EUROPA E DIRITTO PRIVATO
EUROPA E DIRITTO PRIVATO
Fasc. 1 - 2019
ISSN 1720-4542
Xxxxxxxx X’xxxxx
GIUSTIZIA CONTRATTUALE E CONTRATTI ASIMMETRICI
Estratto
DIRITTO EUROPEO
Xxxxxxxx X’Xxxxx
GIUSTIZIA CONTRATTUALE
E CONTRATTI ASIMMETRICI (*)
SOMMARIO: 0. Premessa. - 1. « Giustizia contrattuale » come valore imma- nente in qualsiasi sistema legale di regolamentazione del contratto. - 2.
« Giustizia commutativa » e « giustizia sociale » (o “distributiva”). - 3.
« Giustizia commutativa » come equilibrio del regolamento contrattuale.
- 4. La c.d. « giustizia procedurale » Strumenti attraverso cui si garantisce (o può garantirsi) la « giustizia contrattuale » mediante una disciplina meramente “procedurale” (id est: che non incida direttamente sul conte- nuto del contratto). - 5. (Segue): infondatezza della contrapposizione tra la c.d. « giustizia procedurale » e la « giustizia sostanziale » (o materiale).
- 6. Le condizioni che rendono la « giustizia procedurale » (ancorché sempre necessaria) insufficiente ad assicurare un grado desiderabile di
« giustizia contrattuale ». - 7. (Segue): il problema delle “asimmetrie” e il nuovo modo di rapportarsi tra loro di “contratto” e “mercato”: a) il caso della contrattazione “di massa” nei mercati in cui agiscono i “consuma- tori” (o gli utenti). - 8. (Segue): b) l’“ingiustizia” nei rapporti contrattuali tra “professionisti”, e il fenomeno della “frammentazione” del mercato ad opera del contratto. L’abuso di “dipendenza economica”. - 9. Assenza, nel sistema, di un principio generale che consenta, in nome dell’esigenza di assicurare la “giustizia contrattuale”, un controllo (giudiziale) gene- ralizzato sul contenuto del contratto. Questo principio non può essere identificato nella “buona fede” contrattuale. - 10. (Segue): la “giustizia” dei rimedi (e la buona fede). - 11. Conclusioni: la giustizia contrattuale tra legge e giudizio.
0. Proverò a presentare in forma volutamente “assioma- tica”, alcune proposizioni sul tema che sono stato chiamato a
Saggio sottoposto a referato.
(*) Si pubblica, con l’aggiunta delle note, il testo della Relazione svolta a Pisa il 30 novembre 2018 nel corso del Convegno sul tema “La funzione delle norme generali sui contratti e sugli atti di autonomia privata. Prospettive di riforma del codice civile”.
svolgere in questa Relazione, ossia il tema della « giustizia contrattuale ».
Naturalmente sono ben consapevole dell’azzardo di pro- spettare come proposizioni “evidenti” (quali sono — o si ritiene debbano essere — tesi qualificate come “assiomi”) una serie di affermazioni che concernono un argomento, invece, contro- verso quanto pochi altri.
Le spiegazioni (e i commenti) — sia pur sintetici (1) — che accompagneranno la formulazione di ciascuna delle proposi- zioni che seguono, dovrebbero tuttavia contribuire a giustifi- care la loro presentazione nella forma indicata.
1. La « giustizia contrattuale » è un valore immanente in tutto il diritto contrattuale legale.
Commento — Questa prima proposizione è, forse, quella che richiede minori giustificazioni. È difficile, invero, immagi- nare che le numerosissime norme (appartenenti al diritto co- gente, ovvero — e in numero ancor più consistente — al c.d. diritto dispositivo/suppletivo), dettate dal legislatore in materia contrattuale (sia nella disciplina generale del contratto, che — soprattutto — nella disciplina dei singoli contratti) non sotten- dano un’idea di “giustizia” del contratto (sebbene — come
(1) Spiegazioni e commenti più articolati e complessi finirebbero per contraddire l’assunto secondo cui le proposizioni che formuliamo possano (in certo qual modo) essere presentate in forma di “assiomi” (e cioè di afferma- zioni evidenti, se pure in un senso che deve comunque intendersi come relativo).
Questo non significa che il “quadro” (o, forse, meglio si direbbe: la cornice) che sarà delineato non possa essere arricchito sotto molti profili. Del resto, sul tema della “giustizia” esiste una letteratura vastissima (sia di carattere filosofico-generale, sia relativa alla dimensione propriamente giuri- dica del problema; e, in quest’ultimo ambito, tanto con riferimento al tema generale del rapporto tra “giustizia” e “diritto”, quanto con riguardo al più specifico rapporto tra “giustizia” e “contratto”, del quale ci dobbiamo in particolare occupare), di cui non sarebbe possibile dar conto nei limiti di un breve contributo (per qualche indicazione — pur sempre limitata e parziale — cfr. comunque, oltre alle note che seguono, X. X’Xxxxx, “Giustizia contrat- tuale” nella prospettiva del civilista, Diritti Lavori Mercati, 2017, 253 s., contributo del quale la presente Relazione costituisce una diretta continua- zione, se non un completamento).
vedremo — questo non voglia dire, certamente, che la giustizia costituisca l’unico criterio al quale il legislatore può — di volta in volta — decidere di far riferimento nel dettare la disciplina del fenomeno contrattuale (2)).
2. La « giustizia » che può essere perseguita nel contratto (quale strumento di regolazione di rapporti patrimoniali di diritto privato) è — in linea di principio — solo la giustizia c.d. “commutativa”, non quella c.d. “distributiva”.
Commento — Sebbene non manchino, di tempo in tempo, proposte secondo le quali il contratto dovrebbe farsi carico anche di problemi di « giustizia sociale » (3) (o — come anche si
(2) I valori concorrenti con quello della « giustizia » possono essere diversi: ad es. l’efficienza del mercato oppure la stabilità delle relazioni contrat- tuali, la protezione di alcuni operatori economici e così via.
Si tratta di valori che, talora, possono entrare in conflitto con quello della “giustizia”, che dunque può essere (dal legislatore) in una certa misura sacrificato, per realizzare interessi ritenuti maggiormente meritevoli di tutela (cfr. X. Xxxxx, Giustizia contrattuale, Dig. it., disc. priv., sez. civ., agg. VII (Torino 2012), 536, laddove l’A. osserva che « la legalità non è una garanzia di giustizia”, in quanto « motivi di ogni genere possono consigliare al politico, cioè al legislatore, di imporre un prezzo che non ha carattere di giustizia. Può farlo per scoraggiare un consumo, per proteggere una data classe di cittadini. Lo scopo può essere sublime; ma la giustizia contrattuale non è posta in atto da ogni possibile modo di protezione di un interesse socialmente apprezza- bile »).
Un esempio abbastanza evidente di come la “proporzionalità” tra le prestazioni (e, in questo senso, la “giustizia” [commutativa] del contratto) possa talora essere “sacrificata” dallo stesso legislatore, in vista del soddisfa- cimento di interessi “generali” (ad es.: incrementare le entrate fiscali, scorag- giare il consumo di determinati beni, etc.), è offerto dalle c.d. “imposte di consumo” (v. il d.lgs. 26-10-1995, n. 504, recante il T.U. delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi), che ven- gono fatte gravare su alcuni beni destinati al consumo, costringendo il produttore (che è formalmente il destinatario dell’imposizione) ad aumentare il prezzo di vendita di tali beni: si pensi alle “accise” che gravano sul prezzo delle sigarette, oppure a quelle che riguardano la benzina (basti dire — quanto a quest’ultima — che il prezzo finale di essa riflette solo per un terzo il c.d. “prezzo industriale” [ossia — se si vuole — il valore intrinseco] del bene, mentre per quasi due terzi è costituito dalla componente fiscale).
(3) Una certa eco, ad es., ha avuto — qualche anno fa — la pubblica- zione di un “Manifesto sulla giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo”
dice — di problemi di « giustizia distributiva », o « re-distribu- tiva »), appare evidente che — sino a quando col termine “contratto” si indicherà un atto di autonomia privata (rispetto al quale continui a valere, anzitutto, la libertà di decidere se porre in essere o meno l’atto, come pure la libertà di determinarne il contenuto, sebbene entrambe queste libertà possano — va da sé
— essere sottoposte a limiti, anche assai penetranti (4)) — non può immaginarsi che il contratto (privato) possa divenire stru- mento di risoluzione di problemi sociali (indigenza, mancanza di lavoro, disagio sociale, etc.) che in ipotesi impediscano o limitino (più o meno gravemente) l’accesso al mercato di de- terminati beni o servizi da parte di soggetti socialmente svan- taggiati. Questi problemi richiedono una risposta di tipo di- verso, che non può essere (data dal, o) richiesta al privato (5),
(la versione italiana si legge in Riv. crit. dir. priv., 2005, 99 s., preceduta da un saggio di X. Xxxxx, Giustizia sociale nel diritto privato europeo dei contratti, ivi, 85 s.) ad opera del Gruppo di studio sulla giustizia sociale nel diritto privato europeo.
Definisce “un po’ ingenuo” tale progetto X. Xxxxxxxxx, Il contratto europeo nel tempo della crisi, in questa Rivista, 2010, 601 s., 610. In argomento si veda anche X. Xxxxxxxxxx, Sulla giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti, ivi, 2005, 630 s.
(4) Non è il concetto di “limite” quello che può mettere in discussione il principio dell’autonomia privata (che, come tutte le libertà, non può in alcun modo essere concepita come assoluta, ma è sottoposta appunto a limiti di vario tipo ed intensità, necessari per tutelare altri interessi meritevoli, sia di natura individuale che di natura generale). Piuttosto, incompatibile con l’autonomia privata è l’idea dell’obbligo, per lo meno quando si combinino in una medesima fattispecie l’obbligo di concludere il contratto e quello altresì di dare al contratto un contenuto “vincolato” (dalla legge). In questo caso — infatti
— verrebbe meno l’idea stessa di “autonomia contrattuale”, e lo schema concettuale di riferimento diventerebbe quello dell’“atto giuridico in senso stretto” (o, addirittura, dell’atto dovuto).
(5) L’esperienza insegna che quando il legislatore ha cercato di favorire l’accesso al mercato (di alcuni beni o servizi) a categorie sociali “svantaggiate” (o, comunque, ritenute meritevoli di una particolare tutela), imponendo ai proprietari di tali beni (o ai fornitori di tali servizi) di praticare condizioni contrattuali che si risolvevano in una più o meno accentuata “redistribuzione di ricchezza”, il tentativo ha incontrato enormi resistenze, e, quasi sempre, si è risolto in un fallimento.
Emblematico è il caso della legge sul c.d. “equo canone” per le locazioni di immobili urbani a scopo abitativo (l. 27-7-1978 n. 392), legge che — com’è ben noto — ha alimentato (oltre a vaste aree di vera e propria violazione) il
ma deve provenire dai pubblici poteri. Semmai — ma sempre nella prospettiva appena indicata (ossia, nella prospettiva di un intervento pubblico) — il contratto potrà essere (al più) lo strumento (indiretto) mediante il quale perseguire obiettivi di carattere “sociale”, con costi però a carico non del (singolo) contraente privato, bensì a carico della fiscalità generale (6).
3. La c.d. “giustizia commutativa” comporta una compo-
ricorso ad innumerevoli modalità elusive, senza peraltro risolvere il problema “abitativo”. Il che ha finito per convincere il legislatore a ... ritornare al mercato (v. l. 9-12-1998 n. 431), sia pure mantenendo forme di “controllo” dell’esercizio dell’autonomia negoziale delle parti, attraverso la previsione dell’“assistenza” delle associazioni rappresentative dei proprietari e dei con- duttori.
(6) Si pensi alle varie forme di agevolazioni ed incentivazioni fiscali per favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di determinate categorie di soggetti (ad es.: giovani; soggetti residenti in regioni economicamente depresse; etc.); o si pensi (per riprendere l’esempio del contratto di locazione, fatto nella nota precedente) alle agevolazioni fiscali previste dagli artt. 8 e s. della l. 431/1998 a favore dei proprietari che accettino di definire il valore del canone (oltre che la durata del contratto ed altre condizioni contrattuali) sulla base di quanto stabilito in appositi accordi definiti in sede locale fra le organizzazioni della proprietà edilizia e le organizzazioni dei conduttori maggiormente rappre- sentative.
Un altro esempio ancora può essere fornito dai rapporti “concessori” che operano in alcuni settori (ad es. nel settore del trasporto pubblico locale), nell’ambito dei quali è frequente (per non dire normale) l’imposizione, al concessionario, di c.d. “obblighi di servizio” (ad es. — per restare al caso del trasporto pubblico locale —: assicurare almeno due collegamenti giornalieri tra un paesino di montagna e la città più vicina), obblighi che — siccome comportano per lo più lo svolgimento di attività “in perdita” (perché i ricavi non riescono a coprire i costi) — sono sovente accompagnati dalla previsione di un “contributo” economico “pubblico”.
In generale, evidenzia il rischio che il mercato reagisca (a misure che sovraccarichino il contratto di compiti di natura sociale) “estromettendo [dal mercato stesso] i più deboli e i più fragili”, X. Xxxxxxxxxx, Costituzione, Europa e diritto privato. Effettività e Drittwirkung: ripensando la complessità giuridica (Torino 2017), 58, ove si aggiunge che « Per questa ragione devono ipotizzarsi meccanismi di collaborazione fra pubblico e privato finalizzati ad accompagnare i soggetti socialmente deboli dentro i meccanismi del mer- cato » (e, poco prima, a pag. 51, l’A. discorre di una « ontologica dimensione individualistica del contratto, al cui interno può tutt’al più collocarsi una prospettiva di giustizia commutativa, volta a reagire ad un’asimmetria di potere contrattuale »).
sizione “equilibrata” dei contrapposti interessi dei contraenti, che può valutarsi sia sotto il profilo della “equivalenza” tra il valore delle attribuzioni/prestazioni che rientrano nell’“oggetto principale” del contratto, sia sotto il profilo delle altre clausole contrattuali che regolamentano il rapporto tra i contraenti.
Commento — Non c’è alcun motivo di restringere a priori l’ambito entro cui può porsi un problema di “giustizia contrat- tuale”, intesa come “equilibrio” del regolamento negoziale.
3.1. Deve, per la verità, aggiungersi subito che — di norma
— gli ordinamenti giuridici (almeno quelli che operano in sistemi sociali basati su economie di mercato), non contengono regole che determinino autoritativamente il contenuto del con- tratto con riferimento alle prestazioni che ne costituiscono l’“oggetto principale” (7); il che comporta che le determinazioni dei contraenti — ai quali spetta (a pena di nullità: art. 1346 c.c.) individuare il contenuto di tali prestazioni — non si confron- tano con un “parametro legale” che individui un “modello” di
(7) La terminologia che utilizziamo, generalizzandola (clausole relative all’“oggetto principale” del contratto, in contrapposto a clausole che risultano estranee a questo oggetto) è mutuata dalla normativa sulle clausole vessatorie nei contratti del consumatore (dir. 5 aprile 1993, n. 13).
È bene precisare che né nell’ambito di questa specifica normativa, né in generale, sarebbe corretto affermare che la distinzione in questione coincide con quella tra (clausole che concernono il c.d.) “contenuto economico” e (clausole relative al c.d.) “contenuto normativo” del contratto. La suddetta sovrapposizione è infondata. Non solo, infatti, vi sono clausole che, pur senza far parte dell’“oggetto principale” del contratto, hanno un sicuro e immediato contenuto “economico” (si pensi alla clausola penale, o alla clausola che determina gli interessi moratori in un contratto di finanziamento; clausole che, difatti, la dir. 93/13 sottopone al controllo di vessatorietà), ma è vero altresì che anche clausole apparentemente prive di un tale contenuto — ad es. una clausola che disciplini il recesso dal contratto — sono anch’esse suscet- tibili di valutazione economica, come è dimostrato dalla possibilità che la parte a favore della quale sia previsto convenzionalmente un diritto di recesso abbia corrisposto per ciò una “caparra penitenziale” (e che il diritto di recesso abbia un contenuto “economico”, è confermato ulteriormente dal fatto che — laddove questo diritto sia accordato dal legislatore ad uno dei contraenti, come avviene per il consumatore/acquirente nelle vendite a distanza —, il “costo” per il venditore di tale recesso finisce per essere riversato sul prezzo dei beni, e così fatto gravare sulla generalità dei consumatori).
regolamento “giusto” (8). Del resto, è agevole osservare che la determinazione dell’oggetto (del contratto) dipende da una serie così varia di elementi e di circostanze (oggettive e sogget- tive) da rendere, se non impossibile, comunque, estremamente difficile l’individuazione “in astratto” anche soltanto di criteri generali per pervenire ad essa. Questo vale in particolare per il “prezzo” (come dimostrano le infinite diatribe sul c.d. “giusto prezzo”), il che spiega come si giustifichi soprattutto per esso l’opportunità di rimetterne la determinazione al libero gioco della domanda e dell’offerta (e dunque alla dinamica dell’auto- nomia privata) (9).
