Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 16 bis, junio 2022, ISSN: 2386-4567, pp. 298-309
L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO NEL PASSAGGIO DEL DIRITTO DA SCIENZA TEORETICA A SCIENZA
PRATICA*
THE INTERPRETATION OF CONTRACT IN THE TRANSITION OF LAW FROM A THEORETICAL TO A PRACTICAL SCIENCE
Actualidad Jurídica Iberoamericana Nº 16 bis, junio 2022, ISSN: 2386-4567, pp. 298-309
* Intervento introduttivo al Seminario internazionale organizzato in occasione del XXXVI anniversario del codice civile peruviano, sul tema “Actualidad de las reglas de interpretacion contractual”, e svoltosi (in collegamento via internet con l’Italia) a Lima il 14 novembre 2020. Lo scritto è destinato al numero speciale della Revista Actualidad Xxxxxxxx Xxxxxxxxxxxxxx dedicato al ricordo di Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx.
Xxxxxx XXXXXX
ARTÍCULO RECIBIDO: 00 xx xxxxx xx 2021 ARTÍCULO APROBADO: 22 de marzo de 2022
RESUMEN: Il saggio si sofferma sull’evoluzione dell’interpretazione della legge e del contratto, analizzando il mutamento del procedimento ermeneutico in relazione al cambiamento del diritto da scienza teoretica a scienza pratica.
PALABRAS CLAVE: Interpretazione; legge; contratto; principio di ragionevolezza.
ABSTRACT: The essay looks at the evolution of the interpretation of law and contract, analyzing the change in hermeneutic procedure in relation to the change of law from a theoretical to a practical science.
KEY WORDS: Interpretation; law; contract; principle of reasonableness.
SUMARIO.- I. PREMESSA.- II. L’EVOLUZIONE DELL’INTERPRETAZIONE.- III. IL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA COME NUOVO MODELLO ARGOMENTATIVO.- IV. LA RAGIONEVOLEZZA NELL’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE E DEL CONTRATTO.- V. CONCLUSIONI.
I. PREMESSA.
Nella tradizione culturale dei paesi di diritto scritto la riflessione sull’interpretazione del contratto si è sempre svolta in parallelo con quella sull’interpretazione della legge. Si potrebbe anzi dire che, al di là della diversità degli oggetti, il giurista continentale ha sempre colto nella definita individuazione di un oggetto per la sua analisi il proprium del diritto come scienza. Si tratti di ricavare la norma dalla volontà del sovrano o dalla volontà dei contraenti, egli ha sempre inteso che la specificità del diritto si caratterizza per la puntuale definizione del punto di riferimento oggettivo della riflessione. Nell’area continentale – che guarda con distacco e una punta di malcelata superiorità alle modalità applicative dei paesi di common law – il positivismo giuridico ed il volontarismo danno alle dottrine giuridiche la certezza di essere diventate finalmente una scienza, sul presupposto che questa implichi la definita specificazione del suo oggetto e la verificabilità dei risultati conseguiti nell’interpretazione del medesimo. Dato per scontato che una vera scienza, in quanto scienza teoretica, si attiene ai fatti, diventa non essenziale differenziare le leggi positive dalle dinamiche contrattuali. Le une e le altre sono fatti e una vera scienza si attiene ai fatti. Gli ordinamenti giuridici che dettano regole per l’interpretazione della legge (sul falso presupposto che queste abbiano una loro anelastica definitività e si sottraggano ad un autonomo e storicamente condizionato processo interpretativo) finiscono per fare insistito riferimento alla “volontà del legislatore”. In parallelo si assume che il contratto “ha forza di legge fra le parti”.
Tuttavia questo accostamento tra legge e contratto nell’interpretazione giuridica non è casuale perché lascia intendere in trasparenza che, al di là del suo ambito applicativo, il processo volto all’attribuzione di significato ad un documento, ad un’espressione linguistica, ad un comportamento, in altri termini il risultato dell’interpretazione, si connette inevitabilmente alla sua incidenza su quella dimensione relazionale e comunicativa che caratterizza il diritto come esperienza di rapporto.
