Contratti pubblici – Nullità del contratto – Cause – Contrarietà a norme imperative – Presupposti – Con- trarietà a norme sulla stipula del contratto – Configurabilità – Fattispecie.
CORTE DI CASSAZIONE
8066 – Corte di cassazione, Sezione lavoro; sentenza 21 aprile 2016; Pres. Di Cerbo, Est. Tricomi, P.M. Celen- tano (concl. conf.); Xxxxxx e altro c. Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a. e altro.
Conferma App. Roma, 23 marzo 2011, n. 665.
Contratti pubblici – Nullità del contratto – Cause – Contrarietà a norme imperative – Presupposti – Con- trarietà a norme sulla stipula del contratto – Configurabilità – Fattispecie.
C.c., artt. 1343, 1418, 1972; l. 14 novembre 1995 n. 481, norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, art. 2.
Contratti pubblici – Contrarietà a norme imperative – Nullità del contratto – Pagamento – Indebito oggettivo.
C.c., art. 2033.
In tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, l’area delle norme inderogabili di cui all’art. 1418, c. 1, c.c., ricomprende, oltre le norme relative al contenuto dell’atto, anche quelle che, in asso- luto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive e soggettive, direttamente o indiretta- mente, vietano la stipula stessa del contratto ponendo la sua esistenza in contrasto con la norma imperativa (in applicazione di tale principio, la Suprema corte ha confermato la decisione di merito che aveva ritenuto la nullità di un accordo transattivo relativo al conferimento dell’incarico di direttore generale della Rai, illecito perché stipulato in violazione dell’incompatibilità di cui all’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995). (1)(1)
Configura una ipotesi di indebito oggettivo il pagamento effettuato da un soggetto in esecuzione di un con- tratto nullo per contrarietà a norme imperative. (2)
Svolgimento del processo – 1. La Corte d’appello di Roma, con la sent. n. 665, depositata il 23 marzo 2011, ha rigettato l’impugnazione proposta da Xxxxxxx Xxxxxx nei confronti della Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., nonché dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), in ordine alla sentenza resa, tra le parti, dal Tribunale di Roma in data 24 aprile-8 maggio 2008, n. 7361.
2. La sentenza della corte d’appello premette in fatto che su domanda di Xxxxxxx Xxxxxx, il Tribunale di Roma aveva emesso due decreti ingiuntivi, rispettivamente n. 4908 e n. 4909/2007, con i quali era stato in- giunto alla Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., di pagare, rispettivamente, le somme di euro 46.392 e di euro 137.392, in favore dello stesso.
Il titolo posto a fondamento delle domande monitorie era costituito dall’accordo stipulato tra le parti, in forma di scrittura privata, in data 19 giugno 2006. Detta scrittura privata era stata recepita nel verbale di con- ciliazione sindacale in data 27 giugno 2006.
(1-2) I. - La massima (1) è ufficiale.
II. - In tema di nullità del contratto per contrarietà a norme imperative, x. Xxxx., 00 aprile 2014, n. 8462, in Rep. Foro it., 2014, voce Contratto in genere, atto e negozio giuridico, n. 403, nonché, Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26724, in Foro it., 2008, I, 784, con nota di X. Xxxxxxxx, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le Sezioni unite, secondo cui unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile, ove non altrimenti stabilito dalla legge, di determinarne la nullità ex art. 1418 c. 1, c.c., e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, la quale può essere fonte di responsabilità.
III. - Con riferimento alla massima (2), x. Xxxx., 00 aprile 2010, n. 9052, in Rep. Foro it, 2010, voce Indebito, n. 4, secondo cui, qualora venga acclarata la mancanza di una causa adquirendi – tanto nel caso di nullità, annullamento, risoluzione o rescis- sione di un contratto, quanto in quello di qualsiasi altra causa che faccia venir meno il vincolo originariamente esistente – l’azione accordata della legge per ottenere la restituzione di quanto prestato in esecuzione del contratto stesso è quella di ripetizione di un indebito oggettivo.
IV. - Circa la giurisdizione nei confronti degli amministratori e dipendenti della Rai, x. Xxxx., S.U., 19 dicembre 2009, n. 26806, in Foro it., 2010, I, 1473, secondo cui spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine alle azioni esercitate per ottenere la dichiarazione di nullità dei contratti conclusi dalla Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., attinenti al trattamento economico del direttore generale e degli ex direttori generali della stessa società. Sulla gestione finanziaria della Rai, v. Corte conti, Sez. contr. enti, 2 agosto 2016, n. 93, in questo fascicolo, 117, con nota di richiami.
Nella premessa di tale accordo, parte integrante della conciliazione, si legge tra l’altro (p. 38 del ricorso per cassazione del Meocci) “le parti intendono definire tramite conciliazione in sede sindacale tutti gli aspetti giuridici afferenti all’assunzione, all’espletamento e alla cessazione da parte del dott. Meocci delle funzioni di direttore generale”.
Con detto accordo, la Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., a fronte della rinuncia di Xxxxxxx Xxxxxx all’in- carico e alle funzioni di direttore generale della Rai, si accollava, fra l’altro, il pagamento della sanzione pecuniaria irrogata ad Xxxxxxx Xxxxxx con provvedimento dell’Agcom n. 220 del 27 aprile 2006 (in ragione della violazione dell’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995 per il conferimento allo stesso dell’incarico di direttore generale della Rai), e il pagamento delle spese legali sostenute dal Meocci medesimo sia per la difesa nel procedimento dinanzi alla medesima autorità, concluso con l’irrogazione della suddetta sanzione, sia davanti al Tar Lazio per l’impugnazione della citata delibera n. 220/2006, che per l’assistenza per la sottoscrizione dell’accordo conci- liativo del 19 giugno 2006. Designava il Meocci ad assumere le funzioni di presidente del consiglio di ammini- strazione della consociata di diritto statunitense Rai Corporation. Si impegnava, in particolare, a riconoscergli, mediante stipulazione di apposita convenzione con Rai Corporation entro il mese di luglio c.a., un trattamento economico complessivo pari a euro 750.000 annui per la parte fissa e euro 80.000 annui per la parte variabile, rapportata al ruolo di presidente del consiglio di amministrazione di Rai Corporation in relazione agli specifici obiettivi assegnati dal Cda di detta società.
La somma di euro 137.392, di cui al decreto ingiuntivo n. 4909/2007, rappresentava la parte della sanzione pecuniaria nelle more corrisposta dal Meocci all’Agcom; la somma di euro 46.392, di cui al decreto ingiuntivo
n. 4908/2007, corrispondeva, invece, alle somme in acconto versate dal Meocci per l’assistenza e difesa legale, sul complessivo importo delle spese legali quantificato in euro 204.642.
La Rai, con separati ricorsi, poi riuniti, proponeva opposizione avverso i suddetti decreti ingiuntivi e agiva, contestualmente, in via riconvenzionale per chiedere la restituzione delle somme medio tempore corrisposte al Meocci in attuazione dell’accordo del giugno 2006.
Si costituiva per resistere il Meocci.
Il tribunale accoglieva l’opposizione e revocava i decreti ingiuntivi sulla base della ritenuta nullità della transazione a suo tempo sottoscritta dalle parti. In accoglimento della domanda riconvenzionale di restituzione degli importi pagati al Meocci per effetto della transazione, condannava il Meocci a pagare alla Rai la somma di euro 320.402,99, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria (v. ricorso per cassazione, p. 7).
3. La corte d’appello rigettava l’impugnazione proposta dal Meocci avverso la sent. n. 7361/2008 emessa dal Tribunale di Roma.
4. Per la cassazione della sentenza resa tra le parti dalla Corte d’appello di Roma, ricorre Xxxxxxx Xxxxxx prospettando sette motivi di impugnazione.
5. Resiste la Rai (Radiotelevisione italiana s.p.a.), con controricorso.
6. L’Agcom è rimasta intimata.
7. Il ricorrente ha depositato memoria di costituzione di nuovo difensore.
8. In prossimità dell’udienza pubblica, sia il ricorrente Meocci, sia la resistente Rai hanno depositato me- morie ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione – 1. Occorre premettere che Xxxxxxx Xxxxxx, assunto dal 1982 alle dipendenze della Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., ha svolto, in aspettativa non retribuita dal febbraio 1998 al marzo 2005, le funzioni di componente dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Cessato l’incarico, con delibera del consiglio di amministrazione della Rai, nel 2005 veniva nominato direttore generale della Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a.
L’Agcom ravvisava in detta nomina una violazione dell’art. 2, c. 9, l. n. 481/1985 e, all’esito del procedi- mento di contestazione, sanzionava sia la Rai, sia Xxxxxxx Xxxxxx, ingiungendo alla prima il pagamento della sanzione amministrativa di euro 14.379.307, e al secondo il pagamento di una sanzione amministrativa di euro 372.923,83.
Le ordinanze ingiunzione venivano impugnate, con distinti ricorsi, dalla Rai e dal Meocci dinanzi al Tar Lazio.
Nelle more del giudizio dinanzi al giudice amministrativo, in data 19 giugno 2006, la Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., e Xxxxxxx Xxxxxx stipulavano un accordo in data 19 giugno 2006, che veniva formalizzato il 27 giugno 2006 anche davanti al collegio di conciliazione.
Detto accordo costituiva oggetto di un’ulteriore atto di contestazione in data 8 gennaio 2007 da parte dell’Agcom nei confronti del Meocci e della Rai, ravvisandosi nel medesimo un’ulteriore violazione dell’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995.
Il Tar Lazio rigettava i ricorsi e tale decisione era confermata dal Consiglio di Stato.
Con delibere del gennaio 2007 la Rai confermava l’inquadramento del Meocci nella qualifica di capore- dattore con una retribuzione parametrata a detta qualifica e alle equivalenti posizioni aziendali, retribuzione determinata in euro 250.000 lordi annui.
Il secondo procedimento aperto da Agicom in relazione all’accordo transattivo veniva chiuso con provve- dimento di archiviazione condizionata.
Tanto premesso, in sintesi, in fatto, può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.
2. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.).
Premette il ricorrente che la corte d’appello affermava che il dott. Xxxxxx aveva pieno diritto a rientrare a lavorare alla Rai al termine del mandato di componente dell’Agcom, in ragione di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 1, cc. 8 e 9, l. n. 481/1995. Tuttavia, riteneva che attraverso il conferimento dell’incarico di direttore generale, tra le parti fosse intercorso un nuovo rapporto di lavoro in quanto il suddetto incarico non poteva essere “in alcun modo ricondotto all’ambito del ripristino del precedente rapporto di lavoro dipendente quale giornalista”. Come ulteriormente argomentato in sentenza, non vi sarebbe stata, quindi, continuità con il rapporto di lavoro giornalistico già svolto in ragione, tra l’altro, delle diversità ontologiche non solo delle modalità di accesso, ma del tipo di competenze e dei livelli di responsabilità che caratterizzavano l’incarico in questione.
Tanto premesso, assume il ricorrente che la corte d’appello ha posto a fondamento della propria decisione delle circostanze in fatto, e delle eccezioni fondate sulle medesime circostanze in fatto, che la Rai non ha mai dedotto in giudizio.
Infatti, dalla lettura dei ricorsi della Rai, introduttivi del giudizio, e dalla documentazione in atti, si poteva rilevare che la Rai non aveva eccepito alcunché in ordine al carattere nuovo del rapporto di lavoro, anzi dava per pacifico che il rapporto di lavoro con il Meocci fosse proseguito. Pertanto, che l’incarico di direttore gene- rale rientrasse nell’ambito del rapporto di lavoro, doveva ritenersi pacifico tra le parti, in quanto non contestato dalla Rai. Conseguentemente, la pronuncia della corte d’appello sarebbe andata oltre i limiti della domanda, violando l’art. 112 c.p.c., nonché l’art. 115 c.p.c. Peraltro, il ricorrente ricorda che il posto di direttore generale è ricoperto spesso da giornalisti Rai.
3. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.
L’opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, in cui il giudice non deve limitarsi a stabilire se l’ingiunzione è stata emessa legittimamente in relazione alle condizioni previste dalla legge per l’emanazione del provvedimento monitorio, ma deve accertare il fondamento della pretesa fatta valere col ricorso per ingiunzione.
Osserva il collegio che la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di affermare (cfr. sent. n. 6757/2011 e n. 11039/2006) che anche nel rito del lavoro, trova applicazione il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (imposto dall’art. 112 c.p.c.) cui fa riscontro, nel giudizio d’appello, il principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 434 e 437 c.p.c.). Pertanto, mentre il giudice di primo grado non può pronunciare ultra petita, il giudizio d’appello ha per oggetto la medesima controversia, decisa dalla sentenza di primo grado, entro i limiti, tuttavia, della devoluzione, quali risultano fissati dai motivi specifici che l’appellante ha l’onere di proporre con l’atto d’appello (ai sensi dell’art. 434 c.p.c.), con la conseguenza che la sentenza di secondo grado non può trattare e decidere una questione, già decisa in primo grado, se – in difetto di specifico motivo d’appello – la questione stessa non risulti, comunque, devoluta al giudice d’appello oppure la decisione relativa risulti, addirittura, coperta dai giudicato sostanziale interno (art. 2909 c.c.).
Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) – come il principio del tantum devolutum quantum appellatum (artt. 434 e 437 c.p.c.) – non osta, tuttavia, a che il giudice renda la pronuncia
richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma, rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica, di- versa da quella invocata dall’istante, ma implica tuttavia il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita – diverso da quello richiesto (petitum mediato) – oppure di emettere una qualsiasi pronuncia – su domanda nuova, quanto a causa petendi – che non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al processo – anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte – ma su elementi di fatto, che non siano, invece, ritualmente acquisiti come oggetto del contraddittorio.
Quindi, la corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che vincola il giudice ex art. 112 c.p.c., riguarda il petitum che va determinato con riferimento a quel che viene domandato sia in via principale, sia in via subordi- nata, in relazione al bene della vita che l’attore intende conseguire, e alle eccezioni che in proposito siano state sollevate dal convenuto (Cass., n. 8479/2002).
Tale principio va, peraltro, posto in immediata correlazione con il principio iura novit curia, di cui all’art. 113, c. 1, c.p.c., rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualifi- cazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al proprio esame, e ponendo a fondamento della pro- pria decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti (Cass., n. 25140/2010).
Va, infine, rilevato che, come riaffermato dalla sentenza di questa Corte n. 21775/2015, la legittimità della rilevazione di una causa di nullità diversa da quella prospettata dalla parte è stata del pari affrontata e risolta dalle Sezioni unite di questa Corte con sent. n. 26242/2014, che, operando un radicale revirement rispetto al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (che ne predicava l’inammissibilità), ha stabilito che la domanda di nullità risulta pur sempre unica rispetto ai diversi, possibili vizi di radicale invalidità che affliggono il negozio. La rilevazione ex officio di un diverso vizio di nullità negoziale (o, come nella specie, plurinegoziale) non contrasta, pertanto, né con l’originario petitum (costituito da una domanda di declaratoria di nullità negoziale) né con la causa petendi (i.e. il negozio ovvero il collegamento negoziale di cui si assume la nullità).
Al giudice cui sia stata proposta la domanda di nullità viene pertanto riconosciuto, secondo il più recente insegnamento delle Sezioni unite, il potere-dovere di accertare tutte le possibili ragioni di nullità, non soltanto quella indicata dall’attore, anche in ragione della ratio sottesa alla fattispecie invalidante (e, a più forte ragione, quella indicata, anche intempestivamente, dalla parte nel precedente grado di giudizio), salva attivazione del contraddittorio sul punto.
La sentenza impugnata non si discosta dai principi di diritto enunciati. E infatti, sia le domande monitorie del Meocci, che la domanda riconvenzionale della Rai, nonché i motivi di appello, come si evince, oltre che dalla sentenza di appello, dalle difese prospettate proprie nel ricorso e nel controricorso, nonché nelle memorie, vertevano sulla nullità o meno dell’accordo transattivo proprio in relazione alla violazione dell’art. 2, c. 9, l.
n. 481/1995, ravvisata dall’Agcom nel conferimento dell’incarico di direttore generale della Rai al Meocci al termine dello svolgimento delle funzioni di componente dell’autorità medesima.
Il ricorrente non ha specificamente contestato la ricostruzione in fatto della sentenza della corte d’appello, né ha riprodotto, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, nonché della decisività del motivo di ricorso, i compiuti passi degli atti processuali che richiama e su cui fonda la suddetta generica censura, limitandosi a sostenere le proprie argomentazioni inframmezzando e inserendo nelle deduzioni difensive passi di documenti versati in atti (in sé non dirimenti, quali: “rapporto di lavoro subordinato giornalistico tra lei e noi intercorrente dal 23 marzo 1982” p. 15 del ricorso), di cui, estrapolandoli dal compiuto contesto in cui si inseriscono, offre una propria lettura.
Il suddetto thema decidendum, relativo alla nullità o meno dell’accordo transattivo, in relazione all’attribu- zione dell’incarico di direttore generale in violazione dell’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, già oggetto del giudizio, era, quindi, devoluto, attraverso i motivi di appello, alla Corte d’appello di Roma, e sullo stesso si era formato il contraddittorio. Pertanto il giudice di secondo grado decideva la controversia nel rispetto delle disposizioni processuali e dei principi giurisprudenziali sopra richiamati.
Come si rileva dallo stesso ricorso del Meocci (p. 6 ss.), la Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a., non dava esecuzione all’accordo transattivo che era intercorso tra le parti che prevedeva, tra l’altro, il pagamento da parte della società della sanzione pecuniaria irrogata al Meocci dall’Agcom e delle spese legali connesse allo stesso per effetto dell’ulteriore contestazione dell’Agcom, relativa all’accordo, le cui pattuizioni avrebbero potuto co-
stituire una nuova situazione di incompatibilità ai sensi dell’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, in ragione, tra l’altro, del fatto che l’originario contratto con il quale il dott. Xxxxxx era stato preposto alla direzione generale della Rai era verosimilmente in contrasto con una norma imperativa, e, comunque, nullo quanto meno per l’incapacità speciale gravante sull’ex componente dell’autorità.
I decreti ingiuntivi venivano azionati per ottenere l’adempimento delle suddette prestazioni previste nella transazione.
La Rai proponeva opposizione nonché domanda riconvenzionale per la restituzione di quanto già corrispo- sto al Meocci a valere dell’accordo transattivo, con cui contestava, tra l’altro, l’accordo transattivo.
Come riportato nella sentenza di appello (p. 2) “Con atto di appello, tempestivamente proposto, Xxxxxxx Xxxxxx, aveva censurato la decisione deducendo” [...] “b) che il primo giudice aveva errato nel ritenere che dal divieto inderogabile stabilito dall’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995 cit. scaturisse la indisponibilità dei diritti og- getto dell’accordo transattivo del giugno 2006, e in conseguenza la nullità dello stesso ai sensi dell’art. 1966
c.c. Ha dedotto che la portata precettiva del divieto stabilito dall’art. 2, c. 9, cit., si esaurisce nel solo profilo sanzionatorio, di talché il rapporto tra l’ex commissario dell’autorità garante e l’azienda soggetta alla vigilanza della medesima “nonostante la situazione di incompatibilità potrebbe benissimo proseguire, ferma restando l’eventuale applicazione delle sanzioni previste (v. ricorso in appello, p. 24)”.
Tale deduzione del ricorrente in appello, non è contestata con l’odierno motivo di ricorso e la stessa, in uno alle altre circostanze sopra richiamate, di cui all’odierno ricorso e al controricorso Rai, pongono in luce come la corte d’appello non ha violato gli artt. 112 e l’art. 115, c.p.c., in ragione dei principi della giurisprudenza di legittimità sopra enunciati.
In proposito, si ricorda, altresì, che il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del con- tenuto e della portata delle domande sottoposte alla propria cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (Xxxx., n. 21087/2015). Ai fini dell’interpretazione delle domande giudiziali non sono utilizzabili le norme sull’interpretazione del contratto, in quanto, rispetto alle attività giudiziali, non si pone una questione di indivi- duazione della comune intenzione delle parti e la stessa soggettiva intenzione della parte rileva solo nei limiti in cui sia stata esplicitata in modo tale da consentire alla controparte di cogliere l’effettivo contenuto dell’atto e di poter svolgere un’adeguata difesa (Cass., n. 25853/2014).
Infine, va osservato che la dedotta possibilità che un giornalista della Rai venga nominato direttore genera- le, non ha carattere decisivo rispetto alla questione della incompatibilità come delineata dal citato art. 2, c. 9, l. n. 481/1985.
4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, in connessione con gli artt. 1230, 1362 e 2103 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.).
Il ricorrente censura la statuizione che esclude che l’incarico di direttore generale poteva essere ricondotto al precedente rapporto di lavoro dipendente quale giornalista, non potendo presentare alcuna continuità con quest’ultimo.
Deduce il Meocci che le parti non avevano voluto dare luogo ad un nuovo rapporto di lavoro, atteso che il con- ferimento dell’incarico delle funzioni di direttore generale si sarebbe dovuto inscrivere nel preesistente “rapporto di lavoro subordinato giornalistico tra lei e noi intercorrente fin dal 23 marzo 1982” (sono richiamate le lettere Rai del 25 agosto e 24 ottobre 2005). Sarebbe, quindi, mancato l’intento novativo atteso che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, Xxxx., n. 5797/2007, perché si abbia novazione del rapporto di lavoro è indispen- sabile che le parti concordino nell’imprimere al rapporto medesimo concreti e qualificanti aspetti di diversità, fondati su situazioni ed esigenze aziendali radicalmente nuove che ne comportino la modificazione sostanziale.
Quindi, sarebbe stato violato l’art. 1362 c.c. che impone, nell’interpretazione dei contratti, di indagare sulla volontà delle parti. Né la modifica delle mansioni avrebbe dato luogo alla novazione del contratto, modifica che può operare solo in melius.
Né poteva condividersi la distinzione ontologica tra mansioni giornalistiche e mansioni manageriali operata dalla corte d’appello, tenuto conto che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro subordinato che di un rapporto di lavoro autonomo, non essendo intervenuta nella specie una modifica radicale dei termini del rapporto di lavoro.
Sussisterebbe, quindi la violazione degli artt. 1230 e 2103, in ragione della ritenuta sussistenza di novazione del rapporto di lavoro, nonché dell’art. 1362 c.c., atteso che la novazione veniva ritenuta sussistere senza tener conto della reale comune volontà e dei comportamenti complessivi dei contraenti.
5. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
A norma dell’art. 1230 c.c., l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono alla obbligazione origi- naria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass., n. 23528/2006, n. 5665/2010, n. 17328/2012), la novazione oggettiva si configura come un contratto estintivo e costitutivo di obbligazioni, caratterizzato dalla volontà di far sorgere un nuovo rapporto obbligatorio in sostituzione di quello precedente con nuove e au- tonome situazioni giuridiche; di tale contratto sono elementi essenziali, oltre ai soggetti e alla causa, l’animus novandi, consistente nella inequivoca, comune intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbli- gazione, sostituendola con una nuova, e l’aliquid novi, inteso come mutamento sostanziale o dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto, dovendosi escludere che la semplice regolazione pattizia delle modalità di svolgimento della preesistente prestazione produca novazione. L’esistenza di tali specifici elementi deve essere in concreto verificata dal giudice del merito.
Nella specie, la corte d’appello non ha affermato la novazione del rapporto di lavoro subordinato di xxxx- xxxxxxx in quello di direttore generale, ma ha statuito che non era possibile ravvisare nel contratto di nomina a direttore generale, una modalità di ripristino, con conferimento di diverse mansioni, dell’originario rapporto di lavoro giornalistico. Ciò in ragione della diversità che investe non solo le condizioni di accesso (specifica delibera del consiglio di amministrazione della Rai), ma il tipo di competenze (di carattere spiccatamente ma- nageriale), il bagaglio professionale, i livelli di responsabilità, gli ambiti di autonomia, i diversi possibili per- corsi di carriera (nel senso che la nomina a direttore generale non costituisce una progressione o un’evoluzione naturale della carriera di giornalista).
Pertanto, la corte d’appello configurava, nella specie, la nomina a direttore generale, come conferimento ex novo di un vero e proprio incarico professionale, autonomo e privo di collegamento con il preesistente rapporto di lavoro, senza affermare la intervenuta novazione del rapporto di lavoro subordinato, ma anzi escludendo con corretta motivazione la riconducibilità dello stesso al preesistente rapporto di lavoro subordinato.
Né, proprio in ragione di detta statuizione, assume rilievo il richiamo effettuato dal ricorrente al c.c.n.l. per i dirigenti del settore industria (art. 26).
6. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2, c. 9, l. 481/1995, in connessione con gli artt. 1418 e 1972 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.).
La corte d’appello, sulla base della pretesa violazione dell’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, ha ritenuto che l’ac- cordo del giugno 2006 sottoscritto dal Meocci e dalla Rai, pur non avendo ad oggetto diritti indisponibili ex art. 1996 x.x., xxx xxxxx xx xxx. 0000 x.x., xx xxxxxx relativo ad un contratto illecito, tale essendo il contratto avente ad oggetto il conferimento al Meocci dell’incarico di direttore generale della Rai, posto in essere in violazione del divieto di cui all’art. 2, c. 9, l. n. 418/1995.
L’incarico di direttore generale al Meocci sarebbe stato da considerare nullo ex art. 1418 c.c. per illiceità della causa e/o dell’oggetto, non potendosi circoscrivere la portata precettiva del suddetto divieto di cui all’art. 2 l. n. 481/1995 al solo profilo sanzionatorio, interessante l’ambito pubblicistico.
Assume il ricorrente che l’accordo del 24 ottobre 2005 (conferimento incarico di direttore generale) non potrebbe essere ritenuto un contratto illecito, atteso che lo stesso riguardava la legittima e lecita variazione delle condizioni contrattuali (mansioni e retribuzione) di un rapporto di lavoro subordinato. Non era illecito l’oggetto, né l’illiceità poteva discendere dal contrasto con l’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, ritenuta dal giudice di secondo grado, erroneamente, norma imperativa.
Detta norma, a proprio avviso, non aveva tale carattere, poiché posta a sostegno di interessi settoriali e non generali.
In ogni caso, dal tenore dell’art. 1418 c.c., si rilevava che la sanzione per la contrarietà a norma imperativa poteva essere anche diversa dalla nullità (si richiama, ad esempio, la fattispecie della vendita del fondo agrario in violazione della l. n. 590/1965). La disposizione della l. n. 481/1995 che qui viene in rilievo non sancisce la nullità ma una sanzione pecuniaria, salvo che il fatto non costituisca reato. Ciò troverebbe conferma nella giurisprudenza di legittimità sulle conseguenze sui contratti di lavoro di varie situazioni di incompatibilità,
come nel caso del dipendente pubblico (comunale) licenziato per avere assunto incarichi incompatibili con il lavoro alle dipendenze delle pubblica amministrazione, con la conseguenza tuttavia della mancanza di nullità dei contratti stipulati tra privati in relazione ai suddetti incarichi.
Né potrebbe trovare applicazione l’art. 1972, c. 2, c.c., con riferimento alla transazione del giugno 2006, atteso che la Rai non poteva sostenere di non essere a conoscenza della pretesa nullità del contratto.
La validità della transazione permarrebbe anche laddove dovesse ritenersi illecita la nomina del Meocci alla direzione generale della Rai, in quanto l’accordo transattivo aveva ad oggetto solo le conseguenze restitutorie e risarcitorie che da quel contratto erano scaturite.
7. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Occorre ricordare che l’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, nel testo vigente ratione temporis, precedente alle modifi- che apportate dal d.l. 24 giugno 2014, n. 90, come convertito dalla l. 11 agosto 2014, n. 114, prevede, tra l’altro, che per almeno quattro anni dalla cessazione dell’incarico i componenti delle autorità non possono intrattenere, direttamente o indirettamente, rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese operanti nel settore di competenza; la violazione di tale divieto è punita, salvo che il fatto costituisca reato, con una sanzione pecuniaria pari, nel minimo, alla maggiore somma tra 50 milioni di lire e l’importo del corrispettivo percepito e, nel massimo, alla maggiore somma tra 500 milioni di lire e l’importo del corrispettivo percepito. All’imprenditore che abbia violato tale divieto si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari allo 0,5 per cento del fatturato e, comunque, non inferiore a 300 milioni di lire e non superiore a 200 miliardi di lire, e, nei casi più gravi o quando il comportamento illecito sia stato reiterato, la revoca dell’atto concessivo o autorizzativo.
Va, altresì, premesso che con l’ordinanza delle Sezioni unite di questa Corte n. 27092/2009, nel ritenere la giurisdizione della Corte dei conti, si è statuito che spetta alla Corte dei conti la giurisdizione in tema di risarcimento del danno cagionato alla Rai-Radio televisione italiana s.p.a., da componenti del consiglio d’am- ministrazione e da dipendenti di tale società e degli enti pubblici azionisti, in relazione alla nomina del direttore generale e al trattamento economico dello stesso e degli ex direttori generali; la Rai, infatti, nonostante la veste di società per azioni (peraltro partecipata totalitariamente da enti pubblici), ha natura sostanziale di ente pub- blico, con uno statuto assoggettato a regole legali, per cui essa è designata direttamente dalla legge quale con- cessionaria dell’essenziale servizio pubblico radiotelevisivo; sottoposta a penetranti poteri di vigilanza da parte di un’apposita commissione parlamentare; destinataria di un canone d’abbonamento avente natura di imposta; compresa tra gli enti sottoposti al controllo della Corte dei conti cui lo Stato contribuisce in via ordinaria; tenuta all’osservanza delle procedure di evidenza pubblica nell’affidamento degli appalti; né l’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa è ostacolata dalla possibilità di promuovere l’ordinaria azione civilistica di re- sponsabilità, poiché la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, sicché il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, dando luogo a questioni non di giurisdizione ma di proponibilità della domanda.
