TRACCE
TRACCE
I Compitino (o tema): Il possesso e la detenzione mediata nel contratto di locazione (35 righe al massimo)
II Compitino (o tema) : L’interversione del possesso (35 righe al massimo)
III Compitino (o tema): L’illecito concorrenziale nella contraffazione del Marchio. Criteri di risarcibilità (50 righe al massimo)
IV Compitino (o tema) : la divisione ordinaria e quella ereditaria. (50 righe al massimo)
V Tema: La vendita di cosa futura (e il relativo preliminare) Sommario Generale
1.I diritti reali (p.1) . 2 Proprietà, possesso, detenzione (p.6). 3. Le azioni possessorie (p.9) 4. Modi di acquisto di proprietà (p.20). 5. L’acquisto a non domino (p. 28). 6. La doppia alienazione di quote societarie (p. 31) . 7. L’usucapione p. 33. 8. La Multiproprietà (p. 37) 9. La proprietà industriale e intellettuale (p. 46). 10. Il Marchio (p. 47). 11. La tutela penalistica del marchio (p.51). 12. La tutela civilistica del marchio (p.51). 13. Il Brevetto (p. 145) 14. La tutela civilistica della propietà industriale (p. 15). I diritti reali su cosa altrui (p.153).16. Superficie ed usufrutto (p.160). 17. L’enfiteusi 18. Le servitù prediali (p.168). 19. La comunione (p. 173). 20. La comunione e divisione ereditaria (p.189). 21. Il contratto prelimninare di compravendita (p.210). 22. La vendita di cosa futura (p. 214). 23. La trascrizione del contratto preliminare e la tutela dell’acquirente di immobili da costruire (p.132). 24. L’azione ex art. 2932 c.c. 25. Vendita di un bene con patto di riscatto (p.297) 26. Il comodato (p.308). 27. Il contratto di deposito e i depositi bancari (p.323). 28. Il contratto di mutuo p.328. 29. Il mutuo bancario (p.333). 30. La permuta (p.341).
Diritti reali
I diritti reali sono diritti che hanno ad oggetto una cosa e la seguono indipendentemente dal suo proprietario.
Caratteristiche dei diritti reali sono:
• l’assolutezza, cioè possono essere fatti valere erga omnes, cioè davanti a tutti e non solo davanti all’alienante, l’immediatezza del potere sulla cosa, la tipicità, cioè sono stabiliti dalla legge, e la patrimonialità, perché il contenuto è prevalentemente economico.
• Nel nostro sistema giuridico sono a numero chiuso, e tra di essi spicca il diritto di proprietà, che rappresenta il diritto reale fondamentale, affiancato dai cosiddetti “diritti reali minori” (o “diritti reali su cosa altrui” o “diritti reali limitati”), che a loro volta si distinguono in:
– Diritti reali di godimento che sono:
l’enfiteusi, il diritto di superficie, l’usufrutto, il diritto reale d’uso, il diritto reale di
abitazione, le servitù (o servitù prediali);
-Diritti reali di garanzia che sono:
il pegno e l’ipoteca.
Ogni diritto reale consiste di uno o più poteri che il suo titolare può esercitare sul bene oggetto del diritto e che, nel loro insieme, formano il cosiddetto contenuto del diritto.
La proprietà è il diritto reale che consente la più ampia sfera di poteri che un soggetto possa esercitare su un bene, e a norma dell’articolo 832 del codice civile è’ “il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e nei modi che la legge prevede”.
Tra i limiti previsti dalla legge vi rientrano proprio gli altri diritti reali (cosiddetti minori, parziali, limitati) che possono comprimere solo essi, dato il numerus clausus degli stessi secondo l’insegnamento tradizionale, il diritto di proprietà.
Il diritto reale assoluto pieno di proprietà è tutelato dalla azione di rivendicazione (ex art. 948 c.c.) e da quella negatoria ( ex art. 949 c.c.).
La proprietà inoltre, anche se imprescrittibile, è soggetta a usucapione.
Si può parlare di nuda proprietà solo in caso di usufrutto, che costituisce il diritto reale limitato più penetrante e compressivo delle facoltà proprietarie.
Con il diritto di proprietà possono coesistere, sulla stessa cosa, altri diritti, che appartengono a soggetti diversi dal proprietario e che assumono tradizionalmente il nome di diritti reali minori (iura in re aliena).
Rispetto alla proprietà gli altri diritti reali si presentano come diritti limitati o parziali, caratterizzati da un limitato contenuto che in alcuni casi si esaurisce in una sola facoltà.
Sono inoltre diritti su cosa altrui, perché si esercitano su cose delle quali un altro soggetto è proprietario, coesistono, sulla cosa, con l’altrui diritto di proprietà, il quale contenuto si viene a ridurre per permettere che la stessa cosa formi oggetto di altri diritti reali.
Possono coesistere su una stessa cosa più diritti reali e ciascuno di essi ha un proprio contenuto, diverso dal contenuto degli altri, possono essere a tempo o perpetui.
La natura di questi diritti come diritti reali si manifesta nel fatto che essi hanno ad oggetto la cosa e permangono, perché diritti sulla cosa, nonostante il mutamento della persona del proprietario.
Si usa dire che il diritto reale su cosa altrui ha diritto di seguito (o diritto di sequela), è un diritto sulla cosa opponibile a tutti i successivi proprietari, salvo che non abbiano acquistato la cosa a titolo originario usucapio libertatis.
Quando il diritto è costituito su un bene immobile, la sua opponibilità ai terzi acquirenti è subordinata all’avvenuta trascrizione nei registri immobiliari, il diritto non trascritto sarà tuttavia opponibile al terzo acquirente se menzionato nell’atto di trasferimento del bene, oggetto del trasferimento è in questo caso un bene gravato dal diritto reale altrui.
I diritti reali su cosa altrui godono, come la proprietà, di una difesa in giudizio assoluta, il titolare li può difendere da sé, attraverso l’azione confessoria contro chiunque ne contesti l’esercizio.
I diritti reali sono inoltre suscettibili di possesso e godono, in questo modo, di una protezione che non ha confronto con quella dei diritti personali di godimento, sono protetti non solo come diritti, ma anche come potere di fatto sulla cosa, difeso con le azioni possessorie e l’esercizio del potere di fatto sulla cosa consente l’acquisto del diritto per usucapione.
Quando un diritto reale sullo stesso bene spetta a più persone, si parla di comunione.
Inoltre i diritti reali limitati di godimento vanno distinti dai diritti personali di godimento (come il diritto del conduttore nella locazione o del comodatario nel contratto di comodato) che attribuiscono solo la detenzione della res e non il possesso della stessa, con una conseguente assenza delle azioni confessorie e non trascrivibilità dei titoli in virtù dei quali si gode del bene (esclusa la locazione ultranovennale)
L’azione di rivendica e di restituzione secondo la giurisprudenza di legittimità
Nota a sentenza Xxxx. Sez. Un. 28 marzo 2014
on una recente pronuncia Cass. sez. un. 28 marzo 2014, Rel. Xxxxxxxxx, ha preso posizione con riguardo a due importanti questioni in materia di azione di rivendica ed azione di restituzione, relativamente alle quali si sono nel corso degli anni delineati, all’interno della giurisprudenza di legittimità, orientamenti contrastanti.
Come noto, azione di rivendica ed azione di restituzione, pur tendendo allo stesso risultato pratico rappresentato dal recupero della disponibilità materiale del bene, si distinguono, essenzialmente, sotto il profilo della causa petendi, in quanto la prima azione, che ha natura reale, presuppone il diritto di proprietà del bene in capo all’attore, mentre la seconda azione si fonda su una pretesa di carattere personale, in capo a colui che agisce, avente ad oggetto la restituzione della res.
Da tale diversità strutturale discendono, poi, come altrettanto risaputo, rilevanti differenze di disciplina, in ispecie sotto il profilo probatorio, poiché mentre nell’azione di rivendica l’attore è gravato dalla probatio diabolica relativa alla titolarità del diritto di proprietà, colui che agisce in restituzione può, invece, limitarsi a dimostrare l’avvenuta consegna del bene al convenuto sulla base di un titolo invalido o successivamente venuto meno (sui rapporti fra azione di rivendica ed azione di restituzione, v., in dottrina, X. Xxxxxxx, Azioni petitorie, in Dig. disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, 50 s.; X. Xxxxxxx, La proprietà, in Trattato Cicu- Messineo, VIII, 2, Milano 1995, 874 ss.; X. Xxxxx, Sull’azione di rivendicazione e di restituzione, in Riv. giur. edilizia, 2005, 1147 ss.).
Tanto premesso, la prima questione affrontata dalla Cassazione nella pronuncia in esame ha riguardato la possibilità che le difese di carattere petitorio opposte dal convenuto rispetto ad un’azione di rilascio o consegna (acquisto per usucapione) trasformino in reale la domanda che sia stata proposta e mantenuta ferma dall’attore come personale.
A tale proposito, la S.C., dopo avere brevemente ricordato i due contrapposti orientamenti formatisi al riguardo, ha ritenuto di dovere seguire l’indirizzo – che sembra attualmente prevalere – secondo il quale le difese con cui il convenuto contesti la titolarità del bene in capo all’attore non sarebbero, di per sé sole, idonee a trasformare l’originaria azione personale di restituzione in azione di rivendica.
Un simile orientamento, infatti, non soltanto si rivela coerente con il principio dispositivo e con quello di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, i quali riservano alle parti la formulazione delle loro richieste, vietando al giudice di pronunciare al di fuori od oltre i limiti delle domande come effettivamente proposte, ma appare, altresì, in grado di evitare che l’attore venga gravato di un onere probatorio ben più pesante di quello cui il medesimo sarebbe tenuto alla stregua della domanda originariamente formulata (e, nel senso per cui lo «stravolgimento»
della posizione processuale dell’attore, che altrimenti ne deriverebbe, comporterebbe una evidente violazione del diritto di difesa costituzionalmente garantito, v., in particolare, Cass., 26 febbraio 2007, n. 4416).
Quanto statuito dai Giudici Supremi dovrebbe, peraltro, intendersi naturalmente lasciare ferma la possibilità, per l’attore stesso, di proporre l’azione di rivendica e quella di restituzione in via alternativa o subordinata, in quanto entrambe dirette alla medesima finalità di recupero della res, nonché eventualmente di modificare la domanda proposta in relazione alle difese del convenuto, nel rispetto delle preclusioni contemplate dal codice di rito (cfr., in proposito, X. Xxxxxxx, Tutela della proprietà, cumulo di rimedi e tramonto dell’occupazione appropriativa, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 736 s., e giurisprudenza ivi citata).
La S.C. ha, inoltre, precisato, nella pronuncia de qua, come rimanga comunque salvo il potere del giudice di qualificare esattamente la domanda attorea, anche in difformità da come prospettato dalla parte, ma avendo pur sempre riguardo alle vicende allegate dall’attore e alle richieste dal medesimo formulate (sul potere di qualificazione della domanda attorea ad opera del giudice nello specifico ambito di cui si tratta, cfr. X. Xxxx, L’azione di rilascio dell’immobile detenuto sine titulo, tra difficoltà di qualificazione da parte del giudice di merito, e dubbi sulla sindacabilità di tale qualificazione in sede di legittimità, in Giur. it., 2002, 735 ss.).
Ed è proprio un problema di esatta qualificazione della domanda quello sotteso alla seconda questione esaminata dai Giudici Supremi nella sentenza in parola, i quali si sono pronunciati, appunto, sulla esatta qualificazione della domanda di consegna o rilascio di un bene proposta nei confronti di colui che non adduca titolo alcuno a fondamento della disponibilità materiale del bene medesimo.
A tale riguardo, la S.C., dopo avere ricordato come, in base a numerose pronunce di legittimità, l’azione personale di restituzione potrebbe essere esperita, oltre che nelle ipotesi di invalidità o sopravvenuta inefficacia del titolo giustificativo della disponibilità materiale della cosa da parte del convenuto, altresì nel caso di mancanza assoluta ed originaria di qualsiasi titolo, ha ritenuto di dovere seguire il diverso orientamento – peraltro minoritario – secondo cui, nella situazione da ultimo prospettata, l’azione andrebbe, in realtà, qualificata come rei vindicatio.
A sostegno di xxxxxxxx qualificazione, i Giudici Supremi hanno evidenziato come l’azione personale di restituzione appaia propriamente diretta ad ottenere l’adempimento dell’obbligazione di ritrasferire una cosa che era stata in precedenza consegnata dall’attore al convenuto, in virtù di negozi (quali, ad es., la locazione, il comodato, il deposito, etc.) che non presuppongono necessariamente nel tradens la qualità di proprietario, e come a volere, viceversa, reputare che la medesima azione sia esercitabile anche per ottenere la condanna alla consegna o al rilascio del bene nei confronti del mero detentore sine titulo, ne conseguirebbe la «sostanziale vanificazione» della
stessa azione di rivendica, con elusione del relativo rigoroso onere probatorio, il cui ambito di applicazione finirebbe per rimanere «praticamente azzerato».
Una simile delimitazione dell’ambito di operatività delle due azioni, rispettivamente, di rivendica e di restituzione appare sostanzialmente condivisa pure in dottrina, ove si è osservato come, al di fuori della configurabilità, in presenza dei relativi presupposti, di un’azione risarcitoria in forma specifica ex art. 2058 c.c. (sulla quale,
v. C.M. Xxxxxx, Diritto civile, 6, La proprietà, Milano, 1999, 412), «accordare un’azione di carattere personale all’attore che si limiti ad allegare il proprio diritto di proprietà e l’altrui occupazione sine titulo finirebbe per creare un’azione ibrida che obbligherebbe il convenuto al rilascio del bene sulla base della tutela di un diritto di proprietà che, paradossalmente, non ne richiederebbe la prova» (così F. Xxxxxxx, Tutela della proprietà, cumulo di rimedi e tramonto dell’occupazione appropriativa, cit., 737; in senso critico rispetto all’indirizzo seguito sul punto dalla S.C. con la sentenza in esame, appare, peraltro, orientato A. di Biase, Occupazione abusiva di immobili e tutela giurisdizionale del proprietario: tra azioni reali ed azioni personali, in Giust. civ., 2012, 311 ss.).
Proprietà, possesso e detenzione Di Xxxxx Xxxxx
I concetti di proprietà, possesso e detenzione sono utilizzati spesso con troppa disinvoltura. Questo breve approfondimento vuole proporsi, da una parte, come uno strumento, utile per il cittadino, ai fini della distinzione giuridica che connota le tre situazioni ed inoltre, dall’altra, è rivolto agli studiosi del diritto, universitari ma anche e soprattutto giovani laureati, come un incentivo verso l’approfondimento di nozioni che si reputano scontate, quando invece lo sono solamente in apparenza.
Secondo il modestissimo parere di chi scrive è proprio la curiosità rispetto ai concetti più elementari, base del nostro ordinamento, che permetterà l’upgrade ad un livello di conoscenza più maturo e consapevole.
Venendo ora al tema di questa sintetica trattazione, occorre, in primo luogo, concentrarsi su un’importante verità e cioè che la proprietà rappresenti uno stato di diritto, mentre il possesso e la detenzione siano due stati di fatto.
Il nostro Codice Civile, infatti, all’art. 832 contempla espressamente la proprietà come il diritto, principe tra quelli reali, che attribuisce al suo titolare una signoria piena ed esclusiva sul bene che ne è oggetto. La proprietà è quindi un vero e proprio diritto soggettivo, che permette al suo titolare di esercitare una posizione giuridicamente di vantaggio rispetto alla generalità dei consociati. Questo è fortemente in linea con la caratteristica dei diritti reali come assoluti, rispetto ai quali il soggetto passivo del rapporto giuridico si troverà in una situazione di dovere e non di obbligo, come colui sul quale gravi un’obbligazione.
Il diritto di proprietà non solo è riconosciuto come tale dalla Legge Civile, ma è ancor prima tutelato dalla Costituzione all’art. 42, laddove, al II comma, si dice che: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
L’importanza della proprietà, quale diritto fondamentale per la società, è desumibile dalla previsione di cui all’art. 948 C.C., III terzo comma, in base al quale l’azione di rivendicazione è imprescrittibile: se ne deduce che lo stesso diritto non può essere soggetto a prescrizione, in quanto la piena disponibilità del bene in termini di gestione e godimento si può manifestare legittimamente anche attraverso il non uso.
Una volta chiarita la natura giuridica della proprietà, è bene chiarire che cosa siano in concreto il possesso e la detenzione e, in questo senso, l’art. 1140 del Codice Civile è fondamentale per avviare la discussione: “il possesso è il potere di fatto sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”.
Possesso e detenzione sono concordemente definiti dalla dottrina come stati di fatto giuridicamente tutelati, in quanto, anche se non integranti la fattispecie del diritto soggettivo, questo non vuol dire che non siano produttivi di effetti e protetti dall’ordinamento. In particolare, la tutela delle situazioni possessorie è offerta dall’azione di spoglio o di reintegrazione, dall’azione di manutenzione e dalle denunce di nuova opera e di danno temuto (le cosiddette azioni nunciative).
Per citare un effetto importante, invece, è noto come il possesso prolungato nel tempo costituisca valido titolo per l’acquisto del diritto di proprietà: si parla propriamente di usucapione o di prescrizione acquisitiva.
Perché si possa discutere di possesso, piuttosto che di detenzione, è necessaria la presenza di due requisiti, uno oggettivo e un altro soggettivo: il primo altro non è che l’oggetto materiale, il corpus, sul quale viene esercitata la situazione possessoria; il secondo requisito, invece è rappresentato da ciò che i latini chiamavano animus, cioè l’intenzione con la quale la cosa viene tenuta.
Ora, ai fini della distinzione, mentre l’elemento oggettivo resta sostanzialmente invariato, ciò che muta è l’elemento soggettivo. Il possessore è colui che tiene la cosa presso di sé come se ne fosse il proprietario (e nella maggior parte dei casi lo è veramente), o comunque come se avesse la titolarità di un diritto reale gravante su di essa, il detentore, invece, tiene la cosa presso di sé, ma riconoscendo che il suo rapporto con essa è limitato dall’altrui diritto.
È importante ricordare che perché si integri la fattispecie del possesso non è necessaria la relazione di fatto con la cosa, che invece è determinante perché si possa parlare di detenzione. Se per esempio andassi in libreria e comprassi un libro, la
proprietà, il possesso e la detenzione di questo coinciderebbero tutte nella mia persona: xxxxx proprietario del libro perché lo avrei acquistato, ne avrei il possesso perché la disponibilità del bene acquistato rientrerebbe nella mia sfera di controllo e ne avrei parimenti la detenzione perché materialmente l’oggetto sarebbe con me.
Un ulteriore esempio può essere d’aiuto. Supponiamo che Xxxxx sia proprietario di un’auto d’epoca che tiene parcheggiata nel garage di casa sua. Finché egli rimane in casa vale, per le stesse ragioni, il discorso fatto nell’esempio precedente. Se lui, però, partisse per un viaggio, il discorso cambierebbe: Xxxxx resterebbe proprietario dell’auto, non ne sarebbe più detentore (perché non ha materialmente la macchina con sé) ma continuerebbe ad esserne possessore. Questo perché egli avrebbe ugualmente la disponibilità del bene, nonostante la lontananza; se decidesse di vendere l’auto potrebbe farlo benissimo anche mentre si trova altrove in vacanza.
Le due ipotesi considerate fanno riferimento al cosiddetto possesso legittimo, dove cioè la situazione di fatto coincide con quella di diritto: io ho il possesso del libro ma ne sono anche il proprietario e così Xxxxx per quanto riguarda la sua auto d’epoca.
Il possesso, però, può anche essere illegittimo. Ciò accade quando si realizzi una situazione diametralmente opposta, si pensi all’esempio classico del ladro possessore di una moto rubata.
L’articolo 1140, II comma del Codice Civile conclude: “Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”.
L’ultima ipotesi di possesso che è fondamentale conoscere è quella di possesso mediato che è, per intenderci, quella tipicamente realizzata dalla stipula di un contratto di locazione: il proprietario locatore dell’immobile ne ha il giuridico possesso, tuttavia la materiale disponibilità del bene è in capo al locatario conduttore che ne gode secondo la ratio del contratto di locazione.
La detenzione è dunque il rapporto materiale con la cosa che può manifestarsi secondo una duplice natura: può essere qualificata da un titolo che la giustifichi, come un contratto, rifacendoci all’esempio di poc’anzi, oppure può essere non qualificata, per motivi di semplice cortesia, servizio o lavoro.
Nel primo caso, al detentore qualificato è riconosciuta una tutela maggiore, testimoniata dal fatto che la legge gli riconosca la legittimazione attiva, da condividere con il proprietario possessore, nell’azione di spoglio; questo perché la detenzione qualificata “ha titolo in un diritto personale di godimento del bene o in altro titolo che attribuisce un potere di gestione della cosa in nome altrui” Nel secondo, al detentore non qualificato non spetta alcuna protezione, dato che “semplicemente mantiene la res a disposizione del possessore, che ne può ordinare la restituzione in qualunque momento”.
Concludo questa mia breve riflessione con un paio di quesiti, a cui da ultimo la dottrina si è proposta di rispondere e su cui, purtroppo, non esiste ancora alcuna pronuncia giurisprudenziale: alla luce di quanto abbiamo appena detto in tema di possesso e detenzione, può esistere, al pari del possesso mediato, anche una detenzione mediata? Come, cioè, deve essere qualificata la situazione di colui che sia locatario di un appartamento e decidesse, ad un certo punto, di sublocarlo? Se il conduttore sublocatario venisse privato della materiale disponibilità dell’immobile, chi sarebbe legittimato nell’azione di spoglio?
Le azioni possessorie di Pa o l o G a l l o [1]
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SOMMARIO: 1. Le azioni possessorie. – 2. I rimedi. – 3. L’azione di reintegrazione.
– 4. L’elemento oggettivo dello spoglio. – 5. L’elemento soggettivo dello spoglio. –
6. I legittimati attivi e passivi all’azione. – 7. Tutela possessoria e pubblica amministrazione. – 8. Lo spoglio tramite ufficiale giudiziario. – 9. L’eccezione feci sed iure feci. – 10. Le cause di giustificazione. – 11. I termini. – 12. L’azione di manutenzione. – 13. Spese e miglioramenti. – 14. Il procedimento possessorio. – 15. Le azioni di nuova opera e di danno temuto.
1. Le azioni possessorie
La peculiarità del possesso consiste ed emerge nella sua interezza proprio sotto il profilo della tutela 2. Il possessore può infatti esperire varie azioni a tutela del suo potere di fatto, a prescindere da indagini circa la sua legittimazione.
1 Queste pagine corrispondono al capitolo finale della recente monografia Beni,proprietà e diritti reali,che ad opera di specialisti della materia costituisce esauriente ricostruzione sistematica della normativa, al tempo stesso esauriente quanto alla rappresentazione degli orientamenti della giurisprudenza. E per una aggiornata rassegna e ampio commento degli orientamenti della giurisprudenza in materia di diritti reali è uscita adesso la nuova edizione di Casi e questioni di diritto.privato. Proprietà e diritti reali indirizzata prevalentemente agli interessi degli operatori pratici del diritto
2 X. XXXXX, Il possesso, La denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile, diretto da X. Xxxxxx-X. Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Milano, 1960; MONTEL, Il possesso, in Trattato di diritto civile, diretto da X. Xxxxxxxx, II ed., Torino, 1962; LEVONI, rassegna di giurisprudenza sulle azioni possessorie, Milano, 1976; GENTILE, Il possesso, in Giur. sistematica di dir. civ. e comm., diretto da X. Xxxxxxx, II ed., Torino, 1977; LEVONI, La tutela del possesso, vol. I, Milano, 1979, vol. II, Milano, 1982; MASI, Il possesso e la denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Trattato di diritto civile, diretto da X. Xxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 425 ss.; DE XXXXXXX, Possesso. Denuncia di nuova opera e di danno temuto, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, X xx., Xxxxxxx-Xxxx, 0000; X. XXXXX, Possesso. Sintesi di informazione, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, x. 000; CABELLA PISU, Azioni possessorie, in Dig. IV ed., sez. civ., vol. II, Torino, 1988, p. 55; X. XXXXX, Il possesso, in Trattato di diritto civile, diretto da X. Xxxx-X. Xxxxxxxx, continuato da X. Xxxxxxx, Torino, 1988; X. XXXXX, Possesso. Sintesi di informazione, in Riv. dir. civ., 1989, II, p. 429.
Le azioni a tutela del possesso vengono qualificate possessorie, in contrapposizione a quelle petitorie esperibili a tutela di diritti reali (rivendicazione, azione negatoria, azione confessoria).
Mentre infatti le azioni petitorie presuppongono la prova della titolarità del diritto, spesso lunga e difficoltosa, le azioni possessorie si basano sul fatto stesso del possesso o su quello dell’avvenuto spoglio. Esse sono pertanto notevolmente più snelle, con la conseguenza che lo stesso proprietario potrà preferirle alla rivendicazione al fine di recuperare il bene. Si consideri tuttavia come nella prassi l’intento del legislatore sia di fatto frustrato da una miriade di intoppi processuali; non è così infrequente che l’intero procedimento, se si calcolano i tempi delle varie fasi nelle quali si articola, possa durare anche più di dieci anni, con buona pace delle esigenze di rapidità e snellezza volute dal legislatore.
In realtà le azioni possessorie in molti casi sono null’altro che un rimedio, usufruibile dallo stesso proprietario, per tutelare i propri beni; in molti casi esse tendono in altre parole ad apparire come un mero doppione di altri rimedi, come per esempio la rivendicazione, o i provvedimenti cautelari finalizzati ad ottenere una tutela xxxxxxx.Xx consideri ancora che nel nostro ordinamento esistono strumenti alternativi di tutela urgente, come per esempio il rimedio di cui all’art. 700 c.p.c. .
In queste condizioni non è sicuramente chiaro perché la prassi italiana, ed in primis gli avvocati, continuino a privilegiare la tutela possessoria, sempre meno rapida, ad altri rimedi cautelari, come per esempio l’art. 700 c.p.c.; tanto più che in Francia ed in Germania è netta la tendenza a preferire i rimedi cautelari urgenti, sicuramente più moderni, razionali ed efficienti di quelli tradizionali a tutela del possesso, non fosse altro perché non esperibili indiscriminatamente ma solo in presenza di fumus boni iuris.
In queste condizioni vi è sicuramente spazio per riconsiderare l’intero settore della tutela urgente ed interdettale; bisognerebbe in altre parole avere il coraggio di riformare ex novo l’intero settore dei rimedi interdittali tramite nuove forme di azioni di applicazione generale, come per esempio l’art. 700 c.p.c., idonee a consentire una tutela veramente rapida ed urgente delle situazioni di appartenenza, a prescindere dai cavilli e dalle distinzioni più o meno arbitrarie che si sono sedimentate nel corso della storia in materia di azioni possessorie.
2. I rimedi
Il legislatore delinea tre differenti azioni in materia di tutela possessoria, a seconda del tipo di lesione posta in essere:
• l’azione di reintegrazione in presenza di uno spoglio violento o clandestino (art. 1168, c. 1°, c.c.);
• l’azione di manutenzione in presenza di molestie e turbative (art. 1170, c. 1°,
c.c.);
• nonché ancora l’azione di manutenzione con finalità recuperatorie in caso di
spoglio non violento o clandestino (spoglio semplice) (art. 1170, c. 2°, c.c.).
3. L’azione di reintegrazione
Ai sensi dell’art. 1168, c. 1°, c.c., chi è stato violentemente od occultamente spogliato del possesso può, entro l’anno dal sofferto spoglio, chiedere contro l’autore di esso la reintegrazione del possesso medesimo.
Ovviamente l’azione è proponibile anche nei confronti del proprietario che abbia cercato di farsi giustizia da solo appropriandosi del suo bene. L’autotutela non è infatti in linea di principio consentita, salvo il caso in cui la reazione sia concomitante all’offesa e ad essa proporzionata (vim vi repellere licet, legittima difesa). Il possessore da parte sua, dopo aver provato il suo possesso nonché l’avvenuto spoglio, non è altresì tenuto a giustificare il suo potere di fatto (possideo quia possideo).
Ai fini dell’esercizio delle azioni possessorie non è necessario che il possesso abbia gli stessi requisiti di quello utile per l’usucapione, in tema di reintegra del possesso di una servitù di passaggio non è così necessario che esistano (come è invece richiesto per l’usucapione) opere visibili e permanenti destinate all’esercizio del passaggio .
L’azione di reintegrazione o di spoglio è pertanto esperibile nel caso in cui si sia stati privati del possesso. L’art. 1168, c. 1°, c.c. precisa che deve essersi trattato di uno spoglio violento o clandestino. In realtà la giurisprudenza da lunga data ha attenuato il requisito della violenza dello spoglio. A questi fini non occorre pertanto che lo spoglio sia avvenuto con le armi, con la forza fisica o con minacce, ma è sufficiente che sia avvenuto senza o contro la volontà effettiva o anche soltanto presunta del possessore Secondo la giurisprudenza non occorre che si tratti di violenza fisica, ma è sufficiente una mera violenza morale, vale a dire una minaccia .
Questo comporta ovviamente un’attenuazione delle ragioni originarie per cui era prevista la tutela del possesso. Tendono in altre parole ad attenuarsi i profili attinenti alla tutela dell’ordine pubblico ed in loro vece emerge sempre più la rilevanza del possesso quale forma minore di appartenenza. Il possesso tende cioè ad essere tutelato in quanto tale, a prescindere dalla violenza o clandestinità dello spoglio. In virtù di questa interpretazione, praticamente abrogante del requisito della violenza, la giurisprudenza ravvisa in buona sostanza la violenza nel fatto stesso dello spoglio. Per definizione non vi può infatti essere spoglio se la privazione del possesso non avviene contro la volontà del possessore. Si consideri ancora che in virtù di questa interpretazione viene meno la distinzione tra spoglio violento (art. 1168, c. 1°, c.c.), e spoglio semplice (art. 1170, c. 3°, c.c.). Ai sensi dell’art. 1170, c. 3°,
c.c. chi ha subito uno spoglio non violento o clandestino (spoglio semplice) può
chiedere di essere rimesso nel possesso, se ricorrono le condizioni previste dalla legge per la proponibilità dell’azione di manutenzione. Si tratta peraltro di una norma che assai raramente ha trovato applicazione da parte della giurisprudenza .
La reintegrazione consente di reagire non solo nei casi di spoglio violento, ma anche clandestino. Si discute a questo proposito in che senso debba essere inteso il concetto di clandestinità. Clandestinità in senso oggettivo, significa che nessuno nelle condizioni del possessore avrebbe potuto rendersi conto dello spoglio; clandestinità in senso soggettivo fa viceversa riferimento alla mera ignoranza relativa del soggetto spossessato. Secondo la giurisprudenza il concetto di clandestinità deve peraltro essere stabilito esclusivamente in rapporto al soggetto passivo dello spoglio, è pertanto clandestino lo spoglio commesso all’insaputa del possessore o del detentore, che ne venga a conoscenza in un momento successivo, quando esso sia stato realizzato con atti che non siano venuti a conoscenza dello spogliato .
4. L’elemento oggettivo dello spoglio
Il legislatore non definisce in modo esplicito il concetto di spoglio; occorre pertanto ricostruire il concetto facendo riferimento al vocabolario comune. La rilevanza della definizione emerge ove si consideri che il legislatore distingue tra spoglio e semplice molestia, escludendo che il detentore possa agire in manutenzione (art. 1168, c. 2°, c.c.). Rigorosamente parlando il concetto di spoglio implica quello di privazione del possesso. Si ha in altre parole spoglio ogniqualvolta il possessore viene privato del suo possesso . In realtà la dottrina ha ormai da tempo notato una costante tendenza da parte della giurisprudenza ad espandere sempre più il concetto di spoglio a scapito di quello di semplice molestia del possesso, al fine di legittimare anche i detentori a reagire in presenza di molestie del loro possesso .
In questo modo si rischia però di stravolgere i principi, nonché l’assetto di interessi voluto dal legislatore. Secondo la giurisprudenza lo spoglio implica la sottrazione o la privazione del possesso, la restrizione o riduzione delle facoltà inerenti al potere della vittima ; in altri casi si parla di innovazione che comporta un più limitato esercizio del potere, o ancora di privazione durevole del potere di fatto.
La giurisprudenza ravvisa altresì lo spoglio quando l’aggressione implica un mutamento di destinazione economica della cosa; secondo altri giudicati ancora mentre lo spoglio incide direttamente sulla cosa, la turbativa si rivolge contro l’attività di godimento rendendola più disagevole.
La giurisprudenza insiste molto sul carattere attuale e duraturo dello spoglio, anche se non necessariamente lo spoglio deve essere permanente o irreversibile. In dottrina ha dato luogo a discussione se ai fini dello spoglio è sufficiente il semplice spossessamento , o se viceversa si richiede altresì l’acquisto del possesso da parte dello spogliante. Si pensi per esempio ai casi in cui vengono distrutti oggetti altrui, o
liberati animali domestici, senza che però il responsabile se ne impossessi.Tra queste due soluzioni pare sicuramente preferibile la prima, dato che anche nei casi in cui non vi è impossessamento può sussistere una responsabilità di carattere risarcitorio in capo a chi ha effettuato lo spoglio .
Lo spoglio può essere effettuato anche dal detentore in caso di interversione del possesso; secondo la giurisprudenza il rifiuto di restituire alla scadenza del rapporto non implica però sempre necessariamente spoglio. Ai fini dello spoglio può peraltro essere sufficiente anche molto meno, come per esempio l’abbattimento di un muro al fine di rendere comunicante l’appartamento con altro adiacente .Si consideri ancora il caso in cui il detentore trasferisce a terzi il bene.
5. L’elemento soggettivo dello spoglio
Tradizionalmente ai fini dell’esperibilità dei rimedi possessori si richiede oltre all’elemento oggettivo della fattispecie, anche la prova dell’elemento soggettivo, vale a dire dell’animus spogliandi o turbandi Questa ricostruzione tradizionale risulterebbe confortata altresì da esigenze di armonia, dato che anche il possesso consta di due elementi, uno oggettivo, il corpus, ed uno soggettivo, l’animus.
Si tratta di una soluzione peraltro non incontrastata, la quale è stata avversata da parte della dottrina, la quale ha fatto rilevare da un lato come si tratti di un requisito praeter legale, vale a dire non espressamente previsto da parte del legislatore, e dall’altro lato di un requisito sostanzialmente inutile in quanto ripetitivo di aspetti già insiti nell’elemento oggettivo dello spoglio 3. Da parte sua la giurisprudenza è costante nell’affermare la necessità della prova dell’animus, sia nell’azione di spoglio che in quella di manutenzione .
Quando però si tratta di precisare in cosa consista l’animus, la giurisprudenza per lo più afferma che l’elemento soggettivo o animus turbandi è insito nel fatto stesso di privare del godimento della cosa il possessore o il detentore, contro la volontà espressa o tacita del medesimo .
