Università degli Studi di Trieste
Università degli Studi di Trieste
Dipartimento di Scienze Giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea in Diritto del lavoro
IL CALCIO PROFESSIONISTICO E IL MOBBING UNO STUDIO SU STRUMENTI DI CONTRASTO E TUTELA NEL QUADRO DELLA RIFORMA DELLO SPORT
Relatore
Xxxxx.xx Prof.ssa Xxxxxxx Xxxxx
Candidato
Xxxxxxxx Xxxxxxx
A.A. 2020/2021
A Xxxx Xxxxx,
par simpri il gno Agnul tal cîl.
Indice
pag.
Introduzione - 1 -
Capitolo 1. Il mobbing nel diritto del lavoro
1. Anatomia di un fenomeno: il mobbing | - 3 - |
1.1. I sette parametri per l’individuazione dei casi di mobbing | - 5 - |
1.2. I soggetti del mobbing: il mobbizzato | - 10 - |
1.2.1. Segue. Il mobber. Le tipologie di mobbing | - 11 - |
1.2.2. Segue. I soggetti spettatori | - 14 - |
1.3. I costi del mobbing | - 15 - |
1.4. Oltre il mobbing: stress lavoro-correlato e straining | - 17 - |
2. La tutela costituzionale e convenzionale del diritto del lavoratore «a non essere mobbizzato» - 19 -
2.1. La tutela della contrattazione collettiva - 21 -
2.2. La competenza dell’Unione Europea per la tutela dei lavoratori | - 22 - |
2.2.1. Gli interventi a livello comunitario | - 23 - |
3. La tutela penale del mobbizzato | - 25 - |
4. La tutela civile del mobbizzato | - 28 - |
4.1. L’azione contro l’azienda-mobber nel caso di bossing | - 31 - |
4.2. L’azione contro l’azienda per mobbing verticale e mobbing orizzontale | - 35 - |
4.2.1. Il giudice competente | - 37 - |
4.3. Il danno risarcibile. Il danno patrimoniale | - 38 - |
4.3.1. Segue. Il danno non patrimoniale | - 40 - |
4.4. Gli strumenti di tutela | - 42 - |
5. I tentativi di definizione della fattispecie | - 47 - |
5.1. Profili di diritto comparato: il caso della Francia | - 47 - |
5.2. Il legislatore italiano alla prova del mobbing | - 49 - |
6. Brevi considerazioni personali in itinere | - 51 - |
Capitolo 2. Profili della disciplina del calciatore professionista rilevanti in materia di mobbing
1. Brevi cenni sull’ordinamento sportivo | - 53 - |
1.1. Le “fasi” del diritto sportivo | - 55 - |
1.2. I profili rilevanti del mobbing nel calcio professionistico | - 58 - |
2. Il rapporto di lavoro del calciatore professionista. La situazione pre l. 23 marzo 1981, n. 91 - 60 -
2.1. Art. 2 l. 91/1981: il professionismo nello sport. Il requisito oggettivo e il requisito soggettivo - 63 -
2.2. L’art. 3 l. 91/1981 e l’atleta come lavoratore subordinato - 66 -
2.3. La qualificazione della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Il contrasto con la normativa FIFA - 67 -
2.3.1. Il dibattuto problema della qualificazione del rapporto dei calciatori convocati in
Nazionale | - 69 - | |
2.4. Le critiche alla qualificazione: i c. d. professionisti di fatto | - 71 - | |
2.4.1. Segue. I partecipanti ai Campionati nazionali dilettanti 2.5. Le critiche alla qualificazione: la giurisprudenza comunitaria professionismo e dilettantismo sportivo | in | - 72 - tema di - 75 - |
3. Il vincolo sportivo | - 81 - | |
3.1. Panoramica storica e natura del vincolo | - 82 - | |
3.2. L’intervento della l. 91/1981 | - 83 - | |
3.3. La sentenza Xxxxxx | - 85 - | |
3.3.1. Segue. La decisione della Corte | - 87 - | |
3.3.2. Gli effetti della sentenza Xxxxxx sull’ordinamento calcistico | - 90 - | |
3.4. La sentenza Xxxxxxx | - 91 - | |
3.4.1. Segue. La decisione della Corte | - 93 - | |
3.4.2. Segue. Gli effetti della sentenza Xxxxxxx sull’ordinamento | calcistico | |
internazionale | - 96 - |
3.4.3. Segue. Il premio di preparazione e il premio di addestramento e formazione tecnica - 97 -
3.4.4. Due casi particolari: gli artt. 33 e 116 NOIF - 99 -
3.5. Il vincolo sportivo nel dilettantismo - 101 -
3.5.1. Le modalità di svincolo per il calciatore dilettante - 102 -
3.5.2. Profili di contrasto con il diritto interno, in particolare con la Costituzione- 105 -
3.5.3. Una pronuncia rilevante del giudice di merito | - 106 - |
4. La cedibilità del contratto del calciatore professionista | - 108 - |
4.1. La normativa generale sul trasferimento e sulle cessioni di contratto | - 110 - |
4.2. La cessione a titolo definitivo del calciatore professionista | - 111 - |
4.3. La cessione a titolo temporaneo del calciatore professionista | - 113 - |
4.3.1. La risoluzione consensuale delle cessioni a titolo temporaneo | - 115 - |
4.4. Il trasferimento dei “giovani dilettanti” e dei “non professionisti” | - 116 - |
5. L’evoluzione normativa delle società di calcio professionistiche | - 117 - |
5.1. L’intervento del legislatore: la l. 586/1996 | - 119 - |
Capitolo 3. Una panoramica sulla Riforma dello sport
1. L’iter della Riforma | - 123 - |
1.1. La struttura del d. lgs. 36/2021 | - 125 - |
1.2. La proroga dell’entrata in vigore della Riforma | - 126 - |
2. La figura del lavoratore sportivo. Nuove ipotesi di configurabilità del mobbing | - 128 - |
2.1. La disciplina del rapporto di lavoro subordinato dello sportivo | - 130 - |
2.2. Il lavoro sportivo nel settore professionistico | - 131 - |
2.2.1. L’apertura delle porte del professionismo agli sport femminili | - 132 - |
2.3. Le prestazioni sportive amatoriali | - 133 - |
3. L’abolizione del vincolo sportivo | - 135 - |
3.1. La valorizzazione della formazione tout court dell’atleta | - 136 - |
4. La nuova normativa sulle società sportive, in particolare sulle finalità di lucro | - 138 - |
5. Brevi considerazioni personali in itinere sulla Riforma | - 139 - |
Capitolo 4. Strumenti di contrasto e tutela nel calcio professionistico e analisi della casistica in materia
1. Introduzione alla tematica delle tutele | - 141 - |
2. La contrattazione collettiva | - 142 - |
2.1. Il ruolo della contrattazione collettiva nella Riforma dello sport | - 145 - |
2.2. La contrattazione collettiva nel calcio professionistico: le parti coinvolte | - 146 - |
2.2.1. Il diritto di sciopero dei calciatori professionisti | - 148 - |
2.3. Le vicende del contratto collettivo LNP A-AIC del 2011 | - 150 - |
2.4. La tutela da fenomeni di mobbing nell’Accordo Collettivo: l’art. 7 | - 151 - |
2.4.1. Il tetto massimo di giocatori utilizzabili in Serie A, brevi considerazioni personali | |
sul potenziale mobbing | - 154 - |
2.5. La tutela da fenomeni di mobbing nell’Accordo Collettivo: gli artt. 11.1 e 12 | - 155 - |
3. La tutela nella normativa FIFA: l’art. 14 RSTP-FIFA e il recesso per giusta causa | - 156 - |
3.1. Segue. L’art. 15 RSTP-FIFA e il recesso per giusta causa sportiva | - 159 - |
4. La posizione dell’allenatore | - 161 - |
5. Analisi della principale casistica di mobbing effettivo o presunto nel | calcio |
professionistico in Italia | - 163 - |
5.1. Ferrario c. Napoli: un caso di mobbing negli anni Ottanta? | - 164 - |
5.2. Il leading case italiano: Xxxxx c. Montichiari | - 166 - |
5.3. La vicenda Xxxxxx x. Siena | - 168 - |
5.4. La conciliazione con altre attività e il mobbing: Rustico c. Atalanta | - 169 - |
5.5. Xxxxxxx, Xxxxxxxx e la perdita di chance | - 170 - |
5.6. Il ricorso al giudice ordinario di Xxxxxxx | - 171 - |
5.7. L’art. 7 AC A nei casi Pandev e Xxxxxxx c. Lazio | - 173 - |
5.8. Icardi c. Inter: nel 2019 il mobbing torna d’attualità nel calcio? | - 175 - |
Conclusioni | - 179 - |
Bibliografia | - 183 - |
Ringraziamenti | - 195 - |
Introduzione
«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro»: con queste parole a tratti iperboliche Xxxx Xxxxx Xxxxxxxx parlava di un fenomeno sociale, oltre che sportivo, che stava iniziando ad imporsi con forza in un’Italia impegnata a risollevarsi dalle gravi perdite della Seconda guerra mondiale.
Negli ultimi anni tuttavia il mondo del professionismo si è evoluto e si è connotato di un carattere fortemente economico1: il calciatore non svolge più l’attività solo con lo scopo di primeggiare ma ha l’interesse a trarne la maggior rimuneratività possibile. Questo ha inevitabilmente portato lo sport in generale e il calcio in particolare a doversi confrontare con le tematiche del diritto del lavoro ordinario, nei confronti del quale si è sempre posto con caratteri di accentuata specialità. Tra queste, l’opinione pubblica e la stampa hanno dimostrato nelle ultime due decadi particolare interesse per il fenomeno tanto citato quanto dai caratteri labili del mobbing. Nel presente elaborato si andrà dunque ad analizzare come la fattispecie si sia diffusa e sia stata contrastata nell’ambito degli ordinari rapporti di lavoro e in quello del calciatore professionista, al fine di valutare se e in che modo gli strumenti di tutela e di contrasto previsti dal diritto sportivo garantiscano maggiore effettività.
Nel primo capitolo ci si focalizzerà sulla tematica del mobbing in generale e si cercherà di comprendere se sia davvero necessario un intervento definitorio della fattispecie ad opera del legislatore, tenendo ben presenti la politica comunitaria e analizzando un caso in prospettiva comparatistica. A più di vent’anni dalla prima pronuncia in materia di un giudice, infatti, e nonostante qualche proposta poi accantonata, in Italia non si è ancora giunti ad una previsione normativa della fattispecie. Il punto di partenza non sarà tuttavia strettamente giuridico ma si ragionerà sugli sviluppi del fenomeno nell’ambito della sociologia e della psicologia – i primi due ad interessarsene e approfondirlo – e sui costi che questo impone sia all’azienda sia alla totalità dei
1 Un’interessante analisi dell’impatto economico-finanziario del mondo del calcio professionistico in Italia, dei ricavi e costi per le società e delle entrate che garantisce alle casse statali è affrontata in X. XXXXXXX, Il calcio italiano. Analisi, numeri, scenari e prospettive future, in LavoroDirittiEuropa (xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), 2019, III.
contribuenti. Ampio spazio sarà quindi dato alle modalità con cui la giurisprudenza ha assicurato la tutela alle vittime di mobbing in ambito penale ma soprattutto civile, ponendo in evidenza le difficoltà esistenti per chi lamenti di essere stato vessato. Ci si soffermerà inoltre sul (non) ruolo della contrattazione collettiva, attrice molto spesso ancora dormiente nell’ambito della tutela e contrasto al mobbing.
Questa prima parte sarà prodromica per affrontare la tematica cuore della ricerca, ovvero l’analisi della fattispecie nella cornice del calcio professionistico. Il secondo capitolo sarà focalizzato sugli istituti della l. 23 marzo 1981, n. 91 che hanno facilitato lo sviluppo di casi di mobbing. Si tratta in primis della riconduzione del rapporto di lavoro dello sportivo professionista nell’alveo della subordinazione e dell’abolizione del vincolo sportivo, due tematiche che sono state per lunghi anni terreno di scontro del dibattito dottrinale e della giurisprudenza in ambito domestico ma soprattutto comunitario. Nella stessa prospettiva saranno inoltre analizzate la cessione del contratto del calciatore professionista e la disciplina delle società sportive, di cui si porranno in evidenza gli elementi parzialmente derogatori rispetto alla disciplina di diritto comune.
Gli stessi istituti saranno poi affrontati alla luce della recente Riforma dello sport, della quale si tratterà nel terzo capitolo, con particolare attenzione alle novità introdotte in materia di lavoro sportivo dal d. lgs. 28 febbraio 2021, n. 36. Si tratta di un intervento con cui il legislatore ha messo mano in una materia che per quarant’anni è stata retta da una disciplina di cui sono state più volte poste in risalto le lacune. Con riferimento a tali novità ci si interrogherà dunque sulla possibilità di configurare pro futuro casi di mobbing anche oltre ai tradizionali confini del calcio professionistico.
Nel quarto e ultimo capitolo l’attenzione sarà infine focalizzata sugli strumenti di tutela offerti nell’ambito del diritto sportivo, che si vanno ad aggiungere alle norme già applicabili ai rapporti di lavoro di diritto comune. Ampio spazio sarà dato al ruolo della contrattazione collettiva e alla normativa internazionale di cui si evidenzieranno i molti profili che garantiscono effettività alla salvaguardia dei diritti fondamentali. Prendendo come punto di partenza alcuni dei casi più famosi e esemplificativi tra quelli verificatisi in Italia negli ultimi anni, si cercherà di comprendere se e in che misura il contrasto al mobbing in ambito sportivo sia connotato da maggiore concretezza rispetto agli ordinari rapporti di lavoro e gli eventuali punti su cui de iure condendo sarebbe d’uopo intervenire in un’ottica di miglioramento delle tutele.
Capitolo 1. Il mobbing nel diritto del lavoro
Sommario: 1. Anatomia di un fenomeno: il mobbing - 1.1. I sette parametri per l’individuazione dei casi di mobbing - 1.2. I soggetti del mobbing: il mobbizzato - 1.2.1. Segue. Il mobber. Le tipologie di mobbing - 1.2.2. Segue. I soggetti spettatori - 1.3. I costi del mobbing - 1.4. Oltre il mobbing: stress lavoro-correlato e straining - 2. La tutela costituzionale e convenzionale del diritto del lavoratore «a non essere mobbizzato» - 2.1. La tutela della contrattazione collettiva - 2.2. La competenza dell’Unione Europea per la tutela dei lavoratori - 2.2.1. Gli interventi a livello comunitario - 3. La tutela penale del mobbing - 4. La tutela civile del mobbing - 4.1. L’azione contro l’azienda-mobber nel caso di bossing - 4.2. L’azione contro l’azienda in caso di mobbing verticale e mobbing orizzontale - 4.2.1. Il giudice competente - 4.3. Il danno risarcibile. Il danno patrimoniale -
4.3.1. Segue. Il danno non patrimoniale - 5. Il mobbing nel mondo del diritto e i tentativi di definizione della fattispecie - 5.1 Profili di diritto comparato: il caso Francia - 5.2 Profili di diritto interno: il legislatore italiano alla prova del mobbing - 6. Brevi considerazioni personali in itinere
1. Anatomia di un fenomeno: il mobbing
A partire dagli ultimi anni del Ventesimo secolo, in Italia e nel mondo si è assistito ad un progressivo e crescente interessamento riguardo al concetto di mobbing1. L’utilizzo del termine è diventato ormai di dominio comune e trova ampio spazio nel parlato di tutti i giorni e sulle prime pagine dei quotidiani, nonostante dopo oltre un ventennio dalla prima sentenza2 in materia il legislatore non abbia ancora emanato una norma definitoria.
Il termine è un anglicismo la cui introduzione nella lingua italiana è stata vista in modo favorevole3 in quanto riesce ad esprimere al meglio e in modo diretto un concetto che altrimenti diventerebbe di difficile inquadramento. Tuttavia, un’autorevole dottrina ha fatto notare come in realtà il fenomeno in questione non sia in sé nuovo ma normale evoluzione delle conquiste giuridiche in tema di tutela dei lavoratori4: si è passati infatti da
1 Si veda, a titolo di esempio, X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Pitagora Editrice, Bologna, 1996.
2 Trib. Torino, 16 novembre 1999, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, pp. 102-109 con commento di X. XXXX, La responsabilità dell’impresa per il danno biologico subito dalla lavoratrice perseguitata dal preposto (a proposito del c.d. «mobbing»).
3 Così P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx. Vessazioni sul lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2000, p. 5-6.
4 X. XXXXXXXXX, Il Mobbing, Xxxxxxx, Milano, 2004, pp. 1-2 e id., Un’introduzione al mobbing: obbligo di protezione e condotte plurime di inadempimento, in X. XXXX (a cura di), Il mobbing, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2004, p.1: l’autore fa notare come addirittura già nell’Antico Testamento sia possibile riscontrare una vicenda potenzialmente idonea a costituire mobbing, in particolare quella di Xxxxxxxx figlio di Xxxxxxxx.
una società prettamente industriale a un modello in cui ad essere posto al centro è il capitale umano, quindi il lavoratore inteso come persona portatrice di interessi5.
Dal punto di vista etimologico, il sostantivo ha una doppia derivazione6: dal verbo inglese to mob, il quale può alternativamente significare o l’affollarsi attorno a qualcuno o l’assalire in modo tumultuoso, e dal latino mobile vulgus, inteso come una sommossa senza capi. Il filo conduttore risulta dunque essere il concetto di aggressione. Il primo ad utilizzare il mobbing in questa accezione è stato Xxxxxx Xxxxxx0 nell’ambito dell’etologia, per indicare il comportamento di un branco di uccelli che si coalizzano contro un membro della stessa specie e lo aggrediscono fino a provocarne l’allontanamento8.
Xxxxx Xxxxxxx0 è stato invece lo studioso10 che ha avuto il merito negli anni Ottanta del secolo scorso, insieme ad un team di esperti, di traslare il concetto nell’ambito della psicologia del lavoro, elaborando un modello che ha trovato molta fortuna sia in ambito xxxxxxx00 che negli Stati Uniti. Lo stesso Xxxxxxx ha teorizzato che «il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e non etica ad opera di uno o più individui, diretta in modo sistematico solitamente contro un singolo il quale, a causa del mobbing, si trova in una posizione priva di difesa e aiuto e lì vi rimane a causa delle continue attività mobbizzanti. Queste azioni sono effettuate con un’alta frequenza (statisticamente: almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo (statisticamente: almeno sei mesi). A causa della alta frequenza e della lunga durata il comportamento dà origine a seri disagi psicologici, psicosomatici e sociali»12.
5 Illuminante in questo senso l’intuizione di X. XXXXX, Il mobbing tra esigenze preventive e tecniche risarcitorie. Profili comparati, Dir. relaz. ind., 2006, IV, pp. 1052-1053.
0 X. X. X. XXXXXXXX-X. XXXX-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 6.
7 Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxx (7 novembre 1903-27 febbraio 1989), fu zoologo e etologo.
8 Cfr P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx. Il rischio psicosociale nelle organizzazioni, Xxxxxxx Editore, Roma, 2013, pp. 27- 28.
9 Xxxxx Xxxxxxx (17 luglio 1932-26 gennaio 1999) è lo psicologo svedese a cui va dato il merito di aver teorizzato un fenomeno che lentamente si è espanso in tutto il mondo.
10 Tuttavia in X. XXX, La valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx, Milano, 2019, p. 38, si fa notare come già Xxxxxxxxx, anch’egli studioso svedese, nel 1972 avesse usato il termine mobbing per indicare tutte quelle situazioni comportamentali che al giorno d’oggi vengono pacificamente fatte rientrare nel concetto di “bullismo”.
11 In Francia, paese pioniere dell’Europa Continentale della lotta al mobbing, si forma fin da subito una corposa letteratura in materia. M.F. HIRIGOYEN, Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro (1998), trad. it. Xxxxxx Xxxxxxx Editore, Torino, 2000.
12 Traduzione di chi scrive da X. XXXXXXX, The definition of mobbing at workplaces, The mobbing Encyclopedia, xxx.xxxxxxx.xx.
In Italia la definizione è ripresa da Xxxxxx Xxx00, il quale afferma che: «Il Mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite violenza psicologica, fisica e/o morale, una o più vittime vengono costrette ad esaudire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e/o la professionalità della vittima. Le conseguenze psicofisiche di un tale comportamento aggressivo risultano inevitabili per il mobbizzato»14.
1.1. I sette parametri per l’individuazione dei casi di mobbing
A partire dalle due definizioni riportate, Ege elabora i sette parametri fondamentali che devono tassativamente verificarsi affinché si possa avere mobbing15. Tali parametri sono: 1- L’ambiente lavorativo. Xxx ritiene che gli episodi di mobbing possano verificarsi solo all’interno dell’ambiente lavorativo. Tuttavia una parte della dottrina, sfruttando l’elasticità del termine e facendo leva su alcune pronunce giurisprudenziali, ha cercato di estendere la questione e di conseguenza le tutele anche ad altri ambiti, per esempio il “mobbing immobiliare”16 e il “mobbing famigliare”17. Lo psicologo ritiene inoltre che sia sufficiente che il conflitto si svolga sul luogo di lavoro, indipendentemente dal rapporto contrattuale intercorrente tra le parti18, idea che contrasta con l’inquadramento del fenomeno all’interno dell’art. 2087 c. c.19.
2-La frequenza. Questo criterio, insieme al successivo, è molto importante per distinguere una singola azione ostile da una serie di condotte vessatorie che possono dar vita al mobbing. Xxxxxxx ha ritenuto che affinché sia possibile parlare di mobbing, queste
13 È psicologo e fondatore nonché presidente di PRIMA, Associazione italiana contro Mobbing e Stress Psicosociale.
14 Definizione del 2001 di Ege riportata in X. XXX, La valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., pp. 48-49.
15 Tali parametri sono spesso utilizzati anche dalla giurisprudenza chiamata a decidere sulle questioni di mobbing. Ex multis: Cass. civ. sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037 in Xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 28 luglio 2015 con nota di X. XXXXXX.
16 X. XXXXXXX, Mobbing immobiliare, in Giur. It., 2018, III, pp. 609: per “mobbing immobiliare” si intende la serie di azioni giudiziarie, anche senza fondamento giuridico, poste in essere dal locatore al fine di portare il conduttore a lasciare l’immobile.
17 P.G. MONATERI P.G.-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 15; M.R. MOTTOLA, Mobbing e comportamento antisindacale, Torino, UTET, 2003, pp. 29-30. In questo caso ovviamente lo scenario non è più quello aziendale ma quello della famiglia: uno dei due coniugi sfrutta il proprio potere con lo scopo di annientare psicologicamente il partner al fine di costringerlo ad abbandonare il nucleo famigliare.
00 X. XXX, Xx valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 70
19 Sul punto vedi infra capitolo 1 § 4.
debbano avvenire con cadenza almeno settimanale; Ege invece, adattando i risultati all’esperienza italiana, ritiene debbano essere perpetrate «alcune volte al mese»20.
3- La durata. Anche in questo caso Xxxxxxx, nel tentativo di fornire degli indicatori empirici per il fenomeno del mobbing, ha stabilito che le condotte devono susseguirsi per almeno sei mesi. Ege, dal canto suo, cerca di attribuire alla fattispecie una maggiore elasticità e ritiene che la durata possa sforare in difetto il termine semestrale, purché le condotte vessatorie si susseguano per almeno tre mesi e la peculiarità del caso concreto ponga in risalto azioni ostili molto frequenti (cd. Quick mobbing) 21. La giurisprudenza, tuttavia, in merito a frequenza e durata non ha mai ritenuto necessario individuare tassativamente degli indicatori minimi, oltre al requisito necessario della pluralità delle azioni, lasciando ampio spazio al convincimento del giudice chiamato a dirimere la controversia22.
4- Tipo di azioni. Xxxxxxx, a partire dalla fine degli anni Ottanta ma rendendolo pubblico solo nel 1997, ha iniziato a sviluppare il “LIPT” (Leymann Inventory of Psychological Terrorism): si tratta di un questionario che tra le altre analizza e individua in via esemplificativa tutte le azioni che possono potenzialmente costituire mobbing. Ege ne acquista i diritti e, insieme a Xxxxxx Xxxx00, si rende conto che sono necessarie delle integrazioni per renderlo compatibile con la realtà italiana. Nasce così il “LIPT Ege”24: nella terza parte contiene l’elenco delle azioni mobbizzanti raccolte in sei settori25, dei quali si riportano a titolo esemplificativo le principali condotte mobbizzanti26:
I) attacchi ai contatti umani: limitazione delle possibilità di esprimersi, continui rimproveri e critiche alle prestazioni, minacce verbali e scritte;
00 X. XXX, Xx valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit, p. 73.
00 X. XXX , Xx valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., pp. 75-76.
22 Così Trib. Monza sez. lav, 28 febbraio 2019, n.31, in xxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 2 marzo 2021)
23 Xxxxxx Xxxx (13 luglio 1955-) è un professore universitario e psicologo tedesco. È il primo studioso che esporta dalla Svezia il LIPT di Xxxxxxx all’inizio degli anni Novanta, modificandolo e adattandolo a quanto accadeva sul posto di lavoro in Germania. Nel 1994 inizia a collaborare con Xxx. X. XXX, I numeri del mobbing. La prima ricerca italiana, Pitagora Editrice, Bologna, 1997, pp-19-20
24 Disponibile in via esemplificativa in X. XXX, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit.,
pp. 241-246.
25 X. XXX, I numeri del mobbing, cit., p. 24 e id., Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., pp. 77-79. Rispetto al LIPT Xxxxxxx viene aggiunto il settore VI) che funge da “cuscinetto” e permette di integrare nella fattispecie, vista la sua elasticità, anche comportamenti nuovi.
26 Così come possono essere individuate in uno dei tanti esempi di “LIPT Ege”. Ex multis, si guardi a X. XXX, I numeri del mobbing, cit., pp. 137-150.
II) isolamento sistematico: assegnazione di un posto di lavoro isolato da tutti gli altri, nessuno rivolge la parola al soggetto in questione;
III) cambiamento delle mansioni: affidamento di compiti al di sotto delle capacità, cambiamento continuo delle mansioni, svuotamento delle mansioni;
IV) attacchi contro la reputazione: pettegolezzi, attacchi per le convinzioni politiche, religiose o per la vita privata, approcci o offerte sessuali in forma verbale;
V) violenza o minaccia di violenza: minaccia di violenza fisica, violenza fisica sia minore che grave, danneggiamento di abitazione o posto di lavoro;
VI) altre azioni: creazione di un clima ostile, rifiuto sistematico delle proposte, scherno dell’aspetto fisico, esclusione da feste o altri eventi aziendali.
Si può dunque sintetizzare che le azioni in questione possono avere come obiettivi sia la persona in sé, con lo scopo di ridurne le resistenze, sia la persona come lavoratore27.
5- Dislivello tra protagonisti. Il dislivello tra le parti in questione, il mobber e il mobbizzato, non attiene nello specifico al ruolo gerarchico, bensì alla differenza di potere, alle diverse capacità di difesa, alla sensazione di impotenza. Per questo motivo la giurisprudenza ha escluso che si possa parlare di “mobbing familiare”, in quanto tra i coniugi non sussiste uno stato di subordinazione ma di assoluta parità28. Questa situazione, con il protrarsi nel tempo delle condotte, porta inevitabilmente ad un aggravamento delle condizioni di salute e alla conseguente diminuzione delle possibilità di difendersi dagli attacchi29. I fattori che possono determinare questa disparità possono essere conseguenza sia di situazioni oggettive, quali per esempio, nel mobbing verticale, la maggior influenza che può essere spesa nelle decisioni aziendali, sia di situazioni soggettive date dal sesso, dalla razza, dall’età o da caratteristiche caratteriali che rendono una persona maggiormente vulnerabile.
6. L’andamento secondo fasi successive. Tale intuizione si deve ancora una volta a Xxxxxxx, il quale, in base alle esperienze raccolte in Svezia, ha elaborato un modello a quattro fasi30
27 P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 66.
28 Cass. civ. sez I, 19 giugno 2014, n. 13983, in Dir. fam. pers., 2015, III, pp. 819-824.
29 EGE H., Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 81: sottolinea come empiricamente sia dimostrato che tendenzialmente un mobber non agisce mai da solo ma si assicura il supporto di un gruppo di persone.
30 Tale modello è ricostruito puntigliosamente in X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., pp. 28-75 e in id., Il Mobbing in Italia. Introduzione al Mobbing culturale, Pitagora Editrice, Bologna, 1997, pp. 40-45.
non cronologicamente ordinate tra loro e non necessariamente tutte presenti affinché si possa parlare di mobbing31:
1. il conflitto quotidiano: è un trampolino di lancio per lo sviluppo del mobbing. Se i conflitti infatti non cessano, è possibile che con il tempo diventino più intensi e diano così vita alla seconda fase;
2. l’inizio del mobbing e del terrore psicologico, momento in cui il conflitto si espande, diventa una costante nel tempo e i ruoli di vittima e mobber si cristallizzano. Ci si trova dunque di fronte ad una guerra sul posto di lavoro in cui il soggetto mobbizzato è colpito da costanti attacchi, dei quali molto spesso ignora il motivo e da cui non riesce a difendersi. Può accadere che in questa fase la situazione di disagio sia talmente accentuata e si passi direttamente alla quarta fase;
3. gli errori e gli abusi anche non legali dell’Amministrazione del personale. Tali organi, in presenza di più o meno chiari indicatori di una situazione di disagio vissuta da una vittima di mobbing, ad esempio le voci che girano in azienda, un calo della produzione e del rendimento o un elevato numero di assenze dal posto di lavoro, anziché muoversi per approfondire la situazione, la peggiorano ulteriormente rendendosi protagonisti di condotte che agevolano il mobber quali gli ammonimenti, i trasferimenti in altre sedi e il declassamento;
4. l’esclusione dal mondo del lavoro, quarta e ultima fase che non tutti i casi di mobbing sviluppano. Si assiste qui all’uscita del soggetto mobbizzato dal mondo del lavoro mediante dimissioni, licenziamento, prepensionamento o suicidio32. Nella vittima si sviluppano però anche delle conseguenze che eccedono il solo ambito lavorativo: sono frequenti infatti i casi di ricovero in clinica psichiatrica e di sviluppo di comportamenti criminali33.
31 È concorde sul punto anche la dottrina: X. XXXXX, Mobbing verticale, risarcibilità del danno esistenziale e parametri per la definizione del risarcimento, in Lav. giur., 2002, VI, pp. 536-564
32 Xxx, stando alle sue prime ricerche svolte in Italia e confermando dati già riscontrati in Svezia da Xxxxxxx (X. XXX, Il mobbing e la situazione italiana, in M.F. HIRIGOYEN, Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro, cit, p. 237), quantifica i suicidi dovuti a episodi di mobbing in una percentuale tra il 10% e il 20% dei suicidi totali. Lo stesso psicologo fa però notare come questo sia un dato da prendere assolutamente con le pinze in quanto le dinamiche che portano una persona a togliersi la vita sono molto complesse e solitamente non dipendono solo da un fattore ma sono frutto di una situazione ben più complessa. X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 72-74.
33 Sono frutto dell’odio che il soggetto mobbizzato coltiva e radica nelle fasi precedenti nei confronti sia del mobber che dei soggetti ritenuti, anche erroneamente, complici. Si commettono dunque azioni criminali verso la persona (minacce, aggressioni) o verso le cose (esempio classico è lo sfregio all’auto del mobber)
Nel 1997 Ege si interessa agli studi di Xxxxxxx e nota che il modello a quattro fasi, pur ben adattandosi a realtà come quelle scandinave o tedesca, in Italia si dimostra troppo approssimativo e lascia troppe questioni irrisolte. Elaborando il precedente, propone dunque un proprio modello. Questo prevede una pre-fase chiamata “condizione zero”, costituita dalla situazione comunemente accettata in Italia di conflitto fisiologico all’interno dell’ambiente lavorativo e quindi non idonea a costituire parte integrante del mobbing, il quale invece si sviluppa invece in sei ulteriori fasi34:
1. il conflitto mirato, ovvero il momento in cui viene individuata la vittima verso la quale è canalizzato il conflitto: lo scopo non è più quello di emergere bensì quello di eliminare un determinato soggetto;
2. l’inizio del mobbing, che coincide con la seconda fase del Modello di Xxxxxxx;
3. i primi sintomi psico-somatici: non consistono in vere e proprie patologie ma in una situazione di malessere del soggetto mobbizzato che si manifesta con senso di insicurezza, episodi di insonnia e problemi di digestione;
4. gli errori e gli abusi dell’Amministrazione del personale, coincidente con la terza fase del Modello di Xxxxxxx;
5. il serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima, la quale è costretta ad assumere farmaci o sottoporsi a terapie per affrontare forme di depressione più o meno gravi dovute alle condotte vessatorie e amplificate dall’inerzia o inadeguatezza dei provvedimenti assunti dall’Amministrazione del personale;
6. l’esclusione dal mondo del lavoro, epilogo comune anche al Modello di Leymann.
7. Intento persecutorio. Il mobber deve compiere le sue azioni con uno scopo ben preciso, ostile nei confronti della vittima. Tale intento può essere suddiviso in scopo politico, ovvero il fine ultimo per il quale si iniziano le condotte mobbizzanti, e obiettivo di discriminazione della vittima, che è costretta a vivere in un clima diverso e meno confortevole rispetto agli altri lavoratori35.
come valvola di sfogo per la propria rabbia repressa. X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., pp. 70-72.
34 Xxx, pp. 8-14 e id, Il Mobbing in Italia, cit., pp. 46-50.
35 V. le considerazioni in id, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., pp. 87-94.
1.2. I soggetti del mobbing: il mobbizzato
Gli studiosi individuano in tre il numero di soggetti che hanno un ruolo36 nello sviluppo di fenomeni di mobbing: il soggetto mobbizzato, il mobber e gli spettatori. In prima battuta si deve puntualizzare che con il termine “soggetto” non si intende necessariamente una singola persona, non rilevando in questo caso la dimensione monosoggettiva o plurisoggettiva37.
Il focus in primis va posto sul soggetto mobbizzato, ovvero chi è preso di mira dalle condotte mobbizzanti. Deve essere in questa sede sfatato il mito per cui solo chi è debole, chi è per antonomasia un perdente nato, può essere una potenziale vittima di mobbing: in questo senso può essere fuorviante il riferimento, anche da parte della giurisprudenza38, alla figura cinematografica del ragionier Xxx Xxxxxxxx come mobbizzato per eccellenza. Xxxxxxx, con una tesi sostenuta anche da Ege39, fa infatti notare che chiunque può essere vittima di mobbing e che non esiste una categoria di persone che per le loro qualità sia destinata a diventare tale40.
Tuttavia, come evidenziato da ricerche statistiche compiute al termine degli anni Novanta41, esistono dei settori che si sono dimostrati più predisposti alla proliferazione di casi di mobbing: si tratta dell’industria produttrice di beni e servizi, a causa di una cultura orientata prevalentemente al profitto, e della pubblica amministrazione, ambiente storicamente molto chiuso42. In ambito italiano, l’ISTAT43 ha evidenziato che i laureati e i diplomati sono la categoria maggiormente colpita da vessazioni e demansionamento, il 21%, contro l’8,7% di coloro che hanno la licenza media e il 4,4% con la licenza elementare:
36 Cfr id, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 95
37 Id, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 79.
38 Trib. La Spezia sez. lav., 1 luglio 2005, n. 294, in id, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 47. Contra, X. XXXXX, Mobbing verticale, cit., p. 552: commentando una sentenza del Tribunale di Forlì, nel caso di specie si evidenzia come il mobbizzato sia una personalità molto forte e ben consapevole della propria personalità.
00 XXX X., Xxxxxxx. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., pp. 98-99.
40 Ege, analizzando alcune pubblicazioni di esperti internazionali, individua e sintetizza diciannove diversi «tipi ideali» di soggetti mobbizzati. Si va, per citarne alcuni, dal distratto all’ipocondriaco, dal servile al permaloso, dal sicuro di sé all’introverso: ivi, pp. 101-106. Va invece parzialmente in controtendenza Xxxxxxxx Xxxxx, la quale individua quattro categoria di persone che corrono particolarmente il rischio di essere vittime di mobbing: le persone sole, le persone “strane”, le persone che hanno successo e le persone nuove (XXXXX B., Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz, Niedernhausen, Falken, 1994, pp. 21-22).
