Dispensa di diritto civile n. 6
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Dispensa di diritto civile n. 6
La responsabilità contrattuale con particolare riguardo alla responsabilità sanitaria.
Indice
1. AL CREDITORE NON COMPETE L’ONERE DELLA PROVA DELL’INADEMPIMENTO: Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxx, 00 ottobre 2011, n. 13533
2. E'POSSIBILE PROPORRE PER LA PRIMA VOLTA IN CORSO DI GIUDIZIO LA DOMANDA RISARCITORIA EX ART. 1453 C.C.: Corte di Cassazione, Sezioni Unite 11 aprile 2014, n.8510
3. XXXXXXXXX’ MEDICO-CHIRURGICA: Corte di Cassazione, sez. III, sentenza del 29 febbraio 2016, n. 3893
4. IL CONSENSO INFORMATO-ONERE DELLA PROVA E AREA DEI DANNI RISARCIBILI:
4.1 Cassazione Civile sez. III, 19 maggio 2011, n. 11005
4.2 Xxxxx xx Xxxxxxxxxx xxxxxx, xxx. XXX, 00 settembre 2015, n. 19212
4.3 Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, xxx. XXX, 00 giugno 2015, n. 12205
5. CONCORSO COLPOSO DEL DANNEGGIATO, art. 1227 comma 1 c.c.: Corte di Cassazione, Sezioni Unite 21 novembre 2011, n. 24406
6. DANNO EVITABILE ex art. 1227 comma 2 c.c.:
6.1 Corte di Cassazione, sentenza n. 11230 del 31 maggio 2016;
6.2 Corte di Cassazione, sez. lav., sentenza n. 4865 del 11 marzo 2016
7. MALATTIE TERMINALI E DIRITTI ALL'AUTODETERMINAZIONE: Xxxxx xx Xxxxxxxxxx 00 ottobre 2007, n. 21748
Selezione giurisprudenziale
1. AL CREDITORE NON COMPETE L’ONERE DELLA PROVA DELL’INADEMPIMENTO: Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxx, 00 ottobre 2011, n. 13533
Il creditore, sia che agisca per l'adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l'inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall'avvenuto adempimento.
Eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile nel caso in cui il debitore, convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno da inadempimento, si avvalga dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. per paralizzare la pretesa dell'attore.
In tale eventualità i ruoli saranno invertiti.
Una eccezione all'affermato principio va invece ravvisata nel caso di inadempimento di obbligazioni negative.
1. Il denunciato contrasto riguarda la posizione del creditore e del debitore, in tema di onere della prova, a norma dell'art. 2697 c.c., relativamente ai rimedi offerti al creditore dall'art. 1453 c.c., nel caso di inadempimento del debitore nei contratti a prestazioni corrispettive.
(omissis)
Il contrasto si pone nei seguenti termini.
1.1. Un primo orientamento, maggioritario, sostiene che il regime probatorio è diverso secondo che il creditore richieda l'adempimento ovvero la risoluzione.
Si afferma che, in materia di obbligazioni contrattuali, l'onere della prova dell'inadempimento incombe al creditore, che è tenuto a dimostrarlo, oltre al contenuto della prestazione stessa, mentre il debitore, solo dopo tale prova, è tenuto a giustificare l'inadempimento che il creditore gli attribuisce. Infatti, ai fini della ripartizione di detto onere, si deve avere riguardo all'oggetto specifico della domanda, talché, a differenza del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, ove è sufficiente che l'attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioè l'esistenza del contratto, e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto, nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per l'inadempimento dell'obbligazione, l'attore è tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze inerenti, in funzione delle quali esso assume giuridica rilevanza, spettando al convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa, solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento (omissis).
1.1.1. La tesi trova sostegno nei seguenti argomenti.
Viene valorizzata la distinzione tra i rimedi congiuntamente previsti dall'art. 1453 c.c., rilevando che si tratta di azioni con le quali vengono proposte domande con diverso oggetto (adempimento, risoluzione, risarcimento del danno).
Si osserva che nella azione di adempimento il fatto costituivo è il titolo, costituente la fonte negoziale o legale del diritto di credito, sicché la prova che il creditore deve fornire, ai sensi dell'art. 2697, comma 1, deve avere ad oggetto soltanto tale elemento. Al contrario, nella azione di risoluzione, la domanda si fonda su due elementi: il titolo, fonte convenzionale o legale dell'obbligazione, e l'inadempimento dell'obbligo, sicché la prova richiesta al creditore deve riguardarli entrambi, trattandosi di fatti costituitivi del diritto fatto valere, ai sensi dell'art. 2697, comma 1.
Si ritiene irrilevante che l'inadempimento, elevato ad oggetto dell'onere probatorio, sia un fatto negativo, opponendosi che, per costante giurisprudenza, anche i fatti negativi possono essere provati fornendo prova dei fatti positivi contrari (in tal senso: sent. n. 3644/82; n. 13872/91; n. 12746/92; n. 5744/93).
1.1.2. L'orientamento maggioritario trova riscontro anche in una parte della dottrina, nella quale si rinvengono analoghe argomentazioni.
1.2. Il contrapposto indirizzo, minoritario, tende invece a ricondurre ad unità il regime probatorio da applicare in riferimento a tutte le azioni previste dall'art. 1453 c.c., e cioè all'azione di adempimento, di risoluzione e di risarcimento del danno da inadempimento richiesto in via autonoma (facoltà pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di questa S.C.: sent. n. 3911/68; n. 3678/71; n. 1530/88).
Si è affermato che l'azione di risoluzione per inadempimento prevista dall'art. 1453 c.c. e quelle di adempimento e di risarcimento dei anch'esse da detta norma hanno in comune il vincolo contrattuale di cui si deduce lafrustrazione ad opera dell'altro contraente, sicché alla parte che le propone non può addossarsi altro onere, dell'art. 2697 c.c., che di provare l'esistenza titolo e, quindi, l'insorgenza di obbligazioni connesse, incombendo alla controparte, invece, della prova di avere adempiuto (sent. n. 10446/94).
Altre decisioni hanno ribadito che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c:c. in materia di responsabilità contrattuale è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale; in entrambi i casi il creditore dovrà provare i fatti costitutivi della pretesa, cioè l'esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, il termine di scadenza, e non anche l'inadempimento, mentre il debitore dovrà eccepire e dimostrare il fatto estintivo dell'adempimento (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).
1.2.1. La tesi trova sostegno nei seguenti argomenti.
Dall'art. 2697 c.c., che richiede all'attore la prova del diritto fatto valere ed al convenuto la prova della modificazione o dell'estinzione del diritto stesso, si desume il principio della presunzione di persistenza il principio - pacificamente applicabile all'ipotesi della domanda di adempimento, in relazione alla quale il creditore deve provare l'esistenza della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, del termine di scadenza, in quanto si tratta di fatti costitutivi del diritto di credito, ma non l'inadempimento, giacché è il debitore a dover provare l'adempimento, fatto estintivo dell'obbligazione -, deve trovare applicazione anche alle ipotesi in , cui il creditore agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno da inadempimento richiesto (omissis)
Xxxxxxxx estensione trova giustificazione nella considerazione che, dovendo le norme essere interpretate secondo un criterio di ragionevolezza, appare irrazionale che di fronte ad una identica situazione probatoria della ragione del credito, e cioè dell'esistenza dell'obbligazione contrattuale e del diritto ad ottenerne l'adempimento, vi sia una diversa disciplina dell'onere probatorio, solo perché il creditore sceglie di chiedere (la risoluzione o) il risarcimento in denaro del danno determinato dall'inadempimento in luogo dell'adempimento, se ancora possibile, o del risarcimento in forma specifica (sent. n. 973/96).
L'esenzione del creditore dall'onere di provare il fatto negativo dell'inadempimento in tutte le ipotesi di cui all'art. 1453 c.c. ( e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell'onere di fornire la prova del fatto positivo dell'avvenuto adempimento, è conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova. In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l'onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione. Xx appare coerente alla regola dettata dall'art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell'adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell'adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione (sent. n. 973/96; n. 3232/98; n. 11629/99).
1.2.2. L'orientamento minoritario riceve l'approvazione di larga parte della dottrina, che svolge analoghe argomentazioni. .
2. Il contrasto va composto aderendo all'indirizzo minoritario.
2.1. Per quanto concerne la disciplina dell'onere della prova, va ricordato che l'art. 1312 del codice civile del 1865 disponeva che: "Chi domanda l'esecuzione di un'obbligazione deve provarla e chi pretende essere liberato deve dal canto suo provare il pagamento o il fatto che ha prodotto l'estinzione dell'obbligazione."
Veniva quindi regolata specificamente la sola ipotesi dell'onere probatorio in relazione alla domanda di adempimento.
L'art. 2697 del codice civile vigente ha invece dettato una disciplina generale in tema di riparto dell'onere della prova, senza riferimento a specifici tipi di domande.
La formulazione generale del principio è quindi di ostacolo alla formulazione di temi fissi di prova. Xx occorre considerare che, al fine in esame, assume certamente rilevanza il ruolo assunto dalla parte nel processo.
Tuttavia, con riferimento ai tre rimedi congiuntamente previsti dall'art. 1453 c.c. appare opportuno individuare un criterio di massima caratterizzato, nel maggior grado possibile, da omogeneità. L'eccesso di distinzioni di tipo concettuale e formale è sicuramente fonte di difficoltà per gli operatori pratici del diritto, le cui esigenze di certezza meritano di essere tenute nella dovuta considerazione.
2.2. Ritengono queste Sezioni unite di prestare adesione all'indirizzo minoritario, del quale condividono le principali argomentazioni.
2.2.1. Il principio della presunzione di persistenza del diritto, desumibile dall'art. 2697, in virtù del quale, una volta provata dal creditore l'esistenza di un diritto destinato ad essere soddisfatto entro un certo termine grava sul debitore l'onere di dimostrare l'esistenza del fatto estintivo, costituito dall'adempimento, deve ritenersi operante non solo nel caso in cui il creditore agisca per l'adempimento; nel quale caso deve soltanto provare il titolo contrattuale o legale del suo diritto, ma anche nel caso in cui, sul comune presupposto dell'inadempimento della controparte, agisca per la risoluzione o per il risarcimento del danno.
2.2.2. La ravvisata omogeneità del regime dell'onere della prova per le tre azioni previste dall'art. 1453 c.c. consegue infatti ad una interpretazione delle norme che vengono in gioco nella specie (Part. 1453 in relazione agli artt. 1218 e 2697 c.c.) secondo un criterio di ragionevolezza.
La domanda di adempimento, la domanda di risoluzione per inadempimento e la domanda autonoma di risarcimento del danno da inadempimento si collegano tutte al medesimo presupposto, costituito dall'inadempimento. Servono tutte a far statuire che il debitore non ha adempiuto: le ulteriori pronunce sono consequenziali a questa, che rimane eguale a se stessa quali che siano i corollari che ne trae l'attore.
Le azioni di adempimento e di risoluzione sono poste dall'art. 1453 sullo stesso piano, tanto è vero che il creditore ha facoltà di scelta tra l'una o l'altra azione. Non è ragionevole attribuire diversa rilevanza al fatto dell'inadempimento a seconda del tipo di azione che viene in concreto esercitata. Se la parte che agisce per l'adempimento può limitarsi (come è incontroverso) ad allegare (senza onere dì provarlo) che adempimento non vi è stato, eguale onere limitato alla allegazione va riconosciuto sussistente nel caso in cui invece dell'adempimento la parte richieda, postulando pur sempre che adempimento non vi è stato, la risoluzione o il risarcimento del danno.
D'altra parte, va anche rilevato che l'art. 1453, comma 2, che consente di sostituire in giudizio alla domanda di adempimento la domanda di risoluzione (art. 1453, comma 2) ha riconnesso l'uno e l'altro diritto ad un'unica fattispecie, e non ha condizionato il mutamento della domanda all'accollo di un nuovo onere probatorio.
2.2.3. L'identità del regime probatorio, per i tre rimedi previsti dall'art. 1453, merita di essere affermata anche per
palesi esigenze di ordine pratico.
La difficoltà per il creditore di fornire la prova di non aver ricevuto la prestazione, e cioè di fornire la prova di un fatto negativo (salvo che si tratti di inadempimento di obbligazioni negative), è superata dai sostenitori dell'orientamento maggioritario con l'affermazione che nel vigente ordinamento non vige la regola secondo la quale "negativa non sunt probanda", ma opera il principio secondo cui la prova dei fatti negativi può essere data mediante la prova dei fatti positivi contrari.
Si tratta tuttavia di una tecnica probatoria non agevolmente praticabile: il creditore che deduce di non essere stato pagato avrà serie difficoltà ad individuare, come oggetto di prova, fatti positivi contrari idonei a dimostrare tale fatto negativo; al contrario, la prova dell'adempimento, ove sia avvenuto, sarà estremamente agevole per il debitore, che di regola sarà in possesso di una quietanza (al rilascio della quale ha diritto: art. 1199 c.c.) o di altro documento relativo al mezzo di pagamento utilizzato.
Si rivela quindi conforme all'esigenza di non rendere eccessivamente difficile l'esercizio del diritto del creditore a reagire all'inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del principio di riferibilità o di vicinanza della prova, ponendo in ogni caso l'onere della prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento, e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, sia questa diretta all'adempimento, alla risoluzione o al risarcimento del danno, fornendo la prova del fatto estintivo del diritto azionato, costituito dall'adempimento.
2.2.4. In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l'adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l'inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall'avvenuto adempimento.
3. Eguale criterio di riparto dell'onere della prova deve ritenersi applicabile nel caso in cui il debitore, convenuto per l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno da inadempimento, si avvalga dell'eccezione di inadempimento di cui all'art. 1460 c.c. per paralizzare la pretesa dell'attore.
In tale eventualità i ruoli saranno invertiti.
Chi formula l'eccezione può limitarsi ad allegare l'altrui inadempimento: sarà la controparte a dover neutralizzare l'eccezione, dimostrando il proprio adempimento o la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione a suo carico (in tal senso: sent. n. 3099/87; n. 13445/92; n. 3232/98).
4. Anche secondo i fautori della tesi che esenta il creditore dall'onere di provare l'inadempimento, qualora richieda la risoluzione o il risarcimento del danno in via autonoma, e pongono a carico del debitore, in entrambi i casi, l'onere di provare l'adempimento come fatto estintivo del diritto azionato (alla stessa stregua di quanto avviene nel caso di proposizione della domanda di adempimento), la regola non vale qualora sia dedotto, a fondamento della domanda di risoluzione o di risarcimento del danno, un inesatto adempimento: in tale ipotesi affermano che il creditore non può limitarsi ad allegare l'inesatto adempimento, ma ne deve fornire la prova (in tal senso, tra le decisioni che accolgono l'orientamento minoritario, x. xxxx. x. 00000/00).
In dottrina si rileva che, in tale eventualità, il creditore ammette l'avvenuto adempimento, ma lamenta vizi, difetti o difformità della prestazione eseguita rispetto a quella dovuta, dei quali deve dare la prova.
4.1. La tesi non merita adesione.
Le richiamate esigenze di omogeneità del regime probatorio inducono ad estendere anche all'ipotesi dell'inesatto adempimento il principio della sufficienza dell'allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando anche in tale eventualità sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto esatto adempimento.
Appare artificiosa la ricostruzione della vicenda secondo la quale il creditore che lamenta un inadempimento inesatto manifesterebbe, per implicito, la volontà di ammettere l'avvenuto adempimento. In realtà, il creditore esprime una ben precisa ed unica doglianza, incentrata sulla non conformità del comportamento del debitore al programma negoziale, ed in ragione di questa richiede tutela, domandando l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento.
D'altra parte, la diversa consistenza dell'inadempimento totale e dell'inadempimento inesatto non può giustificare il diverso regime probatorio. In entrambi i casi il creditore deduce che l'altro contraente non è stato fedele al contratto. Non è ragionevole ritenere sufficiente l'allegazione per l'inadempimento totale (massima espressione di infedeltà al contratto) e pretendere dal creditore la prova del fatto negativo dell'inesattezza, se è dedotto soltanto un inadempimento inesatto o parziale (più ridotta manifestazione di infedeltà al contratto). In entrambi i casi la pretesa del creditore si fonda sulla allegazione di un inadempimento alla quale il debitore dovrà contrapporre la prova del fatto estintivo costituito dall'esatto adempimento.
5. Una eccezione all'affermato principio va invece ravvisata nel caso di inadempimento di obbligazioni negative.
Ove sia dedotta la violazione di una obbligazione di non fare, la prova dell'inadempimento è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l'adempimento.
