Contract
XLI CONFERENZA ITALIANA DI SCIENZE REGIONALI
LA SFIDA DELL’INNOVAZIONE PER I SISTEMI REGIONALI DI FORMAZIONE
Xxxxxx D’Agostino1, Xxxxxx Vaccaro2
SOMMARIO
L’apprendistato duale, in quanto contratto che coniuga la formazione in azienda e nell’istituzione formativa con l’attività lavorativa, si configura come uno strumento particolarmente efficace per consentire ai giovani di sviluppare competenze adeguate al mercato del lavoro e per permettere alle imprese e ai territori di cogliere i vantaggi delle innovazioni tecnologiche. A partire dai risultati di una ricerca svolta su sette Paesi europei, che ha analizzato l’evoluzione dei sistemi di apprendistato di fronte alle sfide della digitalizzazione e delle trasformazioni del lavoro e della produzione, viene riletta la performance italiana nel rilancio dell’apprendistato duale. Ispirandosi al modello duale tedesco, l’Italia ha, infatti, attivato specifiche misure di policy per rafforzare il segmento della prima formazione professionale e diffondere l’apprendistato che registrano un limitato successo solo in alcune aree del Nord. Si tratta di un risultato influenzato dall’approccio prevalentemente settentrionale che ha ispirato la costruzione della via italiana al sistema duale; un approccio che non tiene conto delle specificità dei contesti territoriali e delle esigenze delle aree più marginali ed è quindi incapace di elaborare un set di strumenti e forme di supporto a intensità variabile e attivabili secondo le diverse esigenze, ma che è anche poco attento agli effetti dei mega-trend di innovazione che stanno trasformando i sistemi europei di istruzione e formazione professionale.
1Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – INAPP, Roma, x.xxxxxxxxx@xxxxx.xxx (corresponding author).
2Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – INAPP, Roma, x.xxxxxxx@xxxxx.xxx .
1. Introduzione
Gli ultimi decenni del Novecento hanno visto una diffusa trasformazione che in larga misura è ancora in atto. L’intrecciarsi dei cambiamenti connessi ai fenomeni di terziarizzazione, globalizzazione, innovazione tecnologica e digitalizzazione, ha innescato profondi processi di rinnovamento, i cui effetti hanno interessato in primo luogo i sistemi economici per poi sollecitare i sistemi del lavoro e del welfare, e quindi gli assetti istituzionali.
Si tratta di trasformazioni che hanno coinvolto progressivamente, con tempi e modelli differenziati, tutti i paesi e che quindi hanno anche stimolato un ampio dibattito accademico e incentivato la produzione di una folta letteratura scientifica.
Per delineare in forma molto sintetica il quadro di tali cambiamenti, occorre segnalare la progressiva espansione del peso del settore terziario sui sistemi economici dei Paesi più avanzati, con conseguente diminuzione dell’industria manifatturiera. La nascita del WTO con la liberalizzazione dei commerci internazionali ha impresso una forte spinta ai processi di globalizzazione, aumentando l’interdipendenza fra i mercati. L’innovazione tecnologica negli ultimi decenni ha proceduto ad una velocità sconosciuta nel passato, passando attraverso i processi di informatizzazione e automazione, fino a dare il via alla “quarta rivoluzione industriale”, secondo la definizione di X. Xxxxxx. Questa promette di modificare la vita di ogni persona attraverso nuove tecnologie che operano una compenetrazione fra mondo fisico, digitale e biologico, come ad esempio: Intelligenza Artificiale, Internet of Things, Big Data, Cloud Computing, Robotica Collaborativa, Realtà Aumentata e Virtuale, Stampa 3D, Veicoli Autonomi, Nanotecnologia e Biotecnologia.
La competizione su un mercato globale ha messo sotto pressione le economie dei Paesi più avanzati, innescando processi di ristrutturazione della produzione. La tensione a mantenere la competitività attraverso il contenimento dei costi ha generato fenomeni di outsourcing e delocalizzazione, volti alla ricerca dei territori dove le condizioni economiche sono più favorevoli; come pure ha sollecitato operazioni di rinnovamento interno alle aziende, che hanno favorito l’innovazione della tecnologia e la ricerca incessante di nuove forme di organizzazione in grado di sfruttare pienamente le possibilità offerta dall’innovazione tecnologica.
Le trasformazioni delle economie e dei sistemi di produzione stanno determinando cambiamenti profondi nel mondo del lavoro.
Un ampio dibattito si è sviluppato intorno al tema degli effetti sull’occupazione delle trasformazioni del mondo del lavoro. Alcuni hanno sottolineato l’effetto “distruttivo” innescato dai processi di innovazione dovuto alla scomparsa di alcune professioni a bassa qualificazione, sostituite dalla nuova tecnologia il cui costo è alla portata di tutti; lo stesso effetto “distruttivo” deriva dalla destrutturazione dei processi produttivi, con la delocalizzazione di operazioni a bassa qualificazione nei Paesi in via di sviluppo, dove il costo del lavoro è più basso. Un’altra parte di ricercatori ha invece sottolineato le potenzialità “creatrici” di occupazione delle trasformazioni, derivanti dalla nascita di nuovi prodotti, nuovi settori, nuovi profili professionali (Ilo, 2018).
L’impatto delle trasformazioni sul lavoro non è riconducibile ad una mera questione quantitativa: insieme ai numeri, cambiano le professioni e i fabbisogni di competenze, visto che la maggior parte dei profili professionali che rimangono deve trasformarsi, arricchendosi di nuove abilità. In generale, l’analisi dei dati ha messo in evidenza che l’innovazione tecnologica è andata fino ad ora a detrimento soprattutto dei profili a media qualificazione, determinando una crescita della quota di lavoratori nelle fasce più estreme: quelle a bassa qualificazione e quelle più elevate.
Ma l’effetto più rilevante delle trasformazione dei sistemi economici sul lavoro riguarda la crescente segmentazione, ovvero il “dualismo” fra un nucleo centrale di lavoratori relativamente sicuri – gli insiders - e una periferia di lavoratori precari, sotto-occupati e vulnerabili – gli outsiders (Emmenegger et al., 2012). Infatti, la spinta alla ricerca di modelli organizzativi flessibili sostenuta
anche dalle nuove disponibilità tecnologiche a basso costo, consente di scaricare una parte sempre maggiore del rischio di impresa sui lavoratori, grazie anche al fiorire di forme di lavoro “atipico” - temporaneo, occasionale, a chiamata, part-time, ecc. -, su un crinale che potenzialmente rende più autonomo il lavoro ma che troppo spesso produce precarietà e disuguaglianze. Questa segmentazione alimenta le disuguaglianze sociali.
I dati disponibili sembrano indicare che i benefici delle trasformazioni degli ultimi decenni sono andati solo a vantaggio di alcuni, facendo crescere le disuguaglianze. Infatti, in circa la metà dei paesi dell’Oecd i salari mediani reali sono rimasti stagnanti dal 2000 e sono cresciuti meno della produttività. Secondo uno studio del 2013, 42 Paesi su 59 hanno registrato un calo della quota del PIL derivante dal lavoro - tendenza che si riscontra anche nelle economie emergenti come la Cina (Xxxx et al., 2015).
Tuttavia, la ricerca ha dimostrato che, se la segmentazione sembra una conseguenza ineludibile delle trasformazioni dei sistemi economici, gli Stati possono intervenire con misure di policy per contenere gli effetti economici, sociali e politici di tale segmentazione (Xxxxxxxxxx e Xxxxxxxxx, 2012).
I giovani sono uno dei gruppi che ha mostrato maggiore vulnerabilità rispetto al lavoro come conseguenza della transizione alla società post-industriale (Xxxxxx-Xxxxxxxx, 1998; Emmenegger et al., 2012), tanto da essere additati come i “perdenti” (“losers”) della globalizzazione (Xxxxxxxx et al., 2009). Ciò è avvenuto a dispetto della progressiva contrazione delle leve giovanili in pressoché tutti i Paesi più avanzati, vista l’incessante riduzione del tasso di fertilità sceso dal 3,2 nel 1960 all’1,6 nel 2018 (dati Oecd). Come pure non ha migliorato la situazione dei giovani sul mercato del lavoro il significativo aumento della scolarizzazione: il tasso di nuovi ingressi nell’istruzione terziaria è cresciuto dal 20% intorno agli anni ’60 al 50% intorno agli anni ’90 (Oecd, 1999); il dato più recente, che risente di una diversa metodologia di classificazione dell’istruzione terziaria ed è una media fra un numero molto maggiore di Paesi, stima una percentuale di giovani che entrano per la prima volta nell’istruzione terziaria nel 2019 pari al 65% nei Paesi Oecd (Oecd, 2019).
Particolarmente critica appare la fase di transizione dalla scuola/ formazione al lavoro, e ciò può sembrare sorprendente visto che i giovani normalmente possiedono un livello di istruzione superiore a quello dei lavoratori adulti. Ciò che li penalizza è la mancanza di esperienza professionale e di legami con il mondo produttivo, condizione che determina una maggiore debolezza nel contrattare salari e condizioni di lavoro adeguate e posti di lavoro stabili (Blossfeld, Xxxxxxxx, 2014). Possono poi aggiungersi altri elementi di debolezza, legati alle vicende personali e/o al contesto socio-economico di riferimento.