Al più — e quando sussistano interessi “generali” connessi ai “prezzi” di determinati beni o servizi, o all’equilibrio che si vuole assicurare in determinati mercati — si può riscontrare talora la presenza di regole volte a individuare limiti — in genere “massimi”, ma talora anche “minimi” — alla determi- nazione del corrispettivo dovuto da uno dei contraenti (10).
Infine, in alcuni casi, è l’esigenza di rimediare ad uno squi-
(8) Nei rari casi in cui una norma legislativa fissa il contenuto di attribuzioni o prestazioni che rientrano nell’oggetto principale del contratto, si tratta (significativamente) di norme “dispositive” o — come forse meglio si direbbe — di norme “interpretative”, ossia di previsioni basate sulla interpre- tazione della presumibile volontà delle parti. Si pensi per es. alla disposizione secondo la quale (nel silenzio delle parti) il trasferimento della cosa principale comporta automaticamente anche il trasferimento della pertinenza (art. 818 c.c.); o alla disposizione che in talune ipotesi di vendita (vendita di cose che il venditore vende abitualmente, o di cose aventi un prezzo di borsa o di mercato), stabilisce che — se le parti non hanno determinato (esplicitamente) il prezzo — si presume che abbiano voluto riferirsi (rispettivamente) al prezzo “normalmente praticato dal venditore”, o al prezzo che si desume “dai listini o dalle mercuriali” del luogo in cui deve essere eseguita la consegna (art. 1474 c.c.).
(9) Semmai l’ordinamento giuridico interviene per controllare che, per effetto di “sopravvenienze” di vario genere, possa risultare alterato l’equilibrio che le parti avevano trovato, circa la composizione dei rispettivi interessi, al momento della conclusione del contratto (si consideri ad es. la normativa sulla risoluzione per eccessiva onerosità).
(10) Come esempio di fissazione di un limite “massimo” del corrispet- tivo, si può indicare la fissazione del “tasso-soglia” usurario, ai sensi e per gli effetti della l. 7-3-1996 n. 108.
Quanto, invece, alla fissazione di limiti “minimi”, si pensi alle, oggi abrogate, Tariffe professionali, destinate ad individuare eventuali minimi
librio causato da distorsioni di mercato a giustificare l’intervento del legislatore su profili attinenti all’“oggetto principale del contratto”. Basti qui ricordare la disposizione dell’art. 3, comma 1°, lett. a) della l. 10-10-1990 n. 287 (recante Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), che — nell’ambito della regolamentazione dell’abuso di posizione dominante — vieta (fra l’altro) l’imposizione (diretta o indiretta) « di prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustifica- tamente gravose »; oppure la disposizione dell’art. 9 l. 18-6-1998
n. 192 (legge sulla subfornitura), che sanziona il c.d. abuso di dipendenza economica, statuendo (con formula analoga a quella appena citata) che esso può consistere (fra l’altro) « nell’impo- sizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie »; o la disposizione dell’art. 62 del d.l. n. 1 del 2012, (conv. l. n. 27 del 2012), sulla “Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroali- mentari”, il quale — dopo aver stabilito al 1° comma che “I contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale, ... devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle pre- stazioni, con riferimento ai beni forniti” — dispone al 2° comma che “Nelle relazioni commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1, è vietato: a) imporre direttamente o indiret- tamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose ... ».
3.2. A fronte della (ordinaria) assenza di regole legali che individuino e determinino l’“oggetto principale” dei contratti (o che fissino limiti a codesta determinazione) — è invece del tutto normale che il legislatore detti regole (per lo più di carattere
inderogabili del compenso dovuto a determinati professionisti (ad es. avvo- cati).
Nel primo caso opera una ratio di “stabilizzazione” di un mercato — quello del credito — che è particolarmente rilevante per l’intera economia. Nel secondo caso vengono invece in gioco esigenze di tutela di categorie professionali che (talora) svolgono attività che servono a garantire il soddi- sfacimento di diritti fondamentali (come il diritto di difesa).
“dispositivo/suppletivo”, ma sempre più spesso anche a carat- tere “cogente”) per disciplinare aspetti della relazione contrat- tuale estranei alla definizione in senso stretto dell’oggetto del contratto (come, ad es.: recesso dal contratto, ipotesi di risolu- zione, regole sul modo in cui devono essere adempiute deter- minate obbligazioni o possono essere fatti valere determinati diritti; etc.). Questa regolamentazione legale — che ha lo scopo (come si riconosce comunemente) di ridurre i “costi transattivi” (ossia i costi che i contraenti dovrebbero affrontare qualora dovessero, e volessero, regolare convenzionalmente anche que- sti aspetti del loro rapporto) — è naturalmente ispirata (almeno di regola, e salva la necessità di tutelare anche interessi diversi, aventi carattere preminente: v. supra) al principio di un “equi- librato contemperamento” degli interessi di cui (in ciascun tipo di contratto) sono normalmente portatori i contraenti, sicché essa si presta naturaliter a fornire un modello legale di “giustizia contrattuale” (sia pur non vincolante) con il quale confrontare la regolamentazione pattizia eventualmente difforme, al fine di valutare se lo scostamento (ove previsto in un atto di predispo- sizione unilaterale del regolamento negoziale: v. infra) sia o meno giustificato, o costituisca indizio o effetto di un abuso perpe- trato da un contraente ai danni dell’altro (11).
4. In un’economia in cui ipoteticamente funzionasse un modello di “concorrenza perfetta”, l’ordinamento giuridico po- trebbe limitarsi a garantire la sola giustizia c.d. “procedurale” delle contrattazioni (intesa come insieme di condizioni che permettono il libero esplicarsi dell’autonomia dei contraenti).
Commento — Se si immagina di operare in un’economia in cui sussistono condizioni di “concorrenza perfetta”, la “giusti-
(11) Ed è questa — in definitiva — la ragione principale (anche se non la sola) per cui, in materia di contratti dei consumatori, il legislatore (euro- peo) ha previsto un controllo sul contenuto del contratto (nel senso di verificarne l’equilibrio, e, dunque, la giustizia) limitato (in linea di principio) alle sole clausole “accessorie”, escludendo invece da tale controllo le clausole relative all’“oggetto principale” (e, in particolare, le clausole relative al prezzo), per le quali il giudice non potrebbe disporre di quello che nel testo abbiamo chiamato “un parametro di controllo” della “giustizia” del regola- mento negoziale.
zia” che è ragionevole ritenere che l’ordinamento giuridico debba promuovere con riferimento alle contrattazioni private è soltanto una giustizia “procedurale”, ossia la garanzia che il contratto sia posto in essere in condizioni di libertà e consape- volezza (capacità naturale), di mancanza di “vizi del consenso” (errore, violenza, dolo, altri eventuali “vizi” della volontà) o comunque di situazioni occasionali che possano indurre il soggetto ad accettare un regolamento contrattuale “iniquo” (stato di necessità, stato di bisogno, stato di pericolo). Se non si è in presenza di condizioni o situazioni siffatte, non si vede — invero — alcuna ragione che giustifichi un sindacato sul con- tenuto del contratto (12), in nome di una supposta “ingiustizia” (squilibrio, non equivalenza) che in ipotesi possa riscontrarsi “oggettivamente” tra i diritti e gli obblighi scaturenti dal con- tratto per i due contraenti. Xxxx, il fatto che, nonostante il soggetto disponesse di alternative di mercato (essendosi — in ipotesi — verificato lo scambio in un regime di concorrenza perfetta), cionondimeno abbia accettato (in un contratto a titolo oneroso (13)) un regolamento contrattuale più svantag- gioso di quello che (senza costi transattivi aggiuntivi) avrebbe potuto concludere con un altro operatore di mercato, costitui- sce indizio che l’arricchimento dell’altra parte (nei limiti in cui sussiste) sia stato provocato intenzionalmente, e che esso sia stato dettato da spirito di liberalità (anche senza integrare gli estremi di una “donazione”), cosa ben possibile e consentita. In questo senso, la famosa frase “qui dit contractuel dit juste” (14), non dovrebbe essere letta tanto come affermazione che il sin-
(12) Ovviamente, l’affermazione in questione presuppone (l’accetta- zione di) quella di cui alla precedente proposizione n. 2, ossia che sono estranei al contratto (come tale) problemi di “giustizia sociale”, che devono trovare altrove (e — tendenzialmente — attraverso strumenti “pubblicistici”) la loro soluzione.
(13) Evidentemente diversa è l’ipotesi in cui ci si trovi in presenza di una donazione, cioè di un contratto che — per sua natura — preveda che l’arricchimento del donatario avvenga senza alcuna “controprestazione” a favore del donante.
(14) La forza di questa idea travalica i confini del diritto privato, tanto da essere assunta — in notissime concezioni di filosofia politica — a fonda- mento della stessa “convivenza civile”, vista come il risultato di un (ideale) “contratto sociale” (al riguardo, osserva acutamente Xxxxxxxxxx, Il contratto “democratico” cit., 1264, che « ... mentre i civilisti cercano nella riflessione dei
golo contratto (15) dia sempre e necessariamente vita a regola- menti “oggettivamente” equilibrati, quanto piuttosto come con- statazione del fatto che in presenza di un contratto “libera- mente” e “consapevolmente” concluso un problema di “giusti- zia” (contrattuale) non si pone (o, detto altrimenti, che l’equili- brio del contratto è solo quello “soggettivamente” determinato e accettato dai contraenti).
4.1. Aggiungiamo che — sebbene si tratti di un modello puramente astratto (e, di fatto, mai realizzatosi nella realtà storica) — il modello della “concorrenza perfetta” svolge tutta- via una funzione importante, per almeno due motivi: a) anzi- tutto perché esso indica un compito “minimo” (o, se si preferi- sce, un obiettivo tendenziale) che l’ordinamento deve in linea di principio (16) perseguire, ossia quello di favorire il più possibile l’operare di condizioni di libertà di concorrenza sul mercato; b) in secondo luogo perché indica la necessità di intervenire co- munque — e, cioè, anche in presenza delle suddette condizioni “strutturali” (di mercato) — nei casi in cui la « giustizia » del contratto possa essere (stata) sacrificata per la presenza (occa- sionale e contingente) di condizioni o situazioni personali di uno dei contraenti, che abbiano alterato la possibilità di espli- cazione piena della libertà contrattuale (facendo venir meno — si badi — non tanto l’eguaglianza “formale” tra i due contraenti, ma la stessa eguaglianza “sostanziale”, se per tale si intende la
filosofi un aiuto nella qualificazione del contratto come giusto, i filosofi legano alla nozione di contratto sociale il fondamento dell’idea di giustizia »).
(15) Naturalmente, l’affermazione qui dit contractuel dit juste ha anche (e, forse, soprattutto) un valore ideologico, nella misura in cui essa intende sottolineare come l’istituto del contratto sia lo strumento più congruo per regolare gli interessi patrimoniali privati.
(16) Quando non vi siano ragioni che inducano a ritenere inadeguato il modello di “concorrenza perfetta”: si pensi al caso in cui l’elevata entità degli investimenti necessari per raggiungere un livello idoneo di efficienza richieda che le imprese che operino in determinati settori raggiungano dimensioni di una certa rilevanza; il che comporta che il tipo di mercato idoneo a soddisfare queste esigenze sia, non già un mercato “concorrenziale” (nel senso della “concorrenza perfetta”), quanto piuttosto un mercato “oligopolistico”.
idoneità in concreto, e non solo in astratto, di esercitare la propria “capacità negoziale” (17)) (v. il § seguente).
5. Anche il modello “tradizionale” del contratto (18) tutela (sia pure con diversa ampiezza, a seconda delle disposizioni normative presenti nei vari ordinamenti, e delle interpretazioni più o meno late che di queste disposizioni siano fornite) la
« giustizia contrattuale », in particolare opponendosi a conte- xxxx squilibrati/iniqui che siano conseguenza di condizioni “soggettive” del contraente (o di “situazioni” in cui egli si venga occasionalmente a trovare), che gli abbiano impedito o possano impedirgli di esprimere un consenso “libero” e consapevole”.
Commento — Questa (quinta) proposizione non è che un corollario della prima (oltre che della quarta). Se la (ri-)propo- niamo in forma autonoma, è perché ciò consente di svolgere un’ulteriore precisazione, utile a fugare alcuni equivoci, che circondano spesso la trattazione del tema della “giustizia con- trattuale”.
Xxxxxx — invero abbastanza frequentemente — di vedere contrapposta quella che abbiamo chiamato « giustizia procedu- rale » ad una c.d. « giustizia sostanziale » (o materiale). La contrapposizione è, tuttavia, ambigua, e — in definitiva — infondata. La « giustizia contrattuale » coincide (concettual- mente) sempre con l’idea di un “equilibrio” del regolamento contrattuale (e, in questo senso, essa va intesa sempre come un valore “sostanziale”): quel che può cambiare è lo strumento o l’insieme degli strumenti attraverso i quali si ritiene di volta in volta di perseguire un tale obiettivo. Da questo punto di vista la
« giustizia procedurale » non può essere contrapposta alla
« giustizia sostanziale », per la semplice ragione che la prima indica uno strumento (o — se si preferisce — una tecnica, o un
(17) Secondo un’accezione “pregnante” di libertà (e di potere) nego- ziale, che viene teorizzata per es. da Xx Xxxx (negli scritti che citiamo infra, alla nota 73).
(18) Che — come vedremo meglio più avanti — ha la caratteristica (che ne rappresenta anche il limite) di essere costruito sullo schema di un “con- tratto individuale”, che realizza uno scambio “isolato”, laddove la realtà moderna del contratto è caratterizzata dalla figura (ormai dominante) del c.d. “contratto di massa” (standardizzato).
insieme di tecniche) che serve pur sempre per la realizzazione della seconda (che è il fine) (19).
Altro è, poi, constatare che non sempre gli istituti ricondu- cibili alla c.d. “giustizia procedurale” sono “sufficienti” (a ga- rantire il raggiungimento di un livello desiderabile di “giustizia” nei contratti), con la necessità — come vedremo fra poco — di ricorrere a strumenti e a tecniche ulteriori (20).
(19) Quando si parla di giustizia contrattuale (meramente) “procedu- rale” si deve intendere quell’insieme di strumenti (o di tecniche) che imma- ginano di (poter) realizzare il valore della « giustizia contrattuale » (in senso sostanziale) attraverso la tutela delle condizioni di esplicazione dell’autono- mia contrattuale (e reagendo a regolamenti “iniqui” o “squilibrati”, che siano conseguenza del venir meno di quelle condizioni).
Al riguardo, vanno formulate subito due osservazioni. La prima è una precisazione, e intende evidenziare che tra le “tecniche” che mirano a tutelare la giustizia c.d. « procedurale » del contratto è possibile (a nostro avviso) inserire anche la disciplina dei “vizi del consenso”: sebbene, infatti, la tutela che viene in questo caso fornita dall’ordinamento prescinda dall’esistenza di un regolamento “squilibrato” (quale conseguenza dell’alterazione del pro- cesso di formazione della volontà negoziale), e miri a proteggere il contraente già per il solo fatto di avere prestato il proprio consenso in condizioni “alterate” (e anche se il contratto concluso non sia oggettivamente iniquo), è chiaro che nella maggior parte dei casi l’impugnazione del contratto si verificherà quando il contratto concluso abbia un contenuto “svantaggioso” per il contraente il cui consenso risulti “viziato” (sicché la tutela fornita da questa normativa costituisce, indirettamente, anche tutela della “giustizia” del regolamento negoziale).
La seconda osservazione è che la sola “giustizia procedurale” (recte: la reazione alle situazioni in cui vengano meno le condizioni “procedurali” di esplicazione di una volontà libera e consapevole) — come si dirà meglio fra poco — non è strumento sufficiente a garantire il “risultato” della « giustizia contrattuale » (sostanziale) quando lo “squilibrio” del contratto trovi la sua causa, non in occasionali défaillances che possano colpire un contraente, bensì in condizioni strutturali che caratterizzano il contesto nel quale si colloca la conclusione del contratto (inesistenza di un mercato concorren- ziale, o cattivo funzionamento — per ragioni di varia natura — di tale mercato).