Ma se così stanno le cose risulta evidente che l’animus spoliandi viene in buona sostanza a coincidere con la consapevolezza di agire contro la volontà presunta o tacita del possessore, già richiesta dalla giurisprudenza in sostituzione del requisito della violenza dello spoglio. Con il che risulta sempre più evidente come da un lato la giurisprudenza abbia in buona sostanza eliminato il requisito legale della violenza
3 [28] DEJANA, Un requisito non richiesto per lo spoglio: l’animus spoliandi, in Giur. compl. Cass. civ., 1946, II, 1, p. 139; XXXXXXXX, A proposito di animus spoliandi e natura giuridica dello spoglio, in Giust. civ., 1951, p. 16; XXXXXX, Se sia necessario l’animus spoliandi per far valere l’azione di reintegrazione, in Nuovo dir., 1956, p. 22; DE XXXXXXX, op. cit., p. 130; MASI, op. cit., p. 464; in posizione sostanzialmente critica si veda altresì X. XXXXX, op. cit., p. 243 ss., secondo il quale sono ben pochi i casi in cui può risultare opportuno ricorrere al requisito dell’animus.
e lo abbia sostituito con il requisito preter legale dell’animus, inteso come semplice consapevolezza e volontarietà di privare il possessore del suo potere di fatto In alcuni casi la giurisprudenza si spinge oltre e richiede ai fini dell’animus addirittura la prova del dolo o della colpa. Prevale peraltro l’impostazione in base alla quale la presenza dell’animus prescinde dalla prova rigorosa del dolo o della colpa , viceversa richiesta in conformità ai principi generali ove si dovesse giungere ad una pronuncia risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Sarebbe però eccessivo giungere alla conclusione della completa irrilevanza dell’animus. In realtà chiarificatore può essere l’esame dei casi in cui la giurisprudenza esclude l’esistenza dell’animus, e come conseguenza ulteriore dello spoglio o della turbativa. L’animus è escluso quando l’immissione nel possesso derivi da un atto di imperio della p.a., il fondo sia incolto , o ancora vi sia il consenso espresso o tacito del possessore. Non esclude viceversa l’animus il convincimento di aver agito nell’esercizio di un proprio diritto .
6. I legittimati attivi e passivi all’azione
L’azione di reintegrazione compete al possessore (art. 1168, c. 1°, c.c.). Ai sensi dell’art. 1168, c. 2°, c.c. legittimato attivo all’azione è altresì il detentore, purché non si tratti di detenzione per ragioni di servizio o di ospitalità. Il che significa che il conduttore può esperire l’azione di spoglio nei confronti dello stesso proprietario di casa che di fatto gli impedisca di accedere all’immobile sostituendo la chiave della serratura, o in altri modi.
La giurisprudenza per converso esclude l’esperibilità delle azioni possessorie da parte del proprietario di casa nei confronti degli inquilini che rifiutino di lasciar libero l’immobile alla scadenza. La mancata restituzione non integra infatti gli estremi dello spoglio, dato che non implica un mutamento della situazione di fatto. Ne consegue pertanto che il proprietario di casa dovrà necessariamente instaurare un giudizio di natura petitoria al fine di consentire l’accertamento del suo diritto alla restituzione
Legittimato passivo è l’autore dello spoglio, in conformità ad una legittimazione personale tipica dei rimedi delittuali (art. 1168, c. 1°, c.c.). L’art. 1169 c.c. corregge però immediatamente il tiro asserendo che la reintegrazione può essere domandata anche contro chi è nel possesso in virtù di un acquisto a titolo particolare, fatto con la conoscenza dell’avvenuto spoglio. In questo caso legittimato passivo non è più l’autore dell’illecito, ma chi in concreto ha la disponibilità materiale del bene, in conformità ad uno schema tipico dei rimedi a tutela delle forme di appartenenza. L’azione non è viceversa esperibile nei confronti di un acquirente di buona fede, salva la possibilità di chiedere il risarcimento del danno a chi ha effettuato lo spoglio, nonché agire in rivendicazione nei confronti dell’acquirente, sempreché quest’ultimo non abbia acquistato la proprietà del bene.
Resta aperta tutta una serie di problemi. Il legislatore non ha infatti precisato se l’azione sia ancora esperibile o meno nei confronti dell’autore dello spoglio nel caso in cui non risulti più possibile la restituzione, per distruzione o trasferimento a terzi. In base ad un’opinione dottrinale ormai risalente, nei casi di distruzione o trasferimento del bene, venendo meno la possibilità di una restituzione materiale, occorreva escludere la legittimazione passiva dell’autore materiale dello spoglio.
Sebbene questa soluzione abbia avuto un certo riscontro in giurisprudenza , in seguito si è sempre più consolidata, sia in dottrina 4 che in giurisprudenza 5l’opinione che la distruzione o il trasferimento del bene non fa venir meno la legittimazione passiva dell’autore dello spoglio, vista la sua responsabilità per i danni inferti.
Ne consegue che legittimato attivo è non solo l’autore materiale dello spoglio, ma anche quello morale, ancorché non abbia mai ottenuto la disponibilità materiale della cosa ; parimenti, sempre in conformità ad una logica tipicamente delittuale, nel caso in cui vi siano più autori materiali o morali dello spoglio l’azione può essere intentata indifferentemente contro ciascuno di essi, senza necessità della partecipazione al giudizio degli altri . Non esiste in atre parole un’ipotesi di litisconsorzio necessario tra più autori di uno spoglio o di una turbativa .
7. Tutela possessoria e pubblica amministrazione
Regole particolari trovano applicazione nei confronti della pubblica amministrazione. In termini del tutto generali la giurisprudenza esclude l’esperibilità dei rimedi possessori nei confronti della pubblica amministrazione quando agisca sulla base di un atto amministrativo 6; l’azione non può essere intentata neppure da un’altra pubblica amministrazione .
I rimedi possessori sono viceversa esperibili nel caso in cui la p.a. ha agito iure privatorum 7
4 DEJANA, Xxxxxx di spoglio contro il locatore e rapporti tra lo spogliato ed un secondo locatario, in Foro it., 1947, I, c. 94; ID., In tema di legittimazione passiva all’azione di spoglio, in Giur. compl. Cass. civ., 1947, III, p. 60; SACCO, op. cit., p. 334.
5 Cass. 21 febbraio 1981, n. 1053; Cass. 19 febbraio 1981, n. 1034; Cass. 15 novembre 1982, n. 6103; Cass. 18 febbraio
1983, n. 1251; Cass. 24 gennaio 1985, n. 317; Cass. 7 aprile 1987, n. 3356; Cass. 13 aprile 1988, n. 2914; Cass. 5 giugno
1990, n. 5389; Cass. 23 marzo 1995, n. 3377; Cass. 10 aprile 1996, n. 3303; Cass. 16 febbraio 1996, n. 1211.
6 Cass., Sez. Un., 16 novembre 1991, n. 12303; Cass., Sez. Un., 24 novembre 1992, n. 12515; XXX, Xxxxx proponibilità delle azioni possessorie nei confronti della p.a., in SSE, 1976, p. 44; XXXXXXXXX, Aspetti problematici della discriminazione tra giurisdizioni e stato amministrativo, Milano, 1980, p. 101 ss.
7 Cass., Sez. Un., 29 maggio 1992, n. 6477; Cass., Sez. Un., 26 agosto 1993, n. 9005; Cass., Sez. Un., 14 aprile 1993, n.
4380; Cass., Sez. Un., 7 novembre 1994, n. 9206; Cass., Sez. Un., 7 novembre 1994, n. 9208; Cass., Sez. Un., 27 ottobre
1995, n. 11170; Cass., Sez. Un., 25 gennaio 1995, n. 891; Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1713.
La pubblica amministrazione può invece esperire senza limitazioni i rimedi possessori contro i privati, oppure avvalersi a sua discrezione della forza pubblica (art. 823, c. 2°, c.c.) 8.
8. Lo spoglio tramite ufficiale giudiziario
Nel caso in cui taluno venga privato del possesso da un ufficiale giudiziario nel legittimo esercizio delle sue funzioni, non è ovviamente possibile avvalersi delle azioni possessorie. Nel caso in cui l’ufficiale giudiziario abbia operato sulla base di un titolo esecutivo illegittimo, occorrerà farne accertare l’illegittimità, nonché sollecitare l’emanazione di un provvedimento di contenuto opposto in virtù del quale riottenere il proprio bene.
Può però anche capitare che l’ufficiale giudiziario abbia agito in virtù di un titolo non esecutivo, nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nel provvedimento, o ancora con riferimento a beni differenti rispetto a quelli previsti. Nei casi di questo genere possono avere ingresso le azioni possessorie con finalità di carattere recuperatorio . A questi fini la giurisprudenza è solita richiedere la prova del dolo in capo a chi ha sollecitato l’intervento dell’ufficiale giudiziario .
9. L’eccezione feci sed iure feci
In base a quanto stabilisce in termini del tutto generali l’art. 705 c.p.c. finché dura il giudizio possessorio non è esperire il rimedio petitorio. Da questo principio gli interpreti hanno desunto l’ulteriore regola in virtù della quale in sede possessoria non è consentito che il convenuto cerchi di giustificarsi adducendo il suo diritto (feci sed iure feci) . L’eccezione feci sed iure feci è viceversa consentita nel caso in cui il convenuto eccepisca di aver agito in conformità ad una situazione di possesso o di compossesso . Nei casi di questo genere la giurisprudenza consente altresì che venga prodotto il titolo di acquisto, ancorché al solo fine di colorare la situazione possessoria e di chiarirne i limiti (ad colorandam possessionem) .
10. Le cause di giustificazione
Il soggetto convenuto in un giudizio possessorio è altresì legittimato a difendersi invocando le comuni cause di giustificazione previste sia in sede civile che penale, vale a dire la legittima difesa, lo stato di necessità, e così via . Si pensi per esempio ad una persona che sottragga una pistola o un coltello ad un rapinatore, catturi un cane pericoloso, e così via.
8 [55] Cass. 24 gennaio 1984, n. 580; Cass. 5 giugno 1987, n. 4906; Cass. 5 dicembre 1988, n. 6583; Cass. 24 marzo
1995, n. 3434.
11. I termini
L’esperibilità delle azioni possessorie è soggetta ad un termine annuale di decadenza
(artt. 1168, c. 1°; 1170, c. 1°, c.c.).
Problematico è semmai capire a partire da quale momento effettuare il computo del termine. Il problema si pone specie nel caso in cui la lesione consista di più atti reiterati nel tempo. Nei casi di questo genere la giurisprudenza è costante nell’affermare che l’anno utile per l’esperimento delle azioni possessorie, nel caso di turbativa o di spoglio posti in essere con più atti, decorre dal primo, quando i successivi atti siano strettamente collegati o connessi, si da configurare la progressiva estrinsecazione della stessa azione lesiva; mentre decorre da ciascuno di detti atti successivi, quando essi presentino connotati autonomi in modo da concretare uno spoglio o turbativa a sé stante.
12. L’azione di manutenzione
Ai sensi dell’art. 1170, c. 1°, c.c. chi è stato molestato nel possesso di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili può, entro l’anno dalla turbativa, chiedere la manutenzione del possesso medesimo.
L’azione è esperibile entro un anno dalla turbativa.
Legittimato attivo all’azione non è però qualunque possessore come nel caso dell’azione di reintegrazione, ma solo il possessore di un immobile, di un diritto reale sopra un immobile o di una universalità di mobili.
L’azione non compete pertanto al possessore di beni mobili.
Parimenti essa non compete al semplice detentore. Ne consegue che l’inquilino in caso di turbative non potrà cercare di tutelarsi in virtù di tale azione.
Il legislatore richiede inoltre che si tratti di un possesso qualificato dalla durata e dal modo d’acquisto. In particolare l’azione è data solo se il possesso dura da oltre un anno, continuo e non interrotto, e non è stato acquistato violentemente o clandestinamente (art. 1170, c. 2°, c.c.).
Qualora il possesso sia stato acquistato in modo violento o clandestino, l’azione può nondimeno esercitarsi, decorso un anno dal giorno in cui la violenza o la clandestinità è cessata. L’azione di manutenzione è quindi sicuramente espressione di una logica differente rispetto a quella sottesa all’azione di reintegrazione. Mentre l’azione di reintegrazione, per lo meno nella sua configurazione originaria, è in primo luogo finalizzata a tutelare l’ordine pubblico, l’azione di manutenzione è posta a tutela di una situazione possessoria qualificata la quale assurge quasi al rango di una forma cadetta di appartenenza.
Ai sensi dell’art. 1170, c. 3°, c.c. l’azione di manutenzione è altresì esperibile con finalità recuperatorie in caso di spoglio non violento o clandestino. Tenendo peraltro conto dell’estrema ampiezza con cui la giurisprudenza intende i requisiti della violenza e della clandestinità ai sensi dell’art. 1168, c. 1°, c.c., l’ambito d’applicazione di questa norma risulta assai ristretto.
Centrale ai fini dell’individuazione del campo d’applicazione della norma in questione è chiarire il concetto di molestia. Tradizionalmente le molestie vengono distinte in molestie di fatto e di diritto. Molestia di fatto è qualsiasi limitazione o turbativa della sfera del possesso altrui , o ancora qualsiasi atto che modifichi o tenda a modificare il possesso o lo stato del possesso . Si pensi per esempio all’esercizio di fatto di una servitù di passaggio, alla violazione delle distanze legali nelle costruzioni, alla sopraelevazione di un edificio oltre i limiti consentiti, alle immissioni eccedenti la normale tollerabilità, alla violazione dello spazio aereo, o ancora a qualsiasi altra turbativa nei rapporti di vicinato. In realtà si tratta di concetti sostanzialmente empirici, tanto più che a monte resta il delicato problema da un lato di distinguere il concetto di spoglio da quello più limitato di turbativa, e dall’altro quello di distinguere le turbative vere e proprie dalle ingerenze lecite.
Per quel che riguarda la distinzione tra spoglio e turbativa ogni tentativo di rigore risulta frustrato dalle applicazioni giurisprudenziali da sempre favorevoli ad estendere sempre più la nozione di spoglio a scapito di quella di semplice turbativa. Per quel che riguarda il secondo aspetto utile può essere viceversa instaurare un parallelismo tra lesione della proprietà e lesione del possesso; in questa prospettiva non è possibile ravvisare una molestia se l’ingerenza sarebbe lecita anche sotto il profilo del corrispondente diritto di proprietà. Non costituisce così molestia una ingerenza esplicata ad un’altezza tale da non costituire lesione neppure del corrispondente diritto di proprietà .
Ancora più controverso è il discorso relativo alle molestie di diritto. Tradizionalmente per molestie di diritto si intendono gli atti giudiziali o stragiudiziali con i quali si contesta l’altrui possesso. Si pensi per esempio alla notifica con cui il conduttore fa sapere al locatore di voler tenere la cosa come propria; all’ingiunzione rivolta al vicino di non sopraelevare; o ancora alla diffida con cui si contesta l’altrui diritto al possesso, e così via . Parte della dottrina ha peraltro contestato l’opportunità della distinzione tra molestie di fatto e di diritto. Si è considerato come la distinzione non trovi corrispondenza in materia di spoglio, dove non si distingue tra spoglio di fatto e di diritto, e come in realtà i casi di molestia di diritto o costituiscono veri e propri casi di spoglio, o tentativi di spoglio .
13. Spese e miglioramenti
Il legislatore ha disciplinato accuratamente i diritti del possessore soccombente in sede di revindica in ordine alle spese, ai miglioramenti ed alle addizioni (artt. 1149, 1150, 1152 c.c.). Il legislatore tace viceversa in ordine al medesimo ordine di
problemi che può porsi tra attore e convenuto nell’ambito del giudizio possessorio. Non vi è però alcun dubbio che, così come nel giudizio possessorio può avere ingresso l’azione risarcitoria (art. 2043 c.c.), parimenti occorre consentire l’azione in arricchimento (art. 2041 c.c.) .
14. Il procedimento possessorio
Ai sensi dell’art. 705, c. 1°, c.p.c. il convenuto nel giudizio possessorio non può proporre giudizio petitorio, finché il primo giudizio non sia definito e la decisione non sia stata eseguita. Il che significa che il proprietario dovrà attendere con pazienza la conclusione del giudizio possessorio, restituire la cosa e successivamente agire in rivendicazione. Il principio di separazione tra giudizio possessorio e petitorio è stato peraltro recentemente attenuato da parte della Corte costituzionale, la quale con la sent. 3 febbraio 1992, n. 25 ha dichiarato illegittimo l’art. 705, c. 1°, c.p.c. nella parte in cui subordina la proponibilità del giudizio petitorio alla conclusione di quello possessorio ed alla esecuzione della relativa decisione, nel caso in cui ne derivi o possa derivarne un pregiudizio irreparabile per il convenuto.
Il divieto del cumulo tra possessorio e petitorio è altresì derogato dall’art. 704 c.p.c., il quale riserva al giudice del petitorio ogni domanda che reagisce a lesioni del possesso che si sono verificate nel corso del procedimento petitorio stesso. A questi fini è però essenziale la concomitanza delle lesioni possessorie con il giudizio petitorio
Problemi sorgono nel caso in cui l’attore effettui un errore sotto il profilo della qualificazione dell’azione; qualifichi per esempio l’azione di spoglio, mentre in realtà è di manutenzione e viceversa. Nel caso in cui l’attore abbia qualificato l’azione come di spoglio, mentre in realtà si tratta di mera turbativa, il giudice è legittimato a riqualificare correttamente come di manutenzione l’azione proposta . Nel più è infatti contenuto il meno, con la conseguenza che l’art. 112 c.p.c. non risulta violato.
Non è invece consentito l’opposto, vale a dire qualificare come di spoglio un’azione di manutenzione. Ai fini dell’esecuzione del giudicato non rileva se la configurazione dei luoghi, come per esempio l’ubicazione della servitù di passaggio, è leggermente diversa rispetto a quella prospettata dal ricorrente .A prescindere dagli esiti del processo, l’esercizio delle azioni possessorie esplica un effetto interruttivo del decorso dei termini per l’usucapione . Le azioni possessorie non sono compromettibili ad arbitri, in quanto appartengono alla competenza inderogabile dei giudici ordinari In conformità ai principi generali, il provvedimento che definisce la controversia deve provvedere in tema di spese giudiziali .
Attualmente il giudizio possessorio risulta sdoppiato in due fasi, di cui la prima
culmina con l’adozione di un’ordinanza contenente un interdetto cautelare o
provvisorio, destinato ad anticipare provvisoriamente una soluzione, che sarà poi confermata o rovesciata nella sentenza finale.
15. Le azioni di nuova opera e di danno temuto
Le azioni di nuova opera e di danno temuto (artt. 1171, 1172 c.c.) sono esperibili in via preventiva al fine di scongiurare la possibilità di un danno. Esse sono esperibili dal proprietario, dal titolare di un diritto reale di godimento e dal possessore. Entrambi i procedimenti si articolano in due fasi: una prima fase cautelare ed urgente, finalizzata a consentire al giudice di adottare i provvedimenti necessari a scongiurare il pericolo di danno; ed una seconda fase, consistente in un normale giudizio di merito, finalizzato ad accertare il fondamento della pretesa.
A) La denunzia di nuova opera può essere effettuata ogniqualvolta si ha ragione di temere che da una nuova opera, da altri intrapresa sul proprio fondo, sia per derivare danno alla cosa che forma l’oggetto del proprio diritto o possesso. Il giudice può vietare la continuazione dell’opera, oppure consentirla, disponendo se del caso le opportune cautele; nel primo caso per il risarcimento del danno prodotto dalla sospensione dell’opera, qualora l’opposizione risulti infondata nella decisione del merito; nel secondo caso per la demolizione dell’opera e per il risarcimento del danno, ove il denunziate ottenga sentenza favorevole (art. 1171 c.c.).
Gli elementi costitutivi della fattispecie sono dunque tre: a) una condotta umana , b) un’opera, c) il timore di un danno. La condotta deve essere illecita, vale a dire lesiva della proprietà o del possesso dell’attore. Non è richiesta viceversa la prova del dolo o della colpa; l’inibitoria opera su basi rigorosamente oggettive. Il discorso può però mutare se si innesta una pretesa risarcitoria ai sensi dell’art. 2043 c.c. La richiesta del provvedimento cautelare è ovviamente consentita soltanto nel caso in cui l’opera non sia ancora ultimata; dopo l’ultimazione dell’opera si procederà a trattare direttamente il merito.
I requisiti suddetti, mancato decorso di un anno dall’inizio dell’opera e mancata ultimazione della stessa, debbono però sussistere esclusivamente in relazione alla prima fase cautelare del procedimento; ne consegue che, nella successiva fase di merito, il riscontro della carenza di tali presupposti, può spiegare rilievo esclusivamente al fine della revoca dei provvedimenti cautelari eventualmente concessi, ma non comporta di per sé improponibilità della domanda .
L’opera deve comportare ragionevole timore di danno; ragionevole timore non significa necessariamente danno certo o danno attuale [80]; ne consegue l’esperibilità del rimedio anche in relazione ad un manufatto, che pur non essendo attualmente lesivo del diritto altrui, possa essere temuto come fonte di futuro danno per i carattere che l’opera potrebbe assumere qualora fosse condotta a termine .Il proprietario di un immobile in caso di inosservanza da parte del vicino delle distanze minime nelle costruzioni, ha peraltro facoltà di esperire non solo l’azione di denuncia
di nuova opera, ma anche quella possessoria o direttamente quella petitoria, fondata sulla violazione del diritto di proprietà.
L’azione di danno temuto può essere esperita anche da parte del possessore di un bene demaniale; secondo la giurisprudenza l’art. 145, c. 2°, c.c. deve infatti essere inteso nel senso dell’attribuzione della tutela possessoria nei termini più ampi .
B) La denunzia di danno temuto può essere fatta ogniqualvolta si ha ragione di temere che da qualsiasi edificio, albero o altra cosa sovrasti pericolo di un danno grave e prossimo alla cosa che forma l’oggetto del proprio diritto o possesso; l’azione si riferisce quindi al pericolo proveniente da un qualche cosa di già esistente, come per esempio un edificio che minacci di crollare. L’azione non è viceversa ovviamente esperibile nel caso in cui il pericolo sia rappresentato da una persona.
In termini del tutto generali è possibile asserire che mentre l’azione di denuncia di nuova opera presuppone un facere, vale a dire l’inizio di una nuova opera, l’azione di danno temuto presuppone un non facere, vale a dire l’inosservanza dell’obbligo di rimuovere un pericolo .
Anche in questo caso l’azione presuppone l’illiceità del comportamento in questione , non viceversa il dolo o la colpa del convenuto. In ogni caso è però richiesto che il pericolo interessi direttamente il denunciante e non solo in modo generico i terzi .
Anche in questo caso l’autorità giudiziaria può disporre le necessarie misure cautelari, per ovviare al pericolo, come per esempio l’abbattimento o il transennamento dell’edificio pericolante (art. 1172 c.c.).
Modi di acquisto della proprieta’
I Modi d’acquisto della proprietà sono i fatti giuridici che hanno per effetto l’acquisto della proprietà di una cosa. Essi sono previsti dal codice all’art. 922 con un’elencazione esemplificativa. Ai modi d’acquisto fa riferimento anche l’art. 42 co. 2 Cost., che riserva alla legge il compito di determinarli, allo scopo di assicurare la funzione sociale della proprietà e di renderla accessibile a tutti.
Tradizionalmente si distingue tra:
a) modi d’acquisto a titolo originario: l’acquisto della proprietà non dipende dal diritto di un precedente titolare (ad es., il pescatore diventa proprietario dei pesci caduti nella rete), ma nasce direttamente nel patrimonio dell’attuale titolare (MESSINEO).
L’acquisto a titolo originario non si ha solo quando il diritto di proprietà su un bene sorge per la prima volta in capo a un soggetto (come nell’esempio precedente), ma ricorre ogni volta che l’acquisto della proprietà non deriva dal diritto del precedente
titolare ma prevale anche su questo (esempio: usucapione, acquisto di beni mobili in
base all’art. 1153);
b) modi d’acquisto a titolo derivativo: l’acquisto del diritto di proprietà presuppone il suo trasferimento dal precedente proprietario, esso cioè dipende dall’esistenza del diritto del dante causa (ad es., compravendita).
Questa distinzione ha rilevanza giuridica in quanto l’acquisto a titolo derivativo è soggetto all’applicazione di due principi generali:
— nessuno può trasferire ad altri maggiori diritti di quanti egli stesso abbia (nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet): l’avente causa acquista il diritto solo se il dante causa ne era titolare e l’acquisto è gravato dai diritti reali parziali eventualmente esistenti sulla cosa;
— la risoluzione o la dichiarazione di nullità che colpisce l’acquisto del xxxxx causa si ripercuote sul patrimonio dell’avente causa, facendo venire meno il suo acquisto (resoluto iure dantis resolvitur et ius accipientis).
Al contrario, nell’acquisto a titolo originario, si estingue il diritto del precedente proprietario e si estinguono i diritti reali e le garanzie reali esistenti sul bene (XXXXXXX).
Modi di acquisto a titolo derivativo sono i contratti traslativi della proprietà, i trasferimenti coattivi (ad es., l’espropriazione), la successione mortis causa (TRABUCCHI).
1 I singoli modi di acquisto a titolo originario:
• l’occupazione
• L’invenzione (artt. 927-933)
• L’accessione
• L’acquisizione sanante contesa tra Corte costituzionale, Sezioni Unite e Corte europea dei diritti dell’uomo
• Ipotesi di accessione di immobile a immobile
• Unione, commistione e specificazione
• L’accessione nella comunione legale tra coniugi
I singoli modi di acquisto a titolo originario: l’occupazione
Innanzitutto vengono in considerazione i modi di acquisto di cose mobili per le quali non è individuabile alcun soggetto che possa vantare il possesso o la detenzione (cose vacuae possessionis). L’occupazione (artt. 923-926) è la presa di possesso delle cose mobili che non sono di proprietà di alcuno (gli immobili vacanti, invece, sono di
proprietà dello Stato e, pertanto, l’occupazione non può avere ad oggetto beni
immobili). Tali sono:
— le cose mobili che non sono mai state di proprietà di alcuno (res nullius);
— le cose abbandonate (res derelictae).
L’art. 923 enumerava tra le res nullius anche gli animali che formano oggetto di caccia o di pesca, ma la L. 157/1992 ha disposto che la fauna selvatica costituisce patrimonio indisponibile dello Stato; pertanto l’occupazione di animali oggetto di caccia costituisce occupazione di res alicuius, non più di res nullius.
Per aversi occupazione sono necessari:
— l’impossessamento del bene;
— l’intenzione di farlo proprio (animus occupandi).
In ordine al rilievo da riconoscere all’animus occupandi si discute intorno alla natura giuridica dell’occupazione:
— alcuni (XXXXXXX-XXXXXXXXXX, TRABUCCHI) la considerano un negozio di attuazione, ritenendo essenziale tale elemento soggettivo;
— altri (MESSINEO), invece, la considerano un mero atto giuridico, ritenendo sufficiente la mera volontarietà del comportamento e non anche la volontà dell’effetto che questo produce.
L’invenzione (artt. 927-933)
Invenzione, in senso giuridico, è il ritrovamento delle cose smarrite che devono essere consegnate al proprietario o, se questi è ignoto, al Sindaco del luogo ove vengono rinvenute. Si noti, però, che:
— se, dopo un anno dalla consegna della cosa, il proprietario non si è presentato a ritirarla, il diritto di proprietà su di essa spetta al ritrovatore;
— se il proprietario si presenta, deve al ritrovatore un premio (premium inventionis), che è pari al 10% del valore della cosa stessa.
Una forma particolare di invenzione riguarda il tesoro, cioè le cose mobili di pregio, nascoste o sotterrate, di cui nessuno può provare di essere proprietario.
Il tesoro appartiene:
— al proprietario del fondo in cui si trova, se rinvenuto da costui;
— per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore, se viene ritrovato per caso, nel fondo altrui.
Il tesoro è un retaggio di tempi antichi e ha scarsa rilevanza pratica. Ciò dipende soprattutto dal fatto che proprio i casi più rilevanti, quelli che si riferiscono a cose d’interesse storico, archeologico, artistico etc., appartengono sempre al patrimonio indisponibile dello Stato, comunque e da chiunque siano stati ritrovati, e sono di conseguenza sottratti alla disciplina del tesoro, applicandosi ad essi la normativa della legislazione speciale (artt. 826, 839), come confermato dal combinato disposto degli artt. 10 e 91 del D.Lgs. 42/2004 (T.U. beni culturali e paesaggistici). Il primo articolo citato dà un’elencazione dei beni considerati culturali, il secondo dispone che tali beni appartengono allo Stato e, a seconda che siano immobili o mobili, fanno parte del demanio o del patrimonio indisponibile (artt. 822 e 826).
L’accessione
L’accessione è il fenomeno che si verifica quando il proprietario del suolo diventa titolare di qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo, da chiunque realizzata. Intesa in questo senso, l’accessione è disciplinata, oltre che dall’art. 934, anche dagli artt. 935-938. Tuttavia, una parte della dottrina utilizza il termine accessione per indicare un fenomeno più ampio, che comprende anche l’unione e la commistione (art. 939), l’alluvione (art. 941) e l’avulsione (art. 944) (v. infra). In questo senso, l’accessione non riguarda più soltanto le opere realizzate sul fondo, ma esprime l’idea secondo cui, quando due cose appartenenti a diversi proprietari sono unite e la loro separazione non potrebbe farsi senza grave danno, il proprietario della cosa principale acquista la proprietà della cosa accessoria (accessorium sequitur principale).
In particolare l’art. 934 regola l’ipotesi di accessione di un bene (edificio, piantagione o altra costruzione) al bene immobile per eccellenza, il suolo, sancendo (secondo il principio generale) che qualunque piantagione, costruzione o opera che venga materialmente unita al suolo (bene immobile) per unione organica o per opera dell’uomo accede al suolo e diventa proprietà del proprietario di questo, secondo il principio quod solo inaedificatur solo cedit.
L’acquisto della proprietà sull’opera non avviene solo a titolo originario ma anche automaticamente e in ciò l’accessione si distingue dall’occupazione e dalla invenzione dove, invece, rileva l’elemento volontaristico (animus occupandi nella occupazione; volontà di restituire il bene nell’invenzione).
Un’evidente deroga al principio dell’accessione è costituita dal diritto reale di superficie (art. 952), sempre che l’esistenza di tale diritto risulti da un titolo avente forma scritta (art. 1350 n. 2) e che sia stato trascritto (art. 2643 n. 2).
Ricevono poi una disciplina particolare:
• le opere fatte dal proprietario del suolo con materiali altrui (art. 935);
• le opere fatte da un terzo con materiali propri (art. 936);
• le opere fatte da un terzo con materiali altrui (art. 937).
Una particolare ipotesi di accessione di immobile a immobile è regolata dall’art. 938 (cd. accessione invertita) che si ha quando il proprietario di un edificio occupa in buona fede, nella costruzione dello stesso, una parte del fondo attiguo di proprietà altrui. In questo caso, invece di applicarsi la regola generale quod inaedificatur solo cedit (in base alla quale il proprietario del suolo «invaso» dovrebbe acquistare la proprietà sulla costruzione), si inverte la situazione per cui è il proprietario della costruzione ad acquistare (non automaticamente ma in seguito a una sentenza costitutiva del giudice) la proprietà del suolo. Presupposti dell’accessione invertita sono, oltre alla buona fede del costruttore (la quale non può essere presunta ma deve essere da lui dimostrata), anche la consapevolezza e la non opposizione, entro tre mesi, del vicino.
L’acquisizione sanante contesa tra Corte costituzionale, Sezioni Unite e Corte europea dei diritti dell’uomo
L’art. 34 D.L. 98/2011, convertito in L. 111/2011, ha introdotto, con l’art. 42bis
D.P.R. 327/2001, una nuova disciplina dell’occupazione senza titolo di beni per scopi di interesse pubblico, che ha sostituito quella già contenuta nell’art. 43 D.P.R. 327/2001, dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 293/2010.
L’art. 42bis D.P.R. 327/2001 stabilisce che l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di pubblico interesse, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre, valutati gli interessi in conflitto, che esso sia acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale subito (quest’ultimo forfettariamente liquidato nella misura del 10% del valore venale del bene). Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l’atto da cui è sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio.
L’atto è notificato al proprietario, comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute, ovvero del loro deposito, ed è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell’amministrazione procedente. Tale disciplina si applica anche ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore, e anche se c’è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato. La necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in «buona e debita forma» comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della p.a. e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica, non danno
luogo in via automatica all’acquisto dell’area da parte della p.a., sicché il privato ha diritto di chiederne la restituzione, salvo che decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente (Cass. S.U. 735/2015).
È quindi esclusa l’automatica acquisizione del bene a seguito della sua irreversibile trasformazione, in tutti i casi in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia mancante o carente dei termini o sia annullata o il decreto di esproprio non sia emesso o sia annullato. La realizzazione dell’opera pubblica si configura come mero fatto inidoneo a costituire un valido titolo d’acquisto da parte della p.a.
All’Amministrazione interessata resta l’alternativa fra valersi dello speciale potere di acquisizione del terreno di cui all’art. 42bis, quale «legale via d’uscita» per i casi di occupazione sine titulo, e l’obbligo di disporre la restituzione del terreno ai legittimi titolari, demolendo quanto realizzato e disponendo la riduzione in pristino (Cons. Stato 2559/2013).
I dubbi di legittimità dell’art. 42bis, ventilati da Cass. 441/2014, sono stati respinti da Corte cost. 71/2015, secondo la quale l’istituto dell’acquisizione sanante non comporta un trattamento privilegiato per la p.a., responsabile di un illecito, né pone il privato in una situazione deteriore rispetto a quella di chi subisce un’espropriazione ordinaria ed è rispettoso del principio del giusto procedimento, poiché può essere disposta solo per soddisfare attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico e determina l’acquisto del bene da parte della P.A: non in via automatica ma soltanto al momento dell’emanazione dell’atto di acquisizione.
In particolare la Corte costituzionale ha affermato che l’adozione del provvedimento acquisitivo presuppone una valutazione comparata degli interessi in conflitto, compresi quelli del privato, e l’assenza di ragionevoli alternative all’adozione del provvedimento acquisitivo va intesa in senso pregnante, in stretta correlazione con le eccezionali ragioni di interesse pubblico richiamate dalla disposizione in esame, da considerare in comparazione con gli interessi del privato proprietario. Non si tratta soltanto di valutare genericamente una eccessiva difficoltà od onerosità delle alternative a disposizione dell’amministrazione, secondo il principio generale ex art. 2058 c.c.: l’adozione dell’atto acquisitivo è consentita esclusivamente allorché costituisca l’extrema ratio per la soddisfazione di «attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico», come recita l’art. 42bis T.U. espropriazioni.