Pertanto, spesso la fase di inserimento si caratterizza per la presenza di condizioni miste di studio e lavoro, per il passaggio attraverso diverse esperienze di breve durata, puntellate di molteplici interruzioni. Inoltre, la ricerca ha dimostrato l’importanza del primo lavoro su tutta la carriera professionale, identificando uno “scarring effect” di lungo periodo sull’occupazione e sul reddito (Xxxxxxx, 1982).
Da alcuni decenni la situazione dei giovani sul mercato del lavoro costituisce una priorità sull’Agenda politica di molti Governi. Il progressivo deterioramento dei tassi di disoccupazione giovanile negli ultimi decenni ha stimolato un dibattito sempre più ampio, che ha coinvolto istituzioni, stakeholders, esperti, rappresentanti della società civile e delle organizzazioni giovanili, e che si è svolto a diversi livelli, da quello locale a quello internazionale. Anche perché la ricerca ha sottolineato il ruolo dell’assetto istituzionale nel contribuire ad appianare o, viceversa, nell’esacerbare le conseguenze delle trasformazione del lavoro su questo segmento della popolazione (Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx, 2014; Xxxxxxxxx et al., 2020).
Delineare il quadro della condizione dei giovani rispetto al mercato del lavoro oggi è molto difficile, dal momento che i dati disponibili non possono ancora tenere conto degli effetti della pandemia in corso. Secondo l’Economic Outlook 2020 «the covid-19 pandemic is a global public health crisis without precedent in living memory …. The global economy is now experiencing the deepest recession since the Great Depression in the 1930s, with GDP declines of more than 20% in many countries during shutdowns and a surge in unemployment» (Oecd, 2020).
Analizzando i dati al 2019 il quadro è piuttosto a tinte fosche, ma suscettibile di significativi variazioni in un arco di tempo limitato, quando gli effettivi economici e sul lavoro si faranno sentire nella loro interezza. Infatti, quella che (fino ad ora) è stata definita “Great Recession”, ovvero la “grande recessione” generata dalla crisi economico-finanziaria del 2008, ha portato ad un forte peggioramento della condizione dei giovani sul mercato del lavoro (Xxxxxxxxx et a., 2020).
Guardando al fenomeno su un piano globale, la fotografia fatta dall’ILO a novembre 2019 segnalava un tasso di disoccupazione giovanile del 13,7% sul totale di forza lavoro 15-24 anni pari a 497 milioni di individui: una situazione apparentemente soddisfacente, se non si tenesse in debita considerazione un’altra quota importante di giovani – pari a 267 milioni – che risultano non inseriti né in percorsi di studio/ formazione né nel mercato del lavoro (NEET) (Ilo, 2020a).
Molta occupazione è “atipica”: quasi il 77% di giovani - ovvero 328 milioni - svolge un lavoro informale e un’altra quota importante, costituita soprattutto da giovani donne, risulta sottoutilizzata nel mercato del lavoro. Inoltre, i giovani sono più facilmente occupati in lavori e settori che li penalizzano rispetto al reddito e li rendono vulnerabili alla perdita di posti di lavoro. Un altro elemento è la diffusione del lavoro autonomo: a livello globale, il 39,8 per cento dei giovani risulta essere un lavoratore autonomo, categoria che può comprendere imprenditori di successo, ma spesso masse di giovani lavoratori poveri e occupati in nero, in particolare nei paesi a basso e medio reddito.
Fra i Paesi industrializzati, l’Italia si colloca fra quelli che mostrano i livelli più elevati dei tassi di disoccupazione giovanile. A fronte di un tasso di disoccupazione complessivo che nel 2019 ha raggiunto il 10% - il valore più basso dal 2012 -, sulla fascia di popolazione 15-24 il valore si attesta al 29,2%, facendo segnare una distanza di oltre 14 punti percentuali dalla media UE27 (15,0%, valori al netto di UK, dati Eurostat). A distanza di quasi undici anni e dopo che dal 2014 il numero di occupati è cresciuto in maniera costante anche se contenuta, nel 2019 l’occupazione giovanile non ha ancora recuperato i livelli del 2008 (Istat, 2020).
Guardando al tasso di occupazione, nel decennio si è ridotto sensibilmente il divario di genere passando da circa sei punti percentuali nel 2008 a 3,4 nel 2019, per effetto combinato di una crescita moderata dei settori a più elevata partecipazione femminile nell’ambito del terziario e della crisi registrata nel settore dell’edilizia, a prevalenza maschile; come pure si è ridotto il divario fra maschi e femmine rispetto al tasso di attività della popolazione 15-24 anni, pur rimanendo di molto inferiore alla media europea. Sono aumentate invece le disuguaglianze rispetto ad altri indicatori: a farne le spese il Mezzogiorno e la popolazione con i più bassi livelli di istruzione, in particolare per la fascia d’età giovanile, che non hanno ancora recuperato i tassi di occupazione pre-2008 (Istat, 2020).
L’insorgere della pandemia con tempistiche molto differenziate nei Paesi e tra i continenti, con durata differenziata e diverse risposte da parte dei governi, con l’ulteriore rischio di una recrudescenza in autunno, genera una molteplicità di effetti sulle economie: blocca la produzione nei mesi di lock-down, interrompe le catene di approvvigionamento che oggi hanno una valenza globale, per il tramite della contrazione della domanda colpisce con effetti di più lungo periodo alcuni settori che tradizionalmente occupano una quota preponderante di giovani: in particolare servizi di alloggio e di ristorazione e il commercio.
Una stragrande maggioranza dei lavoratori in tutto il mondo vive in Paesi che hanno dovuto attivare misure di chiusura dei posti di lavoro con l’obiettivo di favorire il contenimento della
diffusione della pandemia da Covid-19. E man mano che la pandemia si diffonde nelle varie aree del mondo, la lista di tali Paesi si allunga (Ilo, 2020b).
Si consideri che la popolazione giovanile a livello mondiale non aveva ancora recuperato le perdite accumulate nell’occupazione dopo la crisi economico-finanziaria del 2008. Infatti, il tasso di disoccupazione giovanile globale nel 2019 (13,7 per cento) era ben superiore al valore registrato nel 2007 (12,3 per cento) (Ilo, 2020a).
In queste condizioni per i giovani oggi diventa presumibilmente più difficile inserirsi nel mercato del lavoro, trovare un buon lavoro, mentre aumentano le probabilità di periodi di disoccupazione prolungata o di finire in una occupazione che non corrisponda al proprio background di studi. Dato che la recessione provocata dalla pandemia è molto più grave delle precedenti, è probabile che si verifichino perdite salariali di lunga durata per intere coorti di giovani che hanno la sfortuna di acquisire un diploma o una xxxxx durante il 2020-2021.
Come anticipato, una ampia letteratura ha messo in evidenza l’importanza degli assetti istituzionali di ogni Paese per spiegare il diverso impatto che le trasformazioni dei sistemi economici e dei grandi shock come la “grande recessione” hanno avuto sulla partecipazione dei giovani al mercato del lavoro. Fino ad ora, però, la ricerca comparativa prevalentemente ha assunto come unità di studio i fenomeni rilevati al livello nazionale, trascurando il fatto che, all’interno di ogni Paese, convivono situazioni territoriali molto diverse. E questa diversità caratterizza alcuni Paesi più di altri.
Negli ultimi anni la dimensione regionale ha ricevuto una attenzione crescente nell’ambito della ricerca comparativa, in particolare per effetto di due elementi: l’aumento delle disuguaglianze territoriali, la rilevanza assunta dallo studio degli assetti istituzionali come spiegazione di tali disuguaglianze (Xxxxxxx et al., 2015). Infatti, le politiche improntate all’attuazione di un principio di sussidiarietà che hanno comportato la devoluzione di competenze dal livello centrale a quello territoriale in molti Paesi, hanno alimentato un’attività di ricerca che ha iniziato a focalizzare l’attenzione sugli aspetti territoriali nell’esaminare l’effetto dei fenomeni, per definire opportuni interventi di policy e valutarne i risultati (Kazepov, 2010).
In particolare, ad esempio in Europa, la ricerca ha messo in evidenza le differenze sul piano regionale che caratterizzano i mercati del lavoro e la condizione dei giovani; ciò è tanto più vero in Italia se si guarda a tutti gli indicatori: di scolarizzazione, di performance nel mercato del lavoro, di reddito.
Recentemente, sono stati esaminati i percorsi di transizione dalla scuola al lavoro dei giovani nel periodo 2005-2016, a partire da sei indicatori relativi alla situazione sul mercato del lavoro dei giovani (Xxxxxxxxx et al., 2020), in una comparazione fra i Paesi europei che ha osservato gli andamenti a livello nazionale e regionale (NUTS2). L’analisi ha dimostrato che gli esiti dei percorsi di transizione presentano forti disparità non solo rispetto ai livelli nazionali, ma anche sul piano regionale. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, le basse medie nazionali risentono soprattutto del peso di quelle regioni che offrono scarse opportunità di lavoro anche ai giovani con i più alti livelli di istruzione, mentre le altre regioni mostrano perfomance non dissimili da quelle degli altri Paesi. Il peso di tali discriminanti proietta un effetto di più lungo periodo, anche tutta la vita, considerando le diverse opportunità che sono legate ai contesti socio-economici territoriali.
