Contract
IL CONTRATTO DI LEASING NELLA LEGGE 124/2017
La legge 4/8/2017 n. 124 (Legge annuale per la concorrenza ed il mercato) ha per la prima volta delineato una disciplina – per la verità timida ed incompleta – della locazione finanziaria.
Benchè infatti tale figura contrattuale si sia diffusa in Italia sin dagli anni ‘60, è stata per lungo tempo ignorata dal legislatore, cosicchè al suo inquadramento ed alla sua disciplina hanno provveduto dottrina e giurisprudenza, con percorso a volte tortuoso e finanche contradditorio.
Nel corso del tempo si è affermata infine la qualificazione della locazione finanziaria come contratto atipico formato dal collegamento di due contratti distinti: un contratto di compravendita fra il fornitore ed il concedente ed uno cd. di leasing in senso stretto fra concedente ed utilizzatore, il quale troverebbe la propria causa nella funzione di finanziamento.
La prima definizione di locazione finanziaria si rinviene nella L. 2/5/1976 n. 183 (Disciplina dell’intervento straordinario nel mezzogiorno per il quinquiennio 1976/1980), il cui art. 17 attribuiva alla neo costituita Società Finanziaria Meridionale la possibilità – fra le molte altre – di stipulare contratti di leasing; dopo di che, come se il legislatore si fosse accorto in quel momento che tale contratto normativamente era ancora sconosciuto, veniva inserita questa definizione: “Per operazioni di locazione finanziaria si intendono le operazioni di locazione di beni mobili ed immobili, acquistati o fatti costruire dal locatore, su scelta e indicazione del conduttore, che ne assume tutti i rischi, e con facoltà per quest’ultimo di divenire proprietario dei beni locati al termine della locazione, dietro versamento di un prezzo prestabilito”.
Tale definizione, probabilmente per il contesto nel quale era inserita, è passata per lo più inosservata; a prima vista parrebbe avvicinare il leasing alla vendita a rate con riserva di proprietà od alla locazione con patto di riscatto, lasciando invece in secondo piano l’aspetto del finanziamento che viceversa, come sopra ho accennato, ha xxx xxx xxxxxxxxx xxxxxxxxx nell’interpretazione giurisprudenziale, sino ad essere individuato come la caratteristica principale dell’intera operazione contrattuale.
Si noti inoltre come tale definizione lasci volutamente nell’ombra la partecipazione di tre soggetti distinti nella conclusione del contratto: essa, infatti, si adatta anche a quella forma di leasing definito “operativo”, nella quale non vi è un terzo soggetto finanziatore, ma il bene oggetto del contratto viene concesso direttamente dal produttore e/o venditore all’utilizzatore, per un tempo normalmente inferiore alla sua vita economica e generalmente senza la possibilità di acquisto del bene al termine del rapporto.
Questo tipo di leasing non ha sollevato particolari problemi, essendo chiaramente assimilabile alla locazione; ben più problematico è stato invece l’inquadramento del leasing finanziario, cioè del contratto nel quale è un terzo soggetto, ossia il concedente, che acquista il bene dal fornitore e lo concede in godimento all’utilizzatore, al quale è inoltre riconosciuta la facoltà di riscattare il bene, diventandone quindi proprietario, al termine della durata del contratto e per un prezzo predeterminato.
Una nuova definizione, un po’ più articolata, si ritrova nel comma 76 dell’art. 1 L. 28/12/2015 n. 208 (Legge di Stabilità 2016), che però prende in considerazione il solo leasing immobiliare.
Nella perdurante assenza di una qualsiasi disciplina normativa e della conseguente incertezza in particolare per quanto riguardava il regime applicabile in caso di risoluzione anticipata del contratto per inadempimento dell’utilizzatore, la giurisprudenza aveva infine delineato due distinte fattispecie di leasing: una definita “leasing traslativo” e l’altra “di godimento”.
Fermo restando che veniva confermato che per entrambi tali “sotto-tipi” la causa principale del contratto deve essere individuata nel finanziamento, la giurisprudenza ha osservato che in alcuni casi il bene oggetto del contratto mantiene, al termine del rapporto contrattuale, un valore ancora consistente e superiore all’importo del prezzo di opzione, mentre in altri casi la durata del contratto coincide con la vita economica del bene.