Dunque, solo quando siano stati escluse, all’esito di una effettiva comparazione con i contrapposti interessi privati, altre opzioni, compresa la cessione volontaria mediante atto di compravendita, e non sia ragionevolmente possibile la restituzione, totale o parziale, del bene, previa riduzione in pristino, al privato illecitamente inciso nel suo diritto di proprietà. Del resto, aggiunge la Corte costituzionale, al privato è comunque garantito il diritto di partecipare al procedimento e di far valere l’esistenza dei ragionevoli alternative all’adozione dell’annunciato provvedimento acquisitivo, prima fra tutte la restituzione del bene.
Infine, la Corte ha confermato la compatibilità dell’art. 42bis con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), secondo cui «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale».
È indubbio, tuttavia, che l’acquisizione sanante ponga un problema alla luce del principio di legalità tutelato dalla Convenzione, perché il principio di legalità non si accontenta della mera esistenza di una norma di legge ma impone che le leggi non siano contrasto con il principio costituzionale di eguaglianza e di ragionevolezza intrinseca, anche ai fini dell’esercizio della tutela giurisdizionale, con la garanzia della proprietà privata, posta altresì da vincoli derivanti da obblighi internazionali, con il principio di legalità dell’azione amministrativa nonché con il principio di parità delle parti davanti al giudice. La legalizzazione dell’illegale non è, pertanto, consentita neppure a una norma di legge.
Ipotesi di accessione di immobile a immobile
È relativa a situazioni in cui la proprietà di un fondo, posto, in genere, xxxxx xx xxxx xxx xxxxx x xxx xxxxxxxx, xx amplia sino a ricomprendere in sé altre porzioni di territorio formatesi in conseguenza dei fenomeni naturali. Ricorre nelle ipotesi di:
1) alluvione, cioè insensibile e progressivo incremento portato dalle acque ad un fondo: il proprietario del fondo acquista la proprietà di tali incrementi di terreno;
2) avulsione, cioè distacco da un fondo, per opera di fiumi o torrenti, di una parte di terreno che si unisce ad altro fondo: il proprietario del fondo accresciuto ne acquista la proprietà, ma è tenuto ad indennizzare il proprietario che ha subito la diminuzione;
3) alveo abbandonato, che si ha quando un fiume, formandosi un nuovo letto, abbandona il letto precedente: in tal caso l’alveo abbandonato appartiene al demanio;
4) isola formata nel fiume, che appartiene al demanio pubblico.
Si tratta di una serie di casi relativi ad incrementi fluviali e a mutamenti del letto di fiumi, che ci tramanda il diritto romano e che in gran parte presentano ancora l’antica disciplina.
Unione, commistione e specificazione
L’unione o commistione si verifica quando due o più cose mobili appartenenti a diversi proprietari, vengono ad unirsi in modo tale da formare un sol tutto e non è possibile separarle senza danno. La proprietà della cosa così ottenuta diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascun proprietario; se, però, una delle cose può considerarsi principale, o vale molto di più delle altre, il suo proprietario acquista la proprietà del tutto, con l’obbligo di corrispondere agli altri proprietari il valore delle altre cose. La specificazione ha una sua particolare giustificazione socio-economica in quanto prevede un conflitto, non tra due proprietà, ma tra proprietà e lavoro, che è risolto in modo particolare. La specificazione si ha quando si crea, mediante il lavoro, una nuova cosa con materia appartenente ad altri (es.: con legno altrui ci si costruisce una barca). In tal caso il codice vigente (a differenza del precedente che invece dava prevalenza alla proprietà) dà valore all’elemento del lavoro: il fondamento dell’acquisto della proprietà è dato dal lavoro umano. Pertanto, la proprietà della cosa così ottenuta:
— spetta, di regola, a colui che ha compiuto il lavoro (cd. specificatore) (previo pagamento del valore della materia);
— spetta, invece, al proprietario della materia, soltanto se il valore di essa è di molto superiore al valore della mano d’opera (previo pagamento del prezzo di quest’ultima).
Unione, commistione e specificazione sono tipiche figure di accessione di mobile a mobile.
L’accessione nella comunione legale tra coniugi
Secondo l’orientamento prevalente, nel regime di comunione legale, la costruzione realizzata durante il matrimonio da entrambi i coniugi, sul suolo di proprietà personale ed esclusiva di uno di essi, appartiene esclusivamente a quest’ultimo in virtù delle disposizioni generali in materia di accessione e, pertanto, non costituisce oggetto della comunione legale, ai sensi dell’art. 177, comma 1, lett. b). In tale ipotesi, la tutela del coniuge non proprietario del suolo, opera non sul piano del diritto reale (nel senso che in mancanza di un titolo o di una norma non può vantare alcun diritto di comproprietà, anche superficiaria, sulla costruzione), ma sul piano
obbligatorio, nel senso che a costui compete un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione (Cass. S.U. 651/1996). Un diverso orientamento afferma, invece, che l’art. 177, lett. a), secondo cui gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio costituiscono oggetto di comunione, è una norma che si pone in un rapporto di specialità con l’art. 934, e quindi prevale su quest’ultima, perché rispetto a questa ha, come elemento specializzante, il rapporto di coniugio esistente tra il proprietario del suolo e chi con il medesimo proprietario concorre alla realizzazione su tale suolo di una costruzione. Costituisce, pertanto, oggetto di comunione legale la costruzione del fabbricato realizzato in costanza di matrimonio su terreno di esclusiva proprietà di uno dei coniugi (Trib. Massa 3-3-1994).
Modi di acquisto a titolo derivativo
I modi di acquisto della proprietà a titolo derivativo sono:
1) contratti traslativi di proprietà (ad es., compravendita);
2) trasferimenti coattivi (ad es., espropriazione);
3) successione a titolo di eredità o di legato.
L’acquisto a non domino
In diritto, l’espressione acquisto a non domino (cioè alla lettera, in latino, “da chi non è padrone, proprietario”) indica, genericamente, una situazione nella quale un soggetto acquista un diritto di proprietà su di un bene che proviene da un soggetto non qualificabile come titolare del diritto stesso. L’espressione in parola andrebbe riferita a una categoria di fattispecie acquisitive del diritto, eterogenee tra loro e connotate da una propria specifica disciplina giuridica. Il concetto di acquisto a non domino comprende, oltre all’acquisto dal non proprietario, anche l’acquisto di un diritto che non esiste.
Queste ipotesi sono accomunate dalla situazione descritta sopra, cioè la provenienza del diritto di proprietà da un soggetto non titolare dello stesso. Questa sfasatura avviene o perché il disponente non dominus non ha mai acquisito il diritto oppure perché è diventato dominus successivamente, perché ad esempio, il suo titolo di acquisto è stato posto nel nulla con effetti retroattivi.
Al fine di garantire la speditezza dei traffici giuridici, la legge tutela
prevalentemente l’acquirente, che, a determinate condizioni, acquisisce il bene.
Il proprietario reale, viceversa, si può rivalere sul proprietario apparente.
Come modo di acquisto della proprietà a titolo originario, l’acquisto a non domino è
regolato dagli articoli 1153 e seguenti del codice civile.
Colui al quale è alienata una cosa mobile da chi non ne è proprietario ne acquista la proprietà attraverso il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà.
Perché l’acquisto a non domino sia pienamente valido, il titolo attraverso il quale il diritto passa dall’alienante all’acquirente deve essere astrattamente idoneo, esso cioè deve essere in sé e per sé valido, garantendo la titolarità del disponente.
Altro requisito delle fattispecie acquisitive a non domino è la necessità, ai fini della
protezione giuridica, della buona fede dell’acquirente.
L’acquisto del diritto che segue in capo all’avente causa a non domino ne tutela l’affidamento e la situazione di apparenza che si viene a creare in relazione a casi normativamente previsti.
La buona fede conosce dei limiti dove il bene oggetto del diritto sia sottoposto a una registrazione (es. immobili, mobili). Se si possa applicare la regola possesso vale titolo (per i beni mobili non registrati), il possesso acquisisce carattere di requisito.
Si utilizza tradizionalmente l’espressione possesso vale titolo per indicare il fatto che
il possesso qualificato supplisce la mancanza di un titolo valido di trasferimento.
Il trasferimento della proprietà in questo caso non si può attuare a titolo derivativo (nessuno può trasferire un bene che non è suo). In questi casi l’acquisto della proprietà avviene a titolo originario, attraverso il possesso, purché il possessore sia in buona fede, cioè ignori che il suo dante causa non era proprietario e sussista un titolo (che deve essere un contratto valido, improduttivo dell’effetto traslativo della proprietà solo perché l’alienante non è proprietario). La norma è posta a favore dell’acquirente, non dell’alienante, e il primo, se preferisce, può rinunciare a giovarsene e chiedere la risoluzione del contratto (ex art. 1479 c.c.).
L’acquisto a non domino determina l’estinzione dei diritti minori che gravavano sulla cosa, a meno che l’acquirente fosse a conoscenza della loro esistenza o ne potesse venire a conoscenza con un minimo di diligenza. L’importanza di questo modo di acquisto della proprietà sta nella sicurezza che attribuisce al compratore di cosa mobile, al quale per essere sicuro di aver comprato bene, è sufficiente conseguire in buona fede il possesso della cosa. L’interesse del terzo proprietario è diretto a soccombere di fronte a un interesse valutato come di ordine superiore.
L’interesse a una sicura, ampia e rapida circolazione dei beni mobili.
Nello stesso modo si acquistano, oltre alla proprietà, altri diritti reali su cose mobili e il pegno. Non si può acquistare attraverso il possesso la proprietà su universalità di beni mobili (non diretti alla circolazione) né quella dei beni mobili iscritti in pubblici registri. Quando manca almeno una delle due condizioni menzionate, la buona fede e il titolo idoneo, l’acquisto della proprietà può ancora avvenire per usucapione, cioè attraverso il possesso prolungato nel tempo, rispettivamente dieci o venti anni. Le
fattispecie basate sul possesso potrebbero essere considerate come a titolo originario.
Le altre dovrebbero essere definite come modalità acquisitive a titolo derivativo, dovendosi individuare il fondamentale requisito fondante di esse nell’atto di disposizione del non dominus, vale a dire nel titolo astrattamente idoneo. Questa opinione non dipende dalla fondamentale considerazione dell’indiscutibile presenza, nei casi di acquisto a non domino, proprio dell’atto di disposizione posto in essere dal soggetto non titolare del diritto alienato.
Se questo è l’unico elemento che insieme alla buona fede del subacquirente, si pone come imprescindibile, è forse praticabile una ricostruzione unitaria delle ipotesi che sia basata su di esso. Si potrebbe prospettare in questo senso un tertium genus di modalità acquisitive del diritto, che partecipi in qualche misura alle caratteristiche degli acquisti a titolo originario, e in un’altra di quelli a titolo derivativo. Quello che conta è la rilevanza giocata dall’atto di disposizione. Esso non viene considerato come atto negoziale, produttivo di effetti riferibili alla volontà delle parti, ma come semplice fatto, come semplice elemento di una fattispecie acquisitiva complessa.
Per questo motivo, se si dovesse forzatamente insistere per qualificare espressamente le fattispecie acquisitive a non domino nell’alveo delle due categorie tradizionali sarebbe difficile negarne la natura originaria. Un titolo astrattamente idoneo, è un titolo non viziato, valido, se si fa eccezione al vizio di non provenire dal soggetto titolare del diritto.
Non si deve trattare di un atto viziato da nullità o da annullabilità.
L’efficacia sanante della fattispecie acquisitiva nella quale consiste l’acquisto a non domino esplica la propria forza esclusivamente sotto il profilo dell’assenza in capo al disponente della titolarità del diritto e non sotto l’aspetto di una sanatoria di altri vizi.
L’espressione “acquisto a non domino ” indica una fattispecie acquisitiva complessa, caratterizzata dall’efficacia attributiva del diritto in capo all’acquirente nonostante il difetto di legittimazione nell’alienante, in relazione alla quale il titolo formato dal non dominus e la buona fede dell’acquirente sono gli elementi particolari ed essenziali.
Il dante causa è autore rispetto all’acquirente esclusivamente in senso formale, non sostanziale, lo impedisce il principio ” nemo plus juris in aliud transferre potest quam ipse abet “ Oltre agli elementi costanti, come il titolo astrattamente idoneo e la buona fede, esistono elementi che possono essere considerati variabili rispetto alle singole fattispecie acquisitive:
— Il possesso.
— La trascrizione del titolo.
— L’eventuale decorso del tempo.
Una autorevole dottrina ha ritenuto di fare riferimento al possesso come elemento di distinzione tra i vari casi, distinguendo le fattispecie acquisitive a non domino fondate sul possesso da quelle che non dipendono da esso. La differenziazione sembra più che altro derivare dall’apprezzamento della specie del conflitto che viene disciplinato. In relazione a questo aspetto si deve ricordare la nozione di “conflitti verticali” e di “conflitti orizzontali”.
La doppia alienazione di quote societarie
La Riforma del diritto societario innova radicalmente il trattamento della doppia alienazione di quota di società a responsabilità limitata a opera del medesimo venditore a favore di due diversi acquirenti. Prima della Riforma si era ritenuto principalmente che questo caso fosse regolato dal principio generale (prior in tempore potior in iure) in base al quale tra i due acquirenti prevale colui che per primo ha stipulato il contratto di acquisto.
In sostanza il doppio venditore con la prima vendita perde la legittimazione a disporre della quota, avendola già alienata, con il risultato che il secondo acquirente non può quindi acquistare nulla, avendo il secondo acquirente già effettuato l’acquisto della quota medesima. Anche dopo la legge 310/1993, in assenza di una norma specifica, non si è mai potuto ritenere che il Registro delle Imprese fosse dotato delle medesime peculiarità dei registri immobiliari ove la formalità eseguita per prima (anche se discendente da un atto stipulato posteriormente) prevale su quella eseguita dopo (articolo 2644 Codice Civile).
La Riforma predisposta dalla Commissione Xxxxxx opera in questo campo una radicale innovazione: viene infatti introdotta la rivoluzionaria previsione che anche la pubblicità nel Registro delle imprese (analogamente a quella nei registri immobiliari) ha effetto dichiarativo per gli acquisti ( e cioè di consentire la prevalenza di chi per primo effettua l’adempimento pubblicitario indipendentemente dalla priorità nella data di stipula del contratto traslativo), di modo che viene previsto che se la quota è alienata con successivi contratti a più persone quella che ne ha effettuato in buona fede l’iscrizione nel Registro delle Imprese è preferita alle altre anche se il suo titolo è di data posteriore (articolo 2470 terzo comma del Codice Civile). Questa regola di conflitto serve ovviamente anche a dirimere il contrasto, per esempio, tra un creditore che esegua un sequestro o che consegua un pegno e l’acquirente della piena proprietà di una partecipazione o di un diritto di usufrutto su di essa.
A dire il vero non vi è completa equiparazione del Registro delle Imprese al sistema della pubblicità immobiliare, ove la buona fede del secondo acquirente-primo trascrivente non conta (ai fini della prevalenza sul primo acquirente in quanto ben conta invece in tema di sua responsabilità per danni). Nel campo del trasferimento delle partecipazioni invece la prevalenza del primo trascrivente è corroborata da un
mix (tra le regole della pubblicità immobiliare e quelle di circolazione dei beni mobili e dei titoli di credito: articoli 2644, 1153 e 1155 Codice Civile) dato dalla più tempestiva esecuzione dell’onere pubblicitario e dalla sua condizione di buona fede.
Va detto che la buona fede è un requisito che deve sussistere in capo all’acquirente al
momento dell’esecuzione della formalità pubblicitaria.
Quindi la regola in base alla quale è sufficiente che la buona fede vi sia al tempo dell’acquisto, nel senso che non rileva la mala fede sopravvenuta, va adattata al caso in esame ove va quindi detto che la mala fede sopravvenuta tra la data dell’acquisto e la data di iscrizione nel Registro delle Imprese pregiudica l’acquisto di chi abbia stipulato successivamente un altro contratto traslativo avente ad oggetto le medesime parti.
Resta comunque fermo che, come regola generale, la buona fede si è presunta (articolo 1147 terzo comma Codice Civile) e che quindi è onere probatorio del primo acquirente leso dagli altrui più tempestiva pubblicità di provare lo stato di mala fede della controparte per impedirne l’acquisto.
L’acquirente dal xxxxx causa che non è titolare della quota può invocare l’acquisizione della titolarità della quota invocando l’applicabilità dell’articolo 1153 Codice Civile in tema di beni mobili registrati.
L’acquisto a non domino della quota di società a responsabilità limitata?
Il problema è che seppur la quota sia considerabile in termini di bene mobile non si può tuttavia da ciò giungere all’applicazione dell’articolo 1153 Codice Civile sull’acquisto dei beni mobili a non domino. Presupposto di quest’ultima norma, infatti, è quello che si tratti di un bene mobile non registrato nella cui circolazione ha dunque massimo rilievo (unitamente ad altri presupposti quali la buona fede e il titolo idoneo) la pubblicità che si determina con la consegna della cosa stessa dal non dominus all’avente causa a non domino. Ma ove un sistema pubblicitario invero sia predisposto appunto per supportare la trasmissione dei beni che in quel sistema siano registrati (e quindi ove il surrogato della pubblicità creata dalla consegna non possa dispiegare la propria valenza in quanto schiacciato sotto il peso della pubblicità legale predisposta dal legislatore) allora l’acquisto a non domino non si rende possibile.
Cosicché la quota si società a responsabilità limitata, che è bene mobile registrato al pari degli immobili e degli altri beni soggetti a registrazione ben si può acquistare a non domino, ma con gli effetti di cui all’articolo 1478 Codice Civile e cioè con l’effetto che l’acquirente può acquistare la titolarità del bene solo nel momento in cui il venditore acquista la proprietà dal titolare di essa.
L’USUCAPIONE a cura di Xxxx Xxxxxxx
CONCETTI GENERALI
L’usucapione e’ definita “il mezzo in virtu’ del quale, per effetto del possesso protratto per un certo tempo e, talora, di altri requisiti, si produce l’acquisto dlla proprieta’ o dei diritti reali di godimento”. Il codice civile se ne occupa negli articoli dal 1158 al 1167. La si puo’ anche definire quel passaggio di un diritto, in cui un soggetto -il proprietario “inerte”- perde la titolarita’ di un bene mentre un altro soggetto -quello effettivamente in possesso del bene, che se ne occupa- contemporaneamente lo acquisisce. Non e’ possibile acquisire un diritto diverso da quello esercitato: per esempio chi -senza titolo ma solo possedendo- esercitasse di fatto un diritto connotabile come affitto, non potrebbe usucapire un diritto di proprieta’ sul bene. Possono venire usucapiti esclusivamente la proprieta’ e i cosiddetti diritti reali di godimento, ovvero l’usufrutto, l’ uso, l’abitazione, le servitu’, etc.
Schematicamente parlando, i tempi necessari per l’usucapione sono:
- 20 anni di possesso continuato per i beni immobili9;
- 10 anni dalla data di trascrizione per gli immobili acquistati in buona fede da chi non e’ proprietario dell’immobile, in presenza pero’ di un titolo idoneo a trasferire la proprieta’ che sia stato debitamente trascritto. Stessa cosa anche per gli altri diritti reali di godimento gia’ detti;
- 20 anni di possesso continuato per i beni mobili;
- 10 anni di possesso continuato per i beni mobili, relativamente alla proprieta’ o altri diritti reali acquisiti in buona fede da chi non ne e’ il proprietario, in presenza o meno di titolo idoneo. Se il possessore e’ in mala fede occorre invece che passino 20 anni;
- 10 anni di possesso continuato per i beni mobili iscritti nei pubblici registri;
- 3 anni dalla trascrizione per i beni mobili iscritti nei pubblici registri acquistati in buona fede10 da chi non ne e’ proprietario, in presenza di un titolo idoneo a trasferire la proprieta’ che sia stato debitamente trascritto.
L’acquisizione del diritto per usucapione avviene ex-lege, nel momento stesso in cui matura il termine previsto. Chi acquisisce il diritto puo’ tuttavia promuovere un “giudizio di accertamento” dell’usucapione per ottenere definitivamente un titolo utile per la trascrizione. Sono esclusi dall’usucapione i diritti aventi per oggetto beni demaniali e del patrimonio dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali.
9 - quella che si perfeziona in venti anni e’ detta usucapione ordinaria. Le altre sono usucapioni brevi.
10
-due parole sulla buona fede. Essa corrisponde all’ignoranza di ledere, con il proprio possesso, un diritto altrui, e deve esistere al momento in cui si acquista il possesso. Ovvio che tale “buona fede” dell’acquirente puo’ essere contestata considerando la concreta possibilita’ a carico di quest’ultimo di poter accertare (o comunque di poter nutrire consistenti dubbi), tramite verifica dei registri immobiliari, l’effettiva proprieta’ in testa al suo alienante.
UN CASO PARTICOLARE: usucapione speciale per i fondi rustici
Caso a se’ e’ quello relativo all’acquisto per usucapione del diritto di proprieta’ su fondi rustici (e relativi immobili) posti nelle zone montane cosi’ come definite dalla legge n. 1102/71, art.3 o nei Comuni “a basso reddito” . In questo caso sono sufficienti 15 anni di ininterrotto possesso a titolo di proprieta’.
Nel solito caso di acquisto da parte di terzo di buona fede da soggetto non proprietario, con atto regolarmente trascritto, sono sufficienti 5 anni dalla trascrizione -senza che l’usucapione venga interrotta- per confermare la regolarita’ del trasferimento. Si discute sulla difficolta’ che -trattandosi di fondi rustici- si puo’ creare per la necessita’ della trascrizione. Nel caso in cui venga venduto un fondo confinante con un altro la cui proprieta’ sia stata usucapita, se il proprietario di quest’ultimo non ha fatto conoscere al vicino la sua posizione di proprietario, non puo’ legittimamente pretendere di venirne informato per poter usufruire della prelazione prevista per i fondi rustici.
REQUISITI
I requisiti dell’usucapione sono:
- il decorso del tempo;
- il possesso, che deve essere continuo (non interrotto) e privo di vizi.
La continuita’
Perche’ si possa avere usucapione il possesso deve manifestarsi permanentemente, senza interruzioni di alcun tipo. Allo stesso tempo ci dev’essere la totale inerzia dell’effettivo proprietario, che di fronte al manifestarsi di tale possesso deve rimanere indifferente e inattivo.
Per essere chiari, e’ del tutto diverso il caso in cui il possesso venga meramente “tollerato” con spirito di accondiscendenza per ragioni di amicizia e/o buona vicinanza, quindi con una sorta di accordo (del tipo “ti consento di passare sul mio terreno”).
Si puo’ fare un esempio pratico evidenziando nel contempo la differenza tra “detenzione” di un bene e possesso dello stesso. Se un amico ci ha prestato la bicicletta essa e’ in nostra detenzione, custodia, e cio’ non puo’ dare inizio ad alcun iter di usucapione. Se pero’ noi decidiamo ad un certo punto di non restituirla e comunichiamo all’amico l’intenzione di entrarne in “possesso”, da quel momento puo’ partire l’iter dell’usucapione, con il tacito consenso dell’amico. Ovvio che qualora questi ci intimi di restituire la bicicletta, venga a riprendersela o ci invii una lettera dove puntualizza che dobbiamo renderla perche’ sua, allora tutta la “procedura” di usucapione si annullera’.
Attenzione! Non basta solo che l’amico non chieda piu’ la bicicletta indietro per TOT anni, e’ necessario che lo faccia dopo essere stato informato della nostra intenzione di diventare “proprietari” della bicicletta. E’ da rilevare che la prova della continuita’ del possesso grava sul soggetto che intende far valere l’usucapione. E’ una prova difficilissima da fornire, xxxxxx’ si tratta di dimostrare il possesso continuato, giorno per giorno, per tutto l’arco di tempo richiesto.
L’interruzione si puo’ avere perche’ il diritto non viene esercitato per un certo periodo di tempo (minimo un anno), partendo dal giorno a cui si puo’ far risalire la cessazione del possesso (interruzione naturale) oppure per effetto di atti giuridici intervenuti, tipicamente l’azione con la quale l’effettivo proprietario rivendica il proprio diritto (interruzione civile per “azione di rivendicazione”). Se quindi per almeno un anno il soggetto interessato ad usucapire il diritto non lo esercita, (a causa della perdita del possesso del bene, dell’abbandono dello stesso, dell’intervento di un terzo, di un evento naturale, etc.) si ha interruzione e tutto l’”iter” di usucapione viene annullato.
In tal caso il possesso puo’ essere recuperato con un’azione specifica che consente di annullare l’interruzione (“azione di reintegrazione”), da farsi entro lo stesso termine di un anno. Si ha interruzione anche quando il possessore, con un atto, riconosce l’altrui diritto e quindi esprime la volonta’ di attribuire all’effettivo titolare il diritto reale da lui esercitato.
E’ bene precisare che l’interruzione civile delll’usucapione, proprio perche’ essa e’ una “prescrizione acquisitiva”, segue le regole dell’interruzione della prescrizione. Essa non puo’ quindi esser rilevata d’”ufficio” (da un giudice) ma deve essere opposta dalla parte interessata con uno specifico atto giudiziale (per esempio l’azione di rivendica del proprietario).
In particolare per le usucapioni che riguardano gli immobili la Cassazione si e’ piu’ volte espressa sancendo che l’interruzione puo’ aversi -oltre che con un atto che comporti la perdita materiale del potere del possessore sulla cosa per almeno un anno-, con “atti giudiziali diretti ad ottenere la privazione del possesso nei confronti del possessore usucapiente”. Occorre quindi la notifica di un atto di citazione a cui segua un’azione davanti al giudice. Non basta la notifica di una “semplice” diffida o messa in mora che risultino ignorate (Cassazione sentenza 9845/03).
Mancanza di vizi
L’azione di possesso che determina l’inizio dell’usucapione non puo’ esprimersi in maniera violenta o clandestina. Si ha violenza quando il possesso e’ iniziato contro la volonta’ espressa dell’effettivo proprietario mediante uso di forza fisica (per esempio una rapina). La clandestinita’ si ha invece quando la presa di possesso avviene con artifizi che la nascondano all’effettivo proprietario o in modo tale che quest’ultimo non possa accorgersene, per esempio perche’ assente (per esempio il furto).
L’usucapione inizia a decorrere solo dal momento in cui violenza e coercizione -o,
nel caso, clandestinita’- vengono a cessare.
Un altro importante requisito: si usucapisce solo il diritto esercitato
Come gia’ accennato, non e’ possibile esercitare un certo diritto reale ed acquisirne un altro. Esercitando per esempio un diritto reale di godimento (uso, usufrutto, etc.), non si potra’ usucapire la proprieta’. Nel caso in cui questo diritto reale si tramuti in proprieta’, l’usucapione del diritto di proprieta’ inizia a decorrere da quando il diritto esercitato e’ mutato, e si e’ iniziato ad esercitare quest’ultimo.
L’usucapione dei beni in compossesso
Per usucapire un bene comune il possesso deve essere incompatibile con quello degli altri comproprietari. Per i beni in "compossesso", ai fini dell'usucapione, l'utilizzo esclusivo della cosa comune da parte del singolo compossessore non risulta sufficiente, essendo necessaria invece la dimostrazione concreta del possesso esclusivo sul bene comune, apertamente antitetico e chiaramente incompatibile con il possesso altrui, e l'onere della prova grava su colui il quale invoca l'avvenuta usucapione del bene comune. Questo il principio di diritto ribadito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 16414, pubblicata il 4 luglio 2017. La Corte d'Appello di Roma, bocciando il sì del Tribunale a una richiesta di usucapione di un terreno avanzata da due dei "compossessori", spiegava che «il comproprietario può usucapire la quota degli altri comproprietari estendendo la propria signoria di fatto sulla res communis in termini di esclusività, ma che a tal fine non è sufficiente che gli altri partecipanti si siano limitati ad astenersi dall'uso della cosa, occorrendo, per converso, che il comproprietario usucapiente ne abbia goduto in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui, in modo tale, cioè, da evidenziarne una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus», circostanza, a dire della Corte territoriale, che non sarebbe emersa nel corso del giudizio. La Suprema corte ritiene corretta la decisione della Corte d'appello, atteso che la stessa si è uniformata al principio di diritto per cui in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso per usucapione e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore. Risulta quindi necessario, a fini dell'usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo attraverso un'attività durevole, apertamente contrastante e inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (Cassazione, sentenze 19478/2007, 12775/2008 e 17512/2016. Nel caso concreto, afferma la Corte di Cassazione, non solo non è stata raggiunta questa prova, ma anche la scrittura privata intervenuta tra i comproprietari non dimostra che gli stessi abbiano inteso dismettere il loro diritto limitandosi, al contrario, a suddividere la spesa necessaria all'accatastamento del bene comune. Peraltro, l'assenza di manifestazione del dominio esclusivo impedisce anche
l'eventuale tutela possessoria da parte del comproprietario, atteso che «La disposizione dell' art. 1102, comma 2, c.c., secondo la quale il partecipante alla comunione non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso, impedisce al compossessore, che abbia utilizzato la cosa comune oltre i limiti della propria quota, non solo l'usucapione ma anche la tutela possessoria del potere di fatto esercitato fino a quando questo non si riveli incompatibile con l'altrui possesso. Le concrete modalità di godimento della cosa comune, desumibili dall'art. 1102 c.c., assurgono, dunque, a possibile contenuto di una posizione possessoria tutelabile contro tutte le attività con le quali uno dei compossessori comproprietari unilateralmente introduca una modificazione che sopprima o turbi il compossesso degli altri». (da Il Sole24Ore del 11/07/2017)
La Multiproprietà
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
La multiproprietà o time sharing, è il contratto di godimento a tempo parziale di un bene immobile con il quale un fornitore cede, a titolo oneroso, a un consumatore il diritto di utilizzare periodicamente uno o più immobili per un tempo determinato (CASELLI).
0.Xxxxxx giuridica
Al momento della stipula del contratto l’acquirente della multiproprietà, sceglie, tra i periodi dell’anno disponibili, quello di proprio gradimento, con queste ulteriori particolarità:
a) il prezzo varia da periodo a periodo;
b) durante il resto dell’anno i locali sono a disposizione di altre persone;
c) sulla stessa unità abitativa grava, quindi, una pluralità di diritti, tanto che si parla, con riferimento a tale istituto, di proprietà turnaria (XXXXXX).
Sotto il profilo giuridico, la multiproprietà si colloca tra la locazione e la proprietà, e può manifestarsi in diverse forme presentando una durata variabile così come il valore economico varia in seguito alla posizione, stagione, dimensioni dell’immobile, comfort, ecc.
Nell’ordinamento giuridico italiano si acquista, in genere, un diritto su una porzione di immobile per un determinato periodo dell’anno, mentre nell’ordinamento anglosassone (time sharing) si acquista una porzione di tempo e la gestione delle quote viene affidata ad un trust. Esistono anche formule miste, come la nouvelle proprièté francese, in cui si acquista interamente l’immobile, ma è trasferito contemporaneamente il diritto di usufrutto decennale a una società di gestione, che l’utilizza per locare l’immobile ad altri.
2.Disciplina generale
Il contratto di multiproprietà, nell’arco di quest’ultimo ventennio, è stato protagonista di una profonda dinamicità normativa, evolvendosi e distinguendosi in forme e modalità sempre più nitide, incidendo, per l’effetto, radicalmente sulla struttura ed applicabilità del negozio de quo. La legislazione in Europa, a parte la specificità e peculiarità delle forme giuridiche in vigore nei diversi Paesi membri, trova una base comune nella direttiva 94/47/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26.10.1994, adottata dall’UE, concernente la tutela dell'acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all'acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili, che accorda alcuni diritti agli acquirenti di beni in multiproprietà applicabili in tutta l'U.E. al fine di fissare un regolamento uniforme per la tutela stessa dei consumatori.
La direttiva ha introdotto una normativa quadro destinata a vincolare i singoli legislatori europei nell'adozione di una regolamentazione interna atta a proteggere il consumatore nei rapporti negoziali aventi ad oggetto l'acquisto del diritto di godimento a tempo parziale.
Tre sono gli elementi fondanti della direttiva:
a) l'obbligo per il venditore di fornire tutte le informazioni tecniche e giuridiche, le più dettagliate possibile, inerenti l'operazione da perfezionare nella fase della sua trattativa;
b) la possibilità per l'acquirente di recedere, anche ad nutum, dal contratto;
c) il divieto per il venditore di esigere dall'acquirente somme di denaro a qualsiasi titolo fino alla scadenza del termine concesso per l'esercizio del diritto di recesso.
Il 13 febbraio 1999 entrava in vigore il decreto legislativo 9 novembre 1998 numero 427, attuativo della suindicata direttiva europea 94/47/CE.
Con il decreto attuativo veniva introdotta anche la nozione di contratto di multiproprietà.
All'articolo 1, lett. a, del D. Lgs. n. 427/1998, infatti, si affermava che per tale si intendeva un contratto della durata di almeno tre anni con il quale, verso pagamento di un prezzo globale, veniva costituito o trasferito, o si prometteva di costituire o trasferire, direttamente o indirettamente, un diritto reale ovvero un altro diritto avente ad oggetto il godimento su uno o più beni immobili, per un periodo determinato o determinabile dell'anno non inferiore ad una settimana.
Giova immediatamente segnalare che restava, dunque, dubbia la sorte di tutti quei contratti di durata inferiore ai tre anni.
L'aver, comunque, disciplinato un godimento temporale minimo del contratto, consentì di concludere accordi - avente ad oggetto il godimento a turnazione di beni immobili - , anche limitati nel tempo, che rientravano di diritto nella qualificazione di multiproprietà. Difficoltà ermeneutiche sorsero, all'evidenza, per quelle ipotesi di multiproprietà, oramai da tempo diffuse sul mercato, nelle quali era previsto un periodo di godimento dell'immobile inferiore alla settimana.
Sarebbe stato necessariamente compito, in un primo momento, della giurisprudenza e della dottrina, in sede di interpretazione, ed in un secondo momento di ulteriori interventi normativi, stabilire se ipotesi di contratto di tal fatta (con godimento limitato) fossero da ricomprendersi nella fattispecie regolata oppure no.
Ma andiamo con ordine.
All’art. 1, lett. b) del D. lgs. 9 novembre 1998, n. 427, viene fornita la definizione dei
soggetti del rapporto: ossia il “venditore e l’acquirente”.
