Contratto di rete, programma comune e gestione della proprietà intellettuale nella collaborazione tra imprese
Contratto di rete, programma comune e gestione della proprietà intellettuale nella collaborazione tra imprese
Xxxxxxxxxxxx Xxxxxxxx(*)
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1. Premessa.
Uno degli aspetti maggiormente problematici nelle reti di imprese create mediante
10 contratto (ma si tratta, più in generale, di un problema delle cooperazione tecnologica come tale) è quello relativo alla gestione della proprietà intellettuale, soprattutto con ri- ferimento alle reti per la ricerca e sviluppo.
Importanti contributi di economia si sono cimentati con il problema, per certi ver- si più ampio, della gestione della conoscenza all’interno dei distretti produttivi, dove più
15 spesso allignano raggruppamenti di imprese di natura reticolare. Gli studi giuridici sul punto sono, invece, piuttosto carenti e, per quanto più da vicino riguarda la legge sul contratto di rete, nessuna puntuale indicazione è venuta dal legislatore. Si tratta di una vistosa lacuna, sia disciplinare che scientifica, in considerazione dello stretto nesso tra ricerca tecnologica e competitività. Non è detto, però, che la lacuna normativa non sia
20 intenzionale, posto che la disciplina degli aspetti di cui si tratta presupporrebbe un livel- lo di informazioni che il legislatore (e, in generale, un’autorità diversa dagli stessi con- traenti) non possiede.
Il quadro giuridico complessivo va ricostruito, pertanto, sulla base di elementi normativi appartenenti ad aree diverse da quelle proprie della disciplina civilistica sul
25 contratto di rete, tenuto conto della molteplicità di livelli normativi che interessano la materia della ricerca e sviluppo. Un assetto efficiente delle forme di creazione, gestione e condivisione della conoscenza all’interno delle reti di imprese non può prescindere, infatti, dalla conoscenza di alcuni vincoli posti dalle norme regionali, statali e dell’Unione europea e dei quali si cercherà di dar conto nei paragrafi che seguono.
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2. Contratto di rete e politica industriale.
La cd. cluster policy – all’interno della quale può essere affrontato il tema delle reti di imprese – è una delle linee di politica industriale dell’Unione europea da tempo1.
35 In una comunicazione del 2008, la Commissione ha riconosciuto che i clusters sono in modo predominante un fenomeno di mercato (market-driven), creato spontaneamente per effetto di vantaggi competitivi naturali, forze di mercato o per puro caso2. Nemmeno
(*) Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Foggia. Il testo riproduce in parte la relazio- ne tenuta al convegno “Le reti di imprese tra contratto e organizzazione”, Bari 12 maggio 2011.
1 Cfr. già European Commission, Final Report of the Expert Group on Enterprise Clusters and Networks, Brussels, 2002, nel quale si diceva che gli obiettivi della cluster policy erano quelli di provare a creare
«basic framework conditions favouring an environment conducive to business stakeholders work together on the local and/or regional level». Il documento, peraltro, è interessante perché offre una panoramica su diversi distretti sul territorio europeo. Nel 2003 si è anche tenuto un seminario sul tema, i cui contributi sono raccolti in National Agency for Entrerprise and Housing, European Cluster Policy, Xxxxxxxxxx, 0000.
2 Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of Regions, Towards world-class clusters in European Union:
a dirlo, uno dei pilastri del Small Business Act è proprio la definizione di una politica della cooperazione tra PMI3.
40 L’obiettivo della politica industriale a livello di Unione europea sarebbe quello di favorire l’emersione di clusters nei processi in essere all’interno di talune regioni. In vi- sta di ciò sono stati predisposti interventi di varia natura, anche a livello normativo, co- me per esempio la revisione delle norme sugli aiuti di stato alla ricerca e all’innovazione o alle piccole e medie imprese. Nessun dubbio, dunque, che le norme giuridiche concor-
45 rano, insieme ad altri strumenti (come la fiscalità o gli incentivi alla ricerca), a supporta- re le scelte di politica industriale, che sono rimesse interamente agli organi politici e alla discrezionalità tecnica della pubblica amministrazione. D’altronde, tutti i programmi di better regulation e, successivamente, di smart regulation rientravano tra le misure a supporto delle attività imprenditoriali e, in particolare, del complesso mondo delle
50 PMI4.
Si può forse dire che parte delle motivazioni tecniche di una normativa nazionale sul contratto di rete muova proprio da una constatazione contenuta nella comunicazione del 2008: l’Europa non manca di clusters, ma sussistono “persistent market fragmenta- tion, weak industry-research linkages and insufficient cooperation”, che si traducono
55 nella insufficiente “critical mass and innovation capacity to sustainably face global competition and to be world-class”5.
Va però detto che la cluster policy fa riferimento a un fenomeno più ristretto delle reti di imprese nell’accezione generale, nel senso che essa si indirizza alle agglomera- zioni reticolari a base distrettuale, cioè che abbiano un qualche legame con un’area spe-
60 cifica o con una porzione di territorio identificata6. Come noto, invece, si possono avere reti di imprese trans-distrettuali e finanche meta-distrettuali, cioè reti che poco o nulla
Implementing the broad-based innovation strategy, COM(2008) 652 final/2, del 5 novembre 2008. Per una rapida riflessione sui processi e le condizioni che danno vita alle agglomerazioni di imprese a base territoriale cfr. X. Xxxxxx, Come nascono i distretti industriali, Bari, 2000.
3 Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of Regions, “Think Small First”. A “Small Business Act” for Europe, COM(2008) 394 final, del 25 giugno 2008, 15. A distanza di alcuni anni dal lancio dell’iniziativa, la Commissione ha proceduto a una verifica dei progressi compiuti verso la creazione di un ambiente favorevole all’iniziativa imprenditoriale, soprattutto medio-piccola Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of Regions, Review of the of the “Small Business Act” for Europe, COM(2011) 78 final, del 23 febbraio 2011.
4 Sul passaggio da better regulation a smart regulation cfr. Communication from the Commission to the Council, the European Parliament, the European Economic and Social Committee and the Committee of Regions, An Integrated Industrial Policy for the Globalisation Era. Putting Competitiveness and Sustai- nability at Centre Stage, COM(2010) 614, 5.
5 Ibidem.
6 Alla nozione di cluster sembra avvicinarsi quella di “polo di innovazione” contenuta nella Comunica- zione della Commissione sugli aiuti di stato (2006/C 323/01, su cui, più diffusamente cfr. par. 5) nella quale si fa riferimento a «raggruppamenti di imprese indipendenti – «start-up» innovatrici, piccole, medie e grandi imprese nonché organismi di ricerca – attivi in un particolare settore o regione e destinati a sti- molare l’attività innovativa incoraggiando l’interazione intensiva, l’uso in comune di installazioni e lo scambio di conoscenze ed esperienze, nonché contribuendo in maniera effettiva al trasferimento di tecno- logie, alla messa in rete e alla diffusione delle informazioni tra le imprese che costituiscono il polo» (par. 2.2, lett. m). In dottrina, tra i molti contributi disponibili, cfr. X. Xxxxxxxxxx, Sviluppo locale e rete di imprese, in Economia nazionale, 2006, 31.
hanno a che vedere con un certo territorio. Xxxx, come sostenuto da taluno, la legge ita- liana sul contratto di rete avrebbe assegnato la vittoria a quanti vedevano il fenomeno della rete di imprese non soltanto in senso distrettuale, ma distinto e autonomo rispetto
65 alle aggregazioni a base territoriale tipiche dei distretti industriali7.
Certo, il tema della competitività delle PMI italiane, prima, ed europee, oggi, con- tinua ad essere affrontato in chiave distrettuale e una parte preponderante della letteratu- ra economica e aziendalistica si è soffermata sui distretti industriali, come luoghi nei quali le economie di agglomerazione sono state la fonte del vantaggio competitivo delle
70 imprese8.
Appare subito evidente che la capacità di innovazione è uno degli elementi sui quali dovrebbe far leva la strategia di crescita delle imprese, soprattutto nella prospetti- va di quella cooperazione necessaria per raggiungere la dimensione ottima minima che individualmente è pressoché impossibile. Dunque, innovazione e competitività – che
75 pure non appartengono al gergo dei giuristi – divengono due obiettivi (anche se in rap- porto di mezzo al fine) il cui perseguimento deve essere assicurato anche dalle norme giuridiche.