41 Per un’ampia disamina dei dati raccolti si rimanda a EGE H., I numeri del mobbing, cit., pp. 25-29.
42 Cfr ibidem.
43 ISTAT, Il disagio nelle relazioni lavorative. Anni 2008-2009, xxx.xxxxx.xx, p. 9 (consultato da chi scrive in data 15 febbraio 2020)
tuttavia i dati potrebbero essere influenzati dal fatto che le persone maggiormente istruite sono più inclini alla denuncia di casi di mobbing perché lo conoscono di più e sono consapevoli degli effetti lesivi44.
Di fronte ai comportamenti del mobber, il soggetto mobbizzato può reagire essenzialmente in due modi diversi: passivamente o attivamente. La reazione passiva è tipica di chi ancora non è consapevole o non accetta di essere vessato e quindi cerca di continuare normalmente la sua vita quotidiana e lavorativa, di chi si isola pur di non rischiare di muovere accuse infondate di mobbing. La reazione attiva, invece, consiste in un tentativo di difesa che può concretizzarsi, per esempio, nel far notare le condotte mobbizzanti o nel cercare alleati per uscire dall’isolamento, con il rischio però di mettere anche questi soggetti nel mirino del mobber. Tuttavia, una difesa attiva ha due conseguenze intrinseche non favorevoli per la vittima: in primis, solitamente il mobber compie le sue azioni in modo che meno gente possibile se ne accorga, quindi metterlo sotto i riflettori potrebbe disturbare l’armonia del gruppo e avere conseguenze ancora peggiori per il mobbizzato; c’è poi da considerare il fattore psicologico per il quale chi reagisce alle condotte vessatorie attivamente, in caso di esito negativo dei suoi tentativi, si viene a trovare in uno stato di frustrazione maggiore rispetto a chi invece resta inerte45.
1.2.1. Segue. Il mobber. Le tipologie di mobbing
Il mobber, ovvero il soggetto che individua la vittima e pone in essere le condotte vessatorie, può ricoprire qualsiasi ruolo nella gerarchia di riferimento e allo stesso tempo agire spinto da impulsi motivazionali diversi46: per questo motivo la psicologia del lavoro, con l’avvallo successivo della giurisprudenza47, ha teorizzato diverse tipologie di mobbing.
Se le condotte vessatorie sono poste in essere da un superiore gerarchico ci si trova di fronte alla figura comunemente conosciuta come mobbing verticale discendente48, statisticamente la più diffusa in Italia49. Il mobber dunque attua tutte quelle azioni che sono
44 P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 75.
45 Cfr X.XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., pp. 109-113.
46 Xxx, pp. 114-122: come fatto per il soggetto mobbizzato, Ege elabora i risultati di alcuni studi svolti in materia all’estero e individua alcune figure di potenziali mobbers, tra i quali troviamo ad esempio il megalomane, il criticone, l’invidioso, il carrierista.
47 Si veda, ex multis, Consiglio di Stato sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905, in Foro amm., 2018, X, p. 1657.
48 X. XXXXXXX, Il «disagio lavorativo». Mobbing, straining e stress lavoro-correlato nel rapporto di lavoro, Ediesse, Roma, 2016, p. 26.
49 P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 32: sono riportati i dati di un’indagine congiunta CGIL-Sapienza Università di Roma, pubblicati nel Rapporto Italia 2003 da Eurispes. Secondo questa ricerca i casi di mobbing verticale,
riconducibili nella tematica dell’abuso di potere50. Il superiore può trovarsi a vessare il sottoposto perché ha delle prestazioni superiori a quelle che il ruolo di subordinato richiederebbe, per gelosia, per questioni di età o perché non è d’accordo con il soggetto mobbizzato in merito questioni politiche, religiose o razziali51.
All’interno del mobbing verticale è riconducibile la figura del mobbing pianificato o bossing52, ovvero il terrorismo psicologico che è programmato dall’azienda stessa o dalle persone che ne occupano le posizioni apicali al fine di ottenere la riduzione del personale, il ringiovanimento dello stesso, l’eliminazione di una persona sgradita o che per le sue qualifiche è divenuta un peso per le casse del datore53.
Solitamente le pressioni che vengono fatte sui soggetti sono finalizzate a spingere il lavoratore alle dimissioni, evitando così di dover usare lo strumento sicuramente più oneroso per l’azienda del licenziamento54. Il bossing ha però anche un costo55 molto elevato per l’azienda, in quanto il periodo compreso dal momento in cui iniziano le condotte mirate all’eliminazione del lavoratore e quello in cui il fine viene raggiunto può essere molto lungo56: il datore di lavoro, oltre al calo di rendimento57 e ad eventuali periodi di malattia dati dalla situazione di disagio psicologico, deve infatti spendere del denaro e del tempo anche per la ricerca e la formazione del futuro sostituto58.
Nel caso in cui le condotte mobbizzanti siano invece poste in essere da soggetti che si trovano nella stessa posizione gerarchica del soggetto mobbizzato ci si trova di fronte al
inteso sia come attuato da un superiore gerarchico che dai vertici aziendali, sono l’88% del totale. I dati sono confermati (80%) in ISTAT, Il disagio nelle relazioni lavorative, cit., p. 13 (consultato da chi scrive in data 15 febbraio 2020).
50 Così X. XXX, Il Mobbing in Italia, cit. p. 111 e id., I numeri del mobbing, cit., p. 28, in cui si sottolinea come l’abuso di potere ad opera di «capetti gerarchici» sia una situazione abbastanza frequente in Italia, data soprattutto da una frustrazione nella condizione di vita extra-lavorativa.
51 Per un’analisi approfondita delle cause psicologiche che possono spingere il mobber ad agire si rinvia a id, I numeri del mobbing, cit., pp. 87-92 e id, Il Mobbing in Italia, cit., pp. 113-121.
52 Id, I numeri del mobbing, cit., pp. 16-18; id, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., pp. 29-33. L’espressione è vista come priva di eleganza in X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 502.
53 P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx., cit., pp. 10-11.
54 Ibidem: si sottolinea come i paesi in cui il licenziamento è consentito solo per giusta causa o per giustificato motivo siano terreno fertile per lo sviluppo del bossing.
55 Sul punto si veda capitolo 1 § 1.3
56 Secondo i risultati di un sondaggio svolto dall’Ispesl (Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro) nel 2008 e riportato all’indirizzo xxxx://xxx.xxxxxxxxx.xx/xxxxxxxx/xxxxx.xxx?xxx0000 (consultato da chi scrive in data 8 febbraio 2021), il 27% dei casi di mobbing ha una durata da sei mesi a un anno, il 40% tra un anno e due anni, il 30% oltre i due anni.
57 Sempre secondo lo stesso sondaggio dell’Ispesl, il lavoratore ha un calo del rendimento del 70%.
58 X. XXX, I numeri del mobbing, cit., p. 18.
mobbing orizzontale (o mobbing relazionale59). Tale fattispecie inizialmente non ha trovato larga diffusione né in Italia né in generale in Europa, salvo nell’ultimo periodo espandersi con maggior forza, soprattutto in ambienti come quello scolastico60. Motivazioni che possono causare la vessazione di un collega di lavoro possono essere la volontà di eliminarlo perché troppo scomodo, l’invidia, il troppo zelo dimostrato nei rapporti interpersonali o, più semplicemente, perché diverso per razza, orientamento politico o religioso61.
Se i protagonisti delle azioni mobbizzanti sono dei soggetti di grado gerarchicamente inferiore rispetto al mobbizzato ci si trova davanti ad un caso di mobbing verticale ascendente o Down-Up62 Esempi tipici sono il rifiuto di svolgere le mansioni assegnate dal superiore o il metterlo continuamente in discussione davanti ai colleghi e all’opinione pubblica. Solitamente queste azioni trovano terreno fertile in casi di crisi aziendali molto marcate, se la persona che è al comando è ritenuta inadeguata al comando, oppure se l’imposizione di un nuovo capo non è ben vista dai sottoposti63.
Esistono poi situazioni di mobbing definite «miste»64, in cui non è intuitivamente facile individuare i ruoli dei soggetti e quindi catalogare le azioni mobbizzanti nelle tipologie sin qui esposte: si pensi, a titolo di esempio, al caso in cui il primo a compiere azioni vessatorie sia il datore di lavoro ma poi a seguirlo a ruota siano anche i colleghi del mobbizzato (side-mobbers)65 perché ne condividono la politica o per paura di diventare a loro volta delle vittime. L’ISTAT66 ha stimato l’incidenza di questa fattispecie nel 15,2%
59 In questi termini P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 33. L’autore sottolinea come, essendo le parti in gioco tutte sullo stesso livello gerarchico e quindi rendendo impossibile l’adozione di provvedimenti disciplinari, il conflitto si sposti sul piano delle relazioni interpersonali.
60 Nell’area tedesca, in una ricerca degli anni Novanta, è risultato che i casi di mobbing orizzontale sono solo il 10% dei casi totali rilevati di mobbing. X. XXX, Il Mobbing in Xxxxxx, xxx. x. 00; P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 32: secondo l’indagine CIGL-Sapienza Università di Roma (di cui a p. 9 nota 49) in Italia l’incidenza di questi casi di mobbing è del 12% sui casi totali. Nel biennio 2008-2009 si rileva che i casi di mobbing orizzontale sono aumentati fino al 13,5% del totale: ISTAT, Il disagio nelle relazioni lavorative, cit., p. 14.
61 P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 10 e X. XXX, Il Mobbing in Xxxxxx, xxx. x. 000-000.
00 Usa questo termine di origine anglofona F. DE XXXXXXX, Xxxxx da mobbing. Presupposti, tipologie e conseguenza. Onere probatorio ed evento dannoso. Azione di risarcimento e danni risarcibili. Mobbing come malattia professionale e danno differenziale, Xxxxxxx Editore, Milano, 2012, p. 10.
63 Cfr. X. XXXXXXX, Il «disagio lavorativo»., cit., p. 26.
64 Ibidem.
65 Così li definisce Ege: si tratta dei soggetti che agiscono da mobber senza essere però avversari diretti della vittima. X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 127. Contra, P. VERDARELLI P., Mobbing., cit. p. 78, secondo il quale, per l’importanza che detti soggetti possono avere nel bloccare lo sviluppo del mobbing, non è corretto qualificarli come semplici “spettatori” ma rivestono un ruolo di veri e propri “attori”, nonostante non siano direttamente coinvolti.
66 In ISTAT, Il disagio nelle relazioni lavorative, cit., p. 13 (consultato da chi scrive in data 15 febbraio 2020).
rispetto ai casi totali, contro il 52,4% in cui l’autore opera da solo e il 32.5% in cui i mobbers
sono più di uno ma hanno lo stesso ruolo.
Ege67 teorizza anche il doppio mobbing, un’esperienza tipica di tutti i paesi mediterranei, dunque anche italiana68. Nel nostro paese la famiglia ricopre un ruolo particolare e spesso il soggetto mobbizzato trova nei suoi cari la naturale valvola di sfogo. Il partner, i genitori e i figli inizialmente riescono ad assorbire i malumori e supportare la vittima, diventando, seppur in maniera minore, anch’essi vittime indirette di mobbing. Nel momento in cui esauriscono la pazienza cambiano però atteggiamento e si mettono sulla difensiva, concependo la vittima come una potenziale minaccia per la serenità della famiglia: il mobbizzato si trova così a dover affrontare sia il mobbing sul posto di lavoro sia dei suoi cari69 che lo hanno privato della comprensione.
1.2.2. Segue. I soggetti spettatori
Gli spettatori70 sono tutti i numerosi soggetti che, pur non essendo direttamente interessati dalle vicende connesse agli episodi di mobbing, se ne accorgono e in qualche modo lo vivono di riflesso71. Questi possono ricoprire un ruolo fondamentale soprattutto nell’impedire lo sviluppo del fenomeno: è facilmente intuibile come un soggetto che ricopre una posizione apicale in azienda e che si rende conto che si stanno diffondendo pratiche vessatorie verso un unico lavoratore o un gruppo di lavoratori precisi possa intervenire e bloccare i mobbers in questione.
Tuttavia gli psicologi hanno individuato nell’effetto bystander la causa per cui molto spesso la reazione del soggetto spettatore è passiva: si tratta della tendenza, in una situazione di emergenza e in presenza di un gruppo di persone, a scaricare sugli altri
67 X. XXX., I numeri del mobbing, cit., pp. 14-16; in tema si veda anche P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx., cit., p. 13.
Ne affronta i profili critici anche X. XXXXX, L’avvocato e i problemi giuridici del mobbing, in Lav. giur., 2003, IV,
p. 331: l’autore sottolinea come il professionista, di fronte ad un caso di mobbing, si ritrovi di fronte a relazioni difficili con il la legge, il Giudice e il cliente, il quale, nel momento in cui si trova a chiedere aiuto ad un avvocato, solitamente è in una condizione di equilibrio psicologico molto labile.
68 Nei paesi anglosassoni e scandinavi, infatti, fin da subito i bambini sono educati ad una maggiore indipendenza sia in ambito famigliare che in ambito scolastico. X. XXX, I numeri del mobbing, cit., p. 14.
69 Id, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 71. Nonostante il mobber appartenga all’ambito famigliare, l’autore ritiene che sia comunque soddisfatto il primo dei sette parametri fondamentali (vedi supra, capitolo 1, § 1.1) in quanto i problemi in famiglia nascono cronologicamente dopo rispetto a quelli lavorativi e il mobbizzato è ben consapevole della loro origine.
70 Se ne parla ampiamente in id, I numeri del mobbing, cit., pp. 16-18, id, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 123-131.
71 Ibidem.
soggetti la responsabilità dell’eventuale soccorso della vittima72. Ovviamente non tutti gli spettatori hanno lo stesso potere di intervento: ad esempio, uno studente che si trova in azienda a svolgere il periodo di tirocinio formativo e che nota alcune pratiche mobbizzanti, certamente può allertare i superiori del fatto ma difficilmente ha la capacità di intervenire da sé.
Ege classifica gli spettatori in tre classi: i side-mobbers73, ovvero coloro i quali aiutano il mobber con il loro sostegno, anche se il soggetto mobbizzato non è una loro vittima diretta; gli indifferenti74, che restano inerti; gli oppositori75, che cercano di aiutare il soggetto mobbizzato a porre fine al clima di astio che si è creato nei suoi confronti.
1.3. I costi del mobbing
Il mobbing è un fenomeno che apparentemente, e guardato con occhi poco critici, sembrerebbe arrecare danno solamente al soggetto mobbizzato, in quanto vittima diretta delle condotte vessatorie. In realtà a subire un pregiudizio, a seconda dei casi pure molto oneroso, sono anche l’azienda in cui questo lavora e la società in generale76, considerati i numeri e la costante crescita di casi di mobbing nella realtà italiana77.
La vittima, oltre ai danni economici causati dalle continue visite specialistiche a cui può essere costretto a sottoporsi per superare la situazione di disagio psicologico, vede progressivamente peggiorare anche lo stato di salute con la comparsa di alcuni sintomi come i disturbi del sonno, problematiche gastriche e digestive, dolori muscolari, nervosismo e depressione78. Questa sintomatologia può sfociare anche nello sviluppo di un disturbo dell’adattamento e nei casi più gravi in un disturbo post-traumatico da stress79.
72 Cfr P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. pp. 79-80.
73 In base alle categorie ideali di spettatori che Ege elabora dagli studi internazionali sul fenomeno, il ruffiano, il falso-innocente e il premuroso. Queste figure hanno un effetto devastante sul mobbizzato in quanto questo si trova ad essere lasciato solo anche dagli stessi colleghi su cui faceva affidamento. X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 131.
74 L’esempio classico è il rinunciatario. Ibidem.
75 La categoria corrispondente è quella del diplomatico. Ibidem.
76 Cfr P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, pp. 1-3 e M.R. MOTTOLA, Mobbing e comportamento antisindacale, cit., pp. 27-29.
77 Per un’analisi esaustiva dei numeri del mobbing si rinvia a P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. pp. 42-46.
78 In questo senso si veda X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., pp. 177- 180.
00 X. XXXXXXX, Xx tema di mobbing. Il punto di vista del medico del lavoro, in X. XXXX (a cura di), Il mobbing, cit., p.132.
Anche i costi per l’azienda80 risultano essere ingenti, fattore che tuttavia non sembra disincentivare i datori di lavoro dal tenere condotte vessatorie nelle fattispecie di mobbing verticale discendente e di bossing. Il lavoratore vede infatti inevitabilmente calare le proprie prestazioni e la propria produttività81 a causa di una repentina mancanza di motivazioni e una canalizzazione delle energie nel fronteggiare il mobber. Sono frequenti anche i casi in cui si deve provvedere alla sostituzione del mobbizzato che si trova in malattia. Non sono da sottovalutare poi i danni di immagine agli occhi della società che l’azienda subirebbe nel caso in cui le vicende di mobbing divenissero di dominio pubblico: potrebbero verificarsi contemporaneamente da un lato la perdita di una clientela molto attenta alla tutela psico-fisica del lavoratore, dall’altro un calo drastico della domanda di lavoro che potrebbe pregiudicare in modo irreparabile l’innovazione e la continuità aziendale82. Se la vicenda dovesse poi sfociare in una causa legale e l’azienda venisse condannata, nella categoria dei costi finirebbero inevitabilmente anche quelli sostenuti per affrontare il contenzioso83.
La società è l’ultima, ma non meno importante, vittima del mobbing. Infatti sia l’INPS, nel momento in cui eroga denaro all’azienda affinché possa corrispondere la retribuzione al lavoratore84, sia l’ALS competente, contribuendo alle spese sostenute dalla vittima per le analisi, le visite mediche e le terapie, utilizzano denaro pubblico85: indirettamente dunque le conseguenze negative delle condotte vessatorie si riversano anche sui contribuenti. Da segnalare è poi il caso in cui, essendo stato vittima di mobbing,
80 P. XXXXXXXXXX X., Mobbing., cit. p. 48, riporta i dati di un’indagine svolta da alcuni economisti secondo la quale un lavoratore mobbizzato costa all’azienda il 190% di un lavoratore non mobbizzato, numeri impressionanti che dovrebbero spingere anche un mobber non molto attento all’eticità della questione a desistere di fronte a detti costi.
81 Ege ipotizza addirittura che la produttività possa calare dell’80%. X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 183; in P. XXXXXXXXXX, Mobbing., cit. p. 47, sono invece riportati i dati di una ricerca svolta dall’Unison, il principale sindacato inglese, la quale ha rilevato che nel 2000 ben il 29% delle vittime di mobbing si era assentata dal posto di lavoro per un periodo superiore a trenta giorni.
82 In questo senso X. XXXXXXX, In tema di mobbing, cit., p. 132.
83 P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 48.
84 Il pagamento dell’indennità di malattia è, per i primi tre giorni e se previsto dal contratto individuale o dalla contrattazione collettiva, a carico del datore di lavoro, mentre, a partire dal quarto giorno, è a carico dell’INPS. Tuttavia, l’ammontare varia a seconda della durata della malattia stessa e del settore di appartenenza: ad esempio, ai lavoratori dipendenti l’indennità spetta nella misura del 50% della retribuzione media giornaliera dal quarto al ventesimo giorno e del 66,66% dal ventunesimo al centottantesimo giorno; per i dipendenti dei pubblici esercizi, invece, l’indennità spetta nella misura dell’80% per tutto il periodo della malattia. Sul tema si rinvia a M.V. BALLESTRERO.-X. XX XXXXXX, Diritto del lavoro, Giappichelli Editore, Torino, 2017 (3° edizione), pp. 472-476.
00 X. XXXXXXX, Xx tema di mobbing, cit., p. 132.
nel lavoratore insorga una invalidità permanente con conseguente indennizzo a carico dell’INAIL per malattia da lavoro86 o la necessità di un prepensionamento87. Ulteriori conseguenze che vanno a influire sulla società sono l’aumento della disoccupazione, causato dalle dimissioni date per evitare di continuare a subire vessazioni e dalla volontà di non tornare sul posto di lavoro anche dopo una causa vinta, e delle separazioni e divorzi, in virtù delle considerazioni fatte in tema di doppio mobbing88.
1.4. Oltre il mobbing: stress lavoro-correlato e straining
Non sempre la conflittualità sul posto di lavoro dà origine al mobbing: può accadere che alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie non siano presenti nel caso concreto. Per questo motivo la psicologia del lavoro, le cui intuizioni sono state avvallate dalla giurisprudenza, ha elaborato due nuove figure, lo straining e lo stress lavoro-correlato.
Lo stress lavoro-correlato viene definito nell’Accordo Interconfederale del 9 giugno 2008, di recepimento dell’Accordo quadro Europeo dell’8 ottobre 200489: non si tratta di una malattia ma di una condizione per la quale taluni individui non si sentono in grado di soddisfare le richieste o le aspettative riposte in loro, favorendo così la comparsa di disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale (art. 3). Non tutte le situazioni stressogene sono però idonee a costituire stress lavoro-correlato, in quanto una esposizione di breve durata alla tensione può avere anche risvolti positivi per la competitività all’interno dell’azienda e la reazione di un soggetto davanti alla stessa situazione può essere diversa a seconda di vari fattori quali l’età o la condizione psicologica del momento.
Per comprenderne la portata del fenomeno si ricordi che il 27% dei lavoratori italiani, circa nove milioni, ne è colpito, e che costituisce la causa del 50% delle giornate
86 Non essendo questa la sede di pertinenza per approfondire il risarcimento a carico dell’INAIL per i danni da mobbing, si rinvia a F. DE XXXXXXX, Xxxxx da mobbing, cit., pp. 59-60; X. XXXXX P.-X. XXXXXXXXXXXX-M. DI SANZO-R. LA RUSSA-X. XXXXXXXX-X. XXXXX-X.XXXXXX, Mobbing: inquadramento del fenomeno ed indennizzo INAIL, in Resp. civ. prev., 2016, IV, pp. 1408-1421. Gli autori, sulla base di quanto disposto da art. 1900 x.x. x xxx. 00 x.X.X. x. 0000/0000, xxxxxxxxx che, nonostante il disposto dell’art. 10, d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 che estende gli indennizzi anche alle malattie non tabellate, nel caso di mobbing posto in essere dal datore di lavoro, questo sarebbe gravato dell’intero risarcimento del danno biologico; V. FILÌ, La nuova frontiera del danno risarcibile da condotta illecita del datore di lavoro, in Resp. civ. prev., 2019, III, p. 803
87 X. XXX, Mobbing. Che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, cit., p. 176. L’autore riporta i dati di una ricerca svolta in Germania alla fine del Ventesimo secolo per la quale un soggetto che andava in prepensionamento all’età di quaranta anni costava circa 1.200.000.000 £ (oggi circa 619.750€).
88 Cfr P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. p. 48.
89 Testo integrale dell’accordo disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx.xxxxx.xx/xx/xxxxxxxx/xxxx/xxxxxx-xxxxxx- accordo-interconfederale.pdf?section=attivita (consultato da chi scrive in data 10 febbraio 2021).
lavorative perse in un anno, con conseguenti danni ingenti per l’economia90: la tutela previdenziale degli effetti dannosi infatti, dopo una specifica valutazione dei rischi, è assicurata dall’INAIL91.
Il termine straining92 deriva invece dal verbo to strain, che dal punto di vista semantico e fonico rievoca il verbo to stress: questa stretta connessione tra i due lemmi permette di inquadrare il fenomeno come una situazione in cui un aggressore (c. d. strainer) sottomette una vittima provocando in lei una condizione particolare di stress.
A differenza del mobbing, però, nello straining mancano i requisiti della continuità e della frequenza della condotta ostile 93: è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi nel tempo94, affinché al lavoratore possa essere riconosciuta la tutela. La giurisprudenza ha riconosciuto per la prima volta lo straining nel 200595 chiarendo che il demansionamento di una dipendente protrattosi per lungo tempo, ma non accompagnato da altri comportamenti ostili, configura condotta di straining e non di mobbing, [...].
Si comprende dunque come questa fattispecie sia considerata dai giudici, ma secondo la psicologia del lavoro in modo errato96, come un quid minus del mobbing97 e sia collocata dalla dottrina98 a metà strada tra il mobbing e lo stress lavoro-correlato. Si segnala inoltre la pronuncia con la quale la giurisprudenza ha specificato che Le nozioni di mobbing e straining hanno natura medico-legale e non rivestono autonoma rilevanza ai fini giuridici. In sostanza servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto
90 X. XXXXXXX, Il «disagio lavorativo»., cit., p. 214.
91 X. x. 00, nota n. 86.
92 Per una trattazione completa del fenomeno si rinvia a X. XXX, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., pp. 50-59.
93 Cfr. X. XXXXXXX, Il «disagio lavorativo»., cit., p. 196. Una valutazione completa dei sette parametri per l’individuazione di casi di straining, ricalcando quanto già visto per il mobbing (supra, capitolo 1, § 1.1), si guardi X. XXX, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., pp. 94-117: si tratta dell’ambiente lavorativo, della costanza delle conseguenze dell’azione ostile, della durata di almeno sei mesi del conflitto, della tipologia di azioni, della posizione di inferiorità gerarchica della vittima, del raggiungimento almeno della seconda fase del modello straining quattro fasi di Ege e dello scopo politico e obiettivo discriminatorio. Tali parametri sono richiamati, pur non avendo valenza giuridica ma solo medica, così come ricordato da X. XXXXXXXX, Il mobbing attenuato: lo straining, in Lav. giur., 2016, VIII-IX, p. 809, da Trib. Venezia sez. lav., 31 luglio 2017, n. 480, in xxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 2 marzo 2021)
94 Così V. FILÌ, La nuova frontiera del danno risarcibile, cit., pp. 796-797. Concorda X. XXX, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 54: a livello oggettivo, quindi agli occhi di un soggetto esterno, lo straining è visto come un caso di stress lavoro-correlato, mentre a livello soggettivo, dal punto di vista della vittima, è recepito come persecuzione e ingiustizia.
95 Trib. Bergamo, 20 giugno 2005, n. 186, in Foro it., 2005, XII, p. 3356.
96 X. XXX, Valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit., p. 58.
97 Si veda, ex multis, Cass. civ. sez. lav., 10 luglio 2018, n. 18164, in Lav. giur., 2018, XI, pp. 1063-1064 con nota di X. XXXXXXXXX.
98 V. FILÌ, La nuova frontiera del danno risarcibile, cit., p. 801.
con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro99.
Molto interessante è inoltre il percorso argomentativo seguito in una pronuncia del 2018 dalla Corte di Cassazione100 che sembra abbia voluto superare la tendenza propria del giudice di merito a individuare come mobbing e straining tutte le condotte datoriali illecite: il giudice di legittimità ha infatti ritenuto sufficiente, per ottenere il risarcimento del danno all’integrità fisica e psichica, la prova della lesione dei diritti fondamentali e del danno provocato al lavoratore, mentre risultano superflui la prova dell’intento persecutorio e delle condizioni lavorative caratterizzate da forte stress, necessarie per aversi rispettivamente mobbing e straining101. Secondo la dottrina la Cassazione ha così aderito in un certo senso alla teoria oggettivistica102, rendendo superflua l’indagine sull’intento del datore di lavoro ma essendo sufficiente la prova dell’effetto lesivo derivante dalla violazione dell’art. 2087 c.c.103.
2. La tutela costituzionale e convenzionale del diritto del lavoratore «a non essere mobbizzato»104
Il mobbing è un fenomeno che, considerando la definizione che se ne è data nell’ambito della psicologia105, lede la sfera personale di chi ne è vittima, diventando quindi un comportamento rilevante per il diritto106. L’ordinamento costituzionale italiano tutela infatti il diritto al pieno sviluppo della personalità umana in ogni ambito in cui questa può esprimersi, di conseguenza anche quello lavorativo.
In questo senso, l’art. 2 Cost. stabilisce che La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Rilevanti sono anche l’art. 4 Cost., riguardante il diritto al lavoro per il quale devono essere promosse le condizioni che rendano effettivo questo diritto, l’art. 13
99 Cass. civ. sez. lav., 19 febbraio 2016, n. 3291 in Lav. giur., 2016, VIII-IX, pp. 803-807.
100 Cass. civ., 20 giugno 2018, n. 16256, in Riv. it. dir. lav., 2018, IV, pp. 793-799 con nota DI X. XXXXXXXX, Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno patito anche se non risulta provato il mobbing.
101 Si vedano in questo senso anche le considerazioni svolte in V. FILÌ, La nuova frontiera del danno risarcibile,
cit., pp. 800-803
102 Sul tema x. xx xxxxxxxxxxxxxx xx xxxxxxxx 0 § 0.0.
103 V. FILÌ, La nuova frontiera del danno risarcibile, cit., pp. 804-805.
104 In questi termini P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 17.
105 Si rinvia a capitolo 1 §1.
106 Così si esprimono P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Le molestie morali nel sistema giuridico italiano, in M.F. HIRIGOYEN, Molestie morali., cit., p. 243.
Cost. che sancisce l’inviolabilità della libertà personale e l’art. 32 Cost., per il quale la salute è fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, sia questa intesa come saluta fisica o psichica.
La Costituzione Italiana, oltre a tutelare la personalità del soggetto, offre anche un vasto apparato rimediale rappresentato in generale dal principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. e in particolare da tre articoli contenuti nel Titolo III della Parte I (Diritti e doveri dei cittadini): si tratta degli artt. 37, 39, 41 Cost. L’art. 37 Cost. tutela in modo particolare il lavoro delle donne: tale tematica, su cui il legislatore si è dimostrato molto sensibile negli ultimi decenni, è stata oggetto di alcuni interventi ,tra i quali si ricordano la
l. 9 dicembre 1977 n. 903 sulla parità di trattamento rispetto agli uomini nell’accesso al lavoro; la l. 10 aprile 1991 n. 125107 che mira, a differenza di quanto fatto negli anni Settanta, ad ottenere un’uguaglianza sostanziale e non solo formale tra generi diversi; il Codice per le pari opportunità (d.lgs. 22 febbraio 2006 n.128), il Testo unico sulla maternità e paternità (d.lgs. 26 marzo 2001 n.151)108 e da ultima la l. 28 giugno 2012 n. 92 (c.d. Riforma Fornero)109. L’art. 39 Cost. tutela invece la libertà dell’attività sindacale la quale, al pari di ogni altra discriminazione, è riconosciuta anche dall’art. 15110 Statuto dei Lavoratori (da qui Stat. lav.)111. Infine, l’art. 41 Cost. sancisce che l’iniziativa economica privata è libera ma non può essere svolta in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana112.
La tutela della figura del lavoratore è stata oggetto di molti interventi anche sul piano convenzionale internazionale, diretti a contrastare le discriminazioni e vietare gli
107 Per una completa analisi si guardi X. XXXXXXXX, Xxxxx 125/1991: “azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro”, 2004, in xxx.xxxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 10 febbraio 2021). 108 La dottrina li definisce «leggi manifesto» in quanto risultano all’avanguardia per i loro contenuti ma ancora lontani dal raggiungere piena effettività. X. XXXXXX, Misure per l’occupazione femminile tra tutele e incentivi, in Lav. giur., 2013, II, p. 113.
109 Non essendo questa la sede per trattare in modo completo tale intervento, si rinvia a ivi, pp. 113-128.
110 Tale articolo vieta ogni discriminazione per ragioni sindacali, politiche, religiose, razziali, di lingua, sesso, handicap, età, orientamento sessuale o convinzioni personali.
111 L. 20 maggio 1970 n. 300 Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento e successive modifiche. È una legge che, nonostante le molte modifiche apportate nei decenni, è ancora oggi il punto di riferimento per la tutela del lavoratore e dell’attività sindacale. La sua struttura è divisa in sei titoli: il primo riguarda il lavoratore in generale, il secondo e il terzo sono sull’attività sindacale, seguono i titoli contenenti disposizioni varie e generali e le norme sul collocamento, chiudono le disposizioni finali e penali.
112 V. M. R. MOTTOLA, Mobbing e comportamento antisindacale, cit., p. 12
abusi determinati da motivi di sesso, razza, età, credo politico o religioso, attività sindacale e opinioni personali113.114
2.1. La tutela della contrattazione collettiva
Nei primi anni Duemila in Italia, parallelamente all’affermazione del mobbing ma in ritardo rispetto ad altri paesi europei115, la contrattazione collettiva ha iniziato ad interessarsi del fenomeno. I settori merceologici che hanno fatto da pionieri in materia sono stati quello pubblico e quello della cooperazione.
Una dottrina ha classificato tali interventi in cinque aree, in base allo scopo da questi perseguito116: le previsioni a carattere evocativo che sottolineano l’importanza per il datore di lavoro di adottare tutti gli strumenti utili per la repressione della dignità del lavoratore; le previsioni a carattere programmatico, che impegnano le parti ad un confronto anche al fine di elaborare codici di condotta preventivi; le previsioni che definiscono il mobbing117 e prevedono un obbligo di attivazione in capo alle parti; le previsioni che, oltre a definire il mobbing, istituiscono apposite strutture per la denuncia, l’assistenza e la redazione di un codice di condotta118; le previsioni che definiscono il mobbing e indicano una precisa procedura per la prevenzione del fenomeno.
113 A titolo esemplificativo si riportano la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle Libertà fondamentali, firmata a Roma IL 4 novembre 1950 e la Convenzione Onu sull’eliminazione di tutte le forma di discriminazione nei confronti della donna, firmata a New York il 18 dicembre 1979. Da ultima si segnala la Convenzione sulla violenza e le molestie adottata nel 2019 dall’OIL, per la quale l’Italia ha avviato l’iter di ratifica e che potrebbe rappresentare un’importante passo in avanti della tutela del lavoratore, indipendentemente dal rapporto contrattuale esistente (maggiori informazioni sulla Convenzione sono disponibili all’indirizzo xxxxx://xxx.xxx.xxx/xxxx/xxxxxxx-xxxxxxxxxxx/xxxxxxxxxx- stampa/WCMS_711461/lang--it/index.htm, consultato da chi scrive in data 10 febbraio 2021).
114 Cfr le considerazioni fatte in questo paragrafo con P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, pp. 17- 20.
115 In Germania infatti il primo accordo aziendale in materia è stato siglato dalla Volkswagen già nel 1996. X. XXXXXXX, Mobbing e contrattazione collettiva nel settore privato e pubblico, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, “Mobbing, organizzazione, malattia professionale”, UTET Giuridica, Milano, 2006, p. 204
116 Ivi, pp. 205-222.
117 A titolo esemplificativo, si rinvia all’art. 8 del CCNL del comparto delle regioni e delle autonomie locali per il quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003, analizzato in X. XXXXXXXX, L’intervento dell’autonomia collettiva sul fenomeno del mobbing, in Azienditalia-Il Personale, 2004, VII, pp. 413-419, il quale definisce il mobbing come una “forma di violenza morale o psichica in occasione di lavoro-attuato dal datore di lavoro o da altri dipendenti-nei confronti di un lavoratore. Esso è caratterizzato da una serie di atti, atteggiamenti o comportamenti, diversi e ripetuti nel tempo in modo sistematico ed abituale, aventi connotazioni aggressive, denigratorie e vessatorie tali da comportare un degrado delle condizioni di lavoro e idonei a compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore stesso nell’ambito dell’ufficio di appartenenza, o, addirittura, tali da escluderlo dal contesto lavorativo di riferimento”.
118 Si veda, ad esempio, il Codice di comportamento elaborato dal Comitato paritetico per la prevenzione del fenomeno del mobbing dell’Università degli Studi di Trieste e riportato in COMITATO PARITETICO PER LA
L’attività della contrattazione collettiva, soprattutto a fini preventivi e grazie all’attività di sensibilizzazione dei comitati paritetici che assumono una notevole rilevanza119, è vista dalla dottrina positivamente. Lo strumento contrattuale, considerata la sua elasticità, permette infatti di maneggiare con maggior flessibilità un concetto aperto come il mobbing120. Non mancano tuttavia delle opinioni discordanti, le quali apprezzano il tentativo delle parti di circoscrivere il fenomeno, ma sottolineano come la contrattazione collettiva non sia lo strumento più indicato per soddisfare le esigenze preventive121.
2.2. La competenza dell’Unione Europea per la tutela dei lavoratori
La tutela dei lavoratori rientra anche tra le competenze del legislatore comunitario. L’art.