Nella medesima ordinanza, si è affermato, nel confutare che nella Rai sarebbero presenti “due anime”, corri- spondi ai distinti settori in cui essa agisce (il servizio pubblico espletato in concessione, finanziato esclusivamente mediante il canone di abbonamento; l’attività imprenditoriale svolta nel libero mercato radiotelevisivo, finanziata esclusivamente mediante gli introiti pubblicitari), che il direttore generale della Rai, “è preposto alla complessiva sua gestione, organizzazione e funzionamento, con competenze che si estendono a tutto il campo di operatività della società, senza alcuna esclusione per l’esercizio del servizio pubblico generale radiotelevisivo”.
Correttamente, la corte d’appello ha ritenuto nullo l’accordo transattivo, ai sensi dell’art. 1972 c.c., in ra- gione dell’illiceità del conferimento dell’incarico di direttore generale al Meocci effettuato in violazione di una norma imperativa quale l’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, tale dovendosi qualificare quest’ultima in ragione degli interessi generali tutelati.
Trova applicazione nella specie l’art. 1972, c. 1, c.c., che stabilisce: “É nulla la transazione relativa a un con- tratto illecito, ancorché le parti abbiano trattato della nullità di questo”, in relazione all’art. 1418, c. 1, c.c., che prevede “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative salvo che la legge disponga diversamente”.
Come le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato (Cass., S.U., n. 26724/2007, cui adde, Cass., n. 8462/2014), l’area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in con- formità al disposto dell’art. 1418 x.x., x. 0, x in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il
riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell’iscrizione di uno dei con- traenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell’atto per ragioni – se così può dirsi – ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell’atto medesimo.
L’accordo transattivo in questione, intercorso tra la Rai e il Meocci, nel disporre delle pattuizioni oggetto del contratto di conferimento dell’incarico di direttore generale, che costituiva, proprio per il contrasto con l’art. 2, c. 9, l. n. 481/1995, oggetto dei provvedimenti Agcom, la cui impugnazione è stata rigettata dal giudice amministrativo, incorre nella previsione del citato art. 1972, c. 1, c.c., atteso che la disciplina posta a fonda- mento delle misure Agcom, costituisce disposizione imperativa, inderogabile dai singoli in quanto diretta a soddisfare interessi generali (cfr. Cass., n. 17765/2012).
Nel dettare i principi generali che devono ispirare la normativa relativa alle diverse Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, atteso che dette autorità operano in piena autonomia, con indipendenza di giu- dizio e di valutazione, venendo preposte alla regolazione e al controllo del settore di propria competenza (art. 2, c. 5, l. n. 481/1995), il legislatore ha stabilito che, cessato l’incarico, il componente non può intrattenere direttamente o indirettamente rapporti di collaborazione, di consulenza o di impiego con le imprese operanti nel settore di competenza (art. 2, c. 9, cit.).
Tale divieto, di carattere oggettivo, si sostanzia in una incompatibilità successiva, che si affianca e rafforza le incompatibilità che scattano nella costanza dell’incarico, a garanzia anch’essa dell’indipendenza dei singoli componenti, ed è funzionale, altresì, a garantire, nello svolgimento del mandato di componente delle suddette autorità, il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione (artt. 3 e 97, c. 2, Cost.), posti a presidio del generale interesse al corretto esercizio dell’azione pubblica, che possono concorrere con altri valori costituzio- nalmente garantiti in ragione dei diversi settori di competenza.
Le specifiche sanzioni amministrative pecuniarie previste non escludono che possa trovare applicazione la distinta disciplina del negozio giuridico nel vagliare gli atti negoziali posti in essere in violazione della suddetta norma imperativa.
8. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1965 x.x. (xxx. 000, x. 0, x.x.x.).
Xxxxxx il ricorrente che la corte d’appello ha erroneamente ritenuto che la transazione era priva di causa per carenza della res litigiosa da comporre tra le parti, e che, comunque, sarebbero mancate le reciproche con- cessioni tra le parti.
E infatti, le parti avevano inteso prevenire la lite che sarebbe insorta in merito alle condizioni del rapporto di lavoro del dott. Meocci alla luce dei provvedimenti sanzionatori dell’Agcom, posto che i suddetti provvedi- menti non potevano incidere direttamente sul rapporto di lavoro, non avendo l’autorità un simile potere. Ciò, in quanto le sanzioni dell’Agcom non impingevano i profili relativi al rapporto di lavoro.
Il ricorrente prospetta che i diritti di cui le parti hanno disposto nella transazione in questione erano diritti pienamente disponibili, essendo relativi alle mansioni e, più in generale, al contenuto del rapporto di lavoro.
Xxxxxxx, quindi la statuizione con la quale la corte d’appello ha affermato che il negozio transattivo sarebbe stato finalizzato alla elusione di un precetto imperativo, ravvisandosi in ciò un vizio di ultrapetizione.
9. Al rigetto del terzo motivo di ricorso relativo alla statuizione di nullità della transazione per illiceità del contratto di conferimento dell’incarico di direttore generale, consegue l’inammissibilità del quarto motivo che censura l’ulteriore ratio decidendi di nullità dell’accordo transattivo per mancanza di causa propria.
E, infatti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 12372/2006, n. 2108/2012), in tema di ricorso per cassazione, qualora la decisione impugnata si fondi su una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, e singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infonda- tezza delle censure mosse ad una delle rationes decidendi rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste
ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa.
10. Con il quinto motivo di ricorso é prospettata la violazione e falsa applicazione artt. 2697 e 2702 x.x. x xxxxx xxxx. 000 x 000 x.x.x. (xxx. 360, n. 3, c.p.c.).
Il ricorrente censura la statuizione della corte d’appello che, oltre a revocare i decreti ingiuntivi, accoglieva la domanda riconvenzionale della Rai condannando il Meocci a corrispondere alla società la somma di euro 320.402,99, in ragione della nullità dell’accordo transattivo.
Secondo la corte d’appello, il diritto alla restituzione di detta somma da parte della Rai conseguirebbe alla mancanza di una causa adquirendi, vertendosi in ipotesi di ripetizione di indebito oggettivo. Né sarebbe appli- cabile l’art. 2103 c.c. La corte d’appello, assume il Meocci, sembra aver accolto il rilievo della Rai secondo il quale esso ricorrente non avrebbe mai svolto un’attività tale da giustificare la retribuzione prevista nel verbale di conciliazione, ed effettivamente corrisposta ad esso ricorrente dal 19 giugno al 31 dicembre 2006.
Il ricorrente, premesso che alla validità e alla legittimità dell’accordo transattivo sarebbe conseguita la ri- forma della sentenza d’appello sul punto, osserva che le argomentazioni della corte d’appello sarebbero errate in ragione del contenuto della transazione, dal quale si evinceva che la Rai aveva inteso riconoscere al Meocci un determinato trattamento economico retributivo senza peraltro collegarlo esclusivamente allo svolgimento dell’incarico di presidente di Rai Corporation che gli sarebbe stato conferito.
Ciò trovava conferma anche in altra documentazione allegata agli atti (lettera 9 novembre 2006 di cui si riporta uno stralcio e il cui contenuto è uguale a quello riportato in sentenza in relazione a lettera dell’Il novem- bre 2006), con natura confessoria.
11. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.
Le censure del ricorrente non incidono la corretta motivazione della corte d’appello che ha ravvisato nel- la fattispecie la sussistenza di un indebito oggettivo, oggetto di ripetizione, con conseguente inapplicabilità dell’art. 2103 c.c.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 11973/1995, n. 4268/1995) il pagamento ef- fettuato in base a contratto nullo per contrarietà a norme imperative configura un’ipotesi di indebito oggettivo cui consegue per il disposto dell’art. 2033 c.c. la ripetibilità di quanto sia stato pagato.
E infatti, come confermato dalla successiva giurisprudenza di legittimità, sussiste indebito oggettivo tutte le volte in cui manchi la causa della prestazione e l’accipiens non abbia titolo per riceverla: tanto accade nei casi di nullità del contratto, ove l’azione de qua diventa esperibile per la restituzione delle prestazioni rese in base ad esso, ma anche nei casi di nullità di specifiche clausole contrattuali e per la restituzione delle corrispondenti prestazioni e controprestazioni da tali clausole originate (Cass., n. 21096/2005, n. 9052/2010, n. 2956/2011).
La corte d’appello, peraltro, ha vagliato la documentazione allegata dal ricorrente con accertamento di fatto adeguatamente motivato e in quanto tale non sindacabile in sede di legittimità.
Il giudice di secondo grado nel richiamare il contenuto della lettera in data 11 novembre 2006 (indicata come 9 novembre nel ricorso), di cui escludeva la natura confessoria, con la quale il direttore generale della Rai dava atto della apprezzata collaborazione prestata alla direzione generale nella esigenza di aumentare il tasso di contenuto informativo e di approfondimento culturale nella programmazione destinata all’estero e nella individuazione dei problemi da affrontare e invitava il Meocci a proseguire nell’attività consultiva e preistruttoria, in particolare rilevava il carattere generico e inadeguato dello stesso a dare contezza, in relazione all’intero periodo in contestazione, dell’effettiva entità dell’impegno profuso dal Meocci e se esso abbia assunto per continuità e intensità i caratteri di una vera e propria controprestazione lavorativa. Xxxxxxxxx, quindi, la mancanza di adeguata prova in ordine all’eventuale attività lavorativa espletata nel periodo in questione. Riteneva in proposito insufficiente la prova orale chiesta sul punto, riguardando la stessa, proprio la lettera.
La congruità di tale statuizione, rende prive di decisività le censure relative alla sussistenza del potere del direttore generale di impegnare l’azienda con la suddetta lettera, mentre la censura relativa alla mancata am- missione della prova per testi, si palesa inammissibile in quanto del tutto generica.
12. Con il sesto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2126 c.c. (art. 360, n. 3 c.p.c.).
Assume il ricorrente che nella fattispecie in esame sarebbe pienamente applicabile l’art. 2103 c.c., non- ché l’art. 2126 c.c., non sussistendo illiceità e atteso il carattere retributivo delle somme – giugno dicembre 2006 – in questione.
13. Il motivo non è fondato in ragione delle argomentazioni già poste alla base del rigetto e della inam- missibilità dei precedenti motivi di ricorso, in particolare con riguardo alla ritenuta sussistenza di indebito oggettivo.
Va osservato, che la corte d’appello, correttamente, oltre a ritenere non compatibile l’indebito oggettivo con la previsione dell’art. 2103 c.c., ha affermato, in relazione alla non applicabilità dell’art. 2126 c.c., peraltro con valutazione di fatto adeguatamente motivata e che si sottrae a censura in sede di legittimità, che il contratto transattivo non contemplava, in relazione al periodo c.d. transitorio, Io svolgimento di alcuna specifica attività da parte del Meocci, per cui le somme erogate dalla Rai, in assenza di prestazione lavorativa corrispettiva, non costituivano retribuzione.
14. Con il settimo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 x.x. x xxxxx xxxx. 000 x 000 x.x.x. (xxx. 360, n. 3, c.p.c.).
Il ricorrente deduceva che la domanda di restituzione era stata effettuata dalla Rai, oltre che per le spese legali, con riguardo all’eccedenza rispetto alla retribuzione di 250.000 euro lordi annui, così stabilita, tuttavia, in modo unilaterale e del tutto arbitrario dalla Rai medesima, non derivando la stessa dal contratto di lavoro, né da accordi intercorsi dalle parti. La domanda di restituzione della Rai, quindi, non poteva essere accolta in quanto fondata su una determinazione della retribuzione annua del Meocci effettuata dalla Rai in modo arbi- trario e unilaterale. Assume di aver sin dal giudizio di primo grado contestato tale circostanza, riportando uno stralcio delle memorie di costituzione nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo.
Analogamente, quanto alle spese legali, le stesse erano state corrisposte direttamente ai legali e non ad esso Meocci, che era rimasto estraneo alla determinazione di tali compensi.
15. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato.
E infatti, proprio dalla lettura degli stralci delle suddette memorie, si rileva che, con le stesse, il Meocci contestava che dal dicembre 2006, in ragione di delibera del gennaio 2007, la retribuzione veniva riparametrata nella misura di euro 250.000, annui lordi, rispetto a quanto stabilito nell’accordo transattivo, ma non contestava che detta somma di euro 250.000 non fosse quella prevista per la qualifica di capo redattore che gli veniva confermata.
Le doglianze riguardavano la unilaterale riduzione da parte della Rai della retribuzione, in violazione degli accordi di cui al verbale di conciliazione, ma non la corrispondenza di detta retribuzione annua lorda, come riparametrata, a quella per le funzioni di capo-redattore.
Quanto alle spese legali, la deduzione è generica, non essendovi richiami a precedenti atti difensivi in cui sarebbe stata introdotta in modo circostanziato tale doglianza.
Pertanto, correttamente la corte d’appello riteneva la tardività del gravame relativamente alla determinazio- ne del quantum richiesto dalla Rai in via riconvenzionale.
16. Il ricorso deve essere rigettato.
17. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.q.m., la Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio nei confronti della Rai-Radiotelevisione italiana s.p.a. che liquida in euro cento per esborsi, euro undicimila per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge. Nulla spese per l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
I
9142 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 6 maggio 2016; Pres. Rordorf, Est. Xxxxxxxxx, X.X. Pratis (concl. conf.); Xxxxx e altro c. Ministero della giustizia.
Conferma App. Perugia, decr. 21 gennaio 2010, n. 64.
Processo civile – Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – Violazione del termine di ragionevole durata del processo – Indennizzo – Valutazione unitaria dei procedimenti di cognizione ed esecuzione.
C.p.c., art. 474; l. 24 marzo 2001 n. 89, previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragio- nevole del processo e modifica dell’art. 375 c.p.c., art. 4.
Ai fini dell’equa riparazione per irragionevole durata del processo, il procedimento di cognizione e quello di esecuzione devono essere considerati unitariamente o separatamente in base alla condotta di parte, allo scopo di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitarne l’esercizio abusivo; pertanto, ove si sia attivata per l’esecuzione nel termine di sei mesi dalla definizione del procedimento di cognizione, ai sensi dell’art. 4 l. n. 89/2001, la parte può esigere la valutazione unitaria dei procedimenti, finalisticamente conside- rati come unicum, mentre, ove abbia lasciato spirare quel termine, essa non può più far valere l’irragionevole durata del procedimento di cognizione, essendovi soluzione di continuità rispetto al successivo procedimento di esecuzione. (1)(1)
II
15643 – Corte di cassazione, Sezione VI; sentenza 27 luglio 2016; Pres. Xxxxxxx, Est. Xxxxxxxx, P.M. Brienza;
Omissis c. Ministero dell’economia e delle finanze.
Cassa con rinvio App. Perugia, 8 gennaio 2014, n. 27.
Processo contabile – Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – Violazione del termine di ragionevole durata del processo – Diritto all’equa riparazione – Manifesta infondatez- za delle pretese o eccezioni sollevate nel processo presupposto – Diritto all’indennizzo.
Cost., art. 101; l. 24 marzo 2001 n. 89, artt. 2, 3.
In materia di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, sussiste il diritto all’indennizzo anche nell’ipotesi di manifesta infondatezza della domanda nel giudizio presupposto, a meno che siano accertati gli ulteriori requisiti della temerarietà o dell’abusività della lite (in motivazione, si precisa che, l’indennizzo è escluso, per ragioni di carattere soggettivo, nelle ipotesi di lite temeraria, di causa abusiva o di altre ragioni che dimostrino in positivo la concreta assenza di un effettivo pregiudizio di indole morale). (2)
I
Cass., S.U., 6 maggio 2016, n. 9142
Svolgimento del processo – 1. È stata proposta da Xxxxx Xxxxxxx domanda di equa riparazione del danno sofferto per l’irragionevole durata di un procedimento civile iniziato nel gennaio 1975 e definito in sede di cognizione nel gennaio 2000 con ordinanza d’inammissibilità della Corte di cassazione; dopo la complessa fase di cognizione che aveva determinato la condanna della controparte della ricorrente all’abbattimento di un fabbricato che oltrepassava il confine, era seguita la fase di esecuzione intrapresa dalla ricorrente nel 2002 e ancora pendente al momento dell’introduzione della domanda ex l. n. 89/2001. La Xxxxx ha richiesto alla Corte d’appello di Perugia l’indennizzo per la non congrua durata del procedimento, riferita unitariamente sia al giudizio di cognizione sia a quello esecuzione, senza soluzione di continuità, assumendo che solo con la chiusura di quest’ultima fase poteva dirsi effettivamente soddisfatto l’interesse tutelato. La Corte territoriale ha invece ritenuto che la “definitività” della decisione, ai fini del decorso del termine semestrale di decadenza fissato nell’art. 4 l. n. 89/2001 – nella formulazione all’epoca vigente – dovesse riferirsi al momento in cui si fosse conseguito il fine al quale il singolo procedimento era deputato: in relazione al giudizio di cognizione
(1-2) I. - La massima (1) è ufficiale.
II. - Nello stesso senso di cui alla massima (2), v., in un procedimento relativo alla violazione del termine di ragionevole durata di un processo amministrativo, Cass., 23 settembre 2015, n. 18834, in Rep. Foro it., 2015, voce Diritti politici e civili, n. 173.
tale definitività si sarebbe determinata con il passaggio in giudicato della sentenza che chiudeva tale fase. Alla luce di queste premesse la Corte territoriale ha dichiarato decaduta la parte ricorrente dal diritto di proporre la domanda d’indennizzo per quanto riguardava il giudizio di cognizione mentre, per la fase relativa al procedi- mento esecutivo, ha giudicato che lo stallo della procedura esecutiva fosse stato dettato dalla condotta della ricorrente che, lasciando andare in rovina il proprio edificio, adiacente a quello oggetto di esecuzione, avrebbe reso impossibile non solo la demolizione parziale dell’altro edificio ma anche le attività propedeutiche ad essa finalizzate, rigettando dunque nel merito la domanda attinente a tale periodo.
2. Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione la ‘anni, sulla base di un unico motivo, il- lustrato da sei quesiti, ribadendo, da un lato, la doverosità della valutazione unitaria della fase di cognizione assieme a quella di esecuzione e, dall’altro, la non addebitabilità a sé dei ritardi riscontrati nella fase esecutiva. È stata depositata memoria. Ha resistito con controricorso il Ministero della giustizia.
3. Con ordinanza interlocutoria n. 1382/2015 la Sezione VI – sottosezione prima – ha rimesso gli atti al primo presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, ravvisando una questione di massima di particolare importanza relativa: a) alla divisata necessità di coordinare il principio dell’unicità dei giudizi di cognizione ed esecuzione, al fine della individuazione del periodo da valutare per la liquidazione dell’inden- nizzo previsto dalla l. n. 89/2001 – come specificato dalle Sezioni unite con pronuncia n. 6312/2014 e più volte ribadita con analoghe sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo – armonizzandolo con la previsione di un termine di decadenza, giusta quanto stabilito dall’art. 4 della legge citata (nella formulazione anteriore alla riforma introdotta con il d.l. n. 83/2012, convertito dalla l. n. 134/2012); b) alla identificazione del concetto di “decisione definitiva” in caso di consecuzione al giudizio di cognizione, anche a distanza di notevole lasso di tempo, di una fase di esecuzione; c) alla rilevanza, in caso di ribadito computo unitario della durata delle due “fasi”, del periodo intermedio tra le stesse, successivo dunque alla conclusione del processo di cognizione e anteriore all’instaurazione del giudizio di esecuzione.
Motivi della decisione – I. Per una soddisfacente valutazione della materia controversa, devono essere innanzitutto richiamati i principi esposti nelle sentenze n. 27365/2009 (e nella coeva n. 27348/2009) e n. 6312/2014 delle Sezioni unite, citate dalla sezione remittente quale fonte di un divergente contrasto interpre- tativo.
I.a. Con la meno recente delle due decisioni, le Sezioni unite erano state chiamate a verificare se, ai fini della fase di accertamento della ragionevole durata del processo, la fase di accertamento dei diritto – esaurita innanzi al giudice ordinario – o quella diretta all’annullamento di un provvedimento – fatta valere innanzi al giudice amministrativo – costituissero una fase autonoma rispetto alla fase di realizzazione delle pretese sostanziali (per il tramite di un procedimento esecutivo o di un giudizio di ottemperanza): componendo un contrasto, la Cassazione in funzione regolatrice ha statuito che i due procedimenti – di cognizione/annullamento e di ese- cuzione/ ottemperanza – debbono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonome, cosi che, da un lato, le durate dei predetti giudizi non potrebbero sommarsi tra loro; dall’altro, che solo al momento del formarsi di decisioni definitive di ciascun procedimento – e fatto salvo il rispetto del termine semestrale di cui all’art. 4 l. n. 89/2001 – sarebbe possibile, in relazione a ciascuno di essi, domandare l’equa riparazione di cui all’indicata normativa.
I.b. Al fine di pervenire a tale soluzione interpretativa, le Sezioni unite hanno richiamato il vincolo confor- mativo per il giudice comune rappresentato dal rispetto delle pronunce della Cedu, negando però che nelle de- cisioni di tale Corte fosse stato affermato il principio generale secondo il quale nel. concetto di giusto processo potessero rientrare la fase di cognizione e quella di attuazione della posizione giuridica soggettiva nella prima fatta valere; rimarcando piuttosto che la detta considerazione unitaria andasse applicata ai soli giudizi interni di ripristino dei danni da lesione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, dunque in una prospettiva di effet- tività, imposta dall’art. 13 di essa e non già dall’art. 6, c. 1; hanno infine sottolineato i caratteri distintivi, nel diritto interno, tra processo di cognizione, fase esecutiva; giudizio amministrativo e giudizio di ottemperanza.
I.c. Le Sezioni unite, con la richiamata decisione del 2014 – che aveva ad oggetto la domanda di equa riparazione diretta ad ottenere soddisfazione per il ritardo (oltre sei mesi e cinque giorni dopo la definitività del procedimento di cui alla l. n. 89/2001) con il quale era stato concretamente versato l’indennizzo ex lege “Xxxxx”, dopo che il ricorrente era stato costretto ad intraprendere un’azione esecutiva, esauritasi in un termine da ritenersi di per sé congruo (quattro mesi) – hanno statuito:
1. il principio di effettività della tutela giurisdizionale comprende qualsiasi attività processuale prevista dall’ordinamento, volta a rendere concreta la realizzazione dei diritti azionati;
2. l’esecuzione forzata, come stabilito dalla Corte costituzionale (sent. n. 321/1998 e n. 198/2010) deve ritenersi costituzionalmente necessaria, in quanto connotato intrinseco della funzione giurisdizionale;
3. la Corte Edu, in numerose pronunce – e in particolare nella sentenza Cocchiarella c. Italia della Grande Camera del 29 marzo 2006 – ha ribadito che la fase di esecuzione costituisce parte integrante del processo ai fini dell’art. 6 della Convenzione, sottolineando l’unicità del procedimento;
4. il procedimento giurisdizionale, secondo una ricostruzione costituzionalmente e convenzionalmente orientata, rispettosa degli artt. 24 e in Cost., nonché dell’art. 6 della Convenzione, così come declinato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, deve essere considerato come un unicum che ha inizio con l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione, definitiva e obbligatoria;
5. il giudizio di xxxx riparazione costituisce un’applicazione dei principi sopra esposti, così come indicato in numerose sentenze Cedu, nelle quali si afferma che nei ricorsi in tema di durata della causa civile, il pro- cedimento di esecuzione costituisce la seconda fase del procedimento e il diritto rivendicato diventa effettivo soltanto al momento dell’esecuzione;
6. può essere integrata la violazione dell’art. 6 della Convenzione sotto l’autonomo profilo del diritto all’e- secuzione delle decisioni interne esecutive anche nei casi di ritardo nel pagamento dell’indennizzo per irragio- nevole durata del procedimento.
II. Va innanzitutto messo in rilievo che secondo attenta dottrina è la violazione del termine ragionevole, contemplata dall’art. 6, par. I della Convenzione e non già del diritto all’esecuzione delle decisioni interne (esecutive) ad essere ricompresa nella fattispecie costitutiva del diritto all’equa riparazione ex art. 2, c. 1, l. n. 89/2001 – dando quindi coerenza alla decisione delle Sezioni unite del 2014 di rinviare alla tutela euro unitaria il mancato rispetto del termine per l’esecuzione spontanea delle decisioni di condanna ex lege Xxxxx.
III. La questione posta dalla sezione semplice attiene in sostanza alla compatibilità tra la struttura del pro- cedimento “Pinto” (nella formulazione anteriore alla novella introdotto con il d.l. n. 83/2012, convertito dalla
l. n. 134/2012) con i principi di derivazione convenzionale – Cedu – in merito alla qualificazione funzionale della nozione di “decisione definitiva”: in particolare costituisce oggetto di scrutinio il verificare se la disciplina statuale che prevede un termine di decadenza semestrale dalla definitività del giudizio debba in generale rife- rirsi all’esito del procedimento complesso (accertamento + esecuzione) o se, posto tale principio, possa però assumere rilievo anche la condotta non attiva della parte, tenuta dopo la irretrattabilità della fase di cognizione e prima della fase di esecuzione; se, in altri termini, la dislocazione temporale del dies ad quem della defini- tività del giudizio come sopra indicato non trovi un limite nel maturarsi, tra una “fase” e l’altra, del termine semestrale previsto dall’art. 4 della originaria formulazione della l. n. 89/2001.
IV. Per dare una soddisfacente risposta alla questione si deve partire dall’analisi delle decisioni della Corte di Strasburgo che hanno avuto modo di enucleare il principio della indifferenza della distinzione, anche con- cettuale, tra fase di cognizione e fase di esecuzione: dalla lettura di tali decisioni emerge che la preoccupazione della Cedu è sempre stata quella di evitare che una diversa accezione del termine “giudizio definitivo” potesse lasciare non soddisfatta la porzione procedimentale diretta alla esecuzione di un diritto – o di una posizione di interesse legittimo – che aveva formato oggetto di accertamento nella precedente fase: va al proposito os- servato che le prime sentenze Cedu che così avevano pronunciato – v. casi Di Pale c. Italia; Xxxxxx e Italia, richiamate da Cocchiarella c. Italia – avevano riguardato casi iniziati e trattati prima della emanazione della l.
n. 89/2001 e che quindi dovevano dare applicazione al generico termine decadenziale previsto dall’art. 26 (ora 35) della Convenzione; una volta che, con la citata legge dello Stato, è stato disciplinato un termine interno alla procedura e soprattutto si è – sino alla modifica introdotta con la novella del 2012 – consentito di iniziare il giudizio per ingiustificata durata del processo anche in caso di pendenza del procedimento presupposto, la Cedu non ha avuto più modo di calibrare il concetto della predetta unità funzionale (id est: funzionale alla realizzazione dell’interesse della parte) con le norme di sbarramento interno che – del tutto lecitamente – col- legavano alla inerzia ingiustificata del “danneggiato” protratta oltre sei mesi da una decisione irretrattabile, la sanzione della decadenza, lasciando per contro libertà ai singoli Stati di perseguire con iter procedimentali di scelta – fermo comunque restando il parametro della effettività della tutela – il perseguimento di quella tutela (che in Italia e altri paesi aveva assunto la connotazione esclusivamente risarcitoria).
V. Va altresì aggiunto che in sede Cedu l’assunto dell’unicità funzionale – nei sensi sopra esposti – della fase di cognizione e di quella di esecuzione non sempre ha avuto univoche applicazioni: nel caso Malama c. Grecia dell’1 maggio 2001 la Corte Xxx espressamente escluse che la decadenza ex art. 35 della Convenzione fosse impedita dalla mancata esecuzione della decisione oramai irrevocabile, dichiarando inammissibile per tardività la doglian- za relativa all’irragionevole durata del processo: i primi commentatori di tale arresto hanno evidenziato che nella fattispecie la Cedu avrebbe ritenuto che il processo fosse addivenuto alla “decisione interna definitiva” nonostante la mancata realizzazione del diritto a favore della parte vittoriosa; in altri casi – Veretennikov c. Russia – del 12 marzo 2009 (in cui pure era stata lamentata l’eccessiva durata del procedimento, comprensivo di cognizione ed esecuzione, sia del ritardo nell’esecuzione della sentenza irrevocabile), la Corte Edu ha limitato la valutazione del termine ragionevole, al solo processo di cognizione, considerando dunque la durata del procedimento esecu- tivo nel diverso ambito della doglianza di violazione al “diritto all’esecuzione”; altre volte ancora – caso Xxxxxx Xxxxxx x. Xxxxxx 19 febbraio 2013 – la Corte Edu ha riqualificato l’unica doglianza di violazione del termine ragionevole del processo, esaminando la fattispecie solo sotto il profilo del diritto all’esecuzione.