In precedenza, Xxxxx et al. (2018) avevano esaminato nel dettaglio le caratteristiche dei NEET in Italia evidenziando l’eterogeneità di questo gruppo target nel quale si identificano giovani con un’ampia diversità di traiettorie. Questi giovani si connotano anche per un’altra varietà di caratteristiche quali il genere, l’appartenenza a famiglie di emigrazione, il percorso di studio/formazione, il contesto territoriale. Gli autori concludono che, se non si pone adeguata attenzione al contesto nella definizione delle politiche, il rischio che si corre è che le disuguaglianze aumentino, determinando il cosiddetto “Xxxxxxx effect”, in cui le misure rivolte ai gruppi vulnerabili finiscono per coinvolgere solo i meno svantaggiati fra questi.
Pertanto, con l’obiettivo di approfondire l’analisi delle policy in una prospettiva che mette in evidenza il ruolo dei diversi contesti territoriali, il presente contributo illustra i risultati di una riflessione svolta sulle prime evidenze emerse in relazione ad un intervento promosso in Italia quasi cinque anni fa. Infatti, l’avvio di un progetto finalizzato a costruire una via italiana al sistema duale, sull’esempio del modello tedesco di alternanza tra formazione e lavoro, è stato sollecitato dalla ricerca di misure adeguate a contrastare la crescente disoccupazione giovanile che a seguito della Grande recessione in Italia ha raggiunto valori medi anche superiori al 40% (42,7% nel 2014 e 40,3% nel 2015). L’analisi dei primi dati disponibili mette in evidenza il differente impatto della sperimentazione sui territori, la diversa configurazione che viene assumendo, ma soprattutto solleciterà una riflessione sull’adeguatezza dello strumento a rispondere alle esigenze dei giovani disoccupati, con bassa qualificazione, delle Regioni del Mezzogiorno d’Italia. Tutto ciò considerando anche l’evoluzione che l’apprendistato sta assumendo nei contesti di elezione, ovvero in Germania e nei Paesi limitrofi.
2. L’apprendistato duale alla prova dei megatrend di innovazione
In un contesto in cui i tassi di occupazione e disoccupazione giovanile cominciano a peggiorare a partire dai primi anni Ottanta, nonostante l’aumento dei livelli di istruzione e la contrazione delle leve demografiche, studiosi e organismi internazionali puntano i riflettori sull’apprendistato, visto il successo dei Paesi con un sistema duale solido e diffuso nel favorire l’ingresso nel mercato del lavoro per i giovani (Oecd, 1999). Anche grazie all’impegno profuso dall’Oecd nel sottolineare l’efficacia dell’apprendistato per avvicinare scuola e impresa e quindi contrastare efficacemente la disoccupazione giovanile (Oecd, 1979), a partire dalla metà degli anni Ottanta un numero crescente di Paesi industrializzati ha avviato processi di rinnovamento e/o di introduzione di un’offerta di formazione duale nell’ambito del proprio sistema educativo (Ni Chelleagh, 1995).
Sul piano europeo, l’adozione della strategia di Lisbona nel 2000 per la costruzione di una società basata sulla conoscenza sottintende il riconoscimento – da parte dei Paesi membri - del ruolo centrale delle politiche per l’istruzione e la formazione per la modernizzazione del modello sociale europeo e per lo sviluppo della creatività e dell’innovazione quali motori dello sviluppo economico (European Commission, 2012). Pertanto, nell’ambito del cosiddetto “processo di Copenhagen” – dal nome della città in cui i Ministri dei Paesi membri concludono l’accordo –, si dà il via ad una cooperazione rafforzata in materia di istruzione e formazione per la quale vengono progressivamente precisati gli obiettivi per ogni Paese. In questo quadro cresce l’interesse sugli strumenti di work-based learning, soprattutto in seguito all’accentuarsi delle difficoltà dei giovani all’inserimento nel mercato del lavoro dopo la crisi economico-finanziaria del 2008.
Con l’espressione work-based learning si intende una gamma di pratiche formative basate sull’alternanza fra formazione e lavoro che favoriscono l’apprendimento e promuovono lo sviluppo di competenze utili alla crescita personale e professionale dei giovani e al loro inserimento lavorativo. Fra gli strumenti di work-based learning, un ruolo preminente è riconosciuto all’apprendistato.
Il sistema di apprendistato di riferimento, ovvero il modello cui si ispirano quei Paesi che vogliono implementare lo strumento, è quello che opera in Germania e in Paesi limitrofi quali Svizzera, Austria, Danimarca: si tratta dei Paesi riconosciuti come “apprenticeship countries” (Ilo, 2012).
Le caratteristiche fondamentali del percorso sono note: si tratta di una opzione per il conseguimento di qualifiche professionali di livello 3 o 4 dell’EQF - e quindi di livello secondario superiore - attraverso un percorso di formazione che si svolge nell’ambito di un contratto di lavoro, con una alternanza formativa che comporta 1 o 2 giorni settimanali di frequenza di una scuola professionale e 3 o 4 giorni di percorso di formazione all’interno di una impresa.
Il funzionamento di tale segmento formativo è sostenuto da un assetto istituzionale che in letteratura è stato definito “corporativista” (Xxxxxxxx, 2002) o “collettivista” (Xxxxxx, 2007), «as employers train not narrowly and for their own needs, but broadly and to standards that are set nationally by committees composed of representatives of business and labor». In particolare, Xxxxxx (2007) individua tre elementi distintivi del sistema duale della Germania: la grande partecipazione di imprese di tutte le dimensioni, il controllo sulla formazione in azienda attraverso il riferimento a standard che definiscono contenuti e modalità di valutazione, il protagonismo del settore privato nella gestione del sistema con un supporto minimo offerto dallo Stato in termini di regolamentazione e gestione delle scuole professionali.
Numerosi studi empirici hanno esaminato gli effetti della formazione in apprendistato sui percorsi individuali sul mercato del lavoro (Xxxxx et al., 2013). La maggior parte di queste analisi perviene alla conclusione che gli apprendisti traggono beneficio dalla formazione sul posto di lavoro, in quanto la loro probabilità di impiego iniziale è maggiore. Infatti, diversi studi condotti sull’apprendimento work-based mostrano come i giovani coinvolti in questi interventi, non solo sono più facilmente collocabili nel mercato del lavoro, ma trovano anche un’occupazione di maggiore qualità (Cedefop, 2015).
Infatti, guardando alle serie storiche, Danimarca, Germania, Austria e Svizzera sono tra i Paesi che mostrano i più bassi tassi di disoccupazione giovanile al livello europeo e anche di Oecd. In particolari tali sistemi duali si sono dimostrati abbastanza efficaci per assicurare ai giovani un buon inizio nel mercato del lavoro e sono ormai consolidati gli studi che mostrano come una buona partenza corrisponda ad una migliore performance successiva nel mercato del lavoro (Xxxxxxxx et al., 2007).
Tuttavia, gli effetti della formazione dell'apprendistato sui risultati occupazionali a lungo termine e sui salari post-apprendistato sono più controversi (Xxxxx et al., 2013). Diversi studi hanno evidenziato che l'effetto della formazione professionale di livello secondario (rispetto all'istruzione secondaria più generale) sulla probabilità di trovare un lavoro è inizialmente positivo, ma diminuisce nel tempo (Xxxxxxxx, Xxxxx, 2015) e infine potrebbe persino diventare negativo (Xxxxxxx et al., 2016). Inoltre, sia il vantaggio iniziale che la misura in cui tale vantaggio diminuisce nel tempo sono più pronunciati in paesi come la Germania o la Danimarca, che sono caratterizzati da un sistema duale (Xxxxxxxx et al., 2017).
L’impulso alla diffusione dell’apprendistato tra i Paesi industrializzati a partire dagli anni Ottanta si accompagna allo sviluppo di un dibattito sulle sfide che tale strumento deve fronteggiare in relazione ai cambiamenti del sistema economico e sociale, dibattito sollecitato anche dall’esigenza di valutarne le modalità di estensione ai territori della Germania orientale in seguito alla riunificazione del Paese (inter alia, Xxxxxxxx & Xxxxx, 1997; Xxxxxxxxx, 1999). In particolare, l’emergere di un problema di insufficienza dell’offerta di posti in apprendistato rispetto alla domanda espressa dai giovani - soprattutto in Germania, dove ancora nel 2001 il 51,2% degli studenti sceglieva di intraprendere un percorso in apprendistato al completamento della scuola secondaria inferiore (Oecd, 2003) - ha stimolato un intenso confronto fra policy-makers, stakeholders ed esperti, volto ad approfondire le determinanti di tale fenomeno e ad individuare le eventuali azioni correttive da intraprendere.
La realizzazione di uno studio comparativo sui sistemi duali dei Paesi dello Spazio Alpino (Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Slovenia, Svizzera), con l’obiettivo di individuare raccomandazioni comuni per migliorarne il funzionamento e promuovere la collaborazione istituzionale fra le Regioni, è stata l’occasione per analizzare il dibattito scientifico, approfondire le evoluzioni più recenti dei sistemi duali e esaminare le sfide che ancora devono affrontare alla luce dei mega-trend di cambiamento (D’Xxxxxxxx, Xxxxxxx, 2019).