151 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea122 (da qui TFUE) stabilisce
PREVENZIONE DEL FENOMENO DEL MOBBING, Organismi e strumenti per la prevenzione del fenomeno del mobbing. Atti del Convegno. Trieste, 22 ottobre 2009, Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2011, pp. 97-102. Per un’analisi attenta delle funzioni che tale Comitato svolge si rinvia a X. XXXXX, Organismi e strumenti per la prevenzione delle vessazioni sul lavoro. ll Comitato paritetico per la prevenzione del fenomeno del mobbing dell’Università di Trieste, in ivi, pp 19-22; sui Comitati paritetici in generale: X. XXXXXXXX, Il mobbing fra contrattazione collettiva e sistemi di prevenzione, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli Editore, Bologna, 2007, p. 116.
119 Cfr X. XXXXXXXX, L’intervento dell’autonomia collettiva, cit., p. 418. Concorde è anche X. XXXXXXX, Mobbing, cit., pp. 628-629: l’autore ritiene che una strutturata attività preventiva sia utile anche a fini processuali perché consentirebbe alla vittima di superare la condizione di isolamento e la conseguente difficoltà nel fornire la prova.
120 X. XXXXXXX, Mobbing e contrattazione collettiva, cit., p. 234.
121 X. XXXXXXXX, Il mobbing fra contrattazione collettiva e sistemi di prevenzione, cit., pp. 125-126.
122 Il TFUE è uno dei due trattati fondamentali dell’Unione europea.
Un primo passo per lo sviluppo dell’idea di unità tra i paesi europei sostenuta da Xxxxxxx nella celebre Dichiarazione del 9 maggio 1950 può essere riscontrato nell’istituzione, il 18 aprile 1951, della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA): si tratta di una collaborazione, inizialmente tra sei stati tra i quali anche l’Italia, che ha lo scopo di istituire un mercato comune di materie prime molto importanti per la ricostruzione post bellica. Cavalcando l’onda del successo ottenuto, il 25 marzo 1957, a Roma, vengono firmati due diversi trattati: quello che istituisce la Comunità Economica Europea (TCE, antenato del TFUE) e quello che istituisce la Comunità Europea dell’Energia Atomica (CEEA, tradizionalmente conosciuta come Euratom). Si giunge così a un sistema basato su tre distinte Comunità europee che presenta però delle difficoltà organizzative, soprattutto dal punto di vista del coordinamento tra le varie istituzioni di ogni organo. Il processo di semplificazione, auspicato da più parti, si articola in tre fasi: la fusione di alcune istituzioni comuni alle tre comunità nel 1957, l’istituzione di un Consiglio e una Commissione unici nel 1965 e, infine, la scadenza del Trattato CECA nel 2002 che fa confluire il settore del carbone e dell’acciaio all’interno del TCE. Il processo termina con il Trattato di Lisbona: la Comunità Europea, così come denominata in seguito alla firma dell’altro trattato fondamentale, il Trattato sull’Unione europea (TUE), avvenuta a Maastricht nel 1992, confluisce all’interno dell’Unione europea e il TCE cambia titolo e diventa definitivamente TFUE. La CEEA invece sopravvive, con alcune modifiche per adattarla al nuovo modello, ancora come ente autonomo.
Dal punto di vista strutturale, nella versione attualmente in vigore dopo le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, le norme che interessano direttamente il diritto del lavoro sono inserite nella Parte III.
Dopo l’uscita di scena nel 2020 del Regno Unito (c.d. Brexit), l’UE conta 27 membri: ci sono tuttavia altri paesi che hanno avviato le procedure di adesione i quali potrebbero dunque allargarne nuovamente la platea.
Per una dettagliata analisi delle tematiche in questione si guardino X. XXXXXXX, Diritto dell’Unione Europea, Xxxxxxx Editore, Milano, 2018 (6° edizione), pp. 1-55 e xxx.xxx-xxx.xxxxxx.xx.
chiaramente infatti che L’Unione e gli Stati membri [...] hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse mane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone poi l’art. 153 TFUE, il quale attribuisce all’Unione la possibilità di agire al fianco degli stati membri per raggiungere a) miglioramento, in particolare, dell’ambiente di lavoro, per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori; b) condizioni di lavoro; c) sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori; d) protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro; e) informazione e consultazione dei lavoratori; [...] i) parità tra uomini e donne per quanto riguarda le opportunità sul mercato del lavoro ed il trattamento sul lavoro.
Non si dimentichi poi quanto disposto nei titoli II e III della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea123, proclamata nel Consiglio Europeo di Nizza del 7 dicembre 2000, dedicati rispettivamente alla libertà e all’uguaglianza. Ad essere tutelate sono da un lato la libertà d’impresa, dall’altro i diritti dei lavoratori.
Sulla base di questi fondamenti giuridici, nel prossimo paragrafo si cercherà di ricostruire l’intervento dell’Unione europea in materia di tutela, sia diretta che indiretta, del lavoratore vittima di mobbing,
2.2.1. Gli interventi a livello comunitario
Anche a livello comunitario124 si è sentita dunque la necessità di intervenire a tutela dei lavoratori vittime in generale di violenza e in particolare di episodi di mobbing.
Rilevante in materia è stata l’emanazione delle dir. 29 giugno 2000 n. 2000/43/CE, riguardante la parità di trattamento indipendentemente da razza e da origine etnica, e dir. 27 novembre 2000 n. 2000/78/CE, sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro in generale, recepite in Italia con i d.lgs. 9 luglio 2003 nn. 215 e 216, che vanno a completare la disciplina comunitaria precedente e improntata
123 Tale Carta ha il compito di individuare i diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione e di delinearne la portata. Il suo valore giuridico è stato chiarito dall’art. 6 par. 1 c. 1 TUE, il quale stabilisce che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Per un approfondimento della tematica si rinvia a X. XXXXXXX, Diritto dell’Unione Europea, cit., pp. 205-217.
124 Per una accurata analisi degli interventi in materia operati dalla Comunità Europea nei decenni precedenti si guardi X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp. 7-9.
prevalentemente sulla tutela dalle discriminazioni di genere125. Il fatto che venga fatto riferimento ad un concetto di molestia aperto e causato da molti fattori permette di farvi rientrare anche il mobbing.
La Risoluzione n. A5-0283/2001 (2001/2339(INI)) del Parlamento europeo riguarda invece specificamente il mobbing sul posto di xxxxxx000: prendendo coscienza delle problematiche del fenomeno, delle ripercussioni sulla salute psicofisica del lavoratore127 e del crescente numero di persone che lamentano di esserne state vittime128, gli Stati membri129 sono esortati a prendere gli opportuni provvedimenti legislativi con il duplice scopo di prevenzione e repressione. Inoltre la Commissione viene invitata a presentare un libro verde di analisi della situazione relativa al mobbing sul posto di lavoro nei singoli paesi. Nel 2002 è promulgata la Direttiva 2002/73/CE130 che modifica la Direttiva 76/207/CEE sulla parità tra uomini e donne, con lo scopo di incentivare l’adozione di tutte le misure possibili per la prevenzione di molestie e molestie sessuali, due concetti affrontati distintamente. Nello specifico, le prime sono caratterizzate dalla presenza di un comportamento indesiderato che ha lo scopo di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, risultando così idonee a sfociare in episodi di mobbing131. Non si dimentichi in ogni caso che anche le molestie sessuali possono essere
parte integrante di un più ampio progetto vessatorio.
125 Un’ampia analisi dei contenuti delle due direttive e delle conseguenze sull’ordinamento italiano è affrontata in X. XXXXX, Recepite le direttive comunitarie in materia di lotta contro le discriminazioni, in Lav.giur., 2003, X, pp. 905-911. Per un approfondimento sulla politica antidiscriminatoria europea si veda anche A. MONTANARI, Parità di trattamento e divieto di discriminazione, in X. XXXXXXX-X. XXXXXXXXXXXX, Diritto del lavoro dell’Unione Europea, Giappichelli Editore, Torino, 2021, pp. 200-227.
126 Testo integrale disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxxxx/xxxXxx.xx?xxxXxxx-
//EP//TEXT+TA+P5-TA-2001-0478+0+DOC+XML+V0//IT (consultato da chi scrive in data 26 gennaio 2021). Si vedano a riguardo le considerazioni riportate in RAFFI A., Il mobbing nell’ordinamento comunitario, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, “Mobbing, organizzazione, malattia professionale”, UTET Giuridica, Milano, 2006, pp. 257-261.
127 Lettera C, Risoluzione n. A5-0283/2011 (2001/2339(INI)).
128 Lettera A, Risoluzione n. A5-0283/2011 (2001/2339(INI))): la Fondazione di Dublino afferma che nei dodici mesi precedenti alla data della Risoluzione l’8% dei lavoratori dell’Unione Europea (12 milioni di persone), seppur il dato sia considerato sottostimato, è stata vittima di mobbing sul luogo di lavoro.
129 Tuttavia, con un’illuminante intuizione, la dottrina aveva fin da subito notato un’inerzia da parte del legislatore nazionale che si è protratta fino ai giorni nostri e auspicato un intervento più deciso a livello europeo in materia: X. XXXXX, «Mobbing»: strategie di prevenzione e contrasto nella l. n.16/2002 della Regione Lazio, in Lav. giur., 2002, XI, pp. 1035-1036.
130 Testo integrale disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx- xxx.xxxxxx.xx/XxxXxxXxxx/XxxXxxXxxx.xx?xxxxXX:X:0000:000:0000:0000:XX:XXX (consultato da chi scrive in data 26 gennaio 2021).
131 X. XXXXXXXX, Mobbing, norma giurisprudenziale (la responsabilità da persecuzione nei luoghi di lavoro), in
Lav. giur., 2003, IV, p. 306.
Nella Risoluzione (2004/2205(INI))132 il Parlamento europeo torna ad occuparsi delle problematiche già affrontate nel 2002 con la Direttiva 2002/73/CE e auspica che gli stati provvedano ad allinearsi, favorendo anche lo scambio di pratiche ritenute virtuose133. Dopo questa serie di interventi ravvicinati, in ambito eurounitario ci si torna ad occupare della questione solo nel 2018 con la Risoluzione (2018/2055(INI)) sul mobbing e le molestie sessuali sul posto di lavoro, nei luoghi pubblici e nella vita politica nell’UE134. Gli Stati membri sono invitati ad adottare delle misure efficaci di prevenzione e implementare il numero di ispettori del lavoro, al fine di ottenere un effetto deterrente dal porre in essere
comportamenti vessatori.
3. La tutela penale del mobbizzato
L’assenza di una norma ad hoc che si faccia carico della definizione e della quantificazione della sanzione penale non impedisce allo stato di individuare altre forme di tutela per il lavoratore che lamenti di essere vittima di mobbing.
Le condotte che caratterizzano gli episodi di mobbing, essendo lesive di beni costituzionalmente protetti, giustificano l’applicazione delle norme penali che vanno a tutelare detti beni: lesioni (art. 582 c.p.), morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.), omicidio colposo (art. 589 c.p.), lesioni colpose (590 c.p.), ingiuria (art. 594 c.p.135), diffamazione (art. 595 c.p.), abuso d’ufficio (art. 323 c.p.)136, molestie sessuali137 (art. 609 c.p.), violenza sessuale (609 bis c.p.), violenza privata (art. 610 c.p.) e molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.). Deve essere considerata inoltre l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero con abuso di relazioni di ufficio, di prestazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità di cui all’art. 61
n.11 c.p138.
132 Testo integrale disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/xxxxx- content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A52005IP0056 (consultato da chi scrive in data 26 gennaio 2021).
133 Sugli effetti delle due risoluzioni si veda X. XXXXXXX, Mobbing, in Enciclopedia del Diritto, Xxxxxx XXXX, Xxxxxxx Editore, 2015, pp. 620-621.
134 Testo integrale disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx.xxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxxxx/xxxxxxxx/XX-0-0000- 0331_IT.html (consultato da chi scrive in data 26/01/2021).
135 Abrogato dal d.lgs. 15 gennaio 2016 n.7.
136 Si ricordi in questa sede che l’abuso d’ufficio è un reato proprio: in quanto tale può essere commesso solo da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.
137 Le molestie sessuali sono definite «antecedente del mobbing» in P. XXXXXXXXXX, Xxxxxxx., cit. pp. 121-125. 138 Cfr X.X. XXXXXXXX-X. XXXX-X. XXXXX, Xxxxxxx, xxx, x. 00-00; X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp. 17-19; X. XXXXXXXX, Il fenomeno del mobbing: la rilevanza penale e gli strumenti di tutela, in Azienditalia- Il Personale, 2008, III, pp. 157-158.
In epoca recente la giurisprudenza di legittimità139, con l’avvallo di una dottrina quasi unanime nel sostenere questo percorso argomentativo in assenza di una norma penale ad hoc140, ha ragionato sulla possibilità di sussumere le condotte mobbizzanti nella fattispecie di cui all’art. 572 c.p., rubricato “Maltrattamenti contro famigliari o conviventi” e inserito nel Titolo riguardante i delitti contro la famiglia, per la quale Chiunque [...] maltratta [...] una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tra a sette anni. Tuttavia, il mutamento di orientamento141 da parte della Corte apicale è stato repentino e ha limitato la riconducibilità del mobbing al delitto di cui all’art. 572 c.p. alla sola situazione di fatto in cui tra il mobber e la vittima sussistano rapporti di natura para-familiare142: si è tornati così ad una situazione in cui il mobbing può essere oggetto di tutela davanti al giudice penale solo se le singole condotte costituiscono uno dei reati di cui supra, tanto che la dottrina ha definito il mobbing dal punto di vista penalistico come una «realtà frantumata»143.
La Corte di Cassazione144 ha poi ritenuto ammissibile anche l’applicazione di misure cautelari interdittive, nel caso di specie il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali (art. 290 c.p.p.), se sono in xxxxx xxxxx xxxxxxxx xx
000 Xx veda, ex multis, X. XXXXXXXXX., Il mobbing nella giurisprudenza penale ed una fattispecie specifica di reato, in Lav. giur., 2007, X, pp. 995-996, in cui commenta Cass. pen. sez. V, 9 luglio 2007, n. 33624.
000 X. X. XXXXXXXX, La rilevanza penale del mobbing, in Cass. pen., 2011, III, pp. 1290-1296. Vede favorevolmente l’inquadramento del mobbing all’interno della cornice dell’art. 572 c.p. anche X. XXXXXX, La tutela penale del mobbing, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, “Mobbing, organizzazione, malattia professionale”, UTET Giuridica, Milano, 2006, pp. 161-162.
141 Così X. XXXXXXXX, La rilevanza penale del mobbing, cit., pp. 1294-1296. L’autore ritiene che sia errato introdurre il presupposto del rapporto para-familiare affinché il mobbing possa essere ricondotto alla fattispecie di cui all’art 572 c.p. in quanto la collocazione nel Titolo X non può vincolare in assoluto l’interprete. La scelta di tale collocazione sarebbe stata fatta dunque solo per motivazioni pratiche e per omaggiare la famiglia, ovvero il bene giuridico al quale si intendeva assegnare maggiore rilievo.
142 Si veda in questo senso X. XXXXX, Quando il mobbing integra il delitto di maltrattamenti in famiglia?, in Lav. giur., 2011, X, pp. 1025-1039, in cui è commentata la sentenza Xxxx. xxx. sez. VI, 22 settembre 2010, n. 685: un’operaia della Fiat s.p.a. lamentava di essere stata vittima, per un periodo di circa due anni, di trattamenti umilianti, degradanti e vessatori ad opera del caposquadra. A seguito del non luogo a procedere dichiarato dal Gup di Torino, la persona offesa presentava ricorso in Cassazione la quale, però, lo rigettava per due motivi: in primis il mobbing deve essere causato da una precisa volontà di sottoporre il lavoratore ad un regime di vita intollerante e stressante, poi è necessario, affinché possa essere applicato l’art. 572 c.p., che tra il superiore gerarchico e il soggetto mobbizzato sussista un rapporto di para-familiarità. Nello stesso senso, ex multis, Xxxx. pen. sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 26594, in Diritto e Giustizia online, 2009.
143 Così X. XXXXX, Rilevanza penale del mobbing ed applicazione di misure cautelari interdittive, in Lav. giur., 2009, XI, p.1145
144 Cass. pen. sez. VI, 18 marzo 2009, n.28553, in Lav. giur., 2009, XI, pp. 1139-1142, con nota di X. XXXXX
diffuse manifestazioni di mobbing in ambiente lavorativo, in considerazione della delicatezza del fenomeno e della difficoltà di dare piena prova dei fatti.
Un’attenta dottrina145 ha sottolineato anche la difficoltà posta dal dettato dell’art. 40, c.2 c.p.146 riguardo all’accertamento del nesso di causalità, secondo il quale non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo: il datore di lavoro, visto quanto disposto dall’art. 2087 c.c., nel caso in cui venisse meno all’obbligo di tutela, potrebbe potenzialmente commettere un reato omissivo improprio147. L’accertamento del nesso eziologico tra l’omissione e il danno deve essere effettuato, in base ai principi sanciti dalla giurisprudenza penale148, in termine di probabilità logica verificata sulla base delle circostanze del caso concreto: l’azione doverosa deve essere ritenuta dal giudice potenzialmente idonea, sulla base delle regole scientifiche e dell’esperienza, ad impedire l’evento dannoso per il mobbizzato con una probabilità vicina alla certezza.
La necessità di una nuova fattispecie di reato che tipizzi il mobbing, sulla scia di quanto fatto per esempio in Francia149, è sentita da più parti in dottrina150. Non mancano tuttavia delle opinioni critiche151 a riguardo che pongono i riflettori sul fatto che, essendo quella in questione una fattispecie aperta, in quanto tale rischierebbe di essere in contrasto con i principi cardine del diritto penale: di frammentarietà152, per il quale sono elevate a fattispecie di reato non tutte le offese ad un bene protetto, bensì solo quelle che, in base
145 X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp. 18.
146 È definita «clausola di equivalenza» per i reati omissivi impropri in X. XXXXXXXX-X. XXXXX, Diritto penale. Parte generale, Zanichelli editore, Bologna, 2014 (7° edizione), p. 625.
147 «Sono definibili “impropri” i reati omissivi che consistono [...] nella violazione dell’obbligo di impedire il verificarsi di un evento tipico ai sensi di una fattispecie commissiva-base». FIANDACA G.-XXXXX E., Diritto penale, cit., p. 620.
148 Cass. pen. SS. UU., 10 luglio 2002, n. 30328 (c.d. Sentenza Franzese) in Foro it., 2002, XI, pp. 601-625 con nota di O. DI GIOVINE.
149 V. 1 § 5.2. Sostiene l’utilità di un confronto con quanto fatto dal legislatore francese in tema di rilevanza penale del mobbing anche XXXXXX X., La tutela penale del mobbing, cit., pp. 166-167.
150 Si rinvia, ex multis, a XXXXXXXX S.- DI XXXXXX X.- XXXXXXXX L. T., La necessità di una nuova fattispecie di reato: il mobbing, in Riv. it. med. leg., 2010, VI, pp. 964-965: gli autori suggeriscono di ripercorrere la stessa strasa intrapresa nel 2009, quando si è tipizzato lo stalking (art. 612 bis c.p.).
000 X. XXXXX X., Quando il mobbing integra il delitto di maltrattamenti in famiglia?, cit., pp. 1038-1039; X. XXXXX, Rilevanza penale del mobbing, cit., p. 1145. Coltiva qualche perplessità anche MURATORIO A., Il mobbing nella giurisprudenza penale, cit., p. 1000. In X. XXXXXXXX- I. DI XXXXXX-L.T. XXXXXXXX, La necessità di una nuova fattispecie di reato, cit., p. 962, nonostante si sostenga l’utilità di un intervento del legislatore, si riconosce che non sarebbe facile rispettare i principi fondamentali del diritto penale italiano.
152 Sul punto FIANDACA G.-MUSCO E., Diritto penale, cit., pp. 32-35.
ad una scelta di politica criminale, il legislatore sceglie di criminalizzare153; di tassatività154, che impone al legislatore di specificare in modo chiaro quali comportamenti integrano una fattispecie di reato e quali invece no; di determinatezza, che esprime la necessità per cui le norme di incriminatrici di diritto penale devono descrivere delle situazioni idonee ad essere accertate e provate in un eventuale processo.
Per questi motivi, la tutela del lavoratore vittima di mobbing trova cittadinanza soprattutto nell’ambito del diritto civile, libero dai canoni di stretta legalità e di tipicità tipici del diritto penale155.
4. La tutela civile del mobbizzato
In Italia, nonostante come si abbia più volte avuto modo di notare non esista una legge definitoria del mobbing, il lavoratore non si è mai trovato comunque privo di tutele di fronte a comportamenti discriminatori o vessatori: infatti, mentre da un lato sono stati previsti specifici rimedi contro le singole condotte illegittime, dall’altro la giurisprudenza, a partire dai due leading cases del Tribunale di Torino del 1999156, ha ricondotto il mobbing all’interno dell’alveo della responsabilità civile.
Un’attenta dottrina157 ha infatti notato che già prima che tale fenomeno si imponesse, sia nell’ambito del diritto che in ambito mediatico, il numero di pronunce giurisprudenziali in materia di condotte oggi potenzialmente idonee ad integrare la fattispecie del mobbing, soprattutto di danni da dequalificazione e demansionamento professionale158, fosse corposo e basato sul combinato disposto degli artt. 32 Cost., 2043
c.c. e 2103 c.c.159: si ricordino a titolo di esempio la variazione in peius delle mansioni160, la
153 In X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., p. 19, in tal senso si fa riferimento anche al principio di meritevolezza della pena, per il quale la sanzione è applicabile solo se l’offesa è tale da non poter essere in alcun modo tollerata.
154 Ampiamente trattato in X. XXXXXXXX G.-X. XXXXX, Diritto penale, cit., pp. 85-93.
155 In questi termini si esprime X. XXXXXXXXX , Un’introduzione al mobbing, cit., p. 19.
156 Si tratta delle sentenze Trib. Torino 16 novembre 1999 (Erriquez c. Ergom), in Riv. it. dir. lav., cit.; Trib. Torino 11 dicembre 1999, in Lav giur., 2000, XI, pp. 830-841 con nota di X. XXXXX, “Mobbing”, onere della prova e risarcimento del danno (Stomeo x. Xxxxxxx S.p.A.).
157 X. XXXXX, “Mobbing”, onere della prova, cit., p. 836; P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, pp. 24- 35.
158 In capo al datore di lavoro, entro limiti determinati dalla legge, sussiste comunque uno ius variandi delle mansioni del lavoratore per l’approfondimento del quale si rinvia a M.V. BALLESTRERO-X. XX XXXXXX, Diritto del lavoro, cit., pp. 345-359.
159 P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Mobbing, cit, p. 27, tra i quali casi vengono riportati degli esempi.
160 Cass. civ., 9 gennaio 1987, n. 67, in Riv. it. dir. lav., 1987, II, p. 534.
lottizzazione161 e l’utilizzazione del lavoratore al di sotto delle proprie mansioni contrattuali162.
L’analisi dei due casi giunti sotto la lente d’ingrandimento del giudice torinese nel 1999 può essere utile per un primo inquadramento del fenomeno. In Erriquez c. Ergom il datore di lavoro viene condannato sulla base di quanto disposto dagli artt. 2087 c.c. e 32 Cost. per azioni non direttamente a lui imputabili ma commesse dal capo-turno: questi infatti aveva più volte molestato sessualmente la signora Xxxxxxxx, l’aveva adibita ad una macchina posta in un ambiente isolato rispetto a tutto il resto del personale aziendale e la ricopriva di insulti ogniqualvolta lei si lamentasse della situazione di disagio direttamente o per mezzo del rappresentante della sicurezza dei lavoratori163. Nel caso di specie il danno liquidato è di tipo biologico e quantificato in via equitativa in L. 10.000.000.
La sentenza Stomeo x. Xxxxxxx S.p.A., di pochi giorni successiva alla prima, inquadra ancora una volta la fonte di responsabilità nel combinato disposto di art. 2087 c.c. e art. 32 Cost., ma in questo caso è direttamente il datore di lavoro a porre in essere le condotte mobbizzanti, in un caso tipico di bossing164: infatti, dopo aver fatto inutilmente pressioni sulla signora Xxxxxx al fine di provocarne le dimissioni volontarie, la parte datoriale prima assume una nuova impiegata per sostituirla, poi la trasferisce dagli uffici amministrativi al magazzino, con una chiara variazione in peius delle mansioni. Il caso in questione viene dunque circoscritto in una prospettiva più ampia rispetto a quella dell’art. 2103 c.c.165 e la modificazione delle mansioni è solo una parte del complessivo intento persecutorio166. Il danno risarcito, sempre determinato in via equitativa in L. 10.000.000, è questa volta di tipo esistenziale.
Degno di nota è il fatto che in entrambe le pronunce non sia stata necessario il ricorso al C.T.U. (consulente tecnico d’ufficio) per l’accertamento dell’esistenza del danno e del nesso causale, dato che questo era già documentato da concordanti certificati medici
161 Cass. civ., 16 dicembre 1992, n. 13299, in Dir. inf., 1993, p. 652.
162 Trib. Cagliari, (ord.) 5 luglio 1996, in Lav. giur., 1997, p. 312.
163 Tuttavia, in X. XXX, La valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit, p. 12, l’autore sottolinea come in realtà, secondo le proprie valutazioni, fosse giusto il risarcimento del danno a favore della vittima ma non ci si trovasse di fronte ad un vero e proprio caso di mobbing.
164 V. capitolo 1 § 1.2.1
165 Sulla portata dell’art. 2103 c.c. e la sua rilevanza nel mobbing si rinvia a capitolo 1 § 4.4.
166 In questi termini X. XXXXX, “Mobbing”, onere della prova e risarcimento del danno, cit., p. 839.
e che le testimonianze collegavano l’insorgenza della situazione patologica al periodo storico in cui la vittima dichiarava di essere stata sottoposta a mobbing.
In base a questa ricostruzione si può comprendere, riguardo al mobbing, che «La sua introduzione [...] non comporta nessuna innovazione della teoria dell’illecito»167 ma costituisce un «legal framework»168 che ha il duplice pregio di permettere uno sguardo di insieme su tutte le condotte del mobber, le quali vengono considerate unitariamente perché collegate da un unico intento persecutorio169, e di garantire una maggior tutela dal punto di vista risarcitorio sia sul quantum dei danni e, talvolta, anche sull’an debeatur170.
La giurisprudenza, nel tentativo di dare una definizione al fenomeno per supplire il vuoto legislativo, ha ripetutamente statuito che Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico [o anche di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi], sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità171.
Dottrina172 e giurisprudenza173 si sono trovate dunque fin da subito concordi nell’individuare e valorizzare da un lato i requisiti della sistematicità e reiterazione per un certo lasso di tempo delle aggressioni, dall’altro l’art. 2087 c.c.174 come fonte di responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro.
167 Così P.G. XXXXXXXX, I paradossi del mobbing, in in TOSI P. (a cura di), Il mobbing, cit., p. 84.
168 P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 35.
169 V. R. XXXXX, “Mobbing”, onere della prova e risarcimento del danno, cit., p. 839
170 Cfr P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 34.
171 V. ex multis: Cons. di Stato sez VI, 16 aprile 2015, n. 1945 in Foro amm., 2015, IV, p. 1114; T.A.R. Bologna (Xxxxxx-Romagna) sez. I, 29 agosto 2018, n. 645 in Foro amm., 2018, VII-VIII, p, 1308.
172 Già le prime pubblicazioni in tema di mobbing fanno queste considerazioni: X. XXXXXXX, Mobbing e rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2000, III, p. 258; X. XXXXX-M.V. XXXXXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Il mobbing. Aspetti lavoristici: nozione, responsabilità, tutele, in Il diritto privato oggi, Xxxxxxx editore, Milano, 2002, pp. 99-103; X. XXXXX, Mobbing verticale, cit., p. 564; M.T. CARINCI, Il mobbing: alla ricerca della fattispecie, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, “Mobbing, organizzazione, malattia professionale”, UTET Giuridica, Milano, 2006, pp. 38-59.
173 Come si è sottolineato nelle due sentenze Torinesi, v. supra.
174 Art. 2087 c.c.- Tutela delle condizioni di lavoro:
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Tale disposizione impone all’imprenditore di adottare tutte le cautele necessarie per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore dipendente175, permettendo così di prestare tutela al lavoratore mobbizzato anche in presenza di un atto lecito, quindi rientrante ex lege nei poteri datoriali, ma contrario a tale dovere176.
Un autore ha ritenuto che si sia così introdotta in materia giuslavoristica la clausola di buona fede177, desumibile anche da una lettura della norma in questione in combinato disposto178 con gli artt. 1175179 e 1375180 c.c. L’art. 2087 c.c. ha infatti il pregio di qualificare la condotta mobbizzante non il base al suo contenuto, visti i numerosi problemi che si porrebbero in tema di completezza della nozione, bensì in considerazione del bene protetto, in questo caso la salute sia fisica sia morale del prestatore di lavoro181: la clausola generale si presta così ad essere interpretata dal giudice in funzione della mutevole realtà economica e sociale in cui deve essere applicata, ben adattandosi al mobbing.
4.1. L’azione contro l’azienda-mobber nel caso di bossing
L’art. 2087 c.c. si applica pacificamente al caso in cui è l’azienda stessa a rendersi colpevole di mobbing nei confronti dei propri dipendenti, ponendo in capo al datore di lavoro una responsabilità di tipo contrattuale per non aver adempiuto, mediante una condotta di tipo commissivo, ai propri obblighi di protezione. Le azioni mobbizzanti sono però anche idonee ad integrare una responsabilità di tipo extracontrattuale182 sulla base di quanto disposto dall’art. 2043 c.c.183. Tali azioni, secondo le regole generali poste dal codice civile, si differenziano per:
175 Cass. sez. lav., 6 settembre 1988, n. 5048, in Foro it., 1988, I, pp. 2849-2864.
176 In questi termini X. XX XXXXXXX, Diritto del lavoro e tutela risarcitoria: un fugace sguardo tra passato e presente, p. 620.
177 X. XXXXXXXXX, Il Mobbing, cit., p. 23, al quale si rinvia per un’ampia trattazione della portata di tale principio e della sua evoluzione nel diritto del lavoro.
178 Questa intuizione si trova anche in X. XXXXX, Configurabilità del mobbing e prova dell’intento persecutorio, in Lav. giur., 2019, IV, p. 384.
179 Art. 1175 c.c.- Comportamento secondo correttezza
Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza.
180 Art. 1375 c.c. Esecuzione di buona fede
Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede
181 Cfr X. XXXXXXXXX, Mobbing senza veli, in Dir. relaz. ind., 2005, IV, pp. 1052-1053.
182 Così P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Mobbing, cit, p. 40: gli autori sottolineano che l’inquadramento della fattispecie come extracontrattuale ha sicuramente dei vantaggi in ordine al risarcimento del danno morale. 183 Art 2043 c.c.- Risarcimento per fatto illecito
Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
1. onere probatorio: nella responsabilità contrattuale generalmente il creditore gode di un regime più favorevole, dovendo provare in giudizio il credito che fa valere, il danno di cui chiede il ristoro e il relativo nesso causale; il debitore dal canto suo può fornire la prova liberatoria di aver eseguito correttamente la prestazione o che l’inadempimento è dovuto a causa a lui non imputabile. In un’azione per responsabilità extracontrattuale invece l’attore ha a suo carico anche la prova dell’elemento soggettivo;
2. prescrizione: l’azione per responsabilità contrattuale è più lunga, 10 anni (art. 2946 c.c.), rispetto che quella extracontrattuale, che di regola è di 5 anni (art. 2947 c.c.);
3. danni risarcibili: agendo in base ad un titolo contrattuale i danni risarcibili sono solo quelli prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione (1225 c.c.), limite che viene meno per la responsabilità extracontrattuale (2056 c.c.).
Un’attenta dottrina ha fin da subito notato però che l’azione contrattuale può concorrere con quella extracontrattuale se dalle azioni mobbizzanti sono derivate delle lesioni alla persona del lavoratore, indipendentemente dal rapporto di lavoro, ma che nella prassi più che di concorso in realtà si tratta di xxxxxx, risolvendo così alla radice il problema della prevedibilità del danno posto dall’art 1225 c.c184: un autore ritiene il cumulo però un istituto privo di basi dogmatiche e costruito dalla giurisprudenza nel solo tentativo di dare al danneggiato la massima tutela possibile185.
Sulla scia di queste considerazioni la giurisprudenza si è espressa e ha individuato, in una sorta di «sistematica quadripartita»186 e superando i limiti dell’onere probatorio nella responsabilità contrattuale187, gli elementi che devono essere necessariamente presenti per aversi mobbing in a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo,
184 V. P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Mobbing, cit, pp. 41-42 e X. XXXXXXXXX, La responsabilità del datore di lavoro privato, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli Editore, Bologna, 2007, pp. 231-235.
185 X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp. 39-40, a cui si rinvia per ulteriori complete considerazioni in tema.
186 X. XXXXXX, Oltre al danno, la prova dell’intento vessatorio. Il mobbing tra tesi “soggettiva” e complessità dell’azione, in Arg. Dir. Lav., 2018, II, p. 600.
187 Cons. Stato sez. IV, 1 luglio 2019, n. 4471 in Foro amm., 2019, VII-VIII, p. 1232: “L’onere della prova dell’animus nocendi [...] grava sul dipendente, pur facendosi valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale”.
direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;
d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti xxxxxx000.
Viene dunque posto a carico del lavoratore mobbizzato l’onere di provare, oltre all’elemento oggettivo costituito dalle plurime condotte vessatorie, al danno patito e al nesso eziologico tra condotte e danno, anche l’elemento soggettivo del dolo189, non sempre considerato nella sua accezione generica190, quindi come consapevolezza di porre in essere condotte vessatorie, ma talvolta inteso come dolo specifico, ovvero come volontà di vessare psicologicamente il lavoratore al fine di allontanarlo o isolarlo all’interno dell’impresa191.
Così facendo sembra che i giudici preferiscano la teoria soggettivistica, che richiede un’indagine sulle motivazioni e sulle finalità discriminatorie, permettendo così di dar rilievo anche a condotte che sarebbero considerate pienamente lecite192, a quella oggettivistica193 che invece formula a priori un giudizio di disvalore delle condotte vessatorie indipendentemente dalla complessiva volontà del mobber194.
188 Così, ex multis: Cass. civ. sez. lav, 28 agosto 2013. n. 19814 in Riv. it. dir. lav., 2014, I, pp. 63-67 con nota di X. XXXXXXXXXXX che parla di «una definizione di mobbing che si è venuta via via consolidandosi, e che si trova enunciata anche nella sentenza in epigrafe»; Cass. civ. sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698, disponibile in xxxx://xxxxxxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive il 15 febbraio 2021). Tra le pronunce più recenti si segnala anche: T.A.R. Brescia (Lombardia) sez. I, 4 maggio 2020, n.319, in Foro amm., 2020, V, p. 1025.
189 Un’attenta dottrina a tal proposito ha notato che, se si considera onere del lavoratore la prova dell’elemento soggettivo, ci si spingerebbe oltre al paradigma della responsabilità contrattuale: X. XXXXXXXX, Mobbing ed onere della prova, in Giur. it., 2016, VI, p. 1442.
190 Cfr. X. XXXXX, Configurabilità del mobbing e prova dell’intento persecutorio, cit., p. 383.
191 Ex multis, T.A.R. Milano (Lombardia) sez. I, 22 aprile 2016, n. 776 in Foro amm., 2916, IV, p. 941; Trib. Venezia sez. lav., 3 novembre 2020, n. 310, in xxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 2 marzo 2021). In dottrina questa tesi è appoggiata da X. XXXX, Il mobbing: una fattispecie in cerca di autore, in X. XXXX X (a cura di), Il mobbing, cit., p. 167.
192 L’autore lo ritiene essere uno dei punti di forza della teoria soggettivistica: X. XXXXXX, Oltre al danno, la prova, cit., p. 603.
193 Si riporta qualche dottrina schierata a favore della teoria oggettivistica: X. XXXXXXXXX, Mobbing senza veli, cit., p. 1052; X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 505; P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 40; X. XXXXXXXXX, Ancora sul mobbing, in Eur. dir. priv., 2006, IV, p. 1354. Contra, X. XXXXXXX, Mobbing e rapporto di lavoro, cit., p. 255 secondo la quale la finalità di discriminare, emarginare o arrecare pregiudizio alla vittima è requisito di rilevanza giuridica.