5.1. Il diverso regime è giustificato dalle seguenti considerazioni.
Ai sensi dell'art. 1222 c.c., ogni fatto compiuto in violazione di obbligazioni di non fare costituisce di per sé inadempimento. L'inadempimento di siffatte obbligazioni integra un fatto positivo e non già un fatto negativo come avviene per le obbligazioni di dare o di fare.
Comune presupposto dei rimedi previsti dall'art. 1453 c.c. è quindi un inadempimento costituito da un fatto positivo (l'esecuzione di una costruzione, lo svolgimento di una attività).
Non opera quindi, qualora il creditore agisca per l'adempimento, richiedendo l'eliminazione delle modificazioni della realtà materiale poste in essere in violazione dell'obbligo di non fare, ovvero la risoluzione o il risarcimento, nel caso di violazioni con effetti irreversibili, il principio della persistenza del diritto insoddisfatto, perché nel caso di obbligazioni negative il diritto nasce soddisfatto e ciò che viene in considerazione è la sua successiva violazione, né sussistono le esigenze pratiche determinate dalla difficoltà di fornire la prova di fatti negativi sulle quali si fonda il principio di riferibilità della prova, dal momento che l'inadempimento dell'obbligazione negativa ha natura di fatto positivo.
2. E'POSSIBILE PROPORRE PER LA PRIMA VOLTA IN CORSO DI GIUDIZIO LA DOMANDA RISARCITORIA EX ART. 1453 C.C.: Corte di Cassazione, Sezioni Unite 11 aprile 2014, n.8510
La parte che, ai sensi dell'art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello "ius variandi", oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale.
(omissis)
5.1. - Il motivo interroga queste Sezioni Unite sul se il contraente fedele possa introdurre nel corso del giudizio la domanda di risarcimento del danno, ex novo e contestualmente al mutamento, consentito dall'art. 1453 c.c., comma 2, della originaria domanda di adempimento del contratto in quella di risoluzione del contratto inadempiuto.
5.2. - Come ricordato dalla Seconda Sezione nell'ordinanza interlocutoria, sul punto si confrontano due orientamenti, uno che nega, l'altro che ammette la possibilità di affiancare la domanda di risarcimento del danno a quella, nascente dalla conversione della originaria domanda di adempimento, di risoluzione del contratto per inadempimento.
5.2.1. - Il primo, restrittivo, è scolpito nel principio di diritto enunciato da Sez. 2^ 23 gennaio 2012, n. 870, in base al quale l'art. 1453 x.x., xxxxx 0, xxxxxx xxxx xxxxx processuali che vietano la mutatio libelli nel corso del processo, nel senso di permettere la sostituzione della domanda di adempimento del contratto con quella di risoluzione per inadempimento, ma tale deroga non si estende alla domanda ulteriore di risarcimento del danno consequenziale a quella di risoluzione, trattandosi di domanda del tutto diversa per petitum e causa petendi rispetto a quella originaria. (omissis)
Alla base di questo indirizzo vi è la presa d'atto che la facoltà concessa dall'art. 1453 c.c., comma 2, al contraente non inadempiente di mutare l'originaria domanda di adempimento in quella di risoluzione, apporta una vistosa eccezione - come tale di stretta applicazione - alla regola del divieto assoluto di modifica della domanda, che cala all'esito dell'udienza di trattazione della causa o della sua propaggine rappresentata dalla memoria ex art. 183 c.p.c..
E poiché l'introduzione, nel corso del giudizio, ancorchè contemporaneamente all'esercizio dello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, della domanda risarcitoria affiancata alla (consentita) domanda di risoluzione, comporta l'introduzione di un ulteriore tema d'indagine e di un nuovo petitum, sono destinate a trovare
applicazione le preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c.. La deroga al divieto di mutatio libelli non opera, quindi, per la domanda di risarcimento dei danni, fatta salva in ogni caso dal primo comma dell'art. 1453 cod. civ., integrando questa un'azione del tutto diversa, per causa petendi e per petitum, dalle altre due, sia da quella con cui è stato attivato il rimedio manutentivo, sia da quella con cui è stato chiesto lo scioglimento del contratto per inadempimento.
Espressione del medesimo orientamento che vede nello ius variandi di cui all'art. 1453 c.c., comma 2, una previsione eccezionale, è la regola che ammette la proponibilità della domanda di risoluzione solo se anteriormente è stato chiesto l'adempimento: il mutamento, invece, non può avvenire quando in un primo tempo l'attore si è limitato a chiedere il risarcimento del danno (Sez. 3^ 30 marzo 1984, n. 2119, seguita da Sez. 3^ 9 aprile 1998, n. 3680, da Sez. 3^ 26 aprile 1999, n. 4164, e da Sez. 3^ 27 luglio 2006, n. 17144).
Simmetricamente, se in un primo tempo è stato domandato l'adempimento, non è possibile chiedere in corso di causa il risarcimento: tornano ad applicarsi le norme processuali che precludono la proposizione di domande nuove (omissis).
5.2.2. - Al secondo indirizzo, che invece ammette la possibilità di affiancare la domanda risarcitoria contestualmente al passaggio al rimedio ablativo, è riconducibile Sez. 2^ 31 maggio 2008, n. 26325.
Vi si afferma che "la facoltà prevista dall'art. 1453 x.x., xxxxx 0, xx xxxxxxxxx xxxxx xxxxxxx di adempimento in quella di risoluzione contrattuale in deroga al divieto di mutatio libelli si estende anche alla conseguente domanda di risarcimento danni (nonché per le stesse ragioni a quella di restituzione del prezzo (...)), essendo quest'ultima domanda sempre proponibile quale domanda accessoria sia di quella di adempimento sia di quella di risoluzione, come espressamente previsto dall'art. 1453 c.c., comma 1".
(omissis) Il principio è stato incidentalmente richiamato e confermato da queste Sezioni Unite con la sentenza 18 febbraio 1989, n. 962, precisandosi che esso è destinato a valere "nel caso... in cui la domanda di risoluzione sia, come deve essere, fondata sullo stesso fatto costitutivo della domanda d'adempimento (ovvero, senza che ad esso siano sostituiti altri elementi materiali, tali da integrare una nuova causa petendi) e la connessa domanda di risarcimento dei danni, malgrado ciò, sia diretta a conseguire un ristoro patrimoniale essenzialmente diverso, per qualità e quantità, da quello perseguito con la prima domanda di danni, restando peraltro inalterata la causa petendi della domanda principale".
La giurisprudenza ammette altresì che, in occasione della mutatio, possa essere avanzata ex novo, accanto alla domanda di risoluzione, quella di restituzione del praestatum Sez. 2^ 27 novembre 1996, n. 10506, e Sez. 2^ 27 maggio 2010, n. 13003, declamano che la facoltà di poter mutare nel corso del giudizio di primo grado, nonché in appello e persino in sede di rinvio la domanda di adempimento in quella di risoluzione in deroga al divieto di mutatio libelli sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., xxxxxxxxx si resti nell'ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema d'indagine, comporta che, in tema di contratto preliminare di compravendita, qualora sia sostituita la domanda di adempimento con quella di risoluzione, il contraente deluso possa chiedere la restituzione della somma versata a tiolo di prezzo, quale domanda consequenziale a quella di risoluzione, implicando l'accoglimento di questa, per l'effetto retroattivo espressamente previsto dall'art. 1458 cod. civ., l'obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, onde di tale domanda - si afferma - il giudice può decidere anche se su di essa non vi sia stata accettazione del contraddittorio.
6. - Il contrasto va composto aderendo all'indirizzo espresso dall'orientamento estensivo, dovendo riconoscersi che lo ius variandi possa esercitarsi in modo completo affiancando alla domanda di risoluzione, non solo quella di restituzione, ma anche quella di risarcimento dei danni.
7. - L'art. 1453 x.x., xxxx'xxxxxxxxxx xx xxxxxxxxxx xxxxxx xx xxxxxxx xx xxxxxxxx "x sua scelta" l'adempimento o la risoluzione del contratto, offre alla parte che, con la domanda di adempimento, abbia inizialmente puntato all'attuazione del contratto sul presupposto del suo mantenimento, anche la possibilità - a fronte di un inadempimento che, nel prolungarsi del giudizio, perdura o si aggrava - di rivedere la propria scelta, e, perduti la speranza o l'interesse rispetto alla prestazione, di reagire all'inattuazione dello scambio contrattuale
passando alla domanda di risoluzione per inadempimento, onde veder cancellato e rimosso l'assetto di interessi disposto con il negozio.
Il codice civile, nell'accordare la facoltà di scegliere tra la condanna del debitore all'adempimento e la risoluzione del contratto, in considerazione dell'interesse al conseguimento tardivo della prestazione, se ed in quanto ancora realizzabile, al contempo non vincola il contraente non inadempiente ad una scelta irrevocabile, quale risulterebbe dall'avere "optato per l'adempimento senza la possibilità di chiedere successivamente la risoluzione all'esito infruttuoso della domanda di adempimento" (Sez. Un. 18 febbraio 1989, n. 962, cit.).
Lo ius variandi si giustifica con il fatto che le due azioni, quella di adempimento e quella di risoluzione, pur avendo un diverso oggetto, mirano a risultati coordinati e convergenti dal punto di vista dello scopo. Nei contratti a prestazioni corrispettive, l'azione di adempimento e quella di risoluzione costituiscono due diversi rimedi giuridici a tutela del diritto che dal rapporto sostanziale deriva al contraente in regola: pur presentando diversità di petitum, entrambe mirano a soddisfare lo stesso interesse del creditore insoddisfatto, consistente nell'evitare il pregiudizio derivante dall'inadempimento della controparte (Sez. 2^ 29 novembre 2011, n. 15171). E lo testimonia il fatto che la proposizione della domanda di adempimento ha effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di chiedere la risoluzione del contratto, il quale potrà essere esercitato fino a quando il termine prescrizionale non sarà nuovamente decorso per intero (Sez. Un. 10 aprile 1995, n. 4126).
(omissis)
Prevedendo la reversibilità della scelta inizialmente espressa per la manutenzione del contratto ed offrendo al creditore che ha chiesto l'adempimento la possibilità di cambiare idea e di chiedere la risoluzione, il codice detta, anzitutto, una norma di diritto sostanziale che disciplina l'esercizio di un'opzione tra i diversi mezzi di reazione all'altrui inadempimento: un diritto che non può essere ostacolato dall'anteriore scelta per il rimedio manutentivo.
(omissis)
Lo ius variandi, pur non dovendo necessariamente esercitarsi nel processo rivolto ad ottenere l'adempimento, ha tuttavia una valenza sicuramente processuale, come dimostra la stessa formulazione letterale dell'art. 1453 c.c., comma 2, che, guardando alla dimensione giudiziale dell'istituto, discorre di risoluzione che "può essere domandata" e di "giudizio... promosso per ottenere l'adempimento". L'esercizio del potere del contraente non inadempiente di provocare lo scioglimento del contratto non può essere pregiudicato dalla pendenza del giudizio promosso per ottenere l'adempimento.
Quando in luogo dell'adempimento chiede la risoluzione, l'attore non si limita a precisare o a modificare la domanda già proposta. Egli ne muta l'oggetto. L'azione di risoluzione è nuova rispetto a quella di adempimento: la trasformazione della domanda di adempimento a quella di risoluzione rappresenta un'autentica mutatio libelli. Sotto questo profilo, il passaggio, consentito dall'art. 1453 c.c., comma 2, dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione costituisce una deroga alle norme processuali che precludono il mutamento della domanda nel corso del giudizio e la proposizione di domande nuove in appello. La disposizione dell'art. 1453 c.c., comma 2, infatti, abilita la parte che ha invocato la condanna dell'altra ad adempiere, a sostituire a tale pretesa quella di risoluzione, in deroga agli artt. 183 e 345 c.p.c., nelle fasi più avanzate dell'iter processuale, oltre l'udienza di trattazione: non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di appello (omissis). Tutto ciò - come queste Sezioni Unite hanno già precisato (con la citata sentenza 18 febbraio 1989, n. 962) - vale a condizione che i fatti dedotti a fondamento della domanda di risoluzione coincidano con quelli posti a base della domanda di adempimento originariamente proposta. Se l'attore allega alla domanda di risoluzione un inadempimento diverso, ossia una nuova causa petendi, con l'introduzione di un nuovo tema d'indagine, tornano ad applicarsi le preclusioni di cui agli artt. 183 e 345 c.p.c., xxxxxxx la deroga alle disposizioni del codice di rito è limitata all'introduzione di un nuovo e sostitutivo petitum immediato. L'immutazione dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, introducendo nel processo un nuovo tema d'indagine e di decisione, altererebbe "l'oggetto sostanziale dell'azione ed i termini della controversia", e si risolverebbe, in definitiva, nel far valere in giudizio "una pretesa... diversa, per la sua intrinseca natura, da quella fatta valere in precedenza". "Inderogabili esigenze del contraddittorio e della difesa - hanno
precisato le Sezioni Unite - sono d'ostacolo a che possa porsi a base della nuova domanda di risoluzione un fatto costitutivo, materialmente diverso da quello su cui sia stata fondata la domanda originaria d'adempimento, non essendo, cioè, permesso di dedurre, quale causa petendi della domanda di risoluzione, inadempimenti nuovi e diversi da quelli in base ai quali sia stata prima richiesta la prestazione pattuita".
8. - Ritengono le Sezioni Unite che l'interpretazione estensiva, oltre a non essere incompatibile con il dato letterale dell'art. 1453 c.c., comma 2, ne coglie le ragioni e l'intima ratio e al tempo stesso assicura la finalità di concentrazione e pienezza della tutela che la disposizione del codice ha inteso perseguire: tale lettura, infatti, offrendo al contraente non inadempiente la possibilità di spingere la pretesa alle naturali conseguenze sul piano restitutorio e risarcitorio, consente di realizzare, nell'ambito dello stesso processo, il completamento sul piano giuridico ed economico degli effetti che si ricollegano allo scioglimento del contratto.
8.1. - Dal punto di vista letterale, l'art. 1453 x.x., xxxxx 0, xxxxxxxxxx x'xxxxxxx xxxxxx, xxx xxxxxxxxx dall'azione di esecuzione del contratto a quella di risoluzione dello stesso per il persistere dell'inadempimento della controparte. Si tratta di una disciplina dettata senza pretesa di completezza, la quale, lasciando all'interprete il compito di completare il dettaglio della trama normativa per le fattispecie non espressamente regolate, non esclude che, in occasione dell'esercizio dello ius variandi, vi si affianchino quelle pretese che hanno una funzione complementare rispetto al rimedio base.
Del resto, il primo comma dello stesso articolo, nel fare "salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno", configura come possibile il cumulo tra la domanda rivolta ad ottenere lo scioglimento del contratto e l'azione risarcitoria per la riparazione del pregiudizio economico del creditore insoddisfatto, delineando un modello di tutela unitario risultante dall'operare combinato dei due rimedi, con l'azione di danno che può accompagnarsi tanto all'azione di adempimento quanto alla domanda di risoluzione.
Mentre l'azione di adempimento e quella di risoluzione danno luogo ad un concorso alternativo di rimedi, in parte tra loro surrogabili, con il solo limite della seconda parte del secondo comma (posto che "non può più chiedersi l'adempimento quando è stata domandata la risoluzione"), la domanda di risarcimento può, a scelta dell'interessato, essere proposta insieme con quella di adempimento o di risoluzione.
La lettera della norma del codice non impedisce, pertanto, di considerare che l'accoppiamento dei due rimedi (risoluzione del contratto e risarcimento del danno) possa aversi, non solo quando il contraente in regola abbia puntato, sin dall'inizio, alla cancellazione degli effetti del contratto, ma anche quando questi, dopo una citazione con domanda di condanna ad adempiere, abbia abbandonato il rimedio attuativo del contratto e sia passato ad una domanda rivolta ad eliminarne gli effetti.
8.2. - A questa soluzione conduce un'interpretazione sistematica, orientata dalla ratio dello ius variandi. L'interesse del contraente deluso che domanda la risoluzione non è soltanto quello di ottenere lo scioglimento del vincolo contrattuale per un difetto funzionale sopravvenuto, di eliminare cioè il regolamento contrattuale in quanto fonte di prestazioni corrispettive e di essere in tal guisa liberato dalla prestazione su di lui gravante. Di fronte alla violazione dell'obbligazione contrattuale, pattuita in corrispettivo di una prestazione ancora da eseguire, al contraente non inadempiente basta opporre l'eccezione al fine di non dovere prestare a chi si sia reso inadempiente, secondo quanto disposto dall'art. 1460 c.c., (inadimplenti non est adimplendum).