VI. Emerge allora da quanto precede, da un lato una variegata gamma di soluzioni adottate dalla Cedu che si pongono in un’ottica diversa da quella, asseritamente monolitica, della unicità procedimentale tra cognizione ed esecuzione ai fini qui in discussione; dall’altro, il persistente rilievo delle norme procedurali nazionali: come criterio generale va confermato (di recente, x. Xxxx., Sez. VI-2, ord. n. 165/2016) il principio secondo il quale la necessità di un’interpretazione (costituzionalmente e quindi) convenzionalmente orientata dell’istanza na- zionale di protezione, portata dallo sbarramento del termine semestrale di decadenza, non deve implicare l’ab- bandono delle tradizioni giuridiche e delle strutture processuali proprie di ciascun paese membro, quante volte l’opzione risarcitoria in chiave conformativa possa realizzarsi nel rispetto delle une e delle altre (v. la pronuncia della Grande Chambre della Corte Edu del 29 marzo 2006, ricorso n. 62361/00, caso Xxxxxxxx Pizzati c/Italia, secondo cui “quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un mezzo di ricorso interno, la Corte deve lasciargli un più ampio margine di apprezzamento così da consentirgli di organizzare il mezzo di ricorso in un modo coerente con il proprio sistema giuridico e con le sue tradizioni”; detta residua area di potestà discrezionale del legislatore emerge nei casi in cui la conformazione del diritto interno alla Convenzio- ne non sia imposta dalla fonte o dalla completa sovrapponibilità delle fattispecie (“a rime obbligate”, secondo l’icastica espressione della Corte delle leggi, utilizzata nella sentenza “monito” n. 30/2014).
VII. La salvezza della specificità – anche storica – delle regole procedimentali adottate dallo Stato, pone il problema che ne occupa in un’ottica di compatibilità interpretativa dei criteri procedimentali nazionali e gli indirizzi eurounitari.
VIII. Tale analisi non può essere superata accogliendo la sollecitazione – presente nella ordinanza di ri- messione – di sottoporre la questione al vaglio della Corte delle leggi: come ricordato di recente da Xxxx., Sez. VI-2 ord. n. 165/2016, l’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizio- ne si colloca (sent. n. 1/2013 e n. 219/2008 della Corte delle leggi): l’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sent. Corte cost., n. 49/2015), ma appartiene pur sempre al novero delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Solo ove, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire la Corte delle leggi della relativa questione di legittimità costituzionale (v., di recente, Corte cost. n. 36/2016).
IX. Ritiene però la Corte che possa pervenirsi a tale risultato conciliativo, così che il disagio interpretativo messo in rilievo dalla sezione remittente possa trovare efficace e convincente soluzione.
X. A seconda della condotta delle parti, il procedimento presupposto può essere considerato unitariamente o separabile in “fasi”: se la parte lascia decorrere un termine rilevante – che va commisurato in quello di sei mesi, previsto dall’art. 4 l. n. 89/2001 – dal momento oltre il quale un procedimento diviene irrevocabile per il diritto interno, la stessa non può poi far valere la ingiustificata durata (anche) di quel procedimento; se in- vece detta parte si attiva prima dello spirare di quel termine, al fine di procedere all’esecuzione, allora non si forma la sopra indicata soluzione di continuità nel procedimento finalisticamente considerato come un unicum e dunque può procedersi alla valutazione unitaria dello stesso ai fini della delibazione della sua complessiva
ingiustificata durata (per un’applicazione di tale approccio interpretativo, sia pure nella prospettiva di un ri- medio straordinario di impugnazione, quale la revocazione nell’ambito del giudizio pensionistico innanzi alla Corte dei conti, x. Xxxx., Sez. V-2, n. 25179/2015): in tale ipotesi dunque deve ritenersi che riprenda vigore la decadenza prevista dall’art. 4 della legge, con la conseguenza della perdita del diritto di far valere l’eventuale durata non ragionevole del procedimento di cognizione: detta preclusione, va aggiunto, non presuppone una presunzione di disinteresse a far valere l’indebita durata del processo di cognizione, atteso che il meccanismo sanzionatorio previsto dall’art. 4 l. n. 89/2001 è posto a tutela dell’interesse allo stabilizzarsi delle situazioni giuridiche, le volte in cui esse possano essere in sé suscettibili di valutazione a fini indennitari.
XI. Consegue allora che l’art. 4 l. n. 89/2001, nella formulazione anteriore alla modifica del 2012, allor- quando stabilisce la decadenza dal diritto all’indennizzo per inosservanza del termine ultrasemestrale, pre- suppone una valutazione normativa di come si articola il nesso tra cognizione ed esecuzione nella concreta fattispecie, esaminandolo nella prospettiva dell’azione e non già del diritto: prospettiva del tutto legittima, le volte in cui con essa non si creino degli irragionevoli ostacoli alla realizzazione del secondo; un diverso ap- proccio interpretativo – che impedisse ogni valutazione della condotta delle parti tenuta tra la irrevocabilità del procedimento di cognizione e quello di esecuzione, oltre a porre le premesse di una irragionevole eliminazione dall’ordinamento nazionale di un meccanismo acceleratorio della definizione del contenzioso “Pinto” – mec- canismo non sconosciuto alla Cedu, come dimostra la lettura dell’art. 41 della Convenzione porrebbe le basi per un uso abusivo del diritto (concetto non estraneo alla giurisprudenza della Cedu: nella causa Rubeca c. Italia 10 maggio 2012, la Corte ha dichiarato abusivo un motivo di ricorso sull’applicazione della legge Xxxxx in ragione del fatto che il ricorrente aveva omesso di informare la corte d’appello di una circostanza essenziale riguardo la ricevibilità del suo ricorso “Pinto”, aggirando le norme procedurali che regolano il rimedio nazio- nale e ottenendo, così, un indennizzo per la violazione del termine ragionevole ai sensi dell’art. 6, par. 1, della Convenzione; la Corte Edu ha inoltre affermato che il carattere abusivo di un ricorso può dipendere, almeno in parte, dall’uso delle vie di ricorso interne da parte del ricorrente nonché dalla sua condotta dinanzi le autorità giudiziarie nazionali (x. Xxxx c. Germania 19 gennaio 2010; Xxxxx (VIII) c. Germania del 23 novembre 2010: decisioni richiamate nella causa Cavaliere c. Italia del 12 novembre 2013), le volte in cui il periodo tra fase di cognizione e quello di esecuzione fosse maggiore di sei mesi, tenuto anche conto della possibilità di far valere la lesione del diritto ad una celere realizzazione della propria posizione soggettiva entro il termine decennale del giudicato.
XI.a Va altresì ricordato che più volte la Corte Xxx ha rimarcato che “Quando uno Stato ha compiuto un passo significativo introducendo un rimedio risarcitorio, la Corte deve lasciare allo Stato un margine di valu- tazione più ampio per consentirgli di organizzare il rimedio in un modo coerente con il proprio ordinamento giuridico [...]” e “[...] può effettivamente avvenire che le regole di procedura applicabili non siano esattamente le stesse di quelle relative alle richieste ordinarie di risarcimento danni. Sta ad ogni Stato decidere, sulla base delle norme applicabili nel proprio sistema giudiziario, quale sia la procedura che rispetti al meglio il carattere obbligatorio di “effettività” [...]» (Grande Camera, sent. 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
XII. L’indubbiamente nuova – rispetto ai precedenti costituiti da S.U. n. 27365 e n. 27348/2009 – prospettiva posta dalla sentenza di queste Sezioni unite del 2014, con più stretta aderenza ai principi Cedu – nei termini più sopra messi in rilievo – in materia di unicità procedimentale in senso finalistico, non può dunque essere intesa in senso assoluto, vale a dire tralasciando la valutazione delle differenze – strutturali e di finalità – che nell’ordinamento nazionale permangono tra il giudizio di cognizione e il procedimento di esecuzione, quale emerge anche dal valore del temine “decisione” usata dal legislatore nell’ambito dell’art. 4 l. n. 89/2001: proprio tenendo a mente queste dif- ferenze si può fornire un’esegesi di tale norma – nella formulazione anteriore alla riforma del 2012 – tale consentire un diverso rilievo della collocazione del termine di decadenza al momento del definitivo accertamento del diritto o al momento della definitiva realizzazione dello stesso, in dipendenza della condotta tenuta dalla parte; predicando invece un rigido rinvio al principio “unitario” ritenendo con ciò solo di rafforzare la tutela del diritto al ristoro per la durata non congrua del processo- e dunque collocando lo spirare del termine semestrale all’esito della fase di esecuzione – se essa abbia avuto luogo – o, addirittura, solo allorché quel diritto irrevocabilmente accertato sia stato soddisfatto, si determinerebbe un vulnus al principio della certezza delle situazioni giuridiche.
XIII. Posti i principi sopra indicati, vanno respinti i primi due profili (indicati alle lett. a e lett. b dei conclusivi – pur se superflui, ragione temporis – quesiti ex art. 366-bis c.p.c.) dell’unico motivo di ricorso,
con i quali sono state denunciate la violazione e la mancata applicazione degli artt. 2, 4 e 6 l. n. 89/2001 nonché dell’art. 6, par. l, e dell’art. 13 – sull’effettività della tutela – della convenzione Edu, in ragione della ritenuta disapplicazione da parte della Corte territoriale dei principi enucleati dalla Cedu in materia di uni- cità del procedimento di cognizione – esecuzione nei sensi sopra divisati; stante poi la interpretazione delle norme di riferimento quale quella innanzi esposta – che costituisce, calata nella fattispecie, il parametro di riferimento per valutare la sufficienza e la generale congruità della motivazione – va altresì respinto il terzo profilo (indicato con la lett. c).
XIII.a I successivi profili – punti d) ed e) dei surrichiamati “quesiti” – relativi a vizi di motivazione in cui sarebbe incorsa la Corte del merito nell’individuare la responsabilità della ricorrente nel protrarsi della fase esecutiva – sono del pari infondati in quanto la Corte territoriale ha congruamente e in modo logico valutato la condotta tenuta dalla ricorrente nella fase di esecuzione, mettendo in rilievo: che l’attuazione dell’ordine di demolizione aveva posto problemi tecnici in quanto il fabbricato da demolire parzialmente era adiacente ad un rudere di proprietà della stessa ricorrente; che a seguito di accertamento tecnico era risultato che la demolizione parziale non avrebbe potuto essere realizzata se non danneggiando la statica dell’intero edificio; che per procedere comunque alla esecuzione era stato necessario acquisire i necessari assensi amministrativi e procedere alla nomina di due consulenti d’ufficio, un architetto e un geologo; che le indagini peritali e in particolare le perforazioni esplorative non avevano potuto essere eseguite a causa delle condizioni pericolanti dell’edificio adiacente, di proprietà della ricorrente; che non era stato possibile procedere tempestivamente all’ispezione di quest’ultimo immobile per mancata collaborazione della ricorrente; che nel corso del procedimento esecutivo era stato depositato dalla predetta un progetto di demolizione di tale edificio, in ordine al quale dovevano attendersi le debite autorizzazioni ammini- strative: in mancanza di queste ultime e del successivo abbattimento del fabbricato della Xxxxx, non era stato dunque possibile procedere all’esecuzione forzata della sentenza definitiva di demolizione parziale dell’immobile illegalmente sconfinante.
XIII.b L’ultimo profilo – lett. f) dei “quesiti” – attiene al governo delle spese che parte ricorrente assume esser stato retto da motivazione “aberrante/errata” o anche “illegittima, errata, insufficiente o contraddittoria” per non aver, la Corte territoriale, operato una compensazione: la doglianza, oltre ad essere esposta in modo non congruo rispetto al vizio lamentato, è infondata in quanto è conforme a norma la decisione di seguire il principio della soccombenza in caso di reiezione totale della domanda, essendo per contro la compensazione delle spese ad essere oggetto dell’esercizio di un potere discrezionale del giudice, debitamente motivato.
XIV. La considerazione dell’esito del giudizio, mediato dalla complessità delle questioni trattate e delle soluzioni interpretative adottate, consente di operare una completa compensazione delle spese.
P.q.m., rigetta il ricorso e compensa le spese.
II
Cass., Sez. VI, 27 luglio 2016, n. 15643
Svolgimento del processo – Omissis con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Perugia chiedeva la condanna del Ministero dell’economia e delle finanze al pagamento dei danni morali derivanti dalla irragione- vole durata di un giudizio avente ad oggetto il diniego della pensione privilegiata, di cui al decreto n. 904 del 26 novembre 1979, iniziato dinnanzi alla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania con ricorso del 10 febbraio 1980, deciso con sentenza di rigetto depositata il 31 marzo 2009.
L’adita corte d’appello, respingeva la domanda, ritenendo che il giudizio fosse stato proposto dal ricorrente nella consapevolezza della sua infondatezza, avendo egli dedotto una dipendenza da causa di servizio di pa- tologia, otite, della quale aveva dichiarato egli stesso all’anamnesi di essere affetto già in epoca antecedente all’arruolamento, sicché nessun paterna d’animo il ricorrente poteva aver subito per effetto del protrarsi del giudizio stesso.
Per la cassazione di questo decreto l’Omissis ha proposto ricorso, sulla base di due motivi. Il Ministero dell’economia e delle finanze ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione – La presente sentenza è redatta con motivazione semplificata così come disposto dal collegio in esito alla deliberazione in Camera di consiglio.
Con il primo e il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 l.
n. 89/2001, nonché degli artt. 24 e 101 Cost. e degli artt. 6, 13 e 41 Cedu, oltre a vizio di motivazione, per non avere la corte di merito tenuto conto che il diritto all’equa riparazione non è subordinato alla fondatezza delle pretese o delle eccezioni sollevate nel processo presupposto che ha avuto durata irragionevole.
I due motivi giacché censurano la medesima circostanza in fatto, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fon- dati alla stregua dei rilievi che seguono. Nella giurisprudenza di questa Corte il diritto all’equa riparazione è escluso per ragioni di carattere soggettivo: a) nel caso di lite temeraria (v., fra le tante, Cass., n. 28592/2011; n. 10500/2011 e n. 18780/2010), cioè quando la parte abbia agito o resistito in giudizio con la consapevolezza del proprio torto o sulla base di una prete sa di puro azzardo; b) nell’ipotesi di causa abusiva (cfr., tra le tante, Cass., n. 7326/2015; n. 5299/2015; n. 23373/2014), che ricorre allorché lo strumento processuale sia stato utilizzato in maniera distorta, per lucrare sugli effetti della mera pendenza della lite; e c) in tutte le ipotesi in cui la specifica situazione processuale del giudizio di riferimento dimostri in positivo, per qualunque ragione, come la parte privata non abbia patito quell’ef- fettivo e concreto pregiudizio d’indole morale, che è conseguenza normale, ma non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo (v., per tutte e da ultimo, Cass., n. 7325/2015).
Da ultimo, inoltre, il c. 2-quinquies, aggiunto all’art. 2 l. n. 89/2001 dall’art. 55, c. 1, lett. a), n. 3, d.l. n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla l. n. 134/2012, ha previsto, con elencazione da ritenersi non tas- sativa, talune ulteriori ipotesi di esclusione dell’indennizzo, in presenza delle quali il giudice non dispone di margini d’apprezzamento della fattispecie.
Tra queste non rientra quella della manifesta infondatezza della domanda.
Pur precisando che nella specie non trova applicazione il dato positivo attuale (ratione temporis), i prece- denti indirizzi di questa Corte si confermano nel senso che solo se qualificata dal requisito ulteriore di temera- rietà o di abusività la domanda manifestamente infondata osta al riconoscimento di un’equa riparazione.
La corte di merito si è allontanata da tale ricostruzione della disciplina, estendendo (in difetto di un adegua- ta previsione normativa o di orientamento giurisprudenziale) il divieto d’indennizzo all’ipotesi di manifesta infondatezza della domanda.
Il decreto impugnato va dunque cassato con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Perugia, che nel procedere ad un rinnovato esame di merito, pur nella vigenza della originaria disciplina, si atterrà al principio di diritto di seguito esposto: “in materia di equa riparazione per durata irragionevole del processo, l’indennizzo è escluso per ragioni di carattere soggettivo nell’ipotesi di lite temeraria, di causa abusiva o nel caso ricorrano altre ragioni che dimostrino in positivo la concreta assenza di un effettivo pregiudizio d’indole morale. Non vi rientra il caso della manifesta infondatezza della domanda, la quale, ove non qualificata dall’ulteriore requisito di temerarietà o di abusività della lite, costituisce null’altro che il giudizio critico o di verità che la sentenza di merito esprime sulla postulazione contenuta nella domanda stessa”.
Al giudice di rinvio è rimesso, ai sensi dell’art. 385, c. 3, c.p.c., anche il regolamento delle spese di cassazione.
P.q.m., la Corte, accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione.
9148 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 6 maggio 2016; Pres. Canzio, Est. Xxxxxxx, P.M. Del Core (concl. conf.); Xxxxxxxxxxx c. Proc. gen. Corte dei conti.
Dichiara inammissibile ricorso avverso Corte conti, Sez. II centr. app., 11 febbraio 2014, n. 55.
Giurisdizione e competenza – Processo contabile – Condanna del convenuto – Istanza di definizione agevolata della controversia – Rigetto – Ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione – Inam- missibilità del ricorso.
Cost., art. 111; c.p.c., art. 360; l. 23 dicembre 2005 n. 266, disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006), art. 1, cc. 231, 232.
È inammissibile il ricorso per cassazione avverso una sentenza della Corte dei conti che abbia rigettato, in quanto tardiva, l’istanza di definizione agevolata, ex art. 1, c. 231, l. n. 266/2005, di un giudizio di condanna
per responsabilità erariale, poiché detta norma non è una norma sulla giurisdizione, ma solo esplicativa di una modalità procedimentale interna al giudizio contabile. (1)(1)
Svolgimento del processo – Con sent. 11 febbraio 2014 la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale centrale d’appello ha respinto i gravami interposti dai signori Xxxxxx Xxxxxxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx in relazione alla pronunzia della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Campania n. 2272/2007, di condanna al risarcimento del danno erariale “per le spese sostenute dalla Provincia di Napoli per oneri di guardiania cagio- nate dall’ingiustificato protrarsi del periodo di sospensione lavori – dal 26 luglio 1984 al 20 aprile 2000, ossia per 16 anni – del cantiere per la costruzione di un edificio scolastico multifunzionale localizzato nel Comune di Portici, del quale la Provincia di Napoli aveva approvato, nella seconda metà del 1980, il progetto e il capi- tolato speciale per l’appalto per un importo a base d’asta di lire 7.090.000.000”.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il Xxxxxxxxxxx propone ora ricorso per cassazione ex
art. 111 Cost., affidato ad unico motivo, illustrato da memoria.
Resiste con controricorso la Procura generale presso la Corte dei conti.
Motivi della decisione – Con unico motivo il ricorrente denunzia “error in ludicando per difetto di giuri- sdizione”, in riferimento all’art. 360, c. 1, n. 1, c.p.c.; nonché violazione degli artt. 111 Cost., 1, cc. 231 e 232, l. n. 266/2005.
Si duole che i giudici contabili abbiano erroneamente ritenuto «tardiva, “in quanto domanda nuova pro- posta per la prima volta in udienza dopo l’apertura della discussione (artt. 183, c. 5, e 359 c.p.c.)”», l’istanza di definizione agevolata (c.d. condono) della controversia ex art. 1 l. n. 266/2005, laddove non risultano a tali fini indicate “norme di rito” ma solo “i presupposti per la presentazione e l’accoglimento della stessa”, sicché “l’unico termine da osservare era quello per il deposito, che è stato rispettato, visto che la notifica è stata effet- tuata il 22 gennaio e (anche a voler prendere in considerazione il deposito in udienza) il deposito è avvenuto il 6 febbraio, rispettando il termine perentorio”.
Lamenta che non essendo stata “esaminata nel merito” siffatta istanza, “la Corte dei conti ha di fatto [...] rifiutato di erogare la tutela giurisdizionale richiestale dall’odierno ricorrente, cosi violando i limiti esterni della giurisdizione”.
Il ricorso è inammissibile.
Come queste Sezioni unite hanno già avuto modo di affermare, la norma sulla definizione agevolata (c.d. condono) della controversia ex art. 1 l. n. 266/2005 non costituisce una norma sulla giurisdizione, bensì una modalità procedimentale di definizione del giudizio contabile la cui eventuale violazione prospetta una que- stione interna allo stesso processo, con tutela assicurata nell’ambito del medesimo (x. Xxxx., S.U., 14 gennaio 2015, n. 476).
Ne consegue che l’accertamento in ordine a errores in procedendo o in iudicando lamentati per l’asserita violazione da parte del giudice contabile di tale disciplina ex art. 1, cc. 231 e 232, l. n. 266/2005 rientra nell’am- bito del sindacato afferente i limiti interni di detta giurisdizione (x. Xxxx., S.U., 9 giugno 2011, n. 12539), e non già dell’eventuale sconfinamento dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte di tale giudice, ovvero dell’esistenza stessa di vizi riguardante l’essenza della relativa funzione giurisdizionale (x. Xxxx., S.U., 10 giugno 2013, n. 14503; 21 giugno 2010, n. 14890).
Risponde d’altro canto a principio consolidato che è inammissibile il ricorso per cassazione il quale si fondi su vizi processuali relativi a violazioni dei principi costituzionali del giusto processo, quali quelli che ledono il contraddittorio tra le parti o la loro parità di fronte al giudice o l’esercizio del diritto di difesa, trattandosi di violazioni endoprocessuali rilevabili in ogni tipo di giudizio, al pari di tutti gli altri errores in procedendo e non inerenti all’essenza della giurisdizione o allo sconfinamento dai limiti esterni di essa ma solo al modo in cui è stata esercitata (v., con particolare riferimento ai giudizi avanti alla Corte dei conti, da ultimo, Cass., S.U., 14 gennaio 2015, n. 476. E già Cass., S.U., 9 giugno 2011, n. 12539).
È pertanto inammissibile il ricorso per cassazione come nella specie prospettante, mediante la denunzia di dedotti errores in iudicando o in procedendo, non già un’assenza di tutela giurisdizionale bensì le modalità con
(1) Nello stesso senso, v., citate in motivazione, Cass., S.U., 14 gennaio 2015, n. 476, in Rep. Foro it., 2015, voce Responsabilità contabile e amministrativa, n. 20; 10 giugno 2013, n. 14503, in questa Rivista, 2013, fasc. 5-6, 543.
cui la tutela è stata erogata, non risultando in tal caso integrata una questione di giurisdizione sindacabile da parte delle Sezioni unite della Corte suprema di cassazione.
Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese, stante la natura di parte soltanto in senso formale del controricorrente procuratore generale rappresentante il pubblico ministero presso la Corte dei conti.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012,
n. 228, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore im- porto a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis dello stesso art. 13.
P.q.m., la Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012,
n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis dello stesso art. 13.
9280 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 9 maggio 2016; Pres. Canzio, Est. Xxxxxxx, P.M. Del Core (concl. conf.); Manenti c. Proc. gen. Corte dei conti.
Dichiara inammissibile ricorso avverso Corte conti, Sez. app. reg. Sicilia, 27 marzo 2014, n. 447.
Giurisdizione e competenza – Processo contabile – Sentenza di condanna – Ricorso per cassazione per motivi di giurisdizione – Proposizione per la prima volta in Cassazione – Inammissibilità del ricorso. Cost., artt. 103, 111; c.p.c., art. 360; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, art. 13; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.l. 23 ottobre 1996 n. 543, convertito con modificazioni dalla l. 20 dicembre 1996 n. 639, disposizioni
urgenti in materia di ordinamento della Corte dei conti, art. 3.
È inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità, a seguito di pronuncia di condanna in appello in un giudizio di responsabilità amministrativa, stante il giudicato implicito formatosi sulla pronunzia di merito per la mancata impugnazione della pregressa pronunzia resa sul merito, nel presupposto implicito sulla giurisdizione medesima. (1)(1)
Svolgimento del processo – Con sent. 27 marzo 2014 la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana, in parziale accoglimento del gravame interposto dai signori Xxxxxxx Xxxxx e Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx e in conseguente parziale riforma della pronunzia Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione siciliana n. 447/2012, ha rideterminato in diminuzione l’ammontare liquidato a loro rispettivo carico in primo grado a titolo di danno erariale, e in particolare, per quanto in questa sede ancora d’interesse, a carico del Manen- ti, per aver “arbitrariamente disposto, con la delib. n. 88/2002, un accreditamento provvisorio della clinica Villa Santa Xxxxxx di Bagheria e di averle per ciò stesso consentito di erogare prestazioni di altissima specializzazione in regime convenzionale di assistenza diretta e di aver delegato il direttore pro tempore del distretto di Bagheria, xxxx. Xxxxx, a concordare le tariffe per prestazioni di alta specializzazione non previste nel tariffario regionale”.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il Manenti propone ora ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo, illustrato da memoria.
Resiste con controricorso la Procura generale presso la Sezione giurisdizionale d’appello per la Regione siciliana.
L’altro intimato non ha svolto attività difensiva.
(1) Nello stesso senso, x. Xxxx., S.U., 16 gennaio 2014, n. 772, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 494, con nota di richiami; nonché Cass., S.U., 5 aprile 2013, n. 8363, in Rep. Foro it., 2013, voce Giustizia amministrativa, n. 1403, che ha dichiarato inam- missibile il ricorso per cassazione contro la decisione del Consiglio di Stato con cui, pur dichiarandosi irricevibile per tardività il proposto appello, era stata rigettata l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo proposta per la prima volta con l’atto di impugnazione, essendosi formato un giudicato interno in ordine della giurisdizione, non più contestabile neppure ai sensi degli artt. 111, u.c., Cost., e 362, c. 1, c.p.c.
Motivi della decisione – Con unico motivo il ricorrente denunzia violazione degli artt. 13 r.d. n. 1214/1934, 1 l. n. 20/1994, come sostituito dall’art. 3 l. n. 543/1996, nel testo integrato dalla l. n. 639/1996, 103, 111 Cost., in relazione all’art. 360, c. 1, n. 1, c.p.c.
Si duole che, non essendovi stata alcuna “relazione di servizio o funzionale che abbia mai legato il xxxx. Xxxxxxx, direttore generale dell’Ausl 6 di Palermo, a Villa Santa Xxxxxx s.r.1., società di diritto privato [...] e per essa allo Stato”, né avendo la sua condotta “avuto alcun ruolo o collegamento finalistico rispetto all’autonoma decisione della società predetta di stipulare l’atto di transazione che nel ragionamento seguito da detto giudice, avrebbe determinato, sub specie di atto di liberalità atipico, il danno erariale”, e altresì in assenza “di un danno direttamente o indirettamente arrecato dallo stesso allo Stato, l’accertamento della sussistenza o meno della responsabilità del xxxx. Xxxxxxx nei confronti di Villa Santa Xxxxxx s.r.l., e per essa dello Stato, [...] non appar- tiene certamente al giudice contabile”.
Lamenta che, come ripetutamente affermato dalle S.U., “il danno inferto dagli organi della società al pa- trimonio sociale non è idoneo a configurare anche un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti perché non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci – pubblici o privati – i quali sono univocamente titolari delle quote di partecipazione e i cui originari con- ferimenti restano confusi e assorbiti nell’unico patrimonio sociale”.
Si duole non essersi considerato che “le società di capitali costituite e comunque partecipate da enti pubblici per il perseguimento delle finalità loro proprie [...] non cessano sol per questo di essere delle società di diritto privato, la cui disciplina [...] riposa tuttora sulle norme dettate dal codice civile”.
Lamenta spettare “al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all’azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica, poiché in tal caso non è configurabile un danno direttamente arrecato allo Stato o ad un ente pubblico, nella qualità di socio, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti”. Si duole non essersi considerato che “Villa Xxxxxx x.r.l., sia prima che dopo la confisca definitiva, non è retta da una qualche disciplina legale che la collochi su di un piano significativamente diverso da quello delle altre società private a partecipazione pubblica cui siano stati affidati in connessione pubblici servizi, né pre-
senta le caratteristiche che consentano di qualificarla come società in house o, comunque, organismo di diritto pubblico”.
Lamenta che il danno asseritamente “sofferto da Villa Santa Xxxxxx s.r.l. e [...] traslato allo Stato in quanto socio unico, non è idoneo a configurare un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti perché in realtà non implica alcun danno erariale, bensì unicamente un danno sofferto da un soggetto privato”, sicché “deve escludersi che nel caso in esame sussista la giurisdizione del giudice contabile”.
Il ricorso è inammissibile.
Emerge dagli atti che la Sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei conti per la Regione siciliana ha con l’impugnata sentenza condannato (oltre allo Xxxxx anche) l’odierno ricorrente al pagamento di somma a fa- vore dello Stato, e per esso dell’agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.
Il Manenti è stato in particolare ritenuto responsabile per avere, nella sua qualità di direttore generale dell’Ausl n. 6 di Palermo, unitamente ad altri dirigenti sanitari attivato un rapporto di accreditamento prov- visorio con la società Villa Santa Xxxxxx, autorizzando l’espletamento presso tale struttura di prestazioni ad altissima specializzazione in regime convenzionale; nonché per avere illegittimamente delegato il coordinatore sanitario del distretto n. di Bagheria (xxxx. Xxxxx) a concordare con la clinica Villa Santa Xxxxxx s.r.l., facente capo al Gruppo Xxxxxx, un sistema tariffario in assenza di previa determinazione di tariffe regionali, con con- seguente corresponsione in favore di quest’ultima di tariffe esorbitanti determinante grave danno all’erario.