194 Per un’analisi attenta delle differenze tra teoria “soggettivistica” e teoria “oggettivistica” si rinvia a X. XXXXXXXX, Xxxxxxx, cit., pp. 1439-1441. La giurisprudenza di legittimità sembra però aver ormai abbandonato definitivamente questa impostazione, affermando che l’elemento qualificante del mobbing non va ricercato
Una impostazione di tipo strettamente soggettivistico rischierebbe tuttavia di porre il mobbizzato in una posizione di difficoltà sia dal punto di vista oggettivo, si pensi ad esempio alla complessità della produzione di dichiarazioni in cui il mobber ammette il proprio progetto vessatorio195, sia soggettivo, vista la condizione di sudditanza psicologica aggravata dal malessere generale nei confronti del mobber-datore di lavoro196.
Per questo motivo, prima la dottrina197 e poi la giurisprudenza198 hanno cercato di superare la dicotomia tra teoria soggettivistica ed oggettivistica temperando l’onere probatorio mediante il ricorso alle presunzioni gravi, precise e concordanti ex art. 2729 c.c. da valutare, con il prudente apprezzamento del giudice, insieme alle nozioni generali che sono conosciute nella comune esperienza (art. 115 c.p.c.). Resta ferma la possibilità per il datore di lavoro-convenuto di provare che l’inadempimento è dovuto da causa non a lui imputabile, quindi di aver correttamente adempiuto all’obbligo di sicurezza199.
Una attenta valutazione deve essere fatto anche sugli gli antefatti del mobbing, intesi come tutte le situazioni di fatto che possono portare ad escludere l’esistenza stessa della fattispecie tra le quali le difficoltà caratteriali del soggetto mobbizzato, il trasferimento ad altra sede per incompatibilità ambientale o una situazione di conflittualità diffusa sul posto di lavoro200.
Stante l’impossibilità di avere casi di mobbing nel rapporto di lavoro autonomo, una questione che non è stata ancora direttamente sottoposta al giudice ma di cui la dottrina201 ha ammesso la configurabilità è il mobbing nei confronti dei c.d. lavoratori parasubordinati,
nei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica: Cass. civ. sez. lav., 23 marzo 2020, n. 7487, in xxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 2 marzo 2021).
195 In questo senso X. XXXXX, Configurabilità del mobbing e prova dell’intento persecutorio, cit., p. 384.
196 Cfr X. XXXXXX., Oltre al danno, la prova, cit., p.606.
197 Ex multis: X. XXXXXXXX, Xxxxxxx, cit., pp. 1441-1443; X. XXXXXXXXXXX, Intenzionalità del mobbing e costrittività organizzativa, in Riv. it. dir. lav.., 2014, I, p. 65.
198 Si riportano a titolo di esempio T.A.R. Catanzaro sez. I, 21 marzo 2013, n. 299 in Foro amm. T.A.R., 2013, III, P. 997; Cass. civ. sez. lav., 19 febbraio 2019, n. 4815 in Resp. civ. prev., 2019, VI, p. 1880: Cons. Stato sez. IV, 1 luglio 2019, n. 4471 in Foro amm., 2019, VII-VIII, p. 1232 in cui viene anche ribadito che spetta al soggetto mobbizzato l’onere di provare il dolo del mobber.
199 Corte app. Catanzaro sez. lav., 21 novembre 2019, n. 1189, in xxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in
data 2 marzo 2020)
200 X. XXXXXXX., Antefatti e postfatti del mobbing, articolo pubblicato il 27/07/2009 in xxx.xxxxxxx.xxx (consultato da chi scrive il 19 febbraio 2020).
201 X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 506; X. XXXXX, Il mobbing tra esigenze preventive e tecniche risarcitorie, cit., p. 1054: in questo caso l’autore suggerisce di generalizzare l’obbligo datoriale ex art. 2087
c.c. in virtù di una lettura di sistema con le norme riguardanti la salute e la sicurezza sul lavoro.
ovvero le collaborazioni coordinate e continuative (xx.xx.xx.)202 di cui all’art. 409 n. 3) c.p.c. Si tratta di una categoria di lavoratori che in quanto a disciplina si trovano a metà tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo ma a cui la giurisprudenza ha ritenuto essere applicabile l’art. 2087 c.c.203, lasciando dunque aperta in futuro la possibilità di configurazione del mobbing.
4.2. L’azione contro l’azienda per mobbing verticale e mobbing orizzontale
L’art. 2087 c.c. pone in capo al datore una responsabilità di tipo contrattuale anche nel caso in cui non sia egli stesso a rendersi protagonista di condotte mobbizzanti bensì ad agire siano altri soggetti, nello specifico in ipotesi di mobbing verticale discendente o ascendente e mobbing orizzontale.
La norma rilevante in tal senso è l’art. 1228 c.c.204, il quale rende il debitore responsabile di tutte le conseguenze dannose del fatto doloso o colposo di terzi di cui si è avvalso nell’adempimento dell’obbligazione. La nozione di terzo è intesa in senso molto ampio in quanto questo si identifica con chiunque collabori, sia di fatto che in forza di un accordo contrattuale205, sia direttamente che indirettamente (c.d. ausiliari mediati) con il datore di lavoro per assolvere gli obblighi di controllo e protezione della sicurezza dei lavoratori sul posto di lavoro206.
Accanto all’art. 1228 c.c. la giurisprudenza richiama l’art. 2049 c.c.207 come fonte di responsabilità aquiliana in capo al datore di lavoro per fatti di terzi commessi all’interno dell’organizzazione aziendale208. Inizialmente si è pensato che le due norme fossero l’una
202 Per un’analisi approfondita delle xx.xx.xx., su cui è intervenuta anche la l. 22 maggio 2017 n. 81, art. 15,
c. 1, lett. a) si rinvia a M.V. BALLESTRERO-X. XX XXXXXX, Diritto del lavoro, cit., pp. 153-161.
203 Cass. civ. sez. lav., 2 dicembre 2015, n. 24538, in xxx.xxxxxxxxxxxx.xxxxxxxxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 2 marzo 2021).
204 Art. 1228 c.c.- Responsabilità per fatto degli ausiliari
Salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si vale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.
205 In questo senso Cass. civ. sez. III, 8 ottobre 2010, n. 20915 in Giust. civ., 2011, II, p. 376: il giudice di legittimità in questo caso sottolinea che i soggetti ausiliari sono tutti coloro i quali agiscono su incarico del debitore e sotto al suo controllo a prescindere dalla natura giuridica del rapporto.
000 X. X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp 47-48.
207 Art. 2049 c.c.- Responsabilità dei padroni e dei committenti
I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti.
208 La giurisprudenza utilizza solo de residuo l’inquadramento della responsabilità datoriale all’interno della fattispecie di cui all’art. 2049 c.c., preferendo la responsabilità contrattuale ex 1228 c.c.: M.T. XXXXXXX, Il bossing fra inadempimento dell’obbligo di sicurezza, divieti di discriminazione e abuso del diritto, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, p. 137; X. XXXXXXXXX, La responsabilità del datore di lavoro privato, cit., p. 235.
la mera copia dell’altra e che si differenziassero solo per quanto riguarda l’ambito della responsabilità civile di applicazione, tuttavia tra le due disposizioni sussistono delle differenze209: infatti, come più volte ribadito sia dal giudice di merito che dal giudice di legittimità210, l’art. 2049 c.c. pone in capo al datore di lavoro una responsabilità di tipo oggettivo, mentre l’art. 1228 c.c., per far scaturire responsabilità contrattuale per inosservanza dell’obbligo di sicurezza in capo al datore, rende necessario un inadempimento o un inesatto adempimento del rapporto obbligatorio dovuto a una violazione almeno colposa del dovere di protezione211.
L’art. 2049 c.c., sia in tema di mobbing in particolare che di tutela del lavoratore in generale, è passato più volte sotto la lente d’ingrandimento della giurisprudenza, la quale ha delineato i presupposti per addossare al datore di lavoro una responsabilità di tipo oggettivo212. Si è affermato che deve sussistere un rapporto di occasionalità necessaria213, quindi che le incombenze o le mansioni affidate al terzo-mobber abbiano reso possibile o almeno agevolato il comportamento produttivo del danno214, prescindendo dunque da una culpa in eligendo o in vigilando del datore.
Un’attenta dottrina215 ha fatto notare però che un recente orientamento giurisprudenziale216, temperando la natura oggettiva della responsabilità posta dall’art. 2049 c.c. in tema di mobbing, non ha ritenuto sufficiente ad escludere la responsabilità del datore di lavoro il fatto che le condotte siano state poste in essere da un terzo se c’è stata colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo, lasciando dunque, a contrario, aperta la possibilità di fornire la prova liberatoria consistente nel non aver potuto agire per causa
209 Cfr X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp. 48-49.
210 La differenza tra le due responsabilità poste dagli artt. 1228 c.c. e 2048 c.c. è di recente sottolineata anche da Trib Venezia Sez. spec. in materia di imprese, 2 luglio 2019 in Lav. giur., 2019, XI, p. 1059.
211 In questi termini X. XXXXXXX P., Xxxxxxx e rapporto di lavoro, cit., p. 259. Contra, ritiene che l’art. 1228 c.c. ponga in capo al datore di lavoro una responsabilità di tipo oggettivo M.T. CARINCI, Il mobbing: alla ricerca della fattispecie, cit., pp. 44-45.
212 Contra, F. DE XXXXXXX, Xxxxx da mobbing, cit., p. 22 ritiene che la giurisprudenza abbia inteso in senso meno rigoroso la responsabilità oggettiva, affiancandola al concetto di colpa: il datore di lavoro, affinché possa essere ritenuto responsabile, dovrebbe essere rimasto colpevolmente inerte.
213 P.G. MONATERI-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, p. 40.
214 Di recente, così si è pronunciato Trib. Teramo, 10 settembre 2020, n. 693, ined.
215 X. XXXXXXX, La responsabilità del datore di lavoro per fatti dei lavoratori, in Lav. giur., 2021, I, p. 101.
216 Ex multis, Cass. civ. sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037, in xxx.xxxxxxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 22 febbraio 2021; Trib. Roma sez. II, 3 aprile 2020, n. 2112, in xxx.xxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 2 marzo 2021)
non imputabile e quindi riconducendo l’istituto a crismi tipici della responsabilità contrattuale.
L’applicazione alternativa dell’art. 2049 x.x. x xxx. 0000 x.x. xx xxxx xxxxxxxx in cui il datore di lavoro non sia direttamente il soggetto che pone in essere le condotte vessatorie ha dei risvolti anche per quanto riguarda la proponibilità delle azioni da parte del mobbizzato: nel primo caso, infatti, c’è una situazione di cumulo alternativo di azioni nei confronti del datore di lavoro, mentre nel secondo caso la vittima potrà far valere la responsabilità contrattuale del datore di lavoro ed aquiliana del mobber in concreto, trovandosi in un concorso improprio di responsabilità che si differenziano per il soggetto passivo217.
Un autore ha rilevato che il datore di lavoro può tutelarsi proponendo azione diretta o di rivalsa, fondata sul dettato degli artt. 1175 c.c. e 1176 c.c.218, nei confronti del mobber per i danni arrecati all’organizzazione dell’impresa o per quanto sborsato a favore del mobbizzato219.
4.2.1. Il giudice competente
La competenza per materia delle cause di mobbing è, indipendentemente dal valore, del tribunale (art. 413 c.p.c.), rientrandovi sia le controversie che hanno ad oggetto un rapporto di lavoro subordinato (art. 409 n. 1) c.p.c.), sia quelle che riguardano i rapporti di parasubordinazione220 (art. 409 n. 3) c.p.c).
Per territorio, ex art. 413 c.2 c.p.c., per il lavoratore subordinato è in vigore un triplice criterio di competenza concorrente: il tribunale del luogo in cui si è perfezionato il contratto di lavoro, il luogo dove si trova l’azienda oppure il luogo in cui si trova una dipendenza dell’azienda alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale questi prestava la opera al momento della conclusione del rapporto.
Al lavoratore parasubordinato non si applica invece quest’ultimo foro in quanto egli non è dipendente dell’azienda in senso stretto: la legge, per ovviare a problemi concreti quali l’instaurazione del processo in tribunali molto distanti da quello in cui viene
000 X. X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., p. 49.
218 In tal caso, il datore di lavoro farebbe valere gli obblighi di correttezza (art. 1175 c.c.) e diligenza (art. 1176 c.c.) posti dalla legge in capo alle parti di un rapporto obbligatorio.
219 X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., p. 50.
220 In merito, si guardino le considerazioni sulla configurabilità del mobbing per i lavoratori subordinati supra
cap. 1 § 4.1.
concretamente svolta l’attività, ha introdotto il foro del domicilio del lavoratore che però non è concorrente con gli altri due ma esclusivo.221
La giurisprudenza222 ha risolto la spinosa questione delle cause contro il datore di lavoro per mobbing verticale e orizzontale ex art. 2087 c.c. comprendendole nella nozione di “controversia relativa a rapporti di lavoro subordinato privato”223: vi rientrano infatti non solo quelle relative ad obblighi tipici del rapporto di lavoro, ma anche quelle che hanno nel rapporto di lavoro un antecedente e presupposto necessario, pur non costituendo questo la causa petendi diretta.
Per quanto concerne il settore pubblico, il giudice amministrativo224 è competente per le controversie relative alla responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., in quanto ad essere fatto valere è un rapporto di natura contrattuale. Sussiste invece la competenza del giudice ordinario se il titolo giustificativo della pretesa è il comportamento vessatorio di colleghi o superiori, agendo dunque per responsabilità aquiliana, oppure se ci si trova in uno dei settori privatizzati dal d. lgs. 30 marzo 2001 n. 165225.
Se a proporre l’azione sono i congiunti del mobbizzato è prevista una duplice disciplina: nel caso in cui agiscano iure proprio, indifferentemente che la vittima di mobbing sia viva o deceduta, è esclusa la competenza della sezione del lavoro, in quanto la fonte è la responsabilità extracontrattuale e si applicano le ordinarie regole di competenza per valore. Diverso è invece il caso in cui si agisca iure hereditario: in questo caso il risarcimento dei danni è dovuto dalla violazione degli obblighi posti dall’art. 2087 c.c. e di conseguenza la competenza è del giudice del lavoro226.
4.3. Il danno risarcibile. Il danno patrimoniale
Dopo aver accertato la responsabilità del mobber, il giudice ha il compito di quantificare il danno patito dal soggetto mobbizzato.
221 V. F.P. LUISO, Diritto processuale civile. I processi speciali, Xxxxxxx editore, Milano, 2017, pp. 14-18.
222 Cass. civ. sez. lav., 15 gennaio 1998, n. 308 in Riv. giur. lav., 1998, II. pp. 589-596 con nota di X. XXXXXX
223 Art. 409 n. 1) c.p.c.
224 T.A.R. Napoli (Campania) sez. II, 17 aprile 2009, n. 2007 in Foro amm. Xxx, 2009, IV, p. 1163; T.A.R. Trieste (Friuli Venezia Giulia) sez. I, 26 maggio 2011, n. 260 in Foro amm. Tar, 2011, V, p. 1544; Trib. Milano sez. I, 3 luglio 2019 in Riv. it. med. leg., 2020, I, p. 395 con nota di X. XXXXXXXXXX: nel caso di specie il giudice ordinario rileva la competenza del giudice amministrativo a decidere una controversia riguardante un militare della Polizia di Stato che chiama in causa il Ministero della Difesa quale datore di lavoro per non aver adempiuto agli obblighi ex art. 2087 c.c., mentre ritiene di essere competente per l’azione contro i superiori gerarchici in quanto di natura extracontrattuale.
225 Pubblicato in G.U. 9 maggio 2001, n. 106.
226 Cfr P.G. MONATERI P.G.-M. BONA-X. XXXXX, Xxxxxxx, cit, pp. 50-51.
Il mobbing, pur non introducendo alcuna novità sostanziale all’interno della categoria civilistica dei danni risarcibili, ha avuto il merito storico di sollecitare il dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale in merito al danno alla persona in ambito giuslavoristico227.
I danni risarcibili possono essere di natura patrimoniale, ex artt. 1223 c.c. e 2056 c.c., e non patrimoniale, ex art. 2059 c.c. Nonostante fin dalle prime sentenze del Tribunale di Torino la scena se la sia presa la componente non patrimoniale del danno, divenendo addirittura nell’elaborazione giurisprudenziale uno degli elementi costitutivi del mobbing, la dottrina ha ammesso comunque la possibilità di risarcimento anche del danno patrimoniale228. Questo si divide, secondo la tradizionale partizione prevista dall’art. 1223 c.c., in danno emergente, che comprende le spese effettivamente sostenute dalla vittima quali quelle mediche, farmaceutiche e per le visite specialistiche, e in lucro cessante, ovvero il mancato aumento del patrimonio della vittima a causa delle condotte mobbizzanti.
Di questa categoria fanno parte casi esemplari con i quali la giurisprudenza229 si è più volte imbattuta come il demansionamento o la dequalificazione, l’inattività forzata, la mancata o ritardata progressione di carriera a causa delle condotte mobbizzanti, la perdita di chance, il danno da licenziamento o la lesione dell’immagine professionale230. La giurisprudenza ha poi precisato che nella quantificazione del danno patrimoniale da mobbing trovano applicazione altri istituti tipici del diritto civile quali l’art. 1227 c.c., che da un lato ne riduce l’ammontare in caso di concorso colposo del danneggiato231 e dall’altro
227 Cfr X. XX XXXXXXX, Diritto del lavoro e tutela risarcitoria: un fugace sguardo tra passato e presente, in Arg. dir. lav., 2017, III, pp. 605-606: l’autore sottolinea che il diritto del lavoro, pur fornendo casi di notevole interesse alla giurisprudenza, non ha partecipato direttamente né alla rimeditazione risarcitoria degli anni Sessanta né alla discussione sulla risarcibilità del danno alla persona degli anni Ottanta in cui è intervenuta anche la Corte Costituzionale.
228 Per un’attenta analisi della relazione tra danno patrimoniale e non patrimoniale nel mobbing si rinvia a X.
XXXXXXXX, Il danno patrimoniale da mobbing, in Lav. giur., 2011, V, pp. 455-470. L’autore sostiene che ci si trovi di fronte ad una «fattispecie a formazione progressiva», la quale ha sì come risultato finale la determinazione del danno non patrimoniale del mobbizzato ma che nelle sue fasi intermedie può determinare altre situazioni risarcibili con caratteristiche proprie. Per questo motivo si parla di danni patrimoniali da mobbing in termini di danni indiretti. Xxx, p. 458.
229 V. le considerazioni svolte in G. CARTOCETI, Mobbing: fattispecie, fenomenologia, responsabilità e risarcimento, in Xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 27 aprile 2016
230 Per una dettagliata analisi delle singole ipotesi di danno patrimoniale si rinvia a X.XXXXXXXX, Il danno patrimoniale, cit., p. 462 e F. DE XXXXXXX, Xxxxx da mobbing, cit., p. 62.
231 Trib. Roma sez. XIII, 22 maggio 2020, n. 7612 in Xxxxxxxxxxxxxxx.xx, 6 agosto 2020, con nota di X. XXXXXX: in tal caso in giudice di merito esclude l’applicabilità dell’art. 2087 c.c. in quanto il lavoratore, con il suo comportamento, ha concorso in modo decisivo nel creare una situazione marcata di conflittualità all’interno dell’ambiente lavorativo.
ne nega la configurabilità se poteva essere evitato utilizzando l’ordinaria diligenza232 e la restitutio in integrum del danno subito o in forma specifica233, quindi ripristinando la situazione di fatto precedente alle condizioni mobbizzanti, o per equivalente, mediante una compensazione pecuniaria.
Si segnala inoltre che è previsto il calcolo per via equitativa nel caso in cui il danneggiato non riesca a fornire la prova del preciso ammontare del danno subito, situazione che spesso si può rinvenire nelle ipotesi di perdita di chance234.
4.3.1. Segue. Il danno non patrimoniale
Come si è più volte messo in evidenza, la componente non patrimoniale del danno è preponderante nei casi di mobbing. A partire dagli anni Ottanta la materia ha subito delle progressive modifiche, tanto che un autore ne ha parlato in termini di «evoluzione copernicana»235.
Inizialmente la giurisprudenza, secondo un’interpretazione restrittiva influenzata dall’art. 185 c.p., riteneva che l’art. 2059 c.c.236 risarcisse i soli danni morali soggettivi conseguenti ad un reato. Un primo mutamento di orientamento si è avuto con la sent. Xxxxx Xxxx., 00 luglio 1986, n. 184237, la quale ha affermato che la lesione di un diritto costituzionalmente garantito come quello alla salute (art. 32 Cost.) rientra nell’ampia nozione dell’art. 2043 c.c., prevedendo così la risarcibilità del danno biologico.
Negli anni successivi lo scenario è cambiato nuovamente ed è stata costruita una nuova fattispecie di danno, quello esistenziale, che ha spinto la Corte Costituzionale nel 2003238 a tornare sul punto. Viene data un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., in cui è ricompreso ogni danno di natura non patrimoniale derivante
232 In questo senso, T.A.R. Xxxxxx (Xxxxxxxxx) xxx. XXX, 00 marzo 2020, n. 536 in xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx con nota di X. XXXXXXX (consultato da chi scrive in data 23 febbraio 2020): in tal caso viene respinta la domanda di risarcimento dei danni da demansionamento e mobbing perché il dipendente pubblico non ha tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi dell’amministrazione ritenuti illegittimi.
233 Si ricordi in questa sede che il danneggiato, ex art. 2058 c.c., può chiedere la reintegrazione in forma specifica solo se questa è in parte o del tutto possibile. Dall’altro canto il giudice ha la facoltà di disporre il risarcimento solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta essere eccessivamente onerosa a carico del debitore.
234 Cfr X. XXXXXXXX, Il danno patrimoniale, cit., p. 464.
000 X. XXXXXXXX X., Mobbing: condotte perseguibili e valutazione del danno, in Azienditalia-Il Personale, 2005, II, p. 82.
236 Art. 2059 c.c. – Danni non patrimoniali
Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge
237 In Foro it., 1986, IX, pp. 2053-2068 con nota di X. XXXXXXXXXX, a cui si rinvia per una ricostruzione completa del caso e del ragionamento seguito dalla Consulta.
238 Xxxxx Xxxx., 00 luglio 2003, n. 233 in xxx.xxxxxxxx.xx
dalla lesione di valori strettamente connessi alla persona: il classico danno morale soggettivo, inteso però come lesione della dignità della persona, il danno biologico e ora anche il danno esistenziale, definito come ogni pregiudizio provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno239. Si afferma così una logica tripartita del danno240.
Nel 2008 il sistema subisce un’ulteriore evoluzione, questa volta ad opera della Corte di Cassazione con le sentenze gemelle di Xxx Xxxxxxx xxx 0000000: il giudice di legittimità, per contrastare i fenomeni delle duplicazioni risarcitorie e della proliferazione del risarcimento del danno esistenziale, ribadisce l’unicità del danno non patrimoniale. A cambiare è di conseguenza anche il metodo di calcolo del risarcimento: prima del 2008 il danno biologico veniva liquidato sulla base del metodo tabellare, con i relativi punti di invalidità, al cui valore veniva sommato automaticamente e in percentuale l’incremento dovuto per il danno esistenziale e per il danno morale. Con il mutamento di orientamento del giudice di legittimità viene elaborato un nuovo metodo ad opera dell’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano242: questo si basa da un lato sul metodo tabellare per l’accertamento medico-legale della lesione fisica e psichica, imputando nello stabilire il valore a punto una parte al danno xxxxxx000, dall’altro sulla personalizzazione per far sì che siano valorizzate tutte le altre conseguenze dannose della condotta, le quali devono essere allegate e dimostrate da parte del danneggiato244.
L’orientamento in questione è ulteriormente superato dalla novella dell’art. 138 cod. ass.245 apportata dalla l. 4 agosto 2017 n. 125 e dalla successiva ordinanza della Corte
239 Cass. civ. sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572 in Lav. giur., 2006, VIII, pp. 773-779 con nota di X. XXXXXXXX.
240 Riguardo alle tre tipologie di danno in questione: F. DE XXXXXXX, Xxxxx da mobbing, cit., pp. 51-55.
241 Cass. sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972-26975 in Foro it., 2009, I, pp. 119-159 con note di X. XXXXXXXX,
X. Xxxxxxxxx, X. Xxxxxx, X. Xxxxxxxxxx, X. Xxxxxxxxxx.
242 Tali tabelle vengono adottate dalla maggior parte dei tribunali italiani, tanto che la Corte di Cassazione dà loro valore paranormativo: Cass. civ., 7 giugno 2011, n. 12408 in Foro it., 2011, IX, pp. 2280-2292 con nota di
X. XXXXX.
243 V. M. XXXXXXXX, La legge, le sentenze e le tabelle milanesi, in Danno e Resp., 2021, I, p. 18.
244 Sul tema, si rinvia alle esaustive considerazioni in X. XXXXXXXX-X. XXXXXX, La liquidazione monetaria del danno non patrimoniale, in Nuove Leggi Civ. Comm, 2020, 2, p. 374-414.
245 X. XXXXXXXX, La legge, le sentenze e le tabelle milanesi, cit., p. 19: l’autore sottolinea che nonostante tale previsione sia contenuta in una legge speciale, vista la sua portata (circa l’80% dei danni alla persona) assume carattere generale.
di Cassazione c.d. decalogo246, che danno autonoma rilevanza al danno morale, superando quindi la visione unitaria impostasi nel 2008247, alle quali la giurisprudenza si è da subito adeguata248.
Dovrebbero dunque essere riviste pro futuro le tabelle milanesi, considerato che attualmente comprendono nella valutazione per punti anche il danno morale e si rischierebbe di andrebbe incontro ad una possibile duplicazione: si ritornerebbe così ad un sistema che valorizza il disposto degli artt. 2697 c.c. sull’onere della prova in capo al danneggiato che intende far valere un diritto e 1226 c.c., sul dovere del giudice di procedere ad una valutazione equitativa per la liquidazione del danno249. Una dottrina ha invece ritenuto auspicabile un intervento del legislatore in materia che uniformi la questione delle tabelle che ormai si fa attendere dal 2005250.
4.4. Gli strumenti di tutela
Il mobbing, oltre a violare l’obbligo di tutela posto in capo al datore ex art. 2087 c.c., si pone in contrasto anche con altri diritti del lavoratore strettamente connessi al rapporto di lavoro. Nella maggior parte dei casi l’esperibilità dei relativi rimedi è strettamente collegata
246 Cass. civ. sez. III Ord., 27 marzo 2018, n. 7513, in Nuova Giur. Civ. comm., 2018, VI, pp. 836-846 con nota di X. XXXXXXXXXX.
247 Non essendo questa la sede per una ricostruzione puntuale ricostruzione dell’oscillante dottrina e giurisprudenza in materia di danno non patrimoniale in generale e danno morale in particolare si rinvia, ex multis, a: V. LOSTORTO, Mobbing: condotte perseguibili e valutazione del danno, cit., pp. 82-84; X. XXXXXXX, Il danno differenziale, il diritto vivente e il legislatore, in Riv. it. dir. lav., 2019, III, pp. 335-352; X. XXXXXXXXXX, La crisi delle tabelle milanesi: l’intervento della Cassazione, in Xxxxx e Resp., 2020, II, pp. 231-233; X. XXXXXXXXX, Sofferenza morale e contorsioni tabellari, in Danno e Resp., 2021, I, pp. 13-16.
248 Tra le pronunce più recenti: Cass. civ. sez III, 4 novembre 2020, n. 24473 in Diritto & Giustizia, 2020, 5 novembre, con nota di X. XXXXXX: il giudice di legittimità afferma che l’attribuzione del danno biologico e del danno esistenziale costituisce duplicazione in quanto entrambi violano lo stesso diritto costituzionalmente garantito (art. 32 Cost), al contrario non costituisce duplicazione il riconoscimento del danno morale conseguente alla lesione del diritto alla salute, quindi della sofferenza interiore patita dal soggetto; tale orientamento è confermato anche in Cass. civ. sez. lav., 12 novembre 2020, n. 25614 in Guida al diritto 2020, IL, p. 17, in cui viene illustrato il percorso logico che deve seguire il giudice per la quantificazione del danno alla salute: «1) accertare l’esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico- relazionale e del danno morale; 2) in caso di positivo accertamento dell’esistenza (anche) si quest’ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano [...]; 3) in caso di negativo accertamento, e di conseguente esclusione della componente morale del danno, considerare la sola voce del danno biologico, depurata dall’aumento tabellarmente previsto per il danno morale secondo le percentuali ivi indicate, liquidando, conseguentemente i solo danno dinamico-relazionale, 4) in caso di positivo accertamento dei presupposti per la cd. personalizzazione del danno, all’aumento fino al 30% del valore del solo danno biologico, depurato della componente morale del danno automaticamente (ma erroneamente) inserita in tabella, giusta il disposto normativo di cui all’articolo 138, punto 3, del novellato Codice delle assicurazioni».
000 X. X. XXXXXXXXXX, Xx crisi delle tabelle milanesi, cit., p. 233.
250 Queste considerazioni sono riprese da X. XXXXXXXX, La legge, le sentenze e le tabelle milanesi, cit., pp. 21- 22.
con l’emanazione, nel bossing, da parte dei vertici aziendali di provvedimenti potenzialmente lesivi per il mobbizzato, avverso i quali è possibile reagire anche se non sussistono tutti i requisiti del mobbing251.
Per i casi di demansionamento e dequalificazione può essere azionata la tutela offerta dall’art. 2103 c.c.252, il quale stabilisce che Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. Nel caso in cui il datore di lavoro eserciti lo ius variandi oltre i limiti consentiti dalla legge253, il lavoratore può agire in giudizio per ottenere la nullità del provvedimento ex art. 1418 c.1 c.c254, il conseguente reintegro nelle proprie mansioni e l’eventuale risarcimento del danno patrimoniale alla professionalità255: la Corte di Cassazione ha precisato che questo non è in re ipsa ma deve essere necessariamente dimostrato in giudizio256, anche attraverso presunzioni semplici ex 2729 c.c. La stessa disciplina si applica anche se avviene un trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra senza le comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive (art. 2103 c. 8 c.c.)257.
Diametralmente opposto al demansionamento ma spesso utilizzato per portare il lavoratore all’uscita dall’organizzazione aziendale è il caso in cui il lavoratore sia adibito ad eccessivi carichi di lavoro, privato del legittimo riposo settimanale258, oppure adibito a mansioni superiori con lo scopo di svilirne l’utilità. Limitatamente a questa ultima
251 Corte app. sez. lav. Roma, 4 novembre 2020, n. 2315, in xxx.xxxxxx.xx.
252 Il principio generale è espresso dal c.1: “Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è assunto [...]”.
253 Tali limiti sono tre: a) modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sul lavoratore (art. 2103 c. 2 c.c.); b) ipotesi previste nei contratti collettivi (art. 2013 c. 4 c.c.); c) accordi individuali. Per un’attenta disamina sui punti in questione si rinvia a a M.V. BALLESTRERO-X. XX XXXXXX, Diritto del lavoro, cit., pp. 351-353. 254 Art. 1418 c.1 c.c. – Cause di nullità del contratto
Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
255 Cass. civ. sez. lav., 15 maggio 2012, n. 11722 in Diritto e Giustizia online 2013, 16 maggio. Si vedano sul punto: X. XXXXX-M.V. XXXXXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Il mobbing, cit., pp. 74-78; X. XXXXXXXXX, I dintorni del
mobbing: dequalificazione, trasferimento, «superlavoro», licenziamento e dimissioni coartate, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli Editore, Bologna, 2007, p. 364-372; F. DE XXXXXXX, Xxxxx da mobbing, cit., pp. 55-57.
256 Così si sono espresse per la prima volta, superando il contrasto giurisprudenziale precedente le Sezioni Unite nel 2006: Cass. civ. Sez. Unite, 24 marzo 2006, n. 6572 in Lav. giur, 2006, VII, pp. 661-667 con nota di X. XXXXX (pp. 668-671). Orientamento confermato di recente, ex multis, anche da Cass. civ. sez. lav., 18 gennaio 2021, n. 703 in xxx.xxxxxx.xx.
257 Si vedano in questo senso le considerazioni riportate in X. XXXXXXX, Mobbing: fattispecie e strumenti di tutela, in Dir. prat. lav., 2007, XXXII (inserto), p. X.
258 Sul punto si rinvia a X. XXXXXXXXX, I dintorni del mobbing, cit., pp. 379-383.
situazione, la tutela è ancora sancita dall’art. 2103 c. 7 c.c., il quale stabilisce che nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, salvo diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dal contratti collettivi, o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi: il datore di lavoro deve dunque prestare attenzione a non superare il periodo indicato dalla legge per evitare di dover riconoscere emolumenti maggiori alla vittima.
L’eccezione d’inadempimento è un ulteriore strumento a disposizione del lavoratore mobbizzato. Costui, essendo parte di un contratto a prestazioni corrispettive, può rifiutarsi di offrire la propria prestazione nel caso in cui la controparte, il datore di lavoro, non adempia agli obblighi imposti dagli artt. 2087 c.c. e 2103 c.c. Tale rimedio è però sconsigliato nei casi di mobbing perché lascia spazio a possibili ritorsioni personali e disciplinari che andrebbero a complicare ancora di più la posizione del lavoratore259.
Un caso particolare è rappresentato dal mobbing connesso con comportamenti antisindacali: si pensi al lavoratore appartenente ad un’associazione sindacale trasferito senza debito preavviso, vessato solamente per la sua attività o al fine di portarlo alle dimissioni così da danneggiare direttamente anche il sindacato. In tutte queste situazioni trova applicazione l’art. 28 Stat. lav., rubricato “Repressione della condotta antisindacale”, che conferisce legittimazione ad agire in giudizio al sindacato e istituisce un procedimento sommario davanti al pretore che, in caso di condanna, ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti260.
Nella prassi è frequente poi che al soggetto mobbizzato vengano irrogate illegittimamente delle sanzioni disciplinari. In materia, l’art. 7 Stat. lav. pone garanzie dal punto di vista della pubblicità, delle procedure di irrogazione e della possibilità di difesa del soggetto colpito dai provvedimenti. Rimedio naturale è l’invalidità delle sanzioni illegittime ma, vista la potenziale pericolosità e dannosità, la dottrina ammette anche il risarcimento del danno a fare del lavoratore per violazione dell’art. 2043 c.c.261.
259 X. XXXXXXX, Mobbing: fattispecie e strumenti di tutela, cit., p. XI.
260 V. M. R. MOTTOLA, Mobbing e comportamento antisindacale, cit., pp. 206-208.
261 Cfr ivi, pp. 68-69.
Si segnala in questa sede che l’art. 7 Stat. lav. non trova invece applicazione, ex art. 4 c. 9 l. 23 marzo 1981, n. 81, alle sanzioni irrogate dalle federazioni sportive agli sportivi professionisti.
Come già ampiamente osservato, il mobbing, soprattutto nella forma del bossing, può avere ad oggetto la fuoriuscita del lavoratore dall’azienda: si prenda dunque in considerazione il caso del licenziamento262. Le giustificazioni che spesso sono asserite dal datore di lavoro riguardano il giustificato motivo oggettivo o il superamento del periodo di comporto263: la giurisprudenza, limitatamente a questa seconda ipotesi, ha più volte ribadito che l’assenza dal posto di lavoro per malattia può essere detratta dal suddetto periodo nel caso in cui, relativamente alla sua comparsa, sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.264, come avviene nel mobbing.
Le tutele previste dall’art 18 Statuto dei lavoratori265 costituiscono la situazione più favorevole per il lavoratore: affinché possa invocarle devono sussistere, anche non cumulativamente, il requisito dimensionale aziendale stabilito dall’art. 35 Stat. lav.266 o la discriminatorietà del licenziamento ex l. 11 maggio 1990 n. 108 art. 3267. In presenza di almeno una di queste due condizioni, il lavoratore ha la possibilità di rifiutare la reintegrazione nel posto di lavoro e ottenere in alternativa un’indennità quantificata in quindici mensilità, oltre al risarcimento dell’eventuale maggiore danno.
262 Un’attenta analisi del danno conseguente al licenziamento è svolta in X. XX XXXXXXX, Diritto del lavoro e tutela risarcitoria: un fugace sguardo tra passato e presente, cit., 621-623.