Il progressivo declino dell’occupazione nel settore manifatturiero, che è stato l’ambito privilegiato di diffusione dell’apprendistato, ha comportato una riduzione dell’offerta di posti
disponibili; d’altro canto, il settore terziario, che pure ha mantenuto un trend di crescita continua dell’occupazione, non è riuscito a compensare la contrazione dell’industria manifatturiera (Xxxxxx, 2007). La transizione verso un’economia della conoscenza ha determinato una modifica dei fabbisogni di competenza espressi dalle imprese, a favore di figure professionali caratterizzate da una maggiore trasversalità, fondata su un livello più elevato di conoscenze e competenze di base, a discapito di skills professionali legati ad un profilo specifico. Pertanto, da sistemi di produzione molto segmentati e basati su compiti specifici legati ad ogni profilo professionale (Berufe), si è passati gradualmente a nuove forme di organizzazione che impiegano profili professionali “a banda larga”, capaci di svolgere una gamma molto più ampia di attività. La digitalizzazione ha impresso una ulteriore spinta in questa direzione, favorendo un processo di riorganizzazione dei processi di lavoro e modificando i fabbisogni di competenze richieste ai lavoratori (Xxxxxxx e Xxxxxx, 2015).
Di conseguenza, sono cambiate le strategie per il reclutamento, in particolare nelle medie e grandi aziende e ci sono evidenze che le imprese maggiormente aperte al commercio con l’estero preferiscono assumere giovani con titoli di studio superiori anche per quelle professionalità intermedie che precedentemente venivano formate attraverso l’apprendistato, riducendo così le possibilità per i giovani che scelgono la formazione duale (Maurer, 2018).
Accanto alle trasformazioni dei sistemi economici e del lavoro, anche i fenomeni socio- demografici hanno progressivamente posto nuove sfide ai sistemi di apprendistato. In primo luogo il trend decrescente delle corti di giovani che entrano nel mercato del lavoro in pressoché tutti i paesi europei ha rappresentato un vincolo alla diffusione dell’apprendistato sul lato della domanda espressa dai giovani e dalle loro famiglie. Ma soprattutto, le tensioni più elevate sulla domanda sono riconducibili ad un altro fenomeno, che è quello legato alla progressiva “accademizzazione” dei percorsi individuali di istruzione.
Negli ultimi decenni è cresciuta esponenzialmente la partecipazione all’istruzione secondaria superiore e la domanda potenziale di istruzione terziaria, a scapito della domanda di formazione professionale. Infatti, a partire dal livello secondario le scelte educative vengono effettuate tenendo conto delle possibilità sul mercato del lavoro e delle aspirazioni individuali, anche in termini di mobilità sociale; la sensazione diffusa – suffragata anche da evidenze scientifiche, cfr. par. 2 - è che la formazione professionale implichi l’assunzione di rischi maggiori e minori opportunità in una prospettiva di ciclo di vita.
L’effetto più evidente derivante dall’insieme delle trasformazioni menzionate è stato il progressivo calo della partecipazione all’apprendistato proprio in quei Paesi in cui il sistema è tradizionalmente consolidato. Tale riduzione rientra in un più ampio fenomeno di calo di partecipazione alla vocational education and training (VET, istruzione e formazione professionale) nel periodo 1995-2015 (Cedefop, 2018). L'Europa nel suo insieme, infatti, ha sperimentato nel ventennio citato una contrazione della partecipazione alla formazione professionale iniziale, in particolare al livello secondario superiore, sia in termini assoluti in relazione al calo complessivo delle coorti di giovani che in termini relativi, in relazione all’istruzione generale.
Le spinte al cambiamento generate dalle trasformazioni dei sistemi economici hanno sollecitato l’adozione di molteplici interventi di policy, di cui alcuni a valenza strutturale, che hanno rideterminato l’assetto istituzionale dei sistemi duali.
Nella ricerca sui sistemi duali dei Paesi dello Spazio Alpino è stato possibile identificare una pluralità di interventi assunti negli ultimi anni che possono essere ricondotti al tema dell’attrattività del sistema duale, per stimolare si ala domanda che l’offerta di posti in apprendistato. In questa prospettiva sono state promosse molteplici iniziative a finalità informativa e di sensibilizzazione, rivolte a target diversi (giovani, famiglie, imprese, soggetti intermedi che operano nel sistema); per molte di queste è evidente lo sforzo di coniugare tali interventi con l’utilizzo di strumenti nuovi (social media e applicazioni informatiche, ad esempio).
Un altro ampio gruppo di azioni punta invece a rafforzare la qualità dell’esperienza formativa, sia quella realizzata in impresa che quella erogata presso scuole professionali e/o centri di formazione. Considerando la natura “multi-dimensionale” del concetto di qualità, in questo gruppo si collocano in primo luogo tutti quegli interventi per assicurare la coerenza dei curricula rispetto alle esigenze delle imprese. A tal fine, molti Paesi stanno lavorando alla costruzione e all’implementazione di sistemi che consentono una periodica rilevazione dei fabbisogni di competenza; conseguentemente si lavora per l’adeguamento dei programmi formativi in apprendistato alle esigenze del mercato del lavoro attuale.
L’impatto dell’innovazione tecnologica sui metodi di produrre e di lavorare richiede una maggiore flessibilità d’impiego del personale e la polivalenza professionale. Una risposta efficace a queste nuove esigenze può essere data introducendo un approccio modulare nell’organizzazione dei percorsi formativi in apprendistato con l’individuazione di una solida e omogenea base comune di conoscenze e competenze generali e trasversali. Questo lavoro si accompagna a processi più ampi di ridefinizione del sistema di profili professionali, differenziando quelli “mono-professione”, legati al concetto di specifico profilo professionale, e introducendo un numero sempre maggiore di profili “a banda larga”, che consentono il conseguimento di qualificazioni con diverso indirizzo, sempre con la finalità di avvicinare la formazione alle esigenze specifiche delle imprese.
Alcuni Paesi/Regioni sono inoltre impegnati nel finanziamento di programmi a favore delle scuole professionali che prevedono il rinnovamento delle attrezzature, dei macchinari e degli strumenti utilizzati nei percorsi formativi in apprendistato per rispondere alla sfida della quarta rivoluzione industriale e allo sviluppo digitale in tutti i settori economici. Un altro fronte di intervento riguarda l’aggiornamento e la specializzazione dei formatori aziendali e degli insegnanti delle scuole professionali sulle competenze innovative richieste dal mercato del lavoro.
Un gruppo significativo di interventi è finalizzato al rinnovamento della governance. In questa prospettiva, è in corso un processo di costruzione e rafforzamento di spazi strutturati e codificati di confronto istituzionale, che in molti casi punta su un forte e costante coinvolgimento delle Parti sociali.
Tra gli interventi strutturali si collocano invece quelle trasformazioni più organiche del sistema duale che sono intervenute negli ultimi decenni in risposta alle nuove esigenze del sistema economico e ai fenomeni socio-demografici.
Storicamente, i sistemi duali si sono caratterizzati per un forte divario istituzionale tra il sistema di formazione professionale e il sistema di istruzione superiore. Questa divisione istituzionale tra formazione professionale e istruzione superiore, definita anche come “scisma educativo” da Xxxxxxx (2006) con riferimento alla Germania e derivante dall'era preindustriale, è messa sempre più in discussione per restare al passo con le trasformazioni dei sistemi economici; inoltre, le attuali politiche educative europee richiedono una maggiore permeabilità tra i due settori del sistema educativo.
Pertanto, negli ultimi decenni si è fatta avanti l’idea di implementare nuovi modelli formativi che combinano variamente formazione professionale (o lavoro) e istruzione. Tali forme “ibride” nascono anche in risposta a sollecitazioni poste dagli sviluppi socioeconomici - come i crescenti requisiti di competenze - che mettono in discussione la divisione istituzionale tra formazione professionale e istruzione superiore e assumono varie configurazioni, differenti nei diversi contesti istituzionali (Graf, 2013).
Vi è quindi un numero crescente di apprendisti che si preparano per un diploma di maturità professionale che fornisce l'accesso generale all'istruzione superiore in Austria e Svizzera e recentemente anche in Danimarca. In Svizzera l’introduzione della maturità professionale è avvenuta già a metà degli anni Novanta; in Germania e Austria funzionano programmi più o meno consolidati che consentono agli apprendisti l’acquisizione di titoli che possono aprire l’accesso all’istruzione terziaria.
La domanda di competenze più elevate da parte delle imprese ha stimolato uno spostamento del centro di gravità della formazione duale dal rilascio di qualifiche triennali (dopo la scuola dell’obbligo, livello 3 dell’European Qualification Framework, EQF), a qualifiche di livello corrispondente al diploma secondario (livello 4 EQF) o addirittura di livello 5, ovvero corrispondenti ai titoli dell’Istruzione tecnica superiore. Per cui si stanno diffondendo interventi diretti a sviluppare l’offerta di formazione terziaria in apprendistato.
In particolare, in Germania l’ibridazione ha portato allo sviluppo di una moltitudine di percorsi duali caratterizzati da un’alternanza formativa fra l’azienda e una istituzione dell’educazione terziaria (Berufsakademien, Duale Hoshschulen, ecc.), con la possibile integrazione di una scuola professionale; in Austria la Berufsbildende höhere Schule (BHS) è una scuola professionale di istruzione secondaria superiore che prevede una quota rilevante di ore di tirocinio in impresa e che rilascia qualifiche professionali e consente l’accesso all’università, assicurando il riconoscimento di crediti formativi per i percorsi di laurea triennale; in Svizzera le università di scienze applicate (Fachhochschulen) sono istituzioni dell’istruzione terziaria che consentono ai giovani che hanno acquisito una qualifica triennale in apprendistato e conseguito un diploma di maturità professionale al termine di un quarto anno, di ottenere una laurea triennale.