3. Ancora sulla competitività come elemento finalistico.
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In effetti, l’art. 4-ter della legge sul contratto di rete (come modificato dal D.L. 78/2010) è piuttosto chiaro al riguardo: il contratto di rete è uno strumento per accresce- re, individualmente [sic!] e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato. Nella disposizione, i due concetti sono legati da una congiun-
85 zione, ma concettualmente essi sono in rapporto di mezzo al fine: la capacità innovativa è lo strumento per il miglioramento della competitività. L’effetto della disposizione ora richiamata è chiaro: essa eleva al rango normativo di elemento causale una caratteristica (quella di essere innovative e, dunque, competitive) che le imprese dovrebbero avere e che il contratto di rete consente loro di conseguire9. Ma è un richiamo, per così dire,
7 X. Xxxxxxx, Il contratto di rete: uno strumento per la crescita?, in <xxxx://xxx.xxxxxxxxx.xxx/> (ultima visita 8 maggio 2011).
8 All’interno di una letteratura economica e giuridica alluvionale cfr. Associazione Italiana della Produ- zione (a cura di), Reti d’impresa oltre i distretti, Milano, 2008; X. Xxxxxx, X. Xxxxxx (a cura di), I distretti industriali del terzo millennio. Dalle economie di agglomerazione alle strategie d’impresa, Bologna, 2007; X. Xxxxxxxxx, Il distretto industriale, Torino, 2005; Fondazione Cotec (a cura di), Politiche Distret- tuali per l’Xxxxxxxxxxx xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxx, 0000; X. Xxxxxxxxx, Distretti tecnologici e sviluppo locale: metodologie di identificazione e di analisi, disponibile alla seguente URL: <xxxx://xxx.xxxxxxxxx- xxxxxxxxxxx.xx/xxxx.xxx> (ultima visita 8 maggio 2011); X. Xxxxxxxx, Distretti industriali e distretti high tech, Economia senza gabbie. Studi in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxx, a cura di X. Xxxxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 0000; X. Xxxxxxxx, Lo sviluppo dei distretti industriali, Xxxx, 0000. Per completez- za va sottolineato che esistono contributi disposti a riconoscere che il successo di alcuni distretti ad alta tecnologia (segnatamente, Cambridge) debbono la propria fortuna oltre che alle agglomeration economies soprattutto a «other socio-economic mechanism that share information and create opportunities for other firms» (così S.S. Athreye, Agglomeration and growth: a study of the Cambridge hi-tech cluster, SIEPR Discussion paper 00-42, 2001, 20 (disponibile alla seguente URL:
<xxxx://xxxxxx.xxxx.xxx/xxx0/xxxxxx.xxx?xxxxxxxx_xxx000000> (ultima visita 8 maggio 2011). Le politi- che pubbliche per il rilancio della competitività delle PMI hanno progressivamente allargato il campo di azione, dalle imprese si è passati ai settori, poi ai distretti e, infine, alle filiere. Ora l’enfasi è sulle reti, che si pongono trasversalmente a tutte le tipologie esaminate.
9 Il presupposto alla base del ragionamento del legislatore appare semplicistico, poiché se è vero che la capacità innovativa incide sulla competitività, essa non è certamente l’unico elemento rilevante. Il profilo
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vuoto, nel senso che il significato delle formule deve essere ricercato al di fuori del di- scorso giuridico.
Né competitività, né innovazione appartengono alla terminologia del giurista. So- prattutto per quanto riguarda la competitività, occorre rifarsi agli studi aziendalistici in materia di strategia per comprenderne il significato. Non si tratta, infatti, di una caratte- ristica del mercato (alla quale dovrebbe farsi riferimento, semmai, in termini di conten- dibilità), ma di una finalità tipica dell’impresa. Gli studi sul tema hanno da tempo chia- rito che esistono sostanzialmente due tipologie di strategia competitiva per l’impresa, una fondata sulla differenziazione rispetto ai concorrenti, l’altra sul miglioramento dell’efficienza dal punto di vista dei costi (leadership di costo)10. Gli studi di strategia aziendale si concentrano, per l’appunto, sulle scelte di impresa e di selezione degli obiettivi strategici. Con specifico riferimento alla letteratura sulle reti distrettuali – alla quale si è fatto cenno – le economie di agglomerazione sarebbero elementi che, nella dinamica aziendale determinano un risparmio di costi (per esempio, di approvvigiona- mento per effetto della prossimità) o capacità innovativa funzionale alla differenziazio- ne e al lancio di nuovi prodotti. L’innovazione non è funzionale soltanto alla nascita di nuovi prodotti e, dunque, alla differenziazione dai concorrenti, ma anche alle strategie legate al costo, posto che l’efficienza produttiva dipende, tra l’altro, dalla capacità di in- novare i processi. Il diritto contrattuale – che, a sua volta, è funzionale all’acquisizione dall’esterno dell’impresa di innovazione o di fattori che incidono sulla capacità innova- tive – influisce precisamente sull’efficienza produttiva perché i costi di transazione si sommano ai costi di acquisizione di altri fattori della produzione e, di conseguenza, hanno un impatto diretto sulla profittabilità dell’impresa.
Comunque la si voglia vedere, la competitività – intesa come caratteristica che si consegue in base ad una strategia – è fortemente dipendente dal livello di innovazione dell’impresa, vuoi di prodotto, vuoi di processo11. Sono i prodotti nuovi o particolar- mente belli e distintivi a consentire una strategia di differenziazione, così come è l’innovazione di prodotto (nuovi materiali) o di processo a migliorare l’efficienza pro- duttiva o distributiva o a livello di supply chain e a consentire un risparmio di costi e, per converso, margini più elevati. Ovviamente, perché il diritto non incida negativamen- te sulla competitività, il maggior margine non deve essere eroso dalla cattiva qualità del- le norme sul contratto.
Soprattutto i documenti dell’Unione europea tengono inoltre a precisare che l’innovazione fonte di vantaggio competitivo non è necessariamente soltanto quella a contenuto tecnologico, bensì anche quella nei servizi, sotto forma di diverse modalità di organizzazione della produzione o della distribuzione, così come attraverso nuovi mo- delli di business12.
causale della competitività era stato ben messo in luce da X. Xxxxxxxxxxxx, Dal collegamento negoziale alla causa di coordinamento nei contratti tra imprese, in P. Iamiceli (a cura di), Le reti di imprese e i con- tratti di rete, Torino, 2010, 73 ss., che si era posto il problema del giudizio in ordine alla validità del con- tratto in assenza dei presupposti attuali (non potenziali) di miglioramento della competitività che la norma sembrerebbe richiedere.
10 Il riferimento è a X.X. Xxxxxx, Xxxxxxxxxxx Xxxxxxxxx, Xxx Xxxx, 0000.
11 Cfr. WIPO, Intellectual property (IP) rights and innovation in small and medium-sized enterprises, Geneva, s.d., 2. Cfr. Anche X. Xxxxxxx, Competizione di mercato e reti di ricerca e sviluppo, in Economia e politica industriale, 2006, 121.
12 Cfr. il rapporto della Commissione europea Expert Panel on Service Innovation in the EU, Meeting the Challenge of Europe 2020: The Transformative Xxxxx xx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxxx, 0000.
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Il minimo che si possa dire, relegando la casualità a un ruolo marginale, è che qualsiasi tipo di innovazione deriva da una scelta (di innovare) e da investimenti nella ricerca, nello sviluppo, nello studio, nella sperimentazione.
Dunque, il contratto di rete si candida a strumento di governo di strutture organiz- zative funzionali alla generazione, gestione e sfruttamento dell’innovazione (tecnologi- ca e non) in contesti nei quali la prospettiva individuale è insufficiente, per ragioni di dimensione degli investimenti richiesti ovvero per il necessario carattere sistematico dell’attività cui si intende dar vita, ovvero per il fatto che risorse complementari sono in mano a soggetti diversi13. Soprattutto in ottica distrettuale, il contratto di rete (e, più in generale, tutti gli strumenti negoziali a supporto della cooperazione tra imprese, primo fra tutti quello consortile) è funzionale alla produzione di nuova conoscenza scientifico- tecnologica, organizzativa, commerciale e, quindi, alla competitività dei soggetti che sono partecipi della rete.
4. Il problema della appropriazione della conoscenza scientifica e tec- nologica.
Gli economisti hanno molto contribuito alla comprensione delle dinamiche interne alla rete dal punto di vista della produzione e fruizione di innovazione o, più corretta- mente, di conoscenza scientifica e tecnologica funzionale ai processi innovativi; e se ne sono occupati in una prospettiva ormai classica che è quella della appropriabilità della conoscenza come bene pubblico14.