263 In questi termini X. XXXXXXX, Mobbing: fattispecie e strumenti di tutela, cit., p. IX.
264 Ex multis, Cass. civ. sez. lav., 27 giugno 2017, n. 15972 in Dir. prat. lav., 2018, VI, pp. 405-406.
265 Art. 18 Stat. lav. – Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo
Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108 [...] ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito per dal lavoratore per il licenziamento di cui sia accertata la nullità [...].
Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. [...]
266 Quindici dipendenti per le imprese industriali e commerciali, cinque dipendenti per le imprese agricole. 267 Tale requisito è ritenuto soddisfatto in dottrina da X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 513. In giurisprudenza, il giudice di legittimità ha interpretato in maniera estensiva il licenziamento discriminatorio e vi ha incluso anche quello per ritorsione e rappresaglia, includendone così implicitamente anche il licenziamento dettato da un intento vessatorio: Cass. civ. sez. lav., 3 dicembre 2015, n. 23648 in CED Cassazione, 2015.
La giurisprudenza268 ha dato rilievo anche alla figura del licenziamento ingiurioso, che legittima un autonomo risarcimento del danno per le modalità o forme particolari con le quali avviene il recesso da parte del datore di lavoro269.
Un’ulteriore conseguenza del mobbing possono essere le dimissioni rassegnate dal lavoratore per sottrarsi alle vessazioni cui è vittima. In tal caso, la dottrina270 ha prospettato come strumento di tutela l’annullamento del recesso unilaterale: per violenza ex art. 1434
c.c. oppure in base all’art. 428 c.c. perché il soggetto ha agito in uno stato di incapacità naturale271, facilmente immaginabile in una situazione di forte stress emotivo e malessere causati dal mobbing. Tuttavia, nella realtà dei fatti questa strada viene percorsa solo di rado per un duplice ordine di ragioni: in primis, il fatto che l’annullamento porterebbe inevitabilmente al solo reintegro nel posto di lavoro, con i problemi di cui si è già dato conto parlando di licenziamento. Si ricordi poi che la giurisprudenza si è espressa sul tema sottolineando che il diritto alla retribuzione inizia a maturare solamente dalla data della sentenza di annullamento272.
Diverso caso si ha se il recesso unilaterale del rapporto di lavoro si è basato su una giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c.: il lavoratore in questo caso avrebbe diritto ad un’indennità pari alla retribuzione che sarebbe dovuta per il periodo di preavviso (art. 2118
c. 2 c.c.), oltre, secondo una dottrina, al risarcimento degli ulteriori danni273. Un autore ha fatto notare però che questo strumento di tutela ha realmente efficacia solo se il lavoratore si trova in una posizione tale per cui gli è facile trovare una nuova occupazione, altrimenti per evitare i danni da mobbing rischierebbe di arrecarsene un altro dato dalla perdita del posto di lavoro.
268 Ex multis, Cass. civ. sez. lav., 19 novembre 2015, n. 23686 in CED Cassazione, 2015.
269 V. M. GARATTONI, I dintorni del mobbing, cit., pp. 376-379 e M. R. MOTTOLA, Mobbing e comportamento antisindacale, cit., pp. 21-22.
270 Affrontano questa tipologia di tutela: X. XXXXXXX, Mobbing e rapporto di lavoro, cit., p. 264; M. R. MOTTOLA, Mobbing e comportamento antisindacale, pp. 22-25; X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 514; X. XXXXXXX, Mobbing: fattispecie e strumenti di tutela, cit., p. X.
271 La giurisprudenza ha affermato che, affinché si possa avere annullamento delle dimissioni per incapacità naturale, non è necessario che ci sia una totale privazione delle facoltà intellettive e volitive ma è sufficiente che queste siano tali da compromettere una mirata e obiettiva valutazione dei fatti: Cass. civ. sez. lav, 28 novembre 2016, n. 24122 in Diritto & Giustizia 2016, 28 novembre.
272 Cass. civ. sez. lav., 6 settembre 2018, n. 21701, in CED Cassazione, 2018; contra, Cass. civ. sez. lav., 14 aprile 2010, n. 8886 in CED Cassazione, 2010, la quale afferma che il diritto alla retribuzione inizia a decorrere non dalla data della sentenza di annullamento bensì retroagisce a quella della proposizione della domanda giudiziale.
273 X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 514.
Si ricordi che è possibile agire anche in via cautelare ex art. 700 c.p.c.: in questo caso l’azione deve avere i requisiti del fumus boni iuris, inteso come evidente fondatezza della richiesta, e del periculum in mora, che si sostanzia nell’elevata possibilità che l’ottenimento della tutela in via ordinaria renderebbe inutile la tutela stessa vista l’imminenza del pregiudizio274, misura che nel diritto del lavoro riesce a dare al lavoratore una tutela effettiva275.
5. I tentativi di definizione della fattispecie
Come si ha già avuto modo di notare, in Italia, nonostante svariati tentativi susseguitisi a partire dal 1996276, non è stato ancora promulgata una legge generale di disciplina della fattispecie di mobbing. Tuttavia, la dottrina non è unanime nel ravvisare la necessità di tale provvedimento: ritiene infatti che nel nostro ordinamento siano già presenti degli strumenti utili, sia a livello nazionale che eurounitario, per contrastare il fenomeno e tutelare la persona del lavoratore, e che un’eventuale tipizzazione rischierebbe di stringere troppo le maglie ad una fattispecie molto elastica e in continua evoluzione277.
5.1. Profili di diritto comparato: il caso della Francia
In ambito europeo non sono molti i paesi che si sono dotati di una specifica disciplina sul mobbing. Tra questi278, meritevole di attenzione per valutare l’utilità di un eventuale intervento del legislatore domestico è sicuramente la Francia279, la quale ha emanato,
274 Sui requisiti dell’azione cautelare, v. V. LOSTORTO, Mobbing: condotte perseguibili e valutazione del danno, cit., pp. 81-82 e X. XXXXXXXXX, Tecniche di tutela inibitorie e ripristinatorie, in X. XXXXXXXXXX (a cura di), Xxxxxxxxxx e angherie sul lavoro, pp. 179-181.
275 Ivi, pp. 181-186. L’eventuale azione in via cautelare permette infatti di porre parzialmente rimedio ai tempi particolarmente lunghi della giustizia ordinaria.
276 Per un’analisi dei primi progetti si rinvia a X. XXXXX-M.V. XXXXXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX, Il mobbing, cit., pp. 13-19. Si segnala in questa sede il d.d.l. 13 ottobre 1999, n. 4265, disponibile su xxxx://xxx.xxxxxx.xx/xxxxxxx/XXX/XXXXxxxxx/XXX/00000000.xxx (consultato da chi scrive in data 26 gennaio 2021): secondo X. XXX, La valutazione peritale del danno da Mobbing e da Straining, cit, p. 45, la definizione di mobbing contenuta all’art. 2 è la più valida tra quelle formulate in Italia.
277 Xxxxxxxxxx, tra gli altri, questa tesi: X. XXXXXXXX, Mobbing, norma giurisprudenziale, cit., pp. 306-307. Contra, X. XXXXX, Il mobbing tra esigenze preventive e tecniche risarcitorie, cit, p. 1064, il quale sottolinea come una soluzione definitoria sarebbe comunque utile ai fini della prevenzione del mobbing, soprattutto se aperta e quindi integrabile con l’attività interpretativa come accade in Francia e Belgio.
278 Per un’ampia disamina sulla situazione nei Paesi scandinavi, in Germania, Spagna e nei Paesi di common law si guardino: A. RUSSO, Il mobbing tra esigenze preventive e tecniche risarcitorie, cit., pp. 1060-1063; X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., pp. 13-14.
279 Per quanto non riferito in questo paragrafo, si rinvia a X. XXXXXXX, La legislazione francese sull’harcèlement moral, in Quaderni di diritto del lavoro e delle relazioni industriali, “Mobbing, organizzazione, malattia professionale”, UTET Giuridica, Milano, 2006, pp. 313-332.
allineandosi immediatamente con la Risoluzione n. A5-0283/2001280, la loi de modernisation sociale (17 gennaio 2002).
In primis l’attenzione deve essere posta sulla definizione che viene data dal legislatore francese al concetto di harcèlement moral all’articolo 122-49 del Code du Travail281 (da qui C. Trav.) che per la sua completezza è ritenuta dalla dottrina282 idonea a comprendere le nozioni di mobbing verticale discendente e ascendente e di mobbing orizzontale: Nessun lavoratore deve subire atti ripetuti di molestia morale che hanno per oggetto o per conseguenza un deterioramento delle condizioni di lavoro suscettibili di ledere i suoi diritti e la sua dignità, di alterare la sua salute fisica o mentale o di compromettere il suo futuro professionale283.
Una delle maggiori novità introdotte in materia riguarda la disciplina dell’onere della prova, così come prevista all’art. 122-52 C. Trav.284. Il legislatore transalpino ha voluto tutelare l’attore-lavoratore mobbizzato non ritenendo necessaria la prova piena del fatto285 ma sufficiente quella indiziaria, costituita per esempio da testimonianze di terzi, certificati medici o documenti scritti, degli atteggiamenti contro la sua persona286, dalla quale il giudice può valutare l’esistenza del mobbing, eventualmente disponendo tutte le indagini istruttorie ritenute utili. Dal canto suo invece la parte convenuta, il datore di lavoro nel caso di mobbing verticale, può dimostrare che il proprio comportamento non costituisce molestia morale ma è giustificato e comunque estraneo a qualsiasi volontà vessatoria.
Per quanto riguarda invece i rimedi a disposizione del lavoratore contro l’harcèlement moral, l’art. 122-49 C. Trav. pone come principale reazione alle condotte mobbizzanti la nullità del licenziamento o del provvedimento in generale con il quale viene
280 V. supra, capitolo 1 § 2.2
281 L’articolo 122-49 C. Trav. afferma che «Alcun salarié ne doit subir les agissements répétés de harcèlement moral qui ont pour object pu pour effet une dégradation des conditions de travail susceptible de porter atteinte à ses droits et à sa dignité, d’altérer sa sant physique ou mentale ou de compromettre son avvenir professionel».
282 X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., p. 11.
283 Traduzione ad opera di chi scrive.
284 All’art. 122-52 C. Trav. si afferma infatti che, nei casi previsti dall’art. 122-49 «le salarié concerné présente des éléments de fait laissant supposer l’existence d’un harcèlement. Au vu de ces éléments, il incombe à la partie défenderesse de prouver que ses agissements ne sont pas constitutifs d’un tel harcèlement et que sa décision est justifiée par des éléments objectifs étrangers à tout harcèlement. Le juge sa convinction après avoir ordonné, en cas de besoin, toutes les mesures d’instruction qu’il estime utiles».
285 X. XXXXXXXXX, Un’introduzione al mobbing, cit., p.12 fa notare come invece resti in capo all’attore la prova del danno da harcèlement.
000 X. X. XXXXXXX, Xx legislazione francese sull’harcèlement moral, cit., p. 324.
posta in essere la condotta mobbizzante e il risarcimento del danno. In aggiunta ci può essere alternativamente o il reintegro nel posto di lavoro con corresponsione di un’indennità pari alle retribuzioni non percepite dal licenziamento alla nullità dello stesso oppure, nel caso in cui il lavoratore non voglia ritornare alla sua attività, un’ulteriore indennità.
Di notevole interesse è anche l’introduzione nel Code Pènal di una apposita fattispecie di reato, che va a completare quanto già previsto dal diritto penale comune. L’articolo 000-00-0000 punisce infatti con 30.000€ di ammenda e con due anno di reclusione chiunque si renda responsabile di condotte mobbizzanti.
In Francia inoltre si è di recente consumata una significativa vicenda giudiziaria che ha visto applicate le norme in questione: si tratta della condanna pronunciata nei confronti di Xxxxxx Xxxxxxx e di altri due dirigenti di France Télécom il 20 dicembre 2019 per mobbing “morale e istituzionale” riguardo a fatti risalenti al periodo tra il 2007 e il 2008. Secondo i piani di riorganizzazione aziendale denominati “Next” e “Act” ci sarebbe dovuto essere in un triennio un taglio di ventiduemila lavoratori. Il risultato fu però ottenuto con un drastico peggioramento delle condizioni di lavoro, compresi continui spostamenti di sede, demansionamenti e una crescente situazione di stress che hanno portato almeno diciannove persone al suicidio288.
5.2. Il legislatore italiano alla prova del mobbing
Nel nostro paese alcune regioni si sono mosse autonomamente per colmare il vuoto legislativo.
La prima ad agire è stata la Regione Lazio con l’emanazione della l. r. 11 luglio 2002, n.16289. Le finalità perseguite con detto provvedimento erano soprattutto preventive: si
287 L’articolo 222-32-2 del Code Penal, modificato nel 2014 con la previsione di un inasprimento dell’ammenda, passata da 15.000€ a 30.000€, e un aumento della pensa detentiva, da un anno a due anni, stabilisce che”Le fait de harceler autrui par des propos ou comportements rèpètès ayant pour object ou pour effet une dègradation des conditions de travail susceptible de porter atteinte à ses droits et à sa dignité, d’altérer sa santé physique ou mentale ou de compromettre son avenir professionnel, est puni de deux ans d’emprisonnement et de 30.000€ d’amende”.
288 Per una ricostruzione completa della vicenda: X. XXXXXX, France Télécom. L’ex ad condannato per l’ondata
di suicidi, in La Repubblica, 21 dicembre 2019, p. 25.
289 Per una disamina puntuale della l.r. n.16/2002 si rinvia a X. XXXXX, «Mobbing»: strategie di prevenzione e contrasto nella l.16/2002 della Regione Lazio, cit., pp. 1032-1035. L’autrice valuta complessivamente in modo positivo i contenuti del provvedimento, soprattutto perché al tempo il legislatore nazionale pensava ad un intervento in ambito penalistico per il contrasto alla diffusione del mobbing che avrebbe portato ad
«un’ipertrofia del sistema penale».
prevedevano infatti l’istituzione di centri antimobbing (artt. 3, 4), iniziative degli enti locali (art. 5) e l’istituzione di un osservatorio regionale sul mobbing (art. 6)290. Tuttavia, con la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Presidente del Consiglio dei Ministri e accolta dalla Consulta291, viene rilevato come la definizione di mobbing data all’articolo 2292 ecceda la competenza del legislatore regionale, essendo in contrasto con il dettato dell’art. 117 comma 2 lett. l) Cost293.
Nel 2004 è la Regione Abruzzo a promulgare la l. r. 26 aprile 2004, n.15, della quale, a differenza della precedente, non viene dichiarata l’illegittimità costituzionale dalla Corte294 nonostante la struttura e la tipologia di interventi siano molto simili295. Non è in questo caso però presente una definizione della fattispecie di mobbing che era risultata fatale alla legge della Regione Lazio.
Sulla scia di quanto fatto in Abruzzo si sono mosse, a distanza di poco tempo, altre due regioni italiane: l’Umbria, con la l. r. 28 febbraio 2005, n. 18296, e il Friuli Venezia Giulia, con la l. r. 8 aprile 2005, n. 7. Entrambe sono state oggetto di controllo di costituzionalità ad opera della Corte297 che ne ha confermato la legittimità. Uno dei punti di forza
290 Cfr. X. XXXXXXXXXXX, A proposito del mobbing, cit., p. 518.
291 Xxxxx Xxxx., 00 dicembre 2003, n.359, disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxXxxxxxXxxxxxxxx.xx?xxxxx0000&xxxxxxx000 (consultato da chi scrive in data 31 gennaio 2021). Ricostruisce la vicenda davanti alla Corte Costituzionale X. XXXXX, La Consulta boccia la legge anti-mobbing della Regione Lazio, in Lav. giur., 2004, IV, pp. 358-361.
292 Vengono compresi nel concetto di mobbing «atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale.». Segue una elencazione meramente esemplificativa di condotte potenzialmente mobbizzanti.
293 Le materia inerenti a «giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, giustizia amministrativa» sono affidate alla legislazione esclusiva dello stato.
294 Xxxxx Xxxx., 00 gennaio 2006, n. 22, disponibile all’indirizzo xxx.xxxxxxxxx.xxx (consultato da chi scrive in data 31 gennaio 2021).
295 Cfr X. XXXXX, La Consulta “salva” la legge sul mobbing della Regione Abruzzo, in Lav Giur., 2006, III, p. 261.
296 Come in Abruzzo, anche in questo caso la prevenzione ha un ruolo fondamentale ed è al centro dell’intervento operato dal legislatore: X. XXXXX, La Regione Umbria vara una legge sul mobbing, in Lav. giur., 2005, V, pp. 437-439.
297 I riferimenti sono, per la Regione Umbria: Xxxxx Xxxx., 00 giugno 2006, n. 238,; per la Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx: Xxxxx Xxxx. 0 giugno 2006, n. 239, disponibile all’indirizzo, disponibili all’indirizzo xxx.xxxxxxxx.xxx (consultato da chi scrive in data 1 febbraio 2020). Sulla vicenda della regione FVG si rinvia a X. XXXXX, La legge sul mobbing del Friuli Venezia Giulia supera il vaglio di costituzionalità, in Lav. giur., 2006, VIII, pp. 741-744.
dell’intervento operato in Friuli Venezia Giulia298 è stato l’istituzione dei Punti di Ascolto299 (art.3), dei quali si sono individuate le figure professionali idonee e i compiti precisi: con la proliferazione dello smart working dovuta alla situazione pandemica e a conferma della bontà del lavoro svolto, nel 2020 c’è stata una conferma del trend in aumento delle richieste di assistenza a tale ufficio. Solo nel Comune di Udine, infatti, si sono rivolte al punto di ascolto ben 108 persone, di cui addirittura 74 donne300.
Altre regioni italiane si sono mosse e, nei limiti delle competenze loro attribuite all’art. 117 Cost., dotate di una legislazione in materia di mobbing: Liguria (l. r. Liguria, 6 giugno 2008, n. 14301); Veneto (l. r. Veneto, 22 gennaio 2010, n.8302); Provincia di Xxxxxx (x.
x. Xxxxxx, 00 marzo 2013, n. 2303); nuovamente l’Umbria e il Friuli Venezia Giulia con le l. r. Umbria, 9 aprile 2015304, n. 11 e l. r. Friuli Venezia Giulia, 10 maggio 2016, n. 6305; Campania ( l. r. Campania, 9 ottobre 2017, n. 29306) ed Xxxxxx Xxxxxxx (x. x. Xxxxxx Xxxxxxx, 0 dicembre 2018, n. 19307).
6. Brevi considerazioni personali in itinere
Al termine di questa panoramica generale sul mobbing nel mondo del lavoro, chi scrive si trova in accordo con la dottrina che non ritiene indispensabile una tipizzazione ad opera del legislatore della fattispecie sulla scia di quanto fatto in Francia, sia perché si tratta di un concetto aperto e quindi di difficile circoscrivibilità, sia perché, in ambito penale, difficilmente si supererebbe il vaglio del giudizio di costituzionalità.
Da questo punto di vista si ritiene dunque apprezzabile l’opera della giurisprudenza, sia in ambito penalistico che, soprattutto, civilistico. L’intervento del legislatore nazionale
298 Una prima valutazione sull’attuabilità degli strumenti offerti dalla legge della Regione FVG e in particolare sulla istituzione del Comitato paritetico per la prevenzione del fenomeno del mobbing dell’Università di Trieste è offerta da COMITATO PARITETICO PER LA PREVENZIONE DEL FENOMENO DEL MOBBING., Organismi e strumenti, cit.
299 Sono ritenuti «uno degli snodi maggiormente qualificanti della legge» da X. XXXXX, La legge sul mobbing
della Regione Friuli Venezia Giulia, cit., p. 742.
300 Dati riportati in X. XXXXXX, Mobbing più pesante con il lavoro da casa, in Messaggero Veneto, 15 gennaio 2021, p. 31.
301 In B.U.R. Liguria n. 5, 11 giugno 2008.
302 In B.U.R. Veneto n. 8, 26 gennaio 2010.
303 In B.U.P. Trento n. 12, 14 marzo 2013.
304 In B.U.R. Umbria n. 21, 15 aprile 2015.
305 Modifica e integra la precedente legge del 2005 di cui supra: B.U.R. Friuli Venezia Giulia n. 19, 11 maggio 2016.
306 In B.U.R. Campania n. 74, 9 ottobre 2017.
307 In B.U.R. Xxxxxx Xxxxxxx n. 381, 5 dicembre 2018.
sarebbe invece auspicabile, prendendo spunto da quanto fatto da alcune regioni italiane, per l’attuazione di una politica volta a coinvolgere maggiormente le rappresentanze sindacali e, di conseguenza, la contrattazione collettiva: come si ha avuto modo di notare, in una realtà aziendale il mobbing provoca (anche) delle perdite economiche per la vittima, per l’impresa e per le casse statali, rendendo di comune interesse la prevenzione e la sensibilizzazione sulla tematica.
Dal punto di vista della risoluzione delle controversie, uno strumento interessante e potenzialmente utile potrebbe essere l’istituzione di un arbitrato di natura facoltativa che le parti potrebbero sfruttare in modo da tenere la giurisdizione statale, viste le sue lungaggini, come strumento residuale.
Capitolo 2. Profili della disciplina del calciatore professionista rilevanti in materia di mobbing
Sommario: 1. Brevi cenni sull’ordinamento sportivo - 1.1. Le “fasi” del diritto sportivo - 1.3. I profili rilevanti del mobbing nel calcio professionistico - 2. Il rapporto di lavoro del calciatore professionista. La situazione pre l.23 marzo 1981, n.91 - 2.1. L’art. 2 l. 91/1981: il professionismo nello sport. Il requisito oggettivo e il requisito soggettivo - 2.2.L’art. 3 l. 91/1981 e l’atleta lavoratore subordinato - 2.3. La qualificazione della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Il contrasto con la normativa FIFA - 2.3.1. Il dibattuto problema della qualificazione del rapporto dei calciatori convocati in Nazionale- 2.4 Le critiche alla qualificazione: i c. d. professionisti di fatto - 2.4.1. Segue. I partecipanti ai Campionati nazionali dilettanti - 2.5. Le critiche alla qualificazione: la giurisprudenza comunitaria in tema di professionismo e dilettantismo sportivo - 3. Il vincolo sportivo - 3.1. Panorama storico e natura del vincolo - 3.2. L’intervento della l. 91/1981 - 3.3. La sentenza Xxxxxx -
3.3.1. Segue. La decisione della Corte - 3.3.2. Gli effetti della sentenza Xxxxxx
sull’ordinamento calcistico-3.4. La sentenza Xxxxxxx - 3.4.1. Segue. La decisione della Corte
- 3.4.2. Segue. Gli effetti della sentenza Xxxxxxx sull’ordinamento calcistico internazionale
- 3.4.3. Segue. Il premio di preparazione e il premio di addestramento e formazione tecnica
-3.4.4. Due casi particolari: gli artt. 33 e 116 NOIF - 3.5. Il vincolo sportivo nel dilettantismo
- 3.5.1. Le modalità di svincolo del calciatore dilettante - 3.5.2. Profili di contrasto con il diritto interno, in particolare con la Costituzione - 4. La cedibilità del contratto del calciatore professionista - 4.1. La normativa generale sul trasferimento e sulle cessioni di contratto -
4.2. La cessione a titolo definitivo del calciatore professionista - 4.3. La cessione a titolo temporaneo del calciatore professionista - 4.3.1. La risoluzione consensuale delle cessioni a titolo temporaneo - 4.4. Il trasferimento dei “giovani dilettanti” e dei “non professionisti”
- 5. L’evoluzione normativa delle società di calcio professionistiche - 5.1. L’intervento del legislatore: la l. 586/1996.
1. Brevi cenni sull’ordinamento sportivo
Al fine di una più completa esposizione delle tematiche oggetto della trattazione si reputa necessaria una breve analisi dello sviluppo del concetto di ordinamento sportivo.
In una prima fase storica, il dibattito a riguardo si è concentrato sulla possibilità di riconoscere al fenomeno sportivo natura di autonomo ordinamento giuridico: si trattava di anni, la prima metà del secolo scorso, in cui in dottrina era molto acceso il confronto tra i sostenitori delle opposte tesi del monismo e pluralismo degli ordinamenti giuridici1. La questione si è al tempo risolta, sulla scia di quanto teorizzato da una celebre dottrina degli
1 Per un approfondimento sulle tematiche relative al dibattito dottrinale che ruotava essenzialmente attorno alla scelta tra teoria monistica e pluralistica degli ordinamenti giuridici si rinvia, con le relative note, a X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx, Milano, 2020, pp. 12-16 e M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, Giappichelli Editore, Torino, 2012, pp. 4-7. Tra gli autori che non riconoscevano la giuridicità del fenomeno sportivo affermava che questo si caratterizzava per un essere un insieme di giochi in cui i partecipanti si limitavano a rispettare delle semplici regole basate sul fairplay.
anni Trenta2, a favore della posizione che riconosce lo sport come autonomo ordinamento giuridico. Si segnala in proposito quanto affermato nel 1949 da un autore, il quale ha riconosciuto all’ordinamento sportivo carattere di originarietà, individuandovi i tre elementi costitutivi degli ordinamenti giuridici: la plurisoggettività, intesa come presenza di un numero congruo di soggetti, sia persone fisiche che enti; la normazione, ovvero l’emanazione di un corpo di regole ritenute da tutti vincolanti; l’organizzazione dei soggetti, a carattere permanente e idonea a limitarne le libertà in nome dell’interesse generale3.
La dottrina4 e la giurisprudenza5, nel momento in cui sono state chiamate ad analizzare il fenomeno sportivo dal punto di vista giuridico, si sono dunque uniformate per un lungo periodo di tempo nell’utilizzare come incipit dell’analisi il ritenere lo stesso un autonomo ordinamento giuridico6.
A tale posizione ha aderito anche il legislatore con due importanti interventi dei primi anni Duemila. In primo luogo deve essere segnalata la l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3 la quale, apportando delle modifiche al Titolo V della Costituzione, nello specifico all’art. 117
c. 3 Cost., inserisce la materia «ordinamento sportivo» tra quelle a potestà legislativa regionale concorrente7. In dottrina si è molto discusso sull’ampiezza del possibile intervento del legislatore nazionale in materia: è tuttavia ormai posizione consolidata, sulla scorta di una pronuncia della Corte Costituzionale degli anni Ottanta8, quella per cui
2 V X. XXXXXXXX XXXXXX, La teoria degli ordinamenti giuridici e il diritto sportivo, in Foro it., 1933, I, pp. 1381- 1407: l’autore, commentando una sentenza della Corte di Cassazione in cui si doveva decidere sulla natura giuridica del Jockey Club Italiano e del Reale Automobile Club d’Italia, nello specifico a p. 1390, riconosce che
«è proprio l’organizzazione sportiva, nel suo insieme, ad offrir l’esempio forse più caratteristico di comunità provvista di un ordinamento autonomo, cioè non statuale [...]».
3 M.S. XXXXXXXX, Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici sportivi, in Riv. dir. sport., 1949, I-II, p. 13.
4 In una recente pubblicazione, si è in proposito affermato che «Secondo una nota-e per certi versi ancora prevalente-opzione interpretativa, lo sport darebbe luogo ad un ordinamento separato da quello statuale ed europeo». X. XXXXX, Il diritto europeo dello sport, tra specificità, rilevanza economica e motivi di interesse generale, in Studi sull’integrazione europea, 2018, III, p. 737.
5 V ex multis Cass. civ. sez. III, 11 febbraio 1978, n. 625 in Foro it., 1978, I, pp. 862-868 con nota di C.M. XXXXXX. Tra le pronunce più recenti si segnala Cass. civ. sez. Unite (ord.), 28 dicembre 2020, n. 29654 in CED Cassazione, 2020.
6 Cfr X. XXXXXX, voce Sport, in Enciclopedia giuridica, volume XXXIV, 2006, p. 1.
7 La dottrina ritiene che lo sport godesse di una tutela a livello costituzionale già prima del menzionato intervento. Nello specifico si menzionano gli artt. 2, 18, 32 Cost. i quali tutelano rispettivamente i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e come facente parte di una formazione sociale, la libertà di associazione e il diritto alla salute. Cfr in proposito X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 17.
8 Xxxxx Xxxx., 00 dicembre 1987, n. 517 disponibile all’indirizzo xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 27 aprile 2021). Nella pronuncia viene testualmente riportato che «la vera e unica linea di divisione fra le predette competenze è quella fra l’organizzazione delle attività sportive agonistiche, che sono riservate al C.O.N.I., e quella delle attività sportive di base o non agonistiche, che invece spettano alle regioni».
l’attività amatoriale e ricreativa rientra nella competenza esclusiva delle regioni, riservando invece al Parlamento la facoltà di sancire i principi generali dell’attività agonistica9. Un secondo intervento importante del legislatore si è avuto con la l. 17 ottobre 2003, n. 280 di conversione del d. l. 18 agosto 2003, n. 220, su cui si tornerà infra10, in materia di giustizia sportiva.
Tuttavia proprio questo ultimo intervento di riforma, il quale ha sancito come principio, pur prevedendo alcune eccezioni, l’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale, ha portato la dottrina ad interrogarsi sulla validità della teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici applicata al mondo dello sport. Si riportano in tal senso due opinioni critiche: un autore ha sostenuto sia più corretto parlare, piuttosto che di totale autonomia, di integrazione dell’ordinamento sportivo in quello statale e comunitario11; in un altro commento si è invece centrato il focus sul fatto che di autonomia degli ordinamenti giuridici si sia cominciato a parlare in un periodo, gli anni Venti, precostituzionale e fortemente caratterizzato da un sistema totalitario, dunque diverso da quello odierno12.
1.1. Le “fasi” del diritto sportivo
Il c. d. “diritto sportivo” è un concetto che dopo essere entrato in sordina nel linguaggio del giurista, al giorno d’oggi si è assicurato una rilevanza notevole abbracciando più rami del diritto. Questo processo di espansione è stato agevolato dall’esponenziale crescita dell’importanza economica, sociale e culturale che lo sport in generale, e il calcio per quanto riguarda le tematiche oggetto della presente trattazione, sono riusciti a ritagliarsi13. L’analisi degli interventi del legislatore in materia e in certa misura dell’interesse nutrito dalla dottrina portano, in un’ottica di schematizzazione, a dividere lo sviluppo del diritto sportivo in Italia in tre fasi così riassumibili: dall’istituzione del Comitato Olimpico
9 X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., pp. 18-19.
10 Capitolo 2 § 1.1.
11 In questi termini X. XXXXXX, voce Sport, cit., p. 7. In merito all’ordinamento comunitario, viene rilevato che, pur non occupandosi l’Unione Europea direttamente di sport, le norme hanno rilevanza importante. Contra
X. XXXXXX, Il sistema sportivo italiano e la pluralità degli ordinamenti giuridici, in Giur. cost., 2013, VI, p. 927: l’autore sostiene che l’orientamento che nega l’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale riverserebbe l’intero sistema dello sport all’interno dell’associazionismo privato, diminuendo così oltremodo la sua indipendenza. Per questo motivo in Italia «l’organizzazione dello sport mantiene la dignità di ordinamento autonomo, benché settoriale, in modo corrispondente alla sua matrice internazionale».
12 X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, Collana del Dipartimento di Diritto, Impresa e Lavoro dell’Università degli Studi di Salerno, Napoli, 2008, pp. 65-70.
13 X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 12.
Nazionale Italiano all’intervento del legislatore del 198114; dal 1981 alla celebre sentenza della Corte di Giustizia sul caso del calciatore Xxxx-Xxxx Xxxxxx del 1995; dal 1995 alla c.
d. Riforma dello sport del 2021. A queste va infine aggiunta la quarta fase, ancora in stato embrionale, che prenderà il via quando verranno attuate ed entreranno in vigore le disposizioni di tale ultima riforma.
Procedendo in ordine cronologico, la prima fase ha il suo termine a quo nella promulgazione della l. 16 febbraio 1942, n. 42615, recante Costituzione e ordinamento del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (C.O.N.I.) e il termine ad quem nella l. 21 marzo 1981,
n. 81. Il periodo, quasi un quarantennio, è stato fortemente caratterizzato da un quasi totale disinteresse del legislatore nei confronti dell’attività sportiva, tanto che gli unici interventi rilevanti in materia sono stati di iniziativa delle singole federazioni16. L’ordinamento statale dunque ha lasciato libertà assoluta a quello sportivo di autoregolarsi e di sviluppare un proprio sistema di giustizia endoassociativa17.
L’atteggiamento è tuttavia cambiato con la promulgazione della prima organica normativa in materia di lavoro sportivo del 1981, a lungo ostacolata anche dalle stesse federazioni nazionali le quali temevano di vedere compromessa la loro autonomia18. Il legislatore, spinto da vicende che avevano trovato grande eco nell’opinione pubblica negli anni Settanta e dalla crescente rilevanza economica del fenomeno, si è fatto carico di regolamentare per la prima volta in modo organico il mondo dello sport italiano. Termina così una fase di totale disinteresse e ne inizia una in cui l’ordinamento statale si ingerisce nella regolamentazione dello sport: il principale corollario di questo cambiamento di
14 Secondo X. XXXXX, relazione al webinar “Sport e lavoro. Verso la Costruzione di un Diritto del Lavoro Sportivo”, 16 giugno 2021, disponibile online all’indirizzo xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx (consultato da chi scrive in data 16 giugno 2021), questa prima fase è caratterizzata dalla contrapposizione tra homo ludens e homo faber.
15 G.U. 11 maggio 1942, n. 112.
X. XXXXXXXX XXXXXXXX, Lo sport tra lavoro e passatempo, in X. XXXXXXXX XXXXXXXX-X. XX XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXX, Il rapporto di lavoro dello sportivo, Experta, Forlì, 2007, p. 7, ritiene che le funzioni originarie del CONI fossero essenzialmente tre: preparazione degli atleti per le Olimpiadi e le competizioni internazionali; rappresentanza a livello internazionale in quanto componente del CIO; organo esecutivo per tutto lo sport all’interno del territorio italiano.
16 Si pensi ad esempio all’intervento della FIGC del 1966 in ordine alla struttura societaria dei sodalizi
partecipanti al campionato di serie A e B, di cui si tratterà infra al capitolo 2 § 5.
17 X. XXXXXXXX XXXXXXXX, Lo sport tra lavoro e passatempo, cit., p. 8: si riporta l’opinione di una parte della dottrina che riteneva l’intervento del diritto non necessario per regolare i conflitti di interessi e la regolarità delle competizioni sportive. In modo conforme anche X. XXXXXXXXX, Il vincolo di giustizia sportiva: natura ed effetti alla luce dell’attuale quadro normativo, in Riv. dir. econ. sport, 2009, III, p. 32.
18 X. XXXXXXXXXXXX, Sport e diritto del lavoro, in Foro it., 2006, VI, p. 233.
prospettiva è rappresentato dalle numerose pronunce della giustizia statale in ambito sportivo, spesso anche in contrasto con la giustizia sportiva stessa.
Nella seconda fase non sono dunque mancati i motivi e le occasioni di contrasto tra i due ordinamenti, amplificati nel momento in cui anche a livello comunitario i giudici hanno cominciato a dibattere di argomenti inerenti al mondo dello sport, dando il là alla terza fase. Spartiacque fondamentale in questo senso è stata, nonostante si possano trovare delle pronunce in materia già negli anni Settanta, la sentenza della Corte di Giustizia del 1995 sulla vicenda avente come protagonista il calciatore Xxxx-Xxxx Xxxxxx. Dal punto di vista ordinamentale, il mondo dello sport, in particolare professionistico, si è trovato dunque nella posizione di doversi confrontare e allineare con regole di matrice sovranazionale, abbandonando definitivamente l’idea di essere un’entità totalmente autonoma e immune da regolamentazioni esterne.
In questo contesto si sono inserite alcune riforme strutturali molto importanti del CONI, nello specifico: d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242 (c. d. Decreto Melandri), d. lgs. 8 gennaio 0000, x. 00 (x. x. Xxxxxxx Xxxxxxxx) e artt. 1 c. 629-633 l. 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di Stabilità 2019)19. La ratio comune degli interventi in questione è stata la volontà di conciliazione tra la sovranità dello Stato e l’autodichia delle singole federazioni sportive20. Si è reso però necessario un ulteriore intervento del legislatore nazionale volto a regolamentare i rapporti tra la giustizia sportiva e quella statale, nello specifico il d. l. 19 agosto 2003, n. 22021, convertito con modificazioni dalla l. 17 ottobre 2003, n. 280. Di notevole rilevanza è l’art. 1 c. 2, il quale afferma che i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo. In ossequio a questo principio, è possibile procedere ad una tripartizione di competenza per materia22: i rapporti di carattere patrimoniale tra le società sportive e gli atleti sono devoluti al giudice ordinario; sono devolute invece al
19 Sul punto v X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit. pp. 54-57 e X. XXXXXXXX XXXXXXXX, Lo sport tra lavoro e passatempo, cit. p. 8. Si sottolinea in questa sede che il d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242 ha abrogato la l. 16 febbraio 1942, n. 426.