Nella prima ipotesi il contratto sarebbe quindi caratterizzato anche da un effetto traslativo, previsto e voluto dalle parti sin dall’inizio del rapporto contrattuale; questa caratteristica fa sì che questo tipo di contratto si espanda rispetto alla sua funzione originaria connessa alle esigenze di un’attività di impresa e trovi frequente applicazione anche per il caso di utilizzatore privato (ovvero, secondo la terminologia impostasi negli ultimi tempi, “consumatore”).
Questa particolarità comporta inoltre che il corrispettivo dovuto dall’utilizzatore non sia commisurato esclusivamente al godimento della cosa, ma sconti in parte anche una quota anticipata del prezzo di acquisto: ne deriva che in caso di risoluzione anticipata del contratto per inadempimento dell’utilizzatore troverebbe applicazione, per analogia, la disciplina dettata dall’art. 1526 c.c. in riferimento alla vendita a rate con riserva di proprietà; il concedente, rientrando in possesso
del bene, deve pertanto restituire le rate riscosse, salvo il diritto di trattenerne una quota a titolo di corrispettivo per il godimento del bene e di risarcimento del danno (Cass. 19/4/2010 n. 9257; Cass. 13/5/2008 n. 11893; Cass. 28/8/2007 n. 18195; Cass. 14/11/2006 n. 24214).
Inizialmente nei moduli contrattuali predisposti dalle società di leasing era solitamente inserita una clausola in forza della quale il concedente si attribuiva il diritto non solo di trattenere tutto quanto percepito sino al momento della risoluzione del contratto ma anche di richiedere altresì il pagamento a titolo di penale di tutte le ulteriori rate, già scadute ed a scadere; una simile pattuizione è stata però ritenuta dalla Suprema Corte passibile di disapplicazione ai sensi dell’art. 1384 c.c., xxxxxx in tal modo il concedente poteva ottenere l’intero pagamento pattuito e nel contempo recuperava la piena disponibilità del bene, di cui manteneva la proprietà, così ottenendo dalla risoluzione del contratto più di quanto avrebbe ricavato dalla sua regolare esecuzione.
Successivamente, perciò, tale clausola è stata corretta, nel senso che il concedente si obbliga a vendere il bene oggetto del contratto di leasing e restituito dall’utilizzatore inadempiente, deducendo il ricavato da quanto contrattualmente ancora dovuto od eventualmente accreditando all’utilizzatore il maggior valore realizzato rispetto al proprio credito residuo.
In tal modo si è effettivamente riequilibrata la posizione fra le parti, con l’accortezza – pure ribadita da alcune pronunce giurisprudenziali – che il comportamento del concedente debba essere conforme a buona fede e che quindi
questi proceda alla vendita del bene secondo il suo reale valore di mercato e non a prezzo ingiustificabilmente ribassato.
Nel leasing di godimento, invece, l’effetto del trasferimento del bene è assolutamente secondario e meramente eventuale: in tale tipo di leasing infatti prevale decisamente la funzione di finanziamento a scopo di godimento del bene, tanto che, secondo l’elaborazione giurisprudenziale, l’elemento tipico dal quale desumere l’appartenenza del contratto all’una od all’altra tipologia è costituito dal valore del bene al termine della durata del rapporto: se è ancora rilevante il leasing è di tipo “traslativo”, se viceversa è ormai minimo si è in presenza di un leasing “di godimento”.
Quest’ultimo è dunque un contratto di impresa, in quanto ha normalmente ad oggetto beni o impianti strumentali all’esercizio di un’attività economica, di cui l’utilizzatore ottiene la disponibilità senza l’impiego di grossi capitali e fino all’esaurimento della loro potenzialità economica e produttiva.
Poichè tale contratto non è dunque vòlto al trasferimento di proprietà del bene, il canone dovuto dall’utilizzatore rappresenta il corrispettivo esclusivamente del finanziamento e del godimento del bene; in caso di inadempimento dell’utilizzatore, pertanto, non potrà trovare applicazione la norma di cui all’art. 1526 c.c., ma quella dettata dall’art. 1458 c.c. per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, che espressamente dispone che gli effetti della risoluzione non si estendono alle prestazioni già eseguite.
L’origine di tale distinzione fra le due tipologie di leasing risale a sei pronunce della Corte di Cassazione, sez. I, tutte del 13/12/1989 (nn. da 5569 a 5574) e può dirsi ormai pacificamente accolta.