Orbene, la questione di giurisdizione risulta posta per la prima volta in questa sede, in violazione del consolidato principio in base al quale è inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la prima volta in sede di legittimità, stante il giudicato implicito formatosi sulla pronunzia di merito per la man- cata impugnazione di una pregressa pronunzia resa esplicitamente sulla giurisdizione, ovvero sul merito, nel presupposto implicito sulla giurisdizione medesima (cfr., con riferimento a differenti ipotesi, Cass., S.U., 28 gennaio 2011, n. 2067; 9 luglio 2008, n. 18758. Cfr., altresì, Cass., 26 settembre 2013, n. 22097; 10 luglio 2013,
n. 17056; 28 settembre 2011, n. 11792).
Né può in contrario assegnarsi rilievo alcuno alla questione, dedotta dal ricorrente nei propri scritti difen- sivi, concernente la mancata formazione (quand’anche implicita) del giudicato sulla giurisdizione per essere l’interesse a sollevare l’eccezione di difetto di giurisdizione della Corte dei conti nella specie insorto secun- dum eventum litis, e cioè sulla base del percorso decisionale in concreto adottato dal giudice dell’appello (in argomento cfr. Cass., S.U., 29 ottobre 2014, n. 22975; 10 settembre 2013, n. 20698; 12 marzo 2013, n. 6081), in ragione dell’individuazione avvenuta solo in tale grado quale soggetto danneggiato dello Stato, all’esito di intervenuta transazione con la quale la società Villa X. Xxxxxx x.r.l., “della quale è socio unico [...] lo Stato”, ha inteso “spontaneamente restituire all’Asp di Palermo somme che, a suo avviso, le sarebbero state indebita- mente corrisposte”.
Atteso che, come queste Sezioni unite hanno già avuto più volte modo di affermare in tema di risarcimento del danno nei confronti della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 386 c.p.c. la giurisdizione va deter- minata in base al petitum sostanziale della domanda (e cioè dello specifico oggetto e della reale natura della controversia, da identificarsi in funzione della causa petendi, in relazione alla protezione accordata dall’ordi- namento alla posizione medesima, a prescindere dalla prospettazione della parte), e pertanto in ragione dell’in- trinseca natura della posizione dedotta in giudizio e individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati (x. Xxxx., S.U., 5 luglio 0000, x. 00000; 11 ottobre 2011, n. 20902; 25 luglio 2011, n. 16168; 25 giugno 2010, n.
15323; 4 gennaio 2007, n. 14. E, da ultimo, Cass., S.U., 7 aprile 2015, n. 6916; 25 febbraio 2016, n. 3732), va sottolineata l’irrilevanza del mutamento nel xxxxx xxx xxxxxxxx xxxxxxxxx xxxx’xxxxxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxxxx (xx Xxxx n. 6 di Palermo, ergo la Regione, in base all’originaria prospettazione; e quindi la Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, ergo lo Stato), trattandosi di questione attinente al merito e nella specie di soggetti entrambi pubblici.
Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese, stante la natura di parte soltanto in senso for- male del controricorrente procuratore generale rappresentante il pubblico ministero presso la Corte dei conti, e non avendo l’altro intimato svolto attività difensiva.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012,
n. 228, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore im- porto a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis dello stesso art. 13.
P.q.m., la Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012,
n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis dello stesso art. 13.
9779 – Corte di cassazione, Sezione I; sentenza 12 maggio 2016; Pres. Salvago, Est. Doxxxxxxx, P.M. Cardino (concl. conf.); Comune di Augusta c. Fisia Italimpianti s.p.a.
Cassa con rinvio App. Catania, 4 novembre 2011, n. 1306.
Contratti pubblici – Appalto – Approvazione dell’ente finanziatore – Natura – Condizione sospensiva del contratto.
C.c., artt. 1353, 1362, 2697.
L’approvazione da parte dell’ente finanziatore del contratto di appalto concluso da un soggetto pubblico (nella specie, il contratto di appalto relativo ai lavori di costruzione dell’impianto di depurazione delle ac- que reflue di un comune risultava privo dell’approvazione della Cassa per il Mezzogiorno, ente finanziatore dell’opera oggetto del contratto) non costituisce elemento integrativo della volontà di stipulare il contratto, ma elemento ad esso estrinseco, che può pertanto sopravvenire alla conclusione, costituendo, in tale circostanza, condizione sospensiva dell’efficacia del contratto stesso(1) (1).
(1) La massima si fonda sul principio, evocato in motivazione, per cui, ove di un contratto concluso da un ente pubblico sia richiesta (dalla legge) o prevista (dalle stesse parti) l’approvazione di un organo o di un soggetto esterno al contratto stesso, essa non costituisce elemento integrativo della volontà di una delle parti contraenti, configurandosi, invece, quale elemento estrinseco al contratto; di conseguenza, l’approvazione, che avviene (di norma) in un momento successivo alla conclusione del contratto, assume
Motivi della decisione – (Omissis) Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 807, 808 c.p.c., 8 1. n. 646/1950, 43 e 47 del capitolato generale di appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici, con riguardo all’affermazione del giudice a quo circa la competenza del giudice ordinario e non di quella del collegio arbitrale.
Con il secondo, violazione degli artt. 1353, 1362, 2697 c.c., là dove la corte d’appello aveva escluso l’inef- ficacia del contratto, pur privo dell’approvazione della Cassa per il Mezzogiorno.
Con il terzo, vizio di motivazione, là dove la corte di merito aveva ritenuto la sussistenza di un inadempi- mento colpevole da parte dell’amministrazione committente.
Con il quarto, violazione della l. n. 431/1985, art. 15 e 16 l. reg. Sicilia n. 78/1976, art. 57 1. reg. Sicilia n. 39/1977, nonché art. 1375 c.c., sostenendo che legittimamente esso comune aveva ritenuto di poter stipulare il contratto, mentre il parere contrario sopravvenuto, da parte della sovrintendenza, costituiva revoca di un precedente parere favorevole.
Con il quinto, violazione dell’art. 28 del capitolato generale di appalto della Cassa per il Mezzogiorno, in ordine alla determinazione dei danni, secondo una errata interpretazione dell’art. 348 l. n. 2248/1865.
Con il sesto, violazione degli artt. 115, 157, 183 e 184 e 194 c.p.c., nonché 2967 c.c., sulla quantificazione dei danni, sollevando varie critiche alla espletata c.t.u.
Il primo motivo è infondato.
Come correttamente chiarisce il giudice a quo, il contratto di appalto de quo fu stipulato in data 8 aprile 1986, nel vigore del testo dell’art. 47, capitolato generale di appalto per le opere di competenza del Ministero dei lavori pubblici, approvato con d.p.r. n. 1063/1962, sostituito dall’art. 16 l. n. 741/1981, in virtù del quale la competenza arbitrale – prevista in via generale dall’art. 43 per tutte le controversie tra amministrazione e appaltatore – che, secondo il precedente tenore dell’art. 47, poteva essere esclusa per volontà unilaterale di ciascuna parte, era sempre e necessariamente operativa, salvo apposita clausola inserita nel bando o invito di gara, ovvero nel contratto, in caso di trattativa privata.
L’arbitrato aveva dunque natura obbligatoria, nel senso che di regola le parti non potevano sottrarsi ad esso, avendo l’art. 9 l. reg. Sicilia n. 21/1973, imposto l’applicazione del capitolato generale d.p.r. n. 1063/1962 per tutte le opere pubbliche eseguite nel territorio regionale (Cass., n. 20050/2010; n. 12031/2004).
Come è noto, la Corte costituzionale, con sent. n. 152/1996, dichiarò costituzionalmente illegittimo l’art. 16 l. n. 741/1981, nella parte in cui stabiliva che la competenza arbitrale non poteva essere derogata con atto unilaterale di ciascuno dei contraenti (per la Regione Sicilia, cfr., Cass., n. 5969 e n. 7535/2002).
i caratteri di una vera e propria condizione sospensiva. In tal senso, con riferimento a contratti per la cui operatività sia richiesta l’approvazione di un’autorità di controllo, v., fra le altre:
Cass., 8 marzo 2016, n. 4539, in Rep. Foro it., 2016, voce Contratti pubblici (lavori, servizi e forniture) e obbligazioni della pubblica amministrazione, n. 21; 24 luglio 2015, n. 15571, ivi, 2015, voce cit., n. 976, secondo cui, in materia di appalto di opere pubbliche, l’approvazione del contratto da parte dell’organo di controllo costituisce, anche in ipotesi di sussistenza delle ragioni di urgenza che consentono, ai sensi dell’art. 337, c. 2, l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, l’esecuzione anticipata dei lavori, condicio iuris dell’efficacia del contratto, sicché, sorgendo solo da tale momento l’obbligazione della stazione appaltante al pagamento del corrispettivo, anche il diritto dell’appaltatore a percepire gli interessi moratori decorre dal ritardo nell’adempimento di tale obbli- gazione e non già dalla anticipata esecuzione dei lavori;
Cass., 12 maggio 2015, n. 9636, in questa Rivista, 2015, fasc. 3-4, 464 (annotata da G.M. Raxxx x X. Xxxxxx, Evoluzioni sulla responsabilità precontrattuale delle pubbliche amministrazioni, in Giur. it., 2015, 1965; e da X. Xxxxxxxxxxxx, Status professionale della pubblica amministrazione ed obbligo di informazione precontrattuale, in Nuova giur. civ., 2015, I, 989), per cui la mancata registrazione del decreto ministeriale di approvazione di un contratto di appalto comporta la totale inefficacia del contratto; in tal caso deve escludersi la risoluzione del contratto per inadempimento del ministero; infatti, in pendenza o assenza di una condicio iuris di efficacia del contratto, come la registrazione o il visto dell’autorità di controllo, il contratto, seppur perfetto nei suoi ele- menti costitutivi, non è suscettibile di risoluzione per inadempimento, poiché questa presuppone la sua eseguibilità ed efficacia, che è esclusa fintantoché quella condizione non si avveri, salva l’eventuale responsabilità precontrattuale dell’amministrazione;
Caxx., 28 novembre 2008, n. 28456, in Foro it., 2009, I, 1758, con nota di richiami, la quale ha ritenuto che, nel caso in cui l’efficacia del contratto individuale di lavoro stipulato con il direttore generale di una Asl sia subordinata all’esito positivo del controllo sul provvedimento regionale di nomina, l’esito negativo del controllo determina l’inefficacia sia del provvedimento, sia del contratto, con conseguente inconfigurabilità, in relazione alla mancata esecuzione del contratto, di un inadempimento imputabile all’amministrazione e del conseguente diritto dell’interessato al risarcimento del danno.
Questa Corte ha successivamente precisato che nei contratti di appalto di opere pubbliche, conclusi ed ese- guiti – come nella specie – anteriormente alla l. n. 109/1994, e soggetti in origine all’art. 16 l. n. 741/1981, ove l’appaltatore, in applicazione del predetto art. 47 nella sua originaria formulazione, avesse proposto la domanda davanti al giudice ordinario, anziché procedere all’istanza di arbitrato, tale domanda, a seguito della predetta di- chiarazione di incostituzionalità dell’art. 16 e in virtù dell’efficacia retroattiva delle pronunce di incostituzionalità, salvo il limite delle situazioni giuridiche consolidate, doveva essere considerata, pur non contenendo una espressa declinatoria della competenza arbitrale, quale atto unilaterale di ciascuno dei contraenti, idoneo ad escludere la competenza arbitrale (al riguardo, tra le altre, Cass., n. 4474/1997 e, successivamente, n. 1166/2013).
Nella specie, la Fisia propose citazione nei confronti del Comune di Augusta davanti al Tribunale di Augu- sta in data 14 giugno 1999 e, con essa, manifestò, all’evidenza, la volontà di declinare la competenza arbitrale: tale scelta, alla luce di quanto osservato, appare pienamente legittima.
Va accolto il secondo motivo.
La Corte d’appello ha escluso l’inefficacia del contratto, motivando nel senso che la labiale affermazione del comune per cui non vi sarebbe stata approvazione del contratto stesso da parte della Cassa del Mezzo- giorno, non sarebbe idonea a paralizzare l’efficacia del contratto stesso, in difetto di prova, che era onere del comune fornire, circa il completamento dell’iter formativo del contratto, con l’adesione della Cassa del Mez- zogiorno, ente finanziatore dell’opera.
Va precisato che l’approvazione, da parte dell’organo di controllo, del contratto concluso da ente pubblico, non può ritenersi elemento integrativo della volontà di una delle parti contraenti; al contrario, essa si configura come elemento estrinseco al contratto e può sopravvenire (in genere proprio così accade) alla conclusione del contratto, e pertanto, configurarsi come una vera e propria condizione sospensiva.
Conseguentemente non incombeva al Comune di Augusta provare il verificarsi della condizione: l’avve- ramento di essa, cui fosse subordinata la nascita di una pretesa di pagamento, come nella specie, costituiva elemento costitutivo di tale pretesa, e dunque, secondo i principi di cui all’art. 2697 c.c., il relativo onere pro- batorio gravava necessariamente sull’attore.
Accolto il secondo motivo del ricorso (e rigettato il primo), rimangono necessariamente assorbiti gli altri motivi, costituendo elemento pregiudiziale la sussistenza o meno dell’approvazione del contratto da parte della Cassa del Mezzogiorno.
Va cassata la sentenza impugnata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, per l’accertamento della suindicata circostanza.
P.q.m., la Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo, assorbiti gli altri; cassa al riguardo la sentenza impugnata; con rinvio, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione.
10319 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 19 maggio 2016; Pres. Canzio, Est. Xxxxxxx, P.M. Del Core (concl. conf.); Illy c. Proc. gen. Corte dei conti e altri.
Dichiara inammissibile ricorso avverso Corte conti, Sez. I centr. app., 3 aprile 2014, n. 524.
Giurisdizione e competenza – Operazione di cartolarizzazione immobiliare – Delibera regionale di carto- larizzazione immobiliare – Natura di atto politico – Esclusione – Giurisdizione contabile – Sussistenza. C.p.c., art. 360-bis; l. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.l. 25 settembre 2001 n. 351, convertito con modificazioni dalla l. 23 novembre 2001 n. 410, disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico e di
sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare, artt. 2, 3.
La delibera della giunta regionale che non preveda una soglia minima di prezzo in un’operazione di carto- larizzazione immobiliare non ha natura di atto politico, seppur emessa nell’esercizio di ampia discrezionalità, e, pertanto, non si sottrae alla giurisdizione contabile. (1)(1)
(1) I. - Circa la qualificazione o meno di determinati atti (nella specie si trattava di atti provenienti da un’assemblea regionale) come “atti politici”, sottratti, in quanto tali, ad ogni sindacato giurisdizionale, v., citata in motivazione, Cass., S.U., 14 maggio 2014,
Svolgimento del processo – Con sent. 3 aprile 2014 la Corte dei conti, Sezione I giurisdizionale centrale, respinti quelli in via incidentale spiegati dal sig. Xxxxxxxx Xxxx, in parziale accoglimento dei gravami interposti dalla Procura regionale per il Friuli-Venezia Giulia e in conseguente parziale riforma delle pronunzie Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Friuli-Venezia Giulia n. 268 del 14 dicembre 2011 e n. 32 del 19 gennaio 2012, ha condannato il sig. Xxxxxxxx Xxxx x altri al pagamento in favore della Regione Friuli-Venezia Giulia di somma a titolo di responsabilità contabile, per avere – quali componenti della giunta regionale – partecipato all’adozione di una delibera che in violazione della normativa regionale e dei principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione non ha disposto la fissazione di una soglia minima del prezzo di vendita di due immobili regionali, cagionando il danno erariale corrispondente alla differenza tra quest’ultima e il prezzo di aggiudicazione dei medesimi.
Avverso la suindicata pronunzia della Corte di merito l’Illy propone ora ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., affidato a 2 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la Procura generale presso la Corte dei conti. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione – Con il primo motivo il ricorrente denunzia “difetto di giurisdizione in favore del giudice ordinario”.
Si duole non essersi nell’impugnata sentenza dal giudice contabile considerato che “la Regione Friuli-Ve- nezia Gixxxx xveva trasferito la proprietà dei due immobili oggetto della contestazione alla società P.r.i.m.a., da lei [rectius: essa] non “dominata” e questa, a sua volta, aveva incaricato di porre in essere la procedura per addivenire alla alienazione alla Società gestione immobili Friuli, all’epoca anch’essa non riconducibile allo schema delle società in house e, perciò, estranea alla regione”.
Lamenta che “l’ipotetico danno si sarebbe dunque verificato a livello delle due società, le quali, dopo il trasferimento della proprietà degli immobili alla P.r.i.m.a. s.r.l., hanno gestito direttamente e autonomamente l’alienazione degli stessi. Cioè ad un livello nel quale non esiste giurisdizione della Corte dei conti, bensì del giudice ordinario, poiché [...] né la società P.r.i.m.a. né la Società gestione immobili Friuli sono, o quantomeno erano all’epoca, società regionali in house”. A tale stregua, “se [...] l’ipotetico danno si è verificato a livello della società di cartolarizzazione e della società di gestione incaricata di porre in essere le procedure di aliena- zione, è del tutto da escludere che il ricorrente xxxx. Xxxxxxxx Xxxx x gli altri membri della giunta regionale che concorsero all’adozione della delib. reg. n. 721/2004 possano venire ‘coinvolti’ in un presunto danno erariale causato alla Regione Friuli-Venezia Giulia”, essendo “del tutto estranei a quanto accaduto a ‘livello di carto- larizzazione’, dove, anche nell’ipotesi che un danno si sia verificato, non è prospettabile, come invece è stato fatto, la giurisdizione della Corte dei conti, bensì quella del giudice ordinario”.
Il motivo è inammissibile.
La questione relativa alla circostanza che l’odierno ricorrente e altri membri della giunta regionale sareb- bero del tutto estranei alla vicenda della cartolarizzazione degli immobili de quibus, in quanto posta in essere da due società private, essendo all’epoca le stesse non (ancora) in house (la società P.r.i.m.a. s.r.l. in quanto partecipata dalla regione solo al 49 per cento, e pertanto in via minoritaria; la Società gestione immobili Friuli essendo in house dal febbraio 2012), risulta non essere stata posta nel giudizio di merito e fatta valere dall’o- dierno ricorrente per la prima volta in questa sede di legittimità.
Va al riguardo osservato che allorquando in primo grado la giurisdizione risulti affermata, tanto più se come nella specie in modo espresso, l’appellante (anche incidentale) è tenuto a specificare i fatti che deduce a soste- gno dell’eccezione di giurisdizione, a fortiori se, come nel caso, attenga a circostanza di fatto rimessa all’ac- certamento del giudice, quale la sussistenza dei presupposti per la qualificazione di una società come in house.
n. 10416, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 518, nonché in Foro it., 2015, I, 2499, con nota di richiami.
II. - Nel senso che la cartolarizzazione degli immobili appartenenti allo Stato e agli enti pubblici disciplinata dal d.l. n. 351/2001, convertito con modificazioni dalla l. n. 410/2001, è compresa nel più vasto ambito delle “procedure di privatizzazione o di dismis- sione di imprese o beni pubblici”, indicato come possibile oggetto dei “giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa” dall’art. 23-bis l. n. 1034/1971, senza che ciò implichi che la cognizione di tutte le controversie relative sia riservata al giudice amministrativo, atteso che la disposizione non contiene norme sulla giurisdizione, e perciò non modifica l’ordinario criterio di riparto, fondato sulla natura della situazione soggettiva fatta valere in giudizio, x. Xxxx., S.U., ord. 2 dicembre 2010, n. 24417, ivi, 2011, I, 1431, con nota di richiami.
Orbene un tanto non è nel caso in esame avvenuto, la sentenza impugnata facendo riferimento esclusiva- mente alla questione relativa alla dedotta natura politica della deliberazione di giunta in argomento.
Trattasi dunque di causa petendi dedotta inammissibilmente per la prima volta in sede di legittimità.
Con il secondo motivo il ricorrente denunzia “carenza di giurisdizione per invasione della sfera di compe- tenza riservata alla Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia. Violazione art. 1, c. 1 e c. 1-ter, l. n. 20/1994”.
Si duole non essersi dal giudice contabile considerato che “la deliberazione di giunta regionale n. 721 del 26 marzo 2004, con la quale la giunta dava mera attuazione alle previsioni dell’art. 1 l. reg. n. 3/2002”, sicché “rispondeva [...] ad una precisa scelta legislativa – quindi non sindacabile dal giudice contabile – la sottrazio- ne della valorizzazione dei beni e della rivendita di questi alle regole generali in tema di alienazione di beni individuali appartenenti al patrimonio regionale, con conseguente insindacabilità della fattispecie da parte del giudice contabile”, trattandosi di atti di natura politica.
Il motivo è inammissibile ex art. 360-bis, c. 1, n. 1, c.p.c.
Come queste Sezioni unite hanno già avuto modo di porre in rilievo, facendo specifico richiamo anche a recenti pronunzie della Corte costituzionale, la nozione di atto politico risulta attualmente intesa in senso de- cisamente restrittivo, con limitazione entro rigorosi margini delle aree sottratte al sindacato giurisdizionale (x. Xxxx., S.U., 14 maggio 2014, n. 10416, ove si fa richiamo a Corte cost., n. 81/2012 e n. 339/2007; Cass., S.U., 28 giugno 2013, n. 16305).
L’area della immunità giurisdizionale risulta pertanto esclusa allorquando l’atto sia vincolato ad un fine desu- mibile dal sistema normativo, anche se si tratti di atto emesso nell’esercizio di ampia discrezionalità (cfr. Cass., S.U., 19 ottobre 2011, n. 21581. Cfr., altresì, Cass., S.U., 14 maggio 2014, n. 10416, ove si è in particolare esclusa la natura politica di atti posti in essere nell’ambito della procedura culminata nell’adozione di una delibera della giunta regionale, ravvisandosi non trattarsi di attività esplicativa di funzioni legislative con conseguente esclusio- ne della sussistenza di spazi di insindacabilità risalenti ad atti “politici” totalmente discrezionali).
Con specifico riferimento alla tematica della “cartolarizzazione” degli immobili appartenenti allo Stato e agli enti pubblici disciplinata dal d.l. n. 351/2001 (convertito con modificazioni dalla l. n. 410/2001), si è da queste Sezioni unite posto in particolare in rilievo come essa sia compresa nel più vasto ambito delle “pro- cedure di privatizzazione o di dismissione di imprese o beni pubblici”, indicato come possibile oggetto dei “giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa” dall’art. 23-bis l. n. 1034/1971, introdotto dall’art. 4
l. n. 205/2000, senza che ciò implichi che la cognizione di tutte le controversie relative sia riservata al giudice amministrativo, atteso che la disposizione non contiene norme sulla giurisdizione, e perciò non modifica i nor- mali criteri di riparto, limitandosi a dettare particolari regole di procedura per giudizi che già competevano a quel giudice (x. Xxxx., S.U., 12 marzo 2007, n. 5593).
Orxxxx, dei suindicati principi la Corte dei conti ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.
In particolare là dove, nel confermare l’infondatezza dell’eccepito difetto di giurisdizione già ravvisata dal giudice di prime cure in ragione dell’inconfigurabilità della delibera de qua quale atto politico, stante l’insussi- stenza di “alcuna libertà nell’individuazione degli interessi e dei fini pubblici che caratterizza gli atti politici”, ha posto in rilievo che “la l. reg. n. 51/1971 fissa dei principi generali in merito a qualsiasi tipo di dismissione di immobili di proprietà regionali, a prescindere dal contesto in cui tali vendite vengono effettuate. Trattasi di una norma di salvaguardia degli interessi pubblici che potrebbero essere pregiudicati da operazioni disinvolte che non tengano conto dei valori reali di mercato degli immobili oggetto di cessione e conducano a svendite particolar- mente vantaggiose per i privati a scapito del pubblico erario. Tale norma, di carattere generale, e finalizzata a tu- telare un interesse primario, doveva applicarsi anche per le cessioni attraverso il sistema delle cartolarizzazioni”.
Essendosi nell’operata verifica il giudice contabile mantenuto nell’ambito di valutazione della legittimi- tà – in rapporto a parametri normativi definiti – dell’azione amministrativa, deve a tale stregua escludersi che abbia nella specie superato i limiti della propria giurisdizione (cfr., con riferimento a differenti ipotesi, Cass., S.U., 7 novembre 2013, n. 25037; 9 novembre 2011, n. 23302).
All’inammissibilità dei motivi consegue l’inammissibilità del ricorso.
Non è peraltro a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese, stante la natura di parte soltanto in senso for- male del controricorrente procuratore generale rappresentante il pubblico ministero presso la Corte dei conti, e non avendo gli altri intimati svolto attività difensiva.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012,
n. 228, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore im- porto a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis dello stesso art. 13.
P.q.m., la Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato dalla l. 24 dicembre 2012,
n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del c. 1-bis dello stesso art. 13.
10323 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; ordinanza 19 maggio 2016; Pres. Amoroso, Est. Matera, P.M. Salvato (concl. conf.); Xxxxx x. Azienda ospedaliera Policlinico Umberto I di Roma.
Regolamento di giurisdizione.
Giurisdizione e competenza – Contratti pubblici – Appalto – Responsabile unico del procedimen- to – Controversie in materia di inadempimenti contrattuali e risarcimento dei danni – Giurisdizione ordinaria – Interferenza con eventuale azione per responsabilità erariale – Insussistenza.
D.p.r. 21 dicembre 1999 n. 554, regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994 n. 109 e successive modificazioni, art. 7; d.p.r. 5 ottobre 2010 n. 207, regolamento di esecuzione e attuazione del d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163, recante codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce, art. 10.
In materia di contratti pubblici di appalto, sussiste la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per le controversie risarcitorie promosse dall’ente pubblico committente nei confronti del responsabile unico del procedimento (r.u.p.) per i danni derivanti dall’inadempimento degli obblighi su quest’ultimo gravanti, non comportando tale azione interferenza alcuna con l’eventuale azione per responsabilità erariale nei confronti dello stesso r.u.p. prevista dall’art. 10, c. 7, d.p.r. n. 207/2010. (1)(1)
Svolgimento del processo – Con atto di citazione notificato il 10 settembre 2004 l’Azienda ospedaliera Po- liclinico Xxxxxxx I di Roma conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la Società Italiana Costruzioni s.p.a., nella qualità di capogruppo e mandataria dell’Ati costituita tra la stessa società e l’impresa Xxxxxxx Xxxxxxx, nonché l’arch. Xxxxxxxxx Xxxxx, nella qualità di responsabile unico del procedimento (r.u.p.), per sentir dichiarare: a) la risoluzione del contratto di appalto stipulato il 19 marzo 2008 con 1’Ati – avente ad oggetto lavori di “riqualificazione, bonifica e adeguamento a norma di legge delle gallerie ipogee e smaltimento delle opere in amianto delle cabine idriche esistenti” –, per il grave inadempimento dell’impresa esecutrice dei lavo- ri, e ottenere, la condanna di tale impresa al risarcimento dei danni; b) il grave inadempimento posto in essere dalla Xxxxx “rispetto agli obblighi su di essa incombenti nella qualità di r.u.p.” in relazione al citato contratto di appalto, con conseguente condanna della stessa convenuta al risarcimento dei danni.
Xxxxx Xxxxxxxxx si costituiva eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario.
Nella pendenza del giudizio la Xxxxx ha proposto ricorso preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c. L’Azienda ospedaliera Policlinico Xxxxxxx X di Roma ha resistito con controricorso e, in prossimità dell’u-
dienza camerate, ha depositato una memoria.
(1) X. Xxxx., X.X., 0 gennaio 2014, n. 63, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 477, con nota di richiami, secondo cui l’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa da parte del procuratore della Corte dei conti nei confronti di un dipendenti dell’ente poste privatizzato, con riguardo a fatti anteriori alla sua trasformazione in s.p.a. non esclude la possibilità del datore di lavoro di promuovere l’ordinaria azione civilistica di responsabilità per violazione della disciplina contrattuale del rapporto di lavoro priva- tistico, poiché la giurisdizione civile e quella contabile sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale, sicché il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anziché di esclusività, dando luogo a questioni non di giurisdizione, ma di proponibilità della domanda; nonché Cass., 18 dicembre 2014, n. 26659, in Rep. Foro it., 2014, voce Responsabilità contabile e amministrativa, n. 37, secondo cui l’azione di responsabilità contabile nei confronti dei sanitari dipendenti di un’azienda sanitaria non è sostitutiva delle ordinarie azioni civilistiche di responsabilità nei rapporti tra amministrazione e soggetti danneggiati, sicché, quando sia proposta da una azienda sanitaria domanda di manleva nei confronti dei propri medici, non sorge una questione di riparto tra giudice ordinario e contabile, attesa l’autonomia e non coincidenza delle due giurisdizioni.
Il procuratore generale ha depositato le sue conclusioni.
Motivi della decisione – 1. Preliminarmente si rileva che l’istanza di regolamento di giurisdizione è stata notificata esclusivamente all’Azienda ospedaliera Policlinico Xxxxxxx I di Roma, e non anche alla Società Ita- liana Costruzioni s.p.a., che, nella veste di appaltatrice, è stata convenuta, unitamente alla Xxxxx, nel giudizio civile risarcitorio promosso dall’azienda ospedaliera.
Ciò posto, si rammenta che, secondo un principio enunciato da queste Sezioni unite, nel caso di domande le quali, sebbene proposte col medesimo atto introduttivo del giudizio, siano da ritenere reciprocamente au- tonome, in relazione alla distinzione dei rispettivi titoli e rapporti giuridici, le diverse cause restano, per tale ragione, scindibili e distinte, anche per ciò che attiene alla questione di giurisdizione sollevata relativamente ad uno soltanto di tali rapporti (Cass., S.U., 27 ottobre 2000, n. 1142; 26 febbraio 2004, n. 3948).