20 In questi termini X. XXXXXXXXX, Il vincolo di giustizia sportiva: natura ed effetti alla luce dell’attuale quadro normativo, cit., p. 33.
21 Il testo del decreto legge coordinato con la legge di conversione è disponibile in G.U. 13 ottobre 2003, n. 243.
22 Cfr X. XXXXX-X. XXXXXXXX, Brevi cenni sul rapporto lavoristico tra atleta professionista e società nel sistema di Giustizia sportiva, in LavoroDirittiEuropa (xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), 2019, III, p. 3.
giudice sportivo le controversie aventi ad oggetto le norme tecnico-sportive e le sanzioni disciplinari23 nelle quali l’intervento del giudice statale è limitato alla verifica del rispetto delle procedure stabilite dagli statuti, analogamente a quanto succede in materia di diritto sindacale ex art. 39 Cost24; è poi de residuo di competenza esclusiva del giudice amministrativo ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo ai sensi dell’articolo 225.
Un’ulteriore fase è poi stata aperta, seppur con effetti differiti all’entrata in vigore delle singole disposizioni, dal d. lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, che ha attuato l’art. 5 l. 8 agosto 2019, n. 86. Si tratta, rinviando per l’analisi degli istituti rilevanti per l’oggetto della trattazione al prossimo capitolo, di una riforma strutturale dello sport che abroga, seppur riprendendone alcuni punti fondamentali, la disciplina del 1981, introducendo però importanti novità. A parere di chi scrive, sono ancora molte le ombre che aleggiano su questa nuova fase del diritto sportivo per un duplice ordine di motivi: in primis, il legislatore ha fatto intendere che ritornerà sul testo apportando alcune modifiche; non va poi sottovalutata la modalità con cui le singole federazioni adatteranno i singoli regolamenti e statuti per renderli compatibili con la nuova disciplina.
1.2. I profili rilevanti del mobbing nel calcio professionistico
Come si è avuto modo di notare supra, il mondo del diritto sportivo abbraccia una pluralità di rami del diritto e regola istituti che devono essere analizzati in un’ottica di sistema con i singoli regolamenti federali, il diritto interno e il diritto comunitario.
Un autore nel 2005, anno in cui la tematica ha iniziato ad interessare in maniera decisa sia l’opinione pubblica che la dottrina, ha specificato che «affinché possa verificarsi
23 In proposito, l’art. 2 c. 1 d. l. 19 agosto 2003, n. 220 riserva all’ordinamento sportivo la disciplina avente ad oggetto a) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; b) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive.
Non essendo questa la sede per approfondire la situazione precedente alla riforma, i contenuti della riforma stessa e le ricadute sul rapporto tra la giustizia ordinaria e quella statale, si rinvia ex multis a X. XXXXXXXXX, Il vincolo di giustizia sportiva: natura ed effetti alla luce dell’attuale quadro normativo, cit., pp. 36-63; X. XXXXX-
X. XXXXXXXX, Xxxxx cenni sul rapporto lavoristico tra atleta professionista e società nel sistema di Giustizia sportiva, cit., pp. 3-13; M. PIAZZA, Il sistema sportivo italiano e la pluralità degli ordinamenti giuridici, cit., pp. 5142-5150.
24 V X. XXXX, Sport e diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 2006, III, p. 725.
25 Art. 3 d. l. 19 agosto 2003, n. 220.
una condotta di mobbing in un rapporto di lavoro calcistico (professionistico), è necessario che sussistano determinati presupposti: a) che il rapporto di lavoro venga assunto come contratto di lavoro subordinato; b) che gli atti persecutori siano molteplici, ripetuti nel tempo, con una particolare intensità e frutto di una condotta preordinata alla emarginazione del soggetto mobbizzato; c) sotto certi aspetti, che si tratti di mobbing verticale (nella sua versione di bossing, bullying o combinato); d) che il fine ultimo sia quello di xxxxxxx il calciatore al rinnovo del contratto o alla riduzione dell’ingaggio; e) che sia possibile dimostrare un danno biologico o esistenziale del lavoratore-calciatore»26.
Avendo già affrontato i presupposti sub b), c), e) nel primo capitolo, nel presente si cercheranno di analizzare i punti a) e d), rimandando al capitolo finale27 la trattazione della normativa volta a fronteggiare lo sviluppo di casi di mobbing nel mondo del calcio professionistico e della casistica registratasi in Italia.
Non ponendo il punto a) alcun problema dal punto di vista interpretativo28, è opinione di chi scrive che il punto d), nel momento in cui indica come presupposto quello dell’induzione da parte della società al rinnovo del contratto o alla riduzione dell’ingaggio, purtuttavia non indicando il caso in cui si voglia costringere il calciatore ad accettare una destinazione ad egli non gradita, abbracci, per il suo carattere fortemente economico, una pluralità di istituti di cui bisogna necessariamente dare conto. Si tratta della disciplina del vincolo sportivo e della libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea, della regolamentazione della cessione del contratto del calciatore professionista e dell’evoluzione della disciplina delle società professionistiche nel nostro paese, con particolare attenzione rivolta al profilo dello scopo di lucro.
Considerata anche la situazione de iure condendo che il mondo dello sport sta attualmente vivendo, si guarderà in itinere anche a come tali istituti sono ad oggi regolamentati nel mondo del dilettantismo - rectius del “non professionismo” - per cercare
26 X. XXXXX, Il mobbing nel mondo del calcio professionistico, in Riv. dir. econ. sport, 2005, III, p. 55.
27 X Xxxxxxxx 0
28 L’inclusione del rapporto di lavoro dello sportivo professionista nell’alveo della subordinazione è decisiva per l’applicazione alla fattispecie dell’art. 2087 c.c., norma che come si è approfondito in capitolo 1 § 4 ss. fonda la responsabilità civile del datore di lavoro nei casi di mobbing. La Cassazione ha ritenuto legittima questa impostazione e in un’occasione ha condannato una società a risarcire un calciatore il quale, dopo aver subito due infortuni gravi, ne pativa un altro a causa della mancata comunicazione al competente istituto medico ad opera del club della completa cartella clinica del giocatore. V Cass. civ. sez. lav., 8 gennaio 2003, n. 85 in Lav. giur., 2003, VI, p. 544 con nota di X. XXXXXXXXX.
di inquadrare come una loro modifica o abolizione potrebbe eventualmente aprire le porte in futuro a casi di mobbing.
2. Il rapporto di lavoro del calciatore professionista. La situazione pre l. 23 marzo 1981,
n. 91
L’interessamento del legislatore statale in materia di qualificazione del rapporto di lavoro del calciatore professionista è di origine piuttosto recente. Il dibattito per lunghi anni si era infatti consumato nell’ambito della dottrina e della giurisprudenza, le quali non erano al tempo riuscite a trovare una posizione univoca sul punto.
Il giudice di legittimità si è espresso più volte sulla questione ma sempre in modo ondivago. In una prima pronuncia del 195329 ha riconosciuto la natura autonoma del contratto di lavoro tra l’associazione sportiva e l’atleta, fonte solamente di un diritto di credito30. Orientamento ribaltato pochi anni dopo in una pronuncia del 196131: in questo caso il rapporto di lavoro del calciatore professionista viene ricondotto nell’alveo della subordinazione ex art. 2094 c.c.32, nonostante la presenza di istituti peculiari quali l’impossibilità di recesso unilaterale e la facoltà da parte della società di trasferimento ad altro ente. Nel 1963 la Cassazione è tornata nuovamente sul tema e ha sottolineato l’atipicità del rapporto di lavoro sportivo rispetto ai comuni rapporti di lavoro subordinato33. Al fine di dirimere definitivamente la questione il giudice di legittimità è intervenuto a Sezioni Unite nel 197134, confermando la natura subordinata del rapporto di lavoro dello sportivo professionista, nonostante caratteristiche sue proprie che non ne
29 Cass. civ. sez. III, 4 luglio 1953, n. 2085 in Foro it., 1953, VIII, pp. 1086-1094. Si tratta della celebre pronuncia riguardo al c.d. disastro di Superga in cui, sulle colline di Superga (TO), il 4 maggio 1949 si schiantò un ultraleggero con a bordo trentuno persone, tra le quali la rosa del Grande Torino. Una squadra capace di vincere ben cinque campionati a cavallo tra il 1942 e il 1949, entrando nell’immaginario collettivo di un’Italia ancora alle prese con la ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale. In questa sede non venne riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in capo all’Associazione Calcio Torino.
30 Cfr M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., p. 73.
31 Cass. civ. sez. II, 21 ottobre 1961, n. 2324 in Foro it., 1961, X, pp. 1608-1614. Viene sottolineato che Il rapporto che lega i giocatori di calcio professionisti alle associazioni sportive che li hanno ingaggiati, è un rapporto di lavoro subordinato, anche se è esclusa la libertà di recesso del calciatore e se l’ente sportivo ha facoltà di «trasferire» quest’ultimo ad altro ente.
32 Art. 2094 c.c. – Prestatore di lavoro subordinato
È prestatore di lavoro subordinato chi si si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
33 Cass. civ. sez. III, 2 aprile 1963, n. 811 in Foro it., 1963, V, pp. 894-903.
34 Cass. S.U., 26 gennaio 1971, n. 174 in Foro it., 1971, II, pp. 342-356 e in Foro it., 1971, 5, pp. 1284-1296 con note di A.C. JEMOLO e F.D. BUSNELLI: si tratta del celebre caso di cronaca che ha visto coinvolto Xxxxx Xxxxxx (1943-1967), giovane promessa della Nazionale e del Torino, scomparso tragicamente all’età di 24 anni travolto da un’auto.
modificano però la natura35. Nel caso di specie inoltre, a differenza di quanto accaduto nella decisione del 1953, è stato riconosciuto a favore della società calcistica il diritto al risarcimento del danno per la morte di un calciatore in seguito a condotta colposa di terzi36.
L’indirizzo espresso dal giudice di legittimità era in larga parte condiviso anche dalla dottrina dell’epoca, seppur con qualche eccezione37.
Il legislatore ha tuttavia ritenuto non più procrastinabile38 l’intervento volto a qualificare la natura del rapporto di lavoro dello sportivo professionista nel momento in cui il 7 luglio 1978 viene emesso il c.d. decreto Xxxxxxxxxxx00. Il pretore di Milano, qualificando il rapporto come subordinato, dichiara inapplicabili, ponendosi in contrasto con una giurisprudenza ormai consolidata, le norme sul divieto di intermediazione nel collocamento previste dalla l. 29 aprile 1949, n. 264 e successive modificazioni, bloccando di conseguenza la corrente sessione di calcio mercato. La situazione di stallo che poteva costare lo slittamento dell’inizio del campionato viene superata in breve tempo con l’emanazione del
d.l. 14 luglio 1978, n. 367, di interpretazione autentica. Viene statuito che gli atti relativi all’acquisto ed al trasferimento del titolo sportivo dei giocatori di calcio o degli atleti praticanti altri sports, nonché le assunzioni di tecnici da parte di società od associazioni sportive, devono intendersi non assoggettati alla disciplina in materia di collocamento prevista dalla legge 29 aprile 1949, n. 264, e successive modificazioni40. Inoltre, l’art. 2 c. 1 invitava il legislatore a dettare entro un anno una disciplina del rapporto di lavoro a tutela degli interessi sociali, economici e professionali degli atleti.
35 Cfr M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., p. 74.
36 In questi termini, F.D. BUSNELLI, Un clamoroso «revirement» della Cassazione: dalla «questione di Superga a
«caso Meroni», in Foro it., 1971, V, p.1286.
37 Per una ricostruzione della posizione della dottrina dell’epoca si rinvia a M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit. pp. 74-77; X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., 2020, pp. 161-163; CERIONI M.L., voce Lavoro sportivo, in Enciclopedia giuridica, volume XX, 1998, p. 1.
38 In questi termini A. DE XXXXXXXXX, Il diritto sportivo oggi, in Dir. lav., 1988, I, p. 254. L’autore ritiene che siano stati decisivi anche i due scandali di calcioscommesse del 1980 e del 1986.; A. D’HARMANT XXXXXXXX, Il rapporto di lavoro sportivo tra autonomia e subordinazione, in Dir. lav., 1988, I, p. 265.
39 Decreto Pret. Milano, 7 luglio 1978 in Foro it., 1978, II, pp. 319-320. Tale decreto viene definito
«dissennato» in X. XXXXX, Premessa, in X. XXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXX PUTZOLU-X. XXXXXXXXX, Una legge per lo sport?, in Foro it., 1981, XI, p.297.
40 Art. 1 c. 2 d. l. 14 luglio 1978, n. 367.
In sede di conversione41 si assiste però ad una quasi totale soppressione delle norme del decreto legge, ad esclusione dell’art. 1 c. 2. Un autore ha rilevato che l’intenzione fosse quella di sollecitare il Parlamento a farsi carico di un intervento organico della materia42.
Da qui si ha la presentazione del d.d.l. 26 ottobre 1979 (atto Senato n. 400), del quale si segnala l’iniziale scelta di qualificare lo sportivo professionista come lavoratore autonomo43. Tuttavia la Camera dei Deputati, una volta chiamata al voto, ribalta tale impostazione: la dottrina, sia nell’ambito del diritto dello sport che del lavoro, e la giurisprudenza dell’epoca spingevano infatti il più possibile per ricondurre le prestazioni di lavoro caratterizzate da alcune peculiarità nello schema della subordinazione44.
Viene così promulgata la l. 23 marzo 1981, n. 9145 (da qui l. 91/1981) recante Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti46: trattasi del primo intervento organico ad opera del legislatore in una materia fino a quel momento governata solamente dalle norme interne delle singole federazioni.
Fin da subito sono state molte le critiche mosse dalla dottrina e dagli operatori dello sport alla legge in questione. Una dottrina ha in proposito ricondotto in tre grandi questioni i problemi posti dalla nuova disciplina: la valutazione della positività o meno degli effetti della riconduzione del rapporto nell’alveo della subordinazione a discapito dell’autonomia; l’applicazione operativa dei vari istituti così come configurati dal testo normativo,
41 L. 4 agosto 1978, n. 430.
42 Cfr A. D’HARMANT XXXXXXXX, Il rapporto di lavoro sportivo tra autonomia e subordinazione, cit., p. 266.
43 Art. 4 d.d.l. 26 ottobre 1979 – Costituzione del rapporto e natura della prestazione sportiva
La prestazione dello sportivo professionista è considerata di lavoro autonomo ed è svolta mediante collaborazione coordinata e continuativa tra le parti [...].
44 Questo duplice ordine di ragioni viene ipotizzato in A. D’HARMANT XXXXXXXX, Il rapporto di lavoro subordinato ed autonomo nelle società sportive, in Riv. dir. sport., 1986, p. 4 e id, Il rapporto di lavoro sportivo tra autonomia e subordinazione, cit., p. 269.
45 In G.U. 27 marzo 1981, n. 86.
Per un’analisi approfondita dell’iter legislativo si rinvia a X. XXXXXXXX-X. XXXXXX XXXX, L’iter parlamentare della l.23 marzo 1981, n. 91, sui rapporti tra società e sportivi professionisti, in Riv. dir. sport., 1981, pp. 492- 516; X. XXXXXXXXX, L’attività sportiva professionistica: la disciplina giuridica delle prestazioni degli atleti e degli sportivi professionisti, in Dir. lav., 1982, pp. 28-31. Xxxxxxxxx, già in sede di lavori preparatori, si era schierato a favore dell’inquadramento del rapporto di lavoro sportivo nello schema dell’autonomia in quanto l’incidenza nella vita dell’atleta è talmente elevata che in un normale rapporto di lavoro subordinato non sarebbe concepibile.
46 Viene definita «una legge per il calcio» in X. XXXXX, Premessa, cit., p. 298. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone anche X. XXXXX, Peculiarità del rapporto dei giocatori professionisti, in Dir. lav., 1988, p. 315 e A. D’HARMANT XXXXXXXX, Note sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro sportivo, in Mass. giur. lav., 1981, p. 854.
soprattutto per quanto concerne quelli che non trovano omologhi in realtà diverse da quella sportiva; i problemi di diritto sindacale posti dall’art. 4 c. 1 l. 91/198147.
Non mancano tuttavia voci che ne hanno sottolineato l’impatto positivo sul mondo dello sport, sia perché ha portato ad una vera e propria «emersione dell’ordinamento sportivo»48, sia nell’ambito della tutela della persona dell’atleta, ritenuta addirittura più soddisfacente di quella offerta dalla l. 20 maggio 1970, n. 30049.50
2.1. Art. 2 l. 91/1981: il professionismo nello sport. Il requisito oggettivo e il requisito soggettivo
Dopo aver sancito all’art. 1 l. 91/1981 che L’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero51, l’art. 2 statuisce che Ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica.
Un primo problema che il dettato dell’art. 2 l.91/1981 ha fin da subito posto è quello delle figure dello sportivo richiamate: la dottrina si è divisa tra chi riteneva che l’elenco fosse tassativo52 e chi, invece, meramente esemplificativo53. La Corte di Cassazione, confermando il proprio orientamento54, in una pronuncia del 2008 si è allineata all’interpretazione non estensiva: per le figure non espressamente indicate, quali ad
47 A. DE XXXXXXXXX, Il diritto sportivo oggi, cit., pp. 261-264
48 X. XXXXXXXX, La legge n. 91 del 1981 e la “emersione” dell’ordinamento sportivo, in Riv. dir. sport., 1982, p. 36.
49 Cfr X. XXXXXX, Il lavoro sportivo tra codice civile e norma speciale, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, pp. 42-45.
50 Per questo motivo il rapporto di lavoro sportivo è connotato da forti caratteri di specialità. M.L. XXXXXXX, voce Lavoro sportivo, cit., p. 4.
51 Per un’analisi dell’art.1 l’91/1981 si rinvia a X. XXXXXXXX, Art. 1. Attività sportiva, in X. XXXXXXXX (a cura di), Legge 23 marzo 1981, n. 91. Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 561.
52 Ex multis, X. XXXXXXXX, Art. 2. Professionismo sportivo, in X. XXXXXXXX (a cura di), Legge 23 marzo 1981, n.
91. Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 562.
53 V. P. TOSI, Sport e diritto del lavoro, cit., p. 721
54 Cfr in questo senso Cass. civ. sez. lav., 8 settembre 2006, n. 19275 in Giust. civ. mass., 2006, IX
esempio massaggiatori e medici sociali, non si applica la disciplina della l. 91/1981 bensì le norme di diritto comune sul lavoro subordinato, qualora ne ricorrano i presupposti55.
Un caso particolare nel recente passato oggetto di alcune pronunce giurisprudenziali che hanno suscitato l’interesse della dottrina è stato quello della qualificazione del rapporto tra l’arbitro di calcio, la Federazione Italiana Giuoco Calcio (da qui, FIGC) e l’Associazione Italiana Arbitri (da qui, AIA): l’ultima pronuncia del giudice di legittimità in merito, risalente al 200956, ha ricondotto la prestazione del direttore di gara nella figura dell’adempimento del patto sociale, a prescindere che siano o meno presenti i requisiti ex art. 2094 c.c. e quindi escludendo la presenza di lavoro subordinato, coerentemente con quanto affermato sia nel Regolamento dell’AIA57 sia nello Statuto del CONI58. La dottrina ha da subito evidenziato però che il carattere associativo che lega l’arbitro alla FIGC e all’AIA non rispecchia nei fatti la reale natura del rapporto in questione, in quanto il direttore di gara si vede costretto, oltre ad un impegno molto importante dal punto di vista fisico verso il pagamento di corrispettivi camuffati da rimborsi spese, al rispetto di una determinata serie di obblighi tipici del rapporto di lavoro subordinato. La posizione espressa dalla giurisprudenza, per la quale la subordinazione è ravvisabile solo ove l’attività svolta non rientri nell’oggetto sociale, è stata dunque criticata su più fronti59. Partendo da quanto disposto dall’art. 2 l. 91/1981, sono state individuate le due caratteristiche fondamentali che le quattro figure di sportivo menzionate devono possedere per essere qualificate come professioniste: il requisito soggettivo della
55 Cass. civ. sez. lav., 11 aprile 2008, n. 9551 in Foro it., 2008, XII, pp. 3641-3650 con nota di CARBONE L.
56 Cass. civ. sez. lav., 12 maggio 2009, n. 109867 in Lav. giur., 2009, XII, pp. 1253-1262 con nota di X. XXXXXXX.
57 Art. 1 c. 1 Regolamento AIA – Natura e funzioni
L’Associazione Italiana Arbitri (AIA) è l’associazione che, all’interno della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), riunisce obbligatoriamente tutti gli arbitri italiani che, senza alcun vincolo di subordinazione, prestano la loro attività di ufficiali di gara nelle competizioni della FIGC e degli organismi internazionali in cui aderisce la Federazione stessa.
58 Art. 33 c. 1 Statuto CONI – Ufficiali di gara
Gli ufficiali di gara partecipano, nella qualifica loro attribuita dalla competente Federazione sportiva nazionale o Disciplina sportiva associata o Ente di promozione sportiva e senza vincolo di subordinazione, allo svolgimento delle manifestazioni sportive per assicurarne la regolarità.
59 Cfr X. XXXXXXX, Il rapporto di “lavoro” dell’arbitro di calcio, in Lav. giur., 2009, 12, pp. 1262; X. XXXXXXX, La prestazione arbitrale: inquadramento lavoristico e prospettive di riforma, in LavoroDirittiEuropa (xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx), 2019, III, pp. 3-6. Sul punto e sulle posizioni discordanti in dottrina si vedano anche le considerazioni riportate in X. XX XXXXXXXXX, Ancora in tema di lavoro nello sport dilettantistico, in X. XXXXXXXX XXXXXXXX-A. DE XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXX, Il rapporto di lavoro dello
sportivo, Experta, Forlì, 2007, pp. 69-70.
qualificazione da parte della federazione sportiva e il requisito oggettivo dell’obbligazione di prestare la propria attività in forma continuativa verso il pagamento di un corrispettivo60. In ordine al primo di tali requisiti sono sorte numerose problematiche. Innanzitutto, nonostante il dettato dell’art. 2 l. 91/1981 e dell’art. 5 lettera d), d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242,61 il CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) non ha ancora oggi fissato dei criteri omogenei per la distinzione dell’attività professionistica da quella dilettantistica, lasciando alle singole Federazioni ampia discrezionalità62. Solo quattro di queste, nello specifico quelle che si occupano di calcio (FIGC), basket (FIP), ciclismo (FCI) e golf (FGI), attualmente prevedono il settore professionistico al loro interno mentre per il motociclismo (FMI) e in parte la boxe (FPI) le federazioni di riferimento hanno fatto recentemente un passo
indietro, probabilmente spinte da ragioni di convenienza economica63.
Il secondo requisito posto dall’art. 2 l.91/1981 affinché si possa identificare uno sportivo professionista è quello della continuità della prestazione verso il pagamento di un corrispettivo. Da ciò si deduce che lo scopo primario non è solo quello di emergere in una competizione, ma di trarre dall’attività sportiva il proprio sostentamento: in questo senso il fatto di primeggiare non è più il fine ultimo bensì il mezzo attraverso il quale raggiungere lo scopo64. Il legislatore ha dunque condiviso l’orientamento giurisprudenziale desumibile dall’art. 36 Cost. che pone una presunzione di onerosità in caso di rapporto di lavoro subordinato: le prestazioni gratuite - rectius non costituenti unica fonte di sostentamento,
60 X. XXXXXXXX, Il lavoro sportivo, in A. LENER-X. XXXXXXXX-X. XXXXX PUTZOLU-X. XXXXXXXXX, Una legge per lo sport?, in Foro it., 1981, XI, p. 302: l’autore ritiene che quanto disposto dall’art. 2, soprattutto in tema di qualificazione ad opera delle federazioni nazionali, contrasti con il dettato dell’art. 1; X. XXXXXXXX, Art. 2. Professionismo sportivo, cit., p. 564; X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., pp. 165-166.
61 Art. 5 lett. d) d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242 – Compiti del consiglio nazionale
d) stabilisce, in armonia con l’ordinamento sportivo internazionale e nell’ambito di ciascuna federazione sportiva nazionale o disciplina sportiva associata, criteri per la distinzione dell’attività sportiva dilettantistica da quella professionistica.
62 La politica di sola approvazione delle delibere delle Federazioni nazionali adottata dal CONI in ambito di istituzione del settore professionistico è valutata negativamente da X. XXXXXXXX XXXXXXXX, Lo sport tra lavoro e passatempo, cit., pp. 22-26.
00 Xxx X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Xxxxxxx di Diritto Sportivo, p. 89, a cui si rinvia anche per l’analisi del caso della Federazione Pugilistica Italiana.
Inizialmente, con la delibera CONI 469/1988, erano in totale sei le federazioni che avevano deciso di adottare il settore professionistico. Con le delibere CONI 1435/2011 e 1502/2013 prima la F.M.I. e poi la F.P.I. hanno deciso di fare un passo indietro.
64 E. PICCARDO, Art. 2. Professionismo sportivo, cit., p. 564.
viste le laute somme elargite a titolo di rimborso spese - possono essere offerte solo in ambito dilettantistico e trovano la loro giustificazione nella causa associativa.65
2.2. L’art. 3 l. 91/1981 e l’atleta come lavoratore subordinato
Mentre, come si è già avuto modo di sottolineare, l’art. 2 l. 91/1981 comprende nella nozione di sportivo professionista quattro figure diverse ed estende loro la disciplina dell’intero testo normativo, l’art. 3 l. 91/198166 pone una presunzione di rapporto di lavoro subordinato67 in capo al solo atleta che svolge la propria prestazione a titolo oneroso68.
Sono però previste delle ipotesi tassative in cui il rapporto di lavoro viene ricondotto nell’alveo dell’autonomia: si tratta dei casi in cui l’attività è svolta in una sola manifestazione sportiva o in singole manifestazioni tra loro collegate, l’atleta ha un’apprezzabile indipendenza dal punto di vista dell’organizzazione degli allenamenti69 oppure la prestazione non è superiore a otto ore alla settimana, cinque giorni al mese o
65 V. M. PERSIANI, Art. 3. Prestazione sportiva dell’atleta, in X. XXXXXXXX (a cura di), Legge 23 marzo 1981, n. 91. Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 568 e A. DE XXXXXXXXX, Ancora in tema di lavoro nello sport dilettantistico, in X. XXXXXXXX XXXXXXXX-A. DE XXXXXXXXX-X. XXXXX-
X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXX, Il rapporto di lavoro dello sportivo, cit., pp. 70-72. Si segnala in questa sede che i tre contratti collettivi stipulati tra le parti in Serie A, Serie B e Serie C, quindi nell’ambito del calcio professionistico, stabiliscono dei minimi salariali ed escludono dunque a priori la possibile esistenza di lavoro gratuito.
66 Art. 3 l. 23 marzo 1981, n. 91 – Prestazione sportiva dell’atleta
La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato, regolato dalle norme contenute nella presente legge.
Essa costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti:
a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento;
c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anni.
67 Si ricordi che questa è la sostanziale differenza tra il d.d.l. 26 ottobre 1979 approvato inizialmente dal Senato e la versione definitiva della legge. A. D’HARMANT XXXXXXXX, Il rapporto di lavoro sportivo tra autonomia e subordinazione, cit., p. 268.
68 V A. D’HARMANT XXXXXXXX, Note sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro sportivo, cit., pp. 853-854. Viene scartata l’ipotesi di una applicazione estensiva anche alle altre figure di lavoratore sportivo, sia perché non può essersi trattata di una svista del legislatore sia perché il successivo art. 4 l. 91/1981 è caratterizzato fortemente da un’impostazione che tiene conto delle necessità dell’atleta.
69 Un autore sottolinea la difficoltà di coordinamento dell’ipotesi b) con quanto disposto dal successivo art. 4
c. 4 l. 91/1981: questo infatti impone di inserire nel contratto, che deve essere redatto in forma scritta, la clausola che obbliga l’atleta al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni che gli sono imposte per il conseguimento degli scopi agonistici. La subordinazione dipenderebbe dunque dal formale inserimento nel contratto di tale clausola, senza considerare l’effettivo modalità di svolgimento del rapporto. X. XXXXXXXXXXXX, Sport e diritto del lavoro, cit., p. 236.
trenta giorni all’anno70. Come è facilmente intuibile, si tratta di criteri di tipo quantitativo che fissano una soglia minima al di sotto della quale il legislatore ha ritenuto non essere rilevante la subordinazione71, precludendo così una qualsiasi indagine di tipo qualitativo riguardo alla prestazione svolta dall’atleta.
Per tutte le altre figure di sportivo professionista, quindi allenatori, direttori tecnico sportivi e preparatori atletici, la giurisprudenza ha più volte ribadito che non è escluso che possa essere riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato, per il quale è necessario che venga valutato il caso concreto in base ai criteri ordinari offerti dal diritto del lavoro72.
2.3. La qualificazione della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Il contrasto con la normativa FIFA
Il calcio è stato uno dei primi e sin qui pochi settori dotatisi di un settore professionistico nell’ambito del diritto italiano. Sulla scia di quanto disposto dalla l. 91/1981, l’art. 7 c. 2 dello Statuto della FIGC73, ripreso nei contenuti dall’art. 27 c.1 delle Norme organizzative interne della FIGC (da qui NOIF), afferma che I calciatori sono qualificati in professionisti, dilettanti e giovani.
Alla prima categoria appartengono, ex art. 28 c.1 NOIF, i calciatori che esercitano l’attività sportiva con carattere di continuità, tesserati per società associate nella Lega Nazionale Professionisti74 o nella Lega Professionisti Serie C. A contrario, sono considerati “non professionisti” i calciatori che svolgono attività per le società associate alla Lega Nazionale Dilettanti75 (da qui LND), che praticano il “Calcio a Cinque” e le calciatrici che
70 Una parte della dottrina ritiene che questi tre casi siano delle semplici indicazioni utili per prevenire delle situazioni di incertezza in un mondo come quello sportivo che si trova ad abbracciare le esigenze di discipline anche molto diverse tra loro: X. XXXXXXXXXXXX, Sport e diritto del lavoro, cit., p. 235.
71 In questi termini X. XXXXXXXX, Art. 3. Prestazione sportiva dell’atleta, cit., p.569, a cui si rinvia per un’attenta analisi delle tre ipotesi di lavoro autonomo e delle problematiche poste dal comma 2 dell’articolo stesso.
72 Cass. civ. sez. lav., 28 dicembre 1996, n. 11540 in Giust. civ. Mass., 1996, p. 1799; Cass. civ. sez. lav., 8
settembre 2006, n. 18275 in Giust. civ. Mass., 2006, p. 9; Cass. civ. sez. lav., 1 agosto 2011, n. 16849 in Giust. civ. Mass, 2011, VII-VIII, p. 1141: il caso in questione è di particolare interesse perché è stata riconosciuta la configurabilità del rapporto di lavoro subordinato tra una associazione dilettantistica e un massaggiatore, figura non individuata dall’art. 2 l. 91/1981.
73 Lo Statuto della FIGC è disponibile online all’indirizzo xxx.xxxx.xx, nello specifico alla voce “Norme”.
74 La Lega Nazionale Professionisti, fino al 2010, è stato l’organo deputato all’organizzazione della Serie A, Serie B, Coppa Italia, Supercoppa e a livello giovanile del campionato Primavera, Coppa Italia Primavera e Supercoppa Primavera. Nel 2010, a seguito di un duro scontro interno, tale Lega si è scissa in LNP Serie A e LNPB: la prima, oltre al campionato di competenza, organizza anche la Coppa Italia e la Supercoppa oltre a tutte le competizioni giovanili. Cfr art. 1 c. 3 l. b Statuto LNP Serie A.
75 In tal senso, rilevante è l’art. 1 Statuto L.N.D., il quale sottolinea come nei campionati organizzati dalla Lega in questione partecipino solo calciatori non professionisti.
partecipano ai campionati di Calcio femminile76. Per tutta questa ampia categoria di soggetti attualmente77 è esclusa ogni forma di lavoro, sia autonomo che subordinato78. La dottrina ha criticato aspramente il dettato di tale norma, sottolineando che «non si comprende come possa essere considerata meritevole di tutela, nel nostro ordinamento, la regola negoziale che vieta a taluno di lavorare»79.
È importante segnalare come nella legge italiana sia fatta una sola volta menzione del dilettantismo sportivo, nello specifico all’art. 67 c. 1 lett. m) Testo unico delle imposte sui redditi (TUIR), il quale comprende nella categoria dei redditi diversi tutte le indennità di trasferta, i rimborsi forfettari di spesa, i premi e i compensi erogati [...] nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche.
Nell’ultima categoria, quella dei “giovani”, rientrano tutti i calciatori e le calciatrici che hanno compiuto otto anni e che al 1° gennaio dell’anno in cui inizia la stagione sportiva non sono ancora sedicenni80: questi, a partire dal compimento del 14° anno di età, possono siglare con una società appartenente alla LND un vincolo (c. d. vincolo sportivo) fino al termine della stagione in cui hanno compiuto il 25° compleanno81. I “giovani” che invece sono tesserati per una società disputante il campionato di Serie A, Serie B o Serie C, al compimento del 14° anno di età vengono qualificati come “giovani di serie”: questi assumono un particolare vincolo con il loro club fino ai 19 anni, scaduto il quale possono sottoscrivere un contratto professionistico o alternativamente sono liberi di firmare per
76 Art. 29 c. 1 NOIF.
77 Anche lo Statuto del CONI, con le modifiche apportate nel 2000 per dare attuazione alla riforma Xxxxxxxx, ha sostituito “atleta non professionista” all’espressione “atleta dilettante” (nello specifico all’art. 6 c. 4 lett. i) ). Sul punto di vedano le considerazioni riportate in X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 94.
78 Art. 29 c. 2 NOIF.
79 X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., p. 116.
80 Art. 31 c. 1 NOIF.
81 In ordine a questo punto, in particolare al vincolo sportivo ancora presente nel mondo dilettantistico, si rinvia a capitolo 2 § 3.5.
altre società. Tuttavia, in presenza di determinate condizioni82, il contratto professionistico può essere stipulato già al compimento del 16° compleanno.83
La qualificazione formale operata dalla FIGC, oltre a non essere allineata con la costante giurisprudenza a livello prima comunitario e poi unitario, contrasta anche con il Regulations on the Status and Transfer of Players della Federation International Football Association84(da qui RSTP-FIFA). L’art. 2 RSTP-FIFA85 afferma infatti che i calciatori si suddividono in professionisti e dilettanti e che i calciatori professionisti sono gli atleti che percepiscono come compenso per la loro attività una somma maggiore delle spese effettivamente sostenute, mentre i dilettanti sono individuati de xxxxxxx00 indipendentemente da qualsiasi qualificazione formale.
2.3.1. Il dibattuto problema della qualificazione del rapporto dei calciatori convocati in Nazionale
La partecipazione dei calciatori ai raduni delle proprie selezioni nazionali per la partecipazione ad incontri internazionali quali, a titolo di esempio, i campionati Europei e i Mondiali è, a partire dagli anni Ottanta, una questione che trova ampio spazio non solo sul piano prettamente giornalistico e sportivo ma anche giuslavoristico. Capita sovente di sentire, con un trend in continua crescita, durante le conferenze stampa allenatori, direttori sportivi o presidenti lamentarsi del fatto che i propri tesserati siano costretti durante l’anno
82 Art. 33 c. 3 NOIF – I “giovani di serie”
I calciatori con la qualifica di “giovani di serie”, al compimento anagrafico del 16° anno d’età e purché non tesserati a titolo temporaneo, possono stipulare contratto professionistico. Il calciatore “giovane di serie” ha comunque diritto ad ottenere la qualifica di “professionista” e la stipulazione del relativo contratto da parte della società per la quale è tesserato, quando:
a) abbia preso parte ad almeno dieci gare di campionato o di Coppa Italia, se in Serie A;
b) abbia preso parte ad almeno dodici gare di campionato o di Coppa Italia, se in Serie B;
c) abbia preso parte ad almeno quindici gare di campionato o di Coppa Italia, se in Divisione Unica-Lega Pro. 83 Per un approfondimento sulle tematiche affrontate si rinvia a X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, in X. XXXXXXX-M.J. XXXXXXX (a cura di), Vincolo sportivo e indennità di formazione. I regolamenti federali alla luce della sentenza Xxxxxxx, Sports Law and Policy Centre, 2010, pp. 66-67 e X. XXXXXXX, Il calciatore tra lavoro sportivo professionistico e dilettantismo, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, 2019, III, pp. 5-8.