All'iniziativa risolutoria il contraente in regola è stimolato a rivolgersi anche per un interesse che va al di là della mera cancellazione del sinallagma: per conseguire la restituzione della propria prestazione, ove già eseguita, e per ottenere la riparazione del pregiudizio che abbia eventualmente sofferto a causa dello scioglimento del rapporto. Precludere a chi in prima battuta abbia chiesto in giudizio la condanna della controparte all'adempimento e si sia poi rivolto alla tutela risolutoria, di azionare, nell'ambito dello stesso giudizio in cui ha esercitato la facoltà di mutamento, la tutela complementare restitutoria e risarcitoria, vanificherebbe la finalità di concentrazione che il codice civile ha inteso perseguire accordando al contraente in regola lo ius variandi nel corso di uno stesso ed unico giudizio. La vittima dell'inadempimento, infatti, per procurarsi il risultato ripristinatorio della risoluzione, con la restituzione della prestazione eseguita e dei suoi accessori, e per rimuovere le differenze tra la situazione in cui si sarebbe trovato in caso di integrale attuazione del contratto e la situazione conseguente allo scioglimento del vincolo, sarebbe costretta ad intraprendere un nuovo e separato processo, con la frammentazione delle istanze giurisdizionali e
l'allungamento dei tempi complessivi necessari ad ottenere l'integrale soddisfazione delle proprie ragioni. E ciò nonostante, da un lato, le restituzioni rappresentino il logico corollario dello scioglimento ex tunc del contratto (la risoluzione provocando il venir meno della giustificazione causale delle prestazioni eseguite), e dall'altra il risarcimento del danno scaturente dalla rimozione del contratto rinvenga la propria origine proprio nell'inadempimento della controparte agli obblighi contrattuali assunti e miri a far ottenere al risolvente un assetto economico equivalente a quello che gli avrebbe assicurato lo scambio fallito.
La ratio dello ius variandi - offrire giusta protezione all'interesse dell'attore vittima dell'inadempimento, specie di fronte al comportamento del debitore convenuto in giudizio, che permane inattivo nonostante sia stato sollecitato a eseguire la prestazione - richiede che, in occasione del (e contestualmente al) mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto, sia ammessa l'introduzione della domanda restitutoria e della richiesta di danni da risoluzione, data la funzione complementare che l'una e l'altra svolgono rispetto al rimedio diretto ad ottenere la rimozione degli effetti del sinallagma.
9. - A questa soluzione non sono di ostacolo nè la circostanza che la norma dell'art. 1453, secondo comma, cod. civ., in quanto recante una disciplina di deroga rispetto a quella sancita dal codice di rito in tema di preclusioni processuali, dovrebbe formare oggetto di stretta interpretazione, stante il principio generale di divieto di nova, che non consente l'ampliamento successivo del thema decidendi;
nè il rilievo che la pretesa risarcitoria è non solo nuova per petitum e causa petendi rispetto alla domanda iniziale di adempimento o a quella, risultante dalla mutatio, di risoluzione, ma anche - a differenza della domanda restitutoria - non consequenziale a quella di risoluzione del contratto.
9.1. – (omissis)
L'art. 1453 c.c., comma 2, infatti, proprio nel suo carattere processuale, ha la funzione di recare non solo la disciplina generale dell'azione di risoluzione, ma anche dei suoi rapporti con le altre azioni poste comunque a tutela del contraente non inadempiente, mirando ad attuare, nello specifico contesto del rapporto contrattuale con prestazioni corrispettive litigioso, il principio di economia del e nel processo, consentendo alla vittima dell'inadempimento di evitare il promovimento di un'ulteriore controversia attraverso lo sfruttamento più razionale ed intensivo delle risorse del giudizio già promosso, che è e diventa la sede idonea anche per dispiegarvi la richiesta di tutela complementare.
9.3. – (omissis)
10. - La proposizione nel corso del giudizio di merito, anche quando siano calate le ordinarie preclusioni di cui all'art. 183 c.p.c., della domanda risarcitoria affiancata al rimedio risolutorio, comporta certamente un ampliamento dell'oggetto del giudizio (che dall'inadempimento grave si allarga al pregiudizio sofferto e all'entità dei danni) e, conseguentemente, del thema probandum: di qui la necessità che al contraente in regola sia accordata la possibilità dimostrare i fatti costitutivi della pretesa risarcito- ria, e, parimenti e corrispondentemente, che all'altra parte sìa consentito di difendersi, replicando alla domanda nuova, proponendo le eccezioni che sono conseguenza della stessa e provando eventuali fatti impeditivi, estintivi o modificativi del diritto al risarcimento fatto valere.
Si è tuttavia al di fuori dell'operatività del regime delle preclusioni. Queste tendono ad impedire il comportamento dilatorio delle parti, imponendo loro di allegare all'inizio del processo tutto ciò di cui sono già in possesso per far valere le loro ragioni. Ma poichè qui è il codice civile che consente, per ragioni di effettività e concentrazione della tutela, di far valere, contestualmente al mutamento della domanda di adempimento in quella di risoluzione del contratto inadempiuto, la pretesa risarcitoria, il regime di preclusioni non è di ostacolo nè alla possibilità dell'introduzione del nuovo tema di indagine, nè al pieno dispiegarsi, su di esso, del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio in condizioni di parità.
Non si pone neppure un problema di rimessione in termini, venendo piuttosto in gioco il doveroso esercizio dei poteri di direzione del processo da parte del giudice per rendere possibile l'esercizio del diritto in sede giuri- sdizionale nel rispetto dei principi del giusto processo.
E' la domanda nuova che pone l'esigenza di allegazioni, controallegazioni, eccezioni, deduzioni e controdeduzioni istruttorie: sicchè queste attività processuali debbono essere consentite, non già per provvedimento discrezionale del giudice, ma per garanzia del diritto di azione e di difesa e del giusto processo.
11. - L'ordinamento, del resto, conosce altre ipotesi nelle quali il divieto di nova è derogato al fine di evitare la moltiplicazione dei giudizi in relazione alla medesima fattispecie.
11.1. – (omissis)
12. - A composizione del contrasto di giurisprudenza, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: "La parte che, ai sensi dell'art. 1453 c.c., comma 2, chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello ius variandi, oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale".
3. XXXXXXXXX’ MEDICO-CHIRURGICA: Corte di Cassazione, sez. III, sentenza del 29 febbraio 2016, n. 3893
Ove la condotta del medico si pone quale antecedente autonomo e sufficiente per la causazione dell'evento dannoso (invalidità 100%), non può ritenersi automaticamente esclusa o elisa dalla pregressa patologia, in quanto trattasi di due campi d'indagine separati: uno è l'accertamento del nesso di causalità e l'altro è l'accertamento della condotta colposa, quest'ultima propriamente costituendo il criterio di imputabilità della responsabilità.
Ove all'esito del detto accertamento emerga che la condotta colposa del medico abbia nella specie assunto rilievo di causa del danno indipendentemente dalla causa originaria, e cioè come autonoma causa efficiente eccezionale ed atipica rispetto alla prima e di per sé idonea a determinare l'invalidità permanente al 100% del minore, deve trarsene che il relativo autore è tenuto a risarcire l'intero danno. La condotta colposa di tale medico viene infatti in tal caso a porsi quale specifico ed autonomo antecedente causale dell'evento dannoso. Nel ribadire la validità del principio causale puro (c.d. "all or nothing") si è in particolare negata, con riferimento al complesso caso di responsabilità medica l'ammissibilità della comparazione tra causa umana (imputabile) e causa naturale (non imputabile), potendo essa configurarsi solo tra comportamenti umani colpevoli.
(omissis) Con unico complesso motivo i ricorrenti denunziano violazione degli artt. 1223 e 1227 x.x., xxxx. 00 x 00 x.x., (xxxxxxx) Xx dolgono che la corte di merito abbia erroneamente, nonchè con motivazione contraddittoria e illogica, ridotto del 50% l'ammontare liquidato dal giudice di prime cure a titolo di "danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica futura del piccolo E.", a tale stregua "creando... nei confronti di quest'ultimo una disparità di trattamento retributivo", in ragione della sua condizione di disabilità. (omissis)
(omissis) "nel caso di specie C.E. ha subito una invalidità permanente del 100% grazie al concorrere di due cause": oltre a quella "umana", consistente come detto nella "non corretta gestione del travaglio" e nella "conseguente ipossia", quella "attribuibile solo a fattori naturali, senza il concorso della causalità umana: la sindrome di Down", che "preesisteva alla causa di origine umana". Nell'affermare che pure l'effetto invalidante derivante da tale sindrome pertanto "preesisteva all'effetto invalidante da ipossia", sottolineando come non possa "concepirsi un effetto che preesista ad una causa", la corte di merito ha posto in rilievo che "alla responsabilità causalmente efficiente del personale operante durante il travaglio si è aggiunta la causa concorrente della sindrome di Down, non ascrivibile ad alcuna responsabilità umana". La corte di merito ha qualificato tale sindrome in termini di "concausa", in quanto "ci si chiede perchè mai il personale medico operante nella fase del parto debba vedere diminuito il proprio grado di responsabilità solo ove la sindrome suddetta possa essere causalmente, e giuridicamente, imputata alla condotta di altro personale medico (o di altro soggetto in genere), e non anche, come nel caso di specie, in cui tale sindrome non fosse oggettivamente prognosticabile e, pertanto, nessuno ne abbia a rispondere". (omissis)
Facendo espressamente richiamo al precedente di questa Corte costituito dalla sentenza n. 975 del 2009, al fine di "evitare che il personale operante possa essere chiamato a rispondere di danni derivanti da causa preesistente e indipendente il suo operato" ha ritenuto quindi necessario "scorporare dal 100% di invalidità permanente... quella porzione imputabile solo alla concausa naturale della sindrome di Down". Rilevato che "tale porzione è stata determinata dalla sentenza impugnata nella misura percentuale del 50%, restando così imputata al personale medico operante la residua percentuale del 50%"; (omissis) la corte di merito è pervenuta quindi ad affermare che "in mancanza di indicazioni specifiche che possano orientare verso il riconoscimento tranquillante di una maggiore efficacia causale dell'una sindrome (Down) sull'altra causa di invalidità (ipossia da travaglio)" debba nella specie trovare applicazione "il principio generale dell'eguaglianza delle concause espresso dall'art. 2055 x.x., xxxxx 0", (xxxxxxx)
I suindicati assunti della corte di merito sono sotto plurimi profili non condivisibili. (omissis) il giudice dell'appello ha espressamente inteso fare applicazione del principio indicato dal richiamato precedente di questa Corte costituito da Cass. n. 975 del 2009. Principio secondo cui, qualora la produzione di un evento dannoso sia sotto il profilo eziologico riconducibile alla concomitanza della condotta del sanitario e di un fattore naturale rappresentato dalla situazione patologica del paziente non legata all'anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale, il giudice deve procedere - eventualmente anche con criteri equitativi - alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause, onde attribuire all'autore della condotta dannosa la parte di responsabilità correlativa, così da lasciare a carico del danneggiato il peso del danno alla cui produzione ha concorso a determinare il suo stato personale (x. Xxxx., 16/1/2009, n. 975).
Trattasi di precedente rimasto peraltro sostanzialmente isolato (omissis), questa Corte ha motivatamente inteso non darvi successivamente seguito.
Va ulteriormente osservato che, in presenza di una ravvisata condotta negligente del medico operante V., la corte di merito non ne ha tratto i corretti corollari sul piano della conseguente relativa responsabilità. Qualificandola (facendo apodittico riferimento alla sentenza di primo grado) in termini di concausa, la corte di merito non ha in particolare dato conto delle ragioni per cui, pur trattandosi di patologia solitamente idonea a determinare un'invalidità permanente del 100% (o di termini percentuali a tale soglia molto prossimi) l'ipossia cagionata dalla condotta colposa del ginecologo V. non sia stata nella specie considerata assurgente a causa sopravvenuta idonea a determinare in via autonoma ed esclusiva l'invalidità del minore (…), a prescindere cioè dalla sussistenza di altra patologia (nel caso, la sindrome di Down), a fortiori se come nella specie alla medesima non legata da un nesso di dipendenza causale. Xxxxxxxx verifica s'impone già sul piano logico come prioritaria, essendo idonea a definire la questione dell'accertamento del nesso di causalità, solamente al cui esito può quindi addivenirsi alla determinazione dell'ambito del danno risarcibile e alla quantificazione dell'ammontare del risarcimento spettante al creditore/danneggiato.
Al riguardo, va osservato, il nesso di causalità il quale esprime la derivazione dell'evento dalla condotta colposa (o dolosa) va distinto dall'altro e diverso elemento costitutivo dell'inadempimento e dell'illecito civile rappresentato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante (omissis). Ove all'esito del detto accertamento emerga che la condotta colposa del suindicato medico abbia nella specie assunto rilievo di causa del danno indipendentemente dalla causa originaria, e cioè come autonoma causa efficiente eccezionale ed atipica rispetto alla prima e di per sè idonea a determinare l'invalidità permanente al 100% del minore (…), deve trarsene che il relativo autore (nella specie, il V.) è tenuto a risarcire l'intero danno. La condotta colposa di tale medico viene infatti in tal caso a porsi quale specifico ed autonomo antecedente causale dell'evento dannoso (nel caso, ipossia da travaglio), essendo il medesimo pertanto chiamato risarcire il creditore/danneggiato di tutte le conseguenze dannose. Non solo quelle da tale danno evento derivanti in via immediata e diretta, ma anche quelle mediate ed indirette, giusta l'interpretazione dell'art. 1223 c.c. (richiamato dall'art. 2056 c.c.) ormai da tempo affermata in giurisprudenza (omissis), che ha al riguardo fatto in particolare ricorso al criterio della regolarità causale, considerando risarcibili i danni rientranti nel novero delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto (omissis).
Osservato che la tradizionale concezione della causalità giuridica come regolarità statistica del decorso causale ha ceduto al criterio della consequenzialità scientifica o della credibilità razionale, nell'avvertita necessità di non
lasciare priva di ristoro l'ipotesi in cui l'evento lesivo sia conseguenza necessitata del fatto lesivo quand'anche statisticamente anomalo, va posto in rilievo che il criterio della prevedibilità va distinto da quello della normalità delle conseguenze. Le Sezioni penali di questa Corte sono al riguardo pervenute a correttamente escludere che l'errore dei sanitari, in particolare nella prestazione di cure alla vittima di sinistro stradale, possa ritenersi causa autonoma ed indipendente idonea a interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha provocato l'incidente e la successiva morte del ferito, posto che "nel caso di lesioni personali (nella specie, provocate da incidente stradale) cui sia seguito il decesso della vittima, la colpa dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente - tale da interrompere il nesso causale ex art. 41 c.p., comma 2, - rispetto al comportamento dell'agente, perchè questi, provocando tale evento (le lesioni), ha reso necessario l'intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un'ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale" (omissis). A tale stregua, il comportamento negligente o imperito dei medesimi costituisce "un atto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura", laddove "ai fini dell'esclusione del nesso di causalità occorre un errore del tutto eccezionale, abnorme, da solo determinante l'evento letale, conseguendone in tal caso, l'applicabilità dell'art. 41 c.p., comma 1 e non dell'art. 41 c.p., comma 2" (omissis). In siffatta ipotesi di responsabilità di tipo contrattuale da errato intervento medico, si noti, al fine di limitare l'ambito del danno risarcibile, o addirittura di escluderlo, non vale allora nemmeno fare richiamo all'art. 1225 c.c., essendo in realtà prevedibile che in conseguenza dell'inadempimento il creditore/danneggiato rimanga esposto al rischio dell'altrui condotta colposa (e in realtà anche dolosa) da detto antecedente specificamente determinata e resa necessaria, che di siffatto rischio costituisca appunto integrazione (cfr., con riferimento a differenti ipotesi, Cass., 11/12/2012, n. 22619; Cass., 13/4/2007, n. 8826).