Con specifico riguardo alle esigenze del contraddittorio nei giudizi introdotti con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione, è stato affermato che nei giudizi a litisconsorzio facoltativo, in cui uno o più attori propongono domande contro diversi convenuti, la statuizione sulla giurisdizione può riguardare le sole doman- de proposte contro i convenuti che hanno richiesto il regolamento preventivo (Cass., S.U., 17 ottobre 2002, n. 14769; 26 novembre 2004, n. 22278).
Nel caso in esame, pertanto, in considerazione della diversità dei titoli posti a base delle domande risar- citorie proposte dall’attrice nei confronti dell’impresa appaltatrice e del r.u.p. e del litisconsorzio facoltativo esistente tra tali soggetti, non si ravvisa la necessità di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti della detta impresa.
2. Può, quindi, procedersi all’esame della questione di giurisdizione.
Secondo la ricorrente, nella specie sussisterebbe la giurisdizione della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 52, c. 1, r.d. n. 1214/1934, in quanto l’art. 7, d.p.r. n. 554/1999 (applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) dispone che il responsabile unico del procedimento è nominato dalle amministrazioni aggiudicatici nell’ambito del proprio organico tra i funzionari tecnici e, da ultimo, l’art. 10, x. 0, x.x.x. x. 000/0000 (xxx, pur non essendo applicabile ratione temporis al caso di specie, ad avviso della ricorrente sarebbe sintomatico della volontà del legislatore di dirimere ogni questione in merito al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e Corte dei conti nelle controversie risarcitorie promosse dalla stazione appaltante) ha espressamente stabilito che, in tema di responsabilità erariale, il responsabile unico del procedimento soggiace alle disposizioni vigenti in materia di giudizio e responsabilità dinanzi alla Corte dei conti. Xxxxxx, secondo la ricorrente, poiché all’epoca dei fatti la Xxxxx era organicamente inserita nel ruolo tecnico dell’Azienda ospedaliera Policlinico Xxxxxxx X di Roma, quale “responsabile del Dipartimento dei servizi tecnici”, e in tale veste ha ricevuto l’incarico di responsabile unico del procedimento relativo all’appalto di cui trattasi, la domanda proposta dall’azienda ospedaliera nei confronti del r.u.p., essendo volta a far valere la responsabilità di tale soggetto per i presunti danni cagionati nell’espletamento dell’incarico affidatogli, deve ritenersi devoluta alla giurisdizione della Corte dei conti.
Tale assunto non può essere condiviso.
Deve, infatti, osservarsi che l’azienda ospedaliera ha convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma la Xxxxx, per far valere l’inadempimento degli obblighi sulla stessa gravante nella sua qualità di r.u.p. nell’ambito di un contratto di appalto intercorso tra detta azienda e l’impresa esecutrice, e ottenere, conseguentemente, la sua condanna al risarcimento dei danni subiti. Si tratta, pertanto, di un’ordinaria azione civilistica di responsa- bilità, che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, senza che in contrario rilevi l’astratta possibilità che, in relazione alle eventuali violazioni commesse dalla Xxxxx nello svolgimento del suo incarico, possa altresì ipotizzarsi una responsabilità erariale per i danni derivati all’amministrazione.
E invero, queste Sezioni unite hanno più volte avuto modo di precisare che giurisdizione penale e civile, da un lato, e giurisdizione contabile dall’altro sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale. L’eventuale interferenza, che può determinarsi tra tali giudizi, pone esclusi- vamente un problema di proponibilità dell’azione di responsabilità davanti alla Corte dei conti (nonché di eventuale osservanza del principio del ne bis in idem), senza dar luogo a questione di giurisdizione (tra le tante, x. Xxxx., S.U., 18 dicembre 2014, n. 26659; 28 novembre 2013, n. 26582; 4 gennaio 2012, n. 11; 4 dicembre 2009, n. 25495).
L’azione proposta dal procuratore contabile, infatti, non si identifica con quella che l’amministrazione può autonomamente promuovere nei confronti dei propri funzionari (e/o di quelli dell’ente esterno) autori del dan- no per farne valere la responsabilità, posto che – come rilevato dalla Corte costituzionale (sent. n. 104/1989 e
n. 1/2007) –, il procuratore generale della Corte dei conti, nella promozione dei giudizi, agisce nell’esercizio di una funzione obiettiva e neutrale: egli rappresenta l’interesse generale al corretto esercizio, da parte dei pubblici dipendenti, delle funzioni amministrative e contabili, e cioè un interesse direttamente riconducibile al rispetto dell’ordinamento giuridico nei suoi aspetti generali e indifferenziati; non l’interesse particolare e concreto dello Stato in ciascuno dei settori in cui si articola o degli altri enti pubblici in relazione agli scopi specifici che ciascuno di essi persegue, siano pure essi convergenti con il primo.
Il rapporto tra le due azioni, pertanto, si pone in termini di alternatività e non di esclusività (Cass., S.U., 7 gennaio 2014, n. 63); sicché esso non dà luogo a questioni di giurisdizione, non potendo la giurisdizione della Corte dei conti ritenersi sostitutiva dei normali rimedi derivanti dai singoli rapporti intercorrenti tra l’ammini- strazione e i soggetti danneggianti (Cass., S.U., 18 dicembre 2014, n. 26659).
Per le ragioni esposte, va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario, dinanzi al quale le parti vanno rimesse anche per la definizione delle spese del presente regolamento.
P.q.m., la Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, al quale rimette anche la definizione delle spese del presente regolamento.
10324 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 19 maggio 2016; Pres. Amoroso, Est. Xxxxxxxx, P.M. Del Core (concl. diff.); Xxxxxxxxxxx c. Proc. gen. Corte dei conti e altri.
Cassa Corte conti, Sez. I centr. app., 3 giugno 2013, n. 360.
Giurisdizione e competenza – Regione in genere e regioni a statuto ordinario – Conferimento di un incarico di consulenza scientifica – Inadempimento dell’incarico – Responsabilità del consulente ina- dempiente – Giurisdizione ordinaria.
C.c., artt. 1453, 1460.
Sussiste la giurisdizione del giudice ordinario nell’ipotesi di mancato assolvimento, da parte di un soggetto privato, dell’incarico di consulenza ad esso attribuito da una regione, in quanto il pregiudizio di cui si preten- de il ristoro è conseguenza di comportamenti che il privato ha assunto non quale agente dell’amministrazione nell’esercizio delle sue funzioni, ma nella veste di controparte contrattuale dell’amministrazione. (1)(1)
Svolgimento del processo – Con atto di citazione notificato il 22 novembre 2008 la Procura regionale presso la Corte dei conti per il Molise conveniva il xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx, direttore del Dipartimento di cultura del progetto della seconda Università degli Studi di Napoli, per sentirlo dichiarare responsabile del danno arrecato alle finanze regionali, determinato nella somma di euro 538.000, per inadempimento di un incarico di consulenza scientifica, conferitogli dalla Regione Molise per la formazione di un inventario informatizzato degli usi civici.
Con sent. 7 luglio 2010 la sezione giurisdizionale per la Regione Molise della Corte dei conti condannava il Xxxxxxxxxxx al pagamento della somma di euro 522.000.
La Corte dei conti centrale d’appello rigettava il successivo gravame con sent. 3 giugno 2013. Sull’eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione motivava:
- che, nella specie, era stata prospettata l’esistenza di una convenzione, priva di causa, tra la regione e l’U- niversità di Napoli;
- che era stata la stessa amministrazione che aveva conferito l’incarico a sospendere i pagamenti, per la ritenuta inutilità della prestazione, anche in ragione dell’elevato prezzo pagato;
- che rientrava nella giurisdizione del giudice contabile l’accertamento dell’eventuale responsabilità, nella gestione di pubbliche risorse contraria a criteri di buona amministrazione;
- che la tesi difensiva di un atto unilaterale potestativo della regione nel conferimento dell’incarico, pro- spettata dal Xxxxxxxxxxx, confermava ancor più la giurisdizione contabile, in ragione del rapporto di servizio
(1) Sulla giurisdizione ordinaria nei confronti di soggetti che, pur operando in ambito pubblico, non sono compartecipi dell’at- tività pubblicistica, v., citata in motivazione, Cass., S.U. 16 luglio 2014, n. 16240, in questa Rivista, 2014, fasc. 5-6, 340, con nota di richiami.
configurabile con un’amministrazione diversa da quella di appartenenza del privato che aveva ricevuto l’inca- rico di consulenza.
Avverso la sentenza, non notificata, il Xxxxxxxxxxx proponeva ricorso per cassazione, notificato il 17 febbraio 2014 e ulteriormente illustrato con memoria, deducendo il difetto di giurisdizione della Corte dei conti in assenza dei requisiti di un rapporto di carattere funzionale con la pubblica amministrazione, caratterizzato da poteri di na- tura autoritativa e dall’inserimento in un programma di attività da essa gestito, con impiego di risorse pubbliche.
Resisteva con controricorso il procuratore generale presso la Corte dei conti.
All’udienza dell’8 marzo 2016, il procuratore generale e il difensore del Xxxxxxxxxxx precisavano le rispet- tive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Motivi della decisione – Il ricorso è fondato.
La contestazione dell’inutilità ab initio del progetto per la formazione di un inventario informatizzato degli usi civici appare irrilevante ai fini dell’identificazione della giurisdizione contabile nei confronti dell’arch. Xxxxxxxxxxx, estraneo alla fase del conferimento dell’incarico, autonomamente deciso dalla Regione Molise alla cui amministrazione egli non apparteneva.
Lo stesso vale per l’affermata esosità del corrispettivo, non determinato unilateralmente dal professionista, bensì frutto di un accordo di tipo privatistico conseguito a libere trattative.
Sotto entrambi i profili, quindi, la motivazione addotta in sentenza non è idonea a giustificare la ritenuta giurisdizione della Corte dei conti.
Né appare decisivo il rilievo che il compenso sia stato pagato con risorse pubbliche (fondi della Regione Molise): potendosi ripetere tale evenienza in ogni obbligazione pecuniaria, pur se derivante da un ordinario contratto di diritto privato stipulato dalla pubblica amministrazione.
Nel suo controricorso il procuratore generale presso la Corte dei conti afferma, altresì, l’insindacabilità ab estrinseco del ritenuto rapporto di servizio, in quanto oggetto di un accertamento di merito rientrante nella cognizione esclusiva del giudice contabile.
Nei termini assoluti in cui appare enunciata, l’enunciazione di principio non può essere condivisa.
È vero che la responsabilità erariale può riguardare anche soggetti privati, sottoposti, quindi, a giurisdizio- ne contabile; ma perché ciò avvenga, occorre appunto un titolo di responsabilità diverso da quello ordinario contrattuale, o da illecito aquiliano: consistente, invece, nell’esercizio, anche solo di fatto, di poteri propri della pubblica amministrazione intestataria della funzione, che sia prospettato, in sede di edictio actionis, da parte della procura contabile.
È sufficiente richiamare, in argomento, il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui la giuri- sdizione della Corte dei conti sussiste tutte le volte in cui fra l’autore del danno e l’amministrazione, o l’ente pubblico danneggiati sia ravvisabile un rapporto, non solo di impiego in senso proprio, ma di servizio: inten- dendosi per tale una relazione funzionale, caratterizzata dall’inserimento del soggetto nell’apparato organico e nell’attività dell’ente, suscettibile di rendere il primo compartecipe dell’operato del secondo (Cass., S.U., 16 luglio 2014; 24 novembre 2009, n. 24671).
Pertanto, la giurisdizione contabile va affermata allorché il danno erariale dipenda da comportamenti il- legittimi tenuti dall’agente nell’esercizio di quelle funzioni per le quali possa dirsi che egli è inserito nell’ap- parato dell’ente pubblico, così da assumere la veste di agente dell’amministrazione; mentre, ben diversa è la situazione che si determina quando il pregiudizio di cui si pretende il ristoro sia conseguenza di comportamenti che il privato abbia assunto nella veste di controparte contrattuale dell’amministrazione medesima. In tale eve- nienza, ad esser violato non è, infatti, il dovere, lato sensu pubblicistico, gravante sul contraente generale, di agire nell’interesse dell’amministrazione, bensì quello di adempiere correttamente le obbligazioni dedotte nel contratto, alle quali corrispondono diritti corrispettivi, su un piano di parità.
Ne consegue che la prospettazione di un danno erariale nel senso sopraindicato non è sottratta a sindacato, sotto il profilo dei limiti esterni, qualora non venga allegato dalla pubblica amministrazione alcuno degli ele- menti sintomatici del rapporto di servizio.
Diversamente opinando, lo stesso controllo dei limiti esterni di giurisdizione sarebbe precluso dalla pretesa sufficienza di affermazioni di carattere assertivo e astratto; perfino se disancorate da qualsiasi riferimento agli elementi costitutivi della fattispecie concreta.
Cosa diversa resta invece l’accertamento di merito della responsabilità del soggetto privato, una volta che ne sia confermato l’assoggettamento a un rapporto di servizio: accertamento, rientrante per contro nella cogni- zione esclusiva della Corte dei conti.
Sul punto occorre aggiungere, per completezza di analisi, che se è vero che rientra nella giurisdizione con- tabile la valutazione del corretto esercizio del potere discrezionale amministrativo, anche alla luce dei criteri di proporzionalità delle scelte, di ragionevolezza, ed economicità fondati sul raffronto tra i risultati conseguiti e i costi sostenuti (Cass., S.U., 7 novembre 2013, n. 25037; 9 luglio 2008; 28 marzo 2006, n. 7024; 29 settembre 2003, n. 14488) – cosicché discrezionalità in nessun caso può significare insindacabilità assoluta – tuttavia, nel caso in scrutinio, tale valutazione deve riguardare il soggetto pubblico responsabile del programma e dell’affi- damento di una consulenza, in ipotesi, superflua e costosa: e non pure il soggetto privato che si sia limitato ad accettare l’altrui proposta contrattuale e che, se responsabile di inadempimento, dovrà risponderne dinanzi al giudice ordinario secondo le regole civili pertinenti.
La tesi contraria porterebbe, inammissibilmente, a riversare sullo stesso professionista l’obbligo di sinda- care la congruità della proposta, prima di accettarla, in relazione ai canoni di buona amministrazione: sostan- zialmente, anticipando il futuro giudizio del giudice contabile.
Né sembra che nel caso in esame possa parlarsi di concessione di un contributo pubblico, di cui il Dipar- timento di architettura – e al suo interno, l’arch. Xxxxxxxxxxx – sia stato beneficiario; trattandosi, piuttosto, di un normale corrispettivo di opera professionale (non essendo decisivo, in senso contrario, il rilievo che una percentuale di esso fosse trattenuta dal dipartimento).
Alla luce dei predetti rilievi, la sentenza dev’essere dunque cassata senza rinvio e dichiarata la carenza di giurisdizione della Corte dei conti.
P.q.m., accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei conti.
10814 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 25 maggio 2016; Pres. Amoroso, Est. Xxxxxxxx, P.M. Del Core (concl. conf.); Scopelliti c. Proc. gen. Corte dei conti e altri.
Conferma Corte conti, Sez. I centr. app., 9 gennaio 2014, n. 10.
Giurisdizione e competenza – Giudizio di responsabilità amministrativa – Comune e provincia – Sinda- co – Compravendita di un immobile – Eccessività del prezzo pagato e mancato utilizzo dell’immo- bile – Scelta discrezionale – Insindacabilità nel merito da parte del giudice contabile – Controllo di conformità alle norme che regolano l’attività amministrativa – Ammissibilità – Giurisdizione conta- bile – Fattispecie.
L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.
L’insindacabilità nel merito, da parte del giudice contabile, delle scelte discrezionali degli amministratori pubblici (art. 1, c. 1, l. n. 20/1994) non priva questi ultimi della possibilità di accertare la conformità a legge dell’attività amministrativa, verificandola anche sotto l’aspetto funzionale, in ordine alla congruità dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore (nella specie, il sindaco aveva acquistato a un prezzo eccessivo un immobile in disuso per poi lasciarlo inutilizzato). (1)(1)
(1) Circa i limiti all’insindacabilità, da parte del giudice contabile, delle scelte discrezionali dell’amministrazione, x. Xxxx., S.U., 10 marzo 2014, n. 5490, in questa Rivista, 2014, fasc. 3-4, 497, secondo cui l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dai soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti non comporta che esse siano sottratte ad ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l’attività amministrativa, con la conseguenza che il giudice contabile non vìola i limiti esterni della propria giurisdizione quando accerta la mancanza di tale conformità; nonché Corte conti, Sez. giur. reg. Lombardia, 4 dicembre 2015, n. 205, ivi, 2015, fasc. 5-6, 337, con nota di richiami, ove si afferma che l’insindaca- bilità nel merito, da parte del giudice contabile, delle scelte discrezionali dell’amministrazione non esclude la verifica giudiziale circa il corretto esercizio del relativo potere, in base a parametri sia esterni (quali la competenza, il termine e la materia) che interni (rapporto tra fine istituzionale e fine concreto, congruità e proporzionalità delle scelte, principi di razionalità, imparzialità e buona amministrazione) alla scelta effettuata.
Svolgimento del processo – Con sent. 10 giugno 2009 la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Calabria accertava la responsabilità dell’allora sindaco del Comune di Reggio Calabria, sig. Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx, per il danno erariale cagionato con il contratto stipulato in data 12 marzo 2004, con il quale era stata acquistato un terreno, con annessi fabbricati, in totale stato di abbandono e degrado, già destinati ad attività industriale, ad un prezzo largamente superiore al valore e interamente a carico dell’ente locale: immobili, mai riconvertiti, in seguito, ad alcuna utilizzazione proficua per la comunità amministrata.
Per l’effetto, condannava lo Scopelliti, la cui azione era risultata trainante di tutta l’operazione, al risarci- mento del danno, liquidato nella somma di euro 697.511,75.
In accoglimento parziale del successivo gravame, la Corte dei conti, sezione centrale d’appello, riduceva il risarcimento all’ammontare di euro 300.000.
Avverso la sentenza lo Scopelliti proponeva ricorso per cassazione, notificato il 4 giugno 2014, deducendo la violazione dell’art. 1, c. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti) e dei limiti esterni della giurisdizione, per invasione della sfera della discrezionalità della pubblica amministrazione, con sostituzione delle sue valutazioni di merito.
Resisteva con controricorso il procuratore generale presso la Corte dei conti.
All’udienza dell’8 marzo 2016, il procuratore generale e il difensore precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Motivi della decisione – La sentenza di primo grado ha fondato la responsabilità erariale dello Scopelliti su due concorrenti rationes decidendi, consistenti, rispettivamente, nell’ingiustificata eccessività del prezzo pagato e nella carenza di alcuna proficua utilizzazione dell’immobile acquistato. La sentenza di appello ha fatto venir meno la prima voce di addebito – ritenuta l’incertezza del reale valore di mercato del complesso immobiliare, alla luce delle diverse stime espresse in più perizie – confermando, invece, la sussistenza del dan- no erariale per inutilità dell’acquisto immobiliare rispetto all’interesse pubblico: circostanza, confermata dallo stato di abbandono e degrado del complesso immobiliare a distanza di anni.
Proprio tale statuizione viene contestata dal ricorrente come invasiva della discrezionalità della pubblica amministrazione e quindi lesiva dei limiti esterni della giurisdizione contabile.
La censura è infondata.
È jus receptum che l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti, in astratto, alla giurisdizione della Corte dei conti non ne comporta la sottrazione ad ogni possibilità di controllo. L’insindacabilità nel merito sancita dall’art. 1, c. 1, l. 14 gennaio 1994, n. 20 (Disposizioni in materia di giuri- sdizione e controllo della Corte dei conti) non priva, infatti, la Corte dei conti della possibilità di accertare la conformità alla legge dell’attività amministrativa, verificandola anche sotto l’aspetto funzionale: in ordine cioè, alla congruità dei singoli atti compiuti rispetto ai fini imposti, in via generale o in modo specifico, dal legislatore.
Si deve quindi richiamare, quale limite all’insindacabilità delle scelte discrezionali della pubblica ammini- strazione, l’esigenza di accertare che l’attività svolta si sia ispirata a criteri di ragionevole proporzionalità tra costi e benefici.
Ne consegue che la Corte dei conti, nella sua qualità di giudice contabile, può verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’ente pubblico. Se da un lato, infatti, l’esercizio in concreto del potere discrezionale dei pubblici amministratori costituisce espressione di una sfera di autonomia che il legislatore ha inteso salvaguardare dal sindacato della Corte dei conti, dall’altro, l’art. 1, c. 1, l. 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) stabilisce che l’esercizio dell’attività amministrativa deve ispirarsi a criteri di economicità e di efficacia, co- stituenti specificazioni del più generale principio costituzionale di cui all’art. 97 Cost. e rilevanti non solo sul piano della mera opportunità, ma anche della legittimità dell’azione amministrativa (Cass., S.U., 29 settembre 2003, n. 14488).
Ciò premesso in sede dogmatica, si osserva che la Corte dei conti ha fondato, nel caso di specie, l’accerta- mento del danno erariale nella sostanziale inutilità della compravendita di un immobile in disuso, rimasto privo di alcuna proficua utilizzazione, per un prezzo onerosissimo per le finanze comunali.
Tale accertamento rientra certamente nella giurisdizione della Corte dei conti per le ragioni testé esposte; restando, per contro, sottratto a sindacato sotto il profilo di eventuali errores in judicando.
P.q.m., rigetta il ricorso; si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui xx x.x.x. 00 xxxxxx 0000, x. 000 (X.x. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia-T.u. spese di xxxxxx- xxx), art. 13 (Importi), c. 1-quater, introdotto dall’art. 1, c. 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
11849 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 9 giugno 2016; Pres. Canzio, Est. Xxxxxx, P.M. Cic- colo (concl. diff.); Inps x. Xxxxxxxxxxxx e altro.
Cassa App. Trento, 23 gennaio 2014, e dichiara la giurisdizione della Corte dei conti.
Giurisdizione e competenza – Riscatto degli anni del corso di laurea – Diritto al ricongiungimento ai fini del trattamento pensionistico – Giurisdizione contabile.
C.p.c. art. 37; r.d. 12 luglio 1934 n. 1214, approvazione del t.u. delle leggi sulla Corte dei conti, artt. 13, 62.
La controversia relativa al diritto al riscatto degli anni del corso di laurea e al ricongiungimento di tale periodo ai fini del trattamento pensionistico rientra nella giurisdizione esclusiva della Corte dei conti che ricomprende tutte le controversie funzionali e connesse al diritto alla pensione dei pubblici dipendenti. (1)(1)
Fatti della causa – 1. Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxxx, dipendente del Ministero dell’economia e delle finanze con- venne in giudizio il ministero datore di lavoro e l’Inps, chiedendo il riconoscimento, ai fini della ricongiunzione e ricostruzione della posizione previdenziale, del periodo di quattro anni di studi universitari, negatole in sede amministrativa, ovvero, in via subordinata, il risarcimento del danno cagionatole dalla condotta dell’ammini- strazione.
2. Il Tribunale di Trento dichiarò la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti.
3. La ricorrente propose appello. La Corte d’appello di Trento, con sentenza pubblicata 1’11 febbraio 2014, in riforma della decisione di primo grado, dichiarò la giurisdizione del giudice ordinario, rinviando ai sensi dell’art. 000 x.x.x., xx xxxxx xx primo giudice.
4. L’Inps ha proposto ricorso per cassazione “per erroneità della pronuncia sulla giurisdizione per violazio- ne dell’art. 37, c.p.c. e degli artt. 13 e 62 r.d. n. 1214/1934 e 71 r.d.l. n. 680/1938”.
5. Alessandrini e Mef sono rimasti intimati. L’istituto ricorrente ha depositato una memoria per l’udienza sul problema della ammissibilità del ricorso.
Ragioni della decisione – 6. Deve, in primo luogo, affermarsi che il ricorso è ammissibile perché “la senten- za con la quale il giudice d’appello riforma o annulla la decisione di primo grado e rimette la causa al giudice a quo ex art. 353 o 354 c.p.c., è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di sentenza definitiva, che non ricade nel divieto, dettato dall’art. 360, c. 3, c.p.c., di separata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendo solo quelle su questioni pregiudiziali di rito
(1) I. - Massima ufficiale.
II. - Circa l’ambito oggettivo della giurisdizione contabile in materia pensionistica, v. Cons. Stato, Sez. VI, 22 settembre 2008,
n. 4554, in Rep. Foro it., voce Impiegato dello Stato e pubblico in genere, n. 954, secondo cui, ai fini del riparto di giurisdizione in materia pensionistica, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti ove i fatti dedotti e l’oggetto della domanda siano direttamente attinenti al rapporto previdenziale e il rapporto di pubblico impiego funga solo da presupposto esterno del rapporto previdenziale rilevante incidenter tantum (e sempre che non sia in discussione la legittimità di atti amministrativi inerenti al rapporto di impiego pubblico); va ravvisata, all’opposto, la giurisdizione del giudice amministrativo ove il rapporto di impiego sia l’oggetto reale del contendere, mentre vengono solo di riflesso in gioco interessi pensionistici; v. pure Cass., S.U., 7 novembre 2000, n. 1149, in questa Rivista, 2000, fasc. 6, 219, nel senso che la giurisdizione della Corte dei conti si estende a tutte le controversie in cui il rapporto pensionistico costituisca elemento identificativo del petitum sostanziale, anche nei casi in cui non sia in contestazione il diritto al trattamento nelle sue varie componenti e sia in questione solo la sua esatta quantificazione. Da ultimo v. Corte conti, Sez. giur. reg. Piemonte, 9 marzo 2016, n. 72, ivi, 2016, fasc. 1-2, 330, con nota di richiami, secondo cui non compete alla Corte dei conti la giurisdizione sulla controversia nella quale un ex consigliere regionale richieda l’accertamento del diritto alla prosecuzione della contribuzione volontaria al fine di maturare il diritto all’assegno vitalizio minimo, atteso che tale assegno non può essere assimilato, neppure indirettamente e in via di analogia, all’assegno pensionistico.
o preliminari di merito che non chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate” (Cass., S.U., 22 dicembre 2015, n. 25774).
7. Oltre che ammissibile il ricorso è anche fondato.
8. La Alessandrini presentò due domande di ricongiunzione a fini pensionistici. La prima fu accolta in parte riconoscendole sette mesi e tre giorni di servizio, ma non il periodo del corso di laurea in quanto la domanda di riscatto era stata presentata all’Inps pur in presenza di iscrizione alla Cpdel.
9. La Alessandrini presentò poi una seconda domanda di ricongiunzione al Ministero dell’economia e delle finanze, suo datore di lavoro. Tale domanda venne in un primo momento accolta, ma in seguito fu revocata, disponendo il rimborso degli oneri di ricongiunzione, avendo il Mef preso atto della propria incompetenza per essere la Alessandrini iscritta alla Cpdel. Di qui l’azione giudiziaria della lavoratrice.
10. La Corte d’appello ha ritenuto sussistente la giurisdizione ordinaria sulla base di S.U., n. 25039/2013. Tale decisione però riguarda un caso di ricongiunzione funzionale alla determinazione del trattamento di fine servizio.
11. A1 contrario, nel caso in esame, si controverte di riscatto degli anni di studio universitario e di ricon- giunzione di tale periodo ai fini del trattamento pensionistico. Controversie di questo tipo rientrano nella giuri- sdizione della Corte dei conti, come aveva ritenuto il giudice di primo grado.
12. La Corte dei conti giudica sui “ricorsi in materia di pensione, a carico totale o parziale dello Stato” (art. 13 r.d. n. 1214/1934).
13. In questo ambito la sua giurisdizione è esclusiva e ricomprende tutte le controversie funzionali alla pensione: oltre a problemi relativi al sorgere e modificarsi del diritto alla pensione, la Corte si occupa anche dei problemi connessi, quali riscatto di periodi di servizio, ricongiunzione di periodi assicurativi, assegni accessori, interessi e rivalutazione, recupero di somme indebitamente erogate.
14. A1 contrario, rimangono fuori da questo ambito le controversie che non concernono il trattamento pen- sionistico, bensì il trattamento di fine rapporto, quale che sia la sua declinazione: indennità premio di servizio, indennità di buonuscita, tfr.
15. Questi principi e criteri di distinzione sono stati sempre ribaditi dalla giurisprudenza delle Sezioni unite.
16. Con riferimento alle controversie attinenti a problemi pensionistici, si è affermato: “spettano in via esclusiva alla giurisdizione della Corte dei conti, a norma del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 3, c. 3, artt. 13 e 62, tutte le controversie concernenti la sussistenza del diritto, la misura e la decorrenza della pensione dei pubblici dipendenti, comprese quelle nelle quali si alleghi, a fondamento della pretesa, l’inadempimento o l’i- nesatto adempimento della prestazione pensionistica da parte dell’ente obbligato, ivi comprese le controversie volte ad ottenere, anche in via autonoma, il pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi sui ratei del trattamento pensionistico tardivamente corrisposti (ex plurimis, Cass., S.U., 16 gennaio 2003, n. 573, idem 7 novembre 2000, n. 1149, idem 14 ottobre 1998, n. 10149, idem 11 gennaio 1997, n. 190). E il giudice della pensione è competente a conoscere anche dei relativi contributi (ex plurimis, Cass., S.U., 21 marzo 1997, n. 2519, idem 28 novembre 1996, n. 10618), e quindi della sufficienza od eccedenza degli stessi rispetto alla pensione per la quale ha giurisdizione”.