Per quanto riguarda le reti di imprese, il tema della appropriabilità va declinato in modo particolare per quanto riguarda le reti distrettuali, cioè quelle che insistono su un ambito geografico particolare, e che si è visto essere care alla politica industriale euro- pea secondo la terminologia del cluster. In ottica distrettuale, appropriazione della co- noscenza generata in ambito locale significa da una parte internalizzazione delle ester- nalità positive prodotte (i cd. spillover) mediante ricadute dirette sul territorio (per esempio, sotto forma di creazione di nuovi posti di lavoro qualificati)15; dall’altra vuol dire evitare che la conoscenza prodotta a livello locale vada perduta a beneficio di con- testi anche lontani rispetto al luogo di generazione, ovvero che il bilancio tra conoscen-
13 X. Xxxxxx, X. Xxxxx, X. Xxxxx, Contracting for Innovation:Vertical Disintegration and Inter-firm Colla- boration, 109 Columbia Law Review 431 (2009), hanno sostenuto che, soprattutto all’interno delle indu- strie a forte tasso di innovazione, non è l’integrazione verticale (contrariamente a quanto predice la teoria economica) la forma organizzativa dominante, ma l’integrazione mediante forme di contrattazione nelle quali l’investimento reciproco in termini di costi transattivi funge da deterrente a comportamenti opportu- nistici.
14 Una lettura introduttiva è quella classica di S.M. Xxxxx, X.X. Xxxxxxx, X.X. An Introduction to the Law and Economics of Intellectual Property, in 5 Journal of Economic Perspectives 3 (1991).
15 Una prospettiva originale è quella assunta da R.J. Xxxxxx, The Legal Infrastructure of High Technology Industrial Districts: Silicon Valley, Route 128, and Covenants not to Compete, 74 N.Y.U.L. Rev. 575 (1999), secondo il quale la competitività di taluni distretti dipenderebbe dalla possibilità di inter-firm spil- lovers, che garantirebbero il ricircolo della conoscenza e il relativo accrescimento. Da questo punto di vi- sta, un fattore decisivo – osservato per la Silicon Valley – sarebbe quello della scarsa propensione dei giudici a sanzionare gli accordi di non concorrenza dei dipendenti privati, così favorendo la mobilità e l’imprenditorialità e, soprattutto, la circolazione di quella conoscenza tacita che sfugge alla codifica e alle forme di trasferimento basata sul contratto.
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za generata localmente e perduta e conoscenza generata altrove e importata sia almeno in pareggio16.
Il contributo che i giuristi possono dare al problema dell’appropriabilità della co- noscenza nelle reti (distrettuali e non) è quello di evitare che le analisi economiche si perdano in modelli astratti, scarsamente predittivi (se non, appunto, in una improbabile realtà) e, soprattutto, incapaci di tradursi in indicazioni operative per l’accrescimento della competitività delle imprese. Ovviamente, il tema della appropriabilità è un tema giuridico e, per quella parte della conoscenza che si presta ad essere codificata e che in- tegra i requisiti positivamente previsti per la tutela della proprietà intellettuale, anche sufficientemente noto17. Meno chiaro, invece, il quadro dei riferimenti normativi che, pur non riguardando direttamente la materia delle privative, incidono, per esempio, sulla appartenenza dei risultati. Ancora meno chiaro è il rapporto tra fonti eteronome e spazi disponibili all’autonomia privata, sia pure esercitata nelle forme del contratto di rete o, il che è lo stesso, in forma consortile.
In questa sede, si tratterà del contratto di rete – a prescindere dalla rilevanza di- strettuale, o non, dell’aggregazione – quando esso è funzionale alla instaurazione di una alleanza che svolge attività di ricerca e sviluppo (R&S)18, dalla quale si attende genera- zione di conoscenza da assoggettare al regime della proprietà intellettuale e sfruttare dal punto di vista industriale (manifattura) o negoziale (concessione di licenze)19. Ovvia- mente, nella misura in cui si ritiene che il contratto di rete sia una variante malriuscita di altre figure negoziali che possono essere utilizzate per il coordinamento inter- professionale20, le considerazioni qui svolte possono essere estese ad altri contesti nego- ziali.
Dalla definizione del contratto di rete si desume chiaramente che, sulla base del “programma comune di rete” si può (i) collaborare in varie forme e ambiti (non escluso quello della R&S), ovvero (ii) scambiarsi informazioni o prestazioni di natura industria- le, commerciale, tecnica o tecnologica (come è caratteristico dello svolgimento in mo-
185 dalità congiunta di R&S), ovvero (iii) esercitare in comune una o più attività rientranti
16 Sul punto, specificamente, X. Xxxxxxx, P. Iamiceli, Le reti di imprese per la fornitura di servizi alle PMI tra innovazione e crescita imprenditoriale, in X. Xxxxx, X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxxxxxxxxx (a cura di), Reti di imprese: scenari economici e giuridici, Torino, 2007, 308.
17 Quanto alla conoscenza tacita, si ritiene comunemente che la prossimità tipica dei contesti reticolari (soprattutto distrettuali) sia il fattore che ne consente la circolazione. Giuridicamente, posto che la cono- scenza tacita risiede nel capitale umano, ciò che rileva è la disciplina del contratto di lavoro. Sul punto, tra gli economisti, cfr. X. Xxxxx, X. Foray, The Economics of Codification and the Diffusion of Knowledge, in 6 Ind. & Corp. Change 601 (1997). Un primo tentativo di elaborare una tassonomia delle forme di ela- borazione della conoscenza si trova in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx, X. De Xxxxxxxx, Introduzione ai con- tratti per il trasferimento di tecnologia, Bari, 2009, 14 ss.
18 Nemmeno a dirlo, anche il tema delle reti per l’R&S è stato abbondantemente studiato dagli economi- sti, anche in rapporto allo sviluppo territoriale; cfr., ex multis, D.B. Xxxxxxxxx, M.P. Xxxxxxx, R&D Spil- lovers and the Geography of Innovation and Production, in 86 American Economic Review 630 (1996).
19 A parte la difficoltà pratica, non vi sarebbe nessun vantaggio nel distinguere le reti per la produzione di diritti di proprietà intellettuale dalle reti dirette alla sfruttamento della proprietà intellettuale (reti com- merciali e industriali), posto che ogni collaborazione in R&S nella quale sono coinvolte le imprese ha come finalità quella dello sfruttamento di quanto viene generato nell’attività concordata di ricerca.
20 Sia consentito il rinvio a X. Xxxxxxxx, Il contratto di rete: una soluzione in cerca del problema?, in Contratti, 2009, 932, ma più autorevolmente X. Xxxxxx, Dal consorzio al contratto di rete: spunti di ri- flessione, in Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 170 ss.
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nell’oggetto della propria impresa21, come è tipicamente l’attività diretta a migliorare i processi produttivi o variare la propria offerta di prodotti o servizi (art. 4-ter, come mo- dificato dal D.L. 78/2010).
Nelle reti per la R&S, la configurazione tipica della collaborazione prevede la de- finizione del problema comune e del programma di lavoro, la condivisione delle cono- scenze disponibili tra le imprese, solitamente mediante licenze incrociate (il cd. back- ground), la destinazione delle risorse finanziarie, le disposizioni relative all’appartenenza e all’utilizzo delle conoscenze attese dalla collaborazione (cd. fore- ground)22. Siffatta configurazione conosce, poi, possibili varianti quante volte nella col- laborazione siano coinvolti gruppi di ricerca di atenei o enti pubblici di ricerca (solita- mente a livello di strutture dipartimentali23) ed è previsto l’accesso a canali esterni di fi- nanziamento, a livello regionale, nazionale, europeo24. Se si guarda alla cooperazione dal punto di vista delle norme destinate a governare le varie fasi, ci si rende conto che, almeno nella configurazione voluta dal legislatore, un ruolo centrale è rivestito dall’autonomia privata, che si esplica attraverso il contratto di rete e, soprattutto, in quella parte di esso (integrata nel testo o suo allegato) rappresentata dal programma co- mune.
Tuttavia, la cooperazione in R&S conosce altri livelli normativi, rappresentati – nell’ordine logico in cui si incontrano – dalle norme dettate dall’ente che dispone dei fi- nanziamenti, dalle norme sugli aiuti di stato (soprattutto quando il finanziamento è pub- blico), da alcune norme antitrust, dalle norme in materia di diritti di proprietà intellet- tuale e, nei casi in cui si dirà tra un istante, dalle norme del codice civile25. Non si può trascurare il ruolo degli accordi interprofessionali, quello di talune consuetudini e quello delle cd. buone pratiche, che in alcuni settori riscontrano un certo livello di diffusione. Per questo verso, quello delle reti di impresa è soprattutto un tema di fonti di produzio-
21 Xxxxx scorta di questa previsione, diventa veramente arduo negare la natura consortile del contratto di rete. Problematico, invece, comprendere le conseguenze giuridiche se della rete per la R&S entrano a far parte imprese nel cui oggetto sociale non solo la ricerca non è espressamente compresa (la ricerca potreb- be implicitamente considerata attività strumentale all’oggetto statutario) ma espressamente esclusa.
