L’ A U L A C I V I L E
Le Pagine de
L’ A U L A C I V I L E
4 2019
aprile
IN QUESTO NUMERO:
L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA: COME CAMBIA
DANNI PUNITIVI: QUALI APPLICAZIONI?
ERRORE DEL GIUDICE
CONTRATTO PRELIMINARE E IPOTECHE
ESECUZIONE FORZATA: IL PUNTO OGGI
LE DECISIONI NELL’UNIONE EUROPEA
ASSISTENZA MORALE AI FIGLI
I POTERI DEL C.T.U.
PIGNORAMENTO E REDDITO DI CITTADINANZA: QUALI POSSIBILITà?
Le Pagine de
L’ A U L A C I V I L E
4 2019
aprile
IN QUESTO NUMERO:
L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA: COME CAMBIA
DANNI PUNITIVI: QUALI APPLICAZIONI?
ERRORE DEL GIUDICE
CONTRATTO PRELIMINARE E IPOTECHE
ESECUZIONE FORZATA: IL PUNTO OGGI
LE DECISIONI NELL’UNIONE EUROPEA
ASSISTENZA MORALE AI FIGLI
I POTERI DEL C.T.U.
PIGNORAMENTO E REDDITO DI CITTADINANZA: QUALI POSSIBILITà?
L’ A U L A C I V I L E
Comitato Scientifico
DIREZIONE:
Xxxx. Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx
COMITATO DI DIREZIONE:
Xxxx Xxxxxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx
Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxxx D’xxxxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx
Xxxxxx Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Xxxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxx Xxxx Xxxxx
Xxxxxxxxx Xxxxxxxx
COMITATO DI REDAZIONE:
Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx
Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx D’Addazio Alessia Durello Xxxxx
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxx
Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx
Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxx
Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx
Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Villa Xxxxxxx
Xxxxxxxx Xxxxxxx
Tutti i diritti riservati È vietata la riproduzione, an- che parziale, del materiale pubblicato senza auto- rizzazione dell’Editore.
Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli Autori, dei quali si rispetta la libertà di giu- dizio, lasciandoli responsabili dei loro scritti.
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Maggioli S.p.a.
Azienda con sistema qualità certificato ISO 9001:2008, iscritta al registro operatori della comunicazione
4 2019
Sommario
CONSUMATORI
IPOTECHE
5 Il “New Deal for Consumers” della Commissione UE: alcune riflessioni sulla proposta di direttiva sulla tutela collettiva dei consumatori
36 Il subentro del curatore nel contratto preliminare di compravendita immobiliare
e il potere del Giudice delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche
SOSPENSIONE
9 Articolo 463 bis c.c.: gli aspetti pratici della nuova sospensione dalla eredità di Xxxxx Xxxxxxxx
L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA: COME
CAMBIA
OGGI
39 Le ultime novità in materia di esecuzione forzata nel D.L. n. 135 del 2018 convertito con modificazioni dalla L. 11 febbraio 2019, n. 12 Xxxxxxxx Xxxxxx
LE DECISIONI NELL’UNIONE EUROPEA
13 È possibile estendere l’esdebitazione alle procedure di amministrazione straordinaria? Una recente pronuncia tra passato e futuro della disciplina fallimentare
APPLICAZIONI?
20 L’articolo 96, comma 3, c.p.c.: teoria, applicazione e prospettive de iure condendo di Xxxxx Xxxxxxx
51 La circolazione delle decisioni giudiziarie nel sistema del regolamento Bruxelles I bis - Prima Parte
60 La circolazione delle decisioni giudiziarie nel sistema del regolamento Bruxelles I bis - Seconda Parte
PEC
30 Il sindacato della Corte di Cassazione sull’errore di percezione compiuto dal giudice di merito su un fatto controverso
69 La Cassazione afferma la nullità
ERRORE DEL GIUDICE
della notificazione ad indirizzo di posta elettronica certificata estratto dal registro INI-PEC: una decisione da dimenticare Xxxxxxx Xxxxxxxx
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
MALA FEDE E COLPA GRACE DELLA PARTE
PROCESSUALE
PIGNORAMENTO E REDDITO DI CITTADINANZA:
QUALI POSSIBILITÀ?