(20) In particolare, di adottare strumenti che prevedano un controllo e un sindacato “diretti” sul contenuto del contratto: ciò che è invece (tenden- zialmente) escluso in quei contesti (o in quelle epoche) nei quali si ritenga di (poter) assicurare la « giustizia contrattuale » esclusivamente attraverso in- terventi di tipo “procedurale”.
Con l’avvertenza che il discrimen non è assoluto, e segnala semmai la
coesistenza di diverse “tecniche” di intervento, sì che quel che è possibile
5.1. Prima di passare ad esaminare questi “altri stru- menti” — volti a garantire la « giustizia contrattuale » al di là della tutela assicurata nell’ambito di una considerazione mera- mente “procedurale” (21) —, è opportuno osservare come le diverse tecniche che possono ascriversi ad una logica di tutela
c.d. “procedurale” della « giustizia contrattuale » (dai vizi del consenso, alla norma sulla incapacità naturale, alla rescissione del contratto), abbiano — anche considerate nella conforma- zione che esse assumono nell’ambito del modello “tradizionale” di disciplina del contratto — un’ampiezza ed una incisività tutt’altro che da sottovalutare.
Basti qui richiamare il famoso 2° comma del § 138 BGB,
identificare non è tanto un’evoluzione lineare (in virtù della quale si passi, nel tempo, da un sistema di giustizia contrattuale “meramente procedurale” ad un sistema che preveda invece un diretto intervento del legislatore o del giudice sul contenuto del regolamento contrattuale), bensì contesti ordina- mentali nei quali concorrono tecniche di tutela diverse, onde si possa sempli- cemente discorre della prevalenza dell’una o dell’altra di esse. E così, ad es., il sistema del codice civile — pur essendo prevalentemente ispirato ad interventi di « giustizia procedurale » (nel significato che abbiamo già chiarito) — conosce anche interventi diretti sul contenuto del contratto: si pensi, ad es., alla disciplina delle clausole convenzionali di esonero da responsabilità (art. 1229 c.c.), o a quella dei divieti convenzionali di alienazione (art. 1379 c.c.), per non parlare delle disposizioni “imperative” (non numerosissime, ma neanche tanto esigue per numero) che sono disseminate nella disciplina dei vari “tipi contrattuali” (si pensi ad es. alle norme che pongono limiti alla possibilità di escludere, in tutto o in parte, la “garanzia” dovuta dal venditore; ma le esemplificazioni potrebbero agevolmente moltiplicarsi).
(21) Come si sarà già intuito (e come chiariremo, comunque, meglio più avanti) il superamento dell’approccio di tipo (prevalentemente) “proce- durale” alla tutela della « giustizia contrattuale » si ha con l’adozione — in forme quantitativamente (e qualitativamente) significative — di tecniche di controllo e sindacato “diretti” del contenuto contrattuale. Vedremo, altresì, come questo mutamento di “paradigma” si leghi soprattutto (anche se non esclusivamente) al fenomeno della “contrattazione di massa”, che fa del contratto uno degli strumenti per perseguire l’efficienza dei mercati. Anche, peraltro, al di fuori della “contrattazione di massa”, l’incidenza (in un senso diverso) che talora il contratto ha sulla conformazione del mercato (nel senso
— questa volta — di frantumare il mercato in tanti “segmenti” autonomi, richiudendo la controparte contrattuale all’interno di uno di tali segmenti, e privandolo di ragionevoli alternative, e dunque creando una situazione di “dipendenza economica”: v. il fenomeno della c.d. subfornitura), giustifica anch’essa un intervento sul contenuto del contratto che rimedi alla “ingiusti- zia” che questa situazione può determinare per il contraente “debole”.
che — sotto la rubrica “Negozio contrario al buon costume. Usura” — dispone che « È nullo [in particolare] un negozio giuridico attraverso il quale un soggetto, approfittando dello stato di necessità (Zwangslage), dell’inesperienza (Unerfahren- heit), della mancanza di capacità di discernimento (Mangel an Urteilsvermögen) ovvero della rilevante debolezza del volere (erhebliche Willensschwäche) di un altro soggetto, faccia pro- mettere o concedere a sé o ad un terzo in cambio di una prestazione, vantaggi patrimoniali palesemente sproporzionati rispetto alla prestazione (Vermögensvorteile ..., die in einem auffälligen Miβverhältnis zu der Leistung stehen) ». Come emerge dal testo normativo riportato, le situazioni di “debo- lezza” (in senso lato) prese in considerazione dal legislatore tedesco del 1900 per dare rilievo allo “squilibrio” contrattuale, vanno alquanto al di là di quelle prese in considerazione dal legislatore italiano (del 1942) attraverso la disciplina dell’inca- pacità naturale, dei vizi del consenso e della rescissione (si consideri soprattutto il richiamo a concetti ampi come “inespe- rienza”, o “rilevante debolezza del volere”).
Si avvicina all’ampiezza della disposizione del BGB (e anzi, per certi versi, la sopravanza) la previsione contenuta nell’art. II-7:207 del DCFR (22), che — sotto la rubrica “Iniquo sfrutta- mento” (Unfair Exploitation) stabilisce che:
(1) Una parte può annullare il contratto se al tempo della sua conclusione:
(a) la parte si trovava in uno stato di dipendenza o aveva un rapporto di fiducia con l’altra parte, versava in condizioni di difficoltà economica o aveva urgenti necessità, era affetta da prodigalità, ignorante, inesperta e priva di abilità nella contrat- tazione e
(b) l’altra parte era o poteva ragionevolmente ritenersi essere a conoscenza di ciò e, date le circostanze e lo scopo del contratto, ha approfittato della situazione della controparte,
(22) La disposizione — collocata nel Libro II (Xxxxxxxxx e altri atti giuridici), cap. 7 (Cause di invalidità), sez. 2 (Vizi del consenso o della volontà), art. 07 del DCFR — costituisce una diretta derivazione dell’art. 4:109 dei Principles of European Contract Law (PECL), elaborati dalla Commissione Lando.
ottenendo un beneficio eccessivo o un vantaggio notevolmente ingiusto.
(2) Su domanda della parte che ha diritto all’annulla- mento, il giudice può, se opportuno, modificare il contratto in modo conforme a quanto le parti avrebbero convenuto nel rispetto della buona fede e della correttezza.
(3) Il giudice può parimenti modificare il contratto su domanda della parte che abbia ricevuto comunicazione dell’an- nullamento, a condizione che detta parte informi la parte che ha effettuato la comunicazione senza ingiustificato ritardo dopo la ricezione della stessa e prima che tale parte abbia agito facendo affidamento su di essa.
Anche per questa disposizione (23) bisogna constatare che (essa) va ben al di là della tutela attualmente prevista nel nostro ordinamento; sebbene debba aggiungersi: non molto al di là — a ben vedere —, sia perché alcuni concetti sono forse “inediti” (per il diritto italiano) più sul piano “lessicale” che su quello sostanziale (24), e sia soprattutto perché anche da noi alcune interpretazioni dottrinali e (in parte) giurisprudenziali, hanno nel tempo notevolmente ampliato (se pure non sempre in ma- niera del tutto persuasiva) la tutela accordata dalla disciplina
(23) Per un accurato commento all’art. II-7:207 DCFR si rinvia a U. Perfetti, La giustizia contrattuale nel Draft Common Frame of Reference del diritto privato europeo, Riv. dir. civ., 2009, 669 s.
(24) Come dimostra (ad es.) il fatto che la previsione in via generale — tra le “cause” che possono stare alla base dell’accettazione di un regolamento “iniquo” — dello “stato di dipendenza” o di “fiducia” utilizza concetti che, a ben vedere, possono trovare riscontro — almeno in parte — nel (nostro) tradizionale metus reverentialis; oppure il fatto che nozioni come “inespe- rienza” o “mancanza di abilità nella contrattazione” possono, a loro volta, evocare problemi che (anche qui, almeno in parte) vengono già tematizzati attraverso la figura del c.d. dolus bonus; o, ancora, il fatto che la (situazione di) “difficoltà economica”, di cui parla la disposizione del DCFR, è espressiva pur essa di un concetto non ignoto al nostro ordinamento, che lo richiama ad es. nel 3° comma dell’art. 644 c.p. (laddove — fornendo la nozione della c.d. “usura in concreto” — la norma dispone che “sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite [id est: al tasso-soglia], e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria”).
degli artt. 428, 1427 ss., e 1447-48 cod. civ. (dando ad esse un’ampiezza non lontanissima da quella riscontrabile nel § 138 BGB o nell’art. II-7:207 DCFR) (25).
Ma — a prescindere da questa considerazione — quel che si intende soprattutto sottolineare è che la disposizione del DCFR che stiamo considerando non sembra — comunque — muo- versi su coordinate concettuali molto lontane da quelle che caratterizzano la tradizionale impostazione dei codici “libe- rali” (26), comunque aperti ad attribuire rilevanza a “squilibri”
(25) È noto, ad es., che in particolare un autore (X. Xxxxx, in X. Xxxxx-G. De Nova, Il contratto, I, Trattato di diritto civile dir. da X. Xxxxx (Torino 1993), 428 ss.) ha propugnato una lettura del sistema codicistico italiano diretta — attraverso il ricorso all’art. 1337 c.c. — non soltanto a dilatare al massimo l’ambito applicativo dei vizi del consenso “tipici” (in particolare del dolo), ma altresì a sostenere la possibilità di applicazione analogica della normativa sui vizi della volontà a fattispecie non previste dal legislatore, e, più in generale, la possibilità di “integrare” il sistema legale dell’annullabilità con nuove figure di “vizi del consenso”, tradizionalmente ritenute estranee all’area dell’annullabilità del contratto come delineata dalle norme del codice (errore sul valore, quando l’altra parte — consapevole — ne approfitti; dolo omissivo; soggezione a forme di propaganda subliminale che indeboliscano la capacità di “dare il meglio di sé nell’attività negoziale”; contratto concluso approfittando della “sorpresa”; etc. etc.) (cfr. X. Xxxxx, Considerazioni conclusive, La vendita “porta a porta” di valori mobiliari, a cura di X. Xxxxxxx e F.D. Busnelli (Milano 1992), 177 s., specie 181-82).
E se è vero che questa posizione “estrema” (nella sua pretesa di allargare le maglie della annullabilità del contratto) non ha avuto seguito (sebbene la via “carsica” dell’invalidità abbia, talora, trovato un percorso diverso, riaffio- rando sub specie di una nullità — sia pure di protezione — che, secondo alcuni altri autori, si potrebbe fare discendere dalla violazione del precetto di buona fede), è anche vero che un successo indubbiamente maggiore ha avuto la tesi volta ad assicurare, nelle fattispecie sopra indicate (e in altre ancora, carat- terizzate dalla violazione della buona fede in contrahendo di cui all’art. 1337 c.c.) quanto meno una tutela di tipo risarcitorio (dottrina dei c.d. “vizi incompleti del contratto”, che la giurisprudenza — anche di Cassazione — ha, a propria volta, teorizzato sotto la formula della responsabilità precontrat- tuale da “contratto valido ma sconveniente”).
A parte queste (nuove) ricostruzioni generali, documenta l’evoluzione inter- pretativa (in senso estensivo) che hanno avuto nel tempo le disposizioni codici- stiche richiamate nel testo, Perfetti, op. lc. cit., (il quale compie l’utile esercizio di mostrare cosa realmente può considerarsi nuovo, e cosa no — rispetto alla situa- zione del diritto italiano — in una norma come l’art. II-7:207 DCFR).
(26) Non riteniamo, pertanto, di condividere del tutto la posizione di chi vede nell’art. II-7:207 DCFR l’emersione di un modello di contratto
(purché di una certa entità) derivanti da occasionali condizioni o situazioni che impediscano ad un contraente di esercitare appieno la propria “capacità” di attività negoziale (27). E, se una differenza si vuol sottolineare, essa dovrebbe piuttosto essere individuata nel fatto che si ammette adesso (in misura — questa volta, sì — assai più ampia che in passato) una possibi- lità di modifica del contenuto del contratto (in particolare attraverso l’intervento giudiziale), che era sconosciuta al mo- dello tradizionale di disciplina del contratto (28).
(definito “liberal-egualitarista”) nuovo, che si incentrerebbe su un’idea di “eguaglianza sostanziale” (tra i contraenti) (così Xxxxxxxxxx, Il contratto “democratico” cit., 1262 s., spec. 1284, sulla cui impostazione torneremo più ampiamente fra poco).
Ci sembra, invece, che — per le ragioni indicate nel testo — la disposi- zione in esame si muova nel solco di una tradizione risalente, sebbene lo faccia (come già abbiamo rilevato nel testo) dimostrando una maggiore fiducia nell’intervento giudiziale sul contenuto del contratto, in funzione di un “rimodellamento” che mantenga in vita l’atto, eliminandone tuttavia il con- tenuto squilibrato. Questa “maggiore fiducia”, peraltro, non ci sembra tanto da ricollegare al paradigma (di cui discorre questa dottrina) del c.d. “con- tratto democratico” (ossia del contratto “giusto”, quale scaturirebbe da un “dialogo” tra legislatore e interprete), quanto piuttosto — e, forse, più banal- mente — dall’opportunità di non prevedere rimedi “rigidi” (come era — per es. — la nullità assoluta, prevista dal § 138 BGB), ma di affidarsi ad una valutazione che — una volta accolta (dal legislatore) l’idea di consentire all’interessato di mantenere in vita il contratto (secondo il modello di una invalidità relativa) — individui in maniera flessibile (e, dunque, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto) le modalità attraverso le quali ricondurre ad equità il contratto squilibrato.
(27) Indubbiamente, la disposizione del DCFR (che — allo stato — è peraltro espressione soltanto di una “proposta dottrinale”) innoverebbe, ove entrasse a far parte del diritto europeo vincolante, la situazione del diritto italiano, almeno sotto due profili: l’abbandono del rigido limite della lesione ultra dimidium (prevista dalla attuale norma dell’art. 1448 c.c., in materia di contratto concluso in stato di bisogno), e, soprattutto, l’attribuzione al giu- dice, di un generale potere di “modificare” il contratto su domanda della parte avente diritto all’annullamento (mentre — secondo il nostro attuale art. 1450
c.c. — è solo la parte contro cui è chiesta la rescissione a poter formulare, se vuole, una offerta di riconduzione ad equità, rispetto alla quale soltanto si esercita il controllo giudiziale di “sufficienza”/adeguatezza).
Assai meno marcate sono, invece, le differenze rispetto al § 138, capov.,
BGB, sopra ricordato.
(28) V. quanto abbiamo già osservato nella penultima nota.
6. Il (vero) mutamento di “paradigma” nel modo di affron- tare il tema della « giustizia contrattuale » è intervenuto quando esso — da problema che, in una disciplina contrattuale calibrata sul modello del “contratto individuale”, si pone(va) solo nei termini di un’esigenza di rimediare ad occasionali “deviazioni” dal normale modo di svolgimento delle contratta- zioni (vizi del consenso, stato di bisogno, stato di pericolo) — ha cominciato ad essere percepito invece come un problema generale, almeno per i contratti che risultano conclusi in deter- minati mercati (i c.d. “mercati finali”).
Commento — Come si sarà già compreso, il mutamento di “paradigma” a cui alludiamo è quello che si è realizzato (soprat- tutto) con l’introduzione della normativa (in gran parte di fonte europea) sui “contratti dei consumatori”. Xxxxxxx spiegare bre- vemente in che senso è corretto parlare di un “mutamento di paradigma” e, in secondo luogo, quali sono le cause che lo hanno determinato (i due profili sono, del resto, evidentemente connessi).
Il mutamento di paradigma risiede nell’abbandono dell’idea che il “contratto” costituisca — salvo anomalie dipendenti da situazioni occasionali — un meccanismo idoneo di per sé a raggiungere composizioni “equilibrate” degli interessi di en- trambi i contraenti. La percezione della inidoneità (o della insufficienza) del contratto — pur quando concluso in assenza di anomalie individuali (vizi del consenso, stati occasionali di bisogno o di pericolo, in cui il contraente si venga a trovare, etc.) — a garantire sempre (o, comunque, in un numero rile- vante di casi) la formazione di regolamenti “equi”, si è fatta strada man mano che è maturata la consapevolezza dell’esi- stenza di molteplici fattori (non occasionali, ma strutturali, e perciò non legati alla singola contrattazione) che impediscono il funzionamento corretto del mercato, e con esso la possibilità che le scelte negoziali siano effettivamente razionali (e, dunque, tali da massimizzare l’utilità del contraente, che le pone in essere) (29).