Le innovazioni descritte lasciano intravedere segnali di una polarizzazione interna al sistema duale, che viene a segmentarsi in qualificazioni più elevate, che richiedono percorsi lunghi, offrono le migliori opportunità di inserimento occupazionale e sono generalmente appannaggio dei giovani con un percorso di studi più solido - ad esempio che hanno già il diploma di maturità - e qualificazioni conseguibili in percorsi brevi (due anni), che generalmente portano all’inserimento in settori caratterizzati da retribuzioni inferiori e peggiori condizioni di lavoro. Infatti, le trasformazioni dell’apprendistato negli ultimi 20 anni, come effetto dei mega-trends di cambiamento dei sistemi economici e sociali, hanno ridotto le capacità dello strumento di assicurare l’integrazione sociale dei figli degli operai e dei migranti al giorno d’oggi. Di fronte al restringimento delle opportunità disponibili in apprendistato e alla richiesta di un livello crescente di competenze, i giovani con un percorso scolastico meno brillante vengono al più relegati ai percorsi di apprendistato di durata biennale. Tutto ciò ha fatto aumentare il grado di segmentazione del sistema di formazione (Haasler, 2020).
I segnali di ripresa registrati negli ultimi anni, sia in relazione alla domanda espressa da giovani e famiglie che all’offerta attivata dalle imprese, sembrano promuovere le misure di policy attivate e la loro capacità di far crescere i sistemi duali. Tuttavia, questa crescita presuppone la capacità dei sistemi di apprendistato di trasformarsi in risposta alle nuove esigenze attivate dai mega-trend di trasformazione. Pertanto, i sistemi duali si riarticolano, definendo un’offerta su più livelli e proiettata verso l’istruzione terziaria.
3. La via italiana al sistema duale
Anche l’Italia è stata impegnata negli ultimi anni nel rilancio di una “via italiana al sistema duale”, attraverso la promozione di un’iniziativa a livello nazionale che è partita nel 2015-16 come progetto sperimentale e si è trasformata in una misura ordinaria nel 2018, assumendo un carattere ordinamentale. Inizialmente dotata di 87 milioni di euro, l’iniziativa ha visto crescere negli anni le risorse assegnate sino ad arrivare a 125 milioni di euro per il 2019, leggermente ridotte per l’annualità in corso (121,7 milioni di euro).
Ispirandosi al modello duale tedesco, l’Italia ha quindi attivato, sulla base di accordi tra il Ministero del lavoro e le Regioni, specifiche misure di policy volte a rafforzare l’apprendistato duale, insieme all’alternanza scuola-lavoro e all’impresa simulata, nei percorsi di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP).
Il cosiddetto “apprendistato duale” è un contratto di lavoro e formazione regolato dal d.lgs. 81/2015, art. 43, rivolto ai giovani di età compresa fra 15 e 24 anni che intendono conseguire una qualifica o un diploma di livello secondario nell’ambito di una esperienza di lavoro. La IeFP è un’offerta ordinamentale complementare all’istruzione secondaria superiore, che concorre all’assolvimento del diritto-dovere alla formazione fino a 18 anni. Tale offerta - a titolarità regionale - si articola in percorsi triennali e quadriennali erogati da istituzioni formative che sono per lo più Centri di formazione professionale (Cfp) accreditati dalle Regioni e rilascia titoli di qualifica di operatore professionale e di diploma professionale che hanno valenza nazionale. Generalmente tali percorsi si realizzano in modalità di formazione a tempo pieno, arricchita da esperienze di tirocinio in impresa; la sfida è quella di consentire il conseguimento degli stessi titoli di qualifica e diploma attraverso percorsi in apprendistato, basati su un’alternanza fra l’inserimento in azienda e la formazione erogata presso una istituzione formativa.
La finalità dell’intervento è duplice: contrastare più incisivamente la dispersione scolastica e formativa, rafforzando la metodologia dell’apprendimento esperienziale; ridurre la platea dei giovani non impegnati né nel lavoro né nella formazione, inserendoli in un percorso che può promuoverne l’occupabilità. Si tratta di obiettivi coerenti con la vocazione della IeFP che si propone come presidio per il contenimento della dispersione scolastica, poiché, pur accogliendo giovani provenienti da percorsi scolastici non lineari e studenti di origine straniera in numero sensibilmente superiore a quello degli Istituti professionali statali, presenta rispetto a questi ultimi un tasso di successo formativo sensibilmente superiore (Zagardo, 2019).
Le informazioni più recenti sull’attuazione della “via italiana al sistema duale” riguardano le annualità 2016 e 2017, e provengono dal monitoraggio realizzato dall’Inapp; invece, per l’anno formativo 2017/2018, sono stati diffusi i dati parziali con riferimento all’esperienza di 148 enti di formazione associati a Confap-Forma che stanno partecipando al progetto.
Rispetto all’obiettivo fissato dal progetto originario per lo sviluppo del sistema duale di attivare percorsi di apprendistato per 20.000 giovani, i risultati – al momento parziali e poco aggiornati – riferiti al 2017, risultano molto modesti: gli apprendisti inseriti nei percorsi di IeFP sono complessivamente 3.306, pari al 13% dei complessivi 25.508 partecipanti (Inapp, 2019a).
Ciò che però colpisce maggiormente è la grande differenziazione territoriale messa in evidenza dai dati: da una parte si collocano le Regioni del Nord, che vantano un sistema di formazione professionale consolidato e collegato al sistema di produzione e che si erano già distinte per l’impegno nella costruzione di un sistema di formazione per l’apprendistato professionalizzante; dall’altra parte, le Regioni del Sud i cui risultati relativi all’apprendistato appaiono davvero limitati. Infatti, ben il 76% del totale degli apprendisti iscritti ai percorsi di IeFP è concentrato in Lombardia, seguita dal Veneto con il 13% e dal Piemonte con poco meno del 5%, mentre al Sud gli apprendisti sono sostanzialmente assenti.
Le misure di policy sin qui adottate non sono quindi riuscite a dare un carattere nazionale a questa tipologia di apprendistato, seppure con geometria variabile. Lo strumento rimane appannaggio delle poche Regioni che, con intensità e modalità differenti, hanno deciso da tempo di promuoverne la diffusione (X’Xxxxxxxx, Xxxxxxx, 2020).
In effetti, l’apprendistato duale incontra delle difficoltà a diffondersi sul territorio, anche nelle aree settentrionali del Paese. Si tratta di criticità che attengono sia alle istituzioni formative e alle imprese, sia al rapporto tra questi due soggetti, che, anche nelle realtà in cui la formazione professionale è più radicata sul territorio, non è mai semplice.
In particolare, le istituzioni formative – che secondo il progetto nazionale devono adoperarsi per favorire il matching dei giovani con le aziende - incontrano numerose difficoltà ad allargare la platea di imprese di riferimento per attivare percorsi formativi in apprendistato. Tendono, quindi, ad utilizzare le reti e i rapporti consolidati quale canale privilegiato per mobilitare le imprese e reclutare gli allievi. Nel tentativo di superare queste difficoltà, in alcune realtà territoriali le
istituzioni formative possono contare sul contributo delle parti sociali che attivano interventi di sensibilizzazione e di supporto alle imprese, facendo leva anche sul sistema della bilateralità. Il rapporto di collaborazione tra istituzioni formative e parti sociali non sembra, però, essersi sufficientemente sviluppato, se, come sottolinea il rapporto di monitoraggio sulla sperimentazione di Confap-Forma (Confap-forma, Noviter, 2017), la partnership degli enti formativi con le associazioni di categoria che operano sul territorio presenta margini di potenziamento, al fine di renderla sistemica e parte integrante di un modello di governance che comprende i diversi attori del duale.
Le istituzioni formative sono, inoltre, chiamate a farsi carico della complessa gestione dei percorsi di apprendistato duale, non soltanto per la parte relativa alla didattica e ai calendari - così da tenere conto delle esigenze delle imprese nell’articolazione delle ore di formazione da svolgere a scuola e in azienda -, ma anche per ciò che riguarda gli aspetti amministrativi e giuslavoristici relativi alla gestione del rapporto di lavoro, sui quali gli enti realizzano azioni di informazione e di supporto a favore delle aziende. Queste complesse attività aggiuntive, che richiedono uno sforzo organizzativo e la disponibilità di professionalità dedicate in possesso di adeguate competenze, non presentano alcuna convenienza economica per gli enti di formazione che ricevono una maggiore remunerazione dall'attivazione di percorsi formativi a tempo pieno.
Per quanto riguarda le imprese, un recente studio Cedefop (Centro Europeo per lo Sviluppo della Formazione Professionale), individua i principali ostacoli che scoraggiano soprattutto le aziende di minori dimensioni ad utilizzare l’apprendistato duale: la limitata conoscenza che esse hanno di questa tipologia contrattuale, per cui tendono a sottovalutare i vantaggi dello strumento e a considerare soltanto le difficoltà di conciliare la formazione dell’apprendista con i processi di lavoro; la scarsa disponibilità di figure interne all’azienda in grado di garantire lo sviluppo delle competenze richieste dal titolo di studio che l’apprendista deve conseguire, e l’adattamento della formazione interna alle esigenze specifiche della singola azienda piuttosto che a quelle più generali del settore o del mercato del lavoro locale (Cedefop, 2017).