• Xxxxxx Xxxxxx
Professore emerito di diritto privato presso la Sapienza Università di Roma
E’ stato giustamente detto (Xxxxxxx) che dettare regole per l’interpretazione, quale che ne sia l’oggetto, è, a ben vedere, operazione contro senso perché nello svolgimento dell’attività interpretativa l’interprete si sarebbe comunque districato secondo ragione, fermo restando che la “correttezza” del procedimento interpretativo non può certo essere valutata secondo parametri assimilabili a quelli con cui si giudica la correttezza di un’operazione matematica. La semantica come attribuzione di significato alle forme espressive di un linguaggio (quale che esso sia) implica un necessario riferimento ad indici storici, ambientali, contestuali che non possono, per loro natura, essere ricondotti a paradigmi formali. Con la conseguenza che – si tratti della forma espressiva di un enunciato legislativo o di un contratto di durata – se il significante risulta definito una volta per tutte, non è affatto detto che una volta per tutte debba ritenersi assegnato il significato. Eppure, se si ripercorre la storia del diritto, nella lunga stagione del cognitivismo, si coglie la linea continua di una riflessione che ricerca in quei fatti che sono le norme di legge o i contratti il definito oggetto della sua analisi. E si finge di non intendere che è assolutamente impossibile definire quegli “oggetti”, intenderne il significato, coglierne la rispettiva forza di incidenza sui rapporti concreti senza valutare il contesto entro il quale la norma incide o il contratto opera. Pretendere che il giudice “dica” ciò che “è stato detto” e che quindi il processo interpretativo (della legge o del contratto) si risolva nel rendere chiaro ciò che preesiste all’attività dell’operatore si risolve in una mera petizione di principio.
Spero di non scandalizzare nessuno se dico che su questa petizione di principio tuttora si radica la struttura didattica delle nostre Facoltà giuridiche. Certamente in Italia, ma, per quanto io ne sappia, anche nella maggior parte dei Paesi di diritto scritto. I manuali di diritto che circolano nelle nostre Università sono prevalentemente strutturati in chiave di espressione di una scienza teoretica che coglie nella puntuale definizione del suo oggetto il suo momento caratterizzante. Quello che è stato definito il “dubbio del giurista” non appartiene al nostro panorama formativo; abbiamo difficoltà a spiegare, come professori, la riluttanza dei fatti a farsi incasellare negli enunciati normativi o negli schemi della dottrina. Qualche tempo fa, nel quadro di un convegno sulla formazione del giurista, ho preso lo spunto da quelle sentenze della Corte costituzionale italiana (ma non solo di questa) che, modificando – a legislazione costituzionale e ordinaria invariata – una precedente pronuncia di legittimità costituzionale, esplicitamente assumono, per giustificare la diversità di soluzione, che oggetto dell’analisi in chiave di costituzionalità non sono soltanto testi ma contesti e mi sono domandato, senza tuttavia ricevere soddisfacenti risposte, chi nelle nostre Facoltà insegnasse agli studenti ad analizzare non solo i testi, ma anche i contesti. Dobbiamo una buona volta renderci conto, facendo di questa constatazione il presupposto delle nostre operazioni interpretative, che non possiamo coltivare una visione autoriflessiva del diritto, non possiamo continuare a promuovere quella prospettiva etnocentrica
che il modello positivistico ha radicato. Dobbiamo semmai predicare la sua natura interdisciplinare, facendo una buona volta comprendere che nessuna operazione interpretativa può essere svolta – abbia essa ad oggetto un enunciato legislativo o un testo contrattuale – assumendo a proprio esclusivo criterio orientativo il dogma positivistico di dettati formalizzati.