22 Sui contenuti delle collaborazioni in R&S (inclusi i rapporti di committenza) si veda il sempre attuale
X. Xxxxxxx, Commercio e servizi, Bologna, 1988, 475.
23 Non è priva di aspetti problematici la partecipazione al contratto di rete di soggetti diversi dalle impre- se, poiché la definizione data dalla legge fa riferimento esclusivamente a “più imprenditori” e di “eserci- zio delle proprie imprese” (art. 4-ter), sicché ci si potrebbe chiedere se possa considerarsi ancora un con- tratto di rete quello cui prenda parte una università, come in effetti pare emergere sia sulla base della pras- si sia sulla base delle fonti europee; cfr. X. Xxxxxxxx, La gestione della proprietà intellettuale nella ricer- ca pubblica. Invenzioni accademiche e trasferimento tecnologico, Bologna, il Mulino, 2010.
24 Deve essere ricordato che, per effetto della modifica al titolo V della Costituzione e, in particolare, all’art. 117, anche le Regioni hanno acquisito competenza in materia di ricerca scientifica e tecnologica, che esercitano nell’ambito dei piani operativi regionali (POR). In dottrina, cfr. X. Xxxxx, Ricerca scientifi- ca ed innovazione tecnologica nel nuovo riparto di competenze fra stato e regioni, in Giur. it., 2005, 1795. Molto spesso, le fonti regionali predeterminano le sorti della proprietà intellettuale derivante dal progetto finanziato e incidono, così, sul concreto assetto di interessi al quale le parti intendono dar vita.
25 Un aspetto centrale per la cooperazione orizzontale in R&S è quello della compatibilità degli accordi con le norme antitrust. Come noto, nell’Unione europea vige un’esenzione di blocco ex art. 101, comma 3, del Trattato, per gli accordi di ricerca e sviluppo, disposta mediante Regolamento EU 1217/2010. Sul trattamento antitrust degli accordi orizzontali di ricerca e sviluppo alla luce della disciplina previgente sia consentito il rinvio a X. Xxxxxxxx, Gli accordi di cooperazione, in X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxxx (a cura di), La concorrenza, Torino, 2006, 75 ss.
ne del diritto, nel quale non è raro imbattersi in norme regionali dal ruolo progressiva- mente crescente, in funzione del ruolo che le Regioni assumono nel finanziamento della R&S.
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Le fonti eteronome – in questo così come in ogni altro ambito – possono produrre norme imperative (come, per esempio, nel caso della disciplina sugli aiuti di stato) op- pure supplire l’autonomia privata mediante norme dispositive. Va da sé che se l’obiettivo di politica industriale è favorire la collaborazione tra imprese, quello di poli- tica del diritto dovrebbe essere quello di assecondare la medesima finalità. Il come è agevolmente individuabile sulla base della nozione stessa di competitività: nella misura in cui il diritto contrattuale è un fattore della produzione, esso dovrebbe essere disponi- bile al costo più basso. Un cattivo diritto dispositivo, che costringa sistematicamente al- la deroga, probabilmente finisce per creare costi alle imprese, tali da compromettere, anziché favorire, la competitività26.
Nonostante la constatazione che precede, circa il ruolo del diritto dispositivo, non si rinvengono nella legge sul contratto di rete norme suppletive a disciplina della titola- xxxx e delle modalità di sfruttamento della proprietà intellettuale attesa dalla collabora- zione. Come si diceva in principio, la causa di questa lacuna può essere accidentale, op- pure potrebbe essere voluta, nel senso che il legislatore ha inteso o come troppo compli- cato il compito di scrivere norme dispositive, ovvero superfluo, posto che, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, si rinvengono spunti normativi quantomeno per ab- bozzare una disciplina della proprietà intellettuale nelle reti per la R&S. È appena il ca- so di osservare che una lacuna su questi aspetti, se non colmata, si risolve in una seria ragione di sottoutilizzo della proprietà intellettuale e, in ultima analisi, in una frustra- zione delle finalità della cooperazione27. Se, dunque, non serve un contratto per far sor- xxxx una rete di imprese o una distretto, è indispensabile – almeno nella configurazione normativa attuale – un programma di rete dal contenuto regolamentare per disciplinare i molteplici aspetti della cooperazione in R&S e i ben più complicati aspetti relativi alla gestione della proprietà intellettuale, per l’ovvia ragione che, non essendo chiari gli aspetti su titolarità, utilizzo, gestione dei diritti, anche il sistema degli incentivi indivi- duali risulta indebolito28. Basta ragionare sulla durata dei diritti di proprietà intellettuale per rendersi conto della necessità di regolare, ben oltre la collaborazione che li ha gene- rati, tutti gli aspetti relativi alla manutenzione dei relativi titoli (compresa la gestione del contenzioso) e al loro sfruttamento.
Deve essere incidentalmente notato che, nella misura in cui il contratto di rete – e forse più specificamente il programma di rete – contiene disposizioni circa il trasferi- mento di diritti di proprietà intellettuale, ovvero costituisca, modifichi o trasferisca dirit- ti personali o reali aventi ad oggetto diritti di proprietà intellettuale, esso deve essere re- so pubblico mediante la trascrizione presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi, così co- me previsto dall’art. 138, comma 1, lett. a) e b) del Codice della proprietà industriale. Si tratta, evidentemente, di un’altra formalità a carico delle imprese partecipanti. Nella formazione della nota di trascrizione da presentare all’Ufficio per la trascrizione, il
26 Per una riflessione giuridica ed economica (non solo dal punto di vista delle imprese) sulla qualità della produzione normativa cfr. X. Xx Xxxxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, La qualità delle regole, Bologna, 2011.
27 Come hanno scritto Cafaggi, Xxxxxxxx, Le reti di imprese, cit., 308, si tratta di «definire meccanismi adeguati di circolazione che contemperino remunerazione degli investimenti e progresso tecnologico».
28 Sul ruolo sia normativo, sia regolamentare del contratto di rete cfr. Cafaggi, Reti contrattuali, cit., 440.
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compito delle imprese appartenenti alla rete è però facilitato dal fatto che l’art. 138, comma 3, presuppone la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, cioè le medesime previste per il contratto di rete dall’art. 4-ter.
Il problema dell’appropriabilità della conoscenza all’interno delle reti è affrontato dalla dottrina in rapporto a quello della governance della rete, cioè dei meccanismi isti- tuzionali che dovrebbero garantire il funzionamento della rete stessa29. A scanso di ot- timismi prêt-à-porter, deve essere precisato che, data la complessità degli aspetti relati- vi alla gestione della conoscenza proprietaria, non basta di per sé creare una rete per ri- solvere il problema; anzi, in taluni casi è per l’appunto la creazione della rete a generare un problema che, nella prospettiva dell’impresa singola o di scelte di integrazione strut- turale, non si porrebbe nemmeno. Né le soluzioni di governance possono rimanere su un livello astratto; il problema della appropriabilità (nella sua accezione più lata) non va af- frontato nel vuoto, ma tenendo conto del dispiegarsi degli interessi in gioco (come per esempio quello degli enti pubblici di ricerca a vedersi riconosciuta la titolarità, almeno in parte, del foreground, visto che anche su questi aspetti ricevono valutazione ministe- riale, mediante le procedure ANVUR).
5. Segue. Modelli di appropriazione.
Per comprendere quanti a quali modelli di appropriazione sono disponibili nella cooperazione in R&S che produce diritti di proprietà intellettuale, è necessario conside- rare due distinte ipotesi30; il tentativo di creare una tassonomia dovrebbe tornare utile se il legislatore o, più auspicabilmente, possibili manifestazioni di autonomia privata, do- vessero mettere in campo proposte di regolamentazione. Verificati in astratto i modelli, occorrerà confrontare ciascuna fattispecie con eventuali vincoli derivanti dai livelli normativi ai quali si è fatto cenno in precedenza. Non sarà presa in considerazione la re- te che si costituisce per fornire (anche all’esito di una procedura di selezione) prestazio- ni di ricerca e sviluppo per conto di terzi, perché una fattispecie di questo tipo può esse- re trattata in modo appropriato dal punto di vista dell’appalto. Peraltro, in questo caso le problematiche relative alla proprietà intellettuale sono ridotte, poiché solitamente il committente rivendicherà a sé la proprietà del foreground e pretenderà eventualmente una licenza sul background dominante31.