A ciò si aggiungono le difficoltà nella gestione delle procedure e degli strumenti per l’assunzione degli apprendisti, dovute anche alle complesse operazioni di correlazione tra l’inquadramento contrattuale e il titolo di qualifica o diploma da conseguire, considerato il limitato numero di titoli presenti nel Repertorio nazionale. Si tratta di un Repertorio che oggi comprende 21 qualifiche e 22 diplomi professionali, che diventeranno 26 qualifiche e 29 diplomi a partire dall’anno formativo 2020-21, al completamento del processo di regolamentazione delle modifiche introdotte dell’Accordo Stato-Regioni del 1/8/2019.
Inoltre, per scegliere la tipologia contrattuale da utilizzare nelle nuove assunzioni, le aziende spesso si rivolgono ai consulenti del lavoro; ma anche questi ultimi mostrano una certa riluttanza a ricorrere all’apprendistato, viste le complessità di gestione dello strumento e quindi propendono per altre forme di contratto.
A queste criticità che frenano la diffusione dell’apprendistato duale su tutto il territorio nazionale, si aggiungono, nel Mezzogiorno, ulteriori problematiche che hanno a che fare, non soltanto con le peculiarità della struttura produttiva locale - con un settore pubblico sovradimensionato, un settore industriale con una limitata concentrazione occupazionale e un modello competitivo debole -, ma anche con la fragilità del canale della IeFP, che costituisce il contesto nel quale si è deciso di innestare l’intervento per lo sviluppo del sistema duale in Italia.
A tale proposito si parla spesso di “geopardizzazione” dell’offerta formativa, ovvero della forte differenziazione della formazione professionale a livello regionale, legata alle scelte sull’organizzazione dell’offerta e sulle risorse da impiegare adottate dalle singole Regioni che, in base al dettato costituzionale, esercitano una competenza esclusiva in questo ambito.
La rilevante disomogeneità che sussiste tra i sistemi regionali della formazione professionale è evidente se si guarda al numero di iscritti ai percorsi di IeFP erogati a tempo pieno (Inapp, 2019b).
Nell’anno formativo 2016-2017 il Nord raccoglie il 77% del totale degli iscritti, di cui poco meno del 60% si trova tra Lombardia, Veneto e Piemonte. Per contro, il Mezzogiorno conta poco meno del 12% del totale degli iscritti alla IeFP regionale, con alcuni territori (Basilicata e Puglia) dove non risultano iscritti. Non è un caso, quindi, che in quest’area si registrino le maggiori difficoltà nell’avvio del progetto per lo sviluppo del sistema duale e i contratti di apprendistato duale stipulati sono appena dodici.
La scelta della IeFP quale canale privilegiato per lo sviluppo della “via italiana al sistema duale” ha fornito alle Regioni settentrionali, che da tempo investono sullo sviluppo di questo canale, l’occasione per aumentare l’attrattività della formazione professionale, attraverso interventi di adeguamento alle trasformazioni economiche e sociali che, come si è argomentato in precedenza (cfr. par. 2), stanno influenzando l’evoluzione di tutti i sistemi europei VET (Vocational Education and Training, Istruzione e Formazione Professionale), compresa la IeFP che, nel sistema educativo italiano, rappresenta l’esperienza più vicina alla VET.
Alcuni di questi interventi hanno puntato, ad esempio, sulla “verticalizzazione” delle filiere formative professionalizzanti, attraverso la costruzione di un’offerta formativa più completa che consente il passaggio all’istruzione terziaria secondo due modalità: i corsi per la qualifica e il diploma professionale che consentono l’accesso all’Istruzione e formazione tecnica superiore (Ifts) e, per questa via, agli ITS (Istituti Tecnici Superiori); la partecipazione ad un quinto anno integrativo, che, seppure disponibile in un numero limitato di Regioni, consente l’accesso all’università.
In questi territori la filiera formativa della IeFP può comunque vantare una pratica consolidata di rapporti con le imprese per la realizzazione di percorsi di apprendimento work-based ed è quindi in grado di contribuire al processo di rafforzamento delle connessioni tra istruzione, formazione e lavoro. Inoltre, per gli enti di formazione che operano in questa filiera, la via italiana al sistema duale è l’occasione per sperimentare strategie innovative dirette a flessibilizzare l’organizzazione didattica e a personalizzare i percorsi formativi e per investire, oltre che sulla formazione, anche sull’orientamento, sulle attività extra curriculari, sui programmi di mobilità e sui servizi di placement (Gotti, Piano, 2016).
Nel Mezzogiorno, invece, l’investimento delle Regioni nella formazione professionale è molto ridotto o inesistente e la IeFP è ancorata al sostegno della sussidiarietà delle istituzioni scolastiche. In effetti, la complessa architettura del sistema di IeFP prevede che i percorsi erogati in questo canale formativo possano essere offerti interamente dai Cfp oppure gestiti congiuntamente dagli Istituti professionali di Stato e dai Cfp in regime di sussidiarietà, secondo le scelte di ogni Regione. Tuttavia, al Sud le istituzioni scolastiche svolgono un ruolo che sembra essere primario più che sussidiario, come dimostra il peso preponderante che queste hanno assunto rispetto alle istituzioni formative. Mentre, infatti, al Nord gli iscritti ai percorsi gestiti interamente dai Cfp coprono una quota superiore ai due terzi dei 14-17enni inseriti nella IeFP, al Centro-Sud si invertono le proporzioni, con una quota di iscritti agli istituti scolastici che è di poco superiore ai tre quarti del totali dei 14-17 nella IeFP. In tal modo, si evidenzia come la “scolasticizzazione” della IeFP, contenuta al Nord, perde al Centro-Sud le caratteristiche della sussidiarietà per diventare sostitutiva (Zagardo, 2019).
Per il Mezzogiorno, dunque, l’idea di sviluppare una “via italiana al sistema duale”, inserendo l’apprendistato nel canale della IeFP, avrebbe richiesto un preventivo rilancio su nuove basi di questo segmento formativo che è ormai ordinamentale, consolidando il ruolo dei Cfp.
Il progetto sperimentale, pur non potendo essere lo strumento da utilizzare a questo scopo, in considerazione del suo specifico ambito di intervento e delle limitate risorse messe a disposizione, avrebbe potuto rappresentare l’occasione per impostare un’azione differenziata a livello territoriale, concentrando gli interventi e le risorse nelle regioni con le maggiori criticità. In effetti il progetto sperimentale ha previsto una linea d’intervento per supportare i Cfp nell’attivazione e gestione dei
contratti di apprendistato. Tuttavia, le misure di sostegno, che, peraltro, hanno interessato un numero limitato di enti di formazione, sono state definite in modo indifferenziato senza tenere conto delle profonde differenze nei sistemi di formazione regionali.
La differenziazione territoriale ha invece riguardato le risorse annualmente disponibili per finanziare i percorsi formativi, ma queste, invece di essere concentrate al Sud, sono state assegnate prevalentemente alle Regioni del Nord con un sistema maturo di IeFP; infatti, avendo scelto come criterio prevalente di ripartizione il numero di iscritti ai percorsi realizzati dalle sole istituzioni formative regionali, le risorse destinate al Mezzogiorno, pur in aumento negli ultimi anni, non hanno mai superato il 20% del totale. Per contro, Lombardia, Veneto e Piemonte hanno assorbito da sole più del 50% dei finanziamenti complessivi.
Il progetto sperimentale avrebbe comunque potuto fare da traino per ulteriori iniziative da mettere in campo per il rilancio della IeFP nel Mezzogiorno, utilizzando le cospicue risorse messe a disposizione dal Fondo Sociale Europeo nelle zone prioritarie, ma a questo scopo si sarebbe dovuta formare una precisa volontà politica da parte sia del Governo, sia delle Regioni del Mezzogiorno (Longhi, 2017). Tale unità d’intenti, che non si è manifestata, avrebbe permesso di attivare le misure necessarie a superare le fragilità dei sistemi regionali di IeFP, le cui cause sono note da tempo: mancata conformità dei sistemi regionali di IeFP ai livelli essenziali delle prestazioni del secondo ciclo del sistema educativo (d.lgs. 226 del 2005); risorse finanziarie non continuative e insufficienti a garantire la copertura della domanda di formazione dei giovani e delle loro famiglie; limitata corrispondenza tra l’offerta formativa e i fabbisogni formativi e professionali espressi dal sistema produttivo; assenza di un sistema unitario di costi standard applicabile su tutto il territorio nazionale; scarso investimento nelle risorse umane e strumentali (Associazione Treellle, Fondazione per la Scuola, 2016).