Il venditore è la persona fisica o giuridica che nell'ambito della sua attività professionale costituisce, trasferisce o promette di costituire o di trasferire il diritto oggetto del contratto; a questi è equiparato, ai fini dell'applicazione del decreto, colui il quale, a qualsiasi titolo, promuove la costituzione, il trasferimento o la promessa di trasferimento del diritto oggetto del contratto. L'equiparazione in esame è evidentemente strumentale al fine di scongiurare che gli obblighi gravanti sul cedente vengano aggirati con la partecipazione di agenti immobiliari o promotori che si frappongono tra il venditore e l'acquirente. L'acquirente, invece, è la persona fisica, che non agisce nell'ambito della sua attività professionale, in favore della quale viene costituito, si trasferisce o si promette di costituire o di trasferire il diritto oggetto del contratto. L’art. 1, lett. d), D. Lgs. 9 novembre 1998, n. 427, fornisce poi la definizione di bene immobile, affermando essere tale "un immobile o parte di esso per uso di abitazione anche turistico - ricettivo su cui verte il diritto oggetto del contratto".
Avendo riguardo alla tutela del consumatore, sub specie di obblighi di informazione e trasparenza, la normativa in esame prevede la consegna di un documento informativo ad ogni persona che richieda notizie o delucidazioni sul bene immobile.
Il venditore in particolare è tenuto a rendere informazioni complete circa i seguenti elementi:
a) il diritto oggetto del contratto, con specificazione della natura e delle condizioni di esercizio di tale diritto nello Stato in cui è situato l'immobile; se tali ultime condizioni sono soddisfatte o, in caso contrario, quali occorre soddisfare;
b) l'identità e il domicilio del venditore, con specificazione della sua qualità giuridica, l'identità e il domicilio del proprietario;
c) nel caso in cui l'immobile sia determinato, la descrizione dello stesso e la sua ubicazione; nel caso in cui invece l'immobile non sia ancora determinato bisogna fornire gli estremi della concessione edilizia e delle leggi regionali che regolano l'uso dell'immobile con destinazione turistico - ricettiva e, per gli immobili situati all'estero, gli estremi degli atti che garantiscano la loro conformità alle prescrizioni vigenti in materia, nonché lo stato di avanzamento dei lavori di costruzione dell'immobile e la data entro la quale è prevedibile il completamento degli stessi; inoltre è da aggiungere anche lo stato di avanzamento dei lavori relativi ai servizi, quali il collegamento alla rete di distribuzione di gas, elettricità, acqua e telefono ed infine, in caso di mancato completamento dell'immobile, le garanzia relative al rimborso dei pagamenti già effettuati e le modalità di applicazioni di queste garanzie;
d) i servizi comuni ai quali l'acquirente ha o avrà accesso, quali luce, acqua, manutenzione, raccolta di rifiuti con le relative condizioni di utilizzazione e le strutture comuni alle quali l'acquirente ha o avrà accesso, quali piscina, sauna ed altre con le relative condizioni di utilizzazione, con in aggiunta le norme applicabili in materia di manutenzione e riparazione dell'immobile, nonché in materia di amministrazione e gestione dello stesso;
e) il prezzo globale, comprensivo di iva, che l'acquirente verserà quale corrispettivo; la stima dell'importo delle spese, a carico dell'acquirente, per l'utilizzazione dei servizi e delle strutture comuni e la base di calcolo dell'importo degli oneri connessi all'occupazione dell'immobile da parte dell'acquirente, delle tasse e imposte, delle spese amministrative accessorie per la gestione, la manutenzione e la riparazione, nonché le eventuali spese di trascrizione del contratto;
f) le informazioni circa il diritto di recesso dal contratto con l'indicazione degli elementi identificativi della persona alla quale deve essere comunicato il recesso stesso, precisando le modalità della comunicazione e l'importo complessivo delle spese, specificando quelle che l'acquirente in caso di recesso è tenuto a rimborsare;
g) le modalità, infine, per ottenere ulteriori informazioni.
Il venditore non può apportare modifiche agli elementi del documento informativo, tranne che nel caso in cui le stesse non siano dovute a circostanze indipendenti dalla sua volontà; ma in tal caso le modifiche devono essere comunicate alla parte interessata prima della conclusione del contratto e inserite nel documento stesso, anche se, dopo la consegna del documento informativo, le parti possono accordarsi per modificare tale documento.
Per ciò che riguarda l'obbligo di consegna del documento informativo quest'ultimo trova la propria ratio nella necessità di approntare una disciplina specifica per la fase delle trattative che precedono la conclusione del contratto. A titolo esemplificativo, è per chi non veda, infatti, che l'inserimento dell'unità immobiliare in complessi dotati di infrastrutture condominiali articolate (aree verdi, impianti sportivi ecc.) impone al
consumatore/acquirente l'obbligo di sopportare una serie di costi aggiuntivi rispetto al pagamento del corrispettivo richiesto per l'acquisto del diritto; costi aggiuntivi che, generalmente, nella prassi, il potenziale acquirente non è grado di quantificare autonomamente.
Soltanto in esito ad una fase precontrattuale caratterizzata da informazioni esaustive e complete, l'acquirente potrà consapevolmente autodeterminarsi, soppesando i vantaggi ed i limiti del prodotto multiproprietà prescelto. In ragione di tali tutele del consumatore/acquirente deriva, dunque, l'esigenza di mettere a disposizione del cliente tutti quei dati che possono influenzare la valutazione relativa alla convenienza ed all'opportunità dell'acquisto; esigenza che viene soddisfatta con il riempimento di un prospetto informativo recante tutte le notizie necessarie per una scelta ponderata ed informata. Il prospetto informativo deve essere redatto per iscritto a pena di nullità nella lingua dello Stato in cui l'acquirente risiede o in quella di cui ha la cittadinanza.
La normativa in esame prevede inoltre quale ulteriore strumento di tutela a favore dell'acquirente il diritto di recesso. Viene infatti offerta al consumatore la possibilità di recedere dal contratto entro un tempo breve ma sufficiente per ponderare la peculiarità dell'acquisto effettuato. Il diritto di recesso inizialmente era consentito all'acquirente nel termine utile di 10 giorni (oggi è previsto, invece, un termine utile di 14 giorni per come disposto e modificato dalle disposizioni del D.Lgs. n. 79/2011
c.d. Codice del turismo del 21 giugno 2011), fatto salvo il tempo più lungo, di tre mesi o 12 mesi, concesso all'acquirente nell'ipotesi in cui il venditore sia stato inadempiente agli obblighi previsti. L'acquirente che si avvale del diritto di recesso non è obbligato al pagamento di alcuna penalità.
L'art. 7 del D. Lgs. 9 novembre 1998, n. 427, imponeva inoltre al venditore di prestare garanzia fideiussoria bancaria o assicurativa solo se la costruzione dell'immobile non fosse stata completa. Per di più tale garanzia venne modificata, in senso riduttivo, all'atto della stesura finale del provvedimento, con la conseguenza che la fideiussione rimase obbligatoria soltanto nel caso che l'immobile non fosse pronto a garanzia dell'ultimazione dei lavori.
Sempre a tutela dell'acquirente, il D. Lgs. 9 novembre 1998, n. 427, prevedeva, infine, la nullità delle clausole contrattuali o dei patti aggiunti di rinuncia dell'acquirente ai diritti previsti dal decreto in questione o di limitazione di responsabilità previste dalla legge a carico del venditore.
0.Xx disciplina nel codice del consumo e nel codice del turismo
Con la promulgazione del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, c. d. Codice del Consumo (abrogativo del D. Lgs. 9 novembre 1998 n. 427) e del recente D.Lgs. n. 79/2011,
c.d. Codice del turismo, la disciplina sin qui esaminata è stata recepita con modifiche sostanziali agli articoli 69 e ss. Il D. Lgs. n. 427/1998, già modificato rispetto alla sua formulazione iniziale, prima dall’art. 4 della L. 135 del 29 marzo 2001, e dopo
dall’art. 10 della Legge 39 del 1° marzo 2002, è stato abrogato a seguito dell’entrata in vigore del Codice del consumo, abrogazione espressamente disposta dall’art. 146.
Le modifiche introdotte dal Codice del Consumo hanno avuto ad oggetto (oltre ad alcune correzioni formali) la definizione di acquirente (che richiama espressamente la nozione di "consumatore"), la disciplina del prezzo (che fa riferimento alla globalità degli esborsi che l'acquirente è chiamato a sopportare), la espressa salvaguardia nell'applicazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché il coordinamento con le altre disposizioni del Codice contenenti disposizioni eventualmente più favorevoli al consumatore, così pervenendosi ad un risultato apprezzabile nella riconduzione della materia alla sistematicità della disciplina dei contratti del consumo.
L'entrata in vigore del D.Lgs. n. 79/2011, c.d. Codice del turismo, ha apportato delle novità alla preesistente disciplina contemplata dal Codice del consumo, adeguando il nostro ordinamento alla direttiva 2008/122/CE, per effetto della quale veniva sollecitato, agli Stati membri, un intervento mirato a colmare determinate lacune presenti all'interno degli ordinamenti giuridici al fine di armonizzare l'intero complesso normativo disponente la commercializzazione e la vendita della multiproprietà.
Tra le modificazioni al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, occorre preliminarmente evidenziare la sostituzione del dettato del titolo IV con il seguente: "Disposizioni relative ai singoli contratti. Capo I. Contratti di multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di vendita e di scambio".
In particolare, alle definizioni è dedicato l'articolo 69, che, a differenza della previgente normativa che lasciava inalterate le previsioni di cui al D. Lgs. n. 427/98, definisce il contratto di multiproprietà un contratto di durata superiore a un anno tramite il quale un consumatore acquisisce, a titolo oneroso, il diritto di godimento su uno o più alloggi per il pernottamento per più di un periodo di occupazione.
Di particolare interesse, a rafforzamento della tutela del consumatore, risulta l’art. 71 che, disciplinando le informazioni precontrattuali, prevede, in tempo utile, prima che il consumatore sia vincolato da un contratto o da un'offerta, che l'operatore fornisca al consumatore, in maniera chiara e comprensibile, informazioni accurate e sufficienti, con l’ausilio di un formulario informativo, a titolo gratuito su carta o supporto durevole di facile accessibilità al consumatore, redatte nella lingua italiana e in una delle lingue dello Stato dell’Unione europea in cui il consumatore risiede oppure di cui è cittadino, a scelta di quest’ultimo, purché si tratti di una lingua ufficiale della Unione europea.
L'articolo 72 indica i requisiti del contratto stabilendone la forma scritta ad substantiam in lingua italiana e tradotta nella lingua o una delle lingue dello Stato membro in cui risieda l'acquirente oppure, a scelta di quest'ultimo, nella lingua o in una delle lingue dello Stato di cui egli è cittadino, purché si tratti di lingue ufficiali dell'U.E.
Il codice prevede, inoltre, che il contratto di multiproprietà debba contenere espressamente l'identità e il domicilio dell'acquirente, la durata ed il termine del contratto, la clausola in cui si afferma che l'acquisto non comporta per l'acquirente altri oneri, obblighi o spese diversi da quelli stabiliti dal contratto ed infine, ovviamente, la data e il luogo di sottoscrizione del contratto.
L'articolo 73, recependo la disciplina del diritto di recesso riconosciuto all'acquirente/consumatore, dispone che lo ius poenitendi possa essere esercitato entro un periodo di 14 giorni naturali e consecutivi, a differenza delle precedente normativa che prevedeva un periodo massimo di giorni 10, dandone comunicazione alla persona indicata nel contratto o, in mancanza, al venditore a decorrere dalla conclusione del contratto definitivo o del contratto preliminare.
Il suddetto termine viene prorogato di 12 mesi e 14 giorni qualora il formulario di recesso separato, previsto dall’art.72, comma 4, non sia stato compilato dall'operatore e consegnato al consumatore per iscritto su carta o altro supporto durevole oppure di tre mesi e 14 giorni laddove le informazioni di cui all’art. 71 comma 1, non siano state fornite al consumatore per iscritto su carta o altro supporto durevole.
L’esercizio del diritto di recesso, ex art. 74, da un lato estingue l’obbligo tra le parti di eseguire il contratto, dall’altro libera il consumatore che lo esercita dal sostenere alcuna spesa, dal pagare alcuna penalità ed infine dall’essere obbligato a corrispondere una somma pari al valore dell’eventuale servizio reso prima del recesso.
Infine, il Codice del consumo, aggiornato alla normativa vigente disposta dal D. Lgs.
n. 79/2011, agli artt. 75 e 81, vieta qualunque versamento di somme di denaro a titolo di acconto, prestazione di garanzie, l’accantonamento di denaro sotto forma di deposito bancario, il riconoscimento esplicito del debito od ogni altro onere da parte del consumatore in favore dell’operatore o di un terzo prima del decorso del termine per l’esercizio del diritto di recesso ed inasprisce, al contempo, la punizione rivolta all’operatore che contravviene alle norme indicate, per ogni singola violazione, individuata in una sanzione amministrativa pecuniaria da € 1.000,00 ad € 5.000,00, prevedendo ed applicando, inoltre, una pena accessoria all’operatore che abbia ripetutamente commesso una delle suddette violazioni, consistente nella sospensione dell’esercizio dell’attività da un minimo di 30 giorni ad un massimo di 6 mesi.
4.Giurisprudenza.
· Cass. Civ., sez. II, sentenza n. 6352 del 16 marzo 2010 ha statuito che deve ritenersi nullo, per indeterminatezza ed indeterminabilità dell’oggetto, il contratto preliminare che non specifichi nella sua concreta consistenza, ovvero in termini millesimali, il valore del diritto oggetto di trasferimento, risultando insufficiente l’impiego nella convenzione di espressioni generiche del tipo “quota di partecipazione indivisa”, “la proprietà della quota millesimale” e “la proprietà della quota di partecipazione”. Ciò sul presupposto che la quota di multiproprietà vada compiutamente individuata, essendo espressione concreta ed effettiva della partecipazione di ciascun comproprietario al godimento dell’unità abitativa, con inevitabili riflessi sul prezzo di vendita e sull’entità della partecipazione alle spese comuni.
· Trib. Parma, sentenza n. 995 del 7 luglio 2006 ha annullato per vizio di volontà il contratto di acquisto di una multiproprietà sottoscritto da due coniugi. Nella fattispecie la società venditrice aveva invitato la coppia in un prestigioso hotel e gli aveva illustrato e fatto sottoscrivere l’accettazione di un buono vacanza gratuito, rivelatosi una vera e propria proposta contrattuale. Il giorno dopo, alcuni rappresentanti della società proponente si recavano a casa della coppia per la sottoscrizione di un ulteriore modulo, in cui si indicava che l’eventuale recesso sarebbe costato 4.000 euro. Il Tribunale, pronunciando l’annullamento del contratto e la condanna della società venditrice alla restituzione delle somme versate dalla coppia compresi interessi e spese processuali, ha, in particolare, dichiarato che il recesso, per legge, non può essere condizionato da alcuna penalità, oltre tutto, nel caso di specie, di ammontare evidentemente spropositato.
· Trib. Firenze, sentenza n. 1481 del 2 aprile 2004 ha deciso che è assolutamente nullo il contratto di acquisto di un immobile in multiproprietà che l’acquirente è stato indotto a stipulare per effetto di false dichiarazioni della società venditrice, quando il contratto sia privo degli elementi prescritti dall’art. 3 del D.Lgs. n. 427/1998.
· Autorità garante per la concorrenza e il mercato, provv. n. 10319 del 28 gennaio 2002 ha affermato che, se l’atto di acquisto di un immobile in multiproprietà comprende la possibilità di scambiarlo con altri immobili che però non si trovano in località analoghe a quella prescelta, l’offerta è ingannevole; e di conseguenza ha vietato la diffusione di un messaggio pubblicitario di questo tipo. La delibera pronunciata dal Xxxxxxx ha avuto origine dalla denuncia di un consumatore il quale aveva segnalato la presunta ingannevolezza, sulla base del D.Lgs. n. 74 del 25 gennaio 1992 (sulla pubblicità ingannevole e comparativa), del messaggio pubblicitario presentatogli da un incaricato di una società venditrice di multiproprietà, recatosi presso la sua abitazione. La visita era diretta a promuovere la vendita del diritto a usufruire per una settimana, in regime di multiproprietà, di un immobile che si trovava in un complesso turistico di Santo Domingo insieme alla possibilità, per l’acquirente, di scambiare l’utilizzazione del diritto sull’immobile
acquistato con quelli relativi ad alloggi residenziali ubicati in numerose altre località turistiche estive dotate di analoghe caratteristiche in diverse parti del mondo; il consumatore lamentava però che, in realtà, l’interscambio promesso sarebbe stato possibile anche con località turistiche meno rinomate, che peraltro erano le uniche usufruibili nel caso di indisponibilità di quelle migliori, e che, alla sua richiesta di interscambio, gli era stato risposto che l’unica località disponibile per gli anni 2001 e 2002 si trovava in Norvegia. A seguito della denuncia, il Garante della concorrenza ha aperto il procedimento per la verifica dell’eventuale ingannevolezza del messaggio pubblicitario oggetto della richiesta di intervento. Iniziata così l’istruttoria, il Garante della concorrenza ha chiesto alla società di fornire adeguate informazioni e documentazione. Ma la società venditrice non ha fornito al Garante della concorrenza nessuna risposta, né alcuno dei materiali richiesti, e così il Garante della concorrenza ha giudicato inesatti i vanti relativi alla possibilità di interscambio dell’immobile acquistato con altri alloggi ubicati in località denotate da analoghe caratteristiche e, dal momento che il messaggio pubblicitario denunciato era idoneo a indurre in errore i consumatori in ordine alle caratteristiche del prodotto e del servizio pubblicizzato, lo ha considerato una forma di pubblicità ingannevole e quindi ne ha vietato l’ulteriore diffusione.
· Trib. Chiavari, ordinanza 12 luglio 1989. Il caso giudicato riguardava una vendita, stipulata in Italia fra soggetti di nazionalità italiana, di un immobile in multiproprietà situato in un Paese extracomunitario (Santo Domingo). L’acquirente, indotto a firmare il contratto di acquisto dopo essere stato attirato con il pretesto di una vincita a un concorso e dopo avere versato 3 assegni postdatati alla società venditrice, aveva deciso di recedere dal contratto, ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. n. 427/1998, e aveva intanto chiesto al Tribunale l’autorizzazione al sequestro conservativo degli assegni già versati, mentre iniziava il giudizio per il riconoscimento del diritto di recesso. La società si era opposta al recesso dell’acquirente affermandone l’illegittimità perché il formulario firmato dall’acquirente conteneva una clausola secondo cui al contratto doveva applicarsi la legge di Santo Domingo. Ma il Tribunale ha accolto l’istanza di sequestro conservativo proposta dall’acquirente, rilevando che la unilaterale predisposizione di quella clausola era strumentale a eludere le garanzie previste dal D.Lgs. n. 427/1998. È stato osservato, infatti, che una simile clausola che esclude l’applicabilità del D.Lgs. n. 427/1998 o è nulla, perché le parti dovevano avere pattuito di disciplinare il contratto in base a legge diversa da quella italiana, oppure comporta una eccezione convenzionale alla facoltà di opporre eccezioni che nascono dalla disciplina del D.Lgs. n. 427/1998, che è a sua volta nulla ai sensi dell’art. 1341 c.c., quando non viene sottoscritta espressamente dall’aderente. E così il Tribunale ha concluso affermando l’applicabilità del D.Lgs. n. 427/1998 al caso in esame e, di conseguenza, la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso da parte dell’acquirente. La decisione ha poi trovato conferma anche nel successivo giudizio di merito.
· Trib. Chiavari, sentenza n. 389 dell’8 agosto 2000 ribadisce che le garanzie previste a favore dell’acquirente di multiproprietà dal D.Lgs. n. 427/1998 devono essere applicate anche al contratto con cui viene venduto un immobile che si trova al di fuori della Unione europea, quando le parti nell’atto di vendita non hanno previsto di disciplinare il contratto secondo una legge diversa da quella italiana. Così dopo avere autorizzato, in sede cautelare, il sequestro conservativo dei tre assegni emessi a favore della società venditrice, il Tribunale successivamente ha anche dichiarato legittimo il suo recesso dal contratto con la sentenza di agosto, rilevando che la predisposizione unilaterale, nel formulario usato dalla società venditrice, della clausola secondo cui il contratto viene regolato dalla legge dello Stato in cui si trova l’immobile deve essere considerata come finalizzata soltanto alla elusione delle garanzie previste dalla normativa comunitaria che è stata recepita anche in Italia per tutelare il compratore, considerato il contraente più debole del rapporto. Ciò veniva giudicato dimostrato dal fatto che la parte che aveva predisposto e fatto sottoscrivere questi formulari aveva chiesto l’applicazione di una legge straniera anche se le parti del contratto erano entrambe di nazionalità italiana e la stipulazione del contratto era avvenuta in Italia; inoltre nel formulario si escludeva l’applicazione della legge italiana unicamente perché l’immobile venduto in multiproprietà era al di fuori dell’Unione europea. Il Tribunale di Chiavari, a quest’ultimo proposito, ha giudicato una simile clausola nulla perché, per renderla operativa (e, quindi, per escludere validamente l’applicabilità del D.Lgs. n. 427/1998), le parti dovrebbero anche prevedere che il contratto venga disciplinato da una legge diversa da quella italiana; e anche perché una previsione di questo tipo comporterebbe una limitazione convenzionale alla facoltà di opporre le eccezioni previste dal D.Lgs. n. 427/1998 che richiede un’apposita sottoscrizione dell’acquirente ai sensi dell’art. 1341, co. 2, c.c. (sulle clausole vessatorie), escludendone la validità se la clausola non viene sottoscritta specificamente. In conclusione la società venditrice è stata condannata alla restituzione dell’acconto e dei tre assegni che erano stati versati in pagamento; inoltre, la società, avendo violato anche le norme inderogabili che regolano il contenuto del contratto (come l’art. 6, D.Lgs. n. 427/1998, che vieta al venditore di ricevere acconti fino al momento in cui scade il termine per esercitare il recesso), è stata condannata a pagare all’acquirente anche gli altri danni conseguenti alla vendita e quindi a rimborsargli le spese sostenute in un altro giudizio promosso contro la Camera di Commercio di Genova per evitare l’inserimento del suo nome nell’elenco dei protesti cambiari in relazione ai tre assegni rilasciati alla società venditrice.
La proprietà industriale e intellettuale
E’ l’ Insieme di diritti legali volti ad assicurare la tutela delle creazioni della mente umana in campo scientifico, industriale e artistico. Possono essere protetti da p. i. invenzioni, lavori letterari e artistici, simboli, nomi, immagini e disegni. Il concetto
stesso di p. i. è a sua volta suddivisibile in almeno due distinte categorie: la proprietà industriale e il copyright (➔).
Proprietà industriale: diritti e tutela. Nella proprietà industriale rientrano i brevetti, i marchi e i modelli di utilità, mentre nella categoria del copyright rientrano i lavori artistici, letterari e di disegno architettonico. I diritti di p. i. si esprimono, quindi, in diverse forme, a seconda del tipo di prodotto cui sono associati. I diritti di proprietà industriale sono a loro volta suddivisi in due principali categorie. La prima fa riferimento ai marchi e ai segni distintivi. La protezione di tali elementi mira a stimolare e ad assicurare una competizione equa, oltre a proteggere i consumatori, permettendo loro di effettuare scelte informate tra vari beni e servizi. Questa protezione ha durata indefinita, in funzione del carattere distintivo che tale segno mantiene nel tempo. Si tratta, in particolare, di marchi registrati, quando la protezione di un segno distintivo di un prodotto o di un’impresa (per es. un logo) gode di una protezione legale rafforzata a seguito della registrazione del medesimo presso l’Ufficio italiano dei brevetti. In questo caso specifico, la copertura dura 10 anni ed è generalmente estendibile per periodi di uguale durata. La seconda categoria, invece, riguarda i diritti di proprietà volti a stimolare l’innovazione. Tra
essi, il principale meccanismo di protezione è il brevetto (➔), ma esistono anche i modelli di utilità. L’obiettivo sociale alla base di tali strumenti è la protezione dei risultati degli investimenti nello sviluppo dell’invenzione, al fine di incentivarli. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono, per loro natura, affetti da incertezza e, spesso, il prodotto o l’innovazione tecnica risultanti sono facilmente appropriabili (copiabili) da terzi a un basso costo. In tali casi, strumenti di protezione consentono all’investitore di proteggere le innovazioni effettuate, riducendo il livello di incertezza insito nelle scelte di investimento in ricerca e sviluppo. Gli strumenti di questo secondo insieme di diritti industriali hanno durata finita: il brevetto solitamente ha una durata di 20 anni.
Copyright: diritti e tutela. Il copyright invece riguarda il diritto in capo ad autori per lavori artistici e letterari, quali libri e altri scritti, composizioni musicali, dipinti, sculture, film e programmi per computer. Questi diritti hanno una durata di 70 anni dopo la morte dell’autore e si estendono anche ad altri analoghi prodotti, quali fonogrammi, suoni e broadcasting. La legge sul diritto d’autore (l. 633/1941), alla sua origine dedicata solo alla tutela dei prodotti relativi alla scrittura, è stata aggiornata nel 2000 (l. 248/2000) con estensione in modo esplicito della protezione a molte nuove tipologie di creazioni, per es. ai programmi informatici, ai materiali audiovisivi e opere filmiche; per questi ultimi l’estensione è stata ulteriormente ribadita nella legge del 2001 sull’editoria (l. 62/2001).
La proprietà intellettuale nell’ambito economico. I diritti di p. i. vengono assicurati dai Paesi per due principali motivi: da un lato, offrendo una protezione legale del prodotto, forniscono l’incentivo al creatore di investire nella creazione e allo stesso tempo regolano l’accesso da parte di terzi a tale prodotto; dall’altro lato,
mirano a stimolare la creatività rendendo disponibile al pubblico l’oggetto della creazione, favorendo così la disseminazione della conoscenza generata e quindi promuovendo sviluppo economico e sociale. Da un punto di vista economico, il diritto di p. i. mira a proteggere i produttori di beni e servizi intellettuali, assicurando loro un monopolio temporaneo al controllo dell’utilizzo di tali prodotti. Questi diritti non si applicano all’oggetto fisico in cui la creazione è contenuta, bensì alla creazione intellettuale in quanto tale, l’idea, il bene immateriale. Per quanto riguarda il copyright, a partire dagli anni 2000 si è assistito alla generazione di strumenti alternativi per la tutela dei diritti di creazione di prodotti dell’ingegno. In particolare il copyleft, generato dai creatori e utilizzatori di prodotti informatici. Esso consiste nel rendere completamente disponibile al pubblico la creazione generata, con il vincolo che chi utilizza tale prodotto è obbligato a mantenerlo
disponibile a tutti anche nelle sue parti modificate (➔ open source).
Il Marchio
Il Marchio è qualsiasi segno che identifica un bene o un servizio. Si può registrare come marchio un nome, una o più parole oppure un nome con una grafica particolare o addirittura solo una grafica, un suono o una particolare combinazione di colori, i numeri, le lettere, addirittura un oggetto.
Sono marchi registrati la bottiglia della Coca-Cola o la confezione di cioccolato Toblerone. Marchi molto particolari: sono marchi registrati il rombo dell’Xxxxxx Xxxxxxxx ed è stato registrato come marchio il profumo dell’erba appena tagliata per identificare palline da tennis.
Prerequisiti per la registrazione
NUOVO – Perché sia registrabile un marchio deve essere nuovo ma si può registrare in Italia anche un marchio che sia registrato solo all’estero (cosa che invece non è possibile fare per i brevetti) purché non abbia una notorietà diffusa e la registrazione non avvenga in malafede.
DISTINTIVO – Perché un marchio possa essere registrato deve avere un carattere distintivo. Valutare la ricorrenza di questi presupposti è questione assai delicata soprattutto quando si vuole registrare un marchio non tradizionale quale un marchio di forma, di suono o di colore. Registrare un marchio consente di avere l’esclusiva dell’uso nello Stato in cui lo si è registrato e per i prodotti e servizi che si sono indicati nella domanda di registrazione (le c.d. Classi).
Chi ha un marchio registrato può quindi impedire ad altri di utilizzare un segno uguale o simile al proprio nell’attività commerciale, può utilizzarlo in esclusiva oppure può concederlo in licenza ad altri dietro il pagamento di un compenso (royalty).
Prima di registrare un marchio devono essere effettuate opportune analisi.
In primo luogo è necessario scegliere il tipo di marchio da depositare che può essere costituito, quando pensiamo ai marchi tradizionali, da:
• parole
• parole e grafica
• solo grafica
Nel primo caso il titolare del segno ha il diritto esclusivo ad utilizzare la parola o le parole scelte con qualsiasi grafica mentre nel secondo caso la tutela offerta dal marchio verte sull’abbinamento parole/grafica. Nel terzo caso, infine, la tutela riguarda solamente il logo depositato. La scelta sul tipo di marchio richiede un lavoro complesso che deve essere svolto con la massima attenzione per evitare di cadere nella contraffazione di marchi altrui.
Nel momento in cui si inventa o si cerca una parola nuova per identificare un servizio o un prodotto occorre avere ben chiaro che più essa è nuova e fantasiosa più il marchio sarà forte e potrà essere protetto dalle imitazioni. Ad esempio utilizzare marchi composti con il verbo “pulire” per detergenti per la casa potrà fare capire perfettamente al cliente di che cosa si tratta ma difficilmente si potrà impedire ai concorrenti di utilizzare lo stesso verbo che è descrittivo del prodotto.
Se invece per quel detergente si utilizza una parola che non ha alcuna attinenza con esso, ad esempio “Flash” o “Cocomer”, quel marchio farà capire poco del prodotto ma sarà un marchio forte difficilmente imitabile.
Una parola innovativa che indica in modo forte e deciso un prodotto o un servizio merita di essere registrata di per sé, indipendentemente dalla grafica adottata, in modo tale che il depositante possa utilizzarla in tutte le variazioni stilistiche che desidera e lo stesso dicasi per un simbolo, un disegno, una grafica di particolare impatto.
Parole deboli, come rafforzarle
Se invece il nome è debole conviene proteggerlo insieme alla grafica in modo da conferirgli un carattere distintivo più marcato. La differenza tra questi tipi di marchi si nota nel momento in cui si rende necessario proteggere il marchio in sede di contraffazione: mentre per i marchi forti si ha contraffazione anche quando il plagio è ben mascherato, per i marchi deboli sono di solito sufficienti poche modifiche per evitare la confondibilità. Per ottenere la protezione migliore è spesso opportuno registrare il marchio sia come parola che come parola e grafica in modo da avere una doppia protezione e, nel caso in cui esso sia debole, ovvero piuttosto descrittivo del prodotto, registrarne anche alcune varianti per evitare raggiri.
Utilizzi non legittimi dei marchi
La contraffazione del marchio si sostanzia nell’uso non legittimo di un marchio,
identico o simile ad altro marchio oggetto di registrazione, per distinguere prodotti
identici o affini o, qualora il marchio registrato abbia acquisito lo status di marchio che gode di rinomanza, anche prodotti non affini. La registrazione del marchio si effettua depositando formale domanda di registrazione del marchio.
In Italia il deposito della domanda di registrazione del marchio italiano si effettua presso l’U.I.B.M. – Ufficio Italiano Brevetti e Marchi oppure presso ogni Camera di Commercio provinciale oppure mediante in modalità telematica (deposito online). L’esame della domanda di registrazione del marchio, come di ogni altro titolo di proprietà industriale per cui si chieda la registrazione o il brevetto, è di competenza esclusiva dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.
La registrazione del marchio costituisce, secondo la normativa italiana compilata nel Codice di Proprietà Industriale, il titolo di proprietà industriale Marchio Registrato. Al titolare del diritto di proprietà industriale – Marchio Registrato – il Codice di Proprietà Industriale conferisce diritti esclusivi esercitabili contro chiunque e oggetto di ampia tutela. In particolare, il titolare del marchio registrato ha facoltà di fare uso esclusivo del marchio per tutto il periodo di validità della registrazione, rinnovabile illimitatamente. A tale facoltà esclusiva corrisponde il diritto del titolare di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nell’attività economica:
a) un segno identico al marchio per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;
b) un segno identico o simile al marchio registrato, per prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell’identità o somiglianza fra i segni e dell’identità o affinità fra i prodotti o servizi, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio di associazione fra i due segni;
c) un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda nello stato di rinomanza e se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi.
In particolare, il titolare del marchio può vietare ai terzi di apporre il segno sui prodotti o sulle loro confezioni; di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire i servizi contraddistinti dal segno; di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno stesso; di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità. Presupposti della contraffazione del marchio, ne deriva, sono l’uso nell’attività economica di un marchio identico o simile ad un marchio registrato che possa creare confusione con i prodotti e servizi contrassegnati dal marchio registrato o comunque trarre vantaggio dalla rinomanza o recare pregiudizio alla rinomanza del marchio registrato altrui, senza il consenso del titolare del marchio registrato.
Le nozioni di uso e di attività economica sono da interpretarsi con significato lato. In particolare alla nozione di uso corrisponde sia l’uso attuale e concreto sia l’uso potenziale consistente negli atti idonei e diretti in modo non equivoco a preparare il futuro concreto utilizzo del marchio (ad. es. riproduzione del marchio su etichette apposte a campioni dei prodotti, riproduzione del marchio sulla carta per la corrispondenza commerciale commerciale, ecc.).
L’attività economica è da intendersi come qualsiasi attività non diretta alla esclusiva soddisfazione personale dell’agente che abbia una valenza patrimoniale sia dal punto di vista dell’arricchimento patrimoniale sia dal punto di vista della non diminuzione patrimoniale.
Altro presupposto della contraffazione del marchio è l’assenza del consenso del titolare del diritto di marchio registrato all’utilizzo da parte del terzo agente. Il consenso, normalmente e qualora non sia mera tolleranza, è formalizzato in un contratto sotto forma di accordo per la licenza del marchio, con il quale il titolare del marchio concede al terzo agente, in via esclusiva o concorrente con sé o altri, la totalità o parte dei diritti e delle facoltà di godimento e di utilizzo del marchio. Il contratto di licenza, per essere opponibile ai terzi, deve essere trascritto presso il registro dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.
Elemento essenziale per la realizzazione della contraffazione del marchio è la potenzialità e idoneità confusoria, ingannevole o pregiudizievole dell’utilizzo del marchio identico o simile al marchio registrato. Infatti, soltanto nel caso di identità tra i marchi (marchio utilizzato in via di fatto e marchio registrato) e di identità dei prodotti/servizi da essi contraddistinti la contraffazione è presunta per legge in via assoluta. Negli altri casi (somiglianza dei marchi per prodotti identici, identità dei marchi per prodotti affini, somiglianza dei marchi per prodotti affini, identità/somiglianza del marchio utilizzato in via di fatto per contraddistinguere prodotti non affini al marchio registrato che goda di rinomanza, ecc) la contraffazione va valutata in concreto soccorrendo a tal fine criteri e indici enucleati dall’esperienza (ad es. la diffusione del marchio registrato sia dal punto di vista territoriale sia dal punto di vista del mercato di riferimento, ecc.) .