17. Parimenti consolidata è la giurisprudenza per cui, quando non si tratta di questioni funzionali al tratta- mento pensionistico, bensì al trattamento di fine rapporto, la giurisdizione è dell’autorità giudiziaria ordinaria (in tal senso, oltre a Xxxx., S.U., n. 25039/2013, cfr. S.U., n. 10455/2008).
18. Nel caso di specie pertanto, essendo la controversia finalizzata al trattamento pensionistico, la giurisdi- zione è della Corte dei conti.
19. Il ricorso contro la sentenza della Corte d’appello che, riformando la decisione di primo grado, ha ri- tenuto sussistente la giurisdizione ordinaria, deve essere accolto e deve essere dichiarata la giurisdizione della Corte dei conti. L’andamento del processo, con pronunce di segno diverso da parte dei giudici di merito induce a compensare le spese dell’intero giudizio.
P.q.m., la Corte accoglie il ricorso e dichiara la giurisdizione della Corte dei conti. Compensa le spese.
11860 – Corte di cassazione, Sezione lavoro; sentenza 9 giugno 2016; Pres. Venuti, Est. Xxxxxxxx, P.M. Ma- tera (concl. conf.); Agenzia delle entrate x. Xxxxxx.
Conferma App. Milano, 19 aprile 2013, n. 321.
Lavoro (rapporto di) – Licenziamento disciplinare – Comportamento previsto da contratto colletti- vo – Licenziamento non preceduto da alcuna sanzione conservativa – Illegittimità.
D.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazio- ni pubbliche, art. 55.
È illegittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore qualora il comportamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conservativa, salvo che non si accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva. (1)(1)
Svolgimento del processo – 1. Con sent. 19 aprile 2013 la Corte d’appello di Milano, in riforma della pro- nuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 16 febbraio 2010 dalla Agenzia delle entrate nei confronti di Xxxx Xxxxxx Xxxxxx, con le pronunce reintegratorie e patrimo- niali consequenziali.
Premesso che la contestazione disciplinare atteneva ad alcuni interventi della Arcifa all’interno di un blog promosso da magistrati, ritenuti dall’amministrazione dai “contenuti altamente lesivi dell’immagine e della professionalità dell’Agenzia delle entrate, dei suoi addetti nonché del sistema fiscale”, la Corte territoriale ha ritenuto illegittimo il licenziamento non preceduto da alcuna sanzione conservativa.
Ha osservato che, posto il principio di gradualità e proporzionalità delle sanzioni disciplinari posto dall’art. 55, d.lgs. n. 165/2001, l’art. 67 c.c.n.l. relativo al personale del comparto delle agenzie fiscali 2002-2005 preve- de per le “manifestazioni ingiuriose nei confronti dell’Agenzia” una prima sanzione minore (sospensione sino a 10 giorni) e una più grave (sospensione da 11 giorni sino a 6 mesi, nel caso di recidiva).
Ha dunque richiamato a sostegno della declaratoria di illegittimità del recesso un precedente della Suprema corte secondo cui, in caso di licenziamento disciplinare, deve escludersi che, ove un determinato comporta- mento del lavoratore sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disci- plinare cui corrisponda una sanzione conservativa, essa possa formare oggetto di un’autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno che non si accerti che le parti (non) avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva.
2. Per la cassazione di tale sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo. Ha resistito con controricorso l’intimata.
Motivi della decisione – 3. Con l’unico mezzo di impugnazione si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 55, d.lgs. n. 165/2001, dell’art. 67 c.c.n.l. relativo al personale del comparto delle agenzie fiscali per il quadriennio normativo 2002-2005 e biennio economico 2002-2003 nonché degli artt. 2106 e 2119 c.c.
Si censura la sentenza impugnata “per avere letto la normativa contrattuale (e legislativa) nel senso che precluderebbe l’autonoma e globale valutazione di fatti che, considerati nel loro complesso, determinano una giusta causa di licenziamento ai sensi della disciplina civilistica solo perché singolarmente considerati quale ipotesi ‘minori’ di illecito”.
4. Il motivo è infondato.
La Corte territoriale non ha fatto altro che consapevole e coerente applicazione di un principio sovente affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo il quale deve escludersi che, ove un determinato compor-
(1) Sul licenziamento disciplinare, v., da ultimo, Cons. Stato, Commiss. spec., 16 marzo 2016, n. 437, parere sullo schema di decreto legislativo (atto del governo n. 292) recante modifiche all’art. 55-quater d.lgs. n. 165/2001, sul licenziamento disciplinare nei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in <xxx.xxxxxxxxx-xxxxxxxxxxxxxx.xx>, nonché Corte conti, Sez. centr. contr. gestione, 16 maggio 2016, n. 3, Assenteismo fraudolento nel pubblico impiego e licenziamento disciplinare (au- dizione presso le Commissioni riunite I e XI della Camera dei deputati, nell’ambito dell’esame dello schema di decreto legislativo, atto del governo n. 202 cit.), in questo fascicolo, 77; nonché Corte conti, Sez. giur. reg. Abruzzo, 4 febbraio 2016, n. 8, in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 252, con nota di richiami.
tamento del lavoratore, invocato dal datore di lavoro come giusta causa di licenziamento, sia contemplato dal contratto collettivo come integrante una specifica infrazione disciplinare cui corrisponda una sanzione conser- vativa, essa possa formare oggetto di una autonoma e più grave valutazione da parte del giudice, a meno che non si accerti che le parti avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass., S.U., n. 9223/2015; n. 13353/2011; n. 1173/1996).
Parte ricorrente non ha in alcun modo specificamente confutato tale principio di diritto, né il collegio ravvi- sa ragione per discostarsene, essendo necessario rapportare lo specifico addebito alla situazione concretamente verificatasi alla luce delle previsioni collettive espressamente stabilite nella materia delle sanzioni disciplinari. I giudici del merito hanno ricostruito il fatto riconducendo l’addebito contestato alla Arcifa nell’ambito di una delle fattispecie disciplinari punibili, secondo contratto collettivo, da una sanzione conservativa. Si tratta di accertamento di fatto che, essendo la sentenza d’appello pubblicata nel vigore del novellato art. 360, c. 1, n. 5,
c.p.c., non può essere sindacato da questa Corte ove non adeguatamente censurato – come nella specie – nelle modalità previste da Cass., S.U., n. 8053/2014. Ne consegue che il condiviso principio innanzi espresso deter- mina l’infondatezza del gravame.
5. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Nonostante il ricorso per cassazione risulti proposto in data 16 agosto 2013, non può darsi atto della sus- sistenza dei presupposti di cui all’art. 13, c. 1-xxxxxx, d.p.r. n. 115/2002, come modificato dall’art. 1, c. 17, l.
n. 228/2012, in quanto l’Agenzia delle entrate è amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura dello Stato istituzionalmente esonerata, per valutazione normativa della sua qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo stesso, mediante il meccanismo della prenotazione a debito (Cass., S.U., n. 9938; n. 5955; n. 23514/2014).
P.q.m., la Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.500, di cui euro 100 per esborsi, oltre spese generali al 15 per cento nonché accessori secondo legge.
12086 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; sentenza 13 giugno 2016; Pres. Amoroso, Est. Xxxxxxxx, P.M. Del Core (concl. conf.); Xxxxxxxx e altro c. Proc. gen. Corte dei conti e altri.
Conferma Corte conti, Sez. I centr. app., 21 novembre 2013, n. 1001.
Giurisdizione e competenza – Regione in genere e regioni a statuto ordinario – Programma di bonifica di zone costiere – Finanziamento con fondi pubblici – Appalto delle opere da parte della regione a società privata – Mancata o parziale esecuzione delle opere appaltate – Responsabilità della società privata – Giurisdizione contabile.
L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1.
Anche in mancanza di un rapporto di concessione di opere pubbliche tra soggetto privato e pubblica ammi- nistrazione, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti di soggetti privati che si avvalgono di finanziamenti pubblici per concorrere alla realizzazione di finalità proprie dell’amministrazione, non essendo sufficiente lo schermo di un contratto di appalto ad interrompere il rapporto di servizio in tal modo instauratosi (nella specie, la regione aveva appaltato a una società privata, rimasta del tutto inadempiente, i lavori relativi ad un programma di bonifica di una zona costiera, finanziato con fondi comunitari). (1)(1)
(1) I. - Con riferimento ad altre fattispecie nelle quali è stata affermata la giurisdizione della Corte dei conti in relazione all’in- debita percezione o all’illecito impiego dei fondi europei, v., da ultimo, Cass., S.U. 27 gennaio 2016, n. 1515, in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 383, con nota di richiami.
Nel senso che in relazione alla realizzazione di un’opera pubblica intesa alla difesa della costa e alla salvaguardia del litorale, appartiene alla giurisdizione contabile la domanda di risarcimento danni proposta nei confronti dei componenti di un organo tecnico straordinario, affidatario di qualificati poteri valutativi, e dei consulenti della direzione dei lavori, trattandosi di soggetti che, per l’attività svolta continuativamente, debbono ritenersi inseriti, seppure in via temporanea, nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione, v., citata in motivazione, Xxxx. S.U., 21 maggio 2014, n. 11229, ivi, 2014, fasc. 3-4, 526, con nota di richiami, nonché in Foro it., 2015, I, 2481, con nota di richiami.
Svolgimento del processo – Con atto di citazione notificato il 18 aprile 2007 la Procura regionale presso la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Liguria conveniva la Società immobiliare Xxx Xxxxxx s.p.a. – già Xxxxx Xxxxxxxx s.p.a. – nonché vari suoi dirigenti e funzionari regionali, tra cui i signori Xxxxxxx Xxxxxxxxx, Giu- seppe Bruzzone e Xxxxx Xxxxxxxx, per ottenerne la condanna al risarcimento del danno erariale, preteso nella somma di euro 3.687.502,26, arrecato alla Regione Liguria per l’inesecuzione totale, o in subordine parziale, di un programma di bonifica della zona costiera alla foce del torrente Lerone, finanziato con fondi comunitari.
Esponeva che la società era rimasta del tutto inadempiente alle obbligazioni assunte con la convenzione stipulata in data 30 marzo 1995: e in particolare, in ordine alla bonifica del tratto di arenile nel Comune di Co- goleto, interessato, in passato, dal deposito di terre esauste, inquinate da cromo, provenienti dalla produzione dello stabilimento Stoppani, di cui i signori Xxxxxxxxx e Bruzzone erano stati dirigenti.
Costituendosi ritualmente, i convenuti resistevano alla domanda, eccependo in via pregiudiziale il difetto di giurisdizione e in subordine il giudicato penale di assoluzione dalle imputazioni di truffa aggravata e falso ideologico, nonché l’insussistenza dei profili di responsabilità allegati.
Con sent. 18 aprile 2011 la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Liguria condannava la società e i suoi dipendenti Bruzzone e Pirondini, a titolo di dolo, al pagamento della somma di euro 865.977,37, nella misura di un terzo ciascuno e in solido per l’intero, oltre rivalutazione e interessi; nonché il sig. Castello e altri due convenuti in via sussidiaria e a titolo di colpa grave.
La Corte dei conti centrale d’appello, con sent. 21 novembre 2013, rigettava i successivi gravami. In ordine alla questione pregiudiziale motivava:
- che la propria giurisdizione sussisteva in tutti i casi in cui il soggetto privato si avvalesse, come nella specie, di finanziamenti pubblici per concorrere alla realizzazione di finalità proprie dell’amministrazione, no- nostante l’insussistenza di un rapporto di concessione di opere pubbliche: non essendo sufficiente lo schermo di un contratto di appalto ad interrompere il rapporto di servizio in tal modo instauratosi;
- che, nel caso in esame, era in discussione la concreta utilizzazione del denaro pubblico, rivelatasi mal gestita e dispersiva.
Avverso la sentenza, non notificata, i signori Xxxxxxxxx e Xxxxxxxx proponevano distinti ricorsi per cassazione, articolati in due motivi e ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c.; cui resistevano, con controricorso, la Procura generale presso la Corte dei conti e il sig. Xxxxx Xxxxxxxx, funzionario della Regione Liguria.
All’udienza dell’8 marzo 2016, il procuratore generale precisava le conclusioni come da verbale, in epi- grafe riportate.
Motivi della decisione – Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione dei limiti esterni di giu- risdizione, in carenza di alcun rapporto di servizio tra l’ex società Stoppani – e a fortiori, i ricorrenti Pirondini e Bruzzone, che ne erano dipendenti – e la Regione Liguria: vertendosi, nella specie, in tema di contratto di appalto per la bonifica di un’area demaniale. Contestano altresì il criterio di collegamento del finanziamento pubblico comunitario, concesso, in realtà, alla Regione Liguria, e non alla società Stoppani.
Le censure sono infondate.
La sentenza impugnata valorizza, essenzialmente, la natura pubblica del finanziamento, utilizzato per rea- lizzare finalità proprie dell’amministrazione: e tale criterio appare esatto, dal momento che è jus receptum che sussiste il rapporto di servizio, allorché un ente privato esterno all’amministrazione venga incaricato di svolge- re, nell’interesse di quest’ultima e con risorse pubbliche, un’attività o un servizio pubblico in sua vece (Cass., S.U., 21 maggio 2014, n. 11229; 27 aprile 2010, n. 9963).
In questo quadro di riferimento, non assume rilievo, ai fini della giurisdizione, che il finanziamento comuni- tario sia stato formalmente erogato, nel caso in esame, in favore della Regione Liguria, stante il rilievo decisivo che esso è stato poi utilizzato per l’attività di bonifica dell’area demaniale concessa alla società Stoppani; né appare esimente il filtro formale del contratto di appalto, inserito in un progetto di riqualificazione complessiva di una zona (inquinata da cromo per effetto di attività produttiva della società Stoppani), rientrante nella fun- zione pubblica dell’ente territoriale.
Concorre con tale qualificazione oggettiva del rapporto l’utilizzazione di denaro pubblico, risultata non corretta e dispersiva – con accertamento di merito, insindacabile in questa sede – in quanto non tradottasi nella realizzazione a regola d’arte della bonifica.
Dall’affermazione della giurisdizione nei confronti della società discende quella verso i suoi dirigenti che hanno preso parte attiva – secondo l’accertamento del giudice contabile, egualmente sottratto a riesame – alla condotta causativa del danno erariale: il sig. Xxxxxxx Xxxxxxxxx, dirigente della Xxxxx Xxxxxxxx s.p.a., per aver sottoscritto atti di collaudo e omesso di tenere una contabilità separata, come previsto in convenzione, e il sig. Xxxxxxxx Xxxxxxxx, pure dirigente e inoltre direttore dei lavori, per aver firmato i verbali di collaudo parziali e finali (cfr. sent. 21 novembre 2013, n. 1001, p. 19).
Con il secondo motivo si censura il difetto di giurisdizione sotto il diverso profilo del petitum sostanziale, prospettato nell’atto di citazione come accertamento dell’inadempimento, totale o parziale, dell’obbligazione assunta con la convenzione – con la conseguente richiesta di condanna alla restituzione del finanziamento comunitario indebitamente percepito – senza allegazione di una responsabilità amministrativa degli attuali ricorrenti. Assumono questi ultimi che l’oggetto della domanda, così formulata, rientrerebbe, quindi, nella giurisdizione ordinaria, vertendosi in materia civile contrattuale.
Il motivo è inammissibile.
Premesso che nella narratio dei fatti di causa esposta in sentenza si enuclea il petitum come condanna al ri- sarcimento dei danni arrecati alla Regione Liguria in relazione al programma di bonifica della zona costiera alla foce del torrente Lerone – enunciazione, quindi, in astratto compatibile con una domanda di accertamento della responsabilità contabile – si osserva come la stessa Corte, nella parte motiva, non faccia cenno alcuno ad un motivo di gravame volto a contestare la natura meramente contrattuale dell’eventuale obbligazione risarcitoria. Vi si legge infatti, sul punto: “Contestano le parti interessate che nel caso di specie non è configurabile alcun
rapporto di servizio, poiché la società non era concessionaria di opere pubbliche, ma era appaltatrice, non è stata inserita nell’organizzazione pubblica, non è stata investita di funzioni pubbliche ovvero dell’esercizio di poteri autoritativi, né ha avuto la gestione di denaro pubblico” (cfr. sent., p. 8).
La censura in questi termini riportata (l’unica dell’atto d’appello che investisse il profilo della giurisdizio- ne) corrisponde, pressoché alla lettera, al primo motivo del successivo ricorso per cassazione testé esaminato; laddove il secondo motivo, qui in esame – modulato, piuttosto, sul dato letterale del petitum – nella misura in cui non sia da intendere meramente ripetitivo, appare nuovo e quindi inammissibile, involgendo un diverso profilo di estraneità della fattispecie alla giurisdizione contabile.
Se poi la Corte dei conti avesse omesso di esaminare e riportare in sentenza la specifica doglianza qui scru- tinata, il ricorso peccherebbe di autosufficienza, non indicando il passo dell’atto d’appello ove essa fosse stata, in effetti, puntualmente addotta.
Il ricorso è dunque infondato e va respinto; con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni trattate.
P.q.m., rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese di giudizio sostenute da Xxxxxxxx Xxxxx, liquidate in complessivi euro 20.200, di cui euro 20.000, per compenso, oltre le spese forfettarie e gli accessori di legge;
- si dà atto della sussistenza dei presupposti di cui xx x.x.x. 00 xxxxxx 0000, x. 000 (x.x. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia-t.u. spese di giustizia), art. 13 (Importi), c. 1-quater, introdotto dall’art. 1, c. 17, l. 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013).
I
12325 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; ordinanza 15 giugno 2016; Pres. Canzio, Est. D’Ascola, P.M. De Xxxxxxxxxx (concl. diff.); Xxxxxxxx c. Proc. reg. Corte dei conti per il Lazio e altri.
Regolamento di giurisdizione.
Giurisdizione e competenza – Società partecipata da un comune – Mancanza dei requisiti di società in house – Amministratori – Responsabilità per i danni cagionati alla società – Giurisdizione ordinaria.
C.c., art. 2392.
Sussiste la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria per il risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica ove questa non abbia i requisiti tipici della società in house providing e
cioè: a) capitale sociale integralmente detenuto da uno o più enti pubblici; b) attività svolta prevalentemente in favore degli enti partecipanti; c) gestione assoggettata per statuto a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici. (1)(1)
II
14040 – Corte di cassazione, Sezioni unite civili; ordinanza 8 luglio 2016; Pres. (f.f.) Rordorf, Est. Xxxxxxxx,
P.M. De Xxxxxxxxxx (concl. conf.); Xxxxxx x. Xxxxxxxxx e altri.
Regolamento di giurisdizione.
Giurisdizione e competenza – Società partecipata da un comune – Requisiti di società in house – Sussi- stenza – Amministratori – Responsabilità per i danni cagionati alla società – Giurisdizione contabile.
L. 14 gennaio 1994 n. 20, disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti, art. 1; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali art. 113; d.l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003 n. 326, disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici, art. 15.
Sussiste la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti degli amministratori di una società partecipata da un comune (nella specie, l’Ama s.p.a. di Roma), per i danni da essi cagionati alla società stessa, avendo detta società i requisiti di società in house providing, ovvero a) capitale sociale integralmente detenuto da uno o più enti pubblici; b) attività svolta prevalentemente in favore degli enti partecipanti; c) gestione assoggettata per statuto a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici. (2)
I
Cass., S.U., ord. 15 giugno 2016, n. 12325
Fatti di causa e ragioni della decisione – 1. Con ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione av- viato per la notificazione il 23 ottobre 2014, Xxxxxxxx Xxxxxxxx ha chiesto che sia dichiarato il difetto di giu- risdizione della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per il Lazio, sull’azione proposta dalla locale procura regionale con atto del 23/28 giugno 2014, iscritto al n. 73680/14 rg.
Controricorso adesivo è stato depositato da Xxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxxxx Xxxxx e Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, tre degli undici soggetti citati in giudizio dalla procura regionale. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva in questo procedimento.
La procura regionale ha depositato controricorso.
Il procuratore generale, investito del procedimento ai sensi dell’art. 380-ter c.p.c., ha concluso per l’affer- mazione della giurisdizione contabile.
Le parti private hanno illustrato le difese con memoria depositata in vista dell’adunanza camerale.
2. Il controricorso della procura regionale riferisce che il Comune di Formia nel 2010, a seguito di verifiche sulla regolarità dell’appalto per la costruzione di un parcheggio multipiano affidato alla realizzazione della Formia servizi s.p.a., le ha inviato una relazione; che sulla base di tale relazione sono state contestate all’am- ministratore delegato della società, ai componenti del consiglio di amministrazione e del collegio dei revisori della Formia servizi s.p.a. tre poste di danno erariale, quantificato complessivamente in euro 1.427.000, per: mancato pagamento di canoni al comune; mancato pagamento di Tarsu e Tosap; abbattimento del valore sociale della quota del comune.
(1-2) In termini, nella giurisprudenza di legittimità, v., da ultimo, Cass., S.U., 13 aprile 2016, n. 7293, in questa Rivista, 2016, fasc. 1-2, 403, con nota di richiami, secondo cui, nell’ipotesi di presunto danno erariale causato dall’amministratore di una società partecipata, l’inserimento di questa nell’elenco degli organismi di diritto pubblico, di cui all’all. III della direttiva Ce sugli appalti 2004/18, non è sufficiente a radicare la giurisdizione contabile, dovendo il giudice verificare, comunque, la presenza nella società dei caratteri tipici di una società in house providing; e, nella giurisdizione contabile, Corte conti, Sez. II centr. app., 6 luglio 2016,
n. 705, in questo fascicolo, 182 , con nota di richiami.
2.1. Parte ricorrente nega la configurabilità della giurisdizione contabile e invoca in primo luogo l’insegna- mento secondo cui “spetta al giudice ordinario la giurisdizione in ordine all’azione di risarcimento dei danni subiti da una società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipen- denti, non essendo in tal caso configurabile, avuto riguardo all’autonoma personalità giuridica della società, né un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, né un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico, idonei a radicare la giurisdizione della Corte dei conti”.
Rileva che sulla base di tale principio è stato già risolto dalle Sezioni unite (Cass., n. 3038/2013) altro rego- lamento preventivo, relativo ad altra azione per danno erariale, promosso da alcuni degli stessi amministratori della Formia servizi in relazione ad ulteriori pretese della procura regionale della Corte dei conti.
Gli amministratori della società deducono che la Formia servizi è società di diritto privato, non avente relazione funzionale con l’ente, che avrebbe solo la maggioranza del capitale. Evidenziano che nessuno dei componenti del consiglio era agente pubblico o dipendente del comune; che le voci di danno allegate dalla pro- cura si risolvono in crediti per i quali il comune può insinuarsi al passivo della società, il cui fallimento è stato dichiarato nel 2010; che neanche la perdita del capitale è qualificabile come danno diretto e immediato; che l’azione promossa non ha i caratteri dell’azione di responsabilità amministrativo-contabile, ma quelli di un’or- dinaria azione di responsabilità ex artt. 2392 ss. c.c., peraltro spettante al “curatore del fallimento e giammai alla procura contabile”, curatore costituitosi parte civile nel procedimento avviato per i medesimi fatti “dinanzi al Tribunale penale di Latina”, con conseguente rischio di duplicazione di azioni.
Aggiungono, soffermandovisi in memoria, che non vi è mai stato rapporto organico con l’amministrazione comunale; che non sussistono i requisiti tratteggiati dalle Sezioni unite per affermare la giurisdizione contabile sulle cosiddette società in house.
2.2. La procura regionale della Corte dei conti controdeduce che si versa in ipotesi di “danni diretti all’am- ministrazione pubblica”; che decisiva è la funzionalizzazione all’interesse pubblico specifico e l’assenza nella specie “dei caratteri essenziali di una società di diritto privato, a partire dall’autonomia di impresa, dall’eser- cizio di un’attività economica (in condizioni di libero mercato) e dalla finalità esclusiva di conseguire utili da distribuire ai soci”.
Invoca i principi dettati da Xxxx., S.U., n. 26806/2009, n. 71 e n. 72/2000.
Sottolinea che la società è stata costituita a prevalente capitale pubblico per la gestione di servizi pubblici locali; che è posta sotto la vigilanza del Comune di Formia, il quale “nomina ben quattro dei sette amministra- tori” e al quale la società deve presentare una relazione ogni sei mesi.
2.3. Il procuratore generale presso la Suprema corte, dopo aver ricordato i principi enunciati nella sent. n. 26283/2013 ed evidenziato che parte degli addebiti contabili (versamenti per imposte locali) “mal si concilia- no” con un rapporto funzionale, attribuisce particolare rilievo alla formazione della compagine sociale, costi- tuita da un’a.t.i. di cooperative selezionate attraverso una gara di appalto concorso.
La richiesta scritta del pubblico ministero riconosce “le caratteristiche molto singolari e peculiari” della società, ma reputa prevalente il ruolo del comune nella scelta dei componenti privati e il potere di indirizzo e controllo da esso vantato, che giunge al limite di poter revocare amministratori e sindaci, secondo una conven- zione del settembre 2000.
3. Questa tesi non può essere accolta.
La natura delle pretese fatta valere è tale da escludere che sia configurabile un rapporto di servizio tra l’a- gente e l’ente pubblico titolare della partecipazione, o un danno direttamente arrecato allo Stato o ad altro ente pubblico.
Tali non possono essere considerati i mancati pagamenti di tasse, né di canoni annui dovuti per il diritto d’uso delle aree affidate per la costruzione del parcheggio “Multipiano” e quali rate di corrispettivi per il diritto di superficie (cfr. atto di citazione p. 7).
Trattasi di debiti della società verso il comune, il quale vanta e può far valere il credito contro di essa. Della difficile realizzabilità del credito l’ente pubblico può risentire solo indirettamente, in quanto ven-
xxxx in risalto i danni subiti dalla società a partecipazione pubblica per effetto di condotte illecite degli
amministratori.
Nel caso in esame, si è in presenza di addebito agli amministratori di comportamenti che si assumono avere danneggiato la società con mala gestio, fino alla totale erosione del capitale sociale (oggetto del terzo addebito).
È stata più volte affermata l’esclusione della giurisdizione della Corte di conti riguardo alle azioni per dan- no erariale intentate dal procuratore della Repubblica presso detta Corte nei confronti degli organi sociali cui venga addebitato di aver arrecato danno al patrimonio della società, stante l’impossibilità di configurare l’esi- stenza sia di un rapporto di servizio direttamente intercorrente tra i medesimi organi della società e la pubblica amministrazione, sia di un danno erariale riferibile in via diretta al patrimonio dell’amministrazione medesima (si veda testualmente da ultimo Cass., S.U., n. 5848/2015).
È bene inoltre ricordare che non ci si può limitare al riscontro della prospettazione della pretesa da parte della procura regionale, perché nelle controversie di danno erariale, nelle quali l’iniziativa è della parte pub- blica e ha come destinatario il giudice contabile, le Sezioni unite, giudice regolatore della giurisdizione, sono chiamate a stabilire se il pubblico ministero contabile ha una pretesa azionabile dinanzi al suo giudice, e quindi a risolvere un problema, non di ripartizione tra giudice speciale e giudice ordinario, ma di attribuzione giuri- sdizionale (cfr., in termini, Cass., S.U., n. 13567/2015).
3.1. Ne consegue che occorre considerare l’evoluzione della giurisprudenza di questa Corte regolatrice sui limiti alla configurabilità della giurisdizione della Corte dei conti nelle azioni di responsabilità a carico di amministratori di società a partecipazione pubblica e in particolare nei confronti degli organi delle cosiddette società in house providing.
Per tali si intendono quelle in cui vi sia contemporanea presenza di tre requisiti: 1) il capitale sociale sia integralmente detenuto da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi e lo statuto vieti la cessione delle partecipazioni a privati; 2) la società esplichi statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, in modo che l’eventuale attività accessoria non implichi una significativa presenza sul merca- to e rivesta una valenza meramente strumentale; 3) la gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, cioè a una “minuziosa forma di controllo da parte del socio pubblico così da implicare una subordinazione dei suoi organi amministrativi alla volontà di quello al punto da renderle assimilabili ad una sua articolazione interna” (cfr. Xxxx., S.U., n. 5848/2015, che richiama S.U., n. 26283/2013, alle quali vanno aggiunte utilmente S.U., n. 5491/2014; n. 22609/2014).
4. Alla luce di questi principi e dell’esame dello statuto societario, l’odierno ricorso risulta fondato.
Lo statuto sociale vigente all’epoca dei fatti è stato prodotto in atti (doc. 4) in copia rimasta incontestata.
Da esso emerge l’assenza del primo requisito, relativo al capitale, poiché l’art. 4 prevede come indefettibile solo una partecipazione maggioritaria (al 55 per cento) degli enti pubblici locali, tra cui il Comune di Formia (le cui azioni non possono scendere sotto il 51 per cento) o di altre società partecipate in maggioranza dai suddetti enti, restando possibile la sottoscrizione delle azioni di categoria B, non eccedenti nel complesso il 45 del totale delle azioni, da parte di singoli individui, istituti di credito, società finanziarie, consorzi e società di diritto privato.