II. L’EVOLUZIONE DELL’INTERPRETAZIONE.
Non mi è evidentemente consentito in questa sede affrontare funditus un problema che tocca alla radice il tema della giuridicità nel tempo presente, posto che qui intendo semplicemente chiarire come oggi il tema dell’interpretazione del contratto esiga di rompere le rigide paratie entro le quali era stato costretto in passato. Per chi ne abbia curiosità o voglia, ai fini di prospettive di più ampio respiro, rinvio al mio ultimo volume che ho significativamente intitolato “Diritto e ragione”. Quel che mi pare qui essenziale preliminarmente chiarire è che nessuna operazione interpretativa può essere correttamente impostata senza prendere consapevolezza del fatto che oggi siamo ormai usciti dalla stagione che intendeva il diritto come scienza teoretica, essendo dunque necessario assumerlo, nonostante le resistenze della cultura tradizionale, ancora schiava dei vecchi concettualismi, come scienza pratica.
E si tratta certamente di un passaggio epocale che impone una radicale revisione dei nostri strumenti operativi. Una scienza teoretica, infatti, implica il riferimento ad un oggetto definito (nel caso del diritto un sistema di norme poste dal legislatore), mentre una scienza pratica assume ad oggetto della propria analisi le modalità di svolgimento di una prassi nella quale è implicato lo stesso operatore. Per riprendere una terminologia che mi è cara, nel passaggio dall’una all’altra prospettiva il giurista non deve più guardare all’alto di atti di posizione, ma al basso di atti di riconoscimento. Non deve cioè limitarsi ad analizzare testi (sia pure nella consapevolezza di un’alternativa fra procedimenti interpretativi), ma deve abituarsi ad analizzare contesti, che spesso si indirizzano non in funzione di precetti ma di indici di valore condivisi. Può essere significativo ricordare – specie ad un uditorio non italiano – che un nostro filosofo del diritto della nuova generazione (Xxxxxxxxx), riaffrontando, in uno degli ultimi volumi degli Annali dell’ ”Enciclopedia del diritto”, il tema classico del principio di legalità, ha affermato, proprio nell’ottica di un diritto inteso non come scienza teoretica ma come scienza pratica, che oggi legalità non può significare più riferimento ad un sistema definito di enunciati normativi, ma semmai (con termine greco) eupraxía, cioè prassi indirizzata ad un risultato di giustizia. Ecco dunque emergere, nei processi applicativi del diritto, persino una terminologia che era del tutto sconosciuta ai nostri Maestri. Si pensi al riferimento al principio di ragionevolezza, che tende ormai a diventare, al di là delle ricorrenti accuse riferite alla sua indeterminatezza, il criterio principe non solo del sindacato
di costituzionalità, ma di qualunque processo applicativo del diritto anche in sede di giurisdizione ordinaria. Rompendo la logica condizionante della fattispecie, il letto di Procuste del formalismo legalista, la dittatura del codice, si sceglie una bussola di orientamento che chiede all’operatore il riferimento ad una pluralità di indici (comportamentali, valoriali, sociologici). Giudicare una legge in chiave di ragionevolezza significa leggerla non nell’ottica di chi l’ha dettata, ma secondo il filtro valutativo (e quindi gli indici di valore) di chi la deve applicare.
Il profilo del ragionevole viene cioè collocato al cuore dell’opera di sistematizzazione del diritto e del ragionamento giuridico, proprio nel momento in cui si prende consapevolezza che il sapere giuridico non è un sapere veritativo o descrittivo, ma un sapere costruttivo, valutativo, ipotetico, dubitativo in linea con il metodo delle scienze pratiche. Un sapere che non può ambire a verità e dimostrazione, ma deve accontentarsi di verosimiglianza e di persuasione e che, appunto per questa sua natura (almeno in apparenza) epistemologicamente fragile, esige un impegno argomentativo particolarmente forte.