La contraffazione del marchio è oggetto di specifica tutela sia in sede civile che penale. Tuttavia le due normative, civile e penale, prevedono requisiti e rispondono ad esigenze diverse pur se collegate dalla necessaria realizzazione dell’utilizzo di un marchio potenzialmente confusorio e ingannevole rispetto all’altrui marchio registrato.
La tutela penalistica del Marchio
L’oggetto della tutela civilistica della contraffazione del marchio è essenzialmente la
libera iniziativa economica in un quadro di concorrenza leale. Il marchio, cioè, quale
segno distintivo dell’attività economica è protetto affinché possa svolgere la sua funzione individualizzante, distintiva appunto della provenienza del prodotto o del servizio e favorente la libera determinazione dell’acquirente, nonché, a seguito dell’emersione recente di ulteriori profili di tutela, la sua funzione di indicatore di qualità del prodotto o del servizio.
L’oggetto della tutela penalistica (artt 473 e. 474 c.p. è l’attentato alla pubblica fede costituito dalla volontaria riproduzione o utilizzo o commercio del marchio registrato altrui nell’ambito dell’attività economica dell’agente, ciò che costituisce pericolo per la fede pubblica con conseguente danno alla leale concorrenza e all’economia nazionale.
Sussiste un labile confine tra la relativa tutela civilistica concernente il c.d. illecito concorrenziale confusorio e quella penalistica riguardante il delitto di contraffazione, alterazione od utilizzo, contra legem, di questi ultimi. In tale contesto, in particolare, una delle questioni di maggiore rilevanza ed attualità attiene all’analisi della capacità o meno della confusione ex art. 2598 c.c., n. 1, di configurare il reato di cui all’ art. 473 c.p. . Legame, quest’ultimo, che è stato di recente oggetto di un interessante dibattito giurisprudenziale e la cui disamina ci porta, in primo luogo, ad inquadrare gli elementi costitutivi del richiamato illecito confusorio.
A tal proposito, occorre osservare che ai fini della configurazione di tale fattispecie il legislatore richiede, anzitutto, un rapporto di concorrenza economica tra l’imprenditore che compie gli atti confusori ex art. 2598 c.c., n. 1, ed il relativo concorrente a danno del quale questi ultimi sono posti in essere. Xxxxxx, né discende che destinatari della norma risultano essere solo imprenditori, in rapporto di concorrenza fra loro (Cass. sent. n. 560/2005, in Giur. it., 2005, 1177). Va puntualizzato, altresì, che, ai fini della configurazione dell’ipotesi di cui alla predetta norma, risulta sufficiente la mera certezza della confondibilità tra i marchi, senza, però, che la stessa e, quindi, il connesso danno potenziale abbiano, necessariamente, luogo.
Altrettanto essenziale appare l’individuazione degli elementi sui quali il giudizio di confondibilità si basa. In merito, gli ermellini mediante la nota sentenza 13 febbraio 2009, n. 3639,della Sezione I civile, (Kelemata S.p.A. contro Xxxxxxxxxx S.r.l.), hanno ritenuto che, “in attuazione della Direttiva CEE n. 89/104, la tutela del marchio comprende non soltanto il rischio di confusione, determinato dalla identità o dalla somiglianza dei segni utilizzati per contrassegnare prodotti identici o affini, ma anche quello relativo alla semplice associazione fra i due segni, tale da poter indurre in errore il pubblico circa la sussistenza di un particolare legame commerciale o di gruppo tra l'impresa terza ed il titolare del marchio”
Ancora, sempre in occasione della pronuncia in parola, è stato affermato che il rischio di confondere i consumatori nel riconoscimento del marchio ricercato deve
essere valutato “globalmente, prendendo in considerazione tutti i fattori pertinenti del caso di specie, con una certa interdipendenza fra i fattori che entrano in considerazione e in particolare la somiglianza dei marchi e quella dei prodotti”.
Per quanto concerne, invece, nello specifico, gli atti di sleale concorrenza capaci di generare confusione tra segni distintivi della predetta tipologia sono tali: 1) l’ utilizzo di marchi idonei a confondere il consumatore nell’individuazione di quelli effettivamente ricercati e legittimamente usati da altri imprenditori; 2) l’imitazione fedele e pedissequa dei prodotti di un concorrente; 3) il compimento, con qualsiasi altro mezzo, di condotte tali da generare confusione con i beni, servizi ed attività di un altra impresa.
Dunque, risulta evidente il nesso causale che sussiste tra le condotte contra legem in parola e la relativa potenzialità di confondere il consumatore nell’individuazione del marchio effettivamente ricercato. Né discende, pertanto, che il legame eziologico in questione prevede quale effetto degli atti di sleale concorrenza, non già l’avvenuta confusione tra marchi, ma la effettiva capacità di tali illecite condotte di produrre quest’ultimo evento e, con ciò, il connesso pregiudizio.
Infine, per quanto concerne il bene giuridico tutelato ai sensi dell’art. 2598 x.x., x. 0, xxxx x xxxxxxxxxxxxx,xxx unverso,dall’interesse degli imprenditori a non essere pregiudicati nelle possibilità di guadagno per effetto dei succitati atti sleali; per altro verso, dall’interesse, mediato e riflesso, dei consumatori a non essere tratti in inganno nelle loro scelte, in un contesto di lealtà, sana competizione e trasparenza del mercato5.
Esaminata la fattispecie dell’illecito concorrenziale confusorio, con riguardo alla specifica ipotesi concernente i marchi, volgiamo la nostra attenzione alla tutela che il legislatore penale dedica a siffatta categoria.
Come anticipato in premessa, la norma a cui dobbiamo fare riferimento è l'art. 473
c.p. rubricata “Contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni”, che si pone, nell'ottica del legislatore penale, a tutela di strumenti e segni di riconoscimento, nell'alveo dei delitti contro la fede pubblica (libro secondo, titolo VII, capo II).
In ordine al bene giuridico protetto dalla norma, esso va identificato nella fiducia che il pubblico indeterminato dei consumatori ripone nella generalità dei segni distintivi delle opere dell'ingegno e dei prodotti industriali, potendosi affermare pertanto che con essa viene tutelata la fede pubblica in senso oggettivo e, quindi, l'interesse collettivo dei consumatori alla distinzione della fonte di provenienza dei prodotti posti sul mercato. Si tratta di un reato di pericolo, contraddistinto dalla specifica attitudine offensiva della condotta, nel senso di un effettivo rischio di confusione per la generalità dei consumatori. La condotta descritta nella norma si può concretizzare mediante l'attività di contraffazione (da intendersi come riproduzione integrale del marchio), di alterazione (modificazione del segno, comprensiva anche della
imitazione, latu sensu riproduzione parziale atta a confondere), di uso di tali marchi o segni contraffatti o alterati (senza essere concorsi alla medesima contraffazione o alterazione). La medesima condotta caratterizza sia il primo che il secondo comma dell'art. 473 c.p., differenziandosi esclusivamente per l'oggetto materiale delle condotte: marchi, o segni distintivi di prodotti industriali nel primo comma; brevetti, disegni, o modelli industriali nel secondo.
Il terzo e ultimo comma della norma in oggetto “inserisce” un presupposto del reato, statuendo che i delitti di cui ai due commi precedenti sono punibili a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale e industriale. Poiché possa configurarsi il reato ex art. 473 c.p. sarà necessario, quindi, che il marchio o segno distintivo, oggetto della contraffazione o alterazione, sia stato depositato, registrato o brevettato nelle forme di legge all'esito della prevista procedura9.
Per ciò che concerne l'elemento soggettivo non possono sorgere dubbi; si tratta di una condotta dolosa (dolo generico), contraddistinta necessariamente dalla coscienza e volontàdella immutatio veri.
Non è invece richiesta la conoscenza positiva della avvenuta registrazione, essendo sufficiente l'accettazione del rischio che questa sia effettivamente esistente.
Da ultimo, risulta interessante e degna di attenzione una recentissima decisione della Suprema Corte di Cassazione in ordine alla configurazione del reato di contraffazione o alterazione in oggetto, la quale delinea chiaramente le caratteristiche e l'effettività che deve contraddistinguere la condotta del reo. Con la sentenza n. 28922 del 3 luglio 2014 gli ermellini della seconda sezione penale hanno chiarito, infatti, che l'art. 473 c.p. richiede nello specifico “che gli altrui marchi o segni distintivi siano fatti oggetto di materiale contraffazione o alterazione, per cui, mancando queste, la sola possibilità di confusione non può, di per se, valere a costituire il reato…”Si esclude pertanto la “mera possibilitàdi confusione” ai fini della configurazione del reato, essendo necessario un concreto, effettivo pericolo di confusione, ingenerato dalla materiale condotta di contraffazione o alterazione.
In tal modo si è venuta a tracciare una netta linea di demarcazione tra la condotta tipica di cui all'art. 473 c.p. e la concorrenza sleale di cui all'art. 2598, n. 1, c.p., non esistendo tra le due condotte alcuna coincidenza.
LA TUTELA CIVILISTICA DEL MARCHIO
Un caso specifico
Introduzione
Nella società attuale l’acquisto di beni è in gran parte determinato dall’utilità “sociale” piuttosto che dall’utilità economica, in quanto le ragioni che in prevalenza influiscono sul rituale del consumo sono di natura sociologica e psicologica. L’acquisto di un prodotto non avviene solamente a seconda del bisogno che soddisfa, bensì dipende anche dai significati, dai valori e dai messaggi che trasmette e che l’acquirente riconosce facendoli propri1. Il momento d’acquisto diventa un’esperienza sensoriale, in cui sono coinvolte emozioni e sensazioni del soggetto stimolate dalla visione del prodotto stesso.
In questo contesto il marchio assume un ruolo determinante sia per influenza che esercita sulla scelta del consumatore, sia per il raggiungimento del successo aziendale. Esso è il segno distintivo che racchiude i valori e i messaggi che un’impresa vuole comunicare determinando, in tal modo, la propria identità. Il marchio ha l’importante compito di permettere al pubblico di riconoscere l’impresa produttrice di un determinato bene o fornitrice di un certo servizio e di veicolare contemporaneamente importanti informazioni. Per questo motivo, la gran parte delle volte, si decide di proteggere un segno mediante registrazione in modo tale da circondarlo delle tutele e cautele previste dalla disciplina dei marchi.
Quanto appena affermato assume una connotazione di rilievo nel caso dei prodotti di lusso, contraddistinti appunto da marchi celebri. In questo settore è la componente emozionale che maggiormente influenza la scelta d’acquisto. Il valore del prodotto di lusso e l’attrazione che esso suscita nei confronti dei consumatori dipende dall’immagine, dai valori che il marchio comunica e dalle modalità in cui essi vengono divulgati mediante accurate strategie pubblicitarie. In un secondo momento si presta attenzione al prezzo che, contrariamente a quanto accade per i prodotti più commerciali, più è alto e più accresce il valore e il desiderio di possesso del prodotto stesso
L’oggetto centrale del presente elaborato è una sentenza che vede come protagoniste la casa di moda francese, titolare del marchio di lusso Hermès (parteattrice) ed la società xxxxxxxx Xxxxxxxx s.r.l. (parte convenuta). Parte attrice, appellandosi al Tribunale di Torino, accusa la convenuta di contraffazione di tre celebri modelli di borse, Xxxxx, Xxxxxx e Lindy; i primi due, sono registrati in qualità di marchi nazionali e comunitari, mentre il terzo quale modello comunitario. La contraffazione di marchi celebri nel settore del lusso è, purtroppo, un fenomeno assai diffuso e sempre in crescita nel mondo della moda; il presente lavoro ne fornisce una prova, evidenziando quali sono gli strumenti che il titolare di un marchio dispone per la sua tutela.
Nel primo capitolo si esporranno le norme che entrambe le parti hanno usato a fondamento delle proprie ragioni; esse sono sia di tipo nazionale, che comunitario.
Si dedicherà particolare attenzione alla disciplina a tutela del marchio approfondendone le funzioni, i requisiti necessari che un segno deve possedere ai fini
della registrazione, i diritti che si acquisiscono in seguito alla stessa. In aggiunta si descriverà la vicenda della nullità del marchio, elencandone le possibili cause e come essa può essere invocata.
Analogamente si esporrà la disciplina che tutela il modello comunitario registrato; in questo caso si esporranno la definizione di modello, i requisiti che deve avere per godere della registrazione ed i diritti annessi che ne conseguono.
Il capitolo iniziale ha l’obiettivo di introdurre le questioni giuridiche che sono oggetto della sentenza e le normative che la regolano al fine di assicurare la comprensione del caso analizzato.
Il secondo capitolo si concentrerà, invece, sullo svolgimento della sentenza descrivendo i vari momenti in cui essa si articola. Si esporranno le accuse che Hermès avanza nei confronti di parte convenuta e come essa si difende dalle stesse. Successivamente, si descriveranno le argomentazioni del Tribunale sulla base delle prove messe a sua disposizione. Infine, in merito ai tre i modelli di borse oggetto della sentenza si elencheranno i provvedimenti che il Giudice ha ritenuto idoneo adottare.
Argomento del terzo capitolo saranno le precipue decisioni del Tribunale, analizzate però sotto diversi punti di vista. A partire infatti dal reale esito della sentenza e da un bilancio della stessa, si avanzeranno delle ipotesi in merito all’ottenimento di ulteriori risultati in presenza di determinate e diverse condizioni durante lo svolgimento del caso. Tali condizioni sono elencate prima dell’ approfondimento delle tematiche sviluppate, le quali non sono state oggetto di considerazione da parte del Tribunale. Esse, infatti, sono i presupposti di base da tener presente nella lettura e comprensione del terzo capitolo.
La prima fattispecie analizzata sarà quella della concorrenza sleale; essa non ha avuto peso rilevante per il giudizio del Tribunale in quanto le accuse in merito sono state respinte. Si approfondiscono le circostanze in cui essa si verifica, gli atti concreti che ne sono la causa e che, in particolare, possono ritenersi identificativi del comportamento della convenuta, ovvero l’imitazione servile, l’appropriazione di pregi e la concorrenza parassitaria per agganciamento. Ciascuno degli atti appena menzionati verrà contestualizzato nell’ambito del caso in esame.
Si proseguirà con la descrizione della fattispecie della contraffazione mettendo in evidenza i diversi presupposti su cui essa si basa rispetto alla concorrenza sleale.
Proseguendo nell’analisi si introdurrà il fenomeno del secondary meaning applicato ai marchi di forma: è un fattore che poteva portare ad un differente risultato da quello attuale. Per tal motivo si ritiene appropriato fornirne una definizione per poi contestualizzarlo con la sentenza oggetto dell’ elaborato.
Essendo il marchio Hermès un marchio celebre, si è deciso di descrivere la tutela riservata ai marchi che godono di rinomanza, dedicando particolare attenzione alle
caratteristiche della notorietà, alla loro misura e agli strumenti di cui un soggetto può servirsi per dimostrarla in sede giudiziale. Questo è un tema che non è stato preso in considerazione dal Giudice nel provvedimento finale, ma avrebbe comunque potuto essere un elemento determinante per l’esito della sentenza.
Riassumendo, il terzo capitolo propone sostanzialmente una differente ed allargata visione della sentenza, andando oltre a quanto deciso dal Tribunale e proponendo degli spunti di riflessione, cui si aggiungono una serie di considerazioni in merito alla contraffazione nel mondo della moda e circa la lotta della casa di moda francese contro questo fenomeno.
CAPITOLO I
La normativa di riferimento nella sentenza
SOMMARIO: 1.1 La sentenza in breve.- 1.1.2 Introduzione alla normativa di riferimento nazionale e comunitaria.- 1.2 La normativa nazionale: il Decreto Lgs n. 30 del 10 febbraio 2005.- 1.3 Verso una disciplina comunitaria del marchio.- 1.3.1 Il Regolamento 40/94 del Consiglio del 20 dicembre 1993 sul marchio comunitario.-
1.3.2. Il Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea n. 207 del 26 febbraio 2009.- 1.4 Il marchio: definizione e funzioni.- 1.4.1 La funzione distintiva del marchio.- 1.4.2 La funzione di garanzia di omogeneità e costanza qualitativa.- 1.4.3 La funzione di comunicazione: ampliamento della tutela della funzione di attrattiva.-
1.5 I requisiti essenziali per la registrazione del segno come marchio.- 1.6 I marchi di forma.- 1.7 La procedura di registrazione del marchio.- 1.8 La nullità del marchio: impedimenti relativi e assoluti alla registrazione del marchio.- 1.8.1 La giurisdizione dell’azione di nullità.- 1.9 Riflessioni conclusive sul marchio.- 1.10 I disegni e i modelli: Regolamento CE n. 6/2002 del Consiglio del 12 dicembre 2001 su disegni e modelli comunitari.- 1.10.1 Definizione di disegno e modello.- 1.10.2 I requisiti di validità per la registrazione: novità e carattere individuale.- 1.10.3 Registrazione e diritti conferiti.-
1.1 La sentenza in breve
L’oggetto centrale del presente elaborato riguarda un caso sottoposto al Tribunale di Torino, in cui sono coinvolte due società attive nel mondo della moda. La parte attrice detiene il possesso di un marchio di fama internazionale, ovvero Hermès ed ha deciso di convocare in giudizio una società assai meno conosciuta, Xxxxxxxx s.r.l. che si occupa della vendita al dettaglio di articoli di pelletteria, come per esempio borse e portafogli. L’attivazione della parte attrice è dovuta alla produzione e commercializzazione della società torinese di borse considerate delle copie di noti modelli di proprietà della maison francese. Tale comportamento coincide con le azioni di concorrenza sleale e di contraffazione, poiché viola quelli che sono i diritti che la registrazione di un marchio o di un modello conferisce in capo al titolare. La convenuta risponde avanzando precise richieste al Tribunale, focalizzandosi sulla verifica circa la validità di alcuni marchi registrati di proprietà dell’attrice,
sostenendone la nullità. Il Tribunale ha il compito di accogliere le richieste di entrambe le parti e di decidere, con attente valutazioni, quali siano fondate e quali non lo siano.
Nella sentenza analizzata, il richiamo è rivolto sia a normative di tipo nazionale, sia di tipo comunitario. Il presente capitolo ha l‘obiettivo di descriverne ed esporne il contenuto, di inquadrare le tematiche trattate e discusse dal Tribunale, su cui si concentrerà l’analisi nel capitolo successivo.
1.1.2 Introduzione alla normativa di riferimento nazionale e comunitaria
Oggetto del caso di competenza del Tribunale di Torino qui commentato, sono borse appartenenti alla casa di moda francese e alla società torinese. Tra i primi sono compresi i noti modelli Xxxxxx, Xxxxx e Xxxxx e le normative consultate riguarderanno la tutela dei marchi e la tutela dei modelli. Circa la normativa nazionale, si farà riferimento al Decreto Legislativo n. 30 del 2005, ovvero il codice della proprietà industriale; di esso sarà approfondita la disciplina dei marchi, della quale si discuterà in merito all’oggetto della registrazione11 e a due requisiti fondamentali che il marchio deve possedere, novità 12 e capacità distintiva13; vi sarà inoltre riferimento all’art. 125 sul risarcimento del danno, al terzo comma dell’art. 124 in merito alla distruzione di tutti i beni costituenti oggetto di violazione di un diritto di proprietà industriale, all’art. 121 in merito alla ripartizione dell’onere della prova, all’art. 9 circa i marchi di forma e all’art. 25 riguardante i casi di nullità di un marchio. Per quanto concerne la tematica della liquidazione del danno in via equitativa, il Tribunale si appella all’art. 1226 contenuto nel codice civile. Con riferimento alla normativa comunitaria, il Tribunale si basa sul contenuto del Regolamento sui marchi comunitari n. 40 del 1994, sostituito oggi dal n. 207 del 2009. Saranno citati l’art. 4 concernente i segni registrabili come marchio 14comunitario, l’art. 7, impedimenti assoluti alla registrazione e l’art. 51 che descrive le cause di nullità assoluta. La seconda normativa comunitaria di riferimento è costituita dal Regolamento n. 6 del 2002 riguardante la disciplina sui disegni e modelli, secondo la quale il Tribunale decreta il suo giudizio in merito alla borsa Lindy, protetta dalla registrazione in qualità di modello comunitario. Per quanto concerne la normativa sul marchio del caso in esame, sia quella nazionale che quella comunitaria sono piuttosto simili, pertanto si è deciso di delineare dapprima le caratteristiche delle normative che lo disciplinano per poi successivamente focalizzarsi nella descrizione del marchio e delle tematiche ad esso connesse, attinenti al caso qui in esame.
1.2 La normativa nazionale: il Decreto Lgs n. 30 del 10 febbraio 2005
11 Art.7, c.p.i..
12 Art. 12, c.p.i..
13 Art. 13, c.p.i..
14 6Attualmente aggiornato mediante il D. Lgs. n. 131 del 13 agosto 2010 con entrata in vigore il 2 settembre 2010.
La disciplina nazionale a tutela del marchio, quale il Tribunale di Torino si appella in suddetta sentenza, è contenuta nel Codice della Proprietà Industriale (c.p.i.), emanato dal D. Lgs. n. 30 del 10 febbraio 20056 ed entrato in vigore il 19 marzo 2005. Il codice si compone di 246 articoli e si divide in otto capi; la prima sezione del secondo capo contiene la disciplina dei marchi approfondita in seguito. Oltre alla suddetta, il presente caso si appella anche alle norme vigenti in materia di risarcimento del danno. Come si vedrà in proseguo, la parte attrice chiede al Tribunale la restituzione degli utili che la convenuta ha ottenuto dalla commercializzazione delle borse ritenute oggetto di contraffazione, appellandosi pertanto all’art. 125, terzo comma del c.p.i.. Stando al contenuto, il titolare di un diritto leso ha la facoltà di chiedere, in alternativa al risarcimento del danno, la restituzione degli utili ottenuti dall’autore della violazione. Il primo comma dell’art. 125 prevede che il risarcimento del danno sia disciplinato dagli articoli 1226 e 1227 del codice civile, ossia si componga di entrambe le voci rappresentate da lucro cessante e danno emergente15.
Hermès, in aggiunta a quanto appena descritto, chiede di essere risarcita dei danni subiti la cui somma, come previsto dall’art. 1226, dovrà essere decisa dal giudice mediante valutazione equitativa qualora non sia possibile stimare il danno nel suo preciso ammontare.
Per contro, la convenuta, richiama in suo favore quanto stabilito dall’art. 124 del
c.p.i. e precisamente il contenuto del comma terzo, secondo il quale, in caso di violazione di un diritto di proprietà industriale, vi può essere la possibilità, previo loro temporaneo ritiro dal mercato, di modificare i prodotti costituenti violazione e successivamente poterli reinserire dotati di un nuovo aspetto. Così facendo, la convenuta riesce a recuperare il pellame delle borse costituenti contraffazione e realizzarne di nuove nel rispetto dei precedenti diritti violati.
1.3 Verso una disciplina comunitaria del marchio
In ambito comunitario, la disciplina a tutela del marchio viene redatta molti anni più tardi rispetto a quella nazionale. Con la nascita della Comunità Economica Europea si era da subito avvertita la necessità di un coordinamento tra le attività dei singoli Stati Membri e quelle della Comunità. In materia di marchi d’impresa si era creato un contrasto tra l’uso esclusivo del marchio, i cui effetti sono prodotti in ambito nazionale (principio di territorialità), e il contemporaneo mantenimento della libera concorrenza e circolazione delle merci nel sistema comunitario. Tra gli obiettivi principali dell’UE rientrano, infatti, la promozione, in ambito economico, di uno sviluppo armonioso tra i Paesi Membri mediante il superamento degli ostacoli che le
15 7 X. XXXXXXXX, Responsabilità civile. Il risarcimento del danno, consultato in xxx.xxxxxxxx.xx. Con l’espressione danno emergente si intende la perdita che il titolare del diritto leso ha subito a causa della mancata prestazione da parte del debitore. La nozione di lucro cessante si riferisce, invece, ad una situazione futura in cui il creditore non conseguirà il suo guadagno a causa della mancata prestazione del debitore. Trattandosi di evento futuro e solo prevedibile, per ottenere il risarcimento sarà necessaria una ragionevole certezza circa il suo accadimento.
differenti normative nazionali avrebbero potuto creare16. La presenza di molteplici legislazioni a tutela del marchio era quindi un ostacolo da superare, al fine di scongiurare la coesistenza di marchi uguali e/o diversi, registrati per gli stessi prodotti in differenti Paesi Membri, nel rispetto della loro normativa nazionale; in tal modo si eviterebbe il rischio di confondere il consumatore circa la provenienza del prodotto e l’esportazione sarebbe meno difficoltosa17.
Dal punto di vista imprenditoriale, la possibilità di ottenere una registrazione comunitaria del marchio è un fattore strettamente rilevante per il mantenimento della libera concorrenza nella Comunità. Il marchio comunitario si configura infatti quale promotore delle attività industriali, permettendo alle imprese di entrare in nuovi mercati mediante l’espansione della loro attività produttiva. A sua volta, il marchio comunitario è importante anche per il consumatore, in quanto funge da garante della trasparenza del mercato migliorandone la comprensione della provenienza del prodotto e agevolando le scelte d’acquisto. Alla luce di tali considerazioni, la Commissione dell’UE iniziò un percorso volto ad ottenere la costituzione di una disciplina a tutela del marchio comunitario. La prima tappa di tale iniziativa fu nel 1959 in cui i sei Stati Membri originari furono invitati alla creazione di gruppi di lavoro con il fine di analizzare la materia circa i marchi, i disegni e modelli, i brevetti per invenzione. Il risultato che si ottenne, con riferimento alla tutela del marchio, fu la pubblicazione di una Convenzione nel 1973, ma tale strumento non era molto adatto per gli obiettivi di armonizzazione che la Commissione voleva raggiungere: la strada prediletta era quella del Regolamento. Quest’ultimo, contrariamente alla Convenzione, ha un carattere più imperativo ed è direttamente applicabile a tutti gli Stati Membri. La Commissione prese quindi in mano la situazione per l’istituzione di un Regolamento e anche di una Direttiva in materia di marchio comunitario; negli anni seguenti pubblicò tutta una serie di documentazioni 18 per giustificare e motivare la sua scelta. Il passo successivo fu finalmente l’adozione dal Consiglio della prima Direttiva 89/104, il 21 dicembre 1988, pubblicata nella GUCE 40/1 dell’11 febbraio 1989. In seguito, il 20 dicembre 1993 venne definitivamente adottato il Regolamento CE n. 40 del 1994, pubblicato nella GUCE, L 11 del 14 gennaio 1994. Tale Regolamento segnò la nascita del marchio comunitario d’impresa e sarà argomento del prossimo paragrafo.
1.3.1 Il Regolamento 40/94 del Consiglio del 20 dicembre 1993 sul marchio comunitario.
Il presente Regolamento ha l’obiettivo di permettere alle imprese, operanti nel
mercato comunitario, di intraprendere uno sviluppo economico basato sull’armonia
16 Tali obiettivi erano già stati enunciati nel trattato costitutivo della Comunità Economica Europea, ovvero il Trattato di Roma, redatto nel 1957.
17 X. XXXXXXX, Il marchio comunitario, Xxxxxxx, Milano, 1996, 5-6.
18 Doc. III-D 1294/79-IT della Commissione CE dell’ottobre 1979, in Riv. dir. ind., 1980, II, 163;
e sull’equilibrio dei rapporti commerciali. Con la direttiva 89/104/CEE, infatti, non si era riusciti a superare l’ostacolo delle diverse normative nazionali in materia di marchi, mentre si sentiva l’esigenza di una normativa che regolasse in modo univoco l’uso del marchio d’impresa a livello europeo 19. Il Regolamento 40/94 assolve a questi obiettivi ed introduce il marchio comunitario. La gestione del marchio comunitario, della sua registrazione e delle problematiche che possono insorgere a riguardo è affidata ad un unico Ufficio, che possiede una propria autonomia giuridica, in ambito amministrativo e finanziario. E’ infatti necessario predisporre un unico organo al quale i Paesi Membri possano rivolgersi in qualunque circostanza, così da evitare che il procedimento di registrazione dei marchi comunitari diventi problematico, come lo sarebbe appunto se vi fossero tanti uffici diversi, uno in ogni paese, a decidere in merito ad una questione di rilevanza comunitaria; tali funzioni e responsabilità sono affidate all’ Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI). Nel 1996, con la nascita di tale Xxxxxxx, inizia l’iter per il deposito di domande di marchi comunitari. Con questo tipo di normativa si vogliono prevenire atti di concorrenza sleale e contraffazione, consentendo alle imprese di far riconoscere e far valere il proprio marchio d’impresa non solo a livello nazionale, ma anche a livello comunitario. La scelta di ampliare la tutela risiede nella volontà di proteggere il proprio brand dai suddetti atti, in tutti i territori appartenenti alla Comunità Europea; significa quindi allargare il diritto di esclusiva sui prodotti identificati dal proprio marchio, in modo tale da impedire a terzi che ne usino uno identico o simile nella loro attività d’impresa anche al di fuori del territorio nazionale, senza essere costretti a richiedere, successivamente, una specifica tutela in ogni Stato Membro. Con l’entrata in vigore del presente Regolamento, non si vuole sostituire la normativa in materia di marchi vigente nei singoli Paesi, bensì le si vuole accostare quella comunitaria generando così la coesistenza dei sistemi giuridici. Sarebbe infatti impensabile la soppressione della normativa nazionale a favore di solo quella comunitaria, prima di tutto poiché vi sarebbe un gran numero di domande di registrazioni a carico degli organi comunitari di competenza. Inoltre, mediante la coabitazione del marchio comunitario e nazionale, nel caso in cui una domanda di registrazione venga rifiutata dall’UAMI, può sempre trovare accoglimento presso la normativa nazionale di uno o molteplici Stati Membri20. Un’impresa che non ha la necessità di ampliare la protezione del proprio marchio deve pur far affidamento ad una normativa, ovvero quella nazionale, senza sentirsi in dovere di applicarvi anche quella comunitaria. La logica sottostante a tale armonizzazione è quella di permettere la permanenza delle discipline nazionali di ogni Stato Membro, cercando però di ridurre ai minimi termini le divergenze che vi possono essere. Inoltre, una precedente registrazione locale non pregiudica in nessun modo quella comunitaria: i due sistemi di tutela dei marchi, nazionale e comunitario, sono indipendenti. Nel titolo I del citato Regolamento sono contenute
19 X.XXXX, Il diritto dei marchi – Marchio nazionale e marchio comunitario, Xxxxxxx, Milano, 2007, 9.
20 Art. 108, comma 1, Reg. 40/1994; X. XXXXXXX, op. cit., 16-17.
disposizioni generali in merito ai caratteri del marchio comunitario ed alla sua efficacia; si menziona, inoltre, l’UAMI e coloro che hanno la capacità di agire e di appellarsi a detta normativa, quali le società e gli enti giuridici ai quali è riconosciuta personalità giuridica. Stando al contenuto del primo articolo, si evincono due caratteri fondamentali propri del marchio comunitario: l’autonomia e l’unitarietà. Il primo tra i due è esplicato dall’art. 1 al primo comma, secondo il quale sono definiti marchi comunitari di prodotti o di servizi “quelli registrati alle condizioni e secondo le modalità previste dal presente regolamento”.
Il marchio comunitario ha carattere autonomo poiché le disposizioni ad esso applicabili sono solo quelle del Regolamento in questione, ad eccezione però di due casi, in cui si dà precedenza alle leggi nazionali vigenti: essi sono esplicati dagli artt. 106 e 107. Nella prima circostanza, stando a quanto previsto dalla legislazione nazionale, si consente a colui che vanta diritti anteriori di opporsi all’uso del marchio comunitario posteriore in caso di violazione degli stessi ai sensi dell’art. 8 del Regolamento comunitario. Nel secondo caso, rimane impregiudicata la possibilità, per conto del titolare avente un diritto anteriore di portata locale, di opporsi all’uso del marchio comunitario posteriore nel territorio in cui vale tale diritto. Questa possibilità non sussiste però se il titolare ha tollerato la presenza del marchio comunitario per cinque anni consecutivi.
Infine, ribadisce il carattere autonomo del marchio comunitario il contenuto dell’art. 14 del Regolamento n. 40 del 1994, secondo il quale, in materia di contraffazione dello stesso, ad esse è affiancata l’applicazione della normativa nazionale. La possibilità di applicare congiuntamente le norme nazionali sottolinea l’autonomia del marchio comunitario, la quale verrebbe meno se alla normativa comunitaria si sostituisse l’applicazione di quella del singolo Stato Membro. Proseguendo, il carattere dell’unitarietà del marchio comunitario è esplicato invece dall’art. 1, secondo comma, secondo il quale egli produce gli stessi effetti in tutti i Paesi Membri, conferendo il diritto dell’esclusiva per la totalità del territorio comunitario. Da tale principio si evince che la normativa descritta in questa sede prescinde dalle singole normative nazionali, e che l’insieme dei Paesi comunitari può essere considerato, a questi fini, un “unico” Stato sovranazionale, il cui territorio coincide con quello degli Stati Membri; così affermandosi che il marchio comunitario opera nel rispetto del principio di territorialità. L’unitarietà consente inoltre di agevolare e semplificare la procedura di registrazione, mediante un’unica registrazione comunitaria. Proseguendo nell’analisi, il titolo II contiene la disciplina a tutela dei marchi in senso stretto, quindi, inter alia, la sua acquisizione, la procedura di registrazione e di quest’ultima gli effetti, dei quali si discuterà nei paragrafi successivi. Il Regolamento, sempre auspicando alla predisposizione di regole uniformi valevoli per ogni Stato Membro, prevede anche regole in materia di giurisdizione: tali norme sono contenute tra l’art. 90 e l’art. 104. In questo ambito la normativa evidenzia l’applicazione della Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1998 nella misura, però, in cui la stessa non contenga regole contrastanti con quelle
del Regolamento e quest’ultimo non preveda già una specifica soluzione. In particolare, con riferimento all’art. 91 del Regolamento 40/94, si descrive l’entità dei Tribunali dei marchi comunitari: previsti ed istituiti al fine di tutelare il marchio comunitario, sono autorità giurisdizionali che coincidono con tribunali nazionali di primo e di secondo grado competenti in materia.