(29) Come ha scritto Xxxxx, Giustizia contrattuale cit., 535: « ... l’otti- mismo ispirato dalla visione liberista è stato duramente contestato. Il con- tratto viene concluso in un quadro economico dominato da cento strettoie: a
Ma è soprattutto il passaggio da una contrattazione di tipo “individuale” ad una contrattazione “standardizzata” e “di massa” (nell’ambito della quale i “vecchi” strumenti del controllo “procedurale” diventano in larga misura inservienti, perché viene meno — il più delle volte — il presupposto stesso della loro applicabilità (30)) a determinare la necessità di “aggiornare” lo strumentario a difesa della “giustizia contrattuale”.
6.1. La mancanza di una strutturazione effettivamente concorrenziale dei mercati (o di molti di essi) e il fenomeno della contrattazione standardizzata (con la connessa predispo- sizione unilaterale dei regolamenti contrattuali, e la comparsa di quella che è stata chiamata “contrattazione diseguale”), pon- gono in primo piano un problema nuovo: quello dell’abuso della libertà contrattuale.
La figura dell’abuso, invero — come ha osservato Xxxxxxxx
— sembrava estranea al mondo del contratto (quale esercizio di libertà da parte di due soggetti, posti — almeno formalmente — su un piano di parità, e che, accettando liberamente e consa- pevolmente un certo regolamento di interessi, implicitamente escludono che esso sia espressione di “abuso”: volenti non fit iniuria), e idonea piuttosto a costituire qualificazione di con- dotte unilaterali di esercizio dei diritti soggettivi (assoluti o
parte le norme legali che incidono sui prezzi, la volontà di produttori mono- polisti o oligopolisti, i cartelli, le pratiche restrittive falsano il mercato ed obbligano il consumatore indifeso a strapagare i beni e i servizi di cui ha bisogno. Il produttore trova comodo limitare l’afflusso di beni sul mercato per mantenere alta la domanda e scarsa l’offerta e produrre lievitazioni artificiose dei prezzi. Il contraente professionale dispone dei mezzi occorrenti per abusare del consumatore non professionale... ».
(30) Difficile — ad es. — immaginare che ad un contratto standardiz- zato si applichi la disciplina della rescissione per lesione, o del dolo o della violenza: semmai verranno in rilievo comportamenti qualificabili in termini di “pratiche commerciali scorrette”, “pubblicità ingannevole”, abusi di posi- zione dominante, contrattazione “a valle” di intese anticoncorrenziali, etc. etc.
Sul mutamento di paradigma imposto dal passaggio dal modello della contrattazione “individuale” a quello della contrattazione “di massa”, per più ampie considerazioni, sia consentito il rinvio a X. X’Xxxxx, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto (Napoli 1996), passim (dove anche i doverosi riferimenti alla letteratura in argomento).
potestativi), nei riflessi che questo esercizio può avere nella sfera giuridica di altri soggetti.
Il contratto fondato sulla predisposizione unilaterale del regolamento negoziale da parte dell’impresa ha posto invece, anche nell’area del contratto, il problema dell’abuso, e lo ha posto in primo luogo (anzi: essenzialmente) con riferimento all’esercizio della libertà di derogare al diritto dispositivo (31). Questa deroga (che — in sostanza — si risolve, il più delle volte, nel distacco dall’equilibrata composizione degli interessi, sottesa al diritto dispositivo, e alle soluzioni che esso fornisce ai pro- blemi che pongono i singoli tipi di rapporti contrattuali) — per il paradigma tradizionale era del tutto ammissibile (anzi, im- manente al riconoscimento dell’autonomia privata, e conse- guenza della natura stessa — in ipotesi non cogente — delle norme legali oggetto di deroga), sul presupposto (o — se si vuole — nella presunzione) che, se le parti hanno concordato lo scostamento dal diritto dispositivo, vuol dire che esistevano (nel caso concreto) motivi condivisi per ritenere preferibile per il proprio rapporto una regolamentazione diversa (su uno o più punti) rispetto a quella ipotizzata dal modello legale.
Il presupposto (o la presunzione) in questione è destinata però a cadere nel momento in cui il regolamento contrattuale diventa espressione dell’esercizio della libertà contrattuale di uno solo dei contraenti (il quale può — evidentemente — abu- sare di tale libertà, disegnando un regolamento contrattuale vantaggioso per sé, e svantaggioso per l’altro contraente). E — una volta venuta meno la “garanzia” (di “giustizia”), che prima era insita nel carattere consensuale della deroga — è diventato necessario abbandonare la logica sottesa al perseguimento della
« giustizia contrattuale » attraverso regole meramente “proce- durali”, e sottoporre direttamente a controllo il contenuto del regolamento negoziale, per verificare che l’unilaterale predispo-
(31) Per la spiegazione, del problema delle “clausole vessatorie” nei contratti standardizzati nei termini di un problema di controllo della deroga unilaterale al diritto dispositivo, sia consentito il rinvio a G. D’Amico, L’abuso di autonomia negoziale nei contratti dei consumatori, Riv. dir. civ., 2005, 625 s., spec. 646 s. (e già prima v. Id., Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto cit., passim).
sizione di esso non nasconda, in questa o quella clausola, un “abuso” da parte del predisponente.
7. La contrattazione “di massa” (costituente il punto di riferimento del nuovo “paradigma” sulla base del quale affron- tare il problema della « giustizia contrattuale ») segnala un’ine- dita capacità del contratto di incidere sul funzionamento del mercato, sicché l’intervento dell’ordinamento sul contenuto del contratto — intervento divenuto adesso necessario per garan- tire l’equilibrio nel contratto (seriale) — diventa anche un intervento volto a favorire l’efficienza del mercato.
Nel modello presupposto dalla disciplina (e dalla dottrina) tradizionale del contratto — un modello basato, come già si è ricordato, sullo schema di una “contrattazione individuale” — il contratto non ha idoneità ad incidere sulla strutturazione del mercato. È, semmai, la conformazione del mercato a condizio- nare lo svolgimento delle singole contrattazioni (32).
Questa situazione muta con l’apparizione sulla scena del “contratto di massa” (o seriale), basato sulla predisposizione (unilaterale) di condizioni generali di contratto destinate ad applicarsi ad una pluralità indeterminata di rapporti contrat- tuali. Se, infatti, un imprenditore inserisce nei regolamenti contrattuali, che egli predispone ed utilizza per instaurare rapporti con i propri clienti, clausole idonee a procurargli significativi “vantaggi” nei confronti delle controparti contrat- tuali (e — a volte — si tratta di decine o centinaia di migliaia di consumatori o utenti di un certo prodotto o servizio !), egli non soltanto “abusa” della propria libertà “contrattuale” nel rap- porto individuale con l’altra parte, ma col suo comportamento incide anche sul funzionamento del mercato, perché — soppor- tando minori “costi” (e potendo, di conseguenza, praticare prezzi più bassi) — acquisisce un “vantaggio competitivo” (ri- spetto ai concorrenti) che non dipende dalla maggiore effi-
(32) Anche senza ricorrere al classico esempio del mercato “oligopoli- stico” (per non parlare di quello “monopolistico), è sufficiente ricordare come la dottrina economica abbia da tempo segnalato le “distorsioni” che possono determinarsi già per il semplice fatto che il mercato assuma (come sovente accade) la forma della c.d. “concorrenza imperfetta”.
cienza e “produttività” della sua organizzazione produttiva e/o commerciale.
L’intervento dell’ordinamento sul contenuto del contratto
— consentendo di espungere da esso le clausole “abusive” — diventa così un mezzo per assicurare bensì, anzitutto, la « giu- stizia contrattuale » (ossia per garantire l’equilibrio — o, per lo meno, per impedire un eccessivo “squilibrio” — dei diritti e degli obblighi che il regolamento contrattuale attribuisce ai contraenti), ma, al contempo, per promuovere anche un mi- glior funzionamento del mercato (favorendo la selezione degli operatori più corretti ed efficienti) (33).
Quest’ultima finalità non dovrebbe, tuttavia — a nostro avviso — essere elevata a ratio esclusiva della disciplina sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori (34), ma, so-
(33) In questa prospettiva, oltre alle azioni “individuali”, assume un rilievo preminente (per il suo carattere preventivo, e per il rimedio che la accompagna in caso di accoglimento, ossia l’inibitoria) soprattutto l’azione “collettiva” che può essere svolta dalle “associazioni dei consumatori” (v. artt. 139 s. del codice del consumo).
In tal caso, l’intervento sul contenuto del contratto è indiretto, e destinato ad operare per il futuro, ma — al contempo — costituisce lo strumento più efficace, in quanto attribuisce carattere “generale” (almeno rispetto all’im- prenditore convenuto in giudizio) alla eliminazione delle clausole abusive.
(34) Come fa Xxxxxxxxxx, Il contratto “democratico” e la giustizia con- trattuale cit., la quale non esita a denominare la “giustizia” sottesa alla disciplina delle clausole abusive (nei contratti dei consumatori) come “giu- stizia mercantile” (riprendendo un’espressione utilizzata anche da F. De- nozza, Fallimenti del mercato: i limiti della giustizia mercantile e la vuota nozione di “parte debole”, Orizz. d. comm., 2013, 1 s.), e alla stregua di ciò ritiene che la normativa in esame possa essere applicata ad ipotesi di altre “debolezze” contrattuali, non considerate dal legislatore, solo se si tratti di debolezze suscettibili di evidenziare il rischio di un fallimento del mercato, ossia sulla base di “asimmetrie”, che si potrebbero definire come di rilievo “macroeconomico” (e così, ad es., secondo la dottrina in esame, sarebbe possibile « sostenere un ampliamento anche alle imprese del controllo nor- mativo sul contratto in presenza della mancanza di potere di negoziazione associata alla predisposizione di condizioni generali di contratto »: ivi, 1276- 1277).
In realtà, se da un lato non si può condividere (per le ragioni che indichiamo nel testo) la premessa di questo ragionamento, dall’altro deve dirsi che non convincono comunque nemmeno le conclusioni che la N. ne trae, e che sarebbero discutibili anche se fosse esatta la premessa. Il problema dell’estensione analogica (in particolare alle imprese) della disciplina dei
xxxxxxxxx, non dovrebbe indurre a mettere in secondo piano l’elemento centrale di questa normativa, ossia l’obiettivo che essa persegue di regolamenti negoziali “equilibrati” (o, quanto meno, non accentuatamente squilibrati).
8. L’insufficienza di regole meramente “procedurali” — e la necessità, pertanto, di intervenire attraverso un controllo contenutistico — per garantire la « giustizia » del contratto può derivare anche (e il fenomeno si presenta, soprattutto, in alcuni tipi di relazioni contrattuali tra imprese, o tra professionisti in genere) dalla circostanza che manchi un mercato (o, se si preferisce, che manchino alternative di mercato con riferi- mento all’offerta di determinate prestazioni), sicché il con- traente è (o diventa) “prigioniero” della controparte contrat- tuale, la quale dunque si viene a trovare nella situazione di poter imporre condizioni “ingiuste”, ossia tali da comportare “un eccessivo squilibrio nei diritti e negli obblighi delle parti”.
contratti dei consumatori è assai complesso, ma registra comunque un punto fermo nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea: punto fermo che è costituito dalla “invalicabilità” (per lo meno ad opera dell’interprete; altro sarebbe se l’estensione venisse disposta dal legislatore, come sostanzialmente è avvenuto — a favore dei professionisti intellettuali, e in particolare degli avvocati, con gli interventi normativi di cui parleremo infra, nel § 8.1, peraltro prendendo come modello la disciplina dell’abuso di dipendenza economica, piuttosto che quella dei contratti del consumatore) della nozione di “consumatore”, che non è individuato in questa normativa come un soggetto genericamente debole (dal punto di vista del “potere con- trattuale”), ma piuttosto come portatore di una specifica debolezza (che emerge — indipendentemente dalla qualità soggettiva del contraente — con riferimento ad “atti di consumo”, ossia ad atti estranei ad una attività impren- ditoriale o professionale), che è la vera ratio della disciplina in esame.
In questo senso, la normativa sui contratti dei consumatori esibisce una “specialità”, che — se pur non consente di parlarne in termini di “ecceziona- lità” — delimita comunque l’ambito (soggettivo) entro il quale il legislatore ritiene operabile (con la portata generale che è propria del controllo di vessatorietà nella disciplina in esame) un controllo sul contenuto del contratto (controllo che — non bisogna dimenticarlo — rappresenta una vistosa deroga rispetto al principio di autonomia contrattuale). Si aggiunga che — se vera- mente il controllo di vessatorietà di cui parliamo (ossia il controllo contenu- tistico) fosse estensibile anche al contraente-imprenditore, non si capirebbe (o si capirebbe poco) il mantenimento in vita della disciplina di cui all’art. 1341 c.c. (che, allora, sarebbe destinata al ruolo di una tutela veramente residuale e del tutto marginale, se non addirittura superflua).
Commento — Spesso è il contratto stesso (per ragioni con- nesse soprattutto al suo “oggetto”) a creare le condizioni perché non possa operare il “mercato”, o — come forse meglio si potrebbe dire — a “frammentare” il mercato in tanti segmenti autonomi (e non comunicanti, se non in minima parte), che finiscono per coincidere ognuno con la relazione instaurata da un corrispondente contratto.
Il problema è emerso allorché si sono prese in considera- zione le “anomalie” che si determinano in situazioni di c.d. “dominanza relativa”, con tale termine intendendo far riferi- mento alla posizione di forza in cui venga a trovarsi un’impresa a seguito dell’instaurazione di una relazione contrattuale, in occasione della quale la controparte abbia effettuato « investi- menti specifici » (o, come anche si dice, “dedicati”).
Secondo un notissimo “modello”, che discute e analizza dal punto di vista economico questo problema (35), la possibilità del comportamento abusivo (o, se si preferisce, “opportuni- stico”) non preesiste (almeno, non necessariamente) all’instau- razione della relazione commerciale tra le parti, che può in ipotesi immaginarsi avvenuta in un ambiente “concorrenziale” e (avvenuta in maniera tale da) non prospettare (in origine) uno squilibrio economico nella regolamentazione del rapporto pro- grammata dalle parti (36). La possibilità dell’abuso (37) sorge
(35) Il riferimento è al saggio di X. Xxxxx, R.A. Xxxxxxxx, X.X. Alchian, Vertical Integration, Appropriable Rents, and the Competitive Contracting Pro- cess, 89, Journal of political Economy, 1978.
(36) Ipotizzando una situazione di partenza concorrenziale, non v’è ragione di supporre che l’impresa (che solo in seguito diventerà « dipendente economicamente » dalla controparte) non abbia optato per l’offerta econo- micamente più vantaggiosa. Riprendendo il noto esempio di Xxxxxxx- Xxxxxxxx-Xxxxx, si può supporre che l’imprenditore A che intenda acquistare una macchina tipografica, e che si trovi di fronte all’alternativa di offrire i propri servizi all’editore B (che ha bisogno di pubblicare un giornale quoti- diano) ovvero all’editore C (che chiede, invece, di pubblicare una rivista mensile), sceglierà il contraente che gli offrirà il corrispettivo più elevato (in ipotesi B), effettuando poi il relativo « investimento specifico » (l’acquisto della macchina tipografica adatta alla stampa del quotidiano edito da B).
(37) Sotto forma di « hold up monopolistico », secondo la terminologia preferita da X. Xxxxxxxxx (I contratti di distribuzione (Bari 1979), 322), mentre altri preferisce parlare di « estorsione post-contrattuale » (v. X. Xxxxxx, L’abuso di dipendenza economica (Napoli 2004), 66).
invece nella fase successiva all’instaurazione della relazione contrattuale (38), e si concretizza nel “ricatto” attraverso il quale — approfittando della situazione di « dipendenza econo- mica » in cui si trova (adesso) il contraente che abbia effettuato
« investimenti specifici » e che non disponga (più) di reali e soddisfacenti alternative di mercato (39) — l’impresa domi- nante cercherà di “appropriarsi” di una parte dell’utile che doveva remunerare (in base alle previsioni contrattuali) l’atti- vità (e il rischio con essa assunto) dell’altro contraente (40). Tutto ciò è riassunto nella definizione che si legge nell’art. 9 della l. 18-6-1998 n. 192, che reprime l’abuso di “dipendenza economica”, identificando quest’ultima nozione come la « si-
(38) È in questa fase che l’imprenditore B dell’esempio precedente (v. la penultima nota) cercherà di appropriarsi della « quasi rendita » (la appropria- ble quasi rent del saggio di Alchian-Xxxxxxxx e Klein), costituita dalla diffe- renza tra il corrispettivo pattuito (in contratto) con A e il corrispettivo (alternativo) che A potrebbe conseguire sul mercato, mettendo in conto, peraltro, di depurarlo del costo aggiuntivo (che all’inizio non c’era) rappre- sentato dalla necessità di « riconversione » dell’investimento “specifico” (la macchina tipografica) nel frattempo effettuato.