Una precisa volontà politica diretta al superamento di queste criticità non si è manifestata neanche in occasione della recente riforma dell’istruzione professionale (legge n. 107 del 13 luglio 2015, art. 1, commi 180 e 181, lett. D e d.lgs. n. 61 del 13 aprile 2017). L’intervento legislativo si è infatti limitato a fissare le modalità di raccordo tra il sistema dell’istruzione professionale e quello dell’istruzione e formazione professionale ed i passaggi dall’uno all’altro, senza però regolare la IeFP. Di conseguenza nel canale della IeFP l’offerta formativa continua a non essere definita sulla base di una programmazione pluriennale in grado di assicurare l’attivazione di percorsi non solo triennali ma anche quadriennali (oggi sono presenti in sole 9 Regioni) e di garantire la verticalità della formazione professionale verso gli IFTS e gli ITS in tutto il Paese (R.ETE. Imprese Italia, 2017); ma, soprattutto, il canale della IeFP regionale rimane privo di un adeguato sistema per l’accertamento del rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni e di un modello unitario di “costi standard”, indispensabile per garantire ovunque oggettivi criteri di qualità, adeguatezza ed efficienza per l’offerta formativa (Zagardo, 2019).
Così le risorse finanziarie disponibili continuano ad essere utilizzate a livello territoriale essenzialmente secondo la logica del bando e a fondarsi sulla spesa storica, che, al contrario dei “costi standard”, è assai differenziata tra le singole regioni e largamente imputabile a scelte discrezionali di ordine politico-amministrativo. In altri termini, da un lato la formazione professionale non è considerata come un servizio pubblico ad accesso universale e da assicurare a parità di condizioni e di trattamento; dall’altro lato, si favorisce lo status quo, e le Regioni che trascurano o sottoutilizzano la formazione professionale non sono incentivate né ad individuare risorse aggiuntive, né ad accrescere la relativa offerta (Salerno, 2020).
Se la riforma del sistema di istruzione professionale ha lasciato inalterati i significativi squilibri territoriali nella consistenza e nell’articolazione dei sistemi di formazione professionale regionali, da cui dipende in buona parte anche l’insuccesso della “via italiana al sistema duale”, ha però puntato sul rafforzamento dell’apprendimento work based negli istituti professionali, attraverso, non solo il potenziamento dei laboratori e dell’alternanza scuola-lavoro, ma anche dell’apprendistato
duale. Tuttavia, se si escludono alcuni limitati interventi sperimentali realizzati negli ultimi anni per sviluppare l’apprendistato nelle filiere dell’istruzione tecnica e professionale, non è stato sino ad ora attivato alcun progetto organico per dare concretezza alle disposizioni normative, fornendo risorse dedicate e supporto alle istituzioni scolastiche per garantire continuità nell’attivazione di percorsi di apprendistato duale uscendo dalla logica sperimentale.
E, d’altra parte, è difficile immaginare che lo sviluppo di un dispositivo complesso come l’apprendistato duale, che richiede, da parte delle istituzioni formative, un forte radicamento sul territorio, consolidati legami con il tessuto produttivo locale e un adeguato bagaglio di competenze specifiche e di capacità organizzativa, possa realizzarsi all’interno di un sistema di Istruzione professionale ancora alla ricerca di una propria identità, visto che le varie riforme generalmente hanno puntato a indebolirne il carattere professionalizzante a vantaggio di un peso maggiore delle conoscenze e competenze di base. La perdita di identità ha contribuito ad accrescere la reputazione largamente negativa di canale riservato agli studenti più deboli e meno motivati, disincentivando le famiglie alla scelta, come conferma il trend decrescente di iscrizioni agli Istituti professionali, che passa dal 13,6% dello scorso anno scolastico al 12,9% per il 2020-21. Nelle aree del Mezzogiorno la debolezza dell’istruzione professionale è acuita dalla fragilità del tessuto produttivo e dal mancato investimento nell’offerta regionale di formazione professionale.
In questo quadro, si inserisce, peraltro, il processo, attualmente in corso, di attuazione del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione, che prevede la possibilità di attribuire alle Regioni a Statuto ordinario ulteriori competenze in 23 materie elencate all’art. 117 (cosiddetta “autonomia differenziata”). Tra queste materie rientra anche la IeFP, che è oggetto di legislazione concorrente, mentre la formazione professionale – come precedentemente osservato – è di competenza esclusiva delle Regioni.
In merito a questo processo molto complesso e con un’ampia valenza politica, si osserva che Lombardia, Veneto ed Xxxxxx Xxxxxxx hanno avanzato richieste di maggiori competenze in materia di IeFP assai estese, per non dire onnicomprensive, e generiche in merito alle finalità che le Regioni in questione intendono perseguire nella determinazione del proprio e “differenziato” modello regionale di IeFP (Salerno, 2019). L’ampiezza e la genericità delle competenze di cui le Regioni chiedono il trasferimento in materia di IeFP, associate alla mancata determinazione da parte dello Stato dei livelli essenziali delle prestazioni, producono il rischio molto concreto di un’accentuazione della frammentazione territoriale dell’offerta formativa professionalizzante, finendo per aumentare il divario di opportunità fra i giovani che risiedono in alcune aree del Paese, rispetto agli altri, in violazione di un fondamentale diritto di cittadinanza – quello all’istruzione e formazione – costituzionalmente garantito.
4. Conclusioni
Con il progressivo peggioramento dei tassi di occupazione e di disoccupazione giovanile, soprattutto a seguito della crisi economico-finanziaria del 2008, diversi Paesi europei sono intervenuti per potenziare le molteplici forme di apprendimento basate sul lavoro, con un’attenzione particolare per l’apprendistato, allo scopo di facilitare l’inserimento stabile dei giovani nel mondo del lavoro e di promuovere uno sviluppo sostenibile e inclusivo.
Questi interventi sono stati generalmente inseriti nel quadro di una strategia complessiva di rafforzamento della qualità e dell’attrattività della formazione professionale iniziale, sia quella a tempo pieno che in apprendistato, in risposta ai mega-trend di cambiamento, quali la terziarizzazione dell’economia, i processi di globalizzazione, la digitalizzazione, le tendenze demografiche, che attraversano i sistemi economici e le società, influenzando anche l’evoluzione dei sistemi europei di istruzione e formazione professionale.
Si tratta di cambiamenti che hanno interessato anche i sistemi di apprendistato più strutturati e consolidati, come quello tedesco che ha fatto registrare un indebolimento progressivo sia della sua capacità di fare incontrare domanda e offerta di posti di lavoro, sia della sua idoneità a promuovere l’inclusione dei giovani con peggiori risultati scolastici e appartenenti i gruppi a maggior rischio di esclusione (Solga et al., 2014).
Per superare queste criticità si è operato per potenziare i sistemi di apprendistato attraverso interventi e misure di policy che hanno perseguito molteplici finalità, tra le quali: il rafforzamento della governance complessiva; la sensibilizzazione delle imprese, dei giovani e delle loro famiglie sui vantaggi dell’apprendistato; la coerenza tra i curricula dei percorsi formativi e le nuove esigenze del mercato del lavoro; l’adeguamento delle competenze dei formatori e dei tutor formativi e aziendali.
Nello stesso tempo, in risposta ai mega trend di cambiamento del sistema economico e sociale sono stati attivati degli interventi strutturali diretti ad operare delle trasformazioni organiche del sistema duale, soprattutto nella direzione di una sempre maggiore integrazione dell’apprendistato nel sistema educativo generale. Questa finalità è stata perseguita attraverso l’attuazione di misure dirette non soltanto a facilitare l’accesso degli apprendisti all’istruzione terziaria, ma anche ad implementare nuove forme di ibridazione tra la formazione professionale, a tempo pieno o in apprendistato, e l’istruzione. Si promuove in questo modo l’attrattività dell’apprendistato e la sua capacità di sviluppare competenze generali, specialistiche e trasversali necessarie a sostenere l’innovazione tecnologica e organizzativa del sistema produttivo.
Tra i Paesi che sono intervenuti per potenziare il proprio sistema di apprendistato vi è anche l’Italia, che, nel 2015, ha riformato la disciplina di questo istituto contrattuale e, ispirandosi alle migliori pratiche europee e segnatamente al modello duale di apprendistato tedesco, ha avviato la costruzione della “via italiana al sistema duale. La finalità di questa iniziativa è duplice: contrastare più incisivamente la dispersione scolastica e formativa rafforzando la metodologia dell’apprendimento esperienziale; ridurre la platea dei giovani non impegnati né nel lavoro né nella formazione. In prospettiva, si vuole provare a contrastare attraverso l’apprendistato la disoccupazione giovanile.
Si tratta di obiettivi tanto urgenti quanto difficili da perseguire. Urgenti, perché se è vero che l’Italia ha compiuto dei progressi nella lotta alla dispersione scolastica - ed infatti la quota dei giovani tra 18 e 24 anni con al più la licenza media o una qualifica biennale e non impegnati in formazione si è ridotta dal 35,1% nel 1994 al 13,5% nel 2019 - questi progressi non sono uniformi su tutto il territorio nazionale: nel Nord del Paese il tasso di abbandono è del 10,5%, mentre al Sud si raggiunge complessivamente il 18,2% (Istat, 2020). Dinamiche analoghe si osservano per i giovani che non studiano né lavorano che, in alcune regioni del Sud, raggiungono punte superiori al 40%. Nel complesso, la maggior parte degli indicatori relativi all’istruzione e formazione delle regioni del Mezzogiorno esprime performance peggiori di quelli delle regioni del Centro-Nord (Istat, 2019).