La prima distinzione da introdurre è quella tra rete di imprese che, al fine di ac- quisire conoscenza, si pone come committente, da quella in cui la rete svolge diretta- mente (mediante tutti o parte dei soggetti coinvolti) attività di ricerca preordinata alla generazione e alla appropriazione. Si può ipotizzare una rete di imprese di un settore de-
29 Cafaggi e Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 317, sostengono che la creazione della rete e la sua gover- xxxxx sono una risposta al problema della appropriabilità della conoscenza a livello distrettuale. Se ciò è vero per la conoscenza tacita (vista la tendenziale localizzazione delle fonti: gruppi di ricercatori, imprese consolidate, consulenti, strutture intermedie, ecc.), non lo è necessariamente per quella codificata o codi- ficabile, come si dirà nel testo. Sul ruolo della rete rispetto alla conoscenza tacita cfr. più diffusamente
M.A. Xxxxx, Xxxxxxxxxxx e conoscenza, in X. Xxxxxxx (a cura di), Reti di imprese tra regolazione e norme sociali, Bologna, 2004, 345.
30 Incidentalmente, va notato che la condivisione dei risultati è più complessa là dove aumenta la distanza tra le imprese; ne discende che le reti distrettuali si avvantaggiano della prossimità come fattore di scam- bio.
31 Naturalmente il committente ha anche gli strumenti per ottenere la titolarità dei risultati, potendo consi- derare questo aspetto come rilevante ai fini della selezione del contraente.
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terminato che intendano migliorare l’efficienza energetica dei rispettivi cicli produttivi, affidando a un soggetto terzo lo studio e la realizzazione di una determinata soluzione tecnica.
Nel primo caso, il programma di rete prevedrà le modalità di acquisizione e rego- lerà i rapporti con il soggetto incaricato di svolgere l’attività di R&S. Quanto ai risultati, si possono immaginare tre diverse soluzioni: (i) che appartengano alla rete committente (come si è detto, la titolarità in capo alla committenza è prassi consolidata nelle com- messe di R&S), la quale li mette poi a disposizione (secondo la logica consortile) a di- sposizione delle imprese della rete stessa; (ii) che appartengano alla controparte la quale procederà a licenziarli (per lo più in esclusiva) alla rete committente; e (iii) che vi sia una situazione di co-titolarità e licenze incrociate tra titolari affinché ciascuno possa uti- lizzare i risultati per le proprie finalità. In quest’ultimo caso, chi ha svolto la ricerca su commissione può avere interesse a una licenza per campo d’uso sperimentale sui risulta- ti, al fine di proseguire l’attività investigativa32.
Salvo quanto si dirà a proposito della co-titolarità dei diritti di proprietà intellet- tuale, le tre fattispecie considerate non incontrano particolari vincoli giuridici. Quando, però, il soggetto incaricato di svolgere la ricerca è un ateneo o altro ente pubblico di ri- cerca co-finanziato con denaro pubblico, si possono configurare aiuti di stato cd. indiret- ti a favore della rete committente, destinataria ultima dei benefici derivanti dalla ricer- ca33. Si tratta di un’eventualità contemplata dalla Comunicazione della Commissione del 2006 in materia di aiuti di stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione (2006/C 323/01)34, a mente della quale, perché non si abbia aiuto di stato, devono essere rispetta- te le condizioni previste dall’art. 3.2.2. della Comunicazione stessa35.
Più articolata è la situazione cui dà vita un contratto di rete il cui programma di at- tività preveda lo svolgimento in comune di un’attività di R&S in una dimensione auten- ticamente cooperativa36. In questo caso, le opzioni circa l’appartenenza dei risultati pos-
32 Soprattutto nel caso di un ente pubblico di ricerca, la riserva di campo d’uso è necessaria a garantire uno spazio di libertà anche al di fuori degli angusti limiti dell’eccezione sperimentale ex art. 68, comma 1, lett. a) del Codice della proprietà industriale.
33 Si dicono indiretti perché l’immediato beneficiario della sovvenzione alla R&S è l’ente pubblico, ma i risultati della ricerca vengono trasferiti al committente, che paga soltanto per una parte del loro costo.
34 In G.U.C.E. C 323 del 30 dicembre 2006, 1. Sul particolare regime di favore per gli aiuti di stato nella R&S, anche a beneficio di PMI, cfr. art. 31 ss. del Regolamento (CE) n. 800/2008, del 6 agosto 2008, che dichiara compatibili con il mercato comune in applicazione degli articoli 87 e 88 del Trattato certe cate- gorie di aiuto, in G.U.U.E. L 214 del 9 agosto 2008, 3.
35 Oltre all’ipotesi in cui il costo integrale della ricerca (comprensivo di una quota dei costi generali di funzionamento dell’ente) sia coperto dal privato, le altre due soluzioni individuate nelle quali non si veri- fica l’aiuto si hanno quando i risultati suscettibili di formare oggetto di diritti di proprietà intellettuale ap- partengono in prima battuta all’ente pubblico, ovvero quando il privato, al fine di vedersi trasferiti detti risultati, paghi il corrispondente prezzo di mercato. Sul punto sia consentito il rinvio a X. Xxxxxxxx, La selezione del contraente nella valorizzazione dei risultati della ricerca all’interno degli enti pubblici, in Studi in onore di Xxxx Xxxxxxxx, Napoli, 2011.
36 Ormai i finanziamenti di rilevanti dimensioni per lo svolgimento di attività di ricerca hanno come carat- teristica quella di coinvolgere più parti, anche di più nazioni. Ne sono un esempio i programmi quadro comunitari (si veda, per il Settimo, la Decisione del Parlamento e del Consiglio, concernente il settimo programma quadro della Comunità europea per la ricerca, lo sviluppo tecnologico e le attività dimostrati- ve, 2007-2013, COM(2006) 364 final) oppure i progetti finanziati in base al programma Industria 2015, nel quadro del quale fu decisa la politica delle reti di imprese. In dottrina, X. Xx Xxxxxxx, Xxxxxxxxx xx xx-
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sono essere quattro: (i) ciascuna parte è titolare di ciò che realizza (ipotesi, tuttavia, po- co frequente, in ragione del carattere programmaticamente cooperativo dell’attività sta- bilita nel contratto di rete), (ii) tutto si considera di co-titolarità delle imprese della rete (nelle due ipotesi di co-titolarità per quota o per l’intero), (iii) tutto appartiene a un’impresa della rete, che agisce per ipotesi da mandataria delle altre, e (iv) tutto viene attribuito a un soggetto esterno alla rete, creato appositamente per la gestione dei risulta- ti37.
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Della quattro soluzioni appena elencate, l’ipotesi più comune – quella che po- trebbe definirsi ‘normale’ – è quella sub (ii). La prima ipotesi non verrà considerata, sebbene sembrerebbe contemplata dallo stesso legislatore del contratto di rete, quanto fa riferimento, nell’art. 4-ter, ad un accrescimento “individuale” (o collettivo) della com- petitività delle imprese coinvolte nella rete. Se si vuol dare significato all’aggettivo in- dividuale, occorre teorizzare quanto meno situazioni nelle quali i benefici sono generati a livello collettivo dalla rete, ma internalizzati singolarmente dai partecipanti38. Circo- stanza che, è appena il caso di aggiungere, con riferimento alla proprietà intellettuale appare improbabile, oltre che in qualche modo contraddittoria rispetto alla nozione stes- sa di rete, ma non impossibile, dal momento che la titolarità dell’impresa dipende in concreto dal fatto che l’attività inventiva sia imputabile a un dipendente. Se, anche all’interno di una attività di équipe l’invenzione è attribuibile a un solo individuo, in li- nea di principio i diritti patrimoniali sono dell’impresa datrice di lavoro.
Il concorso del personale delle imprese coinvolte nel programma di attività con- duce quasi inevitabilmente a situazioni di appartenenza congiunta, rispetto alle quali è difficile stabilire con precisione la misura del contributo individuale39. Queste due cir- costanze – ricorrenza della situazione e onerosità nella definizione delle quote di titola- xxxx – ispirano la soluzione che emerge a più riprese nel Codice della proprietà industria- le, a partire dall’art. 6: salvo convenzione contraria, trova applicazione la disciplina del codice civile in materia di comunione, in quanto compatibile40. Si tratta di un rinvio ad altro rinvio poiché, come noto, anche la prima norma in materia di comunione (art. 1100 c.c.) dichiara applicabile la normativa codicistica se nulla è previsto dal titolo o dalla legge (titolo che, nel caso del contratto di rete, sarebbe il programma comune di rete). In questo gioco di rimbalzi – che testimonia dell’imbarazzo del legislatore nel regolare la comunione di diritti di proprietà – si giunge all’art. 1101, che stabilisce una presunzione di parità delle quote tra più titolari. Dunque, per effetto dell’art. 6 del Codice della pro-
cerca e diritti di brevetto, in I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, a cura di
X. Xxxxxxx, Torino, 1999, vol. II, 1243, ove è riprodotto anche un modello di accordo.
37 Sul punto cfr. anche M.A. Xxxxx, Xxxxxxxxxxx e conoscenza, cit., 372, nonché Cafaggi, Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 317.