Per tal via le possibilità di contratti “alternativi” (con l’imprenditore C, o con altri ipotetici imprenditori D, E, F ecc., interessati a procurarsi servizi tipografici) che in precedenza esistevano (e che garantivano una “offerta” all’inizio concorrenziale) potrebbero risultare, a questo punto, assai più esigue che in partenza, o, addirittura, del tutto svanite (è la situazione cui allude l’art. 9 della l. 192/1998, evocandola con la formula della « reale possibilità per la parte che abbia subìto l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfa- centi »).
E così, la situazione (inizialmente) concorrenziale (e paritaria nel rap- porto tra le parti), prima dell’instaurazione della relazione contrattuale, risulta trasformata in una situazione di « monopolio », ponendo le premesse del possibile “abuso” da parte del contraente che ha acquisito in tal modo la posizione di « dominanza » sulla controparte.
(39) V. anche la nota precedente.
(40) I comportamenti “opportunistici” dell’impresa “forte” potranno assumere la forma più varia: si andrà dalla richiesta di “rinegoziazione” del contratto prevedendo condizioni (economiche o “normative”) più sfavorevoli per l’impresa “dominata”; a comportamenti “arbitrari” e/o scorretti nella gestione delle “commesse” (se l’impresa dominata ha il ruolo di “fornitrice”) o delle “forniture” (se l’impresa dominata ha il ruolo di “cliente”); sino ad arrivare alla minaccia (seguita o meno dalla attuazione del proposito minac- ciato) di esercitare il potere di “recesso dal rapporto” (in ipotesi, riconosciuto da clausole contrattuali) o la libertà (alla scadenza) di non rinnovare il rapporto medesimo.
tuazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squi- librio dei diritti e degli obblighi » (comma 1°), e disponendo la nullità del patto attraverso cui si realizzi tale abuso.
Come emerge da quanto detto, in situazioni come quelle or ora descritte, a garantire l’equilibrio (e, dunque, la “giustizia”) contrattuale non basta l’osservanza di regole meramente “pro- cedurali”, ma occorre intervenire (anche) sul contenuto del contratto, vietando direttamente (e sancendo la nullità di) quelle clausole contrattuali che siano espressione dello sfrutta- mento abusivo della posizione di “dominanza relativa” che un contraente abbia acquisito nei confronti dell’altro (quando que- st’ultimo — per le ragioni indicate — non abbia, o non abbia più, reali alternative di mercato) (41).
(41) Ravvisa nell’assenza di alternative di mercato il nucleo essenziale (ratio) della disciplina sull’abuso di dipendenza economica nella subforni- tura, Xxxxxxxxxx, Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale cit., 1276 ss., la quale ritiene che si possa basare su questo concetto la costruzione di una figura più generale di “debolezza” (appunto: la “debolezza consistente nella mancanza di alternative sul mercato”), e che questo concetto potrebbe essere valorizzato non soltanto con riguardo all’imprenditore, che venga a trovarsi in questa situazione pur al di fuori di una situazione di “dipendenza economica”, ma financo a favore del consumatore, giustificando un’estensione anche a lui del controllo sul contenuto economico del contratto, sul modello della disciplina della subfornitura.
La tesi è suggestiva, anche se risulta difficile immaginare — con riferi- mento ad un consumatore — una situazione di fatto che possa essere acco- stata (ai fini dell’analogia) a quella particolare causa, determinante la rarefa- zione (o, addirittura, il totale venir meno) di alternative di mercato (con conseguente instaurarsi di una dipendenza economica dalla controparte), che, nel caso dei rapporti di impresa, è costituita dall’effettuazione di “inve- stimenti specifici” (o “dedicati”, che dir si voglia). Questo non significa che non ci possano essere — anche con riferimento ad un consumatore — situazioni riconducibili ad una “assenza di alternative sul mercato”, come potrebbe accadere, ad es., nel caso di un soggetto che abbia bisogno con continuità di un farmaco prodotto e commercializzato da una sola ditta farmaceutica, la quale proprio per questo pratichi — per la fornitura del farmaco — condizioni particolarmente gravose. Ma si tratta di ipotesi nelle quali appare plausibile ritenere che le regole e i principi da applicare (anche ai fini dell’analogia) siano da ricercare in luoghi normativi diversi dalla disciplina della “dipendenza economica” (difficilmente immaginabile — si ripete — per un consumatore, che potrà semmai subire un abuso di posizione dominante).
8.1. La normativa sull’abuso di dipendenza economica, contenuta nell’art. 9 della legge sulla subfornitura, ha — di recente — costituito il modello di riferimento per disciplinare la situazione in qualche modo simile (sebbene non identica; e non solo dal punto di vista dei soggetti (42)), in cui possono venire a trovarsi lavoratori autonomi (e, in particolare, professionisti intellettuali) nei rapporti contrattuali con imprese (non pic- xxxx) e pubbliche amministrazioni, le quali — abusando della propria posizione di maggiore forza contrattuale — utilizzino
Già diversa — anche se nemmeno in questo caso identica (e v. la nota seguente) — è la situazione in cui può venire a trovarsi, in determinati rapporti contrattuali, il lavoratore autonomo.
(42) La posizione del lavoratore autonomo presenta, infatti, significa- tive differenze rispetto alla situazione dell’imprenditore che patisca una situazione di “dipendenza economica” nei confronti della controparte con- trattuale. In genere, infatti — pur potendosi verificare situazioni di c.d. “mono-committenza” (o, comunque, di svolgimento dell’attività professionale in favore di un numero limitato di clienti) — è difficile che si abbia un fenomeno di vera e propria mancanza di “alternative di mercato”, in caso di interruzione del rapporto professionale con il precedente committente (il che non toglie, peraltro, che il professionista possa patire — in casi del genere — pregiudizi economicamente rilevanti, e che questo comporti l’esigenza di tutelarlo rispetto a comportamenti scorretti o addirittura arbitrari della controparte, a protezione non solo del suo interesse individuale, ma anche della dignità della professione). Il (vero) “polo attrattivo” della disciplina in questione sembra essere costituito — piuttosto che dalla disciplina sull’abuso di dipendenza economica — dalla normativa sul “lavoro subordinato” (non a caso, le situazioni ipotizzate sono situazioni in cui il confine tra il professio- nista “lavoratore autonomo” e il professionista “dipendente”, è — a volte — molto tenue), a partire dalla esplicita estensione del principio contenuto nell’art. 36 cost. (disposizione che un’interpretazione ancora prevalente — soprattutto, ma non solo, in giurisprudenza — ritiene non riferibile al lavoro autonomo).
Quanto appena detto xxxxxxxx(va) l’esigenza — cui il legislatore ha dato seguito — di una normativa ad hoc, che altrimenti sarebbe potuta persino apparire superflua, specie se avessero potuto trovare accoglienza quelle opi- nioni che hanno affermato non solo l’applicabilità dell’art. 9 della l. 192/1998 a qualsiasi rapporto tra imprenditori (anche diverso dalla c.d. “subfornitura”) caratterizzato da una situazione di “dipendenza economica” (opinione che raccoglie, oggi, un consenso abbastanza diffuso — anche se non incontrastato
— tra gli interpreti), ma — addirittura — secondo una tesi più radicale — ad ogni tipo di relazione contrattuale (anche intercorrente con un soggetto che non sia un “imprenditore”) caratterizzata da una situazione di supremazia economica di una parte rispetto all’altra.
regolamenti negoziali unilateralmente predisposti, che conten- gono clausole “vessatorie” (come ad es. clausole che prevedono facoltà per il predisponente di modificare il contratto, o di recedere dallo stesso senza preavviso, ovvero stabiliscono ter- mini di pagamento superiori a sessanta giorni dal ricevimento di una fattura o di una richiesta di pagamento da parte del professionista), o comunque tengano altre condotte abusive (come ad es. il rifiutarsi di concludere il contratto in forma scritta (43).
(43) Cfr. artt. 1 e 3 l. 22-5-2017 n. 81, recante (fra l’altro) “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale”.
Per una prima illustrazione del contenuto della legge cfr. X. Xxxxxx, Lo “Statuto dei lavoratori autonomi”: dalla tendenza espansiva del diritto del lavoro subordinato al diritto dei lavori. Verso una ulteriore diversificazione delle tutele?, Nuove leggi civ.comm., 2018, 589 s.; nonché P. P. Xxxxxxx, Professioni intellettuali e abuso di dipendenza economica, Corr. giur., 2018, 217 ss., il quale ricorda (fra l’altro) che già dal 2006 l’Unione europea (si veda il “Libro verde sulla “Modernizzazione del diritto del lavoro” del 22 novembre 2006) aveva invitato gli Stati membri a prestare maggiore attenzione (anche) al lavoro autonomo “economicamente dipendente”.
Una normativa più specifica — avente come destinatari una particolare categoria di professionisti intellettuali, gli avvocati, che forniscano le proprie prestazioni in maniera continuativa (sulla base di “convenzioni” unilateral- mente predisposte da controparte) in favore di imprese bancarie e assicura- tive, nonché di imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese, come definite nella raccomandazione 2003/ 361CE della Commissione, del 6 maggio 2003 — è stata di recente introdotta attraverso l’inserimento nella l. 31-12-2012 n. 247 (Ordinamento forense) di un art. 13-bis (rubricato “Equo compenso e clausole vessatorie”), che prevede anzitutto il diritto del professionista al c.d. “equo compenso” (individuato come un compenso che sia « proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione legale, e conforme ai parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato ai sensi dell’articolo 13, comma 6 »), e sancisce (ai commi 4, 5 e 6) la vessatorietà di alcune clausole (come ad es.: clausole che prevedano la facoltà del cliente di modificare unilateralmente il contratto, oppure di rifiutare la stipulazione in forma scritta degli elementi essenziali del contratto, o di pretendere prestazioni aggiuntive; oppure clau- sole che impongano all’avvocato l’anticipazione delle spese della controversia, o la rinuncia al rimborso delle spese direttamente connesse alla prestazione dell’attività professionale oggetto della convenzione, oppure stabiliscano ter- mini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data di ricevimento da parte del cliente della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente, o, ancora, prevedano che, in ipotesi di liquidazione delle spese di
Anche in questo caso, dunque, si assiste ad un significativo intervento normativo sul contenuto del contratto, in conside- razione della rilevanza attribuita a specifiche situazioni di asim- metria di potere contrattuale (44).
9. Non è rinvenibile nel sistema un principio generale che consenta un controllo giudiziale generalizzato sul contenuto del contratto al fine di garantire la “giustizia” del regolamento nego- ziale. In particolare, tale principio non può essere individuato nella “buona fede”.
Commento — Le numerosissime disposizioni normative,
lite in favore del cliente, all’avvocato sia riconosciuto solo il minore importo previsto nella convenzione, anche nel caso in cui le spese liquidate siano state interamente o parzialmente corrisposte o recuperate dalla parte).
(44) Se si volesse seguire quella dottrina che propone di distinguere “asimmetrie di rilievo macroeconomico” e “asimmetrie di rilievo microeco- nomico” (Xxxxxxxxxx, Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale cit., spec. § 5, la quale identifica le asimmetrie del primo tipo in quelle che sono idonee a provocare “distorsioni di mercato”, onde la loro rimozione è funzio- nale ad assicurare una maggiore “efficienza” del mercato”, come avviene tipicamente nell’ipotesi dei contratti dei consumatori) si dovrebbe dire — forse — che le “asimmetrie” prese in considerazione dalla legge sulla subfor- nitura o (più recentemente) dalla legge sulla tutela di alcuni lavoratori autonomi debbano essere ascritte al novero delle “asimmetrie di rilievo microeconomico” (esse, infatti, sono asimmetrie che — come abbiamo visto
— nascono dal “contratto” più che dal “mercato”, e la loro rimozione persegue non tanto un obiettivo di efficienza quanto un obiettivo di giustizia della singola relazione contrattuale).
Sennonché, proprio gli esempi che stiamo considerando, dimostrano che la distinzione in esame — che pure ha un qualche fondamento — non riesca a fornire un criterio distintivo netto (come è dimostrato — a tacer d’altro — dalle discussioni che, all’epoca dell’emanazione della legge sulla subfornitura, si svolsero circa l’inserimento o meno di questa disciplina nell’ambito della normativa sulla concorrenza), neanche ai fini delle operazioni necessarie per una (eventuale) estensione analogica delle norme. Sicché si tratta di una distinzione alla quale può, al più, attribuirsi un (peraltro limitato) valore meramente descrittivo.
In generale, sul tema del “contratto asimmetrico”, cfr. la voce di A.M. Xxxxxxxxx, Contratto asimmetrico, Enc. dir., Xxxxxx X (Milano 2012), 370 s. Alquanto critico, nei confronti dell’ipotesi ricostruttiva che ruota attorno al concetto di “contratto asimmetrico” è X. Xxxxxxx, Il contratto senza numeri e aggettivi. Oltre il consumatore e l’impresa debole, Contr. impr., 2012, 1190.
che sono state considerate nei paragrafi che precedono (45) — sia quelle (più risalenti) volte a garantire la “giustizia” nel contratto (o del contratto) attraverso strumenti di tipo “proce- durale”, sia quelle (di più recente emersione) che perseguono lo stesso obiettivo attraverso interventi diretti sul contenuto con- trattuale (attribuendo, in particolare, al giudice poteri di valu- tazione dell’esistenza di eventuali abusi di un contraente ai danni dell’altro) — hanno un ambito di applicazione vastis- simo, che può essere (e, di fatto, viene) ulteriormente esteso continuamente attraverso l’opera dell’interprete, nei limiti in cui le previsioni in questione si prestino ad interpretazioni estensive o ad applicazioni analogiche.
Bisogna considerare — a quest’ultimo riguardo — che men- tre interpretazioni estensive (e applicazioni analogiche) sono — sia pure (solo) in senso relativo — più facilmente concepibili ed ammissibili con riferimento alle norme volte a garantire la “giustizia contrattuale” attraverso meccanismi di tipo “proce- durale” (46), posto che tali meccanismi sono espressione di principi e regole che attengono all’essenza stessa del contratto (si pensi alle norme sull’integrità del consenso), più difficile e complesso è immaginare di estendere analogicamente (appli- xxxxxxx a casi diversi da quelli espressamente considerati e disciplinati dal legislatore) normative che consentano controlli sul contenuto del contratto, controlli che sono bensì previsti ed
(45) Nonostante la rilevanza (anche quantitativa) delle ipotesi conside- rate, deve sottolinearsi (per quanto si tratti di un dato affatto evidente) che sono stati menzionati e presi in esame solo alcuni tra i moltissimi istituti e norme che possono venire in considerazione in un’analisi sulla « giustizia contrattuale »; analisi che, naturalmente, potrebbe ricevere (con riferimento al diritto legale) “esemplificazioni” assai più numerose, considerato che — come si è osservato proprio all’inizio di queste pagine (v. retro, § 1) — la
« giustizia contrattuale » può considerarsi un principio immanente in tutto il diritto contrattuale.
(46) Anche con riferimento a queste disposizioni, peraltro, non man- xxxx talora ostacoli abbastanza seri alla possibilità di una applicazione analogica (si pensi ad es. al “principio di tipicità” che si ritiene sussistente in materia di cause di annullabilità del contratto, e all’ostacolo che esso frap- pone alla ipotesi di ammettere un’annullabilità del contratto per vizi del consenso diversi da quelli “tipizzati” dal legislatore). Sul punto sia consentito il rinvio a D’Amico, Regole di validità e principio di correttezza nella formazione del contratto cit., 17 ss.
ammessi dal “sistema”, ma con carattere tendenzialmente cir- coscritto, in quanto essi derogano al(l’essenza del) principio di “autonomia contrattuale” (essenza che risiede proprio nella possibilità dei privati di regolare da sé i propri interessi, deter- minando liberamente il contenuto del contratto: art. 1322, co. 1, c.c., dove — è appena il caso di sottolinearlo — il “principio” è quello indicato nella prima parte, e i “limiti” menzionati nella seconda parte costituiscono appunto una “deroga” ad esso) (47).