Con riferimento al suddetto Regolamento, il legislatore comunitario ha predisposto delle norme di esecuzione che ne disciplinano la corretta applicazione. Tali norme sono contenute nel Regolamento CE numero 2868/95 del 13 dicembre 1995 e riguardano la procedura da seguire per ottenere un marchio comunitario, il modo in cui l’UAMI deve gestire l’amministrazione dei marchi comunitari, le modalità per affrontare i ricorsi avanzati nei confronti di quanto l’Ufficio decide e quelle per gestire le dichiarazioni di nullità o di decadenza. Il Regolamento si compone di tre articoli solamente e le regole sono contenute tutte nel primo articolo. Il secondo articolo contiene regole transitorie, mentre il terzo articolo riguarda la sua entrata in vigore. Il Regolamento di esecuzione, in uno con il Regolamento sui marchi comunitari, costituisce uno dei due pilastri del sistema del marchio comunitario. Riassumendo quanto appena detto , si può constatare che l’importanza del regolamento n. 40 del 1994 è l’istituzione del marchio comunitario, il quale, a sua volta, gode di diversi vantaggi e benefici. Innanzitutto, il suo conseguimento avviene mediante un’unica procedura, uguale per tutti i Paesi Membri della Comunità, permettendo loro, ma anche agli organi di competenza nella materia, importanti risparmi di tempo e di denaro. Qualora vi fosse un allargamento dell’Unione Europea, la tutela concessa al marchio comunitario si estenderebbe automaticamente anche presso i nuovi Membri. In seguito alla sua registrazione, si può impedire l’uso di marchi simili o identici al proprio negli Stati della Comunità. Inoltre, è concesso in capo al titolare l’uso del marchio comunitario anche solo in una parte dei paesi dell’ UE, senza pregiudicarne la sua validità per il mancato utilizzo negli altri paesi, causandone la decadenza. Per esempio, se il marchio viene usato solamente in Italia, il titolare gode comunque dei diritti ad esso connessi anche nei paesi in cui non vi è l’effettivo utilizzo. Per quanto concerne la realtà aziendale, il marchio comunitario rappresenta una possibilità di estensione della propria attività, mediante l’entrata e l’espansione in nuovi mercati.
13 1.3.2. Il Regolamento del Consiglio dell’Unione Europea n. 207 del 26
febbraio 200
Il Regolamento n. 207 del 2009 è il nuovo Regolamento sui marchi comunitari che sostituisce quello descritto nel paragrafo precedente, ovvero il n. 40 del 1994. Nel caso di specie, la normativa comunitaria dei marchi alla quale si fa riferimento è quella del ‘94, ma si ritiene comunque appropriato fornire talune precisazioni anche con riguardo al Regolamento oggi in vigore. Prima di procedere alla visione delle modifiche, bisogna precisare che gli obiettivi del nuovo Regolamento rimangono invariati rispetto al precedente. Il Regolamento 207/2009 ha infatti la funzione di
garantire uno sviluppo armonioso tra le imprese che operano nel mercato europeo permettendo loro di distinguere i prodotti e servizi mediante la registrazione del marchio comunitario. La disciplina che ne regola la procedura è unica in quanto si vogliono superare le differenze che vi sono nelle normative nazionali dei vari Paesi Membri della Comunità Europea. E’ necessario che si faccia affidamento ad una disciplina che superi le barriere e gli ostacoli posti, quanto alla disciplina dei marchi, dai vari paesi, poiché risulta più semplice non solo comunicare con gli altri Stati Membri, ma anche risolvere l’insorgere di eventuali controversie. E’ importante affermare che il diritto sul marchio comunitario non sostituisce la normativa nazionale: un’impresa di uno Stato membro che ha già registrato un marchio nazionale ha la libera facoltà di scegliere se registrare o meno un marchio comunitario per la sua attività d’impresa.
Quanto sopra detto è comune a quanto osservato con riguardo al Regolamento 40/94.
Ora, invece, si considereranno alcune delle previsioni e gli istituti per i quali sono stati apportati dei cambiamenti, che per la maggior parte coinvolgono la forma, lasciando quasi invariata la sostanza.
La prima questione riguarda la divisione della domanda: l’articolo 44 del Regolamento prevede la possibilità che i prodotti o servizi indicati nella domanda di registrazione del marchio possano essere oggetto di altre domande c.d. divisionali; la domanda originale risulterà quindi divisa in più parti. Questa possibilità non è però consentita in tutte le situazioni: infatti, se è stata avanzata una domanda di opposizione per quella originale, essa non potrà essere divisa.
Nel nuovo Regolamento, alla seconda e terza sessione del sesto titolo, il termine cause è stato sostituito con l’espressione motivi. Si parlerà quindi di motivi di decadenza, motivi di nullità assoluta e relativa e non più di cause.
Proseguendo, il Regolamento 207/2009 prevede l’aggiunta di due articoli in merito alla revisione pregiudiziale13: l’art. 61 e l’art. 62. Tali articoli evidenziano una duplice situazione in caso di ricorso: l’ipotesi ex parte e l’ipotesi inter partes, oggetto di procedure parzialmente diverse.
Con l’art. 80, il nuovo Regolamento introduce una novità di tipo procedurale. Si concede infatti all’Ufficio la possibilità di cancellare provvedimenti e di revocare decisioni qualora essi siano frutto di errori procedurali. Può infatti succedere che, data l’ingente mole di lavoro spettante all’Ufficio, si commettano delle imprecisioni e, fino all’entrata in vigore del Regolamento in questione, non vi era nessuna normativa a porvi rimedio.
Concludendo, le modifiche apportate dal nuovo Regolamento non cambiano in nessun modo la sostanza del precedente; l’aggiunta di alcuni articoli ha comportato
solamente una diversa numerazione degli stessi, ma questo non richiede eccessivi sforzi di adattamento da parte della giurisdizione nella consultazione.
1.4 Il marchio: definizione e funzioni Il marchio si configura quale tema principale della sentenza: si ritiene pertanto importante delinearne i concetti fondamentali in merito alle funzioni che esso svolge. Le argomentazioni di seguito esposte saranno di carattere generale al fine di evidenziare l’importanza che il marchio assume in un’impresa che decide di registrarlo e le motivazioni che spingono a detta registrazione.
1.4.1 La funzione distintiva del marchio Le necessità di identificare e di contraddistinguere rappresentano un bisogno ricorrente in tutti gli ambiti della società; si pensi, ad esempio, al nome anagrafico, quale segno che individua un preciso soggetto oppure ai nomi comuni, che permettono di contraddistinguere precise classi di beni presenti nella società, differenziandoli tra loro. Tale bisogno di identificazione lo si riscontra anche in ambito economico, ovvero nel mercato, in cui è indispensabile poter riconoscere le attività di produzione da quelle di scambio di beni e di servizi e, tra queste, identificare i diversi soggetti che vi operano21. E’ in quest’ultimo contesto che si inserisce il marchio, il quale esercita un ruolo di fondamentale importanza in qualità di segno distintivo; la sua principale funzione consiste infatti nel contraddistinguere i prodotti o i servizi prodotti da una determinata impresa, rispetto a quelli della concorrenza svolgendo quindi la funzione di indicazione d’origine. Attraverso il marchio, in una classe di beni contraddistinta da una denominazione generica del linguaggio comune, l’impresa identifica una sottoclasse degli stessi conferendo loro delle caratteristiche che gli altri beni dello stesso genere non possiedono22. Ne deriva quindi la creazione di infinite sottoclassi di prodotti che, nonostante appartengano alla stessa classe, possiedono delle caratteristiche diverse attribuite a discrezione dell’impresa che li produce23 L’utilizzo del marchio stimola ed accresce la concorrenza tra gli imprenditori nel mercato, portandoli ad offrire prodotti e servizi di una qualità sempre maggiore al fine di garantirsi l’approvazione e l’apprezzamento da parte del consumatore finale. La disciplina dei marchi ed il marchio stesso si inseriscono in una prospettiva economica di libera concorrenza in cui prevarranno le imprese più efficienti a discapito di quelle meno efficienti, sulla base dei giudizi attribuiti al prodotto una volta esperito. Quest’ultima affermazione permette di considerare il marchio in qualità di “ponte” di collegamento tra l’impresa e il consumatore, il quale lo considera un punto di riferimento, come una sorta di guida nei suoi consumi, assolvendo quindi ad una seconda funzione, ovvero la funzione di identità. Il marchio si configura quale elemento essenziale e determinante in campo economico poiché, dal punto di vista del sistema delle imprese, garantisce una
21 X. XXXXXXX, I segni distintivi- Diritto interno e diritto comunitario, X. Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1999, 2.
22 X. XXXXXXX, X.XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXX, Diritto industriale- Proprietà intellettuale e concorrenza, X. Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2005, 54.
23 X. XXXXXXX, X.XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXX, op. cit., 61.
sorta di premiazione a quelle più efficienti, mentre, nella sfera micro del consumatore, agevola il reperimento ed il riconoscimento dei prodotti da esso preferiti tra quelli delle imprese concorrenti.
Alla luce di ciò, l’efficacia di un marchio d’impresa è strettamente correlata alla capacità distintiva che esso possiede; stando infatti al contenuto dell’art. 7 del c.p.i. si possono registrare in qualità di marchi d’impresa “tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purché atti a distinguere i prodotti o i servizi di una impresa da quelli di altre imprese”. Anche in ambito comunitario, considerando il Regolamento n. 40 del 1994, il segno idoneo a costituire un marchio comunitario è definito mediante la stessa espressione creando quindi continuità tra la disciplina nazionale dei marchi e quella comunitaria24. Il contenuto dei suddetti articoli descrive l’entità dell’oggetto di registrazione in qualità di marchio, ovvero le caratteristiche che un segno deve possedere affinché possa essere registrato. Un ruolo di primaria importanza lo assume la rappresentabilità grafica del segno, strettamente necessaria al fine di identificare in modo univoco il marchio che rappresenta. Può essere costituita da qualsiasi elemento idoneo a descrivere le caratteristiche del marchio purché questo avvenga con precisione25; solamente in questo modo l’oggetto di registrazione risulta conforme quale segno distintivo come il marchio, proprio in quanto adempie alla sua primaria funzione, ovvero quella distintiva. Proseguendo nell’analisi dell’articolo menzionato, si evince che i marchi, in base al segno che li costituiscono, inizialmente si possono distinguere in denominativi e figurativi; tra i primi rientrano, per esempio, i nomi di persona, le denominazioni geografiche o gli slogan, mentre tra i secondi i disegni o i modelli.
Talvolta possono essere costituiti dalla combinazione di parole e figure, dando origine ai cosiddetti marchi misti. Per tali tipologie, la disamina della suscettibilità della rappresentazione grafica del segno non presenta particolari difficoltà, al contrario, invece, di quando un marchio è identificato da un colore, da un suono, da una forma o addirittura da un odore. In questi casi, la probabilità di dover affrontare degli ostacoli è comprensibile e più elevata, data la difficoltà di determinare se possono godere o meno della tutela riservata ai marchi: ci si deve chiedere se un particolare tipo di profumo, una precisa tonalità di colore, un determinato tema musicale o una forma possono godere di protezione. Per esempio, Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx, noto stilista francese, ha registrato come marchio una precisa tonalità di rosso con la quale è solito colorare la suola delle scarpe di sua ideazione. In questo caso, il colore è chiaramente un segno distintivo che permette di contraddistinguere
24 Art. 4, Reg. 40/1994.
25 X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXX XXXXXX, X. XXXXX, X. XXXXX, X. TESTA, La proprietà intellettuale, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2011, 39.
nettamente le scarpe di sua produzione da quelle dei concorrenti, ragion per cui ne è stata concessa la registrazione come marchio. Un semplice colore può quindi essere dotato di capacità distintiva, ma ai fini della registrazione è necessario che sia oggetto di una rappresentazione grafica chiara, completa, precisa, costante ed oggettiva. Stando a quanto affermato, non è quindi possibile soddisfare il requisito della rappresentazione grafica mediante la sola riproduzione del colore su carta, ma è necessario fornire un codice di identificazione riconosciuto internazionalmente26.
Per quanto riguarda, invece, i marchi olfattivi, essi sono costituiti da segni che individuano specifici odori. Diversi casi sono stati oggetto di attente valutazioni in quanto il marchio olfattivo non era tradizionalmente ritenuto registrabile per l’inesistenza di una sua rappresentazione grafica: si poteva presentare la formula chimica in qualità di descrizione del marchio olfattivo, ma essa non identifica l’odore in sé, bensì solamente la sostanza che emana quell’odore. Affinché si possa verificare il deposito, la descrizione deve essere chiara ed oggettiva, ma è necessario valutare caso per caso per decretarne l’idoneità alla registrazione o meno27. Attualmente non esiste una classificazione internazionale di odori riconosciuta, come invece accade per i colori o per i suoni e, pertanto, è estremamente difficoltoso attribuire, in modo chiaro e preciso, una denominazione o un codice a un odore. In ambito comunitario, ci sono stati infatti diversi casi in cui la domanda depositata per un marchio olfattivo è stata accolta, mentre altri in cui è stata respinta28.
Anche per i marchi di forma sono necessarie attente valutazioni al fine di decretarli registrabili o meno, ma a questo argomento vi sarà dedicato un paragrafo nel corso di questo capitolo. Tutelando la capacità distintiva propria di un marchio, l’ordinamento vuole evitare il rischio di confusione che potrebbe insorgere dall’uso di segni identici o simili per prodotti/servizi identici o affini. Ciò che si vuole scongiurare è che un consumatore consideri due prodotti aventi un marchio simile, provenienti dalla stessa impresa: per questo motivo la legge vieta l’uso di segni che possono indurre confondibilità29.
Riassumendo quanto sopra detto e alla luce del contenuto dell’art. 7 del c.p.i. e dell’art. 4 del Regolamento n. 40/1994, il marchio in qualità di segno distintivo, assolve alla funzione primaria di identificare i prodotti appartenenti ad una determinata impresa e quindi differenziarli.
1.4.2 La funzione di garanzia di omogeneità e costanza qualitativa. Mentre nel precedente paragrafo si è trattato della funzione di indicazione di provenienza e di
26 Corte Giust. CE, 6 maggio 2003, procedimento C-104/01, consultata in xxx.xxxx.xxxxxx.xx..
27 X. XXXXXXX, Xxxxxx xxxxxxxxx, in Riv. dir. Ind., 1996, 262.
28 21 Trib. di primo grado C.e.e., sez. III, 27 ottobre 2005, procedimento T-305/04, consultato in www.eur- xxx.xxxxxx.xx.. In suddetto caso, la società Xxxx XXXX voleva registrare l’odore di fragola matura fornendo come sua rappresentazione grafica il disegno di una fragola matura. Il Tribunale ha respinto tale richiesta in quanto ogni varietà di fragola matura ha un proprio odore, differente dalle altre, quindi, in mancanza di una precisa identificazione dell’odore, tale segno non è idoneo ad essere registrato in qualità di marchio olfattivo.
29 Art. 12, comma 1, lett. b), c.p.i..
origine propria del marchio, con il presente si intende descrivere un’ulteriore funzione in cui la capacità distintiva del marchio si specifica, ovvero quella di garanzia di costanza e di omogeneità qualitativa. Il marchio indica che un determinato prodotto proviene da una precisa impresa, la quale si presuppone basi la propria attività produttiva su standard qualitativi costanti. Colui che acquista il prodotto contraddistinto da un marchio piuttosto che da un altro ritiene che quest’ultimo abbia un valore qualitativo superiore rispetto a quelli della concorrenza; vi individua, in altre parole, delle caratteristiche che soddisfano le sue esigenze e rispondono ai suoi bisogni più di altri prodotti/servizi. Il consumatore finale, una volta provato un determinato prodotto e soddisfatto dall’uso dello stesso, si aspetta di ritrovare lo stesso grado di soddisfazione all’acquisto successivo. Questo realmente accade dal momento in cui l’impresa produce i prodotti mantenendo gli standard qualitativi costanti; tuttavia, giuridicamente, non vi è alcuna norma che impone la realizzazione della produzione con lo stesso livello di qualità, ma l’impresa può accrescerlo e migliorarlo o, al contrario, peggiorarlo. Il marchio si configura in qualità di promessa nei confronti dell’acquirente e tale promessa può essere mantenuta sia tenendo il livello di qualità del prodotto costante, sia incrementandolo30. La soddisfazione del consumatore finale è un obiettivo fondamentale per l’impresa produttrice, in quanto è un fattore determinante nel processo di fidelizzazione dello stesso; il raggiungimento di questo traguardo stimola l’impresa a migliorare sempre di più il prodotto in modo tale da generare attorno al proprio marchio un’idea qualitativa e di soddisfazione superiore a quella concorrenziale, entrando propriamente nell’ottica della libera concorrenza e circolazione dei beni nel mercato. Se il consumatore ha un’esperienza positiva la prima volta che viene a contatto con un nuovo prodotto contraddistinto da un certo marchio, la successiva non dovrà più indagare in merito alla qualità di esso, in quanto si è creato un ricordo positivo e un legame di fiducia con lo stesso, legame che l’impresa cercherà di potenziare al fine di fidelizzare il consumatore (brand loyalty)31. In questi termini, il marchio rappresenta un investimento che potrebbe decretare il successo o il fallimento di un’attività imprenditoriale in quanto il consumatore, nelle scelte d’acquisto, identifica i prodotti attraverso il marchio e ad esso associa determinate opinioni che scaturiscono dall’esperienza, positiva o negativa, che ha avuto dal suo uso. Si comprende quindi come, ragionevolmente, un’impresa impieghi molte risorse nella costruzione dell’immagine del marchio il quale è determinante per la sua reputazione e per la comunicazione con il consumatore finale.
Sostanzialmente, la funzione del marchio di distinguere il prodotto di un imprenditore da quello dei concorrenti (funzione di indicazione di origine/provenienza) e la funzione di garantirne la costanza qualitativa e omogeneità nel tempo sono fortemente correlate e dipendenti: con un forte carattere
30 X. XXXXXX, La funzione propria del marchio, Xxxxxxx, Milano, 2004, 140.
31 X. XXXX, op. cit., 45.
distintivo, il marchio è in grado di assolvere ad entrambe le funzioni che agevolano sia l’attività imprenditoriale, consentendole di essere identificata nel mercato, e sia la scelta d’acquisto del consumatore, il quale usa il marchio come punto di riferimento per la qualità. L’obiettivo è quello di far avere al cliente un’esperienza positiva, di ottenere un consenso da esso dovuto alla soddisfazione delle sue esigenze, così da fargli ripetere l’acquisto. Bisogna inoltre precisare che la disciplina dei marchi tutela l’originalità propria ed insita di un segno a prescindere dalla qualità in se’ del prodotto che esso rappresenta: l’ordinamento sostanzialmente protegge il marchio con la volontà che si comprenda bene la provenienza del prodotto a prescindere però dalla soddisfazione qualitativa del consumatore, anche perché ciò dipende dalle aspettative personali che ognuno ha.
1.4.3 La funzione di comunicazione: ampliamento della tutela della funzione di attrattiva Con il passare dei decenni fino ad oggi, il marchio si è arricchito sempre di più di significati che vanno ben oltre a quello distintivo, di indicazione dell’origine imprenditoriale; in passato non gli si concedeva il giusto spazio ed esso non era dotato di una disciplina autonoma. Il cambiamento è avvenuto passando da una realtà in cui l’industria si focalizzava solamente sulle modalità di produzione ad una, invece, in cui la comunicazione ed il rapporto con il consumatore finale assumono un’importanza di gran rilievo nell’attività imprenditoriale. Si è arrivati dunque ad una concezione del marchio quale “veicolo” di messaggi, informazioni e valori che contribuiscono, se accattivanti e compresi dal consumatore, ad aumentare il potenziale di vendita dell’impresa. Con il progressivo aumentare delle strategie di marketing, si è compreso che il marchio necessitava di una normativa che tutelasse anche il potenziale attrattivo di cui è esso dotato e non solamente la sua funzione di indicatore d’origine, come accadeva invece un tempo32.
Il marchio è il mezzo attraverso il quale l’impresa comunica con la clientela effettiva e potenziale diventando un vero e proprio “portatore di un messaggio” in grado di evocare emozioni e di suggestionare l’acquirente33. Negli ultimi decenni, le imprese hanno investito ingenti risorse nella comunicazione pubblicitaria con protagonista il loro marchio: è questa una strategia volta a migliorare la comprensione dei messaggi e dei valori insiti in esso, riducendo sempre di più la distanza consumatore-impresa. L’impresa, arricchendo e rinnovando costantemente la sua comunicazione, riconosce nel marchio un notevole potenziale di vendita e valore attrattivo attribuendogli così uno specifico valore pubblicitario. L’importanza dei suddetti valori ha portato ad un ampliamento della tutela giuridica del marchio inizialmente riservata alla sola funzione distintiva, ora prevista anche per il valore attrattivo.
Questa nuova e peculiare forma di protezione è stata riservata, con la riforma del 1992 con la Legge Marchi, ai cosiddetti marchi celebri. Essi sono quei marchi che
32 X. XXXXXXX, X.XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXX, op. cit., 54 e ss..
33 X. XXXXX, Il marchio come segno e la capacità distintiva nella prospettiva del diritto comunitario, in Dir. ind., 2008, 426.
esercitano una particolare forza attrattiva nei confronti del consumatore poiché dotati di rinomanza. L’ordinamento giuridico ha deciso quindi di dedicare loro una tutela allargata, la cosiddetta tutela extra-merceologica. Con essa si proibisce a terzi di usare un marchio identico o simile ad uno che gode di rinomanza, anteriormente registrato, non solo in caso di appartenenza del prodotto/servizio alla stessa sfera produttiva, ma anche nel caso in cui gli stessi appartengano a due sfere produttive completamente differenti34. Si assicura una protezione che va oltre al rischio di confusione il quale può generalmente insorgere dall’uso di segni identici o affini per prodotti che appartengono allo stesso settore produttivo. Esemplificando quanto detto, sarebbe vietato registrare un marchio con denominazione “Ferrari” per un tipo di formaggio, poiché Ferrari è un marchio di auto che gode di rinomanza e, pertanto, secondo quanto esposto dalla legislazione nazionale non può essere apposto in nessun’altra tipologia di prodotto. L’obiettivo di detta protezione è quello di scongiurare qualsiasi forma di parassitismo che può crearsi usando un marchio simile ad uno dotato di rinomanza, ovvero evitare che vi sia uno sfruttamento indebito del suo potenziale attrattivo.
Il marchio celebre acquisisce un valore autonomo rispetto al prodotto cui si riferisce ed è il diretto influenzatore delle scelte d’acquisto dei consumatori evocando emozioni, tramandando valori e comunicando messaggi che interagiscono con la sfera personale dell’acquirente, guidandolo durante il processo d’acquisto35. La nozione di notorietà alla quale ci si riferisce è un concetto ampio: non è solamente quella propria dei marchi con alta rinomanza, ma si comprendono generalmente tutti quei marchi sufficientemente noti, verso i quali possono verificarsi situazioni di sfruttamento indebito del loro potenziale attrattivo36. La disciplina del marchio che gode di rinomanza presuppone che sia il marchio del titolare, sia quello recante pregiudizio in possesso di un terzo siano entrambi utilizzati in concreto; solo infatti tramite il suo uso si porta a conoscenza del consumatore finale la sua essenza. La società moderna ha ben compreso il potenziale del marchio ragion per cui, negli anni, è sorta la necessità di prevedere, in tutti gli ordinamenti, una disciplina dei marchi, ossia un insieme di norme che ne garantissero la difesa e la tutela in caso di eventuali azioni scorrette o abusi da parte di terze persone. Investire nella costruzione dell’immagine del marchio e nel suo mantenimento sono azioni fondamentali per un’impresa e, come tali, hanno il diritto di essere preservate e valorizzate da un’adeguata disciplina. Ciò che emerge da queste considerazioni è che il significato del marchio si è, nel tempo, rivalutato: in esso la sua funzione distintiva originaria coesiste oggi con l’insieme dei messaggi, delle informazioni, delle emozioni che egli tramanda. Per valutare la capacità distintiva di un marchio è
34 Art. 12, lett. f), c.p.i.; art. 8, comma 5, Reg. 40/1994;
35 X. XXXXXXX, L’analisi economica del marchio che gode di rinomanza, in Dir. ind., 1996, 292.
36 X. XXXXXXXX, X. XX XXXXXXX, Manuale di diritto industriale, Xxxxxxx, Milano, 2009, 226.; Xxxxx Xxxxx., 00 settembre 1999, C-375/97, in Riv. dir. ind., 2000, 25.
inevitabile considerare l’influenza che esso esercita sul pubblico mediante le modalità con le quali viene pubblicizzato e diffuso, come è inevitabile tener conto della sua capacità di veicolare messaggi. Quello che comunque è importante sottolineare è che la capacità distintiva rimane sempre il metro per misurare le potenzialità di successo e di idoneità alla registrazione del marchio: è mediante l’adempimento alla sua funzione d’origine (di indicazione e di provenienza) che si determina il successo del marchio tra quelli dei concorrenti e tra le scelte dei consumatori; oggi, però, il marchio viene implementato ed arricchito di molteplici messaggi volti a comunicare con il cliente i valori che l’impresa vuole trasmettere e ciò lo si ottiene attraverso numerose strategie di marketing che ne studiano la forma e la comunicazione migliore.
E’ fondamentale, inoltre, che tali azioni per pubblicizzare il marchio trasmettano messaggi e informazioni veritiere e non ingannino il consumatore, altrimenti si comprometterebbe il rapporto di fiducia che si intende creare tra l’impresa e i potenziali consumatori finali. Il marchio è oggi il veicolo di informazioni circa una provenienza ben precisa del prodotto, che non deve essere falsata dalla diffusione di informazioni ingannevoli e che deve permette di costituire un solido legame tra i consumatori e i prodotti/servizi che esso contraddistingue.
Nel rispetto dello statuto di non decettività del marchio, non possono infatti essere registrati i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi37. Alla luce delle considerazioni che precedono, il marchio ha assunto l’importante compito di collettore di clientela, poiché guida il consumatore nelle scelte d’acquisto ed è il responsabile del loro grado di soddisfazione e della ripetizione dell’acquisto stesso38.
Ancor di più, il marchio ha il potere di attrarre il consumatore verso un prodotto poiché dotato di elementi caratteristici suoi propri che si imprimono nella mente del consumatore e che prescindono dalle caratteristiche del prodotto. Con tale affermazione si potrebbe attribuire al marchio quella che viene definita oggi funzione suggestiva, in quanto in grado di attirare il consumatore finale indipendentemente dalle precedenti esperienze d’acquisto e dalle caratteristiche del prodotto, ma solamente grazie alle caratteristiche insite in esso39.
1.5 I requisiti essenziali per la registrazione del segno come marchio La disciplina dei marchi, sia comunitaria che nazionale, prevede una serie di requisiti che il segno deve possedere affinché possa godere di tutela e di protezione; questo al fine di assicurare alle imprese che il loro marchio sia in grado di distinguerne prodotti e servizi sul mercato.
37 Art. 14, comma 1, lett. b), c.p.i..
38 X. XXXXXX, op. cit., 143 e ss..
39 GHIRON, La tutela dei marchi e la sensibilità dei consumatori, in Giur. compl. cass. civ., 1951, II, 984.
Il primo tra i requisiti fondamentali è la capacità distintiva40: il marchio deve essere originale, non deve essere costituito da denominazioni generiche, da indicazioni descrittive, ovvero esclusivamente da segni che indicano la provenienza, la qualità oppure la specie del prodotto a cui sono apposti e infine da segni che sono diventati d’uso comune nel linguaggio corrente e del commercio41. Per esempio, non può essere registrata la parola “scarpa” come marchio per scarpe, oppure la parola “caffè” per prodotti di caffè; sono entrambe denominazioni generiche e descrittive del prodotto che contraddistinguono, prive di originalità. E’ importante che il marchio resti impresso nella mente del consumatore, che attragga la sua attenzione, ma soprattutto che esso venga ricordato. Il ricordo del marchio e la distinzione di esso tra quelli dei concorrenti è per l’impresa un traguardo fondamentale. La capacità distintiva è il requisito che permette al segno di identificare la specie di un prodotto all’interno del genere di beni alla quale esso appartiene e può variare nel tempo, a seconda di come cambia la percezione che il consumatore finale ha del segno.
I marchi possono quindi suddividersi in marchi forti e marchi deboli. I primi sono quelli dotati di una forte capacità distintiva, data dal fatto che il marchio è costituito da denominazioni che non hanno attinenza con il prodotto che contraddistinguono. Tra questi vi sono per esempio i marchi Diesel o Frutta usati per abbigliamento. Sono marchi deboli invece quelli la cui denominazione concettualmente rimanda al bene che identificano, conferendo quindi una debole capacità distintiva al marchio. Alcuni esempi sono “Divani&Divani”, per indicare la produzione appunto di divani, “Scarpe&Scarpe” come marchio per calzature oppure “Benagol” per prodotti per la gola. Tra queste due tipologie di marchi, quella forte assicura una maggior tutela e protezione poiché basta la più piccola somiglianza tra marchi di tal fatta per generare confusione e contraffazione. Viceversa, per i marchi deboli non vi sarà violazione qualora nel mercato si registri un marchio che presenta una piccola variante rispetto al marchio (già) registrato, poiché la tutela è garantita non per le parti comuni del marchio, che possono quindi essere usate da altri, ma solo per gli elementi di originalità insiti nel marchio stesso. Ad esempio, non costituisce assolutamente violazione del marchio “Divani&Divani” un altro marchio contenente la parola divani, poiché essa è una denominazione comune; l’originalità del suddetto marchio potrebbe coincidere con l’accostamento di due parole uguali, ma non certamente con l’utilizzo della parola divano per un marchio che identifica appunto i divani.
Per i marchi deboli è sufficiente quindi una minima variazione per evitare che sia generata confusione e contraffazione, al contrario invece di quelli forti42. In deroga a quanto affermato finora, l’art. 13 del c.p.i. contiene delle disposizioni in merito alla tutela del marchio il quale abbia acquisito la capacità distintiva prima della
40 Art. 13, c.p.i..
41 Ci si riferisce, per esempio, alle espressioni come iper, mega, super. La registrazione di un segno con una tale denominazione non può avvenire in quanto sono espressioni mancanti di originalità e quindi di capacità distintiva.
42 Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2004, n. 3984, consultata in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
registrazione43 o in seguito alla registrazione in base all’uso che ne è stato xxxxx0000. Più precisamente, la norma dispone che può ugualmente costituire oggetto di registrazione sia un marchio che prima della registrazione abbia acquisito capacità distintiva, sia un marchio che invece l’abbia acquisita dopo, a seguito dell’uso che ne è stato fatto.
In tali fattispecie emerge il concetto del secondary meaning, ovvero il fenomeno secondo il quale un segno, inizialmente privo di capacità distintiva, con il tempo acquisisce un secondo significato tale da renderlo riconoscibile ed identificabile agli occhi del consumatore. E’ fondamentale sottolineare che l’acquisto del secondary meaning avviene in seguito all’uso del marchio e tale uso necessita di essere provato al fine di rendere il segno registrabile. La prova può essere costituita per esempio da testimonianze di operatori del settore di appartenenza del prodotto oppure attraverso indagini demoscopiche. Oltre alla capacità distintiva, il marchio deve possedere il requisito della novità45: al momento del deposito della domanda, il segno che si vuole registrare deve essere diverso e non simile ad altri segni già esistenti che contraddistinguono prodotti o servizi uguali o affini. Più precisamente, vi sono due ipotesi che pregiudicano la novità di un segno: la prima si riferisce alla preesistenza di fatto di segni già noti al consumatore (dato sostanziale), la seconda alla preesistenza di una o più domande di registrazione depositate con conseguente accoglimento e registrazione del segno come marchio (dato formale). Con riferimento alla prima casistica, l’uso anteriore (anche in qualità di ditta, insegna, etc.) del segno da parte di terze persone pregiudica la novità di quello che si vuole registrare se lo stesso, con il tempo, ha acquisito una notorietà qualificata, ovvero se il consumatore finale ne percepisce il carattere distintivo tra gli altri marchi presenti nel mercato. Quanto detto vale sia se il segno di uso precedente è stato registrato, sia se non lo è, dando, in questo caso, precedenza al cosiddetto marchio di fatto. Se invece la notorietà del segno anteriore è puramente locale, cioè circoscritta ad una determinata zona, essa non pregiudica la novità del segno che si vuole registrare e il terzo può continuare ad usare il segno preesistente nei limiti in cui ha agito fino a quel momento. Vi sarà quindi, nel mercato, una coabitazione del marchio in preuso e quello nuovo, con conseguente affievolimento del diritto sul marchio registrato46. In merito al dato formale e quindi al deposito anteriore di altri marchi, il segno che si vuole registrare manca di novità se: - il marchio anteriormente registrato è depositato per prodotti identici ed esso stesso è identico; - il marchio anteriormente registrato è identico o simile ed è stato depositato per prodotti identici o affini47. Con questo si
43 Art. 13, comma 2, c.p.i..
44 Art. 13, comma 3, c.p.i.; art. 7, comma 3, Reg. 40/1994.
45 38 Art. 12, c.p.i..
46 Art. 12, comma 1, lett. b), c.p.i..
47 Art. 12, comma 1, lett. c), d), e), c.p.i.. Con il termine affini non si fa rifermento a due prodotti appartenenti alla stessa categoria merceologica o che soddisfano gli stessi bisogni, ma si considerano tali i prodotti che il consumatore crede provengano dalla stessa impresa e se ciò avviene, significa che i marchi possono generale potenziale confusione.
vuole evitare il rischio di confusione nei confronti del consumatore e scongiurare che egli associ un marchio d’impresa ad un altro, credendolo lo stesso. Questo evento sarebbe pregiudizievole per le imprese coinvolte in tale associazione poiché significa che l’immagine costruita attorno ai marchi non si compone di elementi originali e innovativi tali da far rimanere il marchio impresso nella mente del consumatore. Il comportamento dell’acquirente che viene sviato a causa dell’associazione di un marchio con un altro segno fa perdere, almeno potenzialmente, clientela all’impresa. E’ molto importante, quindi, capire come il consumatore percepisce il marchio per valutare se il rischio di confusione è elevato o meno. La percezione del marchio avviene concependolo come un tutt’uno, senza analisi dei vari elementi che lo compongono: solo in questo modo, considerandolo nella sua globalità, si riesce ad afferrarne il significato ed il messaggio che vuole veicolare. Il consumatore è il destinatario del messaggio che l’azienda vuole comunicare e ciò che conta è che la costruzione di esso sia diversa da quelle già realizzate dai concorrenti: bisogna incidere la mente del consumatore ed è per questo che un segno privo di novità non è idoneo in qualità di marchio, perché non assolve alla funzione di far comprendere a quale impresa appartenga la realizzazione di quello specifico prodotto. Il requisito della novità è inoltre fondamentale per un marchio poiché, nel caso di un marchio celebre, i titolari possono impedire che terzi traggano un vantaggio indebito dall’uso di segni simili o identici al loro anche per prodotti non affini: si vuole quindi evitare che si sfrutti la notorietà che un’impresa ha costruito negli anni investendo risorse nella pubblicità e nel mantenimento dell’immagine del marchio. Non godono quindi del requisito della novità i segni identici o affini ad un marchio anteriormente registrato per prodotti anche non affini nel momento in cui tale marchio goda di rinomanza48. Proseguendo, il terzo requisito che il marchio deve possedere è quello della liceità49: non possono essere registrati in qualità di marchio segni che sono contrari alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume; segni che possono trarre in inganno il consumatore circa la provenienza geografica, la natura, la qualità o la qualità dei prodotti/servizi (v. infra, par. precedente) [segni il cui utilizzo comporterebbe una violazione del diritto d’autore altrui, di un diritto di proprietà industriale].