38 Sarebbe la situazione tipica, nella quale la formazione delle rete è finalizzata esclusivamente all’accesso a un finanziamento che sarebbe individualmente precluso, mentre ogni altro aspetto si ri- espande la prospettiva individuale.
39 Bisogna ipotizzare che i ricercatori effettivamente impegnati nella ricerca siano dipendenti delle impre- se ovvero abbiano previamente ceduto ad essere i diritti patrimoniali sui risultati dell’attività condotta. Nel caso di dipendente di ente pubblico avente finalità di ricerca o istituzione universitaria il discorso pre- senta una variante, nel caso di titolarità individuale prevista dall’art. 65, comma 1, del Codice della pro- prietà industriale.
40 Si veda anche l’ultima frase dell’art. 65, comma 1, là dove, nel caso di ricercatori dipendenti di univer- sità o enti pubblici di ricerca, si stabilisce una presunzione di parità delle quote, ove non risulti una diver- sa attribuzione.
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prietà industriale, là dove nel programma comune di rete nulla le imprese partecipanti abbiano previsto in ordine all’appartenenza dei risultati di ricerca, dovrà ammettersi una situazione di co-titolarità, all’interno della quale le quote dei partecipanti si presumono uguali41.
Il rinvio alla disciplina codicistica in materia di comunione è stato fortemente cri- ticato in dottrina42, poiché in effetti rispetto alla proprietà intellettuale determina – come si vedrà anche a proposito della rete di imprese – una situazione non ottimale, che pre- suppone una ulteriore attività di regolazione e, dunque, maggiori costi di transazione. Di fatto, però, la comunione dei diritti (di proprietà intellettuale) è la situazione che, all’esito di attività cooperativa, è più ragionevole attendersi. E, d’altra parte, sarebbe difficile presumere che, nella normalità dei casi, i partecipanti non vogliano risultare ti- tolari di un’attività che hanno concorso a finanziare in tutto o in parte.
Le soluzioni sub (iii) e (iv) sono, invece, per così dire, artificiali, nel senso che es- se intanto sono possibili, in quanto le parti le abbiano positivamente previste nel con- tratto di rete.
La prospettiva di far accrescere in capo a un soggetto della rete tutti i diritti di proprietà intellettuale avrebbe la virtù di facilitarne, effettivamente, la gestione, posto che anche tutte le procedure amministrative per l’ottenimento dei titoli sarebbero segui- te da un unico interlocutore43. Se, poi, si considera che il soggetto titolare potrebbe at- tingere al fondo comune o al patrimonio separato per la copertura delle spese, ci si rende conto che, dal punto di vista gestionale, la soluzione ha un qualche pregio, soprattutto se la rete presenta un elevato numero di imprese44. Le complicazioni di siffatto modello, invece, sono di vario ordine.
Prima di tutto, il programma comune di rete, oltre a prevedere la cessione ex ante dei diritti delle imprese in favore dell’unica individuata come futuro titolare, dovrà ob- bligare le medesime a far sì che i propri dipendenti, in quanto creatori o inventori, con- servino i diritti morali sulle creazioni intellettuali (siano esse a contenuto estetico o tec- nologico) anche là dove a richiedere i titoli non siano i rispettivi datori di lavoro, ma un’impresa terza. In caso di invenzioni di azienda (art. 65, comma 2, del Codice) o di presenza di misure di incentivazione aziendale all’attività inventiva, occorrerà altresì di-
41 Nel Codice della proprietà intellettuale è contemplato un caso di co-titolarità di diritti nella disciplina del marchio collettivo. Il legislatore impone il deposito del regolamento di uso in allegato alla domanda di registrazione (art. 11, comma 2) e ciò rappresenta indubbiamente un onere che facilita la gestione. Non sono previste disposizioni analoghe per quanto riguarda i brevetti.
42 Cfr., infra, nota 52. Per una disamina della situazione in altri ordinamenti cfr. X. Xxxxxx, La comunione di brevetto: appunti per una indagine comparatistica, in Contratto e impr., 1992, 1181.
43 Sul punto, conviene fare riferimento al documentatissimo contributo di X. Xxxxx, Reti contrattuali tra imprese e trasferimento della conoscenza innovativa, in Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 220 s., secondo il quale – in analogia con la disciplina societaria dei gruppi – ritiene che la forma più efficiente (nonché quella più diffusa nella prassi) sia quella dell’accentramento delle conoscenze in capo a un nodo della rete (che nella prospettiva delle licenze sarebbe il licenziante).
44 Quello della gestione amministrativa dei titoli di proprietà intellettuale è un problema noto al legislato- re, soprattutto in presenza di situazioni di co-titolarità. Vedi, infatti, la modifica all’art. 6 del Codice, in- trodotta col decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 131. Il nuovo comma 1-bis prevede una legittimazione disgiunta di uno dei titolari nell’interesse di tutti al compimento delle attività necessarie a nascita e man- tenimento dei titoli. Non si tratta di una panacea, posto che l’azione di uno dei co-titolari per la manuten- zione dei titoli presuppone poi necessariamente un’azione nei confronti degli altri per il recupero pro quo- ta delle spese. In questo modo, però, la parte che ha interesse a impedire la decadenza che conseguirebbe al mancato pagamento dei diritti, ha anche il potere di agire in sostituzione degli altri.
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sciplinare anche le modalità di corresponsione dell’equo premio o di pagamento dell’incentivo. Anche per queste finalità il fondo comune potrebbe evitare i problemi connessi al fatto che l’impresa tenuta a pagare i premi inventivi è diversa da quella tito- lare del rapporto di lavoro.
In secondo luogo, bisogna assicurarsi che l’impresa mandataria non passi di mano a soggetti diversi e non graditi. Opzioni o prelazioni convenzionali condizionate potreb- bero trovare applicazione in questo caso. Il rischio al quale è, invece, difficile far fronte è quello relativo al possibile fallimento dell’impresa mandataria.
In terzo luogo, se accentrare la titolarità su un’impresa della rete semplifica la ge- stione amministrativa dei titoli rispetto alla titolarità congiunta, d’altro canto presuppo- ne che si regolino, per via contrattuale, le condizioni di accesso delle imprese della rete al patrimonio di conoscenze proprietarie che ora fa capo ad una soltanto di esse. Altro compito del programma comune di rete è, dunque, quello di stabilire ex ante a quali condizioni le imprese della rete potranno accedere alla proprietà intellettuale: licenza gratuita o onerosa, certamente non esclusiva, verosimilmente senza facoltà di sub- licenziare, eventualmente per campi d’uso specifici, con dettagliate previsioni in ordine all’appartenenza dei miglioramenti45.
Perché la soluzione qui discussa non venga delineata soltanto in astratto, si deve anche tenere presente la possibilità che trovi applicazione l’art. 6, comma 3, della legge 18 giugno 1998, n. 192 (disciplina della subfornitura)46. Dunque, quanto meno nelle reti di subfornitura (che sono di natura gerarchica), l’accentramento dei diritti in capo a una sola impresa, che sia anche responsabile della filiera, dovrebbe prevedere un congruo corrispettivo a favore delle disponenti47. L’art. 6 è una norma di ordine pubblico di pro- tezione e, dunque, non derogabile48; difficile teorizzare che con un contratto per la crea- zione di una rete che svolge R&S finalizzata alla produzione in subfornitura, l’assetto giuridico del foreground possa non tener conto della sanzione di nullità colà prevista49.
45 Sul regime giuridico delle clausole (cd. grant-back) mediante le quali il titolare originario della tecno- logia si assicura l’accesso ai miglioramenti posti in essere dalle altre imprese nodo, cfr. ancora Musso, Reti contrattuali tra imprese, cit., 195 ss., che se ne occupa della prospettiva della compatibilità con il Regolamento 772/2004, sull’esenzione di blocco per gli accordi (bilaterali) di trasferimento tecnologico. Sul regolamento stesso cfr. anche X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Il nuovo regolamento (Ce) n. 772/2004 del 7 aprile 2004 sugli accordi di trasferimento di tecnologia, in Dir. comm. internaz., 2004, 653, nonché Gra- nieri, Xxxxxxxxx, Xx Xxxxxxxx, Introduzione, cit.,154 ss.
46 Cfr. X. Xxxxx, La disciplina della subfornitura, la proprietà intellettuale ed il know-how del committen- te, in Dir. ind., 1999, 19. Cfr. anche M.C. Xxxxxxxxxx, La tutela della proprietà industriale, in X. Xxxxxxx (a cura di), La subfornitura nelle attività produttive, Napoli, 1998, 290 s.