Qualora emerga che il pregresso stato patologico (rectius, la pregressa "condizione genetica" della sindrome di Down) affettante il feto (che per giudicato implicito formatosi sul punto nella specie risulta non ascrivibile alla responsabilità di alcuno, dovendo pertanto considerarsi quale causa naturale non imputabile) non assuma in effetti rilievo di nuova e autonoma causa di per sè determinante l'accertato stato di invalidità permanente del 100%, ma abbia mera concorrente incidenza nella relativa verificazione, non può in ogni caso pervenirsi a conclusioni differenti da quelle sopra tratteggiate. Va anzitutto osservato che la responsabilità solidale presuppone una pluralità di responsabili nella determinazione del medesimo evento lesivo ovvero di più cause efficienti nella determinazione di un unico determinato danno (omissis). Ove si pervenga alla conclusione che nella specie risulti integrata siffatta ipotesi, e non già quella diversa costituita da una pluralità di responsabili/cause produttivi/e di distinti effetti dannosi (la sindrome di Down e l'ipossia da travaglio in dottrina indicata (anche) come ipotesi di causalità concorrente o (in caso di imputazione di responsabilità a diverso titolo) di concorrenza di causalità, a parte l'erroneità dell'operato riferimento dell'art. 2055 c.c., comma 3 specificamente dettato invero per la responsabilità extracontrattuale e non operante pertanto in quella come nella specie di tipo contrattuale (…), anzichè se del caso all'art. 1298, 2 co., c.c. (…), va al riguardo sottolineato come il precedente costituito da Cass. n. 975 del 2009, che ha recepito la tesi dottrinaria della c.d. causalità equitativo-proporzionale ("apportionment of liability") e dalla corte di merito richiamato nel fare specifica applicazione del principio nell'occasione ivi affermato, è rimasto - come detto - da questa Corte motivatamente non confermato. Con riferimento al "complesso caso di responsabilità medica" esaminato da Cass. n. 975 del 2009 e prospettante "la questione del concorso fra causa naturale (nella specie, uno stato patologico pregresso del paziente) e causa umana", si è in particolare da Cass. n. 15991 del 2011 (pure richiamata nell'impugnata sentenza) sottoposto a vaglio critico la soluzione adottata (tra l'altro in "evidente ed esplicita soluzione di continuità con un consolidato orientamento di questa giurisprudenza di legittimità") nella detta pronunzia di ammettere la "possibilità per il giudice del merito, in sede di accertamento del nesso causale tra condotta ed evento, di procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all'uno o all'altra, eventualmente con criterio equitativo, con conseguente graduazione o riduzione proporzionale dell'obbligo risarcitorio del professionista" (così Cass., 21/7/2011, n. 15991).
Nel ribadire la validità del principio causale puro (c.d. "all or nothing"), pur all'esito di un accertamento della sussistenza del nesso di causalità condotto sulla base del criterio del "più probabile che non", si è in particolare negata l'ammissibilità di una comparazione tra causa umana imputabile e
causa naturale non imputabile, potendo essa configurarsi solo tra comportamenti umani colpevoli. Xxxxxx, l'orientamento espresso dalla citata Cass., n. 15991 del 2011 (conformemente v., da ultimo, Cass., 6/5/2015, n. 8995), va anche nel caso essenzialmente confermato, con le precisazioni di seguito indicate. Deve in particolare ribadirsi che la valutazione equitativa attiene propriamente non già all'accertamento del nesso di causalità bensì alla determinazione dell'ammontare del danno risarcibile (art. 1226 c.c.). Solo all'esito dell'accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta (dolosa o) colposa e il danno evento lesivo, in occasione del diverso e successivo momento della delimitazione dell'ambito del danno risarcibile e della determinazione del quantum di risarcimento, la considerazione del pregresso stato patologico del creditore/danneggiato può invero valere a condurre ad una limitazione dell'ammontare dovuto dal debitore/danneggiante. Va altresì posto in rilievo che, dovendo la relazione materiale designante il derivare di un evento da una condotta (dolosa o) colposa essere correttamente qualificata come nesso di causalità (non già meramente materiale bensì) giuridica, quantomeno in ragione dell'essere essa rilevante per il diritto (come invero sostanzialmente adombrato già dalla suindicata Cass. n. 15991 del 2011), il diverso ed autonomo (successivo) momento della determinazione del risarcimento dovuto attiene in realtà propriamente non già al piano della "causalità giuridica" bensì a quello dei criteri di delimitazione dell'ambito del danno risarcibile, come risulta confermato (anche) dalla segnalata interpretazione che riceve l'art. 1223 c.c.. Tale norma non pone infatti una regola in tema di nesso di causalità ma si risolve nell'indicazione di un mero criterio (da utilizzarsi unitamente a quelli posti agli artt. 1225, 1226, 1227 e 2056 c.c.) di delimitazione dell'ambito del danno risarcibile (cfr. già Cass., 15/10/1999, n. 11629) causalmente ascritto alla ("cagionato" dalla) condotta qualificata dalla colpa (o dal dolo) del soggetto responsabile, non essendovi necessariamente coincidenza tra danno arrecato e danno risarcibile.
Al riguardo, va osservato, la stessa richiamata Cass. n. 15991 del 2011 fa a tale significato in realtà sostanzialmente riferimento laddove evoca la "selezione dei pregiudizi risarcibili". Si tratta allora di delineare i criteri valevoli a delimitare la giuridica rilevanza delle conseguenze dannose eziologicamente derivanti dal danno evento costituente integrazione del rischio specifico posto in essere dalla condotta (dolosa o) colposa del debitore/danneggiante, che a tale stregua solo a carico del medesimo, e non anche sul creditore/danneggiato, debbono gravare. Xxxxxx, deve in proposito porsi in rilievo che anche in caso di aggravamenti dovuti a) alle eccezionali condizioni personali del danneggiato (es., emofilia, cardiopatia, rara allergia), come pure b) al fatto successivo del terzo, e in particolare del medico (cura errata, errato intervento medico), non può invero pervenirsi a riduzione o esclusione del danno risarcibile. Il danneggiato rimane infatti ad essi specificamente esposto in conseguenza dell'antecedente causale determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante (come posto in rilievo anche da autorevole dottrina, che lo indica quale "danno diretto"), dovendo quest'ultimo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio (cfr. Cass. n. 15991 del 2011). Ulteriore e diversa ipotesi si ha in caso come nella specie di stato patologico pregresso del paziente/danneggiato non legato all'altrui condotta colposa da un nesso di interdipendenza causale. Ove sia possibile pervenire ad attribuire a tale antecedente una concorrente - seppure autonoma - incidenza causale nella determinazione dell'unica e complessiva situazione patologica del paziente/danneggiato, trattandosi di ipotesi di concorso di più cause efficienti nella determinazione del danno (…), una questione di automatica riduzione dell'ammontare risarcitorio dovuto alla vittima/danneggiato in proporzione del corrispondente grado percentuale di incidenza causale non può invero ritenersi ammissibile, giacchè la relativa valutazione sul piano del nesso di causalità è volta solo ad accertare la valenza assorbente dell'una rispetto all'altra (cfr. Cass. n. 15991 del 2011). Anzichè su quello dell'accertamento in xxx xxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxx xx xxxxx xx xxxxxxxxx ad esso ascrivibile (c.d. criterio equitativo proporzionale del nesso di causalità), lo stato patologico pregresso può in tale ipotesi assumere se del caso rilievo - come detto - sul diverso (e successivo) piano della delimitazione dell'ambito del danno risarcibile e di determinazione dell'ammontare del quantum risarcitorio dovuto mediante valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.. Essendo, giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, volta a determinare "la compensazione economica socialmente adeguata" del pregiudizio, quella che "l'ambiente sociale accetta come compensazione equa" (cfr. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 30/6/2011, n. 14402), la valutazione equitativa è infatti subordinata alla dimostrata
esistenza di un danno risarcibile non meramente eventuale o ipotetico ma certo (…), e alla circostanza dell'impossibilità o estrema difficoltà (…) di prova nel suo preciso ammontare, attenendo pertanto alla quantificazione e non già all'individuazione del danno (omissis). Tale valutazione va effettuata con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, e in particolare della rilevanza economica del danno alla stregua della coscienza sociale e dei vari fattori incidenti sulla gravità della lesione. Il danno non può essere quindi liquidato in termini puramente simbolici o irrisori o comunque non correlati all'effettiva natura o entità del danno (…), ma deve essere congruo, a tale stregua dovendo pertanto tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all'integrale risarcimento (…), sicchè è necessario tenere conto a fini risarcitori, in quanto sussistenti e provati, di tutti gli aspetti (o voci) di cui si compendiano sia la categoria generale del danno patrimoniale (…) che la categoria generale del danno non patrimoniale (..). E' compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative si siano per il creditore/danneggiato verificate, provvedendo alla relativa integrale riparazione (…), con indicazione dei criteri assunti a base del procedimento valutativo (…). Ne consegue che in presenza di una liquidazione di ammontare non congruo, in quanto irragionevole e sproporzionato per difetto o per eccesso (x. Xxxx., 31/8/2011, n. 17879), e pertanto sotto tale profilo non integrale, il sistema di quantificazione adottato si palesa per ciò stesso xxxxxxxx a consentire al giudice di pervenire ad una valutazione informata ad equità, fondando i dubbi in ordine alla sua legittimità.
Vale al riguardo d'altro canto sottolineare che, in base al criterio posto all'art. 1227 c.c. (dettato in tema di concorso colposo del danneggiato ma da ritenersi di portata generale, e pertanto utilizzabile anche in caso di concorso tra una pluralità di danneggianti autori di condotte autonome ed indipendenti) la diminuzione del risarcimento può avvenire in base alla gravità della colpa e all'entità delle conseguenze.
A tale stregua, trattandosi come appunto nella specie di (eccezionale) ipotesi di a) pregresso stato patologico (rectius, "condizione genetica") non ascrivibile a condotta umana imputabile e b) privo di incidenza causale sulla (successiva e autonoma) condotta colposa del medico (la quale ultima a sua volta non ha determinato uno specifico aggravamento della pregressa sindrome di Down), quand'anche si giunga alla conclusione che essa sia una concausa determinante di un più grave stato d'invalidità, alla riduzione dell'ammontare risarcitorio può invero pervenirsi non già sempre e comunque in termini di automatica percentuale corrispondenza ad "operazioni di apporzionamento/frazionamento" del nesso di causalità (come discenderebbe dall'accoglimento del suindicato c.d. criterio equitativo proporzionale del nesso di causalità), bensì se del caso, in considerazione della peculiarità della fattispecie concreta, sul piano della equitativa valutazione del danno ex art. 1226 c.c. (cfr. Cass. n. 15991 del 2011). In tale ipotesi, diversamente da quanto in passato anche da questa Corte invero sostenuto (omissis), di essa può allora tenersi in effetti conto (solo) in sede di liquidazione del quantum risarcitorio mediante la relativa valutazione equitativa ex art. 1226 c.c.. E' sotto altro profilo da osservarsi che sul piano della liquidazione dell'ammontare del danno patrimoniale da invalidità lavorativa specifica futura, la corte di merito ha nell'impugnata sentenza fatto riferimento, quale base di calcolo, al criterio del "triplo della pensione sociale", in luogo di quello del "reddito nazionale medio" per l'anno 2007 preso a base di riferimento dal tribunale, ritenendo quest'ultimo "non corretto" parametro di determinazione della presumibile capacità reddituale di C.E., in quanto "cause preesistenti alla invalidità cagionata dal personale responsabile avrebbero, presumibilmente, comunque impedito il raggiungimento di un livello reddituale medio", sicchè, "stante la sua situazione di invalidità precedente la negligenza attribuita al personale medico operante", il "danneggiato... avrebbe potuto attingere un reddito medio statisticamente ottenuto comparando posizioni reddituali diverse, le quali hanno però quale naturale presupposto l'assenza di invalidità, che di per se stessa comporta una capacità reddituale inferiore alla media".
Orbene, pur potendo in sede di liquidazione equitativa del danno ex artt. 1226 e 2055 c.c. il giudice fare ricorso al criterio del triplo della pensione sociale anche allorquando l'invalidità permanente come nel caso non consegua a sinistro stradale (x. Xxxx., 16/2/2006, n. 3436), atteso che la liquidazione del danno in via equitativa resta affidata ad apprezzamenti discrezionali del giudice di merito che sono non sindacabili in sede di legittimità nei limiti in cui la motivazione della decisione dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti
alla liquidazione, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo (…), va posto in rilievo come i suindicati argomenti dell'impugnata sentenza si appalesino sostanzialmente apodittici e illogici, inidonei a consentire di evincere in particolare se nella specie la corte di merito abbia ritenuto che a parità di occupazione/prestazione lavorativa possa essere corrisposta una minore retribuzione in ragione della disabilità di cui il soggetto è affetto (tesi che prospetterebbe invero dubbi di legittimità costituzionale ex art. 3 Cost.), ovvero abbia diversamente ravvisato al minore Xxxxxxxx preclusa, in ragione della patologia di cui è risultato affetto sin dalla nascita, la possibilità di pervenire ad esplicare date attività lavorative, rispetto a soggetto dalla stessa viceversa immune, con conseguente minore possibilità di pervenire a livelli di guadagno pari a quelli delle persone prive di siffatta disabilità. Anche relativamente a quest'ultima ipotesi difetta peraltro nell'impugnata sentenza qualsivoglia indicazione che consenta di valutarne la relativa logicità e coerenza. (omissis)
4. IL CONSENSO INFORMATO-ONERE DELLA PROVA E AREA DEI DANNI RISARCIBILI
4.1 Cassazione Civile sez. III, 19 maggio 2011, n. 11005
In relazione all'obbligo d'informazione ed all'onere della relativa prova, la responsabilità professionale del medico - ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell'intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato - ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell'allegazione, da parte del paziente, dell'inadempimento dell'obbligo di informazione, è il medico gravato dell'onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione.
OSSERVA IN DIRITTO
che:
i motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati; sono inammissibili laddove tendono, in sede di legittimità, ad una nuova valutazione della prova e ad un diverso accertamento dei fatti;
sono infondati laddove lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione; infatti, quanto al nesso causale, la sentenza pone in evidenza che:
il professionista non ha mai posto in discussione nè l'affezione da parte dell'attore della maculopatia, nè il rapporto eziologico tra questa malattia e l'assunzione dello specifico farmaco prescritto dal Ba.; a tal riguardo è dato conto della comparsa di risposta del medico in primo grado; la derivazione causale in questione è dimostrata dalla documentazione medica prodotta dall'attore;
inoltre, la sentenza contiene la decisiva e corretta affermazione secondo cui l'eventuale responsabilità di altri medici che abbiano prescritto o fornito il farmaco in questione non esclude la responsabilità concorrente e solidale del Ba., il quale non ha fornito la prova che quelle condotte furono da sole sufficienti a cagionare il danno; quanto alla causalità astratta e concreta alla quale fa riferimento il secondo motivo, occorre ribadire che la sentenza di condanna generica pronunciata nel corso di un giudizio di risarcimento del danno aquiliano di norma presuppone il positivo accertamento del nesso di causalità cosiddetta "materiale" ("ex" art. 40 c.p.) tra la condotta e l'evento produttivo di danno, sicchè nel successivo giudizio sul "quantum" resta da accertare soltanto il nesso di causalità cosiddetta "giuridica" ("ex" art. 1223 cod. civ.) tra l'evento di danno ed i pregiudizi che ne sono derivati (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 3357/09);
quanto all'obbligo d'informazione ed all'onere della relativa prova basta ricordare che la responsabilità professionale del medico - ove pure egli si limiti alla diagnosi ed all'illustrazione al paziente delle conseguenze della terapia o dell'intervento che ritenga di dover compiere, allo scopo di ottenerne il necessario consenso informato - ha natura contrattuale e non precontrattuale; ne consegue che, a fronte dell'allegazione, da parte del
paziente, dell'inadempimento dell'obbligo di informazione, è il medico gravato dell'onere della prova di aver adempiuto tale obbligazione (Cass. n. 2847/10);
quanto alla prescrizione ed alla sua decorrenza, la sentenza effettua un compiuto accertamento in ordine all'epoca in cui si manifestò e fu diagnosticata la malattia e furono compiuti gli atti interruttivi;
in conclusione, non manifestandosi alcun vizio di legittimità, il ricorso deve essere respinto, con condanna del ricorrente a rivalere il B. delle spese sopportate nel giudizio di cassazione (l'atto della Xxx.xx Generali spa aderisce al ricorso del Ba. e ne chiede l'accoglimento).
4.2 Xxxxx xx Xxxxxxxxxx xxxxxx, xxx. XXX, 00 settembre 2015, n. 19212
L’obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario senza il quale l’intervento del medico è illecito, anche quando è nell’interesse del paziente Trattasi di obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, e in particolare in ordine alla possibilità che ne consegua un aggravamento delle condizioni di salute del medesimo, al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi L’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di relativa mancata prestazione da parte del paziente.
Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute. L’autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone pertanto l’autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell’acquisizione del consenso informato
Il medico viene meno all’obbligo di fornire idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso.