Nella sentenza oggetto del presente elaborato saranno messi in discussione, dalla convenuta, due requisiti fondamentali per la registrazione: la capacità distintiva e la novità. Alla casa di moda francese infatti è stato eccepito che i marchi registrati di sua proprietà dovrebbero essere dichiarati nulli poiché privi dei due elementi appena menzionati, la cui mancanza avrebbe dovuto impedirne la registrazione.
48 Art. 12, comma 1, lett. f), c.p.i..
49 Art. 14, c.p.i..
1.6 I marchi di forma Stando all’art. 7 del c.p.i 50, possono essere registrati come marchi segni rappresentanti la forma del prodotto o della confezione di esso. Quando si parla di marchi di forma è importante precisare che si fa riferimento sia a quelli bidimensionali che a quelli tridimensionali. Tra i primi si citano, per esempio, la trama del tessuto della nota casa di moda Burberry oppure i disegni di Prima Classe; ciò che conta è che siano intrinsecamente connessi al prodotto. Non possono infatti essere considerati marchi di forma quelle forme indipendenti dal prodotto a cui sono apposte, come per esempio le “sculture” sul cofano delle Mercedes o Rolls Royce4451. Nella sentenza qui commentata, i marchi analizzati e registrati, sia quelli nazionali che comunitari, sono tutti marchi di forma: la casa di moda Hermès al fine di tutelare taluni modelli di borse da loro prodotte, ovvero Xxxxxx e Xxxxx, ha registrato, in funzione distintiva del prodotto, la forma particolare che ognuna delle borse assume. L’art. 9 del c.p.i. elenca per negazione le casistiche in cui il segno non è idoneo alla registrazione come marchio di forma52, pena la nullità della registrazione53. Tra esse rientrano: - segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto; - segni che derivano dalla forma necessaria del prodotto per ottenere un risultato tecnico; - segni la cui forma conferisce un valore sostanziale al prodotto.
Rispettivamente, sono esclusi dalla registrazione quei segni la cui forma risulta banale e standardizzata, ovvero quando il segno risulta strettamente connesso al settore di appartenenza del prodotto e non dotato di particolare originalità54.
La forma alla quale ci si riferisce è quella essenziale che il prodotto deve assumere a detta della sua natura, senza la quale esso non potrebbe esistere55. Va ricordato che la funzione principale del marchio è quella di contraddistinguere un prodotto all’interno del suo genus di appartenenza e più il segno è simile a tale genus, minor grado di incisività e distinzione avrà rispetto a quelli dei concorrenti. Si può affermare quindi che tale casistica opera nel rispetto della funzione primaria del marchio, ovvero quella di indicazione di origine e di provenienza.
Le forme che conferiscono al prodotto una particolare utilità56, non sono oggetto della disciplina dei marchi, ma esse sono tutelate in qualità di modelli di utilità. La legge prevede infatti una specifica protezione per le innovazioni in campo tecnico, escludendo per esse la coesistenza di una duplice tutela, quella
50 Similmente nell’art. 4, Reg. 40/1994.
51 X. XXXX, op. cit., 80-81.
52 Similmente nell’art. 7, comma 1, lett. e) del Reg. 40/1994; in questo articolo le forme escluse dalla registrazione sono inserite tra gli impedimenti assoluti alla registrazione.
53 Art. 25, comma 1, lett. b), c.p.i.; art. 51, comma 1, lett. a), Reg. 40/1994.
54 Trib. di primo grado CE, 16 febbraio 2000, procedimento T-122/99, consultato in xxx.xxxx.xxxxxx.xx..
55 X. XXXXXXX, Alcune osservazioni sui limiti alla registrabilità dei marchi di forma, in Riv. dir. ind., 2009, 307.
56 Corte Giust. CE, 18 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind, 1135. Si tratta del noto caso Philips in cui la Corte definisce forme necessarie per ottenere un risultato tecnico tutte quelle caratteristiche essenziali del prodotto che svolgono una funzione tecnica e che, se tutelate dalla disciplina dei marchi, la quale prevede una protezione potenzialmente perpetua, impedirebbe ai concorrenti di sviluppare prodotti comprendenti tale funzione ostacolando quindi il principio della libera concorrenza nel mercato.
riservata ai marchi e quella riservata ai modelli di utilità. Infine, i segni la cui forma conferisce un particolare valore di pregio estetico al prodotto, che incide nella scelta d’acquisto del consumatore, esercitando un valore attrattivo57, non possono godere della tutela conferita dalla disciplina dei marchi, ma essi possono essere registrati come modelli ornamentali. Vale anche per questi ultimi l’alternatività dell’applicazione delle due discipline. L’interpretazione del valore sostanziale che una forma conferisce al prodotto non è così semplice come sembra. Se si considerasse un limite alla registrazione come marchio qualsiasi forma ornamentale, si circoscriverebbe di gran lunga l’insieme della tipologia di forma e di confezione del prodotto che può essere registrata. Per tale motivo, la norma in questione specifica che è la presenza del valore sostanziale, che impedisce la registrazione di una forma in qualità di marchio. La giurisprudenza identifica le forme conferenti valore sostanziale al prodotto quelle dotate si di un valore ornamentale, ma tale da essere in grado di influire sulle scelte del consumatore, conferendo un aspetto estetico attrattivo al prodotto58. Da questi requisiti emerge il principio di estraneità del marchio dal prodotto: il segno distintivo deve possedere delle caratteristiche tali da permettergli di essere sempre identificato e separato dall’oggetto al quale si riferisce; è necessario che abbia una propria identità59. La tutela prevista per i marchi di forma ha l’obiettivo di evitare che un’impresa monopolizzi, registrando come marchio una delle tre forme su esposte, non solo il segno in sé, ma l’intera attività produttrice, impossessandosi per un arco temporale indeterminato di un intero genere merceologico. 60Oggetto di tutela è il segno, non il prodotto nelle sue caratteristiche. Per tale tipologia di marchi è inoltre necessario riportare delle considerazioni in merito alla capacità distintiva ad essi connessi. Ciò che è fondamentale evitare è la confusione tra la mera forma del prodotto con la forma che invece costituisce un segno distintivo e ciò al fine di scongiurare la considerazione di tutte le forme quali segni potenzialmente registrabili come marchio d’impresa. Stando al contenuto dell’art. 7 del c.p.i., la forma acquisisce carattere distintivo nel momento in cui permette al consumatore l’individuazione della fonte di origine54.
57 Comm. di ricorso, 3 maggio 2000, in Giur. ann. dir. ind., 4139. Si tratta del caso in cui la casa di moda Ferragamo ha depositato domanda di registrazione per la fibbia rettangolare rappresentante la lettera omega; la domanda è stata accolta poiché tale forma non conferiva un particolare valore estetico ai prodotti.
58 Trib. Venezia, 24 gennaio 2008, in Dir. ind., 4, 2008, 332.
59 52 Trib. Torino, 14 novembre 2008, in Xxx. xxx. xxx., 0000, XX, 000. Nella sentenza in oggetto, Bottega Veneta, nota casa di moda, viola il principio di estraneità del marchio al prodotto in quanto se si isola il marchio di forma “cuoio intrecciato”, del prodotto non rimarrebbe nulla: la separazione marchio-prodotto non è quindi possibile. Il Tribunale ha inoltre decretato l’impossibilità di registrare quale marchio di forma tridimensionale la trama del cuoio intrecciato di Bottega Veneta. La forma “cuoio intrecciato” è stata ritenuta forma imposta dalla natura stessa del prodotto in quanto coincidente con la forma che assume il materiale cuoio intrecciato a termine del processo di lavorazione. Vi è stata un’estensione del primo limite alla registrabilità del marchio di forma, poiché oltre ai segni che costituiscono la forma, è stata inclusa anche la forma che la materia prima assume a prodotto finito, escludendola dalla registrazione ogni qualvolta il suo aspetto coincide con quello assunto a realizzazione completata del prodotto. La Cassazione esclude infatti dalla registrazione come marchio di forma quelle consistenti nella forma di una materia prima frutto di un processo di lavorazione standardizzato
60 .X. XXXXXXX, op. cit., 63.
Infine, le limitazioni alla registrabilità dei marchi di forma, esposte nel presente paragrafo, hanno carattere autonomo rispetto al requisito della capacità distintiva, ciò significa che forme che non violano quanto esposto dall’art. 9 del c.p.i. possono però essere prive di capacità distintiva, non rispettando quindi quanto descritto dall’art. 7 del c.p.i. in merito all’oggetto di registrazione. Il Tribunale di Torino, per i marchi di forma oggetto dell’istanza, è chiamato a valutare e a verificare che non vi sia una violazione della presente normativa, con riferimento particolare alla seconda casistica sopra descritta; più precisamente, come si vedrà nel capitolo successivo, è chiamato a verificare se le chiusure delle borse sono tali da consentire l’ottenimento di un risultato tecnico.
1.7 La procedura di registrazione del marchio Mediante la registrazione di un marchio si acquisisce il diritto all’uso esclusivo dello stesso ed è pertanto possibile vietare a terzi l’uso di un marchio identico per i propri beni. Tale diritto, una volta concesso, retroagisce dal momento del deposito della domanda per il marchio nazionale, mentre per il marchio comunitario gli effetti decorrono dalla data di pubblicazione di registrazione del marchio. La registrazione ha durata decennale dalla data del deposito della domanda58 e può essere successivamente rinnovata per altri dieci anni senza alcun limite59.
Nell’ordinamento italiano il marchio riceve tutela sia se viene registrato, sia nel caso in cui esso venga usato, ma in assenza di registrazione. Quest’ultima fattispecie si definisce con l’espressione “marchio di fatto”. La legge prevede che qualora vi sia il rischio di confondibilità tra un marchio che si vuole registrare ed uno già presente nel mercato non registrato, vi sia tutela per quello anteriore solo se ne è stato fatto uso nel tempo e se ha acquisito una notorietà qualificata presso il consumatore. Questo è l’unico caso il cui il marchio di fatto viene tutelato e cioè solamente al fine di scongiurare il rischio di confusione con uno identico o simile per il quale si vuole ottenere la registrazione. Al marchio di fatto si riserva quindi una tutela più debole rispetto a quello registrato, il quale gode invece del massimo grado di tutela prevista dall’ordinamento. I soggetti aventi diritto ad ottenere la registrazione del marchio sono i diretti utilizzatori dello stesso che intendono impiegarlo nella produzione o nel commercio dei propri prodotti, siano esse persone fisiche, giuridiche o enti pubblici60. Essi possono presentare domanda presso gli appositi uffici di competenza che sono l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM) o gli uffici decentrati presso le Camere di Commercio per i marchi nazionali, mentre l’ Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI) per registrare quelli comunitari. L’ UIBM è l’ufficio che a livello nazionale opera in qualità di destinatario delle domande di registrazione dei brevetti, marchi, disegni e modelli. Ha inoltre il compito di valutare la regolarità tecnica e formale della domanda depositata e quindi decretarne il suo accoglimento o meno. Istituita dal 2009, la Direzione Generale non solo ha l’obiettivo di tutelare la proprietà industriale, di incrementarne il valore sia in ambito nazionale che internazionale, ma si occupa anche della lotta alla contraffazione; contribuisce infatti
al supporto delle imprese italiane ed estere nella gestione delle loro innovazioni in modo da preservare la competitività nel mercato.
L’ UAMI, come già detto, è l’Ufficio che si occupa della gestione delle domande di deposito e della registrazione stessa di marchi o modelli provenienti dai paesi appartenenti alla Comunità Europea ed ha sede ad Alicante, in Spagna.
Nel momento del deposito della domanda di registrazione presso i suddetti Uffici, essa deve godere di precisi requisiti e contenere determinate informazioni61 tra le quali i dati identificativi del titolare, la riproduzione del marchio e l’elenco dei prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione (verifica della ricevibilità). Successivamente alla constatazione della ricevibilità della domanda, i rispettivi Uffici ne verificano la regolarità formale, ovvero si accertano che il contenuto della domanda sia completo e conforme a quanto disposto rispettivamente dagli articoli 156, primo comma, del c.p.i. e 36 del Regolamento n. 40 del 1994. L’elenco dei prodotti che la domanda deve contenere deve essere tale da raggrupparli secondo la loro natura e da consentire la classificazione di ogni singolo bene secondo le classi stabilite dalla classificazione internazionale dei prodotti e servizi, ovvero l’Accordo di Nizza. Nel caso fossero presenti delle irregolarità formali, il richiedente ha la possibilità di porvi rimedio entro due mesi dalla data in cui la constatazione è stata comunicata. Oltre alla regolarità formale, gli Uffici provvedono a verificare anche la regolarità sostanziale della domanda63 focalizzandosi circa la validità del segno. Concretamente, ci si assicura che non vi siano impedimenti assoluti alla registrazione, accertandosi pertanto che il marchio sia dotato di capacità distintiva, che non sia contrario alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume e che non induca in inganno il consumatore. In questa fase della procedura vi è però una divergenza nella verifica della regolarità sostanziale: mentre la normativa comunitaria include nell’esame la presenza o meno del requisito della novità, per il marchio nazionale invece non vi è la verifica del possedimento di tale requisito.
Superata tale verifica, la domanda viene considerata registrabile e viene pubblicata nel bollettino dei marchi d’impresa quella relativa ai marchi nazionali, mentre nel bollettino dei marchi comunitari per l’altra tipologia.
Nel caso del marchio comunitario vi è però un ulteriore passaggio prima di giungere alla pubblicazione della domanda: l’UAMI redige una relazione di ricerca al fine di verificare la situazione di marchi comunitari anteriori che potenzialmente potrebbero ostacolare la registrazione64. I risultati della ricerca sono trasmessi successivamente al richiedente, il quale ha un mese di tempo per apportare, se necessarie, delle modifiche alla sua domanda; dopodiché, l’Ufficio prevede alla sua pubblicazione65.
Mediante la pubblicazione della domanda si rende opponibile la registrazione del marchio, nazionale e comunitario, a terzi già in possesso di marchi identici o simili
che vantano quindi diritti anteriori sul segno. Entro due mesi l’oppositore e il
richiedente devono raggiungere un accordo in merito (art. 178.1 c.p.i.).
.L’opposizione deve essere costituita da determinati elementi pena il suo accoglimento, quali i prodotti, l’identificazione del richiedente a cui essa si rivolge e le motivazioni che ne diano una valida giustificazione. La procedura di opposizione inizia dal momento in cui la domanda si dichiara ricevibile e si concluderà con la registrazione o meno del marchio, a seconda se l’Ufficio accoglie o respinge la domanda. Per esempio, essa può essere respinta nel caso in cui l’opponente titolare di un marchio, anteriormente registrato da almeno cinque anni, non fornisca idonea documentazione circa l’effettivo uso del marchio per i propri prodotti68. Se invece la prova dell’uso è fornita, anche solo per una parte dei prodotti, l’opposizione si dichiara accolta solo per tale parte.
L’opposizione si presenta in qualità di impedimento relativo in quanto la legge permette la tutela del singolo e del marchio di sua proprietà registrato anteriormente, evitando il rischio di confusione che potrebbe insorgere da una nuova registrazione.
Sia in ambito nazionale che comunitario, nel caso in cui la domanda di registrazione venga rifiutata in favore dell’accoglimento di un’opposizione, il richiedente può entro 60 giorni appellarsi alla Commissione dei ricorsi sottoponendo la domanda a revisione69.
Oltre alle opposizioni, i terzi possono presentare all’Ufficio, durante la procedura della registrazione, delle osservazioni scritte di cui all’art. 175 del c.p.i e 41 del Regolamento n. 40 del 1994, ovvero possono indicare ed esporre le motivazioni secondo le quali il segno dovrebbe essere escluso dalla registrazione.
1.8 La nullità del marchio: impedimenti relativi e assoluti alla registrazione del marchio
Il presente paragrafo si propone l’obiettivo di descrivere la fattispecie della nullità indicandone le cause, i soggetti che possono attuare un’azione di nullità e gli effetti che ne conseguono. Nella sentenza qui in esame, la parte convenuta invoca la nullità per i marchi registrati da parte attrice ed è per questo motivo che si ritiene opportuno delinearne gli aspetti e il contenuto sia della normativa nazionale, sia di quella comunitaria.
Nella normativa nazionale, l’art. 25 del c.p.i elenca le ipotesi di nullità relativa ed
assoluta che privano il marchio dei suoi effetti. Esse sussistono quando:
- il marchio non possiede uno dei requisiti previsti dall’art. 7 del c.p.i. (suscettibilità di rappresentazione grafica e indicazione di provenienza ed origine del prodotto);
- il marchio manca di novità secondo una delle casistiche contenute all’art. 12
del c.p.i.;
- il marchio è in contrasto con quanto previsto dall’art. 9 del c.p.i. circa i marchi
di forma;
- il marchio rappresenta stemmi che rientrano nelle convezioni internazionali vigenti in materia o che il segno contiene stemmi o emblemi che rivestono un interesse pubblico (art. 10 c.p.i.);
- il marchio non è dotato di capacità distintiva secondo quanto espresso dall’art.
13 del c.p.i. o non gode del requisito della liceità (art. 14, comma 1, c.p.i.);
- il marchio la cui domanda è stata fatta in mala fede;
- sono stati registrati come marchi nomi di persona, ritratti e segni notori senza aver ottenuto il consenso dai titolari o, in caso di morte, dal coniuge e dai figli o se, diversi dal richiedente della registrazione, ledono la fama il decoro del portatore di tali nomi (art. 8, c.p.i.).
E’ legittimato ad ottenere la nullità del marchio chiunque vi abbia interesse, ovvero, in primo luogo, qualsiasi concorrente che considera tale marchio un ostacolo all’esercizio della sua attività (nullità assoluta). L’azione di nullità può però essere esercitata solo dal loro titolare nel caso in cui vi sia la presenza di diritti anteriori che andrebbero incontro a violazione e a pregiudizio61; si tratta, in questo secondo caso, di un’ipotesi di nullità relativa dato che l’azione non può essere fatta valere da chiunque.
Con riferimento all’ elenco su esposto, è doveroso distinguere tra gli impedimenti assoluti alla registrazione e quelli relativi62. Tra i primi rientrano: l’inidoneità del segno ad essere considerato un marchio e quindi in contrasto con l’art. 7 del c.p.i., la mancanza di capacità distintiva e il difetto di liceità, la presenza di una delle ipotesi elencate all’art. 9 del c.p.i. che prevedono l’esclusione dalla registrazione come marchio d’impresa di determinate forme. Essi individuano un vizio strettamente connesso alla natura del segno.
Tra gli impedimenti relativi rientrano, invece, la mancanza di novità e la presenza di diritti anteriori di terzi che contrastano con la registrazione del marchio. Gli impedimenti sono cumulativi, ovvero affinché si possa considerare un segno idoneo in qualità di marchio, è necessario che non vi sa la presenza di alcun tipo di impedimento: tutte le condizioni sopra descritte devono essere soddisfatte, non ne basta solo una.
61 Art. 121, comma 2, c.p.i..
62 X. XXXXXXX, X.XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXX, op. cit., 70-71.
Nel Regolamento n. 40 del 1994, vi è una esposizione separata degli impedimenti e rispettivamente, quelli assoluti sono al primo comma dell’art. 7, mentre quelli relativi al primo comma dell’art. 8.
Stando all’art. 7 del Regolamento in questione, sono esclusi dalla registrazione:
• i marchi non suscettibili di rappresentazione grafica e che non indicano
l’origine e la provenienza del prodotto ( art. 4);
• i marchi privi di carattere distintivo, composti esclusivamente da segni diventati di uso comune nel linguaggio corrente e da segni che hanno valore descrittivo del prodotto, come l’indicazione di qualità, di destinazione o di provenienza geografica;
• i segni la cui forma conferisce un valore sostanziale o di utilità al prodotto e che deriva dalla natura stessa del prodotto;
• segni contrari all’odine pubblico o al buon costume;
• i marchi che possono indurre in inganno il consumatore circa per esempio le caratteristiche o la provenienza del prodotto;
• i marchi che contrastano con l’art. 6 ter della Convenzione di Parigi73 a causa
della mancanza dell’autorizzazione delle autorità competenti;
• i marchi costituiti da stemmi, emblemi diversi da quelli previsti dall’art. 6 ter
della Convenzione di Parigi e se sono di interesse pubblico;
• i marchi di vini o di alcolici contenenti indicazioni geografiche di provenienza;
• i marchi che contengono una denominazione di origine o geografica conforme al regolamento CEE n. 2081 del 199274 e corrispondente a quanto l’art. 13 del suddetto regolamento espone se la domanda di registrazione del marchio è stata sottoposta alla Commissione in un momento successivo rispetto a quella per la denominazione d’origine o geografica.
L’art. 8 al primo comma esplica che il marchio deve escludersi dalla registrazione a seguito dell’opposizione di un terzo avente diritti anteriori se:
- il marchio da registrare è identico al marchio anteriore e sono identici a quelli del terzo anche i prodotti per i quali si vuole ottenere la registrazione;
- se sussiste rischio di confusione a causa dell’identità o della somiglianza tra il marchio da registrare e quello anteriormente registrato appartenente al terzo.
Sempre con riferimento alla normativa comunitaria, agli impedimenti sopra enunciati corrispondono rispettivamente le cause di nullità assoluta descritte nell’art. 51 e le cause di nullità relativa esplicate invece dall’art. 52.
La prima fattispecie sussiste nel momento in cui si presentino impedimenti assoluti alla registrazione e quindi il marchio è dichiarato nullo, su domanda presentata
all’Ufficio o su domanda riconvenzionale in un’azione per contraffazione, se è stato registrato contrariamente al contenuto dell’art. 7 del regolamento di riferimento e se il richiedente ha agito in mala fede nel momento del deposito della domanda. Parallelamente, si ravvisano cause di nullità relativa che portano il marchio alla sua invalidità se, sempre su domanda presentata all’Ufficio o su domanda riconvenzionale per azione di contraffazione e su opposizione di un terzo, vi è la preesistenza di un marchio anteriore stando al contenuto del primo o del quinto comma dell’art. 8, se vi è la preesistenza di un marchio anteriore del quale il rappresentante del titolare ha effettuato la domanda a proprio nome senza il suo consenso, previa giustificazione del suo agire (art. 8, terzo comma) ed infine se sussistono diritti di anteriorità secondo quanto esplicato dal quarto comma dell’art. 8 del Regolamento n. 40 del 1994.
La nullità del marchio può essere decretata per la totalità dei prodotti che esso contraddistingue (nullità totale) oppure solo per una parte di classi di prodotti (nullità parziale)63. L’effetto immediato della nullità del marchio è la perdita del diritto all’uso esclusivo dello stesso in quanto esso viene dichiarato invalido e l’efficacia del marchio viene meno fin dalla sua origine (efficacia ex tunc)64.
Il contenuto delle norme descritte evidenzia come sostanzialmente la nullità sia assoluta nel caso di impedimenti che riguardano la natura del segno, ovvero vizi intrinsechi ad esso, mentre si ricade nella nullità relativa in presenza di diritti anteriori da parte di terzi e in mancanza di novità.
Nella sentenza in esame, poiché parte convenuta, con domanda riconvenzionale, chiederà di accertare la nullità dei marchi di titolarità di Hermès per difetto di novità, di capacità distintiva, per la registrazione di segni la cui forma è imposta dalla natura stessa del prodotto e conferisce al prodotto un risultato tecnico, si ravvisa la presenza di entrambe le tipologie di impedimenti, sia quelli assoluti che quelli relativi.
1.8.1 La giurisdizione dell’azione di nullità
Nonostante, durante la procedura di registrazione, il marchio sia sottoposto ad un esame preventivo per escludere la presenza di impedimenti assoluti, esso può essere dichiarato nullo anche a registrazione ottenuta diventando oggetto di azioni di nullità.
Secondo l’art. 120 c.p.i., la giurisdizione in materia di controversie riguardante il marchio nazionale e la sua validità spetta esclusivamente ai giudici nazionali appartenenti alle Sezioni specializzate dei Tribunali e alle Corti d’Appello. E’ pertanto a questi organi che bisogna preporre la domanda di nullità.
63 Art. 27, c.p.i..
64 Art. 54, Reg. 40/1994; art. 123, c.p.i..
Stando invece alla normativa comunitaria qui in esame, la domanda di nullità per un marchio comunitario, se posta in via principale, deve essere presentata all’Ufficio per iscritto e corredata da motivazioni. L’Ufficio la prende in esame e su di essa si pronuncia la Divisione di annullamento, la cui decisione è assunta da parte di tre membri (art. 129, Reg. 40/1994). Una volta conclusosi il giudizio in merito alla domanda di nullità, essa viene trascritto nel registro.
Nel caso oggetto d’analisi la domanda di nullità viene preposta sia per marchi nazionali che comunitari, ma non in via principale, bensì mediante una domanda riconvenzionale di annullamento nell’ambito di un’azione di contraffazione. La giurisdizione appartiene esclusivamente ai Tribunali dei marchi comunitari. Essi sono tribunali nazionali di prima e di seconda istanza, istituiti da ogni stato membro della comunità europea, in numero ridotto, entro tre anni dall’entrata in vigore del presente Regolamento n. 40 del 199479, comunicando alla Commissione la loro denominazione e la loro competenza territoriale80. Tali tribunali, in Italia, corrispondono alle Sezioni specializzate istituite con D. Lgs. n. 128 del 27 giugno 2003 ed i giudici che vi operano si occupano esclusivamente di contraffazione e di validità dei marchi comunitari. Ricevuta la domanda riconvenzionale di nullità, il Tribunale dei marchi comunitari provvede a darne comunicazione all’Ufficio, il quale la iscriverà nel registro dei marchi comunitari (art. 96, comma 4, Reg. 40/1994).
Generalmente, il Tribunale competente è quello in cui la convenuta ha domicilio (art. 93, comma 1): nella sentenza in esame la convenuta Xxxxxxxx s.r.l. ha sede a Torino ed è proprio il Tribunale di Torino, o meglio la sezione specializzata in materia di proprietà industriale ed intellettuale, quale anche Tribunale dei marchi e dei modelli comunitari, ad avere la giurisdizione dell’oggetto della controversia.
Qualora l’Ufficio avesse già pronunciato in via definitiva una decisone circa le stesse parti ed avente lo stesso oggetto, il Tribunale dovrà respingere la domanda riconvenzionale di nullità (art. 96, comma 2). Se invece la decisione dell’Ufficio non è ancora diventata definitiva, il Tribunale dei marchi comunitari può sospendere il procedimento avente oggetto la domanda riconvenzionale di nullità su richiesta del titolare del marchio comunitario e incitare la convenuta a presentare domanda in via principale dinanzi l’Ufficio entro i termini da esso stabiliti. Se ciò non avviene, la domanda riconvenzionale si considera ritirata (art. 96, comma 7).
Si ricorda inoltre che, secondo quanto disposto dall’art. 96, primo comma del Regolamento qui in esame, la domanda riconvenzionale di nullità, con oggetto del giudizio la nullità stessa, potrà essere accolta soltanto se avanzata per i motivi previsti dal Regolamento stesso.
1.9 Riflessioni conclusive sul marchio Riassumendo, il marchio è quel segno distintivo che identifica un prodotto o un servizio di un’impresa e che permette al consumatore di distinguere nel mercato i prodotti in base alla loro provenienza. La sua funzione principale è quella distintiva: distinguere un determinato prodotto
significa poter collegare ad esso caratteristiche sue proprie. In merito alla tutela dei segni distintivi si può affermare che il titolare del marchio vanti una protezione di tipo assoluto e questo lo si ravvisa nella sua protezione a prescindere, talvolta, dalla sussistenza di confondibilità con altri segni presenti nel mercato81. Generalmente, la tutela del marchio è volta ad evitare il rischio di confusione tra un marchio nuovo e uno preesistente, in caso di loro somiglianza, ma tale protezione ha assunto una “posizione” più ampia, tutelando detto segno distintivo anche in altre situazioni, che vanno oltre l’ipotesi di reale confondibilità. Tale atteggiamento ha influenzato sia la stesura del Regolamento n. 40/94 sui marchi comunitari, sia il codice della proprietà industriale. In questa sede ci si riferisce propriamente al fatto che il marchio viene tutelato anche nel caso in cui sia identico ad un altro, ma non vi sia rischio di confusione tra i prodotti o servizi contraddistinti. Lo dimostrano l’art. 9, par. 1, lett. c) del Regolamento comunitario e l’art. 20, comma 1, lett. c), c.p.i. In altre parole, la tutela assoluta si ravvisa nella protezione in ambito extra- merceologico del marchio celebre: non si possono infatti adottare segni identici o simili ad un marchio che gode di rinomanza, anche se l’attività d’impresa che identificano è completamente diversa da quella del marchio notorio. Un altro caso in cui si tutela il marchio, a prescindere dal rischio di confusione, riguarda il marchio registrato non ancora usato, al quale si concedono cinque anni a partire dalla data di registrazione per il suo uso effettivo. Durante il periodo in cui il marchio rimane in attesa di essere usato, non sussiste il pericolo di confusione con marchi da altri utilizzati, ma nonostante questo si garantisce ad esso la stessa protezione di uno registrato già effettivamente in uso. Trattasi di casi nei quali al marchio è conferita una protezione che va ben oltre la sua funzione essenziale di identificare la provenienza o l’origine del prodotto o del servizio contraddistinto. Siffatto orientamento del legislatore trova maggiore evidenza nell’ambito della normativa nazionale; a livello comunitario invece, la tutela, è essenzialmente incentrata sulla funzione distintiva del marchio e sul mantenimento della stessa, come ben dimostra il contenuto dell’art. 7 del Regolamento n. 40 del 1994, in cui sono elencati gli impedimenti che pregiudicano la validità del marchio (elencazione dalla quale emerge che l’obiettivo è proprio quello di preservare la sua funzione principale di indicazione d’origine e provenienza)65.
La tutela prevista per il marchio agisce essenzialmente in una duplice direzione, ovvero sia verso l’impresa e sia verso il consumatore finale. Nel primo caso, si proteggono gli investimenti che un’impresa effettua nella costruzione del marchio e, soprattutto, il marchio stesso da possibili violazioni ad opera di terzi. Nella sfera del consumatore, si evince dalle normative che il marchio costituisce un
65 Xxxxx XX, 00 settembre 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 1461 ss.. In tale sentenza, Xxxxx Xxxxxxxxx accusa la società americana Metro Xxxxxxx Xxxxx per il deposito del marchio “Cannon” volto a contraddistinguere videocassette preregistrate e “produzione, locazione e proiezione di film per sale di proiezione e aziende televisive”. In siffatta occasione la Corte si pronuncia affermando che l’essenza del marchio è quella di permettere al consumatore di identificare l’origine del prodotto e di contraddistinguerlo da quello di produzione della concorrenza
important elemento d’influenza nella scelta d’acquisto e un prezioso veicolo di informazioni e messaggi che semplificano il reperimento dei prodotti, ragion per cui lo si tutela dal rischio di confusione e grazie alle norme che vietano un uso decettivo del marchio. Quanto esposto in questa prima parte permette di comprendere l’importanza del marchio e della sua disciplina. Può sembrare che un marchio sia un “semplice” segno dotato di una propria veste grafica e veicolo di un messaggio ben preciso, ma dietro vi è un difficile lavoro di costruzione della sua immagine: è un investimento importante per un’impresa e per la sua attività e le discipline che trattano di marchi riconoscono questo importante aspetto, ragion per cui prevedono precise norme in fatto di registrazione, di requisiti per la tutela, per il mantenimento di esso, di diritti in capo ai titolari.
1.10 I disegni e i modelli: Regolamento CE n. 6/2002 del Consiglio del 12 dicembre 2001 su disegni e modelli comunitari
La sentenza commentata nel presente elaborato si basa non solo sulla disciplina a tutela del marchio, ma anche su quella in materia di disegni e modelli. Tale normativa viene appellata in merito alla borsa Lindy, la quale è tutelata in qualità di modello comunitario registrato secondo il Reg. n. 6 del 12 dicembre 2001 pubblicato nella GUCE n. L 3 del 5 gennaio 2002.
Detto Regolamento prevede la tutela e la protezione di disegni e modelli in ambito comunitario, estendendone la validità in tutti i Paesi Membri. Entrato in vigore il 6 marzo 2002, istituisce nell'ordinamento dell'Unione Europea un sistema di protezione secondo il quale, presentando un'unica domanda all’UAMI anziché una pluralità di domande per ogni singolo Stato Membro, gli interessati possono ottenere la registrazione dei disegni o modelli con efficacia in tutto il territorio della Comunità. Anche in tale caso, come per i marchi, risulta di particolare importanza il fatto che vi sia la centralizzazione e l’unicità delle procedure da seguire ai fini della registrazione, in modo tale da poter superare gli ostacoli delle differenti legislazioni nazionali in merito; la presenza di numerosi uffici e di procedure, con il conseguente aumento delle spese amministrative, ostacola il commercio dei prodotti protetti da un modello o da un disegno. Inoltre, se vi fosse solamente una tutela a livello nazionale, si restringerebbe la diffusione e la conoscenza del bene, impedendo alle imprese, se non previo sostenimento di ulteriori costi, di allargare il loro portafoglio clienti e quindi il proprio business, ostacolando pertanto la libera circolazione delle merci.
I vantaggi che derivano da una registrazione comunitaria sono molteplici rispetto a quelli conferiti da una registrazione nazionale. Mediante una protezione migliore e più estesa dei disegni e dei modelli a livello comunitario, i designers sono maggiormente incentivati ad esprimere le loro doti creative al massimo per poter realizzare un prodotto che, tra tanti, si contraddistingua; si incentivano inoltre i processi innovativi e la volontà di investire in nuovi prodotti, riducendo, tra l’altro, le spese amministrative che devono essere sostenute per registrare il disegno o il
modello. Dal punto di vista delle formalità da adempiere, infatti, è sufficiente depositare un’unica domanda presso l’UAMI e in un'unica lingua ed il pagamento è unico.
Come il Regolamento sui marchi comunitari, anche il presente, al fine concretizzare i suoi effetti, necessita di un insieme di norme esecutive le quali danno precise disposizioni in merito all’attuazione del suo contenuto: trattasi del Regolamento (CE) n. 2245 del 2002. Questo Regolamento garantisce che i procedimenti legati ai disegni e modelli comunitari vengano eseguiti in modo armonico ed uniforme dinanzi all’Ufficio, occupandosi, ad esempio, di tutto ciò che è correlato alla domanda di registrazione, della pubblicazione nel Bollettino dei disegni e modelli comunitari o delle modalità per presentare ricorsi all’UAMI.
1.10.1 Definizione di disegno e modello
Con l’espressione disegno o modello s’intende “l'aspetto di un prodotto o di una sua parte quale risulta in particolare dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale e/o dei materiali del prodotto stesso e/o del suo ornamento66”.