III. IL PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA COME NUOVO MODELLO ARGOMENTATIVO.
Lascio a ciascuno dei miei provveduti ascoltatori di intendere quanto ciò implichi una radicale revisione dei modelli argomentativi ai quali noi stessi siamo stati educati. A noi hanno insegnato a ricercare, nell’ottica della certezza, un oggetto che preesisteva alla nostra analisi e, prima che la tragedia delle grandi dittature innestasse le rivoluzioni costituzionali che i più anziani di noi hanno vissuto, ci siamo abbeverati alla dottrina di Xxxxxx, secondo il quale la giustizia, che è il fine delle scienze pratiche, diventa un “ideale irrealizzabile”. Al contrario, secondo l’insegnamento bimillenario di Xxxxxxxxxx, i saperi che hanno come oggetto l’azione dell’uomo (la politica, l’etica, il diritto) non possono darsi il metodo proprio di quelle scienze che hanno per oggetto la natura. L’oggetto delle scienze pratiche non è un dato di fronte al quale il giurista deve piegarsi e ad esso sottoporsi, ma una pratica, un progetto in cui il soggetto conoscente è personalmente e inesorabilmente coinvolto. Proprio in questa chiave la ragionevolezza assume un peculiare rilievo perché l’applicazione del diritto – quale che sia la sua veste lessicale
– alla particolare situazione della vita non è un’attività meramente riproduttiva di un significato preesistente, ma un’attività produttiva orientata dal fatto, influenzata dalle categorie di senso e di valore della comunità che si rivolge al giudice ed è guidata dalle precomprensioni dell’interprete.
Nel riferimento al principio di ragionevolezza si viene cioè radicando il modo di intendere il diritto nell’esperienza contemporanea. Non si tratta più di giustificare ciò che è stato detto a monte, ma semmai di intendere ciò che può essere capito
e condiviso a valle. Fondamentali rimangono a questo riguardo le riflessioni di Xxxxx, secondo il quale in ogni soluzione giudiziale (quale che sia il suo oggetto) deve risultare evidente “la relazione di significato con una soluzione accettabile secondo ragionevolezza”, posto che, se così non fosse, si ricadrebbe in quella visione, che pure la storia ha conosciuto, “di accettazione dell’autorità del diritto e della legge come di un’autorità tecnica, incomprensibile a quelli che ne stanno al di fuori”. In altre termini, la ragionevolezza va intesa come la “soggettiva disponibilità e l’oggettiva possibilità di un dibattito cosciente con opinioni e argomenti che rendano possibile la formazione del consenso” e, pertanto, base ineliminabile delle decisioni giudiziali che intendano rispondere agli “orizzonti di attesa” della collettività.
Nelle varie peregrinazioni che in questi ultimi anni ho fatto in varie sedi universitarie, prima che il pericolo della pandemia operasse da freno alla nostra libertà di circolazione, ho constatato che un simile modo di intendere il nuovo ruolo del giurista comincia a serpeggiare – nonostante inevitabili resistenze e attriti (basti per tutti l’oscura piaga del nichilismo giuridico) – nei dibattiti e nelle prese di posizione ufficiali, sia pure ancora con la timidezza di chi teme di sovvertire la solidità di categorie concettuali stratificate negli anni. Pur con le difficoltà che discendono dall’utilizzare strumenti argomentativi ai quali non siamo stati educati, si comincia a capire che l’operatore giuridico, e segnatamente il giudice, quale che sia l’oggetto della sua analisi, deve giustificare la soluzione non in funzione di un presupposto dato, ma in chiave di persuasione, al fine di ottenere adesione o assenso, con conseguente collocazione del decisore su di un terreno comune rispetto al potenziale interlocutore. Un atteggiamento di questo tipo vale innanzitutto a contraddire in radice la ricorrente obiezione – troppo spesso moltiplicata da una pubblicistica di basso profilo – secondo la quale il superamento dei rigidi paradigmi positivistici si offrirebbe al rischio di un atteggiamento del tutto soggettivo e incontrollabile da parte del giudice. L’individualità contraddice all’adesione ed esclude quello che è un presupposto essenziale del richiamo alla ragionevolezza, cioè la convergenza su un’idea comune del diritto come ordinamento. Non ci si deve, in altri termini, spaventare – come da taluno ancora si paventa nell’ottuso richiamo alla legge di Xxxx sull’impermeabilità tra giudizi di fatto e giudizi di valore
– se, come giuristi, siamo chiamati ormai costantemente a compiere (o a verificare) giudizi di valore. Non va mai dimenticato che la conoscenza scientifica presuppone un qualche universo culturale e quindi un mondo di valori. D’altra parte, se si assume che i giudizi di fatto siano, al di là della loro potenziale falsificabilità, prima o poi comunque garantiti da riscontri evidenti e, almeno allo stato, inconfutabili, analogo riscontro è possibile, a mio avviso, ipotizzare per un giudizio di valore, se questo viene riferito non al giudizio in sé, assunto in una sua imperscrutabile individualità, ma al modo con cui esso risulta, in un determinato momento storico, recepito e condiviso all’interno della comunità in cui quel giudizio è stato espresso.