(omissis)
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono fondati e vanno accolti p.q.r. nei termini e limiti di seguito indicati. Va anzitutto osservato che come questa Corte ha già avuto modo di affermare l’obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario senza il quale l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente (x. Xxxx., 16/10/2007, n. 21748). Ai sensi dell’art. 32, 2 co., Cost. (in base al quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dell’art. 13 Cost. (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e dell’art. 33
L. n. 833 del 1978 (che esclude la possibilità di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.) esso è a carico del sanitario, il quale, una volta richiesto dal paziente dell’esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia secondo la lex artis di accogliere la richiesta e di darvi corso. Trattasi di obbligo che attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto, e in particolare in ordine alla possibilità che ne consegua (cfr. Cass., 13/4/2007, n. 8826; Cass., 30/7/2004, n. 14638) un aggravamento delle condizioni di salute del medesimo,
al fine di porlo in condizione di consapevolmente consentirvi (x. Xxxx., 14/3/2006, n. 5444). Il medico ha pertanto il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e delle implicazioni verificabili (x. Xxxx., 13/2/2015, n. 2854). Si è al riguardo ulteriormente precisato che l’acquisizione da parte del medico del consenso informato costituisce prestazione altra e diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di relativa mancata prestazione da parte del paziente (…). Trattasi di due distinti diritti. Il consenso informato attiene al diritto fondamentale della persona all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (cfr. Corte Cost., 23/12/2008, n. 438), e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione delpaziente (x. Xxxx., 6/6/2014, n. 12830), atteso che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (anche quest’ultima non potendo peraltro in ogni caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: art. 32, 2 co., Cost.).
Il trattamento medico terapeutico ha viceversa riguardo alla tutela del (diverso) diritto fondamentale alla salute (art. 32, 1 co., Cost.) (x. Xxxx., 6/6/2014, n. 12830). L’autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone pertanto l’autonoma valutazione rispetto alla vicenda dell’acquisizione del consenso informato (cfr., da ultimo, Cass., 26/7/2012, n. 13214; Cass., 27/4/2010, n. 10060, e da ultimo Cass., 6/6/2014, n. 12830). Si è al riguardo precisato che, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente, è onere del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze (x. Xxxx., 9/2/2010, n. 2847), senza che sia dato presumere il rilascio del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell’informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale delpaziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado delle conoscenze specifiche di cui dispone (x. Xxxx., 20/8/2013, n. 19920).
In mancanza di consenso informato l’intervento del medico – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – è pertanto sicuramente illecito, anche quando sia
nell’interesse del paziente (x. Xxxx., 8/10/2008, n. 24791).
Il consenso libero e informato, che è volto a garantire la libertà dell’individuo e costituisce un mezzo per il migliore perseguimento dei suoi interessi, consentendogli di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico o anche di rifiutare (in tutte le fasi della vita, pure in quella terminale) la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla (x. Xxxx., 16/10/2007, n. 21748), salvo che ricorra uno stato di necessità non
può mai essere presunto o tacito, ma deve essere fornito espressamente, dopo avere ricevuto un’adeguata informazione, anch’essa esplicita. Presuntiva può essere invece la prova che un consenso informato sia stato effettivamente ed in modo esplicito prestato, ed il relativo onere ricade sul medico (cfr. Cass., 27/11/2012, n. 20984). A tale stregua, a fronte dell’allegazione di inadempimento da parte del paziente è onere del medico provare l’adempimento dell’obbligazione di fornirgli un’informazione completa ed effettiva sul trattamento sanitario e sulle sue conseguenze, senza che sia dato presumere la prestazione del consenso informato sulla base delle qualità personali del paziente, potendo esse incidere unicamente sulle modalità dell’informazione, la quale deve sostanziarsi in spiegazioni dettagliate ed adeguate al livello culturale del paziente, con l’adozione di un linguaggio che tenga conto del suo particolare stato soggettivo e del grado di conoscenze specifiche di cui dispone (cfr. Cass., 28/8/2013, n. 19920).
Il consenso informato va d’altro canto acquisito anche qualora la probabilità di verificazione dell’evento sia così scarsa da essere prossima al fortuito o, al contrario, sia così alta da renderne certo l’accadimento, in quanto solo al paziente spetta la valutazione dei rischi cui intende esporsi, sicché il professionista o la struttura sanitaria non possono omettere di fornirgli tutte le dovute informazioni (x. Xxxx., 19/9/2014, n. 19731). Xxxxxx, va al riguardo posto in rilievo come il medico venga in effetti meno all’obbligo di fornire
idonea ed esaustiva informazione al paziente, al fine di acquisirne un valido consenso, non solo quando omette del tutto di riferirgli della natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo, ma anche quando ne acquisisca con modalità improprie il consenso. Si è da questa Corte ad esempio ritenuto non validamente prestato un consenso ottenuto mediante la sottoposizione al paziente, ai fini della relativa sottoscrizione, di un modulo del tutto generico, non essendo in tal caso possibile desumere con certezza che il paziente abbia ricevuto le informazioni del caso in modo esaustivo (x. Xxxx., 8/10/2008, n. 24791).
A tale stregua deve allora ritenersi a fortiori inidoneo un consenso come nella specie dalla paziente asseritamente prestato oralmente.
Sotto altro profilo, quanto alla domanda risarcitoria diretta a far valere la responsabilità professionale del medico nell’esecuzione di un intervento, in accordo con quanto osservato anche in dottrina va ribadito che il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell’attività esercitata (secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicché deve escludersi che ove privo delle necessarie cognizioni tecniche il debitore rimanga esentato dall’adempiere l’obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell’attività esercitata); mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore,in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività (cfr. Cass., 20/10/2014, n. 22222).
Al professionista (e a fortiori allo specialista) è richiesta una diligenza particolarmente qualificata dalla perizia e dall’impiego di strumenti tecnici adeguati al tipo di attività da espletare (cfr. Cass., 31/5/2006, n. 12995) e allo standard professionale della sua categoria. (omissis)
Le obbligazioni professionali sono dunque caratterizzate dalla prestazione di attività particolarmente qualificata da parte di soggetto dotato di specifica abilità tecnica, in cui ilpaziente fa affidamento nel decidere di sottoporsi all’intervento chirurgico, al fine del raggiungimento del risultato perseguito o sperato. Affidamento tanto più accentuato, in vista dell’esito positivo nel caso concreto conseguibile, quanto maggiore è la specializzazione del professionista e la preparazione organizzativa e tecnica della struttura sanitaria presso la quale l’attività medica viene dal primo espletata.
Giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, in ogni caso di “insuccesso” incombe allora al m edico o alla struttura provare che il risultato “anomalo” o anormale rispetto al convenuto esito dell’intervento o
della cura, e quindi dello scostamento da una legge di regolarità causale fondata sull’esperienza, dipende da fatto a sé non imputabile, in quanto non ascrivibile alla condotta mantenuta in conformità alla diligenza dovuta, in relazione alle specifiche circostanze del caso concreto (x. Xxxx., 9/10/2012, n. 17143), bensì ad evento
imprevedibile e non superabile con l’adeguata diligenza (cfr., Cass., 21/7/2011, n. 15993; Cass., 7/6/2011, n. 12274. E già Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 11/11/2005, n. 22894). In altri termini, dare la prova del fatto impeditivo (x. Xxxx., 28/5/2004, n. 10297; Cass., 21/6/2004, n. 11488), rimanendo in caso contrario soccombente,in applicazione della regola generale ex artt. 1218 e 2697 c.c., di ripartizione dell’onere probatorio fondata sul principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità (x. Xxxx., 9/11/2006, n. 23918; Cass., 00/0/0000, x. 00000; Cass., Sez. Un., 23/5/2001, n. 7027; Cass., Sez. Un., 30/10/2001, n. 13533; Cass., 13/9/2000, n.
12103), o ancor più propriamente (come sottolineato anche in dottrina), sul criterio della maggiore possibilità per il debitore onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore come nel caso specializzato nell’esecuzione di una professione protetta. (omissis)
4.2 Corte di Cassazione, sez. III, 12 giugno 2015, n. 12205
In tema di fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, la struttura dell’ illecito deve essere ricostruita sulla base della necessaria distinzione fra l'individuazione dell'evento che lo integra (c.d. danno-evento) e quella delle sue conseguenze dannose (c.d. danno conseguenza), che far sorgere il diritto alla riparazione, id est al risarcimento.
Il c.d. danno evento cagionato da tale condotta è, in questo caso, rappresentato dallo estrinsecarsi dell'intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso.
Il danno conseguenza è, invece, rappresentato dall'effetto pregiudizievole che la mancanza dell'acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell'intervento, ha potuto determinare sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima dell'intervento, la quale, se le informazioni fossero state date, l'avrebbe portata a decidere sul se assentire la pratica medica.
Un primo effetto attiene il pregiudizio per la scelta di riflettere e di determinarsi successivamente, sia e soprattutto quella di rivolgersi altrove, cioè ad altro medico, prima di determinarsi. Tale preclusione integra danno conseguenza perchè si concreta nella privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fìsica. Libertà che, costituendo un bene di per sè, quale aspetto della generica libertà personale, viene negata e, quindi, risulta sacrificata irrimediabilmente, sì che si configura come "perdita" di un bene personale.
Nel caso di atto medico costituito da intervento chirurgico si verificano, peraltro secondo un criterio di assoluta normalità, anche ulteriori danni conseguenza.
Si tratta:
a) della sofferenza e della contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona dell'esecuzione dell'intervento durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza;
b) della diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell'attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo ed eventualmente le funzionalità di esse.
Infine con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, la facoltà di autodeterminazione avrebbe potuto indirizzarsi nel rivolgersi per l'intervento medico altrove, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l'esecuzione di altro intervento vuoi meno demolitorio vuoi anche solo determinativo di minore sofferenza, si verifica anche un danno conseguenza rappresentato da vere e proprie "perdita", questa volta relative proprio ad aspetti della salute del paziente.
Che l'intervento medico non preceduto da acquisizione di consenso sia stato, in ipotesi, risolutivo della patologia che il paziente presenta non è circostanza idonea di per sè ad eliminare i danni conseguenza così individuati.
E' infatti palese che il beneficio tratto dall'esecuzione dell'intervento in queste ipotesi non "compensa" la perdita della possibilità di eseguirne uno meno demolitorio e nemmeno uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato meno sofferenza.
Anche qualora l'intervento eseguito si riveli l'unico possibile e, quindi, che, se fosse stato eseguito altrove o successivamente, esso avrebbe dovuto avere identica consistenza ed identici effetti, la verificazione del beneficio derivante dalla sua esecuzione in ogni caso non potrebbe in alcun modo compensare almeno la "perdita" della possibilità di scegliere di non sottoporsi all'intervento. Possibilità che è preservata dal diritto al consenso informato.
Non solo:, quando pure l'intervento eseguito fosse stato l'unico possibile e, tuttavia, la situazione non fosse stata tale che, per avere esso esito favorevole e risolutivo della patologia, la sua esecuzione avesse dovuto seguire in tempi ristretti e tali da non consentire uno spatium deliberarteli finalizzato all'acquisizione, da parte del paziente, di ulteriori informazioni sulla sua effettiva indispensabilità ed anche in funzione dell'indirizzarsi altrove per la sua esecuzione, la stessa circostanza che al paziente sia rimasta preclusa la possibilità di fruire di
tali possibilità e, quindi, anche di beneficiare dell'apporto positivo che la loro fruizione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l'intervento e le sue rilevanti conseguenze, si configura come danno conseguenza che in alcun modo è eliso dall'esito positivo dell'intervento: la preclusione di tali possibilità di autodeterminarsi e di beneficiare della diminuzione della sofferenza psichica conseguente all'autodeterminazione in alcun modo risultano compensate dall'esito favorevole dell'intervento. La ragione è di tutta evidenza: tale esito favorevole avrebbe potuto comunque essere conseguito all'esito di una situazione psichica del paziente, che, in quanto determinata dalla constatazione che anche altrove le si consigliava lo stesso intervento e che, dunque, esso si presentava veramente ineluttabile, meglio sarebbe stata predisposta ad accettare le conseguenze demolitorie dell'intervento. Detta situazione psichica risulta ben diversa da quella in cui il paziente si viene a trovare "a sorpresa" ex post soltanto quando constata gli effetti dell'intervento eseguito senza il suo consenso informato e si domanda se si sarebbe potuto fare altrimenti e se egli stesso avrebbe potuto scegliere diversamente, compresa la possibilità di non fare. Si tratta di situazione psichica mancata che nel suo oggettivo carattere dannoso non è in alcun modo eliminata: ciò per l'assorbente ragione che l'esito favorevole dell'intervento avrebbe potuto dispiegare i suoi effetti anche se quella situazione si fosse potuta verificare, onde il danno derivante dal fatto che essa è stata impedita, non risulta in alcun modo inciso.
(omissis)
p.2.4. Il motivo è fondato nei vari passaggi in cui si articola. Queste le ragioni.
p.2.4.1. La motivazione della sentenza impugnata risulta errata già nella parte in cui, partendo dal rilievo - che come si vedrà sarà, peraltro, parzialmente messo in crisi quanto ad uno dei suoi elementi dall'esame del quinto motivo - che "la prestazione sanitaria era stata eseguita con diligenza, prudenza e perizia, non essendovi alternative all'intervento chirurgico prescelto ed essendo stato lo stesso condotto con esito pienamente positivo, consistente nella totale guarigione della paziente" e dopo essersi posta nell'ottica che effettivamente fosse mancato un consenso informato allo sviluppo assunto dall'intervento chirurgico, ha affermato che, poichè tanto sulla base di un apprezzamento ex ante quanto ex post, l'estensione dell'intervento, peraltro eseguito anche correttamente, si era rivelata non solo l'unica scelta terapeutica possibile, ma anche, all'esito della sua esecuzione, una scelta determinante - peraltro, si dice, unitamente all'intervento dei medici francesi - l'eliminazione dello stato patologico costituito dal tumore, per tale ragione sarebbero stati irrilevanti il pregiudizio morale e biologico, rispettivamente consistenti nella sofferenza connessa all'intervento estensivo e nella perdita, in conseguenza della sua esecuzione, della capacità riproduttiva. Ciò, in quanto essi sarebbero stati giustificati dall'esigenza di prevenire un danno maggiore ed irreparabile e rappresenterebbero come tali un effetto collaterale di una scelta terapeutica non solo obbligata, ma anche risolutiva della patologia.
Il senso di tale motivazione sembrerebbe potersi esprimere nel seguente principio: quando il medico, senza previa acquisizione del consenso informato e, naturalmente in situazione in cui tale acquisizione sarebbe stata sarebbe possibile, esegue correttamente sul paziente un intervento chirurgico, che ex ante appaia necessitato sul piano terapeutico ed expost si riveli anche risolutivo della patologia che il paziente presentava, la lesione alla libertà di determinazione del paziente cagionata dalla mancata acquisizione del consenso, si dovrebbe considerare inidonea a determinare un danno risarcibile. Poichè i danni risarcibili, nel caso di illecito contrattuale ed extracontrattuale sono individuati dall'art. 1223 c.c., (richiamato dal'art. 2056 c.c.) questa affermazione sottende il convincimento che in una simile evenienza la violazione del diritto al consenso informato non cagionerebbe nè quello che la norma definisce "perdita", nè quello che la norma definisce "lucro cessante". E ciò perchè detta lesione sarebbe giustificata dal vantaggio conseguito dal paziente con l'eliminazione della patologia.
(omissis)
p.2.4.2. Questo assunto non è in alcun modo condivisibile ed appare frutto di una non corretta percezione della struttura della fattispecie di illecito, sia esso contrattuale o extracontrattuale, che si ricollega all'esecuzione, da parte di un medico sulla persona del paziente, senza la previa acquisizione del suo consenso informato, di un intervento pur costituente esercizio dell'attività medica.
L'assunto della Corte aquilana si pone in sostanza in contrasto con il profilo strutturale della lesione del diritto al consenso informato, o meglio del diritto ad essere informati sulla direzione dell'attività medica sulla propria persona ed a consentirla, all'esito dell'informazione, prestando il consenso, che in tal modo risulta espresso sulla base della conoscenza da parte del paziente delle implicazioni, dei rischi e delle conseguenze dell'attività stessa e, quindi, esprime un atto di disposizione della propria persona in senso psico-fisico risalente ad una volontà del paziente consapevole.