La definizione di locazione finanziaria contenuta nella L. 4/8/2017 n. 124 sembra però voler ricondurre ad una concezione unitaria del leasing, cosicchè vi è da chiedersi se tale ormai tradizionale bipartizione abbia ancora diritto di cittadinanza nell’ordinamento vigente.
Per vero, una prima avvisaglia poteva già cogliersi nella disposizione dettata dall’art. 59 del D.Lgs. 9/1/2006 n. 5, che ha introdotto l’art. 72-quater nel X.X. 000/0000 (Xxxxx Fallimentare) disponendo una particolare disciplina per il caso di fallimento dell’utilizzatore.
In particolare, il secondo comma stabilisce che: “In caso di scioglimento del contratto, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a versare alla curatela l’eventuale differenza fra la maggiore somma ricavata dalla vendita o da altra collocazione del bene stesso avvenute a valori di mercato rispetto al credito residuo in linea capitale”; viene poi disposto che le rate percepite prima della dichiarazione di fallimento non sono soggette a revocatoria; il terzo comma precisa infine che “Il concedente ha diritto ad insinuarsi nello stato passivo per la differenza fra il credito vantato alla data del fallimento e quanto ricavato dalla nuova allocazione del bene”.
Tale disciplina non è preceduta da alcuna definizione del contratto di leasing e delinea una regola unitaria, senza distinzione fra leasing operativo e finanziario, traslativo e di godimento, mobiliare ed immobiliare.
L’intento di ricompattare la figura del leasing eliminando tutte le suddivisioni in vari sotto-tipi sembra ancora più evidente a seguito dell’intervento operato dalla L. 124/2017 (che, come sempre più spesso accade, è stata redatta piegando le ragioni di buona tecnica legislativa ad esigenze di mera lotta politica ed è perciò composta da un solo articolo di ben 192 commi, nei quali si trova di tutto).
In particolare, la disciplina del leasing è contenuta nei commi da 136 a 140: il comma 136 enuncia una definizione del contratto, il successivo comma 137 stabilisce le condizioni ricorrendo le quali l’inadempimento dell’utilizzatore possa essere definito “grave” e possa pertanto condurre alla risoluzione del contratto, i commi 138 e 139 dettano le conseguenze della risoluzione ed il comma 140, a chiusura, fa salvo quanto già normativamente disposto in caso di fallimento dell’utilizzatore dall’art. 72-quater L.F. e per il leasing di immobili destinati ad abitazione principale dalla L. 208/2015.
Vediamo dunque in dettaglio le disposizioni dettate dalla legge 124/2017.
Ai sensi dell’art. 1, comma 136, “Per locazione finanziaria si intende il contratto con il quale la banca o l’intermediario finanziario iscritto nell’albo di cui all’art. 106 del T.U. di cui al D. Lgs. 1/9/1993 n. 385, si obbliga ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, che ne assume tutti i rischi, anche di perimento, e lo fa mettere a disposizione per un dato
tempo verso un detrminato corrispettivo che tiene conto del prezzo di acquisto o di costruzione e della durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito ovvero, in caso di mancato esercizio del diritto, l’obbligo di restituirlo”.
Da tale definizione si rileva innanzi tutto che il legislatore ha evidentemente inteso caratterizzare il leasing quale contratto di impresa a scopo di finanziamento, sottolineando da un lato che per l’utilizzatore non è determinante la proprietà del bene quanto piuttosto la sua disponibilità, dall’altro che il concedente deve necessariamente essere una banca o un intermediario finanziario, cioè un soggetto professionale operante nel settore creditizio o finanziario.
Mentre tuttavia il primo aspetto non preclude che un contratto di leasing possa essere stipulato anche da un soggetto non imprenditore (nel quale caso potrà trovare applicazione la disciplina dettata per i contratti di credito ai consumatori), risulta invece inderogabile la prescrizione della necessità della preventiva autorizzazione all’attività bancaria e finanziaria per il soggetto concedente.
Il comma 137 stabilisce invece che: “Costituisce grave inadempimento dell’utilizzatore il mancato pagamento di almeno sei canoni mensili o due canoni trimestrali anche non consecutivi o un importo equivalente per i leasing immobiliari, ovvero di quattro canoni mensili anche non consecutivi o un importo equivalente per gli altri contratti di locazione finanziaria”.
Con tale disposizione viene quindi stabilito in anticipo ed in via definitiva quando l’inadempimento dell’utilizzatore possa essere ritenuto “grave” ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c. e possa quindi comportare la risoluzione del contratto per inadempimento.