9.1. Xxxxxxxxx, non si intende qui riproporre l’idea del carattere (necessariamente ed indistintamente) eccezionale delle disposizioni che pongono limiti all’autonomia contrat- tuale, e, dunque, (non si intende) negare ad esse qualsiasi capacità espansiva.
Ma nemmeno può accogliersi la tesi che il giudice sia
comunque e sempre autorizzato ad effettuare un bilanciamento
(47) Xxxxxx appena detto non vuole, in alcun modo, indulgere all’idea che l’autonomia contrattuale sia uno spazio di “sovranità” dei privati, dal quale l’ordinamento si debba ritrarre, rispettoso di un ambito di competenza al quale esso sarebbe estraneo (in base ad un malinteso canone/principio di laissez faire). Ciò non è mai accaduto, sebbene, in passato, possano talora essersi affermati orientamenti economici e politici, volti a giustificare (o addirittura a teorizzarne in termini prescrittivi la necessità) il carattere minimale dell’intervento sul contratto da parte dell’ordinamento giuridico.
Questo carattere minimale (connesso o meno che fosse all’ideologia del
c.d. laissez faire, fiduciosa circa le capacità “autoregolatorie” del mercato) non corrisponde ormai più — da tempo — alla realtà degli ordinamenti giuridici, essendosi fatta strada l’idea che l’esplicazione dell’autonomia privata (in materia di rapporti economici) necessiti di un quadro regolatorio, che è diventato sempre più articolato e complesso (e che comunque è ben lontano da quell’intervento “minimo”, di cui sopra si parlava), in considerazione della maggiore complessità che nel tempo ha acquistato l’articolazione dei mercati, la varietà dei beni e dei servizi che negli stessi vengono scambiati, dei soggetti che in essi operano, e così via.
Sulla concezione “ordo-liberale” — che è una delle principali “dottrine” che, nella seconda metà del secolo scorso, hanno teorizzato (pur nel quadro di una concezione di tipo “liberale”) la necessità di un intervento “regolatore” dell’ordinamento, per rimuovere gli ostacoli al corretto funzionamento dei mercati — ci siamo soffermati in D’Amico, “Giustizia contrattuale” nella prospettiva del civilista cit., spec. § 4 (a cui sia consentito rinviare, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici).
tra il principio di autonomia contrattuale ed un (preteso) “prin- cipio” contrapposto, che consenta — in nome della “giustizia contrattuale” — un intervento correttivo/modificativo del con- tenuto contrattuale.
Una simile opinione non sembra trovare fondamento nel diritto positivo, e difficilmente potrebbe trovare sostegno (al- meno se intesa nei termini appena riferiti) in principi costitu- zionali di portata generale (48), quali potrebbero essere — ad es. — il principio della funzione sociale della proprietà (di cui all’art. 42 cost.) (49) o il principio della “utilità sociale” quale criterio di valutazione dell’iniziativa economica privata (ex art. 41 cost.). Quanto al primo di tali principi, non bisogna dimen- ticare che la materia della proprietà privata è coperta da una riserva di legge (50), che risulterebbe violata se la “funzione sociale” della proprietà si considerasse idonea a legittimare interventi giudiziali volti a porre limiti al diritto dominicale ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge (ad es., inediti obblighi legali a contrarre imposti al proprietario). Quanto al secondo, è vero sì che il primo capoverso dell’art. 41 cost. non pone una riserva di legge, ma è anche vero che il divieto di esercitare l’iniziativa economica privata (concetto nel quale si
(48) Altro è che si faccia riferimento a norme costituzionali, riferite ad una specifica tipologia contrattuale, come ad es. l’art. 36 cost., che — con riguardo al contratto di lavoro (subordinato) — pone il principio della “retribuzione sufficiente”, e autorizza senz’altro (anche) il giudice a sindacare il contratto che preveda una retribuzione del lavoratore non conforme a tale criterio.
Naturalmente, anche al di là dell’art. 36, sono diverse le norme costitu- zionali che potrebbero essere invocate in alcuni tipi di contratti: si pensi all’incidenza che l’art. 2 cost., e la tutela che esso riconosce ai diritti inviolabili dell’uomo anche “nelle formazioni sociali” in cui si svolge la sua personalità, può avere in riferimento al contenuto di un contratto associativo, che sia in ipotesi “ingiustamente” lesivo di tali diritti; oppure si pensi all’incidenza che l’art. 47 cost. può avere in rapporti contrattuali dove venga in gioco il valore della “tutela del risparmio”; e così via.
(49) Il richiamo a tale principio si giustifica per il fatto che gli atti di autonomia negoziale sono — assai spesso — atti con i quali il proprietario di un bene dispone del proprio diritto.
(50) “Riserva di legge” che è contenuta anche nell’art. 44 cost. (altra disposizione che potrebbe, indirettamente, coinvolgere anche la materia contrattuale), che enuncia una serie di principi relativi alla proprietà terriera (privata).
ritiene ricompresa anche l’attività contrattuale dell’impresa) in maniera contrastante con l’utilità sociale o in maniera tale da “recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, trova ampio svolgimento nella normativa legale in materia di tutela dei consumatori e degli utenti (51), sicché — anche per la già segnalata difficoltà di ammettere estensioni analogiche di norme specifiche che prevedano interventi (giudiziali) modificativi/correttivi del contenuto contrattuale — rimane af- fatto problematica la possibilità di fondare sull’art. 41, 2° comma cost., un generale limite all’autonomia contrattuale (nei contratti di impresa), che il giudice possa fare valere in nome della « giustizia contrattuale » (52).
9.2. La tesi che afferma la possibilità di un controllo giudiziale generalizzato sugli atti di autonomia privata, sempre più spesso però — negli ultimi anni — appare sostenuta attra- verso il richiamo ad un (ancora più ampio e indeterminato) principio costituzionale — il principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 cost. — che si farebbe “veicolo” della “giustizia” nel contratto attraverso la clausola generale della buona fede, che governa sia la fase della formazione che quelle dell’interpreta- zione e dell’esecuzione del contratto (artt. 1337, 1366, 1375 c.c.).
Non è chiaro, tuttavia, in che senso il dovere generale di
(51) È una normativa, ovviamente, di ampiezza sterminata, e che non può conseguentemente essere richiamata, in questa sede, con una benché minima ambizione di completezza.
Per il carattere generale delle previsioni in esse contenute si confrontino, comunque, le diverse Parti di cui si compone il Codice del consumo (e v., in part., l’art. 2, che richiama — declinandoli sotto forma di “diritti” dei consu- matori — i valori della “sicurezza” dei prodotti e dei servizi, nonché della “correttezza, della trasparenza e dell’equità nei rapporti contrattuali”).
(52) Sull’art. 41 della Costituzione fecero leva — all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso (e dopo gli interventi che, nel decennio precedente, avevano riguardato soprattutto la proprietà immobiliare: quella “urbana”, incisiva- mente interessata dalla c.d. “legge-ponte” del 1967; e, poi, quella “agraria”) — numerosi studiosi del contratto, spesso accomunati sotto l’etichetta dell’“uso alternativo del diritto” (cfr. X. Xxxxxxxxxx, cur., L’uso alternativo del diritto, I, Scienza giuridica e analisi marxista, II, Ortodossia giuridica e pratica politica, Roma-Bari, 1973; e, su quella stagione, di recente, X. Xxxxxx, L’uso alternativo del diritto, oggi, Giust. civ., 2018, 75 s.).
buona fede possa operare in funzione di tutela della “giustizia contrattuale” (nel significato più volte richiamato).
“Buona fede” è, invero, criterio di qualificazione (positiva, in caso di osservanza del precetto legale, negativa nel caso di violazione dello stesso) di un comportamento: qui, evidente- mente, del comportamento (si tratti della predisposizione uni- laterale delle clausole del contratto, o dell’“approfittamento” di una situazione o condizione di “debolezza” in cui, per qualche ragione, si trovi controparte) che accompagna la formazione e/o l’esecuzione di un regolamento contrattuale (in ipotesi) “iniquo”, o anche semplicemente “squilibrato”. Il punto proble- matico è — però — quello di stabilire quale sia il grado (o la soglia) di “scorrettezza” il cui superamento possa legittimare una reazione nei confronti del contratto “ingiusto”.
Con riferimento alla fase di formazione del contratto, è noto come l’ordinamento giuridico ponga dei limiti precisi a(ll’operare di) rimedi che comportino la “caducazione” di un contratto “squilibrato” (53) (basti solo richiamare i presupposti previsti per la rilevanza di ciascuno dei vizi del consenso, o i presupposti che sono richiesti per la rescissione del contratto per lesione). Ma — a ben vedere — dei limiti (sebbene meno evidenti) sono previsti anche con riferimento ad un (ipotetico) rimedio risarcitorio (che implichi, quindi, la validità e il man- tenimento in vita del contratto). Ci riferiamo — come si sarà già inteso — alla disposizione dell’art. 1440 c.c. (dolo incidentale), la quale dà bensì rilievo (ai fini risarcitori) allo “squilibrio” del regolamento negoziale, ma solo se si sia in presenza di un vero e proprio inganno (frode) perpetrato da un contraente, e dun- que di un comportamento attivo (per effetto del quale la con- troparte sia stata indotta ad accettare condizioni contrattuali, che altrimenti essa non avrebbe accettato), e non anche se ricorrano altri tipi di scorrettezze (e.g.: un acquisto a condizioni vantaggiose sapendo che l’altra parte ha urgente bisogno di denaro; oppure lo “sfruttamento” — ma senza il ricorso ad alcuna minaccia — di una particolare “influenza” che si sia in grado di esercitare sulla controparte; et similia). Orbene, è
(53) Si considerino i vari requisiti richiesti per dare rilevanza ad uno dei vizi del consenso (errore, violenza, dolo), oppure si considerino i diversi presupposti che devono sussistere perché il contratto possa essere “rescisso”.
evidente che fare operare (fuori dall’ipotesi di cui all’art. 1440 c.c.) il rimedio risarcitorio in presenza di “scorrettezze” (quali quelle or ora esemplificativamente indicate) che non raggiun- gono la “soglia di rilevanza” prevista per determinare l’annullabi- lità o la rescindibilità del contratto, significa avallare una sostan- ziale elusione della normativa sui vizi del consenso e sulla rescissione del contratto, con esiti che non solo sono logica- mente contraddittori (54), ma (spesso) sono anche controfun- zionali (55). Ne consegue che non si può vedere nel precetto della buona fede in contrahendo uno strumento generale idoneo ad assicurare la “giustizia” nella fase di formazione del con- tratto.
9.3. Si potrebbe pensare che sia, allora, la buona fede in executivis (art. 1375 c.c.), a poter garantire (in casi come quelli sopra indicati, e in altri simili) la “giustizia”, consentendo di “integrare” e/o “modificare”/“correggere” il regolamento squili- brato (56). Sennonché si può ben dubitare che la buona fede di cui adesso parliamo sia in grado di svolgere questa funzione:
(54) È contraddittorio, infatti, che l’ordinamento giuridico consideri valido ed efficace un contratto, e dunque idoneo a far sorgere diritti ed obblighi di cui si può richiedere l’esecuzione, e però ricolleghi alla presenza nel contratto delle clausole, che tali diritti ed obblighi prevedono, un rimedio risarcitorio.
(55) E così, ad es., la tutela (sia pure meramente risarcitoria) che si vorrebbe assicurare al contraente che ha concluso un contratto in stato di bisogno, ma subendo una “lesione” infra dimidium (e, dunque, tale da con consentirgli di chiedere eventualmente la rescissione del contratto) compor- terà una protezione solo apparente (o meglio, virtuale) di tale soggetto, e, anzi, un prevedibile “svantaggio”. In realtà, infatti, nessuno contratterà più con lui, sapendo di esporsi ad una azione risarcitoria (che potrebbe financo essere più temibile dell’azione di rescissione), con la conseguenza che la tutela di questo soggetto finirà per subire una deminutio, e non un amplia- mento. L’unica maniera per aumentare questa tutela sarebbe quella che il legislatore (non potendolo certo fare l’interprete) “abbassasse” la soglia di rilevanza della lesione ai fini dell’azione di rescissione, salvo a stabilire di quanto questa soglia possa essere ragionevolmente ridotta senza comprimere sensibilmente le possibilità del contraente “in stato di bisogno” di trovare controparti disposte a contrattare con lui.
(56) È l’idea che traspare dalla motivazione di una nota sentenza della Cassazione (Cass. 18-9-2009, n. 20106, pubblicata su varie riviste, tra cui Contratti, 2010, 5 s., con Commento di G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona
essa può senz’altro fondare la pretesa che l’esercizio dei diritti scaturenti dal contratto, o l’adempimento degli obblighi con esso assunti, avvengano con modalità tali da non pregiudicare l’interesse di controparte in misura superiore a quanto neces- sario per soddisfare l’interesse proprio (quale consacrato nel regolamento contrattuale, e/o previsto da norme di legge), ma non può servire a far venire meno diritti che (validamente, e) lecitamente il contratto o la legge abbiano attribuito, oppure a creare obblighi (se non “accessori”, ossia attinenti alle semplici modalità di adempimento degli obblighi principali, o alle mo- dalità di esercizio corretto del proprio diritto) che già non discendano dal contratto o dalla legge (57). In altre parole: la buona fede in executivis non sembra in grado di “riequilibrare”
fede e abuso del diritto), dove si legge, fra l’altro, che « la buona fede serve a mantenere il contratto nei binari dell’equilibrio e della proporzione ».
Quest’idea si è — dopo la sentenza in esame — alquanto diffusa nell’ar- gomentazione giudiziaria, e si ritrova ormai in numerose pronunce, che segnalano — fra l’altro — l’uso (comunque, improprio) della buona fede, anche quando ci sarebbe in realtà una norma specifica regolatrice della fattispecie da decidere. Un esempio emblematico è offerto da una recentis- sima pronuncia (Trib. Treviso, 8-10-2018, in xxx.xxxxxx.xx. 17-10-2018; la pronuncia risulta poi annotata in xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxxx/0000.xxx da X. Xxxxxx, Verso l’equità correttiva generalizzata?), che ha deciso la questione controversa (relativa ad un compenso professionale contestato come ecces- sivo), facendo diretta applicazione della clausola di buona fede, invece di applicare l’art. 2237 c.c. (la cui esistenza sembrerebbe del tutto “ignorata” dal giudice).
(57) L’exceptio doli generalis come pure la costruzione di c.d. “obblighi integrativi” ex fide bona, devono essere — a nostro avviso — intesi nell’ambito di questa cornice concettuale, che non legittima la conclusione secondo cui — attraverso questi strumenti — la buona fede garantirebbe la “giustizia” del contratto (come invece ritiene X. Xxxxxxx, La buona fede in senso oggettivo, (Torino 2015), cap. III. La buona fede ex art. 1375 c.c. garantisce (solo) l’esecuzione corretta del contratto (opponendosi — come diciamo nel testo — a pretese di esercizio arbitrario o sleale dei diritti spettanti ad un contraente), ma non può modificare e/o correggere (se non in ristrettissimi limiti) un contenuto contrattuale che sancisca uno “squilibrio” tra i diritti e gli obblighi dei contraenti.
Solo se la clausola o le clausole che prevedono tale squilibrio potessero essere dichiarate nulle, se ne potrebbe impedire la pretesa di esecuzione (supposto sempre che tale pretesa sia esercitata con modalità corrette). Ma, allora, si tratterebbe di una nullità originaria, e non verrebbe in gioco (pro- priamente) la buona fede in executivis, bensì la buona fede in contrahendo (e varrebbero le osservazioni svolte nel numero precedente), sempreché si ri-
(se non nei modesti limiti or ora indicati) un regolamento di interessi che sia (lecitamente) sorto, se pure con un contenuto in qualche misura “squilibrato” (58).
10. Anche i “rimedi” convenzionali sono (o possono es- sere) valutati secondo un criterio di “giustizia”/proporzionalità, e valgono anche per essi le (già illustrate) regole circa il rap- porto tra disciplina “eteronoma” e autonomia privata.
Commento — L’idea di “giustizia” (“equità”, “proporzione”, etc.) può essere applicata anche ai “rimedi” (e si parlerà — pertanto — di un “rimedio giusto”, o, per converso, di un “rimedio ingiusto”) (59). Ovviamente, quelli che interessano in questa sede sono i rimedi “convenzionali” (60).
tenga che una “regola di responsabilità” (quale rimane quella di cui all’art. 1337 c.c.) possa essere trasformata in una “regola di validità”.