In proposito, occorre rilevare innanzitutto che la struttura di tale illecito deve essere ricostruita sulla base della necessaria distinzione, di rilievo generale in tema di fatto illecito civile, contrattuale o extracontrattuale, fra l'individuazione dell'evento che lo integra (c.d. danno-evento) e quella delle sue conseguenze dannose (c.d. danno conseguenza), che far sorgere il diritto alla riparazione, id est al risarcimento. Distinzione la cui generalità è stata, com'è noto, riaffermata dalle SS.UU. nelle c.d. sentenze di San Xxxxxxx (Cass. sez. un. n. 26972 del 208 e le altre tre gemelle).
Sotto il primo profilo la lesione del diritto ad esprimere il c.d. consenso informato da parte del medico si verifica per il sol fatto che egli tenga una condotta che lo porta al compimento sulla persona del paziente (…) di atti medici senza avere acquisito il suo consenso.
Il c.d. danno evento cagionato da tale condotta è, sotto tale profilo, rappresentato dallo stesso estrinsecarsi dell'intervento sulla persona del paziente senza la previa acquisizione del consenso, cioè, per restare al caso dell'intervento chirurgico, dall'esecuzione senza tale consenso dell'intervento sul corpo del paziente. Il danno-evento in questione risulta, dunque, dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva.
p.2.4.3. Il danno conseguenza, quello che l'art. 1223 c.c., indica come perdita o mancato guadagno, è, invece, rappresentato dall'effetto pregiudizievole che la mancanza dell'acquisizione del consenso e, quindi, il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento positivo di esecuzione dell'intervento, ha potuto determinare sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico- fisica posseduta prima dell'intervento, la quale, se le informazioni fossero state date, l'avrebbe portata a decidere sul se assentire la pratica medica.
Un primo effetto è intuitivo: poichè l'informazione sull'atto medico da eseguirsi e sulle sue conseguenze, una volta data al paziente, avrebbe posto costui nella condizione di decidere se autorizzare o non autorizzare il medico all'esecuzione dell'intervento proposto e poichè tra i contenuti possibili concreti che l'esercizio di tale potere di determinazione può assumere vi può essere sia la scelta di restare nelle condizioni che secondo il medico imporrebbero l'intervento anche se pregiudizievoli (se del caso anche usque ad supremum exitwn), sia la scelta di riflettere e di determinarsi successivamente, sia e soprattutto quella di rivolgersi altrove, cioè ad altro medico, prima di determinarsi, è palese che un effetto della condotta di omissione dell'informazione seguita dall'esecuzione dell'atto medico, che integra danno conseguenza, si individua nella preclusione della possibilità di esercitare tutte tali opzioni.
Preclusione che integra danno conseguenza perchè si concreta nella privazione della libertà del paziente di autodeterminarsi circa la sua persona fìsica. Libertà che, costituendo un bene di per sè, quale aspetto della generica libertà personale, viene negata e, quindi, risulta sacrificata irrimediabilmente, sì che si configura come "perdita" di un bene personale.
Nel caso di atto medico costituito da intervento chirurgico si verificano, peraltro secondo un criterio di assoluta normalità, anche ulteriori danni conseguenza.
Si tratta:
a) della sofferenza e della contrazione della libertà di disporre di sè stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona dell'esecuzione dell'intervento durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza;
b) della diminuzione che lo stato del paziente subisce a livello fisico per effetto dell'attività demolitoria, che abbia eliminato, sebbene a fini terapeutici, parti del corpo ed eventualmente le funzionalità di esse: poichè tale diminuzione avrebbe potuto verificarsi solo se assentita sulla base dell'informazione dovuta e si è verificata in mancanza di essa si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa, che si deve apprezzare come danno
conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è bene diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona, ancorchè in modo di riflesso incidente sul bene della salute.
Non solo: con riferimento alla possibilità che, se il consenso fosse stato richiesto, la facoltà di autodeterminazione avrebbe potuto indirizzarsi nel rivolgersi per l'intervento medico altrove, qualora si riveli che sarebbe stata possibile in relazione alla patologia l'esecuzione di altro intervento vuoi meno demolitorio vuoi anche solo determinativo di minore sofferenza, si verifica anche un danno conseguenza rappresentato da vere e proprie "perdita", questa volta relative proprio ad aspetti della salute del paziente.
p.2.4.4. Tanto chiarito, risulta evidente che la circostanza che l'intervento medico non preceduto da acquisizione di consenso sia stato, in ipotesi, risolutivo della patologia che il paziente presenta non è idonea di per sè ad eliminare i danni conseguenza così individuati.
Ciò è di tutta evidenza nel caso delle perdite di cui s'è appena detto. E' infatti palese che il beneficio tratto dall'esecuzione dell'intervento in queste ipotesi non "compensa" la perdita della possibilità di eseguirne uno meno demolitorio e nemmeno uno che, se eseguito da altri, avrebbe provocato meno sofferenza.
Ma è non meno evidente che, anche qualora l'intervento eseguito si riveli l'unico possibile e, quindi, che, se fosse stato eseguito altrove o successivamente, esso avrebbe dovuto avere identica consistenza ed identici effetti, la verificazione del beneficio derivante dalla sua esecuzione in ogni caso non potrebbe in alcun modo compensare almeno la "perdita" della possibilità di scegliere di non sottoporsi all'intervento. Possibilità che è preservata dal diritto al consenso informato.
Non solo:, quando pure l'intervento eseguito fosse stato l'unico possibile e, tuttavia, la situazione non fosse stata tale che, per avere esso esito favorevole e risolutivo della patologia, la sua esecuzione avesse dovuto seguire in tempi ristretti e tali da non consentire uno spatium deliberarteli finalizzato all'acquisizione, da parte del paziente, di ulteriori informazioni sulla sua effettiva indispensabilità ed anche in funzione dell'indirizzarsi altrove per la sua esecuzione, la stessa circostanza che al paziente sia rimasta preclusa la possibilità di fruire di tali possibilità e, quindi, anche di beneficiare dell'apporto positivo che la loro fruizione avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire l'intervento e le sue rilevanti conseguenze, si configura come danno conseguenza che in alcun modo è eliso dall'esito positivo dell'intervento: la preclusione di tali possibilità di autodeterminarsi e di beneficiare della diminuzione della sofferenza psichica conseguente all'autodeterminazione in alcun modo risultano compensate dall'esito favorevole dell'intervento. La ragione è di tutta evidenza: tale esito favorevole avrebbe potuto comunque essere conseguito all'esito di una situazione psichica del paziente, che, in quanto determinata dalla constatazione che anche altrove le si consigliava lo stesso intervento e che, dunque, esso si presentava veramente ineluttabile, meglio sarebbe stata predisposta ad accettare le conseguenze demolitorie dell'intervento. Detta situazione psichica risulta ben diversa da quella in cui il paziente si viene a trovare "a sorpresa" ex post soltanto quando constata gli effetti dell'intervento eseguito senza il suo consenso informato e si domanda se si sarebbe potuto fare altrimenti e se egli stesso avrebbe potuto scegliere diversamente, compresa la possibilità di non fare. Si tratta di situazione psichica mancata che nel suo oggettivo carattere dannoso non è in alcun modo eliminata: ciò per l'assorbente ragione che l'esito favorevole dell'intervento avrebbe potuto dispiegare i suoi effetti anche se quella situazione si fosse potuta verificare, onde il danno derivante dal fatto che essa è stata impedita, non risulta in alcun modo inciso.
p.2.5. Le svolte considerazioni evidenziano allora l'erroneità della sentenza impugnata là dove ha attribuito all'esito risolutivo della patologia dell'intervento eseguito il valore di elidere la lesione del diritto al consenso informato.
L'elisione di tale lesione è frutto della mancata percezione in iure dell'esatta consistenza della fattispecie astratta di violazione del diritto al consenso informato con riferimento alla struttura del relativo illecito ed alla distinzione fra danno evento e danno conseguenza ad essa riferibili.
(omissis)
p.2.6. Si ricorda, al riguardo che l'origine e, quindi, la doverosa dimensione funzionale e le implicazioni del consenso informato bene sono state delineate da Cass. n. 21748 del 2007, nel senso che: "Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi. Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sè e guarda al limite del "rispetto della persona umana" in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofìche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sè, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale".
p.2.7. Si rammenta, altresì, che la già citata Cass. n. 2847 del 2010, ha avuto modo di rimarcare innanzitutto che, "secondo la definizione della Corte costituzionale (sentenza n. 438 del 2008, sub. n. 4 del "Considerato in diritto") il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 è 32 Cost., i quali stabiliscono rispettivamente che "la libertà personale è inviolabile" e che "nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".
(omissis)
p.2.8. Sempre la sentenza n. 2847 del 2010 - immediatamente di seguito alla riportata motivazione e con considerazioni che evidenziavano già il profilo strutturale dell'illecito da lesione del diritto al consenso informato, siccome lo si è delineato nei precedenti paragrafi - ha poi, osservato che: "Viene anzitutto in rilievo il caso in cui alla prestazione terapeutica conseguano pregiudizi che il paziente avrebbe alternativamente preferito sopportare nell'ambito di scelte che solo a lui è dato di compere.
Non sarebbe utile a contrastare tale conclusione il riferimento alla prevalenza del bene "vita" o del bene "salute" rispetto ad altri possibili interessi, giacchè una valutazione comparativa degli interessi assume rilievo nell'ambito del diritto quando soggetti diversi siano titolari di interessi confliggenti e sia dunque necessario, in funzione del raggiungimento del fine perseguito, stabilire quale debba prevalere e quale debba rispettivamente recedere o comunque rimanere privo di tutela; un "conflitto" regolabile ab externo è, invece, escluso in radice dalla titolarità di pur contrastanti interessi in capo allo stesso soggetto, al quale soltanto, se capace, compete la scelta di quale tutelare e quale sacrificare. Così, a titolo meramente esemplificativo, non potrebbe a priori negarsi tutela risarcitoria a chi abbia consapevolmente rifiutato una trasfusione di sangue perchè in contrasto con la propria fede religiosa (al caso dei Testimoni di Geova si sono riferite, con soluzioni sostanzialmente opposte, Cass., nn. 23676/2008 e 4211/2007), quand'anche gli si sia salvata la vita praticandogliela, giacchè egli potrebbe aver preferito non vivere, piuttosto che vivere nello stato determinatosi; così, ancora, non potrebbe in assoluto escludersi la risarcibilità del danno non patrimoniale da acuto o cronico dolore fisico (sul punto cfr. Cass., n. 23846/2008) nel caso in cui la scelta del medico di privilegiare la tutela dell'integrità fisica del paziente o della sua stessa vita, ma a prezzo di sofferenze fisiche che il paziente avrebbe potuto scegliere di non sopportare, sia stata effettuata senza il suo consenso, da acquisire in esito alla rappresentazione più puntuale possibile del dolore prevedibile, col bilanciamento reso necessario dall'esigenza che esso sì a prospettato con modalità idonee a non ingenerare un aprioristico rifiuto dell'atto terapeutico, chirurgico o farmacologico. E nello stesso ambito dovrebbe inquadrarsi il diritto al risarcimento per la lesione derivata da un atto terapeutico che abbia salvaguardato la salute in un campo a discapito di un
secondario pregiudizio sotto altro pure apprezzabile aspetto, che non sia stato tuttavia adeguatamente prospettato in funzione di una scelta consapevole del paziente, che la avrebbe in ipotesi compiuta in senso difforme da quello privilegiato dal medico. Viene, in secondo luogo, in rilievo la considerazione del turbamento e della sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perchè non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate.
L'informazione cui il medico è tenuto in vista dell'espressione del consenso del paziente vale anche, ove il consenso sia prestato, a determinare nel paziente l'accettazione di quel che di non gradito può avvenire, in una sorta di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene; e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perchè inevitabile. Il paziente che sia stato messo in questa condizione - la quale integra un momento saliente della necessaria "alleanza terapeutica" col medico - accetta preventivamente l'esito sgradevole e, se questo si verifica, avrà anche una minore propensione ad incolpare il medico. Se tuttavia lo facesse, il medico non sarebbe tenuto a risarcirgli alcun danno sotto l'aspetto del difetto di informazione (salva la sua possibile responsabilità per avere, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o male operato; ma si tratterebbe - come si è già chiarito - di un aspetto del tutto diverso, implicante una "colpa" collegata all'esecuzione della prestazione successiva). Ma se il paziente non sia stato convenientemente informato, quella condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguente verificatesi e non prospettate come possibili. Ed è appunto questo il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l'effetto del mancato rispetto dell'obbligo di informare il paziente.
Condizione di risarcibilità di tale tipo di danno non patrimoniale è che esso varchi la soglia della gravità dell'offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite nn. da 26972 a 26974 del 2008, con le quali s'è stabilito che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico. Non pare possibile offrire più specifiche indicazioni".
p.2.9. Ancora di recente si possono ricordare come mosse dalla stessa logica le considerazioni di Cass. n. 19731 del 2014.
p.2.10. Il Collegio osserva che la prospettazione della Corte aquilana - al di là della mancata evocazione di tale principio - non potrebbe apparire corretta neppure se la si considerasse applicativa del principio della c.d. compensatici lucri cum damno: ancorchè esso, secondo l'opinione preferibile trovi applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito (Cass. n. 20548 del 2014), nella specie, pur essendo il "lucro" scaturito dall'esecuzione dell'intervento senza consenso informato provocato in senso lato dallo stesso illecito derivante dalla mancata acquisizione del consenso (siccome risultante dalla condotta di omessa acquisizione del consenso informato seguita dall'esecuzione dell'intervento), si è veduto come esso non sia in alcun modo idoneo a compensare, cioè a rendere irrilevante, il danno conseguenza derivato dalla mancata acquisizione del consenso informato.
E la ragione è palese: il bene tutelato con riferimento al procedere senza acquisizione del consenso informato è la libertà di autodeterminazione circa il proprio stato psico-fisica. Quello tutelato con riferimento all'esecuzione dell'attività medica è la salute, cioè la condizione psico-fisica del soggetto come tale. Se i beni tutelati sono diversi la compensazione non può operare, ma semmai l'esito favorevole sulla salute verrà in evidenza ai fini di liquidare il danno derivato dalla lesione del diritto al consenso informato: nell'operazione di stima del danno non patrimoniale sofferto (tali sono i danni conseguenza da lesione del diritto all'autodeterminazione) si terrà conto dell'incidenza sulla salute dell'intervento eseguito. Mentre, se l'intervento non è stato risolutivo o è stato in parte inutilmente demolitorio o è stato addirittura dannoso ed inutile, è palese che, essendo leso anche il diritto alla salute del paziente, esso si configurerà come ulteriore danno conseguenza e la stima sarà diversa. Nuovamente si rinvia alla riportata motivazione di Cass. n. 2847 del 2010.
(omissis)
p.2.12. In particolare, nel caso di specie, fermo che si è al di fuori del carattere di urgenza dell'intervento, che rendesse impossibile acquisirne il consenso, è stata negata alla ricorrente:
aa) innanzitutto la possibilità di autodeterminarsi e, quindi, di decidere se sottoporsi all'intervento estensivo con le sue conseguenze sulla sua funzionalità fisica oppure, posta nella prospettiva di subire la progressione del tumore negli organi che poi le sono stati asportati e le conseguenze di essa, di subirle;
bb) in secondo luogo la possibilità di compiere tale scelta in modo meditato; cc) in terzo luogo di compierla sentendo altre strutture mediche;
dd) in quarto luogo di eventualmente "abituarsi", proprio in dipendenza dei risultati acquisiti nello spazio temporale dello spatium deliberandi che le è stato negato, all'idea di dover subire gli interventi demolitori poi eseguiti e, quindi, di acconsentirli.
Si aggiunga che, se fosse stata informata ed avesse fruito delle possibilità appena descritte, la medesima avrebbe evitato l'impatto certamente doloroso in termini psichici e psicologici della percezione a sorpresa, all'esito dell'intervento, delle conseguenze demolitone dello stesso e della loro incidenza su una serie di funzionalità fisiche, nonchè lo stato conseguente di ansia e incertezza derivante dalla voglia di verificare se l'intervento era necessario che non a caso l'ha portata a recarsi all'estero presso alto nosocomio in tempi immediatamente successivi all'esecuzione dell'intervento dopo aver rifiutato la terapia chemioterapica. E' palese che il patimento psichico e psicologico così sofferto non si sarebbero verificate se fosse stata messa in condizione di sapere e, quindi, di decidere consapevolmente.