Accanto ai dati relativi alla partecipazione ai sistemi educativi, altre differenze significative distanziano le aree settentrionali del Paesi dal Mezzogiorno: gli indicatori relativi alla partecipazione al mercato del lavoro, al reddito pro-capite, alla qualità della governance, mostrano tutti un divario territoriale che si è acuito dopo la recessione del 2008 come certificato dall’ultimo rapporto Istat (2020).
Si tratta di dati molto preoccupanti in quanto precursori importanti sia degli ostacoli che molti giovani dovranno affrontare nella vita adulta per inserirsi e permanere nel mercato del lavoro in occupazioni di qualità, sia del rischio di esclusione sociale di ampie fasce di popolazione adulta con conseguente scarsa capacità di utilizzare le opportunità di cura e bassa partecipazione sociale e politica (Commissione europea et al., 2014), sia delle difficoltà che incontrerà l’Italia nel prossimo futuro in termini di recupero dell’economia dopo la crisi aperta dalla pandemia (Istat, 2020).
L’obiettivo di costruire una via italiana al sistema duale è difficile da perseguire, visto che manca in Italia una tradizione di partenariato fra istituzioni, parti sociali e imprese per la condivisione di una responsabilità educativa verso i giovanissimi. Non a caso, tentativi di avviare una formazione duale sul modello della Germania si susseguono in Italia dalla fine degli anni Novanta, ma fino ad ora l’apprendistato duale ha mostrato una limitata capacità di diffusione sul territorio nazionale; la sua quota rispetto al numero medio complessivo di contratti di apprendistato (tutte le tipologie, compreso il contratto professionalizzante) si è sempre attestata tra il 2% e il 3%, rimanendo largamente residuale (Inapp, Inps, 2019) e concentrata nelle poche Regioni settentrionali che, con intensità e modalità differenti, hanno deciso da tempo di promuoverne la diffusione.
Alle difficoltà preesistenti si sono aggiunte ulteriori criticità legate alla scelta di rilanciare l’apprendistato duale facendo leva sulla IeFP. Si tratta di un canale che si presenta fortemente disomogeneo sul territorio nazionale: è sostanzialmente assente in diverse aree del Mezzogiorno dove le funzioni sono state ampiamente delegate al sistema scolastico, mentre vede una concentrazione di corsi e di iscritti in Lombardia, Veneto e Piemonte. Non è dunque un caso se proprio in queste regioni si siano registrati i risultati positivi delle misure di policy adottate per rilanciare l’apprendistato duale, mentre nel resto del Paese non vi siano stati effetti di rilievo.
E tuttavia, i risultati a medio termine avrebbero potuto essere diversi e assai meno scontati se l’iniziativa di rilancio dell’apprendistato duale fosse stata colta, insieme alla riforma dell’istruzione professionale (legge 107/2015), come occasione per sostenere lo sviluppo della IeFP nelle aree in cui questo canale è assente o fragile, per assicurare il rispetto dei livelli essenziali di offerta che dovrebbero garantire il soddisfacimento di tutta la domanda espressa da giovani e famiglie e per dettare finalmente regole e principi che garantiscano l’unitarietà del sistema della formazione professionale. Tali interventi avrebbero consentito di costruire delle basi più solide su cui poggiare le azioni di rilancio dell’apprendistato duale.
Ciò avrebbe richiesto la formazione di una visione largamente condivisa tra Governo e Regioni, con il coinvolgimento anche delle parti sociali, che guardasse agli interessi generali del Paese e alla necessità di garantire la possibilità di esercitare su tutto il territorio nazionale un diritto di cittadinanza – quello all’istruzione e formazione – costituzionalmente garantito. Una visione attenta alle specificità dei contesti territoriali, capace di elaborare un set di strumenti e forme di supporto a intensità variabile, disponibili e attivabili secondo le diverse esigenze regionali; ma attenta anche a definire un disegno progettuale in grado di tenere conto delle evoluzioni che si sono rese necessarie in tutti i sistemi europei di istruzione e formazione professionale in risposta ai mega- trend di innovazione.
Una maggiore attenzione alle linee di evoluzione dei sistemi duali degli altri Paesi europei avrebbe peraltro portato a considerare con più attenzione l’opportunità di concentrare gli sforzi - almeno nei territori con un maggior vantaggio competitivo - anche sullo sviluppo dell’apprendistato in abbinamento ai percorsi di livello terziario: Istituti Tecnici Superiori e Università, per favorire lo sviluppo di competenze adeguate al mercato del lavoro e permettere alle imprese e ai territori di cogliere i vantaggi delle innovazioni tecnologiche.
La ricerca di una visione condivisa sarebbe stata favorita dalla costruzione di un solido sistema di governance, basato su un dialogo strutturato e continuo almeno tra i principali attori impegnati nel funzionamento dell’apprendistato: Amministrazioni centrali, Regioni e parti sociali. Ed in effetti, i Paesi europei che si sono impegnati nella promozione dell’apprendistato duale hanno ritenuto indispensabile costruire e rafforzare sedi stabili, strutturate e codificate di confronto istituzionale per individuare, attivare e monitorare le misure di policy più idonee a migliorare l’attrattività dell’apprendistato e la qualità della formazione erogata. Questo processo è stato spesso accompagnato da un rafforzamento del ruolo delle parti sociali, soprattutto per quanto riguarda l’individuazione e l’analisi dei fabbisogni professionali e formativi delle imprese e per la costruzione dei repertori delle qualificazioni professionali. In alcuni Paesi, come ad esempio la
Germania, la forte collaborazione istituzionale ha permesso di costruire delle vere e proprie alleanze di partenariato per la condivisione di linee strategiche di sviluppo dell’apprendistato; si tratta di uno strumento di governance partecipata, che favorisce un efficace presidio della cornice normativa, regolamentare e contrattuale dell’apprendistato, condizione necessaria perché lo strumento possa esplicare i suoi effetti benefici sulla transizione scuola-lavoro dei giovani, sui tassi di disoccupazione giovanile, sulla crescita e la competitività delle imprese e dei territori.
In Italia, invece, nonostante l’ampio consenso registrato in merito alla necessità di attivare un organismo di coordinamento tecnico nazionale permanente per l’apprendistato duale come primo passo verso il rafforzamento e la cooperazione tra le parti interessate (Cedefop, 2017), non si è riusciti ad istituire neanche la prevista cabina di regia nazionale per il coordinamento delle attività di gestione e implementazione del progetto sperimentale di costruzione di una “via italiana al sistema duale”.
In definitiva il progetto di rilancio dell’apprendistato duale ha assunto come riferimento un paradigma, peraltro in trasformazione, che poteva trovare condizioni di affermazione e di sviluppo soltanto in alcune limitate aree del Nord Italia, mentre nessun serio tentativo è stato esperito per creare i presupposti di una buona riuscita del progetto nel Mezzogiorno.
Si impedisce così l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito all’istruzione e formazione su tutto il territorio nazionale, favorendo l’accentuazione dei divari regionali e delle disuguaglianze con effetti negativi su tutto il territorio nazionale; infatti, negare ai giovani l’opportunità di sviluppare appieno la propria personalità significa concorre a una vera e propria crisi generazionale del Paese (Barca, Luongo, 2020).
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SUMMARY
As a labor and training contract that combines a dual training at the company and in a training institution with the work activity, apprenticeship is considered a particularly effective tool for young people to develop the skills requested from the labor market and for enterprises and territories to reap the benefits of technological innovations. For its effectiveness in keeping low youth unemployment rates, as resulting from the analysis of youth employment figures in Germany and other European countries during last decades, apprenticeship has been often pointed out at international level as a useful tool for all those countries that have to deal with difficulties in school-to-work transitions of young people. Such difficulties have been a long-term presence in many countries since the 1980s, they have increased with the Great Recession of 2008, they risk becoming a serious social problem due to the current health crisis.
Relying on the results of a research project carried out on seven European countries, the paper analyzes the evolutions of these apprenticeship systems under the pressures generated by the effects of the global mega-tends of transformation affecting all countries – globalization, technological innovation, demography, educational choices. The paper reports on the most recent policies dealing with the main issues related to governance, attractiveness, quality and innovation of the dual systems; and it explores the structural changes intervened in the last decades following the increasing demand of high-skilled workers, which has led to the introduction of new hybrid forms of training and has reduced the chances of most vulnerable young people.
Recently, Italy joined the group of countries starting the construction of a new dual training option. Inspired by the German dual model, the new training path has been conceived as an addition to the initial vocational education system, managed by the Regions, in a strong relation with the three and four year courses which contribute together with the upper secondary schools to the fulfillment of the compulsory training period up to the age of 18.
This, which in the meantime has been converted as a structural part of the vocational education and training system, measure is currently achieving limited results and only in a part of the country. The initial outcomes are analyzed keeping in mind what can be learned from the policies promoted and the structural changes occurred in the most traditional dual systems. Following the recent approaches to the comparative studies that shed a new light on the differences within countries and the relevance of regional factors in determining the outcomes of a policy, some reflections are proposed. Adopting a predominantly northern approach, given that it leverages resources located mainly in the northern Regions, the new dual education option does not adequately take into account territorial inequalities and in particular the much more fragile conditions of initial vocational training in the Southern Italian Regions. As a result, we observe such poor results in the South of Italy. In this situation concerns arise on the risk of exclusion of the most vulnerable young people and the widening of the territorial inequalities in the availability and quality of the educational offer.