4.1. Quanto al secondo requisito, non risulta che la società dovesse esplicare statutariamente la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti, atteso che l’oggetto sociale (art. 3) prevedeva la possibilità di svolgere un ampio spettro di attività, non necessariamente riconducibili a servizi pubblici (v., esemplificati- vamente, ai punti 5, 7, 11 la gestione di mense per conto di enti privati; lavori di manutenzione, giardinaggio e custodia di spazi verdi pubblici o privati, indifferentemente considerati; lavori di pulizia di alberghi, hotels, ristoranti, centri sportivi mediante contratti anche con privati).
4.2. Risulta a questo punto irrilevante, posto che secondo la giurisprudenza citata i tre requisiti devono es- sere compresenti, la circostanza che il regime dei controlli fosse stato in qualche modo modificato rispetto alle previsioni di cui all’art. 21 dello statuto, che sono di impianto schiettamente privatistico.
Nella convenzione 25 settembre 2000, concernente i rapporti tra comune e soci privati, selezionati in pre- cedenza mediante appalto-concorso, era stato previsto un meccanismo di vigilanza del comune imperniato su poteri di verifica e controllo relativamente ad alcuni programmi attuativi relativi per lo più ai parcheggi e ai servizi portuali.
Perfino questo sistema di controlli peraltro, per la sua parzialità rispetto alla potenziale espansione dell’at- tività societaria, fa dubitare della configurabilità di quella forma di controllo descritta dalla giurisprudenza riportata sub par. 3.1.
Il sistema della convenzione era infatti incentrato su poteri di vigilanza e controllo e non sulla diretta su- bordinazione degli organi e della operatività societaria alle specifiche direttive dell’ente, nozione cui ha fatto riferimento Cass., S.U., n. 26283/2013.
5. Discende da quanto esposto che, in accoglimento delle ragioni delle parti private, va dichiarato il difetto di giurisdizione della Corte dei conti.
Non v’è luogo, anche in relazione alla natura pubblica del soggetto controricorrente (Cass., n. 5103/2005), a regolare le spese tra le parti.
P.q.m., la Corte, a Sezioni unite, dichiara il difetto di giurisdizione della Corte dei conti. Nulla per le spese.
II
Cass., S.U., ord. 8 luglio 2016, n. 14040
Svolgimento del processo – Con atto di citazione del 3 novembre 2014 la Procura regionale presso la Corte dei conti per il Lazio citava in giudizio l’avv. Xxxx Xxxxxxxxx Xxxxxx presso la sezione giurisdizionale della detta Corte dei conti quale direttore della direzione legale dell’Ama s.p.a. (società partecipata del Comune di Roma) e altri soggetti per avere arrecato un notevole danno all’erario pubblico (Comune di Roma-Ama s.p.a.) pari ad euro 7.948.102,53. Assumeva la procura regionale che le dette persone avrebbero con dolo violato la normativa in materia di contratti pubblici al solo fine di arrecare un ingiusto profitto al Consel (Consorzio Elis) per avere assunto o concorso ad assumere personale (in numero molto consistente) in violazione delle norme di legge volte a garantire l’imparzialità, l’efficienza e la trasparenza nell’operato della pubblica amministrazione. In ordine a tali fatti risulta pendente procedimento penale presso il Tribunale di Roma.
Con ricorso ex art. 41 c.p.c. il Renard [recte: Xxxxxx] chiedeva che questa Corte, in sede di regolamento di giurisdizione, dichiarasse a Sezioni unite, il difetto di giurisdizione della Corte dei conti attesa la natura interamente privata della s.p.a. Ama e difettando nella fattispecie i presupposti elaborati dalla giurisprudenza di queste Sezioni unite (da Cass., S.U., n. 2686/2009 sino a S.U., n. 1420/2012 e, proprio in relazione all’Ama, anche S.U., n. 26936/2013) in ordine alla configurabilità dell’Ama quale società in house con la conseguenza della carenza della potestas judicandi del giudice contabile a conoscere dei danni arrecati da parte degli ammi- nistratori al patrimonio della società pur interamente controllata dall’ente pubblico. Inoltre il Regard allegava di essere solo il direttore della Direzione legale dell’Ama e quindi privo di poteri decisori in materia che erano stati conferiti all’amministratore delegato, xxxx. Xxxxxxxxx.
Con ricorso incidentale adesivo il xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx si richiamava alle difese del Regard in ordine alla carenza di giurisdizione della Corti dei conti non essendo inquadrabile l’Ama come società in house e os- servava, a sua volta, di essere stato esclusivamente il dirigente della Direzione acquisti e quindi privo di poteri decisori attribuiti invece ad altri organi societari.
Si costituiva il xxxx. Xxxxxx Xxxxxxxxx che, con controricorso, deduceva l’insussistenza della giurisdizione della Corte dei conti sussistendo quella del giudice ordinario alla luce delle norme codicistiche in ordine alla responsabilità degli amministratori delle società per azioni; inoltre osservava che la stessa procura generale aveva indicato come soggetto danneggiato l’Ama che era un soggetto privato e non veniva, quindi, in rilievo alcun danno a carico di enti pubblici.
Si costituiva anche il xxxx. Xxxxxx Xxxxx che, oltre a richiamare le difese del Regard in ordine alla carenza di giurisdizione della Corte dei conti, osservava – in ordine alla sua specifica posizione – di essere solo il legale rappresentante del Consel (Consorzio Xxxx), soggetto privato che aveva stipulato accordi negoziali con l’Ama, come tale estraneo agli obblighi gravanti sui dipendenti di società in house, anche nel caso che l’Ama potesse essere definita in tal modo. Le funzioni svolte dal Xxxxxx nella vicenda non potevano, peraltro, essere conside- rate obiettivamente di natura pubblica o comunque rientranti nell’attività “di servizio” ordinariamente svolta dall’amministrazione e da organi inseriti stabilmente nel suo assetto organizzativo.
Con controricorso la Procura regionale per il Lazio presso la Corte dei conti ribadiva la sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti nella fattispecie in quanto, alla luce degli statuti vigenti ratione temporis, sussistevano tutti i presupposti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (e da quella comunitaria) per qua- lificare l’Ama come società in house.
Il procuratore generale presso questa Corte ha depositato il 27 gennaio 2016 requisitoria scritta con la quale si richiede l’affermazione della giurisdizione della Corte dei conti alla luce dei principi affermati dall’orien-
tamento della giurisprudenza di legittimità, con particolare riferimento a S.U., 10 marzo 2014, n. 5491: i pre- supposti per la qualificazione dell’Ama come società in house sussistevano all’epoca dei fatti anche perché il quadro statutario dell’Ama era mutato; il precedente delle Sezioni unite (sulla natura dell’Ama) del 2013 aveva valutato le norme statutarie vigenti nel 2002 e non quelle operative all’epoca dei fatti. I mutamente statutari peraltro erano stati realizzati per adeguare i quadro statutario alle prescrizioni di cui al d.lgs. n. 6/2002 e quindi chiarire la natura di società in house.
Le altre parti non si sono costituite. Il xxxx. Xxxxxx [recte: Regard] ha depositato memoria difensiva, così come il xxxx. Xxxxxxxxxx.
Motivi della decisione – Deve dichiararsi la giurisdizione della Corte dei conti.
1. L’orientamento di queste Sezioni unite ha con i più recenti arresti (tra le tante cfr. Cass., S.U., 25 novem- bre 2013, n. 26283/2013; 28 gennaio 2014, n. 5491; 26 marzo 2014, n. 7177; n. 5491/2014; nonché – in ordine proprio alla natura giuridica dell’Ama s.p.a. – 8 ottobre 2013, n. 26936) chiaramente ribadito i tre presupposti in base ai quali può ritenersi sussistente la giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità eser- citata dalla procura della Repubblica presso la Corte dei conti quando tale azione sia diretta a far valere la re- sponsabilità degli organi sociali per i danni cagionati al patrimonio di una società a partecipazione pubblica in house; per l’orientamento, ormai consolidato di queste Sezioni unite, può definirsi una società in house quella costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, a) di cui esclusivamente i medesimi enti possono essere soci, b) che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti parteci- panti e c) la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici (cfr., Cass., S.U., 25 novembre 2013 e altra giurisprudenza già citata).
2. La nozione di società in house è notoriamente di matrice sovranazionale e origina dall’esigenza di impedire che ci si possa sottrarre ad alcune delle regole costitutive del mercato comune e ai principi di libera concorrenza (segnatamente in ordine alle modalità degli appalti) attraverso il filtro di società a partecipazione pubblica non correlate strettamente all’organizzazione e all’attività della pubblica amministrazione e ai sistemi di controllo pro- pri di questa, si da poter abusare della loro derivazione da scelte e investimenti della pubblica amministrazione (in senso lato), derogando, senza una plausibile ragione, a quell’architettura di norme che, nel corso dei decenni, ha progressivamente strutturato le dinamiche di mercato nella comunità e poi nell’Unione europea. Le scelte legisla- tive e l’orientamento giurisprudenziale interni non sono che il riflesso nazionale di questa impostazione per cui in relazione a società, pur costituite e operanti secondo le regole codicistiche, ma che – secondo gli esigenti e severi criteri sovranazionali – possono essere considerate in house, valgono le forme di responsabilità per danno erariale previste per gli enti pubblici in quanto, dal punto di vista funzionale e organizzativo, tali società sono viste come articolazioni interne dl quest’ultimi, considerazione che giustifica (sul piano sovranazionale) una parziale deroga alle regole che strutturano quel “bene pubblico europeo”, come afferma talvolta la dottrina, che è rappresentato da un “mercato interno” (art. 3 Tue: “l’Unione instaura un mercato interno”; il prot. n. 27 al Trattato di Lisbona afferma inoltre che “il mercato interno ai sensi dell’art. 3 Tfue comprende un sistema che assicura che la con- correnza non sia falsata”); “obiettivo principale delle norme comunitarie in materia di appalti pubblici è la libera circolazione delle merci e dei servizi nonché l’apertura ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri (v., in tal senso, sent. 11 gennaio 2005, causa X-00/00, Xxxxx Xxxxx x Xxx Xxxxxx, Xxxx., p. I-I, punto 44)” (cfr. punto
n. 58 Xxxxx xx xxxxxxxxx Xx, 00 maggio 2006, causa C-340/03, Carbotermo).
3. Queste Sezioni unite, proprio nella già citata ordinanza in ordine alla natura giuridica dell’Ama s.p.a., hanno richiamato il precedente S.U., n. 26283/2013 e hanno ricordato in ordine al primo requisito per confi- gurare una società partecipata da enti pubblici in house “come già la giurisprudenza europea abbia ammesso la possibilità che il capitale sociale faccia capo ad una pluralità di soci, purché si tratti sempre di enti pubblici (si vedano le sentenze della Corte di giustizia, 10 settembre 2009, causa C-573/07, Sea, e 13 novembre 2008, causa C-324/07, Coditel Brabant), e come nel medesimo senso si sia espresso, del tutto persuasivamente, anche il Consiglio di Stato (si vedano, tre le altre, le pronunce n. 7092/2010 e n. 8970/2009), è quasi superfluo aggiun- xxxx che occorrerà pur sempre, comunque, che lo statuto inibisca in modo assoluto la possibilità di cessione a privati delle partecipazioni societarie di cui gli enti pubblici siano titolari”. Quanto al requisito della prevalente destinazione dell’attività in favore dell’ente o degli enti partecipanti alla società, si è osservato che esso “pur presentando innegabilmente un qualche margine di elasticità, postula in ogni caso che l’attività accessoria non sia tale da implicare una significativa presenza della società quale concorrente con altre imprese sul mercato
di beni o servizi. Ma, come puntualizzato da Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 439 (anche sulla scorta della giurisprudenza comunitaria: si veda, in particolare, la sentenza della Corte di giustizia 11 maggio 2006, causa C-340/04, Carbotermo), non si tratta di una valutazione solamente di tipo quantitativo, da operare con riguar- do esclusivo al fatturato e alle risorse economiche impiegate, dovendosi invece tener conto anche di profili qualitativi e della prospettiva di sviluppo in cui l’attività accessoria eventualmente si ponga”. Quanto infine al requisito del cosiddetto controllo analogo, la citata sentenza S.U. n. 26283/2013 ha affermato che “quel che rileva è che l’ente pubblico partecipante abbia statutariamente il potere di dettare le linee strategiche e le scelte operative della società in house, i cui organi amministrativi vengono pertanto a trovarsi in posizione di vera e propria subordinazione gerarchica. L’espressione “controllo” non allude perciò, in questo caso, all’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è di regola in grado di esercitare sull’assemblea della società e, di riflesso, sulla scelta degli organi sociali; si tratta, invece, di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti e alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna rilevante autonomia ge- stionale (si vedano, in tal senso, le chiare indicazioni di Cons. Stato, A.p., 3 marzo 2008, n. 1, e della conforme giurisprudenza amministrativa che ne è seguita)”.
4. In realtà le parti ricorrenti e quelle private costituite non dubitano dell’applicabilità in astratto di tali principi e della correttezza dell’orientamento delle Sezioni unite; anzi i citati arresti (in particolare la sent.
n. 26283/2013) vengono spesso richiamati negli atti difensivi per cui nessuna parte ha chiesto un revirement sull’orientamento prima citato: si contesta ad opera delle parti private che, tenuto conto del quadro statutario vigente all’epoca dei fatti commessi e contestati in sede penale al dott. Regard e agli altri, si potesse, proprio alla stregua della giurisprudenza di legittimità, considerare l’Ama s.p.a. come una società in house. Deve, però, escludersi che siano pertinenti i riferimenti nella requisitoria scritta del procuratore generale allo statuto dell’Ama approvato nel 2012 in quanto successivo all’epoca della commissione dei fatti dai quali sarebbe deri- vato grave danno per l’Ama. È principio ormai consolidato nella giurisprudenza di queste Sezioni unite quello per cui “la verifica in ordine alla ricorrenza dei requisiti propri della società in house, come delineati dall’art. 113, c. 5, lett. c), d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (come modificato dall’art. 15, c. 1, lett. d, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla l. 24 novembre 2003, n. 326), la cui sussistenza costituisce il presupposto per l’affermazione della giurisdizione della Corte dei conti sull’azione di responsabilità esercitata nei confronti degli organi sociali per i danni da essi cagionati al patrimonio della società, deve compiersi con riguardo alle previsioni contenute nello statuto della società al momento in cui risale la condotta ipotizzata come illecita e non a quelle, eventualmente differenti, esistenti al momento in cui risulti proposta la domanda di responsabilità del procuratore generale presso la Corte dei conti” (Cass., S.U., 26 marzo 2014, n. 7177; cfr. anche S.U., 26 novembre 2013, n. 26283), per cui appare pertinente il quadro statutario vigente all’epoca dei fatti che sono del 2009 o del 2010 (salvo un episodio del 2008; cfr. i capi di imputazione riportati nell’atto di citazione della procura presso la Corte dei conti). Appaiono quindi rilevanti i due statuti rispettivamente appro- vati il 21 novembre 2007 e vigente sino al 15 dicembre 2008 e quello approvato il 15 dicembre 2008 vigente sino al 6 luglio 2011; sebbene nel ricorso del xxxx. Xxxxxx [recte: Regard] si richiami solo il primo emerge che le disposizioni dei due statuti sono identiche sui punti essenziali per la risoluzione del thema decidendum e cioè la sussistenza dei presupposti per qualificare l’Ama come società in house.
5. Circa il primo elemento e cioè la necessaria appartenenza pubblica dei capitale sociale l’art. 6, c. 1, dello statuto approvato alla fine del 2007 statuisce che “il capitale sociale interamente pubblico è di [...]”; il
c. 3 autorizza il Comune di Roma “nella sua qualità di socio della società” ad effettuare finanziamenti alla società. Ancora l’art. 10, c. 6, descrive il Comune di Roma come “socio unico” e il comune è descritto come “socio” dell’Ama, senza indicare altre ipotesi agli artt. 11, 14, 16, 18 (cc. 1, 3 e 4) e 15 (cc. 5 e 6), mentre al
c. 1 di quest’ultimo articolo (art. 15) il comune è nuovamente definito “socio unico”. Ora trattandosi di una previsione statutaria, frutto di una decisione di adeguamento della disciplina interna ai principi propri delle società in house per le società partecipate dal Comune di Roma cosi come deciso in alcune delibere del 2004- 2005 (segnatamente per l’Ama la delibera n. 3/2005) laddove il nuovo statuto parla del Comune di Roma come “socio unico” si deve ritenere che non esprima solo una valutazione di natura ricognitiva e accertativa di una situazione di fatto ma di natura direttiva e prescrittiva in quanto proprio lo statuto assegna al comune una serie di poteri che derivano dal fatto che è il solo socio dell’Ama, come reso indiscutibile dalle disposizioni in cui si
usa anche l’aggettivo “unico”, ma anche da quelle in cui parla del comune come “socio” dell’Ama senza pre- vedere ipotesi diverse. Pur essendo stata prospettata in modo puramente ipotetico la possibilità che il comune potesse cedere a terzi le quote di capitale societario in suo possesso, visto che non è stato neppure dedotto che ciò sia avvenuto, appare evidente che lo statuto in parola non autorizza più tale dismissione di quote che rende- rebbe prive di senso le diposizioni che, invece, prevedono poteri particolari e procedure specifiche in relazione all’unicità della proprietà del capitale societario in capo al comune. Discorso analogo va fatto per lo statuto approvato successivamente nel 2008 il cui art. 1 è identico all’art. 1 del precedente così come identiche sono le definizioni del comune come “socio” o “socio unico” agli artt. 11, 14, 16, 18, cc. 1, 3 e 4, e 15, cc. 5 e 6, e al c. 1 di quest’ultimo articolo (art. 15). Questa Corte nell’ord. n. 26936/2013 (come ricordato riguardante la natura giuridica dell’Ama) ha già sottolineato l’importanza della proposta di delibera statutaria del 2005 del Comune di Roma con la quale si voleva che il capitale dell’Ama fosse “interamente pubblico” mentre in precedenza si prevedeva anche una partecipazione privata sino al 49 per cento delle quote (p. 6 ordinanza citata). Ritiene, quindi, il collegio, che il primo dei tre requisiti in parola sia stato realizzato con l’approvazione delle modifiche statutarie prima indicate.
6. Chiaramente sussiste il secondo presupposto e cioè la prevalente destinazione dell’attività in favore dell’ente o degli enti partecipanti alla società: l’art. 5, c. 2, dello statuto del 2007 autorizza l’Ama a svolgere varia attività e servizi per conto di persone fisiche, enti pubblici o provati “attraverso la costituzione di società o la partecipazione a società di capitali controllate o collegate […]” ma premette “fermo restando l’obbligo di realizzare e gestire la parte prevalente della sua attività per conto del Comune di Roma”. Il principio di “preva- lenza” è così univocamente e letteralmente stabilito dall’art. 5 dello statuto del 2007 che è stato letteralmente replicato in quello adottato nel dicembre del 2008. Le attività autorizzate dall’art. 5 non possono comportare un rilievo maggiore di quella prestata a favore del comune.
7. Circa il terzo requisito e cioè che la società sia assoggettata a forme di controllo della gestione analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici, anche in questo caso vengono in rilievo specifiche dispo- sizioni introdotte negli statuti 2007 e 2008 in esecuzione delle delibere del comune del 2005 che intendevano adottare il modello in house per le società partecipate del comune. Ora l’art. 15 dei due statuti stabilisce che il Cda dell’Ama “predispone e invia al socio unico Comune di Roma entro il 15 novembre di ciascun anno una Relazione previsionale annuale (Rpa) contenente le linee guida del piano industriale e del budget per l’anno successivo, con specificazione dei costi e degli investimenti preventivati e con valutazione degli obiettivi imprenditoriali in termini di coerenza con l’oggetto sociale”. Il capoverso dell’art. 15 specifica che “la Rpa di cui al comma precedente deve contenere dettagliate informazioni in ordine alle decisioni riguardanti: a) le tariffe; b) costituzioni e dismissioni di società, attività e servizi; c) acquisti e alienazioni di obbligazioni; d) emissione di obbligazioni; e) acquisizioni e dismissioni di partecipazioni superiori al 5 per cento dei capitale di altre società”. Tali ultime decisioni (e anche “le eventuali, successive variazioni delle medesime”) sono sot- toposte alla “preventiva approvazione dell’assemblea dei soci, ai fini del controllo analogo di cui all’art. 113,
c. 5, lett. c) Tuel”; il c. 4 a sua volta stabilisce che “il Presidente del Cda informa il Comune di Roma quale socio della società con le modalità previste dal codice di comportamento di cui all’art. 1, c. 3, dello statuto sui “fatti rilevanti concernenti l’esecuzione della relazione previsionale”; va infatti sottolineato che, come previsto dalle delibere del Comune di Roma del 2005, gli statuti del 2007 e 2008 hanno stabilito all’art. 1 che l’Ama si doti di un codice di comportamento diretto a regolare i rapporti tra la società e il Comune di Roma. Si aggiunga che l’amministratore delegato è nominato dal consiglio di amministrazione su indicazione del socio Comune di Roma (art. 14); che il Comune di Roma quale socio dell’Ama può richiedere ove ritenga che la società non abbia eseguito o non stia eseguendo l’atto in conformità dell’autorizzazione concessa, l’immediata convocazione dell’assemblea affinché adotti i provvedimenti ritenuti opportuni (art. 15); che il comune deve essere mantenuto informato quale socio sull’andamento della gestione da parte del presidente (art. 16); che il collegio sindacale (art. 18) si compone di tre membri effettivi nominati dal Comune di Roma e che lo stesso presidente del collegio sindacale riferisce al comune in ordine a ogni eventuale irregolarità alla luce del già ricordato codice di comportamento (previsto all’art. 1 dello statuto come già detto) e infine che il “collegio sindacale è l’organo di controllo interno della società, garante della legalità dell’amministrazione e di questa risponde al socio Comune di Roma” (art. 18). Si tratta quindi di un insieme di dispositivi di controllo ex ante ed ex post, che eccedono e trascendono i normali poteri esercitabili alla luce delle disposizioni codicistiche e che mirano a mantenere una piena (anche in via preventiva) conoscenza da parte del comune sull’attività dell’Ama
e sulla condotta dei suoi amministratori e a consentire al comune un’efficace e tempestiva capacità di reazione. Già questa Corte nell’ordinanza menzionata n. 26936/2013 aveva osservato come nello statuto precedente i poteri di ingerenza nel Cda disponibili per il Comune di Roma fossero solo quelli riconducibili all’art. 2449 c.c., mentre la proposta di statuto varata nel 2005 dal Comune di Roma avesse preveduto ben altre forme di “controllo penetrante e continuo” da parte del socio pubblico sulla gestione dell’attività sociale. A ciò va anche aggiunto quanto previsto dal regolamento comunale per la gestione dei rifiuti urbani approvato nel 2005 che prevede poteri ispettivi e anche sanzionatori da parte di organi comunali sulla gestione dei rifiuti urbani, attività notoriamente prioritaria per l’Ama.
8. Sussiste dunque anche il terzo presupposto in virtù delle modifiche statutarie fin qui esaminate; del resto il Comune di Roma ha, sin dal 2008, esplicitato che l’Ama doveva ormai considerarsi società in house posto che faceva pervenire una lettera (in atti) il 5 luglio 2008 (inviata anche dai dirigenti dell’Ama) nella quale “nell’esercizio dei poteri di controllo che a questa amministrazione competono nei confronti delle società in house si raccomanda alle medesime di astenersi fino a nuova disposizione, dal dar corso a nuove assunzioni, anche qualora già deliberate”, indicazione che risulterebbe platealmente ignorata alla luce delle contestazioni mosse alle parti private intimate in sede penale. Si deve anche ricordare che la Corte di giustizia richiede che vi sia un controllo “analogo” e non “identico” a quello svolto dagli enti pubblici sui propri uffici (punto n. 50 Corte giust. Ce, 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal) e che quindi occorre valutare soprattutto l’idoneità delle previsioni statutarie della società partecipata nel consentire un controllo continuo e penetrante e forme di intervento tempestivo da parte dell’ente pubblico, il che – nel caso dell’Ama – appare realizzato con gli statuti prima ricordati alla luce dei significativi mutamenti del quadro statutario.
9. Deve, peraltro, affermarsi la giurisdizione della Corte dei conti in ordine a tutte le posizioni chiamate in giudizio dalla procura regionale presso la Corte del conti. Non può condividersi la tesi esposta nel ricorso del xxxx. Xxxxxx [recte: Regard] e nel ricorso incidentale adesivo del xxxx. Xxxxxxxxxx per cui la invocata responsabilità per i danni cagionati al patrimonio di una società in house sarebbe esercitabile solo nei con- fronti degli organi sociali apicali autorizzati ad esprimere la volontà della società. Infatti la cosiddetta “re- sponsabilità per danno erariale” risulta configurabile non solo nei confronti degli organi che hanno potestà decisoria finale, ma anche in presenza di un rapporto organico con soggetti che abbiano concorso a vario titolo a determinare il danno, anzi – come si dirà di seguito – addirittura di soggetti esterni che “per l’attività svolta continuativamente devono ritenersi inseriti, seppure in via temporanea, nell’apparato organizzativo della pubblica amministrazione” (Cass., S.U., 21 maggio 2014, n. 11229). Emergono dall’atto di citazione della Procura regionale per il Lazio chiaramente le condotte che si sono addebitate al Renard [recte: Xxxxxx] e all’Allegrucci, dirigenti di importanti plessi organizzativi dell’Ama, nel determinare le scelte relative alle procedure illegittime di selezione, formazione e inserimento di cui al procedimento penale pendente avanti il Tribunale di Roma. Per quanto riguarda la posizione del xxxx. Xxxxxxxxx questi era l’amministratore delegato e legale rappresentante dell’Ama; i rilievi della difesa per cui il patrimonio cui si sarebbe recato un danno è solo quello dell’Ama non appaiono rilevanti posto che, per le ragioni già esposte, l’Ama deve essere consi- derata società in house anche sotto il profilo della natura esclusivamente pubblica del suo patrimonio, come voluto dagli statuti vigenti all’epoca dei fatti.
10. Il xxxx. Xxxxx ha, a sua volta, dedotto che era solo il legale rappresentante del Consel e di non aver mai esercitato un’attività configurabile come un servizio per la pubblica amministrazione; nel caso di specie, per la difesa del Xxxxx, non era configurabile una “relazione funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto nell’apparato organico dell’ente e nell’attività di questo suscettibile di rendere il primo compar- tecipe del secondo” come richiesto, ai fini della sussistenza della competenza della Corte dei conti, dalla giurisprudenza di legittimità (Cass., S.U., 26 luglio 2014, n. 16240). In primo luogo si deve osservare che le difese del Xxxxx sono piuttosto carenti nel dimostrare che l’attività svolta dal Consel, per quanto prevista da un contratto (elemento tuttavia poco significativo posto che in tutti i casi esaminati da queste Sezioni unite in cui si è ritenuta la sussistenza della giurisdizione per danno erariale i soggetti esterni operavano attra- verso un contratto con la pubblica amministrazione o con una società in house), di selezione, formazione e inserimento del personale non possa essere considerata un “servizio” per la pubblica amministrazione atteso che l’art. 14 degli statuti già ricordati (lett. e) affida all’amministratore delegato il compito di “selezionare, assumere [...] il personale dipendente con la sola eccezione del direttore generale” e che nel controricorso
del Xxxxx nulla si dice in ordine alle modalità con cui di norma il nuovo personale dell’Ama venisse selezio- nato e poi inserito al lavoro. Ma in ogni caso va richiamato l’orientamento di queste Sezioni unite secondo cui “laddove il privato sia chiamato a rispondere per danno erariale con riferimento ad accordi corruttivi con il funzionario che ha agito per l’ente di appartenenza, sussiste la giurisdizione della Corte dei conti”, come affermato recentemente dalla sent. 14 gennaio 2015, n. 474 che ha anche aggiunto (punto n. 11 della motiva- zione) che “del resto, ragionando con riferimento a un caso in cui il giudizio per danno patrimoniale era stato promosso in relazione alla indebita richiesta, e alla conseguente, indebita corresponsione di un finanziamen- to ad una società a responsabilità limitata per la realizzazione dei suoi programmi imprenditoriali, queste Sezioni unite, nell’affermare la giurisdizione della Corte dei conti, hanno segnatamente evidenziato che il baricentro per discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile si è ormai spostato dalla qualità del soggetto – che può ben essere un privato o un ente pubblico non economico – alla natura del danno e degli scopi perseguiti, cosicché ove il privato, cui siano erogati fondi pubblici, determini, con la sua condotta, un significativo sviamento dell’ente dalle finalità perseguite, lo stesso realizza un danno per l’ente pubblico, del quale deve rispondere davanti al giudice contabile (cfr. Cass., S.U., 3 marzo 2010, n. 5019; 1 marzo 2006,
n. 4511)”. Emergono dall’atto di citazione le condotte ascritte al xxxx. Xxxxx in concorso con i dirigenti dell’Ama in relazione all’attività svolta dalla Consel (Consorzio Elis) che, fra l’altro, non possedeva neppure I requisiti di legge per poter svolgere i compiti affidati da parte dell’Ama e, quindi, risulta perfettamente applicabile alle fattispecie in esame l’orientamento prima ricordato di queste Sezioni unite che individua nella partecipazione del privato al disegno delittuoso che ha determinato nel suo complesso un danno alla pubblica amministrazione o ad una società in house interamente partecipata da un ente pubblico la ragione della cosiddetta responsabilità “per danno erariale” in quanto tale danno senza l’azione determinante (come nel caso in esame) del privato non si sarebbe verificato.