84 Il testo integrale in lingua originale è accessibile all’indirizzo xxxxx://xxxxxxxxx.xxxx.xxx/xxxxx/xxxxxx/xxxxxxxxxxx-xx-xxx-xxxxxx-xxx-xxxxxxxx-xx-xxxxxxx-xxxxxxx- 2020.pdf?cloudid=kgl4gp7cl25ut2dbuz7y (consultato da chi scrive in data 23 marzo 2021).
85 Art. 2 Regulations on the Status and Transfer of Players – Status of players: amateur and professional players
Players participating in organised football are either amateurs or professionals.
A professional is a player who has a written contract with a club and is paid more for his footballing activity tha the expenses he effectively incurs. All other players are considered to be amateurs.
86 Cfr le considerazioni in X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., p. 29.
a sobbarcarsi molti chilometri e fatica per rispondere alla convocazione delle rappresentative nazionali con il duplice risvolto negativo di sprecare molte energie con il concreto rischio di patire degli infortuni e di rientrare a disposizione dei propri clubs solo a ridosso degli impegni nelle rispettive competizioni nazionali. Il disagio in tal senso è stato ulteriormente amplificato dalla pandemia di Covid-19, la quale ha messo ancora di più le società sulla difensiva: sembra ormai dunque essere superata l’idea per la quale la convocazione in nazionale, accrescendo il prestigio e di conseguenza il valore del calciatore, porta benefici anche per il club di provenienza87.
Dal punto di vista giuslavoristico i commentatori si sono confrontati in merito alla qualificazione del rapporto esistente tra il calciatore e la propria federazione: da un lato c’era chi propendeva per una prestazione di lavoro gratuito accompagnata eventualmente da compensi collegati ai risultati raggiunti sotto forma di liberalità88 ad opera della FIGC. Dall’altra invece si prospettava una fattispecie suddivisa in due momenti distinti: la sospensione del rapporto con la società e la costituzione di un nuovo rapporto con la FIGC89.
La Suprema Corte si è pronunciata in tema nel 199990, qualificando i compensi dati ai calciatori professionisti in occasione di incontri internazionali per mano della FIGC come redditi da lavoro autonomo91: la Cassazione non ha ritenuto in questi casi infatti configurabili il “comando” o “distacco”, indici tipici della subordinazione, da parte dei clubs di appartenenza presso la federazione.
Le società, in virtù del tesseramento92, hanno piuttosto più propriamente un obbligo di rilasciare, nel rispetto della normativa FIFA, i propri calciatori convocati per la Nazionale A93, i quali, nel caso in cui senza provato e legittimo impedimento, neghino la loro partecipazione all’attività delle Squadre Nazionali, delle Rappresentative di Lega
87 Pone l’accento su questo possibile risvolto positivo anche per le società di provenienza dei calciatori X. XXXXXXX, Problemi di qualificazione della prestazione atletica degli «azzurri», in Dir. lav., 1992, II, p. 19.
88 Ivi, pp. 21-24.
89 X. XXXXXXX X’XXXX-X. XXXXXX, Sul rapporto tra Figc e calciatori delle squadre nazionali, in Foro it., 1990, I, p. 3180-3181.
90 Cass. civ. sez. I, 14 giugno 1999, n. 5866 in Mass. Giur. It., 1999, p. 1365. La vicenda riguardava i compensi erogati al difensore Xxxxxxx Xxxxxxx in occasione della vittoria dei Mondiali del 1982.
91 V. M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., p. 89.
92 Il tesseramento è definito «l’atto per mezzo del quale ogni atleta assume diritti e obblighi nei confronti della federazione sportiva». X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., p. 105.
93 Art. 75 c. 3 NOIF.
nonché delle Rappresentative dei Comitati sono passibili di squalifiche da scontarsi in gare ufficiali della loro Società94.
Ulteriore conseguenza negativa di un eventuale periodo di inibizione a causa del rifiuto di giocare per la propria nazionale potrebbe portare anche ad inadempimento contrattuale degli obblighi posti in capo al capo al calciatore dall’art. 4 c. 4 l. 91/1981: costui infatti, per tutto il periodo in cui non può scendere in campo con la squadra di club, non rispetterebbe l’obbligo del rispetto delle istruzioni impartite per il raggiungimento degli scopi agonistici95.
2.4. Le critiche alla qualificazione: i c. d. professionisti di fatto
Il professionismo sportivo come regolato dalla l. 91/1981 e la conseguente opera di qualificazione delle federazioni pongono nei fatti una serie di problemi di natura diversa che hanno portato la dottrina a parlarne in termini di «inadeguatezza»96 e addirittura ad ipotizzarne il contrasto con il dettato della Costituzione. Si lascerebbe infatti a singole persone giuridiche private la possibilità di scelta della tutela da apprestare a prestazioni di lavoro che hanno lo stesso contenuto97.
In primis il focus deve essere posto sui c.d. professionisti di fatto. Si pensi ad atleti che praticano sport diversi ai quali l’attività sportiva richiede lo stesso o addirittura maggiore98 impegno sia dal punto di vista fisico che mentale: in virtù della scelta della federazione competente di optare o meno per il riconoscimento del settore professionistico, alcuni di questi risultano professionisti e si vedono applicate le norme della l. 91/1981, mentre altri restano nel mondo del dilettantismo. Un esempio lampante di questo differente trattamento formale in una situazione sostanzialmente molto simile è il confronto tra un atleta che gioca nel massimo campionato maschile nazionale di pallavolo e ad uno che invece milita in una formazione iscritta alla Serie A di pallacanestro99: al
94 Art. 76 c. 2 NOIF.
95 Cfr X. XXXXXXX, Problemi di qualificazione della prestazione atletica degli «azzurri», cit., p. 22.
96 M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., p. 18.
97 Cfr X. XX XXXXXXXXX, Ancora in tema di lavoro nello sport dilettantistico, in X. XXXXXXXX XXXXXXXX-A. DE XXXXXXXXX-
X. XXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXX, Il rapporto di lavoro dello sportivo, pp. 63-64. Fanno riferimento al principio di indisponibilità del tipo contrattuale anche X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit.,
p. 96
98 In questo senso, l’esempio classico proposto dalla dottrina pone a confronto il calciatore militante nel campionato di Serie C e il pallavolista di Serie A1. X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, cit., p. 53.
99 Il riferimento alla pallavolo e alla pallacanestro non è casuale ma dettato dal fatto che si tratta dei due sport più seguiti, seppur con uno share sensibilmente inferiore, in Italia dopo il calcio: nel 2016/2017 la regular
pallavolista, nonostante possa percepire, a vario titolo, somme considerevoli di denaro al pari del cestista, non risulta essere applicabile la disciplina della l. 91/1981.
2.4.1. Segue. I partecipanti ai Campionati nazionali dilettanti
La stessa situazione paradossale può essere però nei fatti riscontrata anche all’interno della stessa disciplina sportiva. Come si è avuto modo di evidenziare, la FIGC ha ad oggi limitato il settore professionistico alle sole Serie A, Serie B e Serie C, non includendo in alcun modo i campionati organizzati dalla LND. In seno a questi, particolare attenzione deve essere posta sulle competizioni a carattere nazionale, sulle quali è in tempi recenti intervenuta una riforma che ha introdotto alcune tutele per i partecipanti100: si tratta del Campionato Nazionale di serie D maschile, dei campionati di Serie A, Serie A2 maschili e Serie A Femminile della Divisione calcio a Cinque (art. 94 ter NOIF), oltre che delle competizioni organizzate dalla Divisione Calcio Femminile (art. 95 quinquies NOIF e art. 95 sexies NOIF).
Non essendoci differenze sostanziali e apprezzabili tra le discipline, queste possono essere affrontate congiuntamente. Dopo aver ribadito che è esclusa, come per tutti i calciatori/calciatrici “non professionisti”, ogni forma di lavoro autonomo o subordinato101, la normativa corrente obbliga le parti a sottoscrivere degli accordi economici annuali che comprendono le indennità di trasferta, i rimborsi spese e i premi102 oppure, alternativamente, una somma lorda annuale suddivisa in dieci mensilità: la ratio della previsione di questi è quella di facilitare un controllo dal punto di vista economico e finanziario, stante anche l’obbligatorietà di deposito degli accordi entro termini perentori. La seconda opzione, quella che prevede la corresponsione di una somma forfettaria,
è nei fatti maggiormente utilizzata: l’art. 94 ter c. 6 NOIF, ripreso dall’art. 94 quinquies c. 2 NOIF, fissa però un tetto di 30.658,00€ lordi annui alla somma erogabile. Gli artt. 94 ter c.
season della Serie A maschile di pallacanestro ha avuto una media di 3863 spettatori contro i 2600 della Serie A maschile di volley. Ai fini di confronto, si segnala che lo stesso anno la Serie B di calcio ha registrato una media 6914 spettatori a partita. Tutti i dati sono rinvenibili in X. XXXXXXXXX, Il calcio nel mirino delle critiche: ma i numeri dicono che in Italia vale più degli altri sport, 15 novembre 2017, in xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 19 marzo). Inoltre, entrambi gli sport risultano essere appetibili agli occhi di investitori interessati ad ampliare l’interesse per le loro aziende agli occhi dei tifosi: infatti per la stagione 2020/2021, ancorché ampiamente segnata dalla pandemia di Covid-19, i due massimi campionati maschili in questione sono sponsorizzati da UnipolSai e Credem Banca.
100 In questi termini X. XXXXXXX, Il calciatore tra lavoro sportivo professionistico e dilettantismo, cit., p. 10.
101 Art. 94 ter c. 1 NOIF e art. 94 quinquies c. 1 NOIF.
102 I limiti fissati dalle NOIF sono di 61,97€ al giorno di rimborso spese e indennità di trasferta per un massimo di 5 giorni alla settimana nel periodo di campionato e 77,47€ di voce premiale per ogni prestazione relativa a gare di Campionato e Coppa Italia. Il limite massimo di 61,97€ die si applica, per un massimo di 45 giorni, anche nel periodo di preparazione atletica estiva che precede l’inizio delle competizioni.
7 e 94 quinques c. 8 NOIF prevedono poi la possibilità di stipulare accordi pluriennali, fino ad un massimo di tre stagioni, tra la società e i calciatori/calciatrici e la corresponsione di un’ulteriore somma di denaro senza alcun tetto massimo, lasciando dunque ampio margine di discrezionalità alle parti nella fissazione della cifra in questione103.
Un’attenta dottrina ha sottolineato come un impianto così strutturato permetta in realtà di celare, dietro alle mentite spoglie di semplici rimborsi spese o indennità di trasferta, dei veri e propri compensi che hanno però il vantaggio, soprattutto per la società, di godere di un regime fiscalmente agevolato104: come si è avuto modo di accennare supra105 le somme percepite nell’esercizio dell’attività dilettantistica non concorrono a formare reddito fino a 10.000€, mentre sono soggette ad una ritenuta a titolo di imposta del 23% per fino a 30.658,28€ e all’ordinaria tassazione IRPEF per l’eccedenza.
Inoltre, gli stessi articoli delle NOIF analizzati prevedono la possibilità di avanzare davanti alla competente Commissione Accordi Economici della LND le proprie pretese relative agli accordi economici in questione nel caso di inadempimento della società, un istituto che ha più di una parvenza del lavoro subordinato: questa, se dopo 30 giorni dalla comunicazione della decisione e in caso di mancata impugnazione non adempie, dà diritto al calciatore, nel caso in cui le somme contestate siano almeno il 20% del totale annuo pattuito, di svincolarsi per morosità106.
Stringendo il campo d’indagine, è evidente che la situazione di fatto fin qui descritta crei una disparità evidente tra società iscritte alla Serie C e quelle partecipanti alla Serie
103 Ex art. 94 ter c. 12bis NOIF, lo stesso meccanismo è pensato anche per gli allenatori ma in questo caso limitatamente a quelli tesserati per le società di Serie D: in questo caso, però, il tetto massimo della somma annua percepibile è fissato da un accordo annuale tra la LND e l’Associazione Italiana Allenatori.
104 X. XXXXXXX, Il calciatore tra lavoro sportivo professionistico e dilettantismo, cit., p. 9.
105 Capitolo 2 § 2.3.
106 Art. 94 ter c. 10-11 NOIF e art. 94 quinques c. 11 NOIF.
In L.M. DENTICI, Il lavoro sportivo tra professionismo e dilettantismo: profili di diritto interno e comunitario, in Eur. dir. priv., 2009, IV, p. 1077-1078: l’autore ritiene che il fatto che la LND abbia creato un embrione di contrattazione collettiva e si sia dotata di un apposito sistema interno di arbitrato cancelli ulteriormente le già sottili differenze con il mondo del professionismo calcistico in Italia.
D107, tanto che se ne è parlato in termini di incoerenza del sistema108: se da un lato i due campionati sono direttamente interdipendenti tra loro e quindi richiedono ai propri tesserati un quantitativo di impegno quasi equivalente, dall’altro sono presenti delle disparità di trattamento evidenti. In primis le società professionistiche devono sopportare dei costi, si pensi ad esempio a quelli previdenziali, molto superiori rispetto a quelle dilettantistiche, dall’altro un calciatore iscritto alla Serie D, nonostante possa ricevere, pur se camuffato da rimborso spese cifre anche superiori a quelle di un pari della Serie C109, non potrà godere delle tutele che invece competono al professionista.
Superata con esito negativo la proposta avanzata da una parte della dottrina di xxxxxxxxx in via diretta o analogica al professionismo di fatto le tutele stabilite dalla l. 91/1981 visto il dettato dell’art. 14 disp. prel. c.c.110, la giurisprudenza domestica si è espressa sul tema ritenendo applicabili le norme di diritto comune, quindi quelle alternativamente del lavoro autonomo e del lavoro subordinato, qualora ne ricorrano i presupposti da valutare caso per caso111. Questo assunto però crea una situazione paradossale: lo sportivo dilettante, quindi anche il professionista di fatto, può godere di tutte le tutele del lavoro dipendente a differenza dello sportivo professionista, al quale non si applicano gli artt. 4, 5, 13, 18, 33, 34 l. 20 maggio 1970 n. 300 e artt. 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 l. 15
000 X X. XXXXXXXX, Ipotesi per una riforma della legge n. 91/1981, in Dir. lav., 1988, pp. 311-313: si sottolinea che la netta distinzione operata dalla FIGC tra professionisti e dilettanti, non prevedendo un “cuscinetto” come sarebbe potuto essere quello del semiprofessionismo, ha creato molti problemi alle società di Serie C, le quali, a parità di costi di materiale e trasferte rispetto a quelle di D, devono sobbarcarsi degli oneri, per esempio quelli previdenziali, uguali invece a quelli della Serie A. Questa situazione ha portato nella storia molte realtà a fallire oppure a preferire una retrocessione per l’insostenibilità dei costi del professionismo: l’autore porta alcuni esempi del tempo quali il Varese, lo Spezia e la Ternana, recentemente si ricordino i fallimenti di piazze blasonate come Palermo, Bari, Cesena e Robur Siena.
Più di recente, a conferma che la situazione non si è modificata, porta lo stesso esempio anche X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, cit., p. 54.
108 Cfr X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., p. 117.
000 X. XXXXXXXX, Ipotesi per una riforma della legge n. 91/1981, cit., p. 313.
Tale affermazione è verificabile empiricamente confrontando il minimo retributivo spettante ad un calciatore di Serie C dal 24° anni di età, quantificato in 26.664,00€ lordi e 18.670,84€ netti (dati riscontrabili all’indirizzo xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxx/xxxxxxx/xxxxx/xxxxxxxxxx/xxxxxx/xxxxxxx%00xxxxxx%00Xxxx%00Xxx%00 2020_2021_0.pdf, consultato da chi scrive in data 22 marzo 2021), con il tetto massimo di 30.658,00€ lordi che possono essere corrisposti al calciatore di Serie D.
110 In questi termini X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 96.
111 M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., pp. 99-100.
Per una ricostruzione dello sviluppo del pensiero giurisprudenziale sul tema si rinvia a ivi. In questa sede si segnalano Corte appello Ancona sez. lav., 12 giugno 2018, n. 260 in xxx.xxxxxx.xx: il giudice ritiene che, a fini fiscali, sia irrilevante la qualificazione data dalla federazione (in questo caso si tratta del basket), in quanto, privilegiando la sostanza alla forma, è possibile riconoscere un rapporto di lavoro autonomo o subordinato se il rapporto tra le parti sia identico a quello professionistico.
luglio 1966 n. 604112, la l. 18 aprile 1962 relativamente ai contratti di lavoro a termine113 e l’art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300 limitatamente alle sanzioni disciplinari irrogate dalle singole federazioni nazionali114.115
2.5. Le critiche alla qualificazione: la giurisprudenza comunitaria in tema di professionismo e dilettantismo sportivo
L’altro grande ordine di problemi che riguarda il dettato della l. 91/1981 è il contenuto delle pronunce della Corte di Giustizia116 in merito alla qualificazione dello sport professionistico e dilettantistico: in più occasioni è stato infatti ribadito che l’applicazione delle norme del Trattato in tema di non discriminazione non può essere in alcun caso limitata dalla qualificazione delle federazioni nazionali117.
Pioneristiche in materia sono le sentenze B.N.O. Xxxxxxx, X.X.X. Xxxx c. Association Union cyscliste internationale, Koninklijke Nederlandsche Wielren Unie e Federaciòn Española Ciclismo118 (da qui sentenza Xxxxxxx) e X. Xxxx c. X. Xxxxxxx000 (da qui sentenza Donà), rispettivamente del 1974 e 1976120: nel primo caso si chiede alla Corte se un
112 Art. 4 c. 8 l. 91/1981.
113 Art. 4 c. 9 l. 91/1981.
114 Art. 4 c. 10 l. 91/1981.
115 Cfr L.M. DENTICI, Il lavoro sportivo tra professionismo e dilettantismo: profili di diritto interno e comunitario, cit., pp. 1065-1072; M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., p. 100.
116 Il rapporto tra sport e diritto europeo, inteso sia in senso comunitario che unitario, è stato ricostruito da un autore in cinque fasi principali:
1) da metà degli anni settanta al 1995, in cui si segnalano le due pronunce Xxxxxxx e Donà che al tempo erano risultate importanti ma non avevano avuto un grande peso mediatico;
2) la sentenza Xxxxxx (1995), momento determinante in cui il diritto comunitario entra di prepotenza nella regolamentazione dello sport segnando un punto di svolta e per certi versi anche di non ritorno;
3) dal 1996 al 2000, periodo durante il quale si assiste ad un vero e proprio tentativo di scardinare il sistema sportivo per incompatibilità con i principi del diritto comunitario (sentenze Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxxxx e Xxxxxx);
4) il periodo 2000-2003: la compatibilità dei regolamenti federali con il diritto comunitario è valutata con riferimento agli atleti extraeuropei. Le sentenze di riferimento sono Malaja e Kolpak, per un approfondimento delle quali si rinvia all’opera citata;
5) la fase attualmente in atto in cui, soprattutto il calcio, deve adattarsi a nuove norme e nuovi principi imposti a livello unitario.
Questa ricostruzione si deve a X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXXXX, Lo sport e il diritto dell’Unione Europea, in E. GREPPI-
X. XXXXXXX (a cura di), Diritto internazionale dello sport, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 305-310.
117 X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, p. 29.
118 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 dicembre 1974, B.N.O. Xxxxxxx, X.X.X. Xxxx c. Association Union cycliste internationale, Koninklijke Nederlandsche Wielren Unie e Federaciòn Española Ciclismo, causa 36-74, in Raccolta, 1974, pp. 1406-1421.
119 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 luglio 1976, X. Xxxx c. X. Xxxxxxx, causa 13-76, in Raccolta, 1976, pp. 1334-1342. 120 Fin da subito la dottrina più attenta si era resa conto che la qualificazione del professionismo così come regolata dalla l. 91/1981 poteva contrastare con i principi espressi in ambito comunitario nelle sentenze Xxxxxxx e Donà e auspicava in tal senso un intervento chiarificatore del legislatore: X. X’XXXXXXX XXXXXXXX, Il rapporto di lavoro sportivo tra autonomia e subordinazione, cit., pp. 271-272.
regolamento emanato dall’Union Cycliste Internationale che impedisce a due allenatori di stayers, disciplina ciclistica nella quale si gareggia dietro a delle motociclette, di partecipare ai campionati mondiali di disciplina perché non della stessa nazionalità del corridore fosse contraria ai principi del Trattato. La seconda questione concerne invece la possibile incompatibilità di un regolamento della FIGC che limita il numero di calciatori proveniente da Stati membri tesserabili e schierabili in campo.
La Corte di Giustizia esprime in entrambe le sentenze alcuni principi di diritto così riassumibili: in primis, l’attività sportiva è disciplinata dal diritto comunitario se configurabile come attività economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato con la precisazione che, in caso di qualificazione del rapporto come subordinato o prestazione di servizi, trovano applicazione rispettivamente gli artt. 39-42 e 49-55 TCE121; si stabilisce poi che il generale divieto di discriminazione per motivi di cittadinanza vale per tutte le prestazioni, sia di lavoro che di servizi, indipendentemente dal rapporto giuridico originario122 e che tale divieto non limita solo gli atti della pubblica autorità ma anche quelli delle organizzazioni private123.124
La Corte conferma il proprio orientamento con la celeberrima sentenza Union royale belge del sociétés de footbal association ASBL e altri c. J.M. Xxxxxx e altri125 (da qui, sentenza Xxxxxx) su cui si ritornerà infra126 in merito all’indennità di promozione o di formazione. Nella pronuncia viene confermato l’orientamento già consolidatosi nelle sentenze Xxxxxxx e Donà per il quale l’attività sportiva è disciplinata dal diritto comunitario in quanto sia configurabile come attività economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato, con la precisazione che vi rientrano i calciatori professionisti o semiprofessionisti che svolgono un lavoro subordinato o effettuano prestazioni di servizi retribuite127. Viene però puntualizzato
121 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxx, punti 4-6, cit.; Corte di Giustizia, sentenza Donà, punti 2,12, cit.
Sul punto si veda ampiamente GRECO, Il diritto europeo dello sport, tra specificità, rilevanza economica e motivi di interesse generale, cit., p. 742: viene sottolineato che in questa prima fase il discrimen per l’applicazione o meno del diritto comunitario all’attività sportiva è la rilevanza economica o meno della stessa. 122 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxx, punti 7-10, cit.; Corte di Giustizia, sentenza Donà, punto 6, cit.
123 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxx, punti 16-19, cit.; Corte di Giustizia, sentenza Donà, punto 19, cit.
124 Cfr le considerazioni riportate in X. XXXXXXXXX, Il rapporto di lavoro dello sportivo nel diritto comunitario, in X. XXXXXXXX XXXXXXXX-A. DE XXXXXXXXX-X. XXXXX-X. XXXXXXXXX-X. XXXXXXXX-X. XXXXX, Il rapporto di lavoro dello
sportivo, Experta, Forlì, 2007, pp. 119-120; X. XXXXXXXXX, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, in Dir. Un. Eur., 1998, IV, pp. 905-907.
125 Union royale belge del sociétés de footbal association ASBL e altri c. J.M. Xxxxxx e altri, causa C-415/93, in Raccolta, 1995, pp. 5040-5082.
126 V capitolo 2 § 3.3 e ss.
127 Corte di Gustizia, sentenza Xxxxxx, punto 73, cit.
anche che non è in ogni caso necessario che il datore di lavoro abbia la qualità di imprenditore per l’applicazione delle norme comunitarie, essendo sufficiente la sussistenza di un rapporto di lavoro o anche la mera intenzione di instaurare tale rapporto. La figura di lavoratore sportivo, sulla base di quanto si è detto fino ad ora, deve essere dunque ricostruita indipendentemente da quanto stabilito dai singoli diritti nazionali, per l’Italia dalla l. 91/1981, e dalle qualificazioni che vengono date dalle federazioni. Per essere considerati “lavoratori comunitari” ai sensi dell’art. 39 TCE la Corte ha infatti sottolineato che è condizione sufficiente fornire una prestazione verso il pagamento di un corrispettivo in denaro, non rilevano il quantitativo del compenso e del tempo richiesto dalla prestazione stessa128.
Sulla scia di una «furia iconoclasta»129 provocata dall’entusiasmo per la sentenza Xxxxxx, la Corte di Giustizia si pronuncia nuovamente a distanza di pochi anni nelle sentenze X. Xxxxxxx c. Ligue francophone de judo et disciplines associées ABL, Ligue belge de judo ASBL130 (da qui sentenza Xxxxxxx) e X. Xxxxxxxx e Castors Canada Dry Namur-Braine ASBL c. Fédération royale belge des sociétés de basket-ball ASBL131 (da qui sentenza Lehtonen).
Nel primo caso lo sport di riferimento è il judo, disciplina in generale in Europa e in particolare in Belgio praticata da dilettanti: la signora Xxxxxxx lamenta di aver subito un pregiudizio alla propria carriera a causa di alcune norme della federazione di riferimento, secondo la ricorrente in contrasto con il principio della libera prestazione di servizi e di libera concorrenza, per le quali è necessario essere in possesso di un provvedimento di selezione per poter partecipare a determinate competizioni di carattere internazionale. La Corte, pur non accogliendo le richieste di Xxxxxxx in quanto la limitazione alla possibilità di partecipare a competizioni internazionali è prodromica all’organizzazione delle stesse,
128 D.M. Xxxxx x. Staatssecretaris van Justitie, causa 53/81, in Raccolta, 1982, pp. 1036-1053.
V X. XXXXXXXXX, La qualificazione degli sportivi professionisti e dilettanti nella Giurisprudenza Comunitaria, in
Riv. dir. econ. sport.,. 2005, II, p. 42.
129 Ne parla in questi termini X. XXXXXXXXX, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, cit., p. 919: l’autore ritiene che per alcuni anni ci sia stato un tentativo di eliminare ogni norma federale che si ponesse, anche solo apparentemente, in contrasto con il principio di libera circolazione degli atleti.
130 Corte di Giustizia, 11 aprile 2000, X. Xxxxxxx c. Ligue francophone de judo et disciplines associées ABL, Ligue belge de judo ASBL, cause riunite C-51/96 e C-191/97, in Raccolta, 2000, pp. 2595-2621 e in Lav. giur., 2001, III, pp. 236-246 con nota di X. XXXXX.
131 Corte di Giustizia, 13 aprile 2000, X. Xxxxxxxx e Castors Canada Dry Namur-Braine ASBL c. Fédération royale belge des sociétés de basket-ball ASBL, causa C-176/96, in Raccolta, 2000, pp. 2714-2736.
offre degli spunti interessanti132: nel tentativo di risolvere la questione, in primis ribadisce che l’attività sportiva è regolata dal diritto comunitario se può essere configurata come attività economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato133 e che la semplice circostanza che un’associazione o federazione sportiva qualifichi unilateralmente come dilettanti gli atleti che ne fanno parte non è di per sé tale da escludere che questi ultimi esercitino attività economiche ai sensi dell’art. 2 del Trattato134. I giudici si interrogano quindi su se la prestazione della signora Xxxxxxx, judoka di alto livello, possa rientrare nel concetto di prestazione di servizi già richiamato nella sentenza Xxxxxxx e sancito dall’art. 59 TCE: la risposta risulta essere affermativa, anche se i servizi non sono pagati direttamente da coloro i quali ne usufruiscono -nel caso di specie l’organizzatore della competizione- in quanto viene permesso di produrre uno spettacolo sportivo al quale il pubblico può assistere, che emittenti di programmi televisivi possono ritrasmettere e che può interessare quanti intendono inviare messaggi pubblicitari nonché sponsor135.
Nel caso del giocatore di pallacanestro professionista finlandese Xxxxxxxx, la richiesta dell’atleta e della società alla Corte è quella di valutare se una norma di una federazione, in questo caso quella belga, che vieta ad un club di schierare in campo un giocatore comunitario tesserato dopo una certa data sia in contrasto con i principi sanciti dal Trattato: anche in questo caso, come nella vicenda Xxxxxxx, si afferma che gli eventuali limiti alla libertà di circolazione non contrastano con l’art. 48 TCE se non sono diretti a tutelare interessi economici bensì hanno esigenze strettamente di carattere sportivo136. Per ciò che riguarda la qualificazione dell’atleta, ancora una volta la Corte sottolinea che la nozione di lavoratore non deve essere valutata sulla base dei soli ordinamenti nazionali ma ha una portata comunitaria: in tal senso, la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra
132 Per una ricostruzione puntuale della vicenda Xxxxxxx si rinvia a X. XXXXX, Attività sportiva professionista o amatoriale secondo il diritto comunitario: il “caso Xxxxxxx”, in Lav. giur., 2001, III, pp. 243-246 e X. XXXXXXXXX, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, cit., pp. 913-918.
133 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxx, punto 41, cit. 134 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxx, punto 46, cit. 135 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxx, punto 57, cit.
136 Sul punto v X. XXXXXXXXX, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, cit., pp. 918-919. La dottrina in questione sostiene che in alcuni sport, quali ad esempio il basket, l’apposizione di un termine per i tesseramenti è condizione necessaria per garantire la regolarità della competizione, altrimenti, soprattutto nei momenti cruciali della stagione quali i play-off, le società partecipanti potrebbero procedere ad arruolare tutti i migliori giocatori non qualificatisi con i propri club facendo venir meno la stessa essenza della competizione sportiva.
e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione137. Un’attenta dottrina ha puntualizzato come si assista così ad un bilanciamento tra il principio di autonomia degli ordinamenti sportivi e il principio dell’assoggettabilità dello sport al diritto comunitario e di conseguenza tra il fine economico e il fine solo sportivo di un’attività138.
I principi della sentenza Xxxxxx sono richiamati per la prima volta da un giudice nazionale dal Juzgado de Primera Istancia de Santander nel caso del giocatore di pallamano Xxxx Xxxxxx. L’atleta lamenta la violazione dell’art. 48 TCE da parte di una disposizione emanata dalla Real Federaciòn de Balonmano che fissa in tre il numero massimo di giocatori comunitari ingaggiabili da ciascuna squadra. Il giudice, nell’accogliere la richiesta, riconosce che la qualificazione come disciplina dilettantistica è irrilevante al fine dell’applicazione dei principi di diritto comunitario se nei fatti, come avviene nel caso di specie, la remunerazione percepita è di gran lunga superiore al mero rimborso spese, dando vita così ad una vera e propria attività economica139.
La Commissione per le Petizioni della Comunità Europea si occupa invece, sempre in ambito di regole federali spagnole, della conformità al diritto comunitario di alcune disposizioni della Real Federaciòn Espanola de Fùtbol che non permettono ad un calciatore straniero con più di 23 anni di partecipare ai campionati nazionali amatoriali. L’organo in questione, oltre a rilevare l’esistenza del contrasto, auspica che venga fatta una verifica delle normative di tutte le federazioni sportive in ambito europeo140.
L’orientamento della Corte di Giustizia è confermato dal Tribunale europeo di primo grado con le sentenze D. Meca-Xxxxxx e Xxxx Xxxxxx c. Commission of the European Communities141 (da qui sentenza Meca-Xxxxxx), riguardante il doping nel nuoto, e X. Xxxx
c. Commission of the Europea Communities142 (da qui sentenza Piau), più interessante per il profilo della qualificazione dell’atleta perché concernente direttamente la Fédération
137 Corte di Giustizia, sentenza Xxxxxxxx, punto 45, cit.
138 Cfr X. XXXXXXXXX, La qualificazione degli sportivi professionisti e dilettanti nella Giurisprudenza Comunitaria, cit., p. 43.
139 Sulla vicenda Xxxxxx in generale v X. XXXXXXXXX, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, cit., pp. 919-924.
140 Cfr X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., p. 49.
141 Tribunale europeo, 30 settembre 2004, D. Meca-Xxxxxx e Xxxx Xxxxxx c. Commission of the European Communities, causa T-313/02 in Raccolta, 2004, II, pp. 3294-3314, annullata da Corte di giustizia, 18 luglio 2006, causa C-519/04, in Raccolta, 2006, pp. 7006-7028.
142 Tribunale europeo, 26 gennaio 2005, X. Xxxx c. Commission of the Europea Communities, causa T-193/02, in Raccolta, 2005, II, pp. 217-255.
Internationale de Football Association: dopo aver statuito che i membri della FIFA sono federazioni nazionali costituite da società che esercitano economicamente il gioco del calcio, il Tribunale sottolinea che il fatto che un’associazione o una federazione sportiva qualifichi unilateralmente come “dilettanti” atleti o società non è di per sé tale da escludere che questi ultimi esercitino attività economiche ai sensi dell’art. 2 CE143.
In base a quanto detto fin qui, è evidente come si sia assistito ad una parificazione, grazie soprattutto all’opera della giurisprudenza comunitaria ma anche domestica144, tra il professionista e il professionista di fatto145, vista la non rilevanza dei criteri adottati per esempio in Italia146 che operano una distinzione solo formale e senza alcuna giustificazione di carattere economico147. Emblematico e esemplare, in una prospettiva di tipo comparatistico, è il caso tedesco dei c. d. Scheinamateur. Si trattava di atleti che firmavano degli accordi a titolo oneroso eccedenti il limite massimo di emolumenti fissato dalle singole federazioni, la cui figura è scomparsa grazie all’intervento delle singole federazioni volto ad eliminare, conformemente ai principi esposti dalla Corte di Giustizia, tutte le disposizioni che potevano essere fonte di discriminazione148.
143 Corte di Giustizia, sentenza Xxxx, punto 70, cit., la quale rimanda al precedente indirizzo giurisprudenziale già espresso nella sentenza Xxxxxxx.
Cfr GRECO, Il diritto europeo dello sport, tra specificità, rilevanza economica e motivi di interesse generale, cit., p. 749.
144 V ex multis Trib. Pescara, ord. 18 ottobre 2001, in Foro it., 2002, III, p. 897: nel caso di specie (notoriamente caso Xxx) il giudice ha valutato la legittimità di un regolamento federale dalla portata molto simile a quello censurato dal Tribunale di Santander nel caso Xxxxxx. Per una ricostruzione delle pronunce più rilevanti della giurisprudenza italiana in materia cfr E. INDRACCOLO, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., pp. 159- 162.
145 L.M. DENTICI, Il lavoro sportivo tra professionismo e dilettantismo, cit., pp. 1080-1082: l’autore paragona l’intervento della giurisprudenza comunitaria a quello della giurisprudenza domestica in tema di dirigente d’azienda ex 2059 c.c. Anche in questo caso la qualificazione formale data dal datore di lavoro soccombe di fronte alle concrete modalità in cui la stessa prestazione è eseguita. Cfr X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 97.
146 Attualmente l’Italia è uno dei pochi paesi che operano una distinzione formale ex lege tra il dilettantismo e il professionismo sportivo. X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., p. 36.
147 V X. XXXXXXXXX, Il rapporto di lavoro dello sportivo nel diritto comunitario, cit., p. 128; ID, La qualificazione degli sportivi professionisti e dilettanti nella Giurisprudenza Comunitaria, p. 42; G. AGRIFOGLIO, Diritto comunitario, diritto interno e classificazione dei contratti: il contratto di lavoro sportivo punto d’incontro tra ordinamenti, in Eur. dir. priv., 2011, I, pp. 270-271; GRECO, Il diritto europeo dello sport, tra specificità, rilevanza economica e motivi di interesse generale, cit., p. 746.
148 X. XXXXXXXXXX, Rapporti e tutele nel dilettantismo sportivo, cit., pp. 36-38.
In Italia persiste però ad oggi una differenza sostanziale tra dilettanti e professionisti: essendo per i primi esclusa l’applicazione della l. 91/1981 è ancora oggi in vigore l’istituto del vincolo sportivo149, di cui si tratterà nel prossimo paragrafo.