Vi è una verificabilità che si fonda sulla puntualità di un dato e una verificabilità che invece si ricollega alla diffusività o all’evidenza di una opinione. Quel che mi sembra essenziale accentuare è che la ragionevolezza – non a torto definita (Zagrebelsky) come la testimonianza “della trionfale ricomparsa dall’altro lato del diritto, il lato materiale” – è il tipo di razionalità proprio della ragione pratica e perciò sfugge a qualsiasi tentativo di darle un fondamento giuridico positivo. Di questo essa è infatti criterio di validità: non è dal medesimo fondata, ma ne è semmai il fondamento.
IV. LA RAGIONEVOLEZZA NELL’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE E DEL CONTRATTO.
Si tratta di un presupposto del quale è necessario tener conto se vogliamo correttamente riflettere, nell’ottica del diritto come scienza pratica, al modo di svolgere una corretta interpretazione del contratto. A prescindere dalle ipotesi in cui è lo stesso legislatore a far richiamo al paradigma del “ragionevole” quale criterio qualificante di un comportamento o di una situazione che spetta al giudice di valutare, il passaggio del diritto da scienza teoretica a scienza pratica ha segnato una singolare divaricazione del modo di svolgimento del procedimento interpretativo siccome riferito alla legge o al contratto. Quel che per secoli era apparso simmetrico oggi risulta svolto in termini sostanzialmente oppositivi. Mentre per l’interpretazione della legge – non solo in chiave costituzionale, ma nel modo concreto di operare del giudice ordinario – è ormai diffuso il convincimento che essa debba essere intesa in chiave di ragionevolezza, cioè assicurandone la simmetria con i criteri valutativi dei destinatari, per il contratto si continua prevalentemente a ritenere che esso dipenda esclusivamente dalla determinazione volitiva dei contraenti, che sia cioè atto di autoregolamentazione, destinato ad incontrare esclusivamente i limiti dettati dal legislatore quando ritenga, per esempio, di definire in qualche modo e di tutelare il contraente debole. Così argomentando non ci si rende conto che, se il principio di ragionevolezza viene inteso quale criterio fondante dell’ordinamento, che quindi prescinde da ogni enunciazione formale, non si può assumere che nella disciplina del contratto esso invece esiga un puntuale riferimento testuale.
La nota sentenza della Cassazione italiana sul “caso Renault” (Cass. 18 settembre 2009, n. 20106) è, per molti versi, indicativa di un radicale mutamento di registro rispetto ai vecchi paradigmi argomentativi. In un rapporto contrattuale fra imprenditori che prevedeva a vantaggio di uno solo di essi il recesso ad nutum la Corte ha abbandonato i vecchi schemi scolastici, secondo i quali il recesso si qualifica come diritto potestativo, il cui esercizio è rimesso alla mera discrezionalità del titolare rispetto alla quale la controparte non può né deve far nulla, e ha ammesso (proprio in chiave di ragionevolezza) il controllo giudiziale sull’esercizio di quel diritto, consentendo al giudice di valutarne come abusiva l’attuazione
laddove questa non tenga conto anche dell’interesse della controparte nonché dell’incidenza dei suoi effetti sull’intera collettività. Non deve distrarre il fatto che il fondamento giustificativo della decisione si radichi ancora sulla clausola generale di buona fede. Nelle stagioni di passaggio è fisiologico che le aperture a nuovi paradigmi argomentativi si canalizzino entro gli schemi di vecchie categorie classificatorie. Quel che conta è evidenziare l’affermazione secondo la quale è necessario mantenere il rapporto giuridico entro i binari dell’equilibrio e della proporzione, in qualche modo leggendo l’esecuzione del contratto nella chiave della doverosità di un controllo giudiziale degli atti di autonomia sul terreno di un giudizio di ragionevolezza. Si nota nella motivazione della richiamata sentenza lo sforzo di canalizzare una tendenza del tutto nuova, che trova il suo fondamento nell’impianto costituzionale, entro i paradigmi e gli schemi classificatori del codice. Ma è agevole prevedere che, prima o poi, ci si libererà anche da questo ancoraggio residuo e si navigherà a vista per ricondurre il contratto, nella chiave del principio di solidarietà, entro i confini non di un risultato di convenienza privata, bensì di giustizia collettiva. Il diffuso indirizzo costituzionale, che ha indotto a ritenere il principio di solidarietà quale profilo che necessariamente connota il contenuto di qualsiasi contatto al di là dell’intento stesso delle parti, fa capire che nell’esperienza contemporanea il contratto non può più essere assunto nell’ottica rigida di una volizione o di un autoregolamento, ma nella prospettiva più ampia di un equilibrio che trascende gli stessi interessi dei contraenti.