(omissis)
5. CONCORSO COLPOSO DEL DANNEGGIATO, art. 1227 comma 1 c.c.: Corte di Cassazione, Sezioni Unite 21 novembre 2011, n. 24406
La responsabilità civile per omissione può scaturire non solo dalla violazione di un preciso obbligo giuridico di impedire l’evento dannoso, ma anche dalla violazione di regole di comune prudenza, le quali impongano il compimento di una determinata attività a tutela di un diritto altrui. Tale principio trova applicazione sia quando si tratti di valutare se sussista la colpa dell’autore dell’illecito, sia quando si tratti di stabilire se sussista un concorso di colpa della vittima nella produzione del danno, ex art. 1227, comma primo, c.c. Non può, pertanto, ritenersi corresponsabile del danno colui che, senza violare alcuna regola di comune prudenza, correttezza o diligenza, non si sia attivato per rimuovere tempestivamente una situazione di pericolo creata da terzi. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva escluso che un’impresa edile, danneggiata dall’esondazione d’un canale alla cui manutenzione la P.A. non aveva provveduto, potesse ritenersi corresponsabile del danno, per non avere provveduto ad innalzare l’argine del canale, nonostante la prossimità ad esso del cantiere, trattandosi di un intervento, nella specie, inesigibile nei suoi confronti).
In tema di risarcimento del danno, al fine di integrare la fattispecie di cui all’art. 1227, primo comma, c.c. - applicabile per l’espresso richiamo di cui all’art. 2056 c.c. anche alla responsabilità extracontrattuale - il comportamento omissivo del danneggiato rilevante non è solo quello tenuto in violazione di una norma di legge, ma anche più genericamente in violazione delle regole di diligenza e correttezza. Ciò comporta che, ai fini di un concorso del fatto colposo del danneggiato ex art. 1227, comma, c.c., sussiste il comportamento omissivo colposo del danneggiato ogni qual volta tale inerzia contraria a diligenza, a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l’evento lesivo in suo danno.
(omissis)
(omissis)
0.0.Xx preliminarmente osservato che, in tema di risarcimento del danno, l'art. 1227 cod. civ., nel disciplinare il concorso di colpa del creditore nella responsabilità contrattuale, applicabile per l'espresso richiamo di cui all'art. 2056 cod. civ. anche alla responsabilità extracontrattuale, distingue l'ipotesi in cui il fatto colposo del creditore o del danneggiato abbia concorso al verificarsi del danno (comma 1), da quella in cui il comportamento dei medesimi ne abbia prodotto soltanto un aggravamento senza contribuire alla sua causazione (secondo comma).
Secondo la dottrina classica nel nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente previsto dall'art. 1227 x.x., xxxxx 0, xxxxx xxx xx xxxxx xxxxx, che imporrebbe ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza.
L'autoresponsabilità costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a contribuire, insieme con gli eventuali responsabili, alla prevenzione dei danni che potrebbero colpirli.
2.3. Senza entrare nella questione dell'esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità, va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover condividere, ha abbandonato l'idea che la regola di cui all'art. 1227 x.x., xxxxx 0, xxx xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxx di autoresponsabilità, ravvisandosi piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
Pertanto la colpa, cui fa riferimento l'art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.
2.4. Una volta riconosciuta all'art. 1227 c.c., comma 1, la funzione di regolare, ai fini della causalità di fatto, l'efficienza causale del fatto colposo del leso, con conseguenze sulla determinazione dell'entità del risarcimento, ed una volta ritenuto che detta norma trova il suo inquadramento nel principio causalistico, secondo cui se tutto l'evento lesivo è conseguenza del comportamento colposo del danneggiato, risulta interrotto il nesso di causalità con le possibili cause precedenti, rimane solo da esaminare quando il comportamento omissivo del danneggiato possa essere idoneo a costituire causa esclusiva o concausa dell'evento lesivo.
Va, anzitutto, rilevato che in tema di nesso causale per illeciti omissivi e con riferimento al comportamento dell'autore dell'illecito (diverso quindi dal comportamento del danneggiato) nella giurisprudenza di questa Corte coesistono due orientamenti ispirati rispettivamente alla tipicità ed all'atipicità dell'illecito omissivo.
Secondo il primo di tali orientamenti (che fa capo all'art. 40 c.p., comma 2, nella sua valenza letterale: "non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo"), ai fini della responsabilità per danni da condotta omissiva non è sufficiente richiamarsi al principio del "neminem laedere" o ad una generica antidoverosità sociale dell'inerzia, ma occorre individuare, caso per caso, un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l'evento che può derivare, oltre che dalla norma, da uno specifico rapporto negoziale o di altra natura che leghi danneggiato e soggetto chiamato a rispondere (Cass. 25.9.1998, n. 9590; Cass. 6.4.1992, n. 2134; Cass. 9.1.1979, n. 116; Xxxx. 28 giugno 0000 x. 00000;).
Secondo l'altro orientamento, un obbligo giuridico di impedire l'evento può derivare anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui (Cass. 8.1.1997, n. 72; Cass. 14.10.1992, n. 11207; Cass. 29/07/2004, n. 14484; Cass. 23/05/2006, n. 12111).
2.5. Ritiene questa Corte di dover aderire a questo secondo orientamento, tenuto conto che esso si appalesa più conforme al principio solidaristico di cui all'art. 2 Cost., nonchè al dovere di comportamento secondo correttezza, che attiene anche alla fase genetica dell'obbligazione (art. 1175 c.c.) (indicazioni in questo senso emergono già da Xxxx. S.U. n. 576 del 2008).
Già solo rapportando tale interpretazione del nesso causale da comportamento omissivo alla situazione in cui tale condotta dannosa è dello stesso danneggiato, deve ritenersi che questi è tenuto ad attivarsi per evitare che si verifichi un evento lesivo in suo danno, secondo comuni principi di diligenza.
2.6. Sennonchè vi è anche una più specifica ragione per ritenere che, al fine di integrare la fattispecie di cui all'art. 1227 c.c., comma 1 il comportamento omissivo del danneggiato rilevante non è solo quello tenuto in violazione di una norma di legge, ma anche più genericamente in violazione delle regole di diligenza e correttezza.
Proprio perchè è rimasta superata la teoria del principio di autoresponsabilità del danneggiato, la colposità del comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall'art. 1227 c.c., comma 1, è l'unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti - eziologicamente idonei - del danneggiato, qualunque possa essere l'interpretazione dell'obbligo giuridico, cui si richiama l'art. 40 c.p.c., comma 2, allorchè il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di altro soggetto.
Così ristretta nella funzione la portata della colpa del creditore- danneggiato, stante la genericità dell'art. 1227 c.c., comma 1 sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica.
2.7. Ciò comporta che, ai fini dell'art. 1227 c.c., comma 1, sussiste il comportamento omissivo colposo del danneggiato ogni qual volta tale inerzia contraria a diligenza, a prescindere dalla violazione di un obbligo giuridico di attivarsi, abbia concorso a produrre l'evento lesivo in suo danno.
Nè va trascurato il rilievo che la contraria tesi finirebbe per svuotare parzialmente di contenuto il principio di cui all'art. 1227 c.c., comma 1 (anche nell'ipotesi di causalità esclusiva) in tutti i casi di comportamento omissivo colposo del danneggiato, in quanto generalmente l'ordinamento non pone obblighi giuridici a carico di un soggetto per la tutela delle posizioni giuridiche di questi, mentre la regola di cui all'art. 1227 c.c. va inquadrata esclusivamente nell'ambito del rapporto causale ed è espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. 26/04/1994, n. 3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988).
(omissis)
6. DANNO EVITABILE ex art. 1227 comma 2 c.c.:
6.1 Corte di Cassazione, sentenza n. 11230 del 31 maggio 2016;
L’art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. La norma che onera il danneggiato ad uniformarsi ad un comportamento attivo ed attento dell’altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa "evitabilità" del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell’art. 1175 c.c., applicabile ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio a suo carico.
Il limite alla esigibilità del comportamento attivo di cui all’art. 1227 c.c. è costituito dalla "ordinaria" e non "straordinaria" diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell’evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici.
(omissis)
In tema di risarcimento del danno, il primo comma dell’art. 1227 cod. civ. attiene all’ipotesi del fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, mentre il secondo comma ha riguardo a situazione in cui il danneggiato sia estraneo alla produzione dell’evento ma abbia omesso, dopo la relativa
verificazione, di fare uso della normale diligenza per circoscriverne l’incidenza; l’accertamento dei presupposti per l’applicabilità della suindicata disciplina integra indagine di fatto, come tale riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità se assistita da motivazione congrua (v. Sez. 3, Sentenza n. 5511 del 08/04/2003 Rv. 561983; Sez. 3, Sentenza n. 2422 del 09/02/2004 (Rv. 569992).
Ebbene, la Corte d’Appello di Bari ha ritenuto che, a seguito della mancata consegna del motore richiesto, la Plastic Puglia completò l’impianto solo nell’ottobre 1995 allorché ricevette altro motore da una terza ditta, la Helmke, sostenendo peraltro oneri maggiori pari a E. 5.862,30. Ha accertato però che le Officine C. in data 22.2.1995 formularono offerta di fornitura di un impianto usato comprensivo di motore per il prezzo di lire 135.000.000 e l’equivalente di nuova produzione al prezzo di lire 291.000.000. La Corte, ha rilevato altresi’ sulla scorta di quanto precedentemente riscontrato dal CTU, che il motore ordinato alla Xxxxxxx era identico a quello contemplato nella più ampia offerta della C. . Ancora, ha affermato che dalla deposizione del teste C.O. , amministratore delegato della omonima società, era emersa la disponibilità della sua azienda a fornire 'il motore' in questione anche nell’arco delle 48 ore.
E, sulla base di tali argomentazioni, la Corte di merito ha concluso che correttamente era stato negato dal primo giudice il risarcimento del danno patrimoniale per la temporanea sospensione dell’attività produttiva in applicazione dell’art. 1227 secondo comma cc: secondo i giudici di merito, con l’ordinaria diligenza il danno poteva essere evitato ben potendo la società indirizzare l’ordine alla fornitrice titolare dell’esclusiva (cioè la C. ), che lo avrebbe prontamente evaso (v. pagg. 9 e 10). La sentenza ha altresi’ affermato che dalla deposizione del teste C. risultava una disponibilità alla fornitura 'tanto dell’intero macchinario, quanto dello specifico motore' (v. pag. 10).
Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo basato su tipici accertamenti in fatto, congruamente motivato ed immune da vizi logici, nonché giuridicamente corretto perché aderente alla giurisprudenza di questa Corte.
Infatti, con riferimento al contenuto dell’ordinaria diligenza esigibile è stato in più occasioni affermato che l’art. 1227 c.c., comma 2, non si limita a prescrivere al danneggiato un comportamento meramente negativo, consistente nel non aggravare con la propria attività il danno già prodottosi, ma richiede un intervento attivo e positivo, volto non solo a limitare, ma anche ad evitare le conseguenze dannose. La norma che onera il danneggiato ad uniformarsi ad un comportamento attivo ed attento dell’altrui interesse, rientra tra le fonti di integrazione del regolamento contrattuale, per cui la stessa 'evitabilità' del danno è coordinata con i principi di correttezza e di buona fede oggettiva, contenuti nell’art. 1175 c.c., applicabile ad entrambe le parti del rapporto obbligatorio e non al solo debitore, nel senso che costituisce onere sia del debitore che del creditore di salvaguardare l’utilità dell’altra parte nei limiti in cui ciò non comporti un’apprezzabile sacrificio a suo carico (Xxx. L, Sentenza n. 16076 del 21/09/2012 Rv. 624106; sez. L Sentenza n. 9898 del 11/05/2005 Rv. 581089, entrambe in motivazione; Cass. 7 aprile 1983 n. 2468; Cass. 14 gennaio 1992 n. 320 cit.).
Il limite alla esigibilità del comportamento attivo è costituito dalla 'ordinaria' e non 'straordinaria' diligenza, nel senso che le attività che il creditore avrebbe dovuto porre in essere al fine dell’evitabilità del danno, non siano gravose o straordinarie, come esborsi apprezzabili di denaro, assunzione di rischi, apprezzabili sacrifici (Sez. L, Sentenza n. 16076/2012 cit., sempre in motivazione; v. altresi’ Sez. 3, Sentenza n. 15231 del 05/07/2007 Rv. 598303; Sez. 3, Sentenza n. 6735 del 30/03/2005 Rv. 580786; Cass. 15 luglio 1982 n.
4174; Cass. 14 novembre 1978 n. 5243; Cass. 25 gennaio 1975 n. 304; Cass. 6 luglio 2002 n. 9850).
Un tale diffuso orientamento, certamente ispirato alla tutela del dovere di correttezza e cooperazione nelle obbligazioni, appare condivisibile dal Collegio rispetto ad altro più risalente - su cui poggia il ricorso - secondo cui tra le attività gravose e straordinarie debba ricomprendersi anche l’acquisto aliunde delle cose che costituivano l’oggetto della prestazione promessa. Detta giurisprudenza peraltro risulta contrastata da altra in senso contrario, secondo cui invece la permanenza del vincolo contrattuale sino alla pronunzia di risoluzione non impedisce alla parte, che ha sofferto l’inadempimento, di procurarsi altrove la prestazione. Pertanto, se, tenuto conto delle circostanze del caso, il procurarsi altrimenti la prestazione appariva richiesto dall’ordinaria diligenza
per evitare o contenere il danno, la parte che abbia ciò trascurato non può sfuggire alle conseguenze previste dall’art. 1227 ult. comma cod. civ.; altresi’ cass. 9937/1997 in motivazione).
(omissis)
6.2 Corte di Cassazione, sez. lav., sentenza n. 4865 del 11 marzo 2016
5.- Il terzo motivo è inammissibile - per quel che si è detto nel precedente paragrafo 4.1. - per la parte in cui, impropriamente, si invoca la violazione dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., mentre è infondato per la parte in cui si denuncia la violazione dell'art. 1227 cod. civ.
5.1.- A tale ultimo riguardo va ricordato che, in base a consolidati e condivisi orientamenti di questa Corte:
a) in linea generale, il dovere del danneggiato di attivarsi per evitare il danno secondo l'ordinaria diligenza ex art. 1227, secondo comma, cod. civ., deve essere inteso come sforzo di evitare il danno attraverso un'agevole attività personale, o mediante un sacrificio economico relativamente lieve, mentre non sono comprese nell'ambito dell'ordinaria diligenza quelle attività che siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (vedi, per tutte: Xxxx. 11 febbraio 2005, n. 2855);
b) l'onere di diligenza imposto al creditore dall'art. 1227, secondo xxxxx, cod. civ., non si spinge fino al punto di obbligare quest'ultimo a compiere una attività gravosa o rischiosa, quale la introduzione di un processo (Cass. 27 giugno 2007, n. 14853; Cass. 31 luglio 2002, n. 11364; Cass. 29 settembre 2005, n. 19139);
c) la regola di cui all'art. 1227, secondo comma, cod. civ. è applicabile anche al danno da risarcire ex art. 18 Stat.lav. a seguito di un licenziamento dichiarato illegittimo, ma sempre entro i suddetti limiti, il che comporta, in particolare, che l'obbligo di cooperazione del creditore volto ad evitare l'aggravarsi del danno, nell'ambito dell'ordinaria diligenza, ivi previsto, possa riguardare solo quelle attività che non siano gravose, eccezionali o tali da comportare notevoli rischi e sacrifici per il creditore, secondo una valutazione riservata al giudice di merito e sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (Cass. 4 dicembre 2012, n. 21712; Cass. 11 maggio 2005 n. 9898; Cass. 6 luglio 2002, n. 9850; Cass. 11 maggio 2005 n. 9898; Cass. 13 giugno 2012, n. 9656);
d) di conseguenza, è da escludere l'imputabilità al lavoratore - ai fini dell'applicazione della riduzione ex art. 1227, secondo comma, cod. civ. del risarcimento del danno cui è tenuto il datore di lavoro per effetto del licenziamento illegittimo - delle conseguenze dannose discendenti dal tempo impiegato per la tutela giurisdizionale da parte del lavoratore, tutte le volte che - sia che si tratti di inerzia endoprocessuale che di inerzia preprocessuale - le norme attribuiscano poteri paritetici al datore di lavoro per la tutela dei propri diritti e per la riduzione del danno, come accade, ad esempio, in ordine al promovimento del tentativo di conciliazione (Xxxx. 11 maggio 2005, n. 9898), ovvero nell'ipotesi in cui il lavoratore abbai ritualmente messo in mora la società datrice di lavoro (Cass. 5 giugno 2012, n. 9023), ovvero in ipotesi analoghe (Cass. 26 marzo 2010, n. 7344; Cass. 10 dicembre 2007, n. 25743).
7.MALATTIE TERMINALI E DIRITTI ALL'AUTODETERMINAZIONE: Xxxxx xx
Xxxxxxxxxx 00 ottobre 2007, n. 21748
Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l'applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell'interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato
vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Xxx l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa.