47 Le difficoltà di gestione della conoscenza e dei conseguenti problemi a livello di filiera erano già state segnalate da Cafaggi, Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 311. Si tratta di un tema complesso, affrontato an- che da autori stranieri con riferimento a filiere complesso, come per esempio quella delle biotecnologie: cfr. R.P. Xxxxxx, X. Xxxxx, Specialized Supply Firms, Property Rights, and Firm Boundaries, 13 Ind. & Corp. Change 451 (2004).
48 Come scrive X. Xxxxxxxxxx, I contratti di subfornitura, Padova, 1999, 134, la norma è stata inserita vero- similmente contro una prassi «di farsi cedere gratuitamente i progetti del fornitore per poi poter affidare la fabbricazione dei medesimi prodotti a terzi».
49 Sulla nullità di cui si parla nel testo cfr. specificamente P.M. Putti, Nullità di clausole/Proprietà del progetto, in X. Xxxx, X. Xxxxxxxx (a cura di), La subfornitura, Milano, 1999, 202 ss. D’altra parte, andreb- be anche esplorata la possibilità – tutt’altro che remota – di azionare lo strumento dell’abuso di dipenden- za economica, all’interno delle reti gerarchiche, attuato mediante condotte predatorie della conoscenza generata dalle imprese che appartengono alla rete. In generale, sull’abuso di dipendenza economica
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I profili di complessità sono notevoli: come è evidente, la situazione sub (iii) non può essere considerata come ragionevolmente desiderabile in via dispositiva da un in- sieme ampio di imprese, perché comporterebbe un enorme dispendio di costi di transa- zione rispetto ad assetti alternativi, accessibili a buon mercato. Ciò spiega perché, quan- do vi è l’esigenza di eliminare la titolarità multipla, si ricorra più spesso ad attribuire tutti i diritti a un terzo soggetto (diverso dalle imprese che partecipano alla rete), talvolta creato appositamente come veicolo per questa specifica funzione50. Anche in questo ca- so, tuttavia, permangono le difficoltà già descritte e ad esse si aggiunge quella relativa alla governance di questo nuovo soggetto.
Xxx detto per inciso, situazioni come quella di cui si sta trattando esistono in prati- ca e talora rivestono importanza cruciale in determinati comparti, ma si tratta di situa- zioni nelle quali la gestione della proprietà intellettuale riguarda titoli per anche centi- naia di unità, molteplici imprese e flussi di cassa consistenti, che giustificano la dispen- diosa opera di ingegneria istituzionale51. La domanda che ci si deve porre è se siffatte infrastrutture abbiano senso – e possano considerarsi un modello vincente al punto tale da essere adottato, sia pure come norma dispositiva, da un legislatore – nel caso di con- tratti di rete tra imprese medie e piccole, per progetti che, per quanto importanti, non hanno necessariamente quella dimensione che compensa i costi di transazione richiesti per approntare la soluzione.
6. Complessità disciplinare e alternative istituzionali.
Sussistono elementi di valutazione per concludere che, oggettivamente, il legisla- tore farebbe fatica a disciplinare con un superiore livello di dettaglio il regime della proprietà intellettuale nelle reti di imprese per la R&S; non si hanno informazioni ade- guate per proporre norme dispositive accettabili. L’unico elemento affidabile, dal punto di vista normativo, è la norma sulla comunione dei diritti di proprietà intellettuale. L’appartenenza congiunta presuppone, però, una regolamentazione, soprattutto se si considera che la comunione dei diritti di proprietà intellettuale non è di semplice godi- mento, ma configura una situazione nella quale il valore di scambio e il valore d’uso presuppongono un’attività da parte dei titolari.
Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato in maniera discutibile le norme sulla comunione civilistica quando riferite alla proprietà intellettuale (in partico-
all’interno delle reti cfr. X. Xxxxxxx, Efficienza contrattuale e reti di imprese, in Xxxxx, Xxxxxxx, Mastro- xxxxxxxxx, Le reti di imprese, cit., 356, nonché M.R. Xxxxxxx, Reti contrattuali e abuso di dipendenza economica: alla ricerca di nuove discipline?, in Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 295.
50 È la soluzione, tra l’altro, delle fondazioni associative per la scienza e la tecnologia (FAST), indicate da Cafaggi, Iamiceli, Le reti di imprese, cit., 318, come una risposta al problema del coordinamento (stesso orientamento si trova in X. Xxxxxxx, Reti contrattuali e contratti di rete: ripensando il futuro, in F. Cafag- gi, P. Iamiceli (a cura di), Reti di imprese tra crescita e innovazione organizzativa, Bologna, 2007, 445). Non può qui essere trattato il problema della compatibilità di questo assetto con le norme antitrust, quan- do l’istituzione di un’impresa comune si rivelasse di natura concentrativa; per alcuni cenni cfr. X. Xxxxxx- xx, Brevi note sulle reti di imprese tra concorrenzialità e concorrenza, in Xxxxx, Xxxxxxx, Mastroberardi- no, Reti di imprese, cit., 388 ss., ma più approfonditamente – con riferimento a tutti i profili (e sono più d’uno) di rilevanza del contratto di rete alla luce del diritto della concorrenza – C. Osti, I limiti posti dalla concorrenza al coordinamento tra imprese, in Iamiceli, Le reti di imprese, cit., spec. 147 ss.
51 L’esempio più evidente è la cooperazione tecnologica nella materia degli standard, su cui cfr. G. Co- langelo, Mercato e cooperazione tecnologica. I contratti di patent pooling, Milano, 2008.
lare, al brevetto). Si è detto, infatti, che nella comunione di brevetto il singolo co-titolare può cedere liberamente la propria quota, anche determinando il frazionamento della stessa, mentre non può, senza l’autorizzazione degli altri comunisti, sfruttare unilate- ralmente l’invenzione di cui è coautore nemmeno sotto forma di concessione di licen-
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Dunque, in assenza di previsioni in ordine all’appartenenza dei risultati della R&S, la soluzione dispositiva è quella, per lo meno nell’interpretazione della Corte di cassazione, di una comunione per quote, che dà vita a un problema noto agli economisti e studiato in rapporto al frazionamento di diritti di proprietà intellettuale in settori a for- te innovazione incrementale53.
Se riferita alla proprietà di beni mobili o immobili, una regola di comunione e, an- cor più, un’interpretazione dell’art. 1102 c.c. come quella fatta propria dalla giurispru- denza, sono giustificate dall’esigenza di assicurare la posizione proprietaria secondo una valutazione fondata sull’id quod plerumque accidit. Quando, invece, l’oggetto della comunione è un bene che, per caratteristiche intrinseche, si presta a utilizzo non rivale e che, soprattutto, non ne compromette il valore, la medesima soluzione appare meno ef- ficiente. Ed è appena il caso di aggiungere che, in assenza di deroga, essa produrrebbe la paralisi all’interno della rete di imprese, analogamente a quanto accadrebbe in assenza di regolazione (cfr., retro, par. 4).
Mai come nel caso della co-titolarità dei diritti di proprietà intellettuale è evidente la fragilità di una distinzione tra titolarità ed esercizio del diritto, cui pure la giurispru- denza (soprattutto comunitaria) ha fatto riferimento54: salvo patto contrario, il co-titolare è limitato nell’esercizio del diritto dalla co-titolarità altrui. All’interno della rete per la R&S che generi risultati sfruttabili industrialmente, le disposizioni sulla titolarità e quel- le sull’esercizio dei diritti di proprietà intellettuale sono un tutt’uno, perché è virtual- mente impossibile disporre della titolarità senza in qualche modo influenzare le forme di sfruttamento. Il minimo che il programma comune di rete possa fare, nel dare disciplina ai diritti di proprietà intellettuale nella prospettiva della comunione, è invertire la regola della co-titolarità per quota e trasformarla in una situazione di co-titolarità per l’intero; situazione nella quale i vari co-titolari possono utilizzare l’invenzione o la creazione senza dover ricorrere a una manifestazione di consenso da parte degli altri.
Le difficoltà finora incontrare dovrebbero fornire alle imprese e ai decisori pub- blici una prima indicazione di metodo. Talvolta appare una soluzione conveniente quel-
52 Così Cass. 22 aprile 2000, n. 5281, in Foro it., Rep. 2000, voce Brevetti, n. 29, per esteso in Giust. civ., 2000, I, 2245, con nota di X. Xxxxxxxxx, La comunione di brevetto tra sfruttamento diretto e indiretto, in- dividuale e collettivo, nonché in Giur. it., 2001, 1894, con nota critica di X. Xxxxxx, Uno per tutti e tutti per uno: comunione di brevetto e istruzioni per l’uso in un precedente della suprema corte (ovvero: il - resistibile - fascino della disciplina codicistica). Anche la giurisprudenza di merito più risalente condivi- deva questo punto di vista: X. Xxxxxxx 29 giugno 1982, in Foro it., Rep. 1983, voce Provvedimenti di urgenza, n. 166, per esteso in Riv. dir. ind., 1983, II, 165. In dottrina, contro l’idea di un utilizzo plurimo del brevetto da parte di più titolari si era espresso X. Xxxx, I diritti sulle invenzioni e sui modelli industria- li, III ed., Milano, 1990, 249, nel presupposto che, essendo il contenuto del diritto di brevetto connotato sostanzialmente come un diritto di escludere (e non di attuare), esso «verrebbe radicalmente negato da uso plurimo».