Conclusivamente si deve dichiarare la giurisdizione della Corte dei conti. Nulla in ordine alle spese.
P.q.m., la Corte dichiara la giurisdizione della Corte dei conti. Nulla spese.
20050 – Corte di cassazione, Sezione IV penale; sentenza 12 gennaio 2016; Pres. D’Isa, Est. Xxxx, P.M. Salzano (concl. conf.); Xxxxxxxx e altri.
Conferma App. Firenze, 27 febbraio 2015, n. 5094.
Comune e provincia – Immobile del demanio statale in uso al comune – Mancato adeguamento alle nor- me di sicurezza – Convenzione con una cooperativa privata per la realizzazione di specifici progetti di intrattenimento – Morte di un visitatore – Omicidio colposo – Responsabilità penale del sindaco, del dirigente che ha autorizzato la concessione e della cooperativa concessionaria.
C.p., artt. 41, 589; d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, artt. 50, 107.
Nel caso in cui, a causa del mancato adeguamento alle norme di sicurezza di un edificio demaniale, dato in concessione dal comune a privati, si sia verificato un incidente mortale per la caduta di una persona dall’e- dificio stesso sussiste la responsabilità per omicidio colposo del sindaco per aver omesso di esercitare i suoi poteri di sorveglianza e controllo sull’attività amministrativa che ha portato alla concessione del bene, del dirigente che ha dato la struttura in concessione senza aver prima verificato che fosse in regola con le norme di sicurezza, del concessionario privato per aver organizzato un intrattenimento pubblico sull’edificio senza aver prima adeguato la struttura alle norme di sicurezza. (1)(1)
(1) Nel senso che sebbene l’art. 107 t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. n. 267/2000) distingua tra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo degli enti locali, e compiti di gestione ammi- nistrativa, finanziaria e tecnica, attribuiti ai dirigenti, cui sono conferiti autonomi poteri di organizzazione delle risorse, strumentali e di controllo, è evidente che il sindaco, una volta esercitati i poteri attribuitigli dalla legge, non può semplicemente disinteressarsi degli esiti di tale sua attività, essendo necessario, da parte sua, anche il successivo controllo sulla concreta attuazione delle scelte programmatiche effettuate, e che egli ha, inoltre, il dovere di attivarsi quando gli siano note situazioni non derivanti da contingenti e occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità dell’ambiente, v., citata in motivazione, Cass. pen., Sez. III, 27 giugno 2013, n. 37544, in Rep. Foro it., 2014, voce Comune e provincia, n. 658.
Considerato in diritto – 1. I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.
2. Preliminarmente va affrontata la doglianza di natura processuale formulata dai difensori del Gherpelli e della Bianchi, i quali hanno lamentato la violazione dell’art. 6 Cedu, perché si era giunti alla riforma della sentenza di assoluzione di primo grado, in assenza della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
È noto che con consolidata giurisprudenza questa Corte di legittimità ha affermato il principio per cui “Il giudice di appello per riformare in peius una sentenza assolutoria è obbligato – in base all’art. 6 Cedu, così come interpretato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Xxx x. Moldavia – alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprez- zamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile” (ex plurimis, Sez. VI, 26 febbraio 2013, n. 16566, Caboni, Rv. 254623).
Si è però anche precisato che “Il giudice d’appello per procedere alla reformatio in peius della sentenza assolutoria di primo grado non è tenuto [...] alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale qualora approdi, in base al proprio libero convincimento, ad una valutazione di colpevolezza attraverso una rilettura degli esiti del- la prova dichiarativa (di cui non ponga in discussione il contenuto o l’attendibilità), valorizzando gli elementi eventualmente trascurati dal primo giudice, ovvero evidenziando gli eventuali travisamenti in cui quest’ultimo sia incorso nel valutare le dichiarazioni” (Sez. II, 22 settembre 2015, n. 41736, Xx Xxxxxxx, Rv. 264682).
Nel caso in esame la Corte distrettuale, nel pervenire alla condanna del Gherpelli e della Bianchi, non ha effettuato alcuna diversa valutazione di attendibilità della prova testimoniale, impegnandosi invece a valoriz- zare gli elementi di prova già presenti in atti da cui desumere la presenza in capo agli imputati assolti di una posizione di garanzia e la commissione di una condotta colposa che aveva reso possibile il concretizzarsi del rischio caduta dai bastioni.
Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 6 Cedu si è consumata.
Va infine rilevato che, come si avrà modo di osservare, la riforma della sentenza di primo grado è avvenuta non solo in base ad una diversa valutazione degli atti, ma anche attraverso l’articolazione di un ragionamento caratterizzato da plausibilità e coerenza logica che ha assolto all’onere della motivazione rafforzata.
3. Ai fini del decidere appare opportuno ricostruire sinteticamente le modalità dell’incidente mortale.
La sera del 15 luglio del 2008, dì del compleanno di Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, quest’ultima, unitamente ad alcuni amici, dopo cena era salita al Forte intrattenendosi al bar.
Successivamente si era allontanata per andare in una zona c.d. della “cisterna” ove vi era un concerto jazz. Dalle testimonianza raccolte è emerso che aveva percorso il prato di un terrapieno in prossimità della zona denominata “la cannoniera”, per oltrepassare uno stretto camminamento sottostante il prato, aveva fatto un salto portandosi sul parapetto del bastione, da dove precipitava nel vuoto, dall’altezza di circa dieci metri trovando la morte.
Dalle indicazioni fattuali rilevabili dalle sentenze dei giudici di merito si evince che il terrapieno percorso era interrotto da uno stretto camminamento profondo circa 90 cm. e largo un metro, il successivo muretto del bastione si trovava pressoché allo stesso livello del prato del terrapieno (solo 10 cm. di dislivello); di notte, in assenza di adeguata illuminazione dei percorsi, lo spazio (vuoto) successivo al muretto, da cui fuoriuscivano dei cespugli, appariva ingannevolmente come una prosecuzione del prato.
Pertanto la Xxxxxxxxx nel saltare il camminamento aveva pensato di proseguire il suo percorso su un ulteriore terrapieno, mentre invece era precipitata nel vuoto.
4. Nel confermare la condanna del Xxxxxxxx e nel pronunciare la condanna del Xxxxxxxxx e della Bianchi, la corte di merito ha in primo luogo riconosciuto l’esistenza di una posizione di garanzia gravante sui tre imputati, circostanza questa contestata nei motivi di impugnazione dai ricorrenti.
Come di recente rilevato dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. 24 aprile 2014, n. 38343, Xxxxxxxxx), il termine “garante” viene utilizzato non solo con riferimento alla causalità omissiva, per identificare il soggetto titolare dell’obbligo di impedire l’evento (art. 40, capoverso, c.p.); ma anche in relazione alla causalità com- missiva per identificare il “gestore” del rischio (governo delle situazioni pericolose), cioè il titolare dell’onere di prevenire che esso si concretizzi in eventi di danno.
La identificazione dell’area di rischio e dei soggetti deputati alla sua gestione serve ad arginare la potenziale espansività della causalità condizionalistica, consentendo di imputare il fatto solo a coloro che erano chiamati a gestire il rischio concretizzatosi.
5. Questa Corte di legittimità ha più volte ribadito che la fonte dai cui scaturisce l’obbligo giuridico protet- tivo, può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante (Sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 9855, Chiappa, Rv. 262440); inoltre, la posizione di garanzia può essere generata non solo da un’inve- stitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante mediante un comportamento concludente dell’agente, consistente nella presa in carico del bene protetto (Sez. IV, 23 ottobre 2015, n. 2536, Rv. 265797).
In sintesi, sussiste una posizione di garanzia a condizione che: un bene giuridico necessiti di protezione, poiché il titolare da solo non è in grado di proteggerlo; una fonte giuridica – anche negoziale – abbia la finalità di tutelarlo; tale obbligo gravi su una o più persone specificamente individuate; queste ultime siano dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero siano ad esse riservati mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che l’evento dannoso sia cagionato (Sez. IV, 10 giugno 2010, n. 00000, Xxxxxxxxxxx, Xx. 248849).
6. Ciò premesso, è necessario verificare se la sentenza impugnata ha colto nel segno laddove ha riconosciuto in capo agli imputati la sussistenza di una posizione di garanza e, quindi, di un obbligo di gestione del rischio.
Infondate sul punto sono le censure proposte.
Con riferimento al sindaco Xxxxxxxx, la norma di riferimento è l’art. 50 del t.u. degli enti locali che defi- nisce il primo cittadino come organo responsabile dell’amministrazione del comune. Sebbene la disposizione faccia esplicito riferimento alla delimitazione dei poteri del sindaco con quanto previsto dall’art. 107 (funzioni e responsabilità dei dirigenti) e quindi ad una distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di concreta gestione, ciò non esclude che il primo cittadino debba svolgere un ruolo di controllo sull’operato dei suoi dirigenti.
Di ciò vi è riscontro nello statuto del Comune di Firenze, ove all’art. 34, lett. h), è previsto che il sindaco possa chiedere al segretario generale “qualora ritenga che atti di competenza dei dirigenti siano illegittimi, o al direttore generale qualora ritenga che siano in contrasto con gli obiettivi e gli indirizzi degli organi elettivi e comunque non corrispondenti agli interessi del comune, di provvedere alla sospensione, all’annullamento o alla revoca degli atti medesimi. In questi casi, quando occorra, i relativi procedimenti sono evocati dal segreta- rio generale o dal direttore generale, o da loro rimessi ad altri dirigenti con specifiche istruzioni”.
Tale disposizione codifica un potere di controllo e sostitutivo del sindaco che ratifica in suo capo la presenza di un obbligo di vigilanza sugli organi di concreta gestione.
Peraltro tale potere-dovere trova riconoscimento nella giurisprudenza di questa Suprema corte, laddove è stato affermato, sebbene in tema di reati ambientali, che “La distinzione operata dall’art. 107 del t.u. delle leggi sull’ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti e occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità dell’ambiente (Sez. III, 27 giu- gno 2013, n. 37544, Rv. 256638).
Consegue da quanto detto, che correttamente la corte di merito ha ritenuto la presenza di una posizione di garan- zia in capo al sindaco, in quanto nonostante questi fosse consapevole della pericolosità del Forte (di ciò si discorrerà diffusamente in prosieguo), aveva omesso di attivarsi, esercitando i suoi poteri di xxxxxxxxx e sostitutivi, per la elimi- nazione dei pericoli e anzi aveva firmato la delibera che consentiva l’utilizzo degli spazi esterni del Forte.
Con riferimento all’imputato Xxxxxxxxx, dirigente della sezione cultura del comune, va anche per tale im- putato rammentata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui i dirigenti comunali possono essere titolari di posizioni di garanzia nello svolgimento dei compiti di gestione amministrativa a loro devoluti, ferma restando in capo al sindaco poteri di sorveglianza e controllo (Sez. IV, 21 aprile 2011, n. 22341, Rv. 250720).
La corte di merito, riformando sul punto la sentenza di primo grado, che aveva assolto il Xxxxxxxxx, ha ri- conosciuto in suo capo una posizione di garanzia in quanto, benché consapevole della pericolosità strutturale del Forte, aveva firmato le convenzioni per l’utilizzo della struttura con la cooperativa “Archeologia” (2 luglio 2008) e con la ditta “Giunti Arte Mostre e Musei” (9 luglio 2008).
Trova in tale affermazione risposta la doglianza difensiva, laddove viene censurata la genericità del capo di imputazione che non indica chiaramente se la condotta del Gherpelli sia stata omissiva o commissiva. Infatti ciò che gli viene addebitato è un comportamento positivo (la firma delle convenzioni allegate alla delibera), connotato da profili di colpa omissiva laddove prima di dar via libera all’utilizzo del Forte non aveva control- lato, violando regole di diligenza, la sicurezza della struttura.
La correttezza della contestazione e l’assenza di violazione del principio di correlazione, trova riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, laddove è stato affermato che in tema di reati colposi, quando l’agente non viola un comando, omettendo cioè di attivarsi quando il suo intervento era necessario, bensì trasgredisce ad un divieto, agendo quindi in maniera difforme dal comportamento impostogli dalla regola cautelare, la condotta assume natura commissiva e non omissiva (cfr. Sez. IV, 29 aprile 2009, n. 26020, Cipiccia, Rv. 243931).
In particolare, come rilevato dal giudice di merito, nella convenzione con la “Arte Mostre e Musei” il Gherpelli, nella sua qualità, impone in convenzione al concessionario, tra l’altro, di svolgere un controllo sui visitatori per salvaguardare la loro sicurezza. Con ciò ha manifestato la consapevolezza del rischio e il suo intendimento di prenderlo in carico e di gestirlo.
Pertanto la omissione dei dovuti controlli sulla sicurezza del Forte integra la violazione dei regole cautelari che hanno connotato di negligenza la firma delle convenzioni.
Con riferimento all’imputata Xxxxxxx, responsabile della cooperativa “Archeologia” beneficiaria della con- venzione del 2 luglio 2008 che le consentiva di organizzare eventi nell’area del Forte, essa è il soggetto con maggiore prossimità al rischio connesso all’accesso del pubblico e quindi certamente titolare di una posizione di garanzia tesa ad evitare il concretizzarsi di eventi di danno. Nella convenzione, come ricordato dal giudice di merito, vi è l’obbligo della verifica congiunta (comune e cooperativa) della agibilità al pubblico della struttura. Inoltre la cooperativa aveva esplicitamente assunto l’obbligo del rispetto delle norme sulla incolumità pubblica e di tutela della sicurezza dei partecipanti agli eventi.
7. Il rischio che, tra gli altri, i tre imputati erano tenuti a gestire è quello della caduta dai bastioni del Forte. Tale rischio non era ignoto considerato che prima dell’evento per cui si procede, avvenuto il 16 luglio 2008, analogo incidente era occorso ad altro visitatore del Forte, Xxxx Xxxx, precipitato il 3 settembre 2006. Inoltre vi erano state due segnalazioni di cani caduti nel vuoto dal Forte.
Il giudice di merito, dall’istruttoria svolta e dalle relazioni tecniche acquisite agli atti, ha rilevato che l’ori- gine dell’incidente andava ricondotta ad una pluralità di circostanze.
Le aree esterne al Forte non avevano un’adeguata illuminazione; quest’ultima era garantita dai sei fari ri- volti verso le palazzine del forte per finalità meramente architettoniche ed erano inidonee a garantire una sicura visibilità dell’area.
I cartelli segnalanti il pericolo di caduta non erano visibili nelle ore notturne e non vi erano segnalazioni che limitassero la circolazione del pubblico in percorsi obbligati.
Infine essendo i terrapieni all’altezza dei parapetti dei bastioni e non essendovi uno spazio di sicurezza tra di essi, idoneo ad evitare scavalcamenti, di notte l’ingannevole illusione della prosecuzione del prato del ter- rapieno esponeva al rischio di caduta nel vuoto, come verificatosi per la Xxxxxxxxx e, prima ancora, per il Raso.
8. Da quanto fin qui detto, emerge la infondatezza delle censure formulate dai difensori in ordine al difetto di motivazione relativamente al giudizio controfattuale e, in particolare, alla condotta che avrebbe evitato l’evento.
Una premessa. Come si rileva dalla sentenza impugnata, il rischio caduta era noto quantomeno dal 2006 anno in cui aveva trovato la morte, cadendo dai bastioni, Xxxx Xxxx.
Sia la difesa del Domenici che del Gherpelli, hanno indicato una serie di lavori svolti presso il Forte per di- mostrare la serietà dell’intenzione della sua messa in sicurezza. Ma come correttamente osservato dal giudice di merito si è trattato di opere frammentarie e non precedute da una vera e propria analisi del rischio caduta in rela- zione alla conformazione dei ruoli. Né scrimina il fatto che tale rischio sia divenuto noto nei suoi specifici contorni solo dopo l’esito delle indagini per gli incidenti, in quanto ciò che è mancata è proprio la condotta preventiva degli imputati che avrebbero dovuto attivarsi per porre in essere atti idonei a garantire la sicurezza degli utenti del Forte (il sindaco e la Bianchi) o controllare che la messa in sicurezza fosse stata posta in essere (il Gherpelli).
In particolare, quanto ai pubblici amministratori, in assenza del compimento di lavori finalizzati ad elimi- nare il concreto rischio caduta, era nel loro potere non avallare e/o non firmare la delibera e le convezioni che consentivano l’accesso al Forte del pubblico.
Quanto alla Bianchi, considerata la sua prossimità al rischio, in quanto gestrice degli “eventi” che attira- vano pubblico al Forte, avrebbe dovuto controllare le situazioni di rischio adottando idonei iniziative quali ad esempio il presidio dei bastioni con un adeguato numero di personale.
La condotte omesse, se tenute, come rilevato dal giudice di merito avrebbero evitato l’evento in quanto l’abbassamento del livello del terrapieno avrebbe reso visibile, anche in ora notturna, con adeguata illumi- nazione, la presenza del muro del bastione e quindi del vuoto. In assenza di tali condotte salvifiche, ben era possibile non firmare la delibera (il sindaco) e le convenzioni (il Gherpelli) per non esporre a rischio il pubblico per l’accesso ad una struttura insicura.
Quanto alla Bianchi, quanto meno avrebbe potuto pretendere o predisporre un’adeguata illuminazione delle zone di passaggio, nonché prevedere e garantire la presenza di personale a presidio delle zone a rischio caduta, in modo tale da impedire l’avvicinamento del pubblico alla zona dei bastioni.
Né può dirsi che lo spegnimento dei fari alogeni al momento dell’incidente (probabilmente per agevolare la proiezione di diapositive), costituisca un fattore causale da solo idoneo a provocare l’evento, sì da recidere il legame tra l’incidente e la condotta degli imputati.
Invero con congrua motivazione, il giudice di merito ha evidenziato che l’illuminazione presente nel forte era meramente “architettonica” e non era idonea a garantire la visibilità dei percorsi; anzi, da relazioni tecniche era emerso che i fari accesi accentuavano il rischio di illusione ottica quanto all’assenza del vuoto.
9. Infondate sono anche le censure relative alla erronea applicazione della legge e al difetto di motivazione in ordine alla riconosciuta presenza dell’elemento soggettivo della colpa.
Va premesso che, come noto, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del veri- ficarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, gestore del rischio, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione di una re- gola cautelare, sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire.
Peraltro, come più volte ribadito da questa Corte, la prevedibilità dell’evento non può riguardare la configu- razione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma la classe di eventi in cui quello oggetto del processo si colloca. Invero la descrizione dell’evento non può discendere oltre un determinato livello di dettaglio e deve mantenere un certo grado di categorialità; giacché un fatto descritto in tutti i suoi accidentali ragguagli diviene sempre, inevitabilmente, unico e in quanto tale irripetibile e imprevedibile (cfr. Cass., S.U., 24 aprile 2014, n. 38343, Xxxxxxxxx e altri, Rv. 261108).
Sul punto la corte di merito, nelle pp. 26-28, illustra analiticamente le circostanze da cui i pubblici ammini- stratori imputati avevano avuto conoscenza del rischio specifico (non meramente generico) di caduta e, quindi della prevedibilità dell’evento. In particolare:
- la lettera dell’agosto 2003 dell’arch. Cini, funzionario del Servizio tecnico comunale delle Belle Arti, che indicava il pericolo di caduta, manifestatosi attraverso la precipitazione di cani dai bastioni;
- la lettera del luglio 2004, nella quale il responsabile di “Firenze Mostre” comunica all’assessore comunale alla cultura il recesso dalla Mostra “Orizzonti”, per l’assenza di sicurezza per le cose e le persone;
- la missiva del Cini, datata 4 settembre 2006, giorno successivo alla morte di Xxxx Xxxx, indirizzata alla direzione cultura del comune, in cui si avverte che “non sarà impresa da poco in futuro, il ripetersi di episodi del genere, a meno di intervenire su tutto il perimetro dei bastioni, con opere da definirsi, ma comunque a costi assai elevati”;
- la missiva inviata il 6 settembre 2006 da Bonsanti al Domenici, in cui la morte di Xxxx Xxxx viene definita “un incidente annunciato”, in assenza di opere idonee a “proteggerci dal rischio di caduta dall’alto”;
- la interrogazione al sindaco del settembre 2006, in cui l’assessore Xxxxxxxx, rammentando la dinamica dell’incidente occorso al Raso, chiede di sapere quali misure di sicurezza erano state adottate, anche con rife- rimento all’adeguatezza dell’illuminazione;
- l’interrogatorio del Domenici in cui l’imputato afferma che il problema della sicurezza del Forte e delle opere necessarie da svolgere era noto ancor prima della morte del Raso;
- la relazione Parretti al Gherpelli, del 31 ottobre 2007, che segnala zone da interdire e sorvegliare, specifi- camente indicando la “linea di alta pericolosità per il rischio caduta dall’alto”;
- il provvedimento del Gherpelli del 8 luglio 2008, in cui viene disposta la sorveglianza con l’associazione “Amici della Terra”, in considerazione del fatto che “il complesso è problematico per quanto riguarda la sicu- rezza delle persone”.
Da quanto fin qui esposto emerge con certezza, così come ritenuto dalla Corte distrettuale, la conoscenza del rischio caduta da parte degli imputati Domenici e Xxxxxxxxx.
Né gli stessi potevano fare affidamento, quanto alla risoluzione del problemi, ai plurimi lavori svolti nel tempo, senza però una preventiva e specifica analisi dei rischi. Con coerente motivazione, il giudice di merito ha evidenziato come i certificati di agibilità e la certificazione a firma del Cini del 2003 avevano una valenza eminentemente urbanistica e in ogni caso attestavano una generica agibilità non correlata allo specifico nuovo utilizzo del Forte per eventi, anche concomitanti, con conseguente massiccio afflusso di pubblico.
Gli interventi del 2005 non avevano riguardato la zona dell’incidente Raso (del 2006); come pure quelli del 2007. Tali interventi non erano risolutivi, tanto vero che, come già detto, nella relazione Parretti dell’ottobre 2007 si parla ancora di pericolosità per caduta dall’alto.
Pertanto priva di fondamento è la censura formulata dalla difesa del Gherpelli circa la mancata identifica- zione della regola cautelare violata, che va identificata nell’avere consentito l’apertura al pubblico delle aree aperte del forte senza un controllo preventivo della sicurezza della struttura, pur essendo a conoscenza del rischio caduta, già in passato concretizzatosi.
Quanto alla Bianchi, la conoscenza del rischio e la prevedibilità dell’evento si evincono, come osservato dalla Corte d’appello, dalla notorietà dell’incidente occorso al Raso, nonché dalla diretta e immediata cono- scenza dei luoghi ove si sarebbero svolti gli eventi organizzati dalla sua cooperativa, fatto questo che le con- sentiva di percepire de visu la pericolosità della zona dei bastioni.
In ordine alla evitabilità dell’evento e alla esigibilità delle condotte doverose e rispettose delle regole di diligenza da parte del Domenici e del Gherpelli, va evidenziata la correttezza del ragionamento sul punto esplicitato dalla corte di merito, la quale ha osservato che era nei poteri di tali soggetti, a vario titolo gestori del rischio, pretendere un’analisi della situazione di sicurezza del Forte e la esecuzione di lavori atti ad elimi- nare in radice il rischio, senza affidarsi ad una cartellonistica invisibile di notte e ad occasionali transenne; in alternativa era in loro potere non firmare la delibera e le convezioni che avevano di fatto aperto al pubblico le aree esterne del Forte.
Quanto alla Bianchi, nei suoi motivi di ricorso lamenta che non era stato provato fosse a conoscenza del rischio caduta e quindi a suo carico non poteva configurarsi alcuna condotta colposa.
La censura è infondata. Come si rileva dalle sentenze di merito la Bianchi, in rappresentanza della “Coope- rativa Archeologia”, aveva sottoscritto con la direzione cultura del comune la convenzione del 2 luglio 2008. Nell’art. 11 di detta convenzione è esplicitamente affermato che la cooperativa si impegnava “alla sorveglianza necessaria durante lo svolgimento degli eventi previsti dal progetto, atta a tutelare la sicurezza dei partecipanti agli eventi stessi”.
La Bianchi, pertanto, come già sopra detto, era la persona più prossima al rischio e, quindi, tenuta alla sua gestione non come mero spettatore, ma come soggetto attivo. In qualità di garante pertanto doveva attivarsi per controllare la sicurezza dei luoghi (illuminazione, sbarramenti, ecc.) e rilevare le zone pericolose in ragione della conformazione dei luoghi. La mancata analisi dei rischi e l’ignoranza degli stessi, costituisce una viola- zione delle regole di diligenza. Pertanto correttamente la corte di merito ha ritenuto colposa la condotta di non aver preso alcuna iniziativa per aumentare la illuminazione delle aree del Forte e per inibire l’accesso alla zona dei bastioni attraverso efficaci strutture fisse o un servizio di sorveglianza adeguato alle dimensioni dell’area, al rilevante afflusso di pubblico e alla pluralità dei concomitanti eventi. Nella sentenza impugnata, con coerente ragionamento si è evidenziato che allo scopo non era sufficiente la presenza di soli 8 sorveglianti mobili, nes- suno dei quali peraltro in servizio sul perimetro dell’incidente al momento del fatto.
La violazione delle indicate regole di diligenza, il cui rispetto era di fatto esigibile, ha determinato il con- cretizzarsi del rischio caduta e la morte della Xxxxxxxxx.
10. Con un secondo ricorso la difesa dell’imputato Xxxxxxxxx ha effettuato un’articolata analisi della docu- mentazione amministrativa acquisita in atti, da cui evincere che l’imputato non era a conoscenza delle man- chevolezze in tema di sicurezza, in quanto le informative erano state inoltrate all’assessorato alla cultura e non al direttore; inoltre ben poteva fare affidamento sia su alcuni lavori svolti, che sul fatto che nelle convenzioni stipulate era previsto un controllo dinamico del pubblico attraverso l’utilizzo di stewards; inoltre la pericolosità della zona della cannoniera era stata scoperta solo nel 2009, allorché il Gherpelli era stato iscritto nel registro degli indagati per la morte del giovane Xxxx (nel 2006), procedimento all’esito del quale era stato assolto. Per-
tanto non solo non era possibile configurare a suo carico la posizione di garanzia, ma anche la sussistenza della colpa presupponente la conoscenza del rischio.
Tali argomentazioni, già sopra analizzate, per come articolate invitano ad una rilettura del merito della vi- cenda non consentita in questa sede a fronte del fatto che la corte di merito, nell’articolare il suo ragionamento ha preso in considerazione le circostanza riportate in ricorso, pervenendo al convincimento della consapevo- lezza da parte dell’imputato della presenza del rischio caduta.
Non giustifica il fatto che alcune informative siano state indirizzate all’assessorato e non alla direzione, in quanto un pubblico amministratore che si appresti alla firma di rilevanti convenzioni ha un obbligo di docu- mentarsi e non può trincerarsi dietro il paravento dell’ignoranza.
Inoltre la corte di merito ha citato specifici atti da cui si desumeva la conoscenza della insicurezza della struttura da parte del Gherpelli, quali la missiva del Cini alla direzione cultura (inviata il giorno successivo alla morte del Raso) in cui viene segnalata la pericolosità della zona dei bastioni; la relazione dell’ottobre 2007 del Parretti al Gherpelli in cui esplicitamente viene segnalata la pericolosità del rischio caduta dall’alto.
Ne ha desunto la Corte distrettuale che ad ottobre 2007 il problema sicurezza non era stato ancora risolto, nonostante il precedente della precipitazione del Raso. Né poteva dirsi che con la previsione di un controllo dinamico (stewards) potevano ritenersi i problemi di sicurezza superati, considerato che non erano stati posti vincoli sul numero delle persone impegnate nei controlli e sulla loro specifica dislocazione.
11. La Corte d’appello nel riconoscere la responsabilità degli imputati per l’omicidio colposo ha, con in- censurabile logico ragionamento, escluso il concorso di colpa della vittima riconosciuto invece dal giudice di primo grado.
Invero, la Corte, dopo avere richiamato le deposizioni dei testi presenti al fatto, i quali avevano visto la Xxxxxxxxx allontanarsi, attraversare i terrapieno, saltare sul muro perimetrale e poi scomparire nel vuoto, ha os- servato che tale condotta non era stata il frutto di una imprudenza, ma della ingannevole situazione dei luoghi che, con la falsa illusione della continuazione del prato oltre il muro, aveva indotto la vittima a ritenere che lo scavalcamento del camminamento le avrebbe consentito di proseguire il suo percorso su altro terrapieno per raggiungere la zona di un concerto.
Né rileva la circostanza che per raggiungere la zona la Xxxxxxxxx abbia probabilmente aggirato una transen- na, considerata la inidoneità di tale presidio, in un’ampia zona, a rendere palese la presenza del pericolo.
È per tale motivo che nella condotta della vittima non è stata rinvenuta alcuna rimproverabile imprudenza, considerato che la scarsa illuminazione, la mancanza di visibile segnalazione del pericolo e la conformazione dei luoghi non avevano consentito alla Xxxxxxxxx di percepire la presenza del vuoto.
Alla luce delle considerazioni svolte si impone il rigetto dei ricorsi e la condanna dei ricorrenti al pagamen- to delle spese processuali e a quelle sostenute dalle parti civili che si liquidano come da dispositivo.
P.q.m., rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxx Xxxxx, Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxx e liquida complessivi euro 3.000 ciascuno oltre accessori come per legge.