3. Il vincolo sportivo
Il vincolo sportivo, tale da intendersi l’obbligo per il calciatore nascente dal tesseramento di prestare la propria attività sportiva esclusivamente per la società per la quale si firma il
c.d. cartellino150, è stato per molti decenni uno dei punti cardine caratterizzanti la disciplina del calciatore lato sensu. Tuttavia, con l’emanazione della l. 91/1981, si è provveduto ad abrogare l’istituto per quanto riguarda il solo settore professionistico, creando conseguentemente una situazione di disparità con l’atleta dilettante al quale, ancora oggi, seppur con delle modifiche di cui si darà conto in seguito, risulta essere ancora applicato.
Nelle sezioni seguenti si procederà dunque ad un’analisi della situazione concernente il vincolo sportivo antecedente all’emanazione della l. 91/1981; ci si concentrerà poi sulle modifiche apportate al mondo dello sport professionistico dall’art. 10
l. 91/1981; il focus cadrà dunque sulle celeberrime sentenze Bosman151 e Olympique Lyonnais SASP c. X. Xxxxxxx e Xxxxxxxxx UFC (da qui sentenza Xxxxxxx)152, delle quali si evidenzieranno gli effetti che hanno avuto sul mondo dello sport in generale e del calcio in particolare. Per concludere ci si interesserà dell’istituto del vincolo sportivo come ancora oggi presente nel mondo dei calciatori tesserati per la LND, passaggio fondamentale per comprendere a fondo le novità introdotte dal d.lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, di cui si dirà nel prossimo capitolo.
149 In questi termini X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, pp. 54-55.
150 Cfr con le definizioni riportate in M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit. p. 72 e in X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, cit., p. 52: l’autore riporta il significato di vincolo inteso come «laccio, legale o catena» al fine di enfatizzarne la capacità di limitare la possibilità di libera circolazione degli atleti.
151 Union royale belge del sociétés de footbal association ASBL e altri c. J.M. Xxxxxx e altri, causa C-415/93, in Raccolta, cit.
152 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 marzo 2010, Olympique Lyonnais SASP c. X. Xxxxxxx e Newcastle UFC, causa C- 325/08, in Riv. dir. econ. sport., 2010, I, pp. 141-152.
3.1. Panoramica storica e natura del vincolo
Fino al 1981 tutti i calciatori, in forza del tesseramento, si obbligavano a tempo indeterminato a svolgere esclusivamente per un club l’attività sportiva153. Il corollario principale di questo assunto era rappresentato dal fatto che la società, dopo essersi occupata della formazione atletica e tecnica dell’atleta, poteva liberamente disporre del calciatore, potendo addirittura cederlo ad altra società senza il suo consenso154. Il trasferimento da un sodalizio ad un altro veniva giustificato in vario modo: come rinuncia al diritto di utilizzare a favore di un’altra società le energie dell’atleta, come cessione di un vero e proprio bene immateriale o come una cessione di contratto155.
Si possono in tal senso riscontrare numerosi esempi nella storia del calcio italiano di agonisti trasferiti a loro insaputa da una squadra all’altra durante le finestre dedicate: uno su tutti, capace di occupare pagine di quotidiani e interessare l’opinione pubblica dell’epoca, è stato lo scambio nell’estate del 1976 tra Juventus F.C. e F.C. Internazionale, con i primi che si sono assicurati le prestazioni di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx lasciando partire verso Milano, a fronte di un ulteriore conguaglio economico, Xxxxxx Xxxxxxxx. In alcune interviste i due protagonisti non hanno infatti nascosto il loro malcontento nel lasciare le rispettive squadre delle quali dopo anni di militanza erano diventati dei veri e propri simboli156.
Per quanto riguarda la qualificazione giuridica del vincolo sportivo, la dottrina precedente alla l. 91/1981 non aveva proposto una soluzione uniforme, dividendosi essenzialmente in due fronti. In primis c’era chi riteneva fosse corretto ricondurre il vincolo al contratto di lavoro siglato tra la società e l’atleta: mancando però una qualificazione legale del rapporto di lavoro dell’atleta professionista, a loro volta i commentatori si distinguevano tra chi propendeva per la subordinazione e dunque qualificava il vincolo come divieto di recesso ad nutum o come patto di non concorrenza e chi invece propendeva per l’autonomia, inquadrando il vincolo nel divieto di recesso unilaterale da
153 Le uniche possibilità per il calciatore di svincolarsi erano la rinuncia da parte della società con la proceduta della lista di svincolo, l’accordo tra le parti o il riscatto del vincolo su iniziativa dell’atleta secondo modalità stabilite dalle federazioni. Così A. D’HARMANT XXXXXXXX, Il rapporto di lavoro subordinato ed autonomo nelle società sportive, pp. 11-12.
154 V M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., p. 72.
155 Sulle posizioni della dottrina sul punto cfr X. XXXXXXXX, Il lavoro sportivo, cit., p. 306.
156 Per una ricostruzione puntuale della vicenda si rinvia a X. XXXXXXX, Il calcio piange Xxxxxx Xxxxxxxx. La storia dello scambio senza precedenti con Xxxxxxxxxx, articolo pubblicato il 18/01/2020 in xxx.xxxxxxxxx.xx (consultato da chi scrive in data 29 marzo 2021).
parte del prestatore d’opera intellettuale così come regolato dagli artt. 2222 ss. c.c.. Dall’altro lato c’era invece la dottrina che riconduceva la causa del vincolo sportivo in capo all’atleta nell’alveo del contratto associativo, riconoscendo come momento rilevante quello del tesseramento, a prescindere da qualsiasi rapporto di lavoro sussistente con la società157.
La seconda tesi è diventata maggioritaria in dottrina158, suffragata anche dal contenuto della l. 91/1981 in cui si indica la stipula del contratto di lavoro come presupposto per il tesseramento159. Restringendo il campo d’analisi al settore calcistico, si comprende dunque che dal tesseramento con una società partecipante indistintamente ad uno dei campionati organizzati dalla FIGC160 discende in automatico l’obbligo di adesione alle NOIF in quanto adempimento dell’obbligo associativo161.
3.2. L’intervento della l. 91/1981
Il legislatore, nel primo vero tentativo di regolamentare l’ordinamento sportivo italiano, è intervenuto anche sulla questione del vincolo sportivo162. L’abolizione, da compiersi entro cinque anni come sancito dall’art. 16 l. 91/1981163, era però limitata alle sole discipline
157 Cfr con le considerazioni riportate in X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 115. Le posizioni contrastanti della dottrina in materia di vincolo sportivo sono ricostruite in X. XXXXXX, Il lavoro sportivo tra codice civile e norma speciale, cit., pp. 65-66.
158 V ex multis X. XXXX, Natura e limiti del vincolo sportivo, in Riv. dir. econ. sport., 2005, I, p. 69; X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, cit., pp. 71-74; X. XXXXXX-
X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 115.
159 X. XXXXXX-X. XXXXXXX, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., p. 115.
160 La FIGC, come tutte le altre federazioni sportive nazionali, ha natura di associazioni con personalità giuridica ed è di conseguenza assoggettata alla disciplina del codice civile così come stabilito dal d. lgs. 23 luglio 1999, n. 242.
In proposito, l’art. 1 c. 1 dello Statuto della FIGC afferma che La Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) è associazione riconosciuta con personalità giuridica di diritto privato federata al Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) avente lo scopo di promuovere e disciplinare l’attività del giuoco del calcio e gli aspetti ad essa connessi.
161 Le NOIF sono dunque assimilabili ad uno statuto di una qualsiasi associazione o società. X. XXXXX, Il vincolo sportivo e le indennità di formazione e di addestramento nel settore calcistico, cit., p. 73.
162 Viene definito il «punto essenziale di questa normativa sullo sport professionistico» in X. XXXXXXXXX, L’attività sportiva professionistica: la disciplina giuridica delle prestazioni degli atleti e degli sportivi professionisti, cit., p. 32; è ritenuto invece «la più significativa ed innovativa espressione» del principio della libertà dell’attività sportiva in X. XXXXXXXX, Il lavoro sportivo, cit., p. 305.
163 Art. 16 l. 91/1981 – Abolizione del vincolo sportivo
Le limitazioni alla libertà contrattuale dell’atleta professionista, individuate come «vincolo sportivo» nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, secondo modalità e parametri stabiliti dalle federazioni sportive nazionali e approvati dal CONI, in relazione all’età degli atleti, alla durata ed al contenuto patrimoniale del rapporto con le società.
professionistiche164: in questo modo viene dato ancora maggior rilievo alla distinzione formale operata dalle singole federazioni, accentuando ulteriormente se possibile la situazione di disparità tra discipline diverse ma che richiedono lo stesso impegno dal punto di vista temporale, mentale e fisico.
Per compensare i clubs delle potenziali perdite economiche derivanti dall’abolizione del vincolo sportivo, l’art. 6 c. 1 l. 91/1981165 istituiva l’indennità di preparazione e formazione166: si trattava di una somma che la società detentrice del nuovo contratto doveva versare a quella precedente, senza che tuttavia un eventuale inadempimento potesse andare ad inficiare in alcun modo il nuovo rapporto167. Questa doveva poi essere obbligatoriamente destinata al perseguimento di fini sportivi.
Il quantum dell’indennità doveva essere fissato dalle singole federazioni, nel caso del calcio dalla FIGC, tenendo in considerazione la natura e le esigenze dello sport. Riepilogando, nei fatti la situazione era la seguente: un calciatore professionista, ex art. 5 l. 91/1981, poteva siglare con un sodalizio sportivo un contratto della durata massima di cinque anni. Scaduto il contratto, le opzioni, ad eccezione di una decisione di ritiro dall’attività agonistica, erano due: o rinnovava il rapporto, non sussistendo nello sport professionistico il divieto di successione di più rapporti a tempo determinato, oppure siglava con un’altra società un altro contratto. In questo caso, però, il nuovo club era costretto a pagare una somma al vecchio sodalizio titolare del tesseramento a titolo di indennità di preparazione e formazione.
164 Contra, X. XXXXXX, Il lavoro sportivo tra codice civile e norma speciale, cit., pp. 66-67: l’autore, analizzando la giurisprudenza in tema di vincolo sportivo successiva all’emanazione della l. 91/1981, ritiene che i giudici abbiano inteso il tesseramento con caratteristiche che in automatico contrastano con i principi costituzionali e della legge stessa.
165 Art. 6 c.1 l. 91/1981 – Indennità di preparazione e promozione
Cessato, comunque, un rapporto contrattuale, l’atleta professionista è libero di stipulare un nuovo contratto. In tal caso, le federazioni sportive nazionali possono stabilire il versamento da parte della società firmataria del nuovo contratto alla società titolare del precedente contratto di una indennità di preparazione e di promozione dell’atleta professionista, da determinare secondo coefficienti e parametri fissati dalla stessa federazione in relazione alla natura ed alle esigenze dei singoli sport.
166 In questi termini X. XXXXXXXXX, L’attività sportiva professionistica: la disciplina giuridica delle prestazioni degli
atleti e degli sportivi professionisti, cit., p. 32: l’autore sottolinea inoltre che il concetto dell’indennità di preparazione e formazione era stato ispirato da una normativa UEFA già vigente e applicabile ai trasferimenti tra formazioni di diverse nazionalità. In modo conforme si vedano anche X. XXXXXXXX, Il lavoro sportivo, cit.
p. 306; A. D’HARMANT XXXXXXXX, Note sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro sportivo, cit., p. 861.
167 X. XXXXXXXXX, L’attività sportiva professionistica: la disciplina giuridica delle prestazioni degli atleti e degli sportivi professionisti, cit., p. 33.
Nello stesso articolo era prevista la possibilità per la società dilettantistica di stipulare con l’atleta che aveva provveduto a formare il primo contratto professionistico, sempre seguendo le modalità stabilite dalle singole federazioni: i primi commentatori della riforma ritenevano che la durata massima di questo primo contratto fosse analoga a quella prevista dall’art. 5 l. 91/1981, quindi cinque anni168.
L’indennità di preparazione e formazione si è applicata in Italia per circa tre lustri, fintanto che gli effetti dirompenti della sentenza Xxxxxx si sono riversati anche nel nostro paese e hanno costretto il legislatore ad intervenire per adattare la normativa ai principi espressi dalla Corte di Giustizia169.
3.3. La sentenza Xxxxxx
Il caso che ha coinvolto il calciatore Xxxx-Xxxx Xxxxxx e la relativa pronuncia della Corte di Giustizia, a distanza di vent’anni dai primi interventi del giudice europeo in materia di sport con le sentenze Xxxxxxx e Donà, hanno segnato una svolta epocale per il mondo del calcio professionistico riaprendo la questione dei rapporti tra l’ordinamento sportivo e quello comunitario170. Sia le varie testate giornalistiche171 dei paesi membri che la dottrina italiana e straniera hanno dato ampio spazio alla vicenda, analizzandola minuziosamente soprattutto dal punto di vista della portata rivoluzionaria all’interno del sistema calcistico europeo.172
La vicenda riguarda il calciatore belga Xxxx Xxxx Xxxxxx, il quale sin dalla giovane età è stato tesserato con lo Standard Liegi, club facente parte dell’Union royale belge del sociétés de football association (da qui URBSFA) con cui diviene professionista. Nel 1988 lo
168 X. XXXXXXXXX, L’attività sportiva professionistica: la disciplina giuridica delle prestazioni degli atleti e degli sportivi professionisti, cit., p. 34.
169 Per una ricostruzione dal punto di vista storico del vincolo sportivo, si guardi anche M.T. SPADAFORA, Diritto del lavoro sportivo, cit., pp. 204-210.
170 C. FRANCHINI, La libera circolazione dei calciatori professionisti: il caso «Bosman», in Giornale Dir. Amm., 1996, VI, p. 542.
171 Il 16 dicembre 1995, giorno immediatamente successivo alla sentenza Bosman, la UEFA accolse la pronuncia della Corte di Giustizia ipotizzando scenari catastrofici parlando in termini di «un attacco al calcio, vogliono distruggere un sistema, renderlo meno attraente, scoraggiare i giovani». F. BIANCHI, Un favore ai più ricchi, in La Repubblica, 16 dicembre 1995.
172 Si riportano, ex multis, alcuni dei contributi della dottrina pubblicati all’epoca: S. BASTIANON, Bosman, il
calcio e il diritto comunitario, in Foro it., 1996, I, pp. 3-13; G. VIDIRI, Il «Caso Bosman» e la circolazione dei calciatori professionisti nell’ambito della Comunità europea, in Foro it., 1996, I, pp. 13-17; G.P. MANZELLA-P. ZIOTTI, La rivoluzione «Bosman», in Giornale Dir. Amm., 1996, V, pp. 463-464; C. FRANCHINI, La libera circolazione dei calciatori professionisti: il caso «Bosman», cit., pp. 539-542 ; S. BASTIANON, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, cit. pp. 907-912.
stesso è ceduto, verso il pagamento di una somma di 3.000.000 di franchi belgi a titolo di indennità di trasferimento, al Rc Liegi, società che nell’aprile del 1990, in prossimità della scadenza di contratto, propone un rinnovo a 30.000 franchi belgi. Bosman, rifiutata l’offerta, viene inserito nell’apposito elenco dei calciatori trasferibili e vista la normativa belga è fissata un’indennità di 11.734.000 franchi belgi in quanto trasferimento imposto173.
Non trovando alcun sodalizio interessato in Belgio, il calciatore firma un accordo in data 30 luglio 1990 con l’Us Dankerque, formazione francese militante nella seconda serie, a fronte di un pagamento di 1.200.000 franchi belgi a titolo di indennità per la prima stagione e un’opzione irrevocabile per il trasferimento definitivo fissato nella cifra di ulteriori 4.800.000 franchi belgi. L’accordo è però sottoposto alla condizione risolutiva di ottenere il certificato di svincolo dalla URBSFA entro il 2 agosto 1990.
L’Rc Liegi omette di chiedere tale certificato, allarmato da una potenziale insolvenza della controparte francese, facendo di fatto cadere l’accordo siglato per il trasferimento di Bosman e ritirandone addirittura il cartellino. Il calciatore si rivolge dunque al Tribunal de première istance di Liegi per ottenere una serie di provvedimenti urgenti, inizialmente chiamando in causa solo le due società direttamente interessate, poi citando anche la UEFA per farne dichiarare l’incompatibilità della normativa con i principi del TCE.
Nel primo grado di giudizio le questioni sollevate da Bosman sono tutte accolte. Di conseguenza l’URBSFA, l’Rc Liegi e la UEFA impugnano la decisione davanti alla Cour d’appell di Liegi, la quale solleva, ex art. 117 TCE, fondamentalmente due questioni pregiudiziali davanti alla Corte di Giustizia: si chiede se gli artt. 48174, 85 e 86 del TCE a) impediscano ad un club di pretendere il pagamento di una somma di denaro a titolo di indennità dopo che un calciatore, una volta scaduto il contratto, firma con un altro sodalizio e b) impediscano alle federazioni nazionali ed internazionali di imporre, mediante i loro regolamenti interni, un tetto massimo di giocatori stranieri comunitari che possano partecipare alle competizioni da loro organizzate175.
173 Lo statuto dell’URBSFA prevedeva due ipotesi di trasferimento: quello imposto e quello libero. Per quanto riguarda il trasferimento imposto, era sufficiente il consenso dell’atleta e della società cessionaria, mentre l’indennità veniva fissata sulla base del reddito annuo percepito dal calciatore moltiplicato per un coefficiente che tenesse conto dell’età dello stesso. V in propoito S. BASTIANON, Bosman, il calcio e il diritto comunitario, cit., pp. 3-4.
174 Sull’art. 48 TCE in generale v G. VIDIRI, Il «Caso Bosman» e la circolazione dei calciatori professionisti nell’ambito della Comunità europea, cit., pp. 13-15.
175 J. DIÉZ-HOCHLEITNER-A.M. SANCHEZ, Le conseguenze giuridiche della sentenza Bosman per lo sport spagnolo ed europeo, in Riv. dir. sport., 1996, III, p. 471.
3.3.1. Segue. La decisione della Corte
In prima battuta la Corte, richiamando la sua ormai consolidata giurisprudenza, dichiara che il diritto comunitario si applica all’attività sportiva solo in quanto questa possa essere configurabile come attività economica ex art. 2 del Trattato, comprendendovi di conseguenza i calciatori professionisti e semiprofessionisti176.
La Corte di Giustizia risolve la prima delle due questioni poste dal Tribunal de première istance di Liegi, limitatamente ai trasferimenti internazionali177, dichiarandola in contrasto con l’art. 48 TCE178: l’indennità di formazione è ritenuta idonea ad impedire o quantomeno dissuadere il calciatore che intende svolgere la propria attività nel territorio di un altro stato membro, ponendo un limite notevole al principio della libera circolazione179.
Il focus si sposta dunque sull’esistenza di eventuali giustificazioni al regime delle indennità180. La Corte riconosce la legittimità del duplice scopo di garantire l’equilibrio tra le società e di incentivare la formazione dei giovani calciatori181. Riguardo al primo afferma però che l’indennità di trasferimento, promozione o formazione non impedisce in alcun modo alle società economicamente più forti di avere maggiore attrattiva nei confronti dei calciatori migliori182. Riguardo alla necessità invece di favorire la ricerca e lo sviluppo di giovani atleti i giudici viene affermato che, non essendo in alcun modo possibile prevedere
Per una ricostruzione puntuale della vicenda cfr S. BASTIANON, Bosman, il calcio e il diritto comunitario, cit., pp. 3-5 e ID, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, in Dir. Un. Eur., 1998, IV, pp. 907-913: dal 1991 la UEFA aveva introdotto la c.d. «regola del 3+2», per la quale ogni squadra poteva inserire nella lista di gara un massimo di tre giocatori stranieri, più altri due che avessero giocato nel paese di riferimento per almeno cinque anni di cui tre in squadre giovanili. 176 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 73, 114, cit.
177 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 112. La dottrina ha evidenziato che sia così potenzialmente possibile la coesistenza di due regimi diversi a seconda che i trasferimenti siano tra due clubs di stati membri diversi e non, lasciando spazio a delle scappatoie: J. DIÉZ-HOCHLEITNER-A.M. SANCHEZ, Le conseguenze giuridiche della sentenza Bosman per lo sport spagnolo ed europeo, cit., p. 485.
178 Sul punto si veda ex multis J. DIÉZ-HOCHLEITNER-A.M. SANCHEZ, Le conseguenze giuridiche della sentenza
Bosman per lo sport spagnolo ed europeo, cit., pp. 476-487.
179 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punti 98-100, cit.
180 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 105, cit.: i giudici riportano che l’URBSFA, l’UEFA e i governi francese e italiano avevano sostenuto che tali norme sul trasferimento erano giustificate da ragioni di ordine finanziario, sportivo e volte a sostenere la ricerca di giovani calciatori di talento.
181 Un’interessante analisi sui due punti in questione, relativa sia all’indennità di formazione che al tetto massimo di atleti comunitari, è offerta da F. ROMANI-U.MOSETTI, Il diritto nel pallone: spunti per un’analisi economica della sentenza Bosman, in Riv. dir. sport., 1996, III, pp. 436-475: i due autori ricostruiscono le principali critiche mosse alla sentenza Bosman, riconoscendo nella realtà dei fatti una portata non rivoluzionaria all’abolizione delle indennità e un riscontro positivo alla possibilità offerta ai club di far giocare un numero illimitato di cittadini degli stati membri.
182 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 107, cit.
con certezza l’avvenire sportivo dei calciatori in formazione, la prospettiva lontana nel tempo e assolutamente incerta di ricevere tale indennità non ha un ruolo determinante per il raggiungimento dello scopo, soprattutto nelle realtà di piccole dimensioni183.
Riguardo invece alla seconda questione pregiudiziale concernente la compatibilità con le norme del Trattato dei regolamenti federali nazionali che limitavano il numero di cittadini membri schierabili dai singoli club, la Corte di Giustizia perviene alle medesime conclusioni, ritenendole in contrasto con l’art. 48 TCE. Pur non essendoci infatti norme che limitavano l’ingaggio dei calciatori, la possibilità di schierarne solo alcuni nelle partite ufficiali costituisce violazione dei principi della libera circolazione: la partecipazione ai match è innegabilmente infatti l’oggetto essenziale dell’attività e un’eventuale limitazione inciderebbe notevolmente sulle possibilità di ingaggio184.
Le parti in causa hanno inutilmente cercato di giustificare la limitazione alla libertà di circolazione per motivi di cittadinanza riconducendola a motivi non economici e collegati strettamente all’ambito sportivo185: si è detto che questa aveva lo scopo di preservare il legame tra la società calcistica e il paese186, di fornire alla squadra nazionale un’adeguata riserva di calciatori187 e di mantenere un livello equilibrato impedendo ai sodalizi più forti economicamente di acquistare i migliori atleti188.
Una dottrina ha fatto notare inoltre come la Corte, nonostante la puntualizzazione a riguardo dell’Avvocato generale189, non abbia espressamente dichiarato l’incompatibilità
183 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 109, cit.
I giudici fanno riferimento anche alle Conclusioni presentate dall’Avvocato generale Carl Otto Lenz, in Raccolta, 1995, I, punto 226, il quale sottolinea come i medesimi obiettivi possano essere raggiunti anche con discipline alternative come i limiti agli emolumenti percepibili dal calciatore e un sistema di ripartizione più equo delle entrate della società.
184 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 120, cit. V G.P. MANZELLA-P. ZIOTTI, La rivoluzione «Bosman», cit., p. 464 e S. BASTIANON, Bosman, il calcio e il diritto comunitario, cit., p. pp. 13-14, in cui l’autore rileva giustamente che nessuna squadra, ad eccezione dell’A.C. Milan nella stagione 1993/1994, era disposta, per motivi sia economici che di equilibri all’interno dello spogliatoio, ad ingaggiare più stranieri di quanti potesse poi schierare.
185 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 122, cit.
186 La dottrina ha contrastato duramente questa posizione portando alcuni esempi di predilezione dei tifosi per calciatori stranieri come il francese Eric Cantonà al Manchester United e l’italiano Christian Vieri all’Atletico Madrid. S. BASTIANON, Il diritto comunitario e la libera circolazione degli atleti alla luce di alcuni recenti sviluppi della giurisprudenza, cit., p. 911.
187 Viene in proposito fatto riferimento alla sentenza Donà, nella quale la Corte aveva previsto la non applicazione dell’art. 48 TCE all’esclusione di giocatori stranieri negli incontri tra rappresentative nazionali di due paesi diversi in quanto avente finalità strettamente tecnico-sportive. S. BASTIANON, Bosman, il calcio e il diritto comunitario, cit. p. 10.
188 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punti 123-125, cit.
189 Conclusioni dell’Avv. gen, in Raccolta, punto 160, cit.
delle norme in questione con l’art. 48 TCE per motivi di discriminazione in base alla nazionalità190.
Un altro punto interessante riguardo il fatto che, nonostante in via pregiudiziale fosse stato chiesto di farlo, non c’è stata una pronuncia sull’interpretazione degli artt. 86, 86 del Trattato191 in materia di concorrenza. La dottrina ha ritenuto che tale scelta dei giudici potrebbe essere stata dettata da tre ordini di motivi: in primis, viene ipotizzato che la Corte non abbia voluto affrontare la questione delle norme sugli stranieri e delle indennità di formazione alla luce della normativa sulla concorrenza per limitare la portata innovativa di un intervento già così rivoluzionario; un’ulteriore possibilità è stata poi riscontrata nella potenziale richiesta di esenzione dall’applicazione della normativa sulla concorrenza ad opera delle società calcistiche alla Commissione ex art. 85 c. 3 TCE; non si dimentichino poi le complesse analisi economiche sui conti della società che la fattispecie in questione avrebbe imposto, dilatando notevolmente i tempi della pronuncia192.
Infine i giudici, sollecitati in tal senso dalle parti, si occupano della questione della limitazione degli effetti della sentenza nel tempo: generalmente infatti una pronuncia con cui la Corte chiarisce e precisa il significato di una norma del Trattato si applicherebbe anche ai rapporti giuridici costituiti prima della sentenza, salva la possibilità in via eccezionale di limitare gli effetti nel tempo per superiori ragioni di certezza del diritto193.
Nel caso di specie viene operata una distinzione tra le norme sui trasferimenti e quelle sulla cittadinanza dei calciatori. Per le prime la Corte stabilisce che la pronuncia non può essere fatta valere in relazione ad indennità di trasferimento in tale data pagate o ancora dovute in adempimento di un’obbligazione già sorta, ad eccezione del caso in cui fossero state precedentemente intentate azioni giudiziarie194. Sulla seconda questione
190 J. DIÉZ-HOCHLEITNER-A.M. SANCHEZ, Le conseguenze giuridiche della sentenza Bosman per lo sport spagnolo ed europeo, cit., p. 488.
191 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 138, cit.
192 In questi termini S. BASTIANON, La libera circolazione dei calciatori e il diritto della concorrenza alla luce della sentenza Bosman, in Riv. dir. sport., 1996, III, p. 538. Non essendo questa la sede per approfondire la tematica, si rinvia allo stesso contributo per l’analisi della questione in prospettiva comparatistica. In senso conforme anche G. VIDIRI, Il «Caso Bosman» e la circolazione dei calciatori professionisti nell’ambito della Comunità europea, cit. p. 17: l’autore ritiene che le normative in questione sono in contrasto anche con i principi sulla libera concorrenza in quanto vanno a limitare la libertà di scambio tra imprese economiche facenti parte della Comunità.
193 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punti 141-142, cit.
194 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 144, cit.
invece viene esclusa qualsiasi limitazione temporale in quanto principio già desumibile dal dispositivo della sentenza Donà195.196
3.3.2. Gli effetti della sentenza Bosman sull’ordinamento calcistico
La sentenza Bosman, oltre ad eliminare con efficacia immediata qualsiasi limitazione al numero massimo di calciatori stranieri provenienti dal territorio comunitario schierabili197, ha messo i vari paesi membri nella posizione di dover intervenire per rendere la normativa interna compatibile con i principi sanciti dalla Corte di Giustizia in materia di indennità di trasferimento, promozione o formazione.
In Italia il problema si poneva nello specifico in relazione all’art. 6 l. 91/1981, il quale prevedeva, come visto supra, che nel caso in cui un giocatore giunto a scadenza di contratto siglasse un accordo con un nuovo club, questo dovesse versare nelle casse della società precedentemente titolare del rapporto una somma a titolo indennità di preparazione e formazione.
Il legislatore è intervenuto in un lasso di tempo molto breve, nello specifico con il
d.l. 20 settembre 1996, n. 48 (c. d. Decreto Bosman) convertito con modifiche dalla l. 18 novembre 1996, n. 586198 (da qui l. 586/1996), abrogando la vecchia disciplina dell’indennità di preparazione e formazione e sostituendola con quella del premio di addestramento e formazione tecnica199. I due istituti si differenziano per la loro ratio: l’indennità prevedeva il pagamento di un corrispettivo del valore del giocatore a favore di qualsiasi club, anche professionistico, con il quale questo era andato a scadenza di
195 Corte di Giustizia, sentenza Bosman, punto 146, cit.
196 Sulla questione degli effetti della sentenza cfr S. BASTIANON, Bosman, il calcio e il diritto comunitario, cit., p. 12.
197 Cfr F. BIANCHI, Un favore ai più ricchi, cit.: in proposito, il presidente della UEFA Lennart Johansson, incalzato dai giornalisti il giorno della sentenza sulla possibilità di schierare un numero illimitato di stranieri comunitari, aveva risposto affermativamente lasciando trasparire disperazione.
198 In G.U. 20 novembre 1996, n. 272.
199 Art. 6 l. 91/1981 (come modificato da l. 586/1996) – Premio di addestramento e formazione tecnica
Nel caso di primo contratto deve essere stabilito dalle Federazioni sportive nazionali un premio di addestramento e formazione tecnica in favore della società od associazione sportiva presso la quale l’atleta ha svolto la sua ultima attività dilettantistica o giovanile.
Alla società od alla associazione sportiva che, in virtù di tesseramento dilettantistico o giovanile, ha provveduto all’addestramento e formazione tecnica dell’atleta, viene riconosciuto il diritto di stipulare il primo contratto professionistico con lo stesso atleta. Tale diritto può essere esercitato in pendenza del precedente tesseramento, nei tempi e con le modalità stabilite dalle diverse federazioni sportive nazionali in relazione all’età degli atleti ed alle caratteristiche delle singole discipline sportive.
Il premio di addestramento e formazione tecnica dovrà essere reinvestito, dalle società od associazioni che svolgono attività dilettantistica o giovanile, nel perseguimento di fini sportivi.
contratto. Il nuovo premio, ancora oggi in vigore, ha invece lo scopo di ripagare il sodalizio dilettantistico o presso il quale è stata svolta l’attività giovanile delle spese e degli investimenti sostenuti per la crescita del giocatore. Il nuovo testo dell’art. 6 l. 91/1981 prevede inoltre il diritto di prelazione a favore della società presso la quale si è svolto il periodo di formazione dell’atleta e che tutte le somme percepite a titolo di premio di addestramento e formazione tecnica debbano essere obbligatoriamente reinvestite per il perseguimento di fini sportivi200.
La dottrina ha ritenuto che questo intervento del legislatore italiano sia stato reso possibile dal fatto che, in base anche ai principi enunciati dalla Corte di Giustizia, l’ordinamento sportivo può continuare comunque a vantare una certa indipendenza nella regolamentazione delle materie formalmente non economiche, quale potrebbe essere inteso il mondo dilettantistico. Si sarebbe dunque assistito ad una mediazione che «ha sostituito una disciplina sportiva “economica” che limitava sostanzialmente la libertà di movimento dei professionisti, una disciplina meramente “sportiva” che, viceversa, si riferisce soltanto ai giovani atleti dilettanti e premia, per così dire, l’impegno di quelle società che li abbiano “coltivati”»201.
Un altro punto cruciale toccato dalla l. 586/1996 riguarda la disciplina delle società sportive professionistiche, su cui ci si soffermerà infra202.
3.4. La sentenza Bernard
La Corte di Giustizia, quattordici anni dopo la sentenza Bosman, si è nuovamente occupata della libera circolazione in materia di sport con la sentenza Bernard203. In questo caso però il giudice si è per la prima volta trovato a dirimere una controversia in una situazione in cui una fonte di diritto primario riconosce espressamente la specificità allo sport all’interno dell’Unione Europea: con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009, l’art. 165 par. 2 TFUE prevede che l’Unione è competente a sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la
200 Cfr G. LIOTTA-L. SANTORO, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., pp. 174-175.
201 In questi termini G. AGRIFOGLIO, Diritto comunitario, diritto interno e classificazione dei contratti: il contratto di lavoro sportivo punto d’incontro tra ordinamenti, cit., p. 280.
202 Capitolo 2 § 5 e ss.
203 Corte di Giustizia, 16 marzo 2010, Olympique Lyonnais SASP c. O. Bernard e Newcastle UFC, causa C- 325/08, cit.
cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi204.
I fatti danti origine alla causa sono presto riassunti: nel 1997 il calciatore Olivier Bernard sigla, con decorrenza a partire dal 1° luglio, un contratto di formazione in qualità di joueur espoir205, nei fatti una situazione molto simile a quella rinvenibile nell’ordinamento italiano nelle figure dei “giovani di serie” o di un dilettante intenzionato a cambiare squadra prima del compimento del 25° anno di età206, della durata di tre anni con la nota società calcistica francese Olympique Lyonnais. Al termine dei tre anni di vincolo, quindi nel 2000, l’art. 23 della «Carta dei calciatori professionisti francese» (da qui “Carta”), avente valore di contratto collettivo, obbliga il calciatore a sottoscrivere, se questa glielo avesse proposto, il suo primo contratto da calciatore professionista con la stessa società che ne ha curato la formazione.
In caso di assenso da parte dell’atleta, ci possono essere essenzialmente due conseguenze: in primis, la società può agire in base a quanto disposto dall’art. L. 12238 del
204 Cfr M. COLUCCI, La sentenza Bernard della Corte di Giustizia. Analisi e prospettive, in M. COLUCCI-M.J. VACCARO (a cura di), Vincolo sportivo e indennità di formazione. I regolamenti federali alla luce della sentenza Bernard, Sports Law and Policy Centre, 2010, p. 31.
Lo sport all’interno delle politiche comunitarie è stato per molti anni sotto alla luce dei riflettori soprattutto per la sua rilevanza economica, per la tutela della libera circolazione dei lavoratori e per la corretta applicazione della disciplina sulla concorrenza. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta, il focus in ambito comunitario si è spostato sulla rilevanza sociale dello stesso: si ricordino alcuni atti come la Carta europea dello Sport e il Codice europeo di etica sportiva del 1992. Non si dimentichi poi l’art. III-283 del non ratificato Trattato istitutivo della Costituzione Europea del 2004, la quale sanciva che l’Unione aveva come obiettivo quello di sviluppare la «dimensione europea dello sport, promuovendo l’imparzialità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei giovani sportivi».
Un altro intervento rilevante è stato l’emanazione ad opera della Commissione europea del Libro bianco sullo sport del 2007, il quale per la prima volta sottolinea l’importanza globale dell’attività sportiva sia in ambito sociale che economico.
Oltre al già citato Trattato di Lisbona, tra i più recenti interventi operati in ambito eurounitario si segnalano l’organizzazione di una vera e propria Conferenza europea sullo sport, tenutasi a Nicosia nel 2012, e l’emanazione delle “Linee Guida sulla doppia carriera degli atleti”, intervento indispensabile e auspicato da più parti per superare il problema della difficoltà di formazione scolastica per gli sportivi mentre sono impegnati nella loro attività, la quale si ripercuote inevitabilmente sulle chance di carriera in altri settori una volta terminata quella agonistica.
Per un approfondimento sulla tematica degli interventi comunitari ed eurounitari in materia di attività sportiva si rinvia a G. LIOTTA-L. SANTORO, Lezioni di Diritto Sportivo, cit., pp. 19-27.
205 Traducibile come “giocatore promessa”, ovvero i calciatori di età tra i 16 e i 22 anni che potevano essere assunti da società di calcio professionistiche con contratti a tempo determinato nella veste di giocatori in formazione. C. SPINELLI, Giovane calciatore in formazione e successiva stipula di un contratto come giocatore professionista, in Lav. giur., 2010, VII, p. 723.
206 In questi termini si esprime M. COLUCCI, La sentenza Bernard della Corte di Giustizia. Analisi e prospettive, cit., p. 32.