Dall’entrata in vigore della L. 124/2017 (quindi dal 29/8/2017) non potranno pertanto essere più ritenute valide tutte quelle clausole normalmente contenute nei moduli contrattuali, ovviamente predisposti unilateralmente dal concedente, nei quali era previsto il diritto di quest’ultimo di risolvere il contratto anche per inadempimenti meno gravi.
Ho accennato in precedenza alla diversa soluzione individuata dalla giurisprudenza a seguito della distinzione fra leasing di godimento e leasing traslativo: da tale bipartizione Cass. S.U. 7/1/1993 n. 65 aveva desunto che nel primo caso, essendo prevalente l’aspetto del finanziamento, trova applicazione l’art. 1458 c.c. in materia di contratti ad esecuzione continuata o periodica, mentre nel secondo, ove prevale la funzione del trasferimento di proprietà, si deve invece applicare la norma di cui all’art. 1526 c.c. in tema di vendita con riserva di proprietà.
Il comma 138 dell’art. 1 L. 124/2017 cancella tale distinzione e detta invece una disciplina unitaria per tutti i contratti di locazione finanziaria, per cui l’ulteriore distinzione in leasing di godimento o leasing traslativo sembra non avere più alcuna ragion d’essere.
Dispone infatti il citato comma che: “In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore ai sensi del comma 137, il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, dedotte la somma pari all’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni a scadere, solo in linea capitale, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto, nonchè le spese anticipate per il recupero del bene, la stima e la sua conservazione per il tempo necessario alla vendita. Resta fermo nella misura residua il diritto di credito del concedente nei confronti dell’utilizzatore quando il valore realizzato con la vendita o altra collocazione del bene è inferiore all’ammontare dell’importo dovuto dall’utilizzatore a norma del periodo precedente”.
Viene pertanto stabilito che il credito del concedente è composto dalla somma delle rate già scadute e non pagate fino al momento della risoluzione, della quota capitale delle rate ancora a scadere, del prezzo di acquisto previsto nel patto di opzione e delle spese di recupero, conservazione e stima del bene.
Tale credito dovrà essere compensato con il prezzo che il concedente realizzerà dalla vendita del bene, che deve avvenire al prezzo corrente di mercato: se il ricavato sarà maggiore del credito come sopra determinato, la parte eccedente dovrà essere versata dal concedente all’utilizzatore; se inferiore, l’utilizzatore dovrà ancora pagare al concedente la differenza residua.
La legge in esame pare dunque avere risolto definitivamente le questioni discendenti dall’inadempimento dell’utilizzatore, ma si è completamente dimenticata dell’ulteriore questione, pure assai dibattuta e tutt’altro che risolta, riguardante l’inadempimento del fornitore.
In passato parte della giurisprudenza aveva tentato di individuare una soluzione pratica nel costruire il leasing come un contratto unico plurilaterale, così da fornire legittimazione processuale all’utilizzatore nei confronti del fornitore; come abbiamo visto, tuttavia, tale tesi è rimasta minoritaria e non ha trovato accoglimento nella Suprema Corte, che, rilevando la mancanza di uno scopo unitario, ha infine optato per lo schema del collegamento negoziale.
In tal modo, tuttavia, l’utilizzatore resta estraneo al contratto di compravendita fra fornitore e concedente e perciò, in caso di vizi o difetti del bene oggetto dei contratti, l’utilizzatore avrebbe dovuto agire nei confronti del concedente e questi esercitare azione di garanzia chiamando in causa il fornitore. Non mancavano tuttavia le decisioni nelle quali i giudici negavano la legittimazione passiva del concedente.
Nella prassi il problema è stato (parzialmente) risolto mediante l’inserimento nei moduli contrattuali della clausola in forza della quale il concedente delegava/autorizzava l’utilizzatore ad agire direttamente nei confronti del fornitore; tuttavia, la giurisprudenza precisava che anche in tali casi l’utilizzatore potesse esercitare soltanto l’azione di esatto adempimento e di risarcimento dei danni, ma non potesse chiedere la risoluzione del contratto.
Erano però numerose le pronunce che negavano legittimazione diretta all’utilizzatore, mentre alcuni giudici hanno viceversa ritenuto che questi potesse agire nei confronti del fornitore quale mandatario del concedente, ai sensi dell’art. 1705, II° comma, c.c.