(58) Non ci vuol molto — d’altronde — a coonestare il fondamento dell’affermazioni di cui al testo. Basti dire che la stessa normativa sulle clausole abusive nei contratti del consumatore tollera che vi possano essere degli “squilibri” nel regolamento negoziale unilateralmente predisposto, im- pedendo soltanto (nel concorso di tutti gli altri presupposti) che siano efficaci clausole in conseguenza delle quali detti squilibri risultino “significativi” (ossia superino — per così dire — una certa soglia di “tolleranza”).
Xxxxxx, sarebbe ben strano che una normativa caratterizzata da un accentuato favor nei confronti di un particolare “contraente debole” (il con- sumatore) finisse per risultare sopravanzata, in ordine alla tutela che è idonea a fornire, da una clausola generale come la “buona fede” (applicabile, come tale, a tutti i rapporti contrattuali, indipendentemente dalla qualità soggettiva delle parti contraenti) che si ritenga idonea a dare rilevanza e protezione ad altre (e magari “minori”) situazioni di “debolezza”.
(59) Utilizziamo qui un’accezione alquanto lata (e atecnica) di “rime- dio”, ricomprendendo in tale nozione tutti i mezzi di tutela di situazioni giuridiche soggettive (e, dunque, anche — ad es. — le “garanzie” del credito).
(60) Il tema della “giustizia”/”proporzionalità dei rimedi apre un capi- tolo vastissimo, se riferito ai rimedi legali (in argomento cfr., in luogo di molti,
X. Xxxxxxxxxxx, Il “giusto rimedio” nel diritto civile, Il giusto processo civile (Napoli 2011, 1 ss.). Basti pensare, per es., in materia di responsabilità extracontrattuale, alle discussioni circa l’ammissibilità e i limiti di un risar- cimento “punitivo” (tema connesso a quello più generale circa le “funzioni” della responsabilità aquiliana). Risarcimento “punitivo” che — in materia questa volta di responsabilità contrattuale — il legislatore talora prevede, quanto vuole attribuire al rimedio uno specifico carattere “deterrente”: un esempio abbastanza significativo è costituito dagli “interessi legali di mora”,
Valgono anche a questo proposito tutte le considerazioni che abbiamo svolto, in via generale, nei paragrafi che prece- dono. Le regole legali mostrano, anche qui, di ispirarsi chiara- mente al valore della “giustizia” (intesa — in questo caso — come “proporzionalità” del rimedio, sebbene questo criterio non sia il solo ad essere sotteso alla disciplina legislativa (61)), che si traduce sovente anche in un criterio di valutazione dell’auto- nomia privata (ossia in un criterio di valutazione del rimedio convenzionale).
Si può — in questo senso — ricordare la norma che vieta il
c.d. patto commissorio (art. 2744 c.c.), per la quale sono state individuate diverse rationes (sovente alternative tra di loro), tra cui spicca (in quanto condivisa da un’opinione largamente diffusa) quella che ravvisa il fondamento del divieto nell’esi- genza che il debitore non perda la proprietà di un bene (con- cesso in garanzia) di valore eccedente rispetto al debito garan- xxxx (62).
Un altro dei possibili esempi è offerto dalla disciplina della
quali previsti dal d.lgs. 9-9-2002, n. 231 (attuativo della dir. 2000/35/CE relativa alla “lotta contro i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commer- ciali”), che li fissa in una misura alquanto elevata (pari al tasso di riferimento maggiorato di otto punti: v. art. 2 lett. e d.lgs. cit.); e a questa medesima misura fa riferimento anche il 4° comma dell’art. 1284 c.c. (inserito dall’art. 17 del d.l. 12-9-2014 n. 132, conv. nella l. 10-11-2014 n. 162) nel fissare il saggio degli interessi “legali” dovuto (dal debitore) dal momento in cui è proposta una domanda giudiziale (anche qui la ratio è quella di disincentivare alcuni comportamenti, e in particolare di scoraggiare — anche per un obiet- tivo di decongestionamento del carico dei Tribunali — una resistenza in giudizio che abbia una finalità meramente dilatoria; e per rendersi conto del carattere fortemente “deterrente” di questa misura, basti dire che il saggio di interesse così determinato è spesso superiore allo stesso “tasso-soglia” calco- lato ai sensi della l. 108/1996, tanto da aver indotto taluno a parlare di una sorta di “usura legale”).
Un’analisi specifica meriterebbe, poi, il tema del “rimedio proporzionato” nel diritto contrattuale europeo (specie alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia).
(61) Si veda la nota precedente.
(62) In considerazione di questa ratio, si ritiene invece che non sia vietato — in linea di principio — il c.d. patto marciano” (caratterizzato dal fatto che il creditore è tenuto a restituire l’eccedenza di valore del bene rispetto al credito garantito). Nella disciplina più recente sono state intro- dotte, e regolamentate, diverse ipotesi di “xxxxx xxxxxxxx” (si veda il volume di
“clausola penale” (art. 1384 c.c.). Qui — com’è noto — il legislatore lascia all’autonomia privata la libertà (in linea di massima) di determinare l’entità della “penale”; epperò, pone il limite, per cui l’ammontare della penale non può essere “mani- festamente eccessivo”, e — ove questo sia il caso — attribuisce al giudice il potere (anche officioso) di ridurre equamente detto ammontare (63).
In altri casi, il legislatore non ritiene, invece, di limitare l’autonomia privata: e, così, nella disciplina della caparra con- firmatoria (art. 1385 c.c.), collocata immediatamente dopo quella della clausola penale, non si fa menzione di alcun limite alla determinazione della caparra, il che dovrebbe escludere una sindacabilità giudiziale che sia motivata da un’ipotetica “eccessività” della caparra convenuta tra le parti (64). Sennon- ché anche qui, l’idea che il principio costituzionale di solida- rietà sociale, attraverso la clausola generale di buona fede, attribuisca al giudice un generale potere di controllo della “giustizia” del contratto (e delle sue clausole) ha inopinata- mente portato la Corte costituzionale ad affermare che la ca- parra confirmatoria eccessiva può essere dichiarata nulla (per contrasto, appunto, con la disposizione dell’art. 2 cost.) (65). Si tratta — è bene ribadirlo — di un orientamento che non può essere condiviso, in quanto esso — attribuendo alla buona fede
G. D’Amico-X. Xxxxxxxxxxx-X. Xxxxxxx-T. Rumi, I nuovi marciani (Torino 2017)).
(63) Nella disciplina dei contratti dei consumatori l’intervento sul (con- tenuto del)la clausola penale è ancora più incisivo, in quanto — ove l’importo della penale sia stato riconosciuto come “vessatorio”, in quanto “manifesta- mente eccessivo” (art. 33, comma 2, lett. f del codice del consumo) — la clausola viene considerata come “nulla” (senza possibilità di riduzione).
(64) Discusso è se alla caparra confirmatoria possa applicarsi analogi- camente la disciplina della clausola penale: lo affermano alcuni autori (v., in part., X. X. Xxxxxxxxx, xxxx Xxxxxxx (xxx. xxx.), Xxx. xxx., XX (Xxxxxx 1960), 202 e nt. 46), ma lo esclude altra parte della dottrina (cfr. Xxxxx, in Sacco - De Nova, Il contratto cit., 175, nonché X. Xx Xxxx, voce Caparra, Dig. it. disc. priv., sez. civ. (Torino 1988), II, 241) sulla base di vari argomenti (il carattere “bilaterale” della caparra, la circostanza che l’ammontare di essa è comunque limitato dalla entità della prestazione, etc.).
(65) Cfr. Corte cost., ord., 21-10-2013 n. 248, Contratti, 2014, 926 s., con nota critica di X. X’Xxxxx, Applicazione diretta dei principi costituzionali e nullità della caparra confirmatoria “eccessiva”.
(e, anzi, direttamente al principio costituzionale di solidarietà) idoneità a legittimare un generale sindacato sul contenuto degli atti di autonomia privata — si pone in radicale contrapposi- zione con il sistema del diritto contrattuale (che ha nel ricono- scimento dell’autonomia dei contraenti il suo principio essen- ziale), finendo oltre tutto per privare di qualsiasi significato la disciplina legale (peraltro, copiosissima) che interviene per porre specifici limiti all’esercizio di quell’autonomia (disciplina legale che diventerebbe del tutto superflua, una volta che si ammetta una possibilità di controllo e di sindacato generale sul regolamento negoziale, che come tale potrebbe esplicarsi anche fuori dai casi e dai limiti previsti dal legislatore) (66).
11. Il tema della « giustizia contrattuale » è un tema an- tico, forse solo poco meno di quanto lo è l’eterno (e, dunque, da sempre dibattuto) problema dei rapporti tra diritto (tout court) e giustizia.
Naturalmente, in ogni epoca storica temi di questa natura (che individuano elementi “fondamentali” — nel senso etimo- logico del termine — dell’intero ordinamento o di una sua parte) vengono declinati secondo coordinate (anche di tipo “ideologico”) che mutano nel tempo, in quanto si collocano
(66) Particolarmente critica nei confronti della prospettiva di legare “buona fede” e “giustizia contrattuale” è anche la Navarretta (Il contratto “democratico” e la giustizia contrattuale cit., spec., 1274, dove si parla di
« naufragio dei tentativi di fondare sulla mera buona fede la costruzione di un generale controllo sostanziale sulla giustizia del contratto »), la quale prende di mira soprattutto l’abbinamento alla violazione della buona fede del rime- dio della nullità (così trasformando quella che è una tipica “regola di respon- sabilità” in una “regola di validità”).
Sotto quest’ultimo profilo, non merita però di essere accomunata del tutto alla concezione criticata dalla dottrina in questione la posizione di Xxxxxxx, Il diritto europeo e la « giustizia contrattuale », in questa Rivista, 2015, 233 s. (e, più di recente, Id., La buona fede in senso oggettivo cit., cap. IV), il quale affida sì alla buona fede la funzione di strumento generale di invera- mento nel contratto del valore della « giustizia », ma ritiene che ciò avvenga non attraverso la tecnica della invalidità, quanto piuttosto attraverso rimedi diversi (exceptio doli generalis, risarcimento del danno, integrazione del con- tratto).
sullo sfondo di sistemi sociali economici e culturali in continua evoluzione: un’evoluzione, nel corso della quale, in genere, sopraggiunge periodicamente — quando il cambiamento non consenta più di procedere con semplici “adattamenti” degli schemi conoscitivi precedenti —, la necessità di operare un vero e proprio mutamento del “paradigma” o dei “paradigmi”, in base ai quali sino a quel momento il fenomeno oggetto di analisi era stato interpretato e/o concettualizzato e “sistematiz- zato” (67).
Naturalmente, un “paradigma” non è mai costituito da una singola “assunzione”, ma è la risultante di una serie molteplice di “premesse”, destinate a formare (nel loro insieme) lo “sfondo” nel quale collocare i fenomeni da analizzare (o i problemi da risolvere).
Orbene tra le varie “premesse” che definiscono il contesto nel quale si inserisce il “paradigma contrattuale” in questo scorcio iniziale del nuovo secolo (68) c’è sicuramente (e si tratta di un dato che non concerne soltanto il contratto) il nuovo rapporto che si è venuto ad instaurare tra “legislazione” e “giurisdizione”, e che induce sempre più spesso a parlare di una “giurisdizionalizzazione” del diritto, in particolare del diritto privato (69).
(67) Nelle pagine precedenti, ad es., abbiamo indicato nel passaggio da una contrattazione “individuale” (tipica delle epoche precedenti) alla realtà della moderna “contrattazione di massa” il fenomeno (naturalmente collegato ad una serie di trasformazioni sociali ed economiche di grande rilievo) che ha determinato — a nostro avviso — un vero e proprio mutamento del “para- digma contrattuale”, coinvolgendo ovviamente anche il modo di impostare il problema della “giustizia contrattuale”.
(68) I “mutamenti” del contratto (almeno sul piano normativo) possono essere fatti risalire più indietro, in particolare all’ultimo decennio del secolo scorso, nel quale si è registrata una forte accelerazione dell’intervento del- l’Unione europea nella regolamentazione del contratto (un autore — riferen- dosi a quel periodo — ha, significativamente, intitolato un suo scritto “I dieci anni che sconvolsero il contratto”).
(69) Il fenomeno si colloca — a propria volta — nell’ambito di processi evolutivi di varia natura, e si collega soprattutto alla c.d. “costituzionalizza- zione” del diritto privato, e alla sempre più diffusa convinzione della appli- cabilità diretta (c.d. Drittwirkung) dei principi costituzionali nei rapporti di diritto privato (per una descrizione di questo processo, e per riferimenti alla letteratura in argomento, sia consentito il rinvio a X. X’Xxxxx, Problemi e
Questo dato non poteva non coinvolgere, anche (e — si direbbe — soprattutto), il tema specifico della “giustizia con- trattuale”, sollecitando un atteggiamento di sempre maggiore attenzione da parte dei giudici a questo profilo (anche se va detto che quest’attenzione non era mancata neanche prima, se pure con esiti che, comunque, rifuggivano da visioni “estreme” (70)).
Si è creata, però — da qualche tempo — una situazione che rischia di generare distorsioni ed eccessi (nel senso che chiari- remo subito), in considerazione del fatto che negli ultimi anni (e soprattutto a partire dall’introduzione della importantissima disciplina delle clausole abusive nei contratti dei consumatori) si è fatta certamente più estesa ed incisiva la produzione legi- slativa a tutela dell’equilibrio (e, perciò, della giustizia) contrat- tuale, attraverso l’inserimento nell’ordinamento di normative di grande impatto, anche per la formulazione particolarmente
limiti dell’applicazione diretta dei principi costituzionali nei rapporti interpri- vati, con particolare riferimento ai rapporti contrattuali, Giust. civ., 2016, 443 s.).
(70) Abbiamo accennato, ad es., alla grande cautela della giurispru- denza (ma anche della dottrina) rispetto all’ampliamento dell’area dei vizi del consenso idonei a determinare l’annullabilità del contratto (una prudente apertura si è avuta — al riguardo — solo sul piano “risarcitorio”, attraverso la recente giurisprudenza formatasi sulla figura del c.d. “contratto valido ma sconveniente”).
Questa cautela la giurisprudenza ha confermato anche allorché ha re- spinto il tentativo di fare della buona fede in contrahendo una “regola di validità”, facendo conseguire alla sua violazione la “nullità” del contratto, anziché la sua annullabilità. Le c.d. “sentenze Rordorf” del 2007 (sentt. nn. 26724 e 26725), hanno avuto il merito di “frenare” anche quest’altro uso poco controllato della “buona fede”: il che non ha, peraltro, impedito la ripropo- sizione della tesi della “invalidità” attraverso il ricorso ad altri strumenti (come, ad es., la “causa in concreto” o il “giudizio di meritevolezza”), il che potrebbe suscitare (probabilmente, non a torto) l’impressione di un ossequio solo formale della “giurisprudenza Rordorf”, accompagnato da una sua so- stanziale “elusione” (con esiti, peraltro, singolari: val la pena, ad es., di osservare come il recupero da parte dei nostri giudici della causa — sia pure nella forma della “causa in concreto” — anche come strumento di controllo degli squilibri contrattuali, si muova in “controtendenza” rispetto a quanto avvenuto ad es. in Francia, dove il legislatore della riforma ha, almeno formalmente, abbandonato il concetto di “causa”, abbracciando l’idea che le varie funzioni da esso svolte, possano essere realizzate attraverso altri stru- menti, e con rimedi diversi da quello della nullità).
ampia che talune di esse presentano (71). Nonostante ciò, l’at- tività di “integrazione” del dato normativo da parte della giuri- sprudenza — sia teorica che pratica — è continuata, non solo (cosa assolutamente normale) attraverso gli ordinari procedi- menti interpretativi (ivi compreso il ricorso — se pur, talora, non esente da “forzature” — all’analogia (72)), ma soprattutto attraverso la ricerca di principi generali (o, comunque, tali supposti dall’interprete: la “buona fede”, la “proporzionalità”, la “ragionevolezza”, la “meritevolezzza”, l’“effettività” della tutela, etc.) capaci di fondare un generale potere di controllo e di sindacato sul contenuto del contratto da parte del giudice (73).
(71) Abbiamo brevemente esaminato, nelle pagine precedenti, alcune di queste normative, che qui ci limitiamo a richiamare (in ordine cronolo- gico): l. 108/1996 (sull’usura), legge n. 192/1998 (sulla subfornitura e l’abuso di dipendenza economica), l. 24-3-2012 n. 27 (sulla disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”), l. 81/2017 (sulla tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale), etc.