53 Cfr. l’ormai classico X. Xxxxxxx, Navigating the Patent Thicket: Cross Licenses, Patent Pools, and Standard-Setting, in 1 Innovation Policy & Economics 119 (2001).
54 Soprattutto in relazione all’esigenza disciplinare i diritti di proprietà intellettuale alla luce delle norme sulla libera circolazione delle merci. Per una breve descrizione dell’evoluzione, cfr. X. Xxxxxxxxx, Diritto privato della comunità europea, X xx., Xxxxxx, 0000, spec. 517 ss.
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la di creare strutture ‘terze’ alle quali attribuire non soltanto le funzioni di R&S, ma ad- dirittura la titolarità dei risultati, a beneficio della rete, soprattutto nell’ottica distrettua- le. Vi è forse la convinzione che un assetto siffatto possa evitare dispersioni di cono- scenza al di fuori del territorio, non adeguatamente compensate dai flussi in entrata. Tuttavia, se non si dispone di soluzioni dei problemi nel merito, una strategia di questo tipo rischia di trasformarsi soltanto in una linea di produzione di scatolame istituzionale, nel quale oltre all’insoluto problema della gestione della proprietà intellettuale, si ag- giungono ovvie difficoltà di governo.
Servirebbero, piuttosto, modelli di regolazione da proporre alle PMI che creano organizzazioni a rete mediante il contratto e devono dare contenuto al programma co- mune; certamente un qualche livello di modularità delle soluzioni proposte aiuterebbe a fronteggiare la varietà di situazioni che si possono avere nella pratica. La vera questione istituzionale è quella relativa a quale sia il soggetto nella migliore condizione di fornire un diritto contrattuale dispositivo di qualità tale da non indurre la deroga, se non a un sottoinsieme trascurabile di soggetti. Non bisogna guardare necessariamente al legisla- tore per avere una soluzione, anche se dispositiva; in fondo, le reti distrettuali si sono sviluppate per lo più al riparo dall’ansia normativa dei parlamenti; si è in presenza di un fenomeno ancora sostanzialmente ispirato dal mercato, per usare le parole della Com- missione europea.
Un ruolo potrebbe essere rivestito dalla lex mercatoria che però, sul punto, ancora non è emersa. Si segnala, invece, un compito per le associazioni di categoria e per tutti gli enti intermedi, che potrebbero utilmente predisporre modelli o raccogliere buone pratiche di settore (best practices) a vantaggio delle imprese55.
La Commissione europea, in una Raccomandazione del 2008, ha proposto un co- dice di buone pratiche per la gestione dei diritti di proprietà intellettuale, quando nella cooperazione sono coinvolte istituzioni pubbliche di ricerca56. E d’altra parte, la stessa Commissione, nell’ambito dei programmi quadro europei per la ricerca, ha da tempo messo a disposizione dei partecipanti alla ricerca (che nulla esclude poter essere una re- te di imprese eventualmente transnazionale) un modello di consortium agreement, noto come DESCA, molto apprezzato dalle imprese e dagli enti di ricerca, anche per le carat- teristiche di modularità57. Una porzione significativa del modello disciplina il regime della gestione dei diritti di proprietà intellettuale pregressi e attesi.
Le buone pratiche non sono tecnicamente fonti del diritto; esse, però, rappresenta- no un primo elemento (di natura oggettiva) che potrebbe avere accettazione diffusa a li- vello di imprese tale da produrre una qualche forma di convinzione circa l’obbligatorietà, sfruttando la rete e le tecnologie dell’informazione come canale di dif- fusione. Da un certo punto di vista, le buone pratiche potrebbero essere la materia prima
55 Degno di nota è il lavoro svolto da ASTER, agenzia della Regione Xxxxxx-Romagna, di elaborazione di un modello contrattuale per la cooperazione in R&S, che dovrebbe costituire una base di partenza per tutti i rapporti tra soggetti che accedano a finanziamenti sulla base di misure regionali. Porzioni del modello sono riprodotte, all’interno della parte dedicata ai contratti di cooperazione tecnologica in Aa.Vv., Con- tratti. Formulario commentato, a cura di X. Xxxxxxx, Milano, 2011.
56 Cfr. Commission Recommendation on the management of intellectual property in knowledge transfer activities and Code of Practice for universities and other public research organisations, COM(2008) 1329, in particolare gli allegati I e II.
57 Il DESCA (acronimo di Development of a Simplified Consortium Agreement) è liberamente disponibi- le alla seguente URL: < xxxx://xxx.xxxxx-xx0.xx/> (ultima visita 8 maggio 2011) ed è attualmente miglio- rato e aggiornato da una serie di associazioni interprofessionali di vari Paesi europei.
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di usi commerciali che potrebbero dar vita a una nuova lex mercatoria delle reti. Ma fin tanto che non emergano elementi di obbligatorietà, modelli circolanti e buone pratiche rappresentano soluzioni accessibili alle quali gli operatori si affidano in assenza di altri modelli dispositivi. Maggiore il prestigio (data la provenienza) e l’efficienza del model- lo (dati i contenuti), maggiore la propensione delle imprese a seguirlo. La conseguenza di una progressiva adozione spontanea di modelli favorirebbe un isomorfismo mimeti- co, prodromico e preparatorio, o addirittura sostitutivo, di quello istituzionale di tipo coercitivo che si verifica in presenza di fonti normative a livello primario o seconda- rio58.
Questo riferimento ai concetti del neoistituzionalismo sociologico testimonia co- me sia difficile condurre il discorso sul contratto di rete e sulle reti di imprese in una prospettiva esclusivamente giuridico-dogmatica. Eppure, occorre sfuggire alla tentazio- ne di considerare il tema come prevalentemente assorbito in una dimensione esclusiva- mente giuridica o esclusivamente economica o sociologica. Le motivazioni intrinseche ed estrinseche della circolazione del modello, nonché i meccanismi di imitazione e fi- nanche le conseguenze sono temi sociologici. Ma i possibili modelli di prestigio che di- vengono oggetto di imitazione e iniziano a circolare – all’interno delle reti e poi da una rete all’altra – sono frutto anche di logica di efficienza economica, che è prodotta dalla qualità della norme e dalle validità delle soluzioni proposte che devono rispettare tutti i vincoli dell’ordinamento e non ispirarsi a idee puramente teoriche. Soluzioni che, come si è cercato di evidenziare nelle pagine che precedono, presuppongono un raffronto tra modelli astratti, interessi concreti e vincoli istituzionali provenienti da altri ambiti dell’ordinamento giuridico.
Un punto di partenza sul quale riflettere è certamente quello della comunione di diritti di proprietà intellettuale e delle interpretazioni correntemente proposte per le norme codicistiche in materia di prerogative dei co-titolari. Se anche apparisse come un aspetto minore, varrebbe la constatazione che “meglio è la piccola certezza che la gran bugia”59. Il dato importante, però, non è il valore assoluto del costo della norma, ma quello relativo della sua sostituzione, che nell’ottica di una PMI ha certamente un rifles- so sull’efficienza produttiva e, dunque, sulla competitività.
58 Come noto, la nozione di isomorfismo normativo è stata sviluppata da X. Xxxxxx, X. XxXxxxxx, The iron cage revisited: Institutional isomorphism and collective rationality, in 48 American Sociological Re- view 147-160 (1983), a partire dal concetto di isomorfismo organizzativo inizialmente elaborato da X. Xxxxx, X. Xxxxx, Institutional organizations: Formal structures as myth and ceremony, in 83 American Journal of Sociology 340-363 (1977). In Italia, uno scritto interessante, su un tema in qualche modo con- nesso a quello oggetto di queste pagine (i regolamenti universitari in materia di generazione e gestione della proprietà intellettuale) è quello di X. Xxxxxxx, X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, Institutional changes and the commercialization of academic knowledge: a study of Italian universities’ patenting activities between 1965 and 2002, Working Paper n. 11, Centro Universitario per la Valutazione e il Controllo, Università degli Studi di Siena, 2004.
59 X. Xx Xxxxx, Codice F (1492-1512 circa), Xxxxxxxxxxxx xx x’Xxxxxxxx xx Xxxxxx, Xxxxxx.