Sul punto è infine intervenuta la Cassazione a Sezioni Unite con sentenza 5/10/2015 n. 19785, la quale ha rilevato che colui che non è parte di un contratto non può chiederne la risoluzione; tuttavia, in forza del collegamento esistente fra i due contratti (di compravendita e di leasing in senso stretto) deve essere riconosciuta in capo all’utilizzatore la legittimazione all’esatto adempimento del contratto di fornitura, cui è formalmente estraneo.
Secondo il Supremo Collegio da ciò consegue che, in caso di vizi della cosa concessa in leasing, l’utilizzatore è legittimato ad agire direttamente nei confronti del fornitore solo per chiedere l’eliminazione dei vizi, ma non la risoluzione del contratto (a meno che tale facoltà non sia prevista espressamente nel contratto concluso dall’utilizzatore con il concedente).
Il comma 136 dell’art. 1 L. 124/2017, nel disporre che il bene oggetto dell’operazione contrattuale sia acquistato o fatto costruire “su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore che ne assume tutti i rischi, anche di perimento” da un lato evidenzia ancora di più il ruolo di mero finanziatore del concedente, dall’altro parrebbe attribuire all’utilizzatore piena legittimazione ad agire direttamente nei confronti del fornitore.
Poichè tuttavia la norma in esame conferma che la locazione finanziaria è in realtà un’operazione complessa costituita dal collegamento fra due contratti distinti, non sembra portare alcun elemento idoneo a risolvere il dubbio circa la legittimazione dell’utilizzatore anche all’azione di risoluzione del contratto di fornitura in caso di gravi difetti del bene oggetto del contratto.
Al momento, sembrerebbe che la risposta a tale quesito debba essere negativa, sia per la precedente ricostruzione giurisprudenziale, sia in considerazione della disposizione dettata dall’art. 125-quinquies del D. Lgs. 1/9/1993 n. 385 (Testo Unico in materia bancaria e creditizia) nell’ambito del “credito ai consumatori”, il cui comma 3 sancisce che: “In caso di locazione finanziaria il consumatore, dopo avere inutilmente effettuato la costituzione in mora del fornitore dei beni o dei servizi, può chiedere al finanziatore di agire per la risoluzione del contratto. La richiesta al fornitore determina la sospensione del pagamento dei canoni. La risoluzione del contratto di fornitura determina la risoluzione di diritto, senza penalità e oneri, del contratto di locazione finanziaria”.
L’utilizzatore – consumatore può dunque chiedere al concedente, in presenza di gravi difetti della cosa, di agire per la risoluzione del contratto di compravendita da questi stipulato con il fornitore; v’è da chiedersi se, in assenza di specifica previsione normativa, analoga facoltà possa essere riconosciuta anche all’utilizzatore – professionista.
Poichè dunque in tema di leasing il legislatore continua a parlare balbettando con interventi “a macchia di leopardo”, occorrerà ancora muoversi tentando di seguire
la (non ancora del tutto compiuta) interpretazione giurisprudenziale, cui in precedenza ho accennato.
Per concludere, merita rilevare infine come tale interpretazione operi un’interessante distinzione fra i casi in cui i vizi o difetti – od addirittura il perimento – del bene si manifestino prima della consegna, ritardandola o rendendola impossibile, e quelli in cui si manifestino invece a consegna già avvenuta.
Nella prima ipotesi il fornitore deve avvisare il concedente della mancata (o rifiutata) consegna, di tal che il concedente è tenuto a sospendere il pagamento al fornitore e ad agire nei confronti di questi per l’adempimento o la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto; nella seconda ipotesi, invece, la legittimazione ad agire spetta all’utilizzatore, ma come sopra detto, egli può chiedere solo l’eliminazione dei vizi o la sostituzione della cosa: il contratto di fornitura, in quanto res inter alios acta, non potrà dunque essere risolto se non in presenza di apposita pattuizione nel contratto fra concedente ed utilizzatore che facoltizzi quest’ultimo anche all’azione di risoluzione; l’integrale assunzione dei rischi da parte dell’utilizzatore inibisce inoltre la possibilità che questi possa agire nei confronti del concedente.
Di conseguenza l’utilizzatore resta obbligato al pagamento dei canoni; egli può comunque rivolgersi al fornitore per il risarcimento dei danni e fra questi può essere compreso il pagamento di una somma pari ai canoni corrisposti al concedente nel periodo in cui non ha potuto utilizzare il bene viziato.