Siamo qui al di fuori del classico modo di operare delle clausole generali (che presuppongono uno spazio di libertà offerto all’interprete dal legislatore), perché ci si deve rendere conto che non è possibile valutare alcun comportamento se non collocandolo nel quadro di un complessivo (riconosciuto ed operante) tessuto di valori e sarebbe del tutto assurdo pensare che a questo raccordo necessario si sottraggano gli atti di autonomia privata. Sono quindi destinate – a mio giudizio – ad essere progressivamente superate quelle posizioni, ancora presenti nella dottrina e nella giurisprudenza, secondo le quali non è consentita alcuna valutazione in chiave di giustizia, socialità, ragionevolezza sugli atti di autonomia privata, perché ciò finirebbe per contraddire l’essenza stessa di questa, trattandosi di un indice esterno ai modi del suo esercizio. A ben vedere, lo stesso processo teorico che ha condotto a parlare di primo, secondo e terzo contratto è sintomo di uno svolgimento di questo segno, sia pure ancora orientato da un’ottica di tipo legalista.
V. CONCLUSIONI.
Un simile capovolgimento di prospettiva rispetto ai nostri vecchi schemi scolastici è dunque una conseguenza necessaria e imprescindibile del passaggio del diritto da scienza teoretica a scienza pratica. Nel momento in cui la prassi diventa il nostro punto di riferimento necessario non possiamo più intendere il rapporto
giuridico come mera conseguenza dell’atto, diventando anzi le modalità del suo svolgimento, nelle peculiarità di un definito contesto storico e ambientale, criterio essenziale di orientamento per intendere l’ambito di efficacia della determinazione volitiva. Il significante si carica di significato in funzione di indici esterni alla sua struttura enunciativa.
Aggiungo che per conseguire un risultato di questo tipo l’interprete non ha più bisogno di formali dettati normativi, posto che si tratta di un esito che si riconduce
– come ho detto – ad un principio fondativo della giuridicità dal quale lo stesso intervento legislativo dipende. Quando, per esempio, l’art. 421 del nuovo codice civile brasiliano del 2002 esplicitamente afferma che la libertà di contrarre “è esercitata in ragione e nei limiti della funzione sociale del contratto”, non possiamo limitarci a registrare che qui il legislatore ha sovvertito un postulato del liberismo economico anteponendo l’interesse della collettività a quello dei contraenti. Se il contratto oggettivamente ha una funzione sociale questa non dipende certo da una imposizione dall’alto, con la conseguenza che un suo mancato riconoscimento finirebbe per rendere del tutto inoperante la norma che la negasse, posto che la storia ci insegna che la sostanza finisce sempre per prevalere sulla forma. Si determina cioè, nell’esperienza contemporanea, con riferimento al contratto, una vicenda analoga a quella che abbiamo vissuto, nei lontani anni Sessanta, quando si cominciò a parlare di “funzione sociale della proprietà”. I tradizionalisti dell’epoca riaffermarono perentoriamente l’assolutezza di quello che Xxxxxx ha chiamato il “terribile diritto”, ma la storia ha fatto giustizia dei loro dubbi e oggi la posizione che colloca la proprietà in una dimensione non semplicemente individuale deve ritenersi assolutamente prevalente.