Naturalmente, a questo elenco (che trascura interventi legislativi minori, e che comunque non ha alcuna pretesa di esaustività) si dovrebbero quanto meno aggiungere, per quanto non siano state oggetto di richiami specifici nella presente Relazione, le norme in materia contrattuale contenute nel Titolo VI del T.U.B. (d.lgs. 1-9-1993 n. 385 e succ. m.i.) e le norme del T.U.F. (d.lgs. 24-2-1998 n. 58, e succ. m.i.).
Un altro ambito che meriterebbe di essere approfondito è quello del c.d. “diritto contrattuale antidiscriminatorio” (su cui v., ad es., X. Xxxxxxx, Libertà contrattuale e divieto di discriminazione, Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, 401 s.). Si noti — peraltro — che, di per sé, il divieto di discriminazione (nei limiti in cui sussiste) non presidia la “giustizia” del contenuto contrattuale (salvo il caso in cui la discriminazione si attui pretendendo di praticare condizioni contrattuali diverse e più onerose ad alcune categorie di contraenti: cosa — va subito aggiunto — che non è vietata in assoluto, ma solo quando abbia a suo fondamento esclusivamente un “motivo” di discriminazione).
(72) E si veda quanto osserva Xxxxxxxxx, Il contratto europeo nel tempo della crisi cit., 624, laddove parla (con espressione indubbiamente “forte”) di un « accumulo di operazioni di analogia legis sorrette da un malriposto furore ideologico ».
(73) In questa prospettiva si muovono, per es., scrittori autorevoli, come X. Xxxxxx (Intorno alla “giustizia” del contratto (Napoli 2016), e, poi anche in Id., Il diritto civile tra legge e giustizia (Milano 2017), 235 s.), X. Xxxxxxx (Giustizia e rimedi nel diritto europeo dei contratti, in questa Rivista, 2006, 53 s.; Id., Il controllo del contratto da parte del giudice, Manuale dir. priv. eur., II, a cura di X. Xxxxxxxxxx e X. Xxxxxxxxx (Milano 2007), 596; Id., Controllo giudiziale del contratto ed effettività delle tutele. Una premessa, NLCC, 2015, 151 s.; Id., Il contratto europeo tra regole e principi (Torino 2015), 149 s.;
È come se quest’ultimo si sia posto in concorrenza con il legislatore, in una continua rincorsa per sopravanzarlo (indivi- duando nuove “debolezze” da proteggere, e nuovi “rimedi” da congegnare per rendere “effettiva” la tutela di determinati sog- getti). Non a caso si discorre sempre di più — in queste impo- stazioni — di “oltrepassamento della fattispecie” (74), e la ricerca di un “principio generale” (direttamente applicabile dal giu- dice) — che possa consentire di superare le “angustie” della singola previsione normativa (per quanto ampia essa sia), e gli stessi vincoli ai quali soggiace il procedimento “analogico” — è la riprova di questo tentativo di disancorarsi da limitazioni che possano in qualche modo emergere dal “sistema legisla- tivo” (75).
Alla base di questo atteggiamento (che spesso teorizza il già ricordato “superamento della fattispecie” in nome di un affer- mato “primato del caso” (76)) sta — probabilmente — l’insop- primibile anelito in direzione della eguaglianza sostanziale dei
Id., Contratto giusto e rimedi effettivi, Persona e mercato, 2015, 5 s.), A. di Majo (Giustizia individuale o sociale? Forse una falsa alternativa, Persona e mercato, 2013, 130 s.; Id., Giustizia e “materializzazione” nel diritto delle obbligazioni e dei contratti tra (regole di) fattispecie e (regole di) procedura, in questa Rivista, 2013, 797 s.), X. Xxxxxxx, Giustizia contrattuale e rimedi: fonda- mento e limiti di un controverso principio, Il diritto europeo dei contratti fra parte generale e norme di settore, a cura di X. Xxxxxxxxxx (Milano 2007), ora Id., Il contratto in trasformazione. Invalidità e inefficacia nella transizione al diritto europeo (Milano 2011), 337 s.), X. Xxxxxxxxxxx, Nuovi profili del contratto, Rass. dir. civ., 2000, 560 ss.; Id., Equilibrio normativo e principio di propor- zionalità, ivi, 2001, 347).
(74) “Oltre la fattispecie” è — ad es. — il titolo del paragrafo iniziale dell’articolo di Xxxxxxx, Contratto giusto e rimedi effettivi cit., 5; e di rottura delle “catene costrittive della fattispecie” parla Lipari, Intorno alla “giustizia” del contratto, cit., 265.
(75) Basti dire, per es., che — nella prospettiva che stiamo esaminando (e v. anche quanto diciamo subito infra, nel testo) — il concetto di “buona fede” tende ad essere utilizzato in modi che lo accostano sempre più chiara- mente all’“equità”, che tuttavia — per l’art. 1374 c.c. può entrare in gioco solo in mancanza di una norma di legge (e subordinatamente agli usi, se esistono). Per una riflessione attenta sui rapporti tra buona fede ed equità, si v. F.D.
Xxxxxxxx, Note in tema di buona fede ed equità, Riv. dir. civ., 2001, I, 556 s.
(76) Si veda, ad es., per un richiamo al concetto di “legalità del caso” (utilizzato proprio in un saggio sul tema della “giustizia contrattuale”) Lipari, Intorno alla “giustizia” del contratto cit., 237.
soggetti (e, quindi, anche dei contraenti) (77). Sennonché — e così torniamo a qualcuna delle riflessioni iniziali del nostro discorso — un contratto sul quale venga fatto gravare il peso delle “diseguaglianze sostanziali”, e a cui si attribuisca (in nome della “giustizia”) la funzione di superarle, è un istituto che viene caricato di un compito che esso non può assolvere, e nel corpo del quale viene innestato un principio capace di portare alla dissoluzione dell’organismo del quale è entrato a far parte.
Si può ammettere anche che l’eguaglianza (formale) non si esaurisca più nella (e non sia garantita più dalla) mera “gene- ralità” del precetto legislativo, ma si sia andata trasformando sempre più nella “(in)giustificabilità della differenziazione” (concetto più “debole” e problematico, ma forse più idoneo a riflettere la complessità di un mondo nel quale si è certamente ridotto il novero dei valori condivisi, e sono diventate sempre più esili le identità sociali (78) e individuali, su cui un tempo il legislatore fondava le proprie norme). Ma il punto è che — a meno che l’ingiustificabilità non possa supportare un giudizio che conduca all’applicazione analogica di una disposizione già
(77) Questo anelito è ben leggibile nelle parole con cui di Xxxx, Giusti- zia individuale o sociale?, cit., 130 ss., descrive (sulle orme di Xxxxxxx) l’approccio c.d. “materializzante” al tema della giustizia « (...) Siffatto indi- xxxxx [quello di Xxxxxxx; nda] è il segno di un approccio la cui finalità non è tanto la osservanza di regole formali riguardanti ad es. la astratta formazione del volere, quanto la garanzia della reale ed effettiva libertà decisionale (Entscheidungs-Freiheit) del contraente e cioè di libertà del decidere nell’un senso o nell’altro e dove il rapporto tra gli elementi dello scambio per acquistare rilevanza negativa non ha bisogno di rompere con regole proce- durali, siano esse fissate dalla legge e/o dal mercato. — Siamo anni luce distanti dai concetti di libertà e giustizia contrattuali, così come tramandati dalle dottrine e dai codici del novecento. — Il concetto di Materialisierung ha riferimento alla libertà contrattuale ma vista sotto l’aspetto della reale ed effettiva libertà decisionale (Entscheidungsfreiheit) del contraente, e cioè della effettiva libertà di decidere nell’un senso o nell’altro, così come anche alla giustizia ma vista sotto la forma del rispetto, di “una etica materiale ispirata a responsabilità sociale”, così come insegnato da Xxxxxxxx, quale Sozialmo- dell dei classici codici di diritto privato (1952). — Xxxxxxxx Materialisierung si contrappone ai valori “formali” su cui sono invece tradizionalmente ispirati i concetti di libertà e di giustizia contrattuali nei codici (...) ».
(78) Che definivano — fino a poco tempo — alcune distinzioni su cui il legislatore poteva basare la differenziazione normativa (si pensi per es. alla distinzione tra lavoro “subordinato” e lavoro “autonomo”).
esistente (79) — è solo la Corte costituzionale che ha il potere di giudicare la ragionevolezza o meno della differenziazione (80), non certo il giudice comune (81).
(79) Il che presuppone il superamento di almeno due ostacoli: a) il primo costituito dalla dimostrazione che il caso (suppostamente) “non rego- lato”costituisca veramente una “lacuna” (in senso proprio), e non manifesti invece la volontà (sia pure implicita) del legislatore di regolarlo diversamente rispetto ad un’atra fattispecie solo apparentemente “analoga” (si consideri il caso, sopra richiamato, della mancata previsione di una sindacabilità “per eccessività” della caparra confirmatoria, a fronte di una disciplina che con- sente invece espressamente la riducibilità della penale “manifestamente spro- porzionata”); b) il secondo costituito dalla dimostrazione che la “regola” che si vuole estendere analogicamente non costituisce una norma “eccezionale”. È chiaro che questi due ostacoli scompaiono di colpo se si opta per una argomentazione per “principi”: ma, così concepita, una tale argomentazione finisce per diventare uno strumento idoneo a “scardinare” il sistema del diritto positivo, rendendone superflue la maggior parte delle disposizioni, e cancellando il lavoro di “bilanciamento” che è sotteso alla costruzione delle
“fattispecie normative” da parte del legislatore.
L’inconveniente, poi — come ha sottolineato Irti, nei suoi recenti inter- venti sul tema — è quello di dar vita ad un “diritto incalcolabile”, con conseguenze sulle quali forse si è riflettuto sinora assai poco (e la circostanza che talora — e sempre più spesso negli ultimi tempi — la causa dell’incertezza sia riconducibile alla stessa legislazione [per il suo carattere disorganico, caotico, a volte contraddittorio] non legittima certo l’aggiunta di un ulteriore fattore di incertezza, considerata anche la debolezza attuale della “funzione nomofilattica” svolta dalla Corte di Cassazione). Cfr. X. Xxxx, La crisi della fattispecie, Riv. dir. proc., 2014, 41 s.; Id., Calcolabilità weberiana e crisi dellafattispecie, Riv. dir. civ., 2014, 36 s.; Id., Un diritto incalcolabile, Riv. dir. civ., 2015, 11 s.; Id., Capitalismo e calcolabilità giuridica (letture e riflessioni), Riv. soc., 2015, 801 s.; Id., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, Riv. dir. proc., 2016, 917 s.; Id., Un diritto incalcolabile (Torino 2016) (che raccoglie i precedenti saggi sul tema).
(80) Con l’avvertenza ulteriore che sancire l’irragionevolezza della di- scriminazione (o della differenziazione) significa pur sempre far valere l’egua- glianza formale (ossia il principio che casi eguali devono essere trattati in maniera eguale), non anche rimuovere un fattore di diseguaglianza sostan- ziale (= trattare in maniera diversa casi che si ritengono essere diversi).
Il che mostra — fra l’altro — che, quando invece, si invoca il valore del- l’eguaglianza sostanziale, bisogna riconoscere che si stanno compiendo inter- venti innomedell’equità, e quindidiunagiustizia“particolare”(e, dunque, sulla base di un criterio che non è “generalizzabile”, o che non discende dalla esten- sione di una regola “generale”, alla quale invece apporta deroga).
(81) Il cui intervento — oltre tutto —, valendo soltanto per le parti del concreto giudizio (a differenza della pronuncia della Corte, che è invece
Ma — detto tutto ciò — è evidente che nei Tribunali si continuerà a perseguire (anche) la giustizia sostanziale, senza attendere che sia il legislatore (cui questo compito compete- rebbe) a introdurre deroghe, eccezioni, norme “speciali”, etc. che modifichino e correggano una disciplina che, in ipotesi, appaia (al giudice) censurabile perché non tiene conto di situa- zioni che meriterebbero un trattamento differenziato rispetto alla regola generale.
L’importante è — in tutto questo — che non si smarrisca del tutto la razionalità del “sistema” (pericolo che non è affatto eccessivo evidenziare), e non prevalgano soluzioni estempora- nee e poco meditate, che rischiano oltre tutto, più che di eliminare le “ingiustizie” che si ritengano presenti nel con- tratto, di aggiungerne (o alimentarne) delle nuove, con un esito palesemente contro-funzionale (82).
efficace erga omnes), rischia di aumentare anziché ridurre le diseguaglianze, perché ne introduce una nuova nell’ambito della stessa categoria dei soggetti che subiscono una (supposta) discriminazione (precisamente tra coloro che hanno visto riconosciuta la infondatezza della discriminazione, e coloro che non hanno ottenuto eguale esito, o non hanno neanche pensato di chiederlo).
(82) Si intende far riferimento alla possibilità che orientamenti giuri- sprudenziali poco meditati abbiano l’effetto di limitare (anziché favorire) l’accesso (o la permanenza) nel mercato dei soggetti che si vorrebbero invece tutelare.
Questo rischio è presente financo quando è il legislatore a prevedere forme di tutela che — non importa se a torto o a ragione — vengano percepite come eccessive (gli esempi potrebbero essere numerosi: oltre a quelli già fatti retro, alle note 5 e 62 dove sono state richiamate la vicenda della legge sull’equo canone e quella della rescissione per lesione, si può pensare per es. alla recente normativa sul contratto di lavoro a tempo determinato, introdotta dal c.d. “Decreto dignità” — d.l. 12-7-18 n. 87, conv. nella l. 9-8-2018 n. 96 — che, secondo molti commentatori, determinerà una riduzione dei livelli occupazionali, o, nella migliore ipotesi, una più rapida “turnazione” tra i soggetti che verranno assunti con contratti a tempo determinato, e dunque sostanzialmente impedirà l’accesso a questo mercato di alcuni soggetti che altrimenti lo avrebbero avuto, oppure determinerà la precoce uscita dal mercato di soggetti che vi erano entrati); ma esso si accentua quando l’“ec- cesso” provenga da orientamenti giurisprudenziali, che — a parte la tutela fornita nel caso specificamente deciso, e a favore del soggetto in esso coin- volto — spesso hanno il solo effetto di determinare reazioni di “chiusura” o di “restrizione” del mercato rispetto all’intera “categoria” cui appartiene il sog- getto occasionalmente tutelato, oppure di determinare tentativi di “eludere” l’applicazione delle regole “indesiderate”.
Ci piace, perciò, concludere con una citazione di uno sto- rico francese dell’Ottocento, premettendo che quanto egli scrive con riferimento al lavoro dello storico può e deve essere riferito
— a nostro avviso — a qualsiasi campo di indagine, e non solo quando quest’ultima sia compiuta per finalità scientifiche, ma anche (e forse soprattutto) quando — come accade per il diritto
— essa abbia finalità pure “pratiche”:
« (...) L’histoire n’est pas une science facile; l’objet qu’elle étudie est infiniment complexe; une société humaine est un corps dont on ne peut saisir l’harmonie et l’unité qu’à la con- dition d’avoir examiné successivement et de très-près chacun des organes qui le composent et qui en font la vie. Une longue et scrupuleuse observation du détail est donc la seule voie qui puisse conduire à quelque vue d’ensemble. Pour un jour de synthèse il faut des années d’analyse ... » (83).
ABSTRACT
Justice In Contract And Asymmetric Contracts
Justice in contract is an implicit value in any legal regulation of contract. However, it cannot be construed as a principle empowering the courts to amend contractual arrangements, beyond what is expli- citly allowed by the particular rules the legislator has deemed essen- tial to ensure that the parties’ contractual obligations be equivalent or proportional.
Risiede anche in ciò la giustificazione profonda dell’esigenza che even- tuali “carenze di tutela” siano soddisfatte dal legislatore (un legislatore — naturalmente — che sia all’altezza del compito che dovrebbe svolgere, anche con riferimento alla capacità di intervenire tempestivamente), anche perché solo il legislatore può — nella maggior parte dei casi — disporre di tutti gli elementi di giudizio necessari per effettuare una valutazione dei diversi inte- ressi che vengono in considerazione (a volte con carattere di forte conflittua- lità tra di loro).
(83) X. xx Xxxxxxxxx, Histoire des institutions politiques de l’ancienne France, I. L’empire romain - Les Germains - Xx xxxxxxx xxxxxxxxxxxxx, 0x xx. (Paris 1877), 4 (corsivo finale aggiunto).