Da questa definizione emerge che il disegno o modello identificano l’aspetto esteriore di un prodotto, potendo coincidere con linee, colori, un particolare tipo di forma oppure un determinato materiale usato per la sua realizzazione.
Precisamente, si considera modello una forma tridimensionale che caratterizza un certo prodotto, senza però che la stessa abbia un rilievo tecnico-funzionale. Con il termine disegno si intende, invece, una creazione bidimensionale (linee, colori, figure) che, parimenti, conferisca un aspetto caratteristico al prodotto. Si comprende, quindi, come i termini disegno e modello identifichino esclusivamente gli aspetti estetici e decorativi di un oggetto ed abbiano lo scopo di rendere più gradevole un prodotto agli occhi del consumatore finale o, comunque, idoneo a suscitare nel pubblico un’ impressione diversa rispetto a quella generata da prodotti del medesimo genere, conferendogli delle caratteristiche proprie che ne permettono l’identificazione.
La tutela dell’aspetto estetico e non di quello funzionale è la differenza di protezione che distingue i disegni o modelli dai modelli di utilità, i quali, attraverso l’istituto del brevetto, proteggono le forme nuove che conferiscono al prodotto una particolare efficacia o comodità funzionale e quindi una maggior utilità.
L’essenza del disegno o modello rispecchia la volontà dell’impresa di differenziare la propria immagine nel mercato in cui opera, ma soprattutto di proteggere gli investimenti effettuati per la sua creazione: in assenza di registrazione di un disegno o un modello, altre imprese potrebbero usarli nella loro attività, sfruttando così l’immagine creata da un concorrente e lo sforzo ad essa corredato. Attraverso tale
66 Art. 3, lett. a), Reg. 6/2002.
tutela si concede la protezione ad uno sforzo creativo innovativo dal punto di vista estetico e, mediante la registrazione, lo si può proteggere dagli eventuali tentativi di imitazione.
1.10.2 I requisiti di validità per la registrazione: novità e carattere individuale
Ai fini della registrazione di disegni e modelli non è richiesta una particolare gradevolezza estetica, ma sono necessari due requisiti, ovvero la novità ed il carattere individuale.
Stando al primo requisito84, un disegno o un modello è nuovo se nessun’altro modello o disegno identico è stato divulgato prima della data di presentazione della domanda di registrazione. Più precisamente, la normativa comunitaria prevede che il disegno o modello per il quale si richiede la registrazione non sia identico né ad uno non registrato, anteriormente divulgato, per il quale si rivendica la protezione e nemmeno ad uno registrato anteriormente alla sua domanda di deposito. L’identità che pregiudica la novità sussiste qualora le caratteristiche dei disegni/modelli sono diverse solamente per dettagli irrilevanti85, come per esempio le modifiche apportate al prodotto al fine di adattare il design alla tecnica.
Quanto detto include come oggetto di protezione comunitaria anche i disegni o modelli non registrati, purché possiedano i requisiti della novità e dell’individualità. Essi, rispetto a quelli per i quali è avvenuta la registrazione, differiscono in merito alla durata della tutela: mentre i disegni e modelli registrati sono protetti per un periodo di cinque anni, rinnovabile fino ad un massimo di 2586, quelli non registrati sono protetti per un periodo di tre anni a partire dalla data in cui essi sono stati divulgati al pubblico per la prima volta, all’interno della Comunità.
La tutela tra i due non differisce solamente per la durata, ma anche per la tipologia di azioni che vieta. Nel caso dei disegni/modelli registrati, la protezione è volta ad evitare una loro riproduzione sistematica e la produzione di disegni o modelli simili; nel caso in cui invece non sia avvenuta la registrazione, la tutela è prevista solamente contro la copiatura87. Mentre il disegno/modello registrato gode di una tutela più ampia, quello non registrato è protetto solamente nel caso in cui un concorrente riproduca esattamente, mediante un’imitazione pedissequa, quanto è già stato divulgato. In quest’ultima occasione è necessario provare che l’autore della copia del disegno/modello fosse a conoscenza di quello già nel mercato, poiché solo in tale circostanza si può presumere che avvenga la copiatura; essa inoltre si presuppone solamente qualora vi sia una creazione indipendente ad opera di un concorrente.
La tutela ha effetto dal momento in cui avviene la divulgazione del disegno/modello non registrato. Il legislatore ritiene che la tutela concessa in assenza di registrazione sia adeguata per quei disegni/modelli caratterizzati da una breve vita commerciale in quanto non vi sono né formalità, né costi da sostenere al fine di proteggerli.
Per contro, la registrazione conferisce una tutela più ampia concedendo in capo al titolare il diritto di uso esclusivo dello stesso che permette di vietare a terzi la commercializzazione, la fabbricazione e l’uso di un disegno/modello; quanto detto è previsto sia nel caso di identità a quello registrato anteriormente, ma anche nei casi in cui vi sia solamente una somiglianza con la presunta copia. Tale protezione consente al titolare di avanzare un’inibitoria nei confronti del “contraffattore” causa l’insufficiente differenziazione del disegno/modello dal proprio.
A sua volta la nozione di divulgazione differisce a seconda se la registrazione sia avvenuta o meno. Considerando i disegni o modelli registrati, la divulgazione avviene di norma mediante la pubblicazione a seguito di registrazione; per quelli non registrati, invece, si ha divulgazione se sono stati esposti o usati nel commercio o pubblicati mediante atti che possono essere ragionevolmente riconosciuti da coloro che operano negli ambienti specializzati del settore d’interesse. Solamente la presenza di questi ultimi requisiti costituisce divulgazione di un disegno o modello non registrato88. Come si può notare, il concetto di divulgazione è molto importante nel determinare la presenza o meno del requisito della novità in quanto, se sussiste, esso pregiudica la possibilità di registrare un modello o disegno nuovo per mancanza di novità.
Considerando ora il secondo requisito, il carattere individuale89 sussiste qualora il disegno o il modello suscita in un utilizzatore informato una impressione generale diversa e significativa rispetto a quella che egli ha di fronte a qualsiasi altro disegno o modello divulgato in precedenza. E’ fondamentale che l’impressione generale sia nuova nell’utilizzatore informato e si richiede, a tal fine, che il disegno o il modello abbia una configurazione innovativa od originale: solo in questo modo è possibile procedere alla sua registrazione. Stando al contenuto dell’art. 6 della normativa comunitaria, il disegno o il modello deve suscitare un’impressione di dissomiglianza rispetto alle anteriorità.
Quello che però non è esplicato, è la misura in cui debba sussistere tale non identità, ovvero quanto diverso debba essere l’oggetto di nuova registrazione rispetto a quelli già esistenti. In merito vi sono diverse interpretazioni circa la maggiore o minore significatività richiesta al carattere individuale. Secondo un’opinione molto rigorosa, l‘individualità dovrebbe essere l’elemento determinante dell’acquisto del prodotto90 pertanto il disegno o modello, al fine di possedere tale requisito, deve essere dotato di caratteristiche tali da colpire l’attenzione del consumatore ed attrarlo; le peculiarità devono avere un carattere altamente differenziante rispetto a quanto realizza la concorrenza. Secondo invece l’opinione contraria, si richiede che la differenziazione sia dovuta ad elementi che permettano sufficientemente di distinguere il nuovo disegno o modello da quello precedentemente divulgato91. In merito si ravvisa però anche un’opinione intermedia, secondo la quale il carattere individuale che differenzia il disegno o modello da uno preesistente dovrebbe essere
tale almeno da attirare l’attenzione del consumatore92, privilegiando quindi quei prodotti che soddisfano in modo innovativo i gusti degli acquirenti.
Inoltre, stando a quanto dispone l’art. 6 al secondo comma, il carattere individuale deve essere valutato anche in base al margine di libertà che l’autore ha usato nella realizzazione del disegno o modello. Sostanzialmente, si vuole sottolineare che è fondamentale individuare gli elementi che il designer ha saputo introdurre nella sua creazione, alla luce dei parametri che ha dovuto rispettare nella realizzazione del specifico prodotto: i beni sono di differenti tipologie ed ogni campo ha determinati limiti che incidono nella produzione di essi e che ne influenzano anche l’aspetto estetico. Per questo motivo è necessario contestualizzare l’individualità del disegno o modello nella classe merceologica di appartenenza: più limitato è il raggio d’azione del designer, e più saranno sufficienti piccoli dettagli per differenziare il disegno o modello da uno già divulgato anteriormente. Inoltre, qualora siano messi a confronto prodotti standardizzati, gli elementi che portano il consumatore a farsi un’opinione generale di dissomiglianza non devono essere quelli comuni alla classe di appartenenza del prodotto, ma devono essere ben differenziati dalla norma.
Rimanendo sempre in tema di requisiti di validità, si ravvisa un parallelismo tra il carattere individuale che deve possedere un disegno o modello e la capacità distintiva che invece è propria del marchio, con la differenza che, mentre nel primo caso ci si riferisce alla percezione del consumatore informato, nel secondo ci si riferisce al consumatore medio, ovvero il soggetto che non presenta particolari competenze nell’ambito della distinzione dei marchi e dotato di una soglia di attenzione non superiore alla media67.
L’utilizzatore informato, invece, coincide con il destinatario del prodotto che nel tempo ha acquisito una esperienza rilevante dato l’uso frequente di un determinato disegno o modello. Ci si riferisce ad un soggetto che non è il consumatore medio descritto in precedenza in materia di marchi, e nemmeno un esperto del settore merceologico di riferimento capace di individuare dettagliatamente anche le più piccole differenze. Egli è semplicemente un soggetto dotato di una determinata conoscenza degli elementi che compongono un disegno o modello poiché di suo interesse e, per questo, dotato di una soglia di attenzione maggiore nel momento in cui ne fa uso. Il suo grado di attenzione è superiore a quello della media "in quanto non entra occasionalmente in contatto con i prodotti di un certo settore ma si tiene costantemente informato sulle caratteristiche dei prodotti e sull’ evoluzione dei medesimi68”.
Un ulteriore requisito di validità del disegno o del modello è esplicato al primo comma dell’art. 36, secondo il quale è necessario che l’aspetto esteriore del prodotto non presenti in alcun modo una funzione tecnica; sono inoltre escluse dalla
67 X. XXXXXXXX, X. XX XXXXXXX, op.cit., 480.
68 Trib. CE, 22 giugno 2010, procedimento T-153/08, consultato in xxx.xxxx.xxxxxx.xx.
registrazione quelle caratteristiche dell’aspetto del prodotto che devono essere necessariamente realizzate secondo la loro esatta conformazione per permettere la connessione meccanica con un altro prodotto, salvaguardando quindi la sua funzionalità69.
Infine, il disegno o il modello non deve essere contrario all’ordine pubblico e al buon costume98. La mancanza dei requisiti su esposti comporta la nullità del disegno o modello che si vuole registrare99.
1.10.3 Registrazione e diritti conferiti
La domanda di registrazione viene depositata, a scelta del titolare, presso l’UAMI oppure presso uno degli Uffici competenti in materia di proprietà industriale presente nello Stato Membro, il quale, a sua volta, la trasmette entro due settimane all’UAMI (art. 35, Reg. 6/2002).
La domanda, stando al contenuto dell’art. 36, deve contenere indicazioni in merito all’identità del richiedente, la richiesta di registrazione, una rappresentazione riproducibile del disegno o modello e l’elenco dei prodotti nei quali si intende incorporare il disegno o il modello. E’ concesso inoltre il deposito plurimo, ovvero in una domanda può esservi la richiesta di registrazione di una molteplicità di disegni o modelli purché appartengano alla stessa classe merceologica (art. 39, comma 1). Analogamente a quanto avviene per la domanda di registrazione del marchio, vi è anche in questa sede la verifica sia della regolarità formale100 che di quella sostanziale101. Vi sono però due differenze in tale procedimento rispetto a quello relativo dei marchi: la prima circa la domanda di registrazione per la quale, nel caso dei disegni e modelli si verifica solamente la conformità in merito alla definizione esposta nell’art. 3 e circa la non contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume (per i marchi si verificava in aggiunta la presenza dei requisiti essenziali di validità e degli elementi che costituissero impedimenti assoluti e relativi). La seconda riguarda invece la possibilità concessa in capo a terzi di opporsi alla registrazione: nel caso di
disegno o modello può essere avanzata solo a registrazione avvenuta mediante
un’azione di nullità.
In seguito alla sua approvazione, la domanda viene registrata e pubblicata dall’UAMI nel Bollettino dei disegni e modelli comunitari i cui effetti decorrono dalla data del deposito.
La registrazione di un disegno o modello conferisce in capo all’autore il diritto di uso esclusivo dello stesso ed egli può vietarne l’uso ad un terzo. Nel caso in cui il design sia frutto del contributo di più autori, il diritto spetta in modo congiunto ad entrambi e qualora invece sia frutto di un soggetto alle dipendenze di un datore di
69 Art. 36, comma 2, c.p.i.; l’unica deroga consentita a questo articolo appartiene ai cosiddetti sistemi modulari, come lo sono per esempio i Lego, la cui conformazione esteriore è necessaria al fine di garantire il collegamento di ciascun pezzo al fine di ottenere un risultato finale.
lavoro, il diritto viene conferito in capo a quest’ultimo, salvo diversa pattuizione102
(trasferimento del diritto).
Nella sentenza oggetto del presente elaborato, sono presenti due modelli comunitari registrati dalla casa di moda francese rispetto ai quali Tribunale è stato richiesto di valutare il loro carattere individuale.
CAPITOLO II
Analisi della sentenza
SOMMARIO: 2.1 Parti coinvolte. – 2.2 Conclusione delle parti. – 2.2.1 Le conclusioni della parte attrice. – 2.2.2 Le conclusioni della convenuta. – 2.3 Analisi della materia del contendere: le argomentazioni delle parti a confronto. – 2.4 La convenuta e la sua difesa: : prove a favore e contro la nullità dei marchi. – 2.5 I modelli comunitari: valutazioni in merito alla loro validità. – 2.6 Decisioni conclusive del Tribunale.
Il seguente capitolo ha l’obiettivo di fornire una descrizione dettagliata del contenuto della sentenza oggetto del presente lavoro, in modo tale da comprendere ed evidenziare le tematiche giuridiche coinvolte e le azioni della parte attrice e la convenuta. La descrizione seguirà, in parte, la struttura con la quale la sentenza si presenta.
Il capitolo ha inoltre lo scopo di enunciare le varie questioni giuridiche che hanno indotto Hermés International ed Hermés Sellier a citare in giudizio Xxxxxxxx s.r.l., le quali, però, saranno adeguatamente approfondite ed argomentante nel capitolo terzo.
La sentenza in commento riguarda la causa RG n. 12959/2008 ed è stata emessa dal Tribunale di Torino, più precisamente dalla sezione IX civile specializzata in materia di proprietà industriale e intellettuale, pronunciatosi anche in qualità di Tribunale dei marchi e dei modelli comunitari.
Come sopra detto, la causa è stata promossa dalle società Hermès Xxxxxxx s.a. ed Hermès International s.c.p.a., rappresentate dagli avvocati F. Xxxxxxxxx e X. Xxxxxxx, che hanno citato in giudizio la società xxxxxxxx Xxxxxxxx s.r.l., difesa dagli avvocati X. Xxxxxxx, C.E. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxx.
2.1 Parti coinvolte
Le Parti attrici: Hermès International s.c.p.a. e Hermès Xxxxxxx s.a.
Le società che hanno proceduto ad avviare la causa in oggetto, Hermès International
s.c.p.a. e Hermès Sellier s.a., sono parte del gruppo Hermès, titolare dell’omonimo
marchio .
Il fondatore dell’azienda fu Xxxxxxx Xxxxxx, un sellaio che nel 1837 aprì una propria bottega per produrre tutto il materiale indispensabile per legare il cavallo alla
carrozza, mezzo usato sia per scopi militari, sia per piacere. A quell’epoca Parigi era il centro della selleria di lusso e Xxxxxxx ne comprese le potenzialità in termini di sviluppo di un business. Egli infatti ebbe presto un’ottima reputazione per la serietà e la qualità che caratterizzavano la sua produzione di bardature. Nel 1867 l’azienda, diretta dal figlio del fondatore, vinse il premio all’Esposizione Universale per la miglior bardatura; questo fu soltanto l’inizio di una lunga serie di successi.
Alla fine del diciannovesimo secolo, la maison divenne famosa per la produzione di una borsa: la haute à courroie. Era una borsa dalla forma verticale, di grandi dimensioni, che si chiudeva con una semplice cinghia, destinata a contenere l’occorrente per la bardatura; era quindi una borsa da equitazione da portare in sella.
Oltre a vestire il cavallo, diventava necessario vestire anche i cavalieri: ecco allora che nei primi anni del Novecento, il nipote del fondatore realizzò gli indumenti e gli accessori per i fantini. Si aprì quindi un mondo nuovo, in cui ebbe enorme successo la cerniera denominata “chiusura Hermès”; a quell’epoca non era scontato applicarla anche agli abiti, per questo motivo fu una sorta di rivoluzione.
In aggiunta a detta attività, l’impresa avviò una produzione di capi in pelle di daino: erano pezzi di abbigliamento destinati all’élite parigina. Ispirato dall’uso dei metalli preziosi posti dal nonno per abbellire le bardature, il nipote Xxxxx, nel 1927, pensò di impreziosire con oro e argento l’abbigliamento. Lanciò quindi la prima collezione di gioielli d’ispirazione equestre; furono quelli gli anni in cui si posero le basi per far decollare la maison e renderla uno dei punti fermi della moda in svariati settori a livello internazionale.
I frutti si vedranno negli anni trenta, anni in cui la società decollò e divenne un riferimento nel mondo della moda. Tra i prodotti che resero la maison celebre vi fu il foulard, presentato per la prima volta nel 1937 all’Esposizione Internazionale per celebrare i cento anni della nascita dell’impresa. Era realizzato in seta ed era un quadrato di 90 cm denominato carré. Oggi è considerato un must della maison. Un altro prodotto che segnò la storia di Hermès fu la borsa da sella, pensata con lo scopo di contenere l’indispensabile per bardare il cavallo. Lanciata nel 1935 con dimensioni molto grandi, successivamente venne realizzata in formato ridotto e resa celebre da Xxxxx Xxxxx, dalla quale prende oggi il nome il modello della borsa.
Nel secondo dopoguerra la maison iniziò la sua produzione di cravatte, riproducendo elementi del mondo equestre sulla seta. Nel 1945 venne depositato il marchio che connoterà la suddetta casa di moda: una carrozza, due cavalli e un ragazzo che la conducono, rappresentati in modo semplice e stilizzato. Con tale disegno si intendeva prolungare la Parigi degli anni venti, la Parigi del primo dopoguerra e la si voleva ricordare negli anni in cui stava nascendo l’automobile.
Figura 1.1 Logo del marchio Hermès
Nel 1949 la maison introdusse nel mercato il “ready-made”, una sorta di prêt-à- porter il cui simbolo era un abito da donna in cotone stampato dal nome Xxxxxxxxxx.
Con il passare degli anni il volume d’affari aumentò ed il brand sbarcò anche nel
settore dei profumi.
Presidente attuale dell’azienda è Xxxxxxx Xxxxxx: egli rappresenta la quinta generazione Hermès e si impegna a portare avanti la tradizione cercando di rinnovarla continuamente.
A partire dagli anni novanta, la maison ha cominciato ad adottare una politica di acquisizione nel campo delle industrie tessili ed ha instaurato delle politiche di collaborazione con stilisti come Xxxxxx Xxxxxxxx.
Riassumendo, Hermès è un marchio di rilevanza internazionale con alle spalle decenni di fatica e di duro lavoro, ricompensati oggi dalla sua celebrità. E’ un marchio tramandato di generazione in generazione che ha mantenuto, negli anni, continuità e coerenza abbracciando diversi settori della moda. Tra le sue creazioni più rinomate vi sono appunto i due modelli di borse oggetto della sentenza trattata, ovvero Xxxxx e Xxxxxx.
La borsa Xxxxx è una delle poche borse ad avere un nome proprio di persona e la sua attuale conformazione nasce dal primo modello di borsa che la maison aveva realizzato: una borsa in cuoio progettata dal nipote del fondatore, da riporre nella portiera dell’auto ed essere comunque contemporaneamente chic e raffinati. La Kelly è di forma trapezoidale, possiede un fondo rigido con dei piedini applicati esternamente sul fondo al fine di permetterne l’appoggio anche a terra, senza rovinarne la pelle; la chiusura è ottenuta con un sistema di cinghie e con un lucchetto. La principessa Xxxxx Xxxxx l’ha resa celebre nella metà degli anni Cinquanta venendo fotografata con il modello in mano per nascondere la sua gravidanza; questo episodio contribuì a dare alla borsa il nome proprio della principessa xxxxxxxxx. La foto fece il giro del mondo e segnò l’inizio di un mito. Da quel momento, la maison francese ha iniziato a realizzare questo modello per ogni occasione.
Figura 1.2. Modello Kelly
La seconda borsa oggetto della presente sentenza è la Birkin, il cui nome deriva dalla cantante ed attrice Xxxx Xxxxxx. Nel 1984 durante un volo aereo da Parigi a Londra, le caddero molti fogli dalla borsa. In quel volo viaggiava anche Xxxx Xxxxx Xxxxx, stilista di allora per Hermès, il quale, comprendendo le difficoltà legate alla capacità e capienza della borsa dell’artista, la prese con sé e la modificò al fine di realizzarne una che rispondesse alle esigenze esposte da Xxxx. In particolare, vi aggiunse una tasca che diventò l’elemento che iniziò a contraddistinguere la Birkin, chiamata così in onore della cantante.
Figura 1.3. Modello Birkin
Parte convenuta
La società citata in giudizio è una società torinese: Xxxxxxxx s.r.l., specializzata nella vendita al dettaglio di articoli di pelletteria, quali, borse, portafogli, cinture.
2.2 Conclusione delle parti
In questa fase della sentenza, il Tribunale prende in esame le richieste che le parti avanzano con la speranza di trovare accoglimento. Si espongono dapprima quelle della parte attrice e successivamente quelle della convenuta.
2.2.1 Le conclusioni della parte attrice
Al Tribunale di Torino la società francese chiede di verificare ed accertare atti di concorrenza sleale posti in essere dalla convenuta e consistenti nella violazione dei diritti di proprietà del marchio francese in merito a tre modelli di borse: Xxxxx, Xxxxxx e Xxxxx. In caso di esito positivo di detto accertamento, chiede altresì che i modelli appena citati non vengano più né prodotti, né commercializzati, né tantomeno pubblicizzati in quanto, tali azioni, costituirebbero un’ulteriore violazione dei diritti che Hermès, con il proprio marchio, detiene sui predetti modelli di borse oggetto di registrazione.
In aggiunta, la parte attrice chiede la comminazione a Xxxxxxxx s.r.l. di un provvedimento pecuniario a titolo di penale consistente nel pagamento, per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della sentenza, di una somma non inferiore a duemila euro e, per ogni modello messo in commercio da Xxxxxxxx s.r.l. dopo l’emanazione della sentenza, una somma pari a cinquecento euro.
Sempre in tema di sanzioni pecuniarie, la casa di moda francese formula, infine, domanda di risarcimento dei danni subiti in seguito alla vendita delle borse riproducenti i propri modelli, da liquidarsi in via equitativa nel caso in cui non possa essere misurato e provato nel suo preciso ammontare. In alternativa o in cumulo, Hermès chiede il pagamento di somma equivalente all’utile netto che Xxxxxxxx s.r.l. avrebbe ricavato dalla vendita dei prodotti in questione.
Tra le istanze di parte attrice vi è anche quella di ottenere la pubblicazione della sentenza in due quotidiani nazionali e almeno in una rivista di moda; la volontà è evidentemente quella di rendere noto agli altri operatori di moda il danno subìto e di informare il consumatore finale del comportamento scorretto della società torinese.
In via istruttoria, invece, parte attrice richiede che il Giudice ordini a Xxxxxxxx s.r.l. l’esibizione di qualsiasi tipo di informazione necessaria per individuare il numero e il prezzo delle borse commercializzate a partire dal 2003106 dalla società torinese.
Oltre a ciò, interpella il Giudice circa la prova testimoniale di Xxxxxxxx s.r.l. su quattro questioni importanti dedotte nei seguenti capitoli di prova:
- conferma in merito alla visita avvenuta in data 25 novembre 2007 presso il punto vendita di Xxxxxxxx s.r.l. per conto di rappresentanti di Hermès, direttamente incaricati dalla casa di moda francese; l’obiettivo era verificare la produzione dei modelli oggetto della sentenza;
- ammissione sul fatto che la commessa, durante quella visita, spiegava ai suddetti incaricati che alcuni modelli realizzati dalla società torinese
106 Art. 121 bis, c.p.i.. venivano fatti su richiesta dei clienti, mentre altri ricalcavano i modelli di Hermès;
- conferma che in merito ad un preciso modello, ossia Xxxxx, durante la suddetta visita la commessa di Xxxxxxxx x.x.x. aveva mostrato una borsa descrivendola e paragonandola al modello di produzione della casa francese;
- infine, sempre con riferimento al modello Lindy, conferma che l’addetta alle vendite della convenuta aveva esplicitamente detto che il modello di borsa mostrato era proprio quello di Hermès, che si trattava di un modello nuovo e di difficile reperimento.
Tali prove testimoniali sono utili in quanto, se confermate, dimostrerebbero l’attività di concorrenza sleale della convenuta nei confronti di Hermès in merito al modello Lindy.
2.2.2 Le conclusioni della convenuta
Xxxxxxxx s.r.l., alle accuse avanzate dalla casa di moda francese, risponde principalmente focalizzandosi sulla nullità di alcuni marchi di cui Hermès è titolare. Essa vuole porre in evidenza e dimostrare come i marchi registrati, di seguito nominati, siano invalidi a causa di specifici impedimenti assoluti e relativi. La difesa della società torinese si concentra quindi nel dimostrare la mancanza, in capo ad Hermes, dei diritti di utilizzazione esclusiva che si acquisiscono in seguito alla registrazione di un marchio comunitario e nazionale supportandola con specifiche motivazioni.
La prima accusa che la convenuta muove nei confronti di parte attrice riguarda due marchi di forma italiani, per i quali chiede al Tribunale di verificare, in via preliminare, la carenza di legittimazione attiva della maison francese. Si tratta dei marchi numero 882872 e 882873, i quali fanno riferimento alla forma del risvolto in pelle che costituisce il sistema di chiusura della borsa sul quale è posta la lettera H, simbolo del brand francese.
I marchi italiani 882872 e 882873
La domanda di marchio numero 882872 è stata depositata dalla società Hermès Italie s.p.a. l’8 gennaio 2003 e la registrazione ottenuta il 6 febbraio 2003 presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Xxxxxx. Il segno corrisponde alla forma e decorazione del dispositivo di chiusura di una borsa o simili, caratterizzato da un risvolto presentante una zona rastremata cui si sovrappone una cinghia le cui estremità si impegnano con una chiusura assicurata da un lucchetto la cui faccia anteriore è decorata con una lettera h stilizzata. Esso è stato registrato per prodotti che rientrano nella classe numero 18 della classificazione di Nizza vigente al momento del deposito (nona edizione); rientra nella categoria comprendente articoli di pelletteria in cuoio o imitazione del cuoio, borse, borsette, portachiavi, portamonete. Tale marchio tutela il modello Birkin.
Figura 2.1. Marchio n. 882872
Il marchio numero 882873 è stato invece registrato per proteggere il modello Xxxxx e la titolarità appartiene sempre ad Hermès Italie s.p.a.. La data del deposito e della registrazione coincidono con quelle del marchio precedente; anche la descrizione del marchio e la classe di appartenenza alla classificazione di Nizza corrispondono. Per entrambi i marchi è stato richiesto il rinnovo della registrazione il 12 dicembre 2013 ed è stato concesso in data 6 febbraio 2013; la protezione di un marchio nazionale ha infatti durata di un decennio a partire dalla data di registrazione.
Figura 2.2. Marchio n. 882873
Successivamente a tale verifica, la convenuta chiede in via riconvenzionale che venga dichiarata la nullità e l’invalidità di ulteriori marchi della parte attrice, di seguito descritti.
Il marchio italiano 1003725
Depositato il 10 maggio 2002 e registrato il 13 aprile 2006 presso l’Ufficio Italiano Xxxxxxxx e Marchi da Hermès International s.c.p.a., tutela il modello di xxxxx Xxxxx. La descrizione del marchio nella domanda di registrazione corrisponde alla “forma di una borsa per signore caratterizzata da un fondo rettangolare allungato a due facce principali sostanzialmente rettangolari di cui quella posteriore si estende con un risvolto che, a borsa chiusa, copre la zona superiore della faccia anteriore; il risvolto presenta una zona rastremata in corrispondenza della quale due cinghie che si estendono dai lati della faccia posteriore attraverso le facce laterali, fuoriescono dalle feritoie nella faccia anteriore e sono atte ad impegnarsi con il dispositivo di chiusura della borsa; la chiusura essendo assicurata da un lucchetto la cui faccia anteriore presenta una lettera H stilizzata”. Sostanzialmente, si protegge la forma della borsa in questione.
Figura 2.3. Il marchio di forma italiano n. 1003725 Il marchio comunitario 002083327
Il marchio comunitario in questione tutela, come il precedente, il modello di xxxxx Xxxxx. E’ stato depositato il 9 febbraio 2001 e registrato il 14 giugno 2005 da Hermès International presso l’UAMI. Tale marchio consiste “nella rappresentazione di una borsetta da signora caratterizzata dal fatto che la patta, di forma rettangolare da ambo i lati e disposta nella parte superiore del lato frontale della borsetta, è trattenuta da una «cinghia» composta da due strisce che si dipartono rispettivamente dal bordo esterno del retro della borsetta per arrivare, passando attraverso i fianchi della borsetta, al lato frontale della borsetta, dove sono tenute insieme da una chiusura con lucchetto”. Il marchio registrato protegge il sistema di chiusura della borsa.
Figura 2.4. Il marchio comunitario n. 002083327
Il marchio italiano 1003726
Il marchio di forma in questione è stato depositato da Hermès International il 10 maggio 2002 e registrato il 13 aprile 2006 a protezione della Birkin. Consiste “nella forma di una borsa per signora caratterizzata da un fondo rettangolare allungato a due facce principali sostanzialmente rettangolari di cui quella posteriore si estende con un risvolto che, a borsa chiusa, copre la zona superiore della faccia anteriore; il risvolto presenta una zona rastremata in corrispondenza della quale due cinghie che si estendono dai lati della faccia posteriore attraverso le facce laterali, fuoriescono dalle feritoie nella faccia anteriore e sono atte ad impegnarsi con il dispositivo di chiusura della borsa; il risvolto della faccia posteriore presenta due intagli che si estendono dal bordo fino alla zona di collegamento del manico al corpo della borsa; la chiusura essendo assicurata da un lucchetto la cui faccia anteriore presenta una lettera H stilizzata”. La descrizione è simile a quella del marchio n. 1003725 a protezione della Kelly, ma si differenzia per un particolare: il risvolto posteriore della Birkin, che copre la parte anteriore della borsa, presenta due intagli proprio in corrispondenza del punto in cui il manico si attacca alla parte anteriore. Il risvolto della Xxxxx, invece, non presenta alcun intaglio: esso ricopre la parte anteriore con una patta senza intagli.
Figura 2.5. Il marchio di forma italiano n. 1003726 Il marchio comunitario 004467247
Depositato il 26 maggio 2005 e registrato l’11 maggio 2007 consiste in un marchio tridimensionale e non denominativo. La titolarità appartiene ad Hermès International s.c.p.a. e non è corredato di descrizione. Il marchio corrisponde sostanzialmente alla forma descritta per il marchio numero 1003726, lucchetto escluso.
Figura 2.6. Il marchio comunitario n. 004467247
Proseguendo, sempre in via riconvenzionale Xxxxxxxx s.r.l. chiede, in subordine, e quindi previo accoglimento delle domande delle attrici, che le borse oggetto di sequestro da se medesima prodotte possano essere modificate, permettendo così il recupero del pellame e il suo riutilizzo per la realizzazione di ulteriori prodotti. Tale facoltà è prevista dal comma terzo dell’art. 124107 del codice di proprietà industriale.
Passando ora alle richieste avanzate in via istruttoria, la società torinese richiede, innanzitutto, la disposizione di una consulenza tecnica d’ufficio (CTU) per le borse Kelly e Birkin, qualora il Tribunale rilevasse elementi di invalidità del marchio. In tale occasione si dovrebbe verificare se i marchi registrati per le borse menzionate costituiscano o meno segni la cui forma è imposta dalla natura del prodotto, se essa è necessaria per ottenere un risultato tecnico o se conferisce un valore sostanziale al prodotto. Nel caso si verifichi solamente una delle situazioni appena descritte, il marchio di forma in oggetto deve essere considerato invalido per la ricorrenza di un impedimento assoluto alla registrazione. La seconda questione che la consulenza tecnica è richiesta di approfondire riguarda la novità di un marchio e la sua capacità distintiva, in quanto caratteristiche necessarie per la sua registrazione. Nel momento in cui si deposita la domanda per un marchio, infatti, il marchio non deve essere identico o simile a segni che già sono presenti nel mercato e che identificano e contraddistinguono prodotti o servizi identici o affini. Queste verifiche sarebbero più attendibili se effettuate da un esperto del settore della moda109.
La suddetta consulenza tecnica è richiesta anche in merito al modello Lindy e, attraverso la stessa, si intende confrontare il modello realizzato da Hermès con quello della società torinese al fine di verificare se essi possono indurre in confusione un utilizzatore informato, ossia un soggetto dotato di una soglia di attenzione maggiore rispetto ad un consumatore medio. Si vuole, in altre parole, stabilire se i due modelli suscitino un’impressione generale uguale o diversa. A tale fine, saranno messe a confronto, tra le altre cose, le dimensioni dei prodotti e si discuterà se il borsone della società torinese costituisce effettivamente una copia della Lindy di Hermès. Ovviamente, la consulenza sarà favorevole a Xxxxxxxx s.r.l. nella misura in cui si accertino numerose differenze tra le due borse.
I modelli 000573555-0016 e 000573555-0017.
Il modello di borsa Xxxxx è protetto dalla registrazione di due modelli comunitari: il numero 000573555-0016 e 000573555-0017. Il primo è di proprietà di Hermès Sellier, depositato il 7 agosto 2006 ed è stato registrato lo stesso giorno. Secondo la banca dati Eurolocarno111, il prodotto in questione appartiene alla categoria “sacche”; Xxxxx ha infatti una conformazione che richiama quella propria di una sacca piuttosto che di una borsa. Questo modello ha ottenuto il rinnovo il 23 giugno 2011.
Figura 2.7. Il modello comunitario n. 000573555-0016