Personalmente credo – e mi scuso se i rigorosi limiti di tempo di questa relazione non mi consentono, al di là delle affermazioni di principio, più puntuali esemplificazioni – che l’esperienza condurrà inevitabilmente a superare prospettive come quella dell’art. 1366 del codice civile italiano, che si limita a riconnettere l’interpretazione del contratto alla buona fede, così come quella dell’art. 168 del codice civile peruviano, che, rendendo esplicito ciò che il codice italiano in una certa misura sottintende, dispone che l’interpretazione del contratto si svolga “in conformità a quanto in esso è espresso e secondo il profilo della buona fede”. Lo stesso sforzo della dottrina e della giurisprudenza di considerare l’applicazione diretta dei principi costituzionali in materia contrattuale quale frutto dell’interpretazione secondo buona fede appare, a mio giudizio, indice della stagione di passaggio che ci avvolge, nella quale, anche per vincere le resistenze di una cultura tradizionale, è sembrato in un primo tempo necessario canalizzare i nuovi procedimenti interpretativi entro paradigmi consueti.
La fioritura di scritti alla quale di recente abbiamo assistito in tema di giustizia del contratto e di oggettivazione dello scambio (intesa questa come capacità per il giudice, anche al di là di un espresso richiamo normativo e anche a prescindere da un abuso del contraente, di valutare e sanzionare la congruità dello scambio contrattuale) evidenzia, al di là delle tecniche utilizzate per la soluzione proposta, un’esigenza di fatto non sopita e oggi non più eludibile. In altri termini, se è vero che il giudice non può limitarsi a considerare il diritto come frutto di una imposizione e quindi la norma giuridica come semplice comando, ma deve impegnarsi a ricercarne quella qualità deontologica che la comunità di riferimento sia in grado di comprendere e di attuare, non deve cioè considerarla come fatto ma come valore (rapportandola al suo dover essere in un contesto storico dato), non credo ci sia da menar scandalo se si afferma che anche in tema di contratto la sua attività non può limitarsi a giudicare la corrispondenza dell’atto di autonomia a parametri prefissati dalla legge, ma deve scendere a valutare la sua concreta incidenza in chiave di effettività e quindi la sua capacità di non risolversi in una inaccettabile sperequazione a danno di una delle parti o in una pericolosa incidenza nella sfera di terzi.
La giustizia è sempre stata pensata come alternativa alla forza, proprio perché la giustizia, per sua natura, è soggetta ad essere discussa, mentre la forza invece è perfettamente riconoscibile e non può essere posta in discussione. Su questo presupposto Xxxxxx, in uno dei suoi “Pensieri”, amaramente osservava che, “non riuscendo a rendere forte il giusto, si è reso giusto il forte”. Credo che non solo il giurista, ma ciascuno di noi come cittadino, si debba battere per evitare che una tale affermazione trovi conferma anche nel nostro tempo. Nel momento stesso in cui si riconosce che, quali che siano i rapporti di forza che hanno condotto alla promulgazione di un enunciato, questo è soggetto ad un controllo di contenuto dal quale dipende la persistenza della sua validità e che comunque lo stesso modo di intenderlo e di applicarlo va ricondotto ad un principio di ragione accettato e condiviso, significa che oggi la giustizia fa premio sulla forza, che il rapporto con la giustizia ha finito per diventare, come sopra ricordavo, costitutivo dello stesso concetto di legalità.
Dobbiamo renderci conto che una simile verità va riflessa anche all’interno della disciplina del contratto, specie in un momento in cui la forza del mercato tende ad imporsi sulla debolezza del cittadino comune. Mi auguro che questo seminario possa rappresentare una tappa significativa lungo questa strada.