lavoro sia idoneo a ledere oggettivamente, anche solo in maniera potenziale, gli interessi collettivi di cui le organizzazioni sindacali sono portatrici: alla luce di tale principio, la giurisprudenza ha ravvisato gli estremi della condotta antisindacale «in relazione alla scelta datoriale dei dipendenti da porre in Cassa integrazione guadagni, con l’inclusione di quattro membri su cinque del sindacato» (Cass. 16 luglio 1992, n. 8610).
È stato altresì riconosciuto antisindacale il collocamento in CIGS del dirigente sindacale, unico membro di RSA, atteso che egli gode di una tutela di rango superiore e prevalente rispetto alle mere esigenze economico-produttive poste dal datore di lavoro a fondamento del collocamento medesimo.
16.9 Trasferimento d'azienda
La giurisprudenza si è occupata sotto diversi profili dell’antisindacalità del comportamento assunto dal datore di lavoro nell’ambito della procedura ex art. 47 della legge 428/1990.
In primo luogo, la norma contiene l’espressa previsione secondo cui il mancato rispetto da parte del cedente e del cessionario dell’obbligo di esame congiunto costituisca condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav.
Sebbene la disposizione limiti il carattere di antisindacalità alla sola violazione dell’obbligo di esame congiunto, la giurisprudenza è assolutamente costante nel riconoscere come antisindacale anche la mancata attivazione delle procedure di comunicazione e informazione, atteso che esse sono prodromiche rispetto all’effettuazione dell’esame congiunto.
V'è da sottolineare che la condotta antisindacale posta in essere dal datore di lavoro a causa dell’inosservanza degli obblighi di informazione non comporta l’invalidità dell’intero negozio giuridico traslativo, atteso che «il mancato adempimento dell’obbligo di informazione del sindacato costituisce comportamento che viola l’interesse del destinatario delle informazioni, ossia il sindacato, ed è pertanto, sussistendone i presupposti, configurabile come condotta antisindacale ai sensi dell’art. 28 legge 300/1970, ma non incide sulla validità del negozio traslativo, non potendosi configurare l’osservanza delle suddette procedure sindacali alla stregua di un presupposto di legittimità (e quindi di un requisito di validità) del negozio di trasferimento» (Cass. 4 gennaio 2000, n. 23).
Se la violazione dell’obbligo di informazione del sindacato previsto dall’art. 47 della legge 428/1990 non inficia la validità del negozio di cessione dell’azienda, occorre chiedersi quali siano gli effetti della condotta antisindacale che devono essere rimossi attraverso l’ordine giudiziale emesso all’esito del procedimento di cui all’art. 28 Stat. Lav.
Al riguardo, si deve ritenere che tale ordine di rimozione non potrà che riguardare le
«conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori» e le «eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi» espressamente indicate dall’art. 47 in esame quali oggetto dell’esame congiunto.
Quanto al contenuto della comunicazione inviata alle organizzazioni sindacali, è stato innanzitutto rilevato dalla giurisprudenza di merito che la comunicazione di informazioni generiche o incomplete integra gli estremi della condotta antisindacale.
Alla medesima conclusione si deve pervenire anche nella diversa ipotesi di tardivo invio di tale comunicazione.
16.10 Licenziamento individuale
La Suprema Corte ritiene che «il licenziamento determinato da motivi sindacali è viziato da nullità ai sensi dell’art. 4 della legge 604/1966 ed è idoneo a ledere l’interesse collettivo alla libertà e all’attività sindacale, risultando perciò perseguibile dal sindacato con il procedimento previsto dall’art. 28 Stat. Lav.» (Cass., sez. un., 17 febbraio 1992, n. 1916).
Tuttavia, è stato precisato che non integra gli estremi della condotta antisindacale il comportamento del datore di lavoro che abbia licenziato i lavoratori che, nel corso di un'agitazione sindacale, si siano introdotti negli uffici aziendali per costringere, con violenza, minacce e ingiurie, i dipendenti presenti a interrompere ogni attività lavorativa, trattandosi di condotta datoriale che si contrappone a un illegittimo comportamento di singoli lavoratori o del sindacato.
16.11 Licenziamento collettivo
La c.d. procedura di mobilità prevista dalla legge 223/1991 ha il fine di coinvolgere nel confronto le organizzazioni sindacali che abbiano un referente rappresentativo presso l’azienda e che, pertanto, assumano il ruolo di naturali interlocutori dell’azienda.
La giurisprudenza ravvisa gli estremi della condotta antisindacale nel comportamento del datore di lavoro «consistente nell’avviare la procedura di riduzione del personale ai sensi della legge 23 luglio 1991, n. 223, senza comunicare alle organizzazioni sindacali i fatti specifici e attuali che determinano la situazione di eccedenza di personale» (Pret. Milano, 29 giugno 1992), o che fornisca alle organizzazioni sindacali informazioni generiche o incomplete circa i requisiti prescritti dall’art. 4 della legge 223/1991.
Sotto diverso profilo, la Suprema Corte ha ritenuto che «anche in ipotesi di licenziamento collettivo le organizzazioni sindacali sono legittimate a proporre il ricorso ex art. 28 Stat. Lav. adducendo la sussistenza dell’intento del datore di lavoro di ostacolare od impedire il libero esercizio dell’attività sindacale e chiedendo quindi – come provvedimento repressivo della lamentata condotta antisindacale – la riammissione al lavoro dei dipendenti licenziati, a nulla rilevando che tale domanda sia formulata nei confronti di una parte soltanto dei lavoratori stessi» (Cass. 29 luglio 1986, n. 4858).
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