(omissis)
5. - I motivi in cui si articolano il ricorso principale ed il ricorso incidentale, stante la loro stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente.
Essi investono la Corte - oltre che del quesito se la terapia praticata sul corpo di E.E., consistente nell'alimentazione e nella idratazione artificiali mediante sondino nasogastrico, possa qualificarsi come una forma di accanimento terapeutico, sull'asserito rilievo che si verserebbe in fattispecie di trattamento invasivo della persona, senza alcun beneficio od utilità per la paziente che vada oltre il prolungamento forzoso della vita, perchè oggettivamente finalizzato a preservarne una pura funzionalità meccanica e biologica - anche della questione se ed in che limiti, nella situazione data, possa essere interrotta quella somministrazione, ove la richiesta al riguardo presentata dal tutore corrisponda alle opinioni a suo tempo espresse da E. su situazioni prossime a quella in cui ella stessa è venuta, poi, a trovarsi e, più in generale, ai di lei convincimenti sul significato della dignità della persona.
Quest'ultima questione è preliminare in ordine logico. Dall'esame di essa, pertanto, conviene prendere le mosse.
6. - Occorre premettere che il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi.
Il principio del consenso informato - il quale esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del paziente e sulla sua libertà di autodeterminazione terapeutica che sui doveri del medico - ha un sicuro fondamento nelle norme della Costituzione: nell'art. 2, che tutela e promuove i diritti fondamentali della persona umana, della sua identità e dignità; nell'art. 13, che proclama l'inviolabilità della libertà personale, nella quale "è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo" (Corte cost., sentenza n. 471 del 1990); e nell'art. 32, che tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo, oltre che come interesse della collettività, e prevede la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li assoggetta ad una riserva di legge, qualificata dal necessario rispetto della persona umana e ulteriormente specificata con l'esigenza che si prevedano ad opera del legislatore tutte le cautele preventive possibili, atte ad evitare il rischio di complicanze.
Nella legislazione ordinaria, il principio del consenso informato alla base del rapporto tra medico e paziente è enunciato in numerose leggi speciali, a partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (L. 23 dicembre 1978, n. 833), la quale, dopo avere premesso, all'art. 1, che "La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana", sancisce, all'art. 33, il carattere di norma volontario degli accertamenti e dei trattamenti sanitari.
A livello di fonti sopranazionali, il medesimo principio trova riconoscimento nella Convenzione del Consiglio d'Europa sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, (omissis)
Dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre 2000, si evince come il consenso libero e informato del paziente all'atto medico vada considerato, non soltanto sotto il profilo della liceità del trattamento, ma prima di tutto come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo,
afferente al più generale diritto all'integrità della persona (Capo 1^, Dignità; art. 3, Diritto all'Integrità della persona).
Nel codice di deontologia medica del 2006 si ribadisce (art. 35) che "Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente".
Il principio del consenso informato è ben saldo nella giurisprudenza di questa Corte.
Nelle sentenze della 3^ Sezione civile 25 gennaio 1994, n. 10014, e 15 gennaio 1997, n. 364, si afferma che dall'autolegittimazione dell'attività medica non può trarsi la convinzione che il medico possa, di regola ed al di fuori di taluni casi eccezionali (allorchè il paziente non sia in grado, per le sue condizioni, di prestare un qualsiasi consenso o dissenso, ovvero, più in generale, ove sussistano le condizioni dello stato di necessità di cui all'art. 54 cod. pen.), intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. Più di recente, Cass. civ., Sez. 3^, 14 marzo 2006, n. 5444, ha precisato che "la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, essendo del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell'ingiustizia del danno, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni": il trattamento eseguito senza previa prestazione di un valido consenso è in violazione "tanto dell'art. 32 Cost., comma 2, quanto dell'art. 13 Cost. e della L. n. 833 del 1978, art. 33, donde la lesione della situazione giuridica del paziente inerente alla salute ed all'integrità fisica". "La legittimità di per sè dell'attività medica - ribadisce Cass. pen., Sez. 4^, 11 luglio 2001 - 3 ottobre 2001 - richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medicochirurgico. Il consenso afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonchè alla sua libertà fisica intesa come diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall'art. 13 Cost.. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione su cui il medico potrebbe ad libitum intervenire, con il solo limite della propria coscienza; appare, invece, aderente ai principi dell'ordinamento riconoscere al medico la facoltà o la potestà di curare, situazioni soggettive, queste, derivanti dall'abilitazione all'esercizio della professione sanitaria, le quali, tuttavia, per potersi estrinsecare abbisognano, di regola, del consenso della persona che al trattamento sanitario deve sottoporsi". 6.1. - Il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale.
Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sè, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del "rispetto della persona umana" in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell'integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive.
Ed è altresì coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sè, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza.
Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorchè da esso consegua il sacrificio del bene della vita.
Xxxxxx sia stato talora prospettato un obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò
che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perchè il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorchè il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico.
Lo si ricava dallo stesso testo dell'art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l'intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte cost., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996).
Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire.
Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d'altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l'obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.
Tale orientamento, prevalente negli indirizzi della dottrina, anche costituzionalistica, è già presente nella giurisprudenza di questa Corte.
La sentenza della 1^ Sezione penale 29 maggio 2002 - 11 luglio 2002 afferma che, "in presenza di una determinazione autentica e genuina" dell'interessato nel senso del rifiuto della cura, il medico "non può che fermarsi, ancorchè l'omissione dell'intervento terapeutico possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte". Si tratta evidentemente - si precisa nella citata pronuncia - di ipotesi estreme, "che nella pratica raramente è dato di registrare, se non altro perchè chi versa in pericolo di vita o di danno grave alla persona, a causa dell'inevitabile turbamento della coscienza generato dalla malattia, difficilmente è in grado di manifestare liberamente il suo intendimento": "ma se cosi non è, il medico che abbia adempiuto il suo obbligo morale e professionale di mettere in grado il paziente di compiere la sua scelta e abbia verificato la libertà della scelta medesima, non può essere chiamato a rispondere di nulla, giacchè di fronte ad un comportamento nel quale si manifesta l'esercizio di un vero e proprio diritto, la sua astensione da qualsiasi iniziativa di segno contrario diviene doverosa, potendo, diversamente, configurarsi a suo carico persino gli estremi di un reato".
La soluzione, tratta dai principi costituzionali, relativa al rifiuto di cure ed al dovere del medico di astenersi da ogni attività diagnostica o terapeutica se manchi il consenso del paziente, anche se tale astensione possa provocare la morte, trova conferma nelle prescrizioni del codice di deontologia medica: ai sensi del citato art. 35, "in presenza di documentato rifiuto di persona capace", il medico deve "in ogni caso" "desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona". Inoltre tale soluzione è legislativamente sancita in altri ordinamenti europei. (omissis)
7. - Il quadro compositivo dei valori in gioco fin qui descritto, essenzialmente fondato sulla libera disponibilità del bene salute da parte del diretto interessato nel possesso delle sue capacità di intendere e di volere, si presenta in modo diverso quando il soggetto adulto non è in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità e non abbia, prima di cadere in tale condizione, allorchè era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie egli avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza.
Anche in tale situazione, pur a fronte dell'attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali (cfr. Corte Cost., sentenza n. 347 del 1998, punto n. 4 del Considerato in diritto).
7.1. - Risulta pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova E.E., la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento.
Questa condizione clinica perdura invariata dal gennaio 1992. (omissis)
7.2. - In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l'effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente.
E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l'urgenza dell'intervento derivante dallo stato di necessità, l'istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati.
Centrale, in questa direzione, è la disposizione dell'art. 357 cod. civ., la quale - letta in connessione con l'art. 424 cod. civ. -, prevede che "Il tutore ha la cura della persona" dell'interdetto, cosi investendo il tutore della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell'incapace. Poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 cod. civ. e ss., introdotti dalla L. 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina contenere l'indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405 c.c., comma 4).
A conferma di tale lettura delle norme del codice può richiamarsi la sentenza 18 dicembre 1989, n. 5652, di questa Sezione, con la quale si è statuito che, in tema di interdizione, l'incapacità di provvedere ai propri interessi, di cui all'art. 414 cod. civ., va riguardata anche sotto il profilo della protezione degli interessi non patrimoniali, potendosi avere ipotesi di assoluta necessità di sostituzione della volontà del soggetto con quella della persona nominata tutore pure in assenza di patrimoni da proteggere. Ciò avviene - è la stessa sentenza a precisarlo - nel caso del soggetto "la cui sopravvivenza è messa in pericolo da un suo rifiuto (determinato da infermità psichica) ad interventi esterni di assistenza quali il ricovero in luogo sicuro e salubre od anche il ricovero in ospedale" per trattamenti sanitari: qui il ricorso all'(allora unico istituto dell')interdizione è giustificato in vista dell'esigenza di sostituire il soggetto deputato a esprimere la volontà in ordine al trattamento proposto. E, sempre nella medesima direzione, possono ricordarsi le prime applicazioni dei giudici di merito con riguardo al limitrofo istituto dell'amministratore di sostegno, talora utilizzato, in campo medico-sanitario, per assecondare l'esercizio dell'autonomia e consentire la manifestazione di una volontà autentica là dove lo stato di decadimento cognitivo impedisca di esprimere un consenso realmente consapevole.
E' soprattutto il tessuto normativo a recare significative disposizioni sulla rappresentanza legale in ordine alle cure e ai trattamenti sanitari.
Secondo il D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 211, art. 4 (Attuazione della direttiva 2001/20/CE relativa all'applicazione della buona pratica clinica nell'esecuzione delle sperimentazioni cliniche di medicinali per uso clinico), la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che non hanno dato o non hanno rifiutato il loro consenso informato prima che insorgesse l'incapacità, è possibile a condizione, tra l'altro, che "sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante": un consenso - prosegue la norma - che "deve rappresentare la presunta, volontà del soggetto".
Ancora, l'art. 13 della legge sulla tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza (L. 22 maggio 1978, n. 194), disciplinando il caso della donna interdetta per infermità di mente, dispone: che la richiesta
di interruzione volontaria della gravidanza, sia entro i primi novanta giorni che trascorso tale periodo, può essere presentata, oltre che dalla donna personalmente, anche dal tutore; che nel caso di richiesta avanzata dall'interdetta deve essere sentito il parere del tutore; che la richiesta formulata dal tutore deve essere confermata dalla donna.
Più direttamente - e con una norma che, essendo relativa a tutti i trattamenti sanitari, esibisce il carattere della regola generale - l'art. 6 della citata Convenzione di Xxxxxx – (omissis)
Ora, è noto che, sebbene il Parlamento ne abbia autorizzato la ratifica con la L. 28 marzo 2001, n. 145, la Convenzione di Xxxxxx non è stata a tutt'oggi ratificata dallo Stato italiano. Ma da ciò non consegue che la Convenzione sia priva di alcun effetto nel nostro ordinamento. Difatti, all'accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora eseguito all'interno dello Stato, può assegnarsi - tanto più dopo la legge parlamentare di autorizzazione alla ratifica - una funzione ausiliaria sul piano interpretativo: esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzato nell'interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad esso conforme. Del resto, la Corte costituzionale, nell'ammettere le richieste di referendum su alcune norme della L. 19 febbraio 2004, n. 40, concernente la procreazione medicalmente assistita, ha precisato che l'eventuale vuoto conseguente al referendum non si sarebbe posto in alcun modo in contrasto con i principi posti dalla Convenzione di Xxxxxx del 4 aprile 1997, recepiti nel nostro ordinamento con la L. 28 marzo 2001, n. 145 (Corte cost., sentenze n. 46, 47, 48 e 49 del 2005): con ciò implicitamente confermando che i principi da essa posti fanno già oggi parte del sistema e che da essi non si può prescindere.
7.3. - Assodato che i doveri di cura della persona in capo al tutore si sostanziano nel prestare il consenso informato al trattamento medico avente come destinatario la persona in stato di incapacità, si tratta di stabilire i limiti dell'intervento del rappresentante legale.
Tali limiti sono connaturati al fatto che la salute è un diritto personalissimo e che - come questa Corte ha precisato nell'ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291 - la libertà di rifiutare le cure "presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive".
Ad avviso del Collegio, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non "al posto" dell'incapace nè "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
(omissis)
Ma, al contempo, il tutore non può nemmeno trascurare l'idea di dignità della persona dallo stesso rappresentato manifestata, prima di cadere in stato di incapacità, dinanzi ai problemi della vita e della morte.
(omissis)
7.5. - Chi versa in stato vegetativo permanente è, a tutti gli effetti, persona in senso pieno, che deve essere rispettata e tutelata nei suoi diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto alle prestazioni sanitarie, a maggior ragione perchè in condizioni di estrema debolezza e non in grado di provvedervi autonomamente.
La tragicità estrema di tale stato patologico - che è parte costitutiva della biografia del malato e che nulla toglie alla sua dignità di essere umano - non giustifica in alcun modo un affievolimento delle cure e del sostegno solidale, che il Servizio sanitario deve continuare ad offrire e che il inalato, al pari di ogni altro appartenente al consorzio umano, ha diritto di pretendere fino al sopraggiungere della morte. La comunità deve mettere a disposizione di chi ne ha bisogno e lo richiede tutte le migliori cure e i presidi che la scienza medica è in grado di apprestare per affrontare la lotta per restare in vita, a prescindere da quanto la vita sia precaria e da quanta
speranza vi sia di recuperare le funzioni cognitive. Lo reclamano tanto l'idea di una universale eguaglianza tra gli esseri umani quanto l'altrettanto universale dovere di solidarietà nei confronti di coloro che, tra essi, sono i soggetti più fragili.
Ma - accanto a chi ritiene che sia nel proprio miglior interesse essere tenuto in vita artificialmente il più a lungo possibile, anche privo di coscienza - c'è chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.
Uno Stato, come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche quest'ultima scelta.
All'individuo che, prima di cadere nello stato di totale ed assoluta incoscienza, tipica dello stato vegetativo permanente, abbia manifestato, in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento, l'inaccettabilità per sè dell'idea di un corpo destinato, grazie a terapie mediche, a sopravvivere alla mente, l'ordinamento da la possibilità di far sentire la propria voce in merito alla disattivazione di quel trattamento attraverso il rappresentante legale.
Ad avviso del Collegio, la funzionalizzazione del potere di rappresentanza, dovendo esso essere orientato alla tutela del diritto alla vita del rappresentato, consente di giungere ad una interruzione delle cure soltanto in casi estremi: quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una vita fatta anche di percezione del mondo esterno; e sempre che tale condizione - tenendo conto della volontà espressa dall'interessato prima di cadere in tale stato ovvero dei valori di riferimento e delle convinzioni dello stesso - sia incompatibile con la rappresentazione di sè sulla quale egli aveva costruito la sua vita fino a quel momento e sia contraria al di lui modo di intendere la dignità della persona.
Per altro verso, la ricerca della presunta volontà della persona in stato di incoscienza - ricostruita, alla stregua di chiari, univoci e convincenti elementi di prova, non solo alla luce dei precedenti desideri e dichiarazioni dell'interessato, ma anche sulla base dello stile e del carattere della sua vita, del suo senso dell'integrità e dei suoi interessi critici e di esperienza - assicura che la scelta in questione non sia espressione del giudizio sulla qualità della vita proprio del rappresentante, ancorchè appartenente alla stessa cerchia familiare del rappresentato, e che non sia in alcun modo condizionata dalla particolare gravosità della situazione, ma sia rivolta, esclusivamente, a dare sostanza e coerenza all'identità complessiva del paziente e al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Il tutore ha quindi il compito di completare questa identità complessiva della vita del paziente, ricostruendo la decisione ipotetica che egli avrebbe assunto ove fosse stato capace; e, in questo compito, umano prima che giuridico, non deve ignorare il passato dello stesso malato, onde far emergere e rappresentare al giudice la sua autentica e più genuina voce.
Da quanto sopra deriva che, in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza, può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell'autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta, proveniente dal tutore che lo rappresenta, di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorchè quella condizione, caratterizzante detto stato, di assenza di sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza - proprio muovendo dalla volontà espressa prima di cadere in tale stato e tenendo conto dei valori e delle convinzioni propri della persona in stato di incapacità - si appalesi, in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia, lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza nella vita.
(omissis)
Sulla base delle considerazioni che precedono, la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla vita come bene supremo, può essere nel senso dell'autorizzazione soltanto (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun
fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benchè minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. Xxxxxxxx l'una o l'altra condizione manchi, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato, dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa, nonchè dalla mera logica utilitaristica dei costi e dei benefici.
(omissis)