72 La lite temeraria: analisi dell’art. 96, commi 1 e 2, c.p.c.
ASSISTENZA MORALE AI FIGLI
78 La tutela processuale del diritto dei figli all’assistenza morale da parte dei genitori Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
I POTERI DEL C.T.U.
83 L’ampiezza dei poteri del consulente tecnico di ufficio nel processo civile e la loro compatibilità con le preclusioni istruttorie Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx
SOVRAINDEBITAMENTO
89 La meritevolezza del debitore sovraindebitato nella procedura di liquidazione del patrimonio (Tribunale di Bergamo, decreto 25 gennaio 2019) Xxxxxxx Xxxxxxxx
93 Si può pignorare il Reddito di cittadinanza? Brevi considerazioni a margine di un recente intervento normativo
98 Le “comunicazioni” e le “notifiche” nell’era digitale: il momento perfezionativo della spedizione via pec e la sentenza della Corte Costituzionale del 9 aprile 2019, n. 75, dichiarativa della illegittimità dell’art. 16 septies, L. n. 221 del 2012
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
LE TUTELE PER I CONSUMATORI
Il “New Deal for Consumers” della Commissione UE: alcune riflessioni sulla proposta di direttiva sulla tutela collettiva dei consumatori
L’11 aprile 2018 la Commissione dell’Unione Europea ha pubblicato una Comunicazione dall’evocativo tito- lo “A New Deal for Consumers”[1]. Parte di questo nuo- vo patto europeo, è la proposta di direttiva “relativa alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori”[2]. Dopo anni di incertezza e timidezza da parte dell’Unione sul tema dei meccanismi di tutela col- lettiva, la Commissione sembra cambiare rotta, spinta dal noto scandalo del “Dieselgate”, espressamente citato in numerosi passi della comunicazione.
Proprio la vicenda “Dieselgate” è esemplificativa nel mo- strare lo iato di tutela che caratterizza i sistemi processua- li al di là delle sponde atlantiche. Negli USA, Volkswa- gen, il principale ma non unico gruppo automobilistico al centro dello scandalo, ha chiuso nel giro di due anni le varie pendenze, pubbliche e private, derivanti dalla consa- pevole falsificazione delle emissioni dei motori diesel, con
transazioni dal valore complessivo di 25 miliardi di dolla- ri. Di tale ingente somma, ben 10 miliardi sono stati desti- nati alla transazione della class action[3] composta dagli acquirenti americani delle automobili. Tale classe, grazie al meccanismo partecipativo noto come “opt-out”, con- tava circa 500.000 proprietari di veicoli, ai quali VW ha offerto in via transattiva di ricomprare il veicolo e di pa- gare, come risarcimento, tra i 5.000 e i 10.000 dollari di danni (ad auto)[4].
In Europa, dove pure ha avuto luogo la condotta censu- rata, dove la risonanza mediatica non è stata certo mino- re, e dove il numero di veicoli coinvolti è stimato in ben ot- to milioni di unità[5], non vi è traccia di transazioni mi- liardarie ed il gruppo tedesco ha a più riprese dichiarato che provvederà solo a riparare i mezzi, ma che non vi sa- rà alcun risarcimento del danno o riacquisto delle auto[6]. Situazioni come quella descritta rendono palese l’esisten-
[1] COM(2018) 183 del 11 aprile 2018, disponibile all’indirizzo xxxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/xxxxx-xxxxxxx/XX/XXX/XXXX/?xxxxXXXXX:00000XX0000 Il comunicato stampa è disponibile all’indirizzo xxxx://xxxxxx.xx/xxxxx/xxxxx-xxxxxxx_XX-00-0000_xx.xxx
[2] Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa alle azioni rappresentative a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e che abroga la direttiva 2009/22/CE, COM(2018) 184 del 11 aprile 2018, disponibile all’indirizzo:xxxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/xxxxx-xxxxxxx/XX/XXX/XXXX/?xxxxXXXXX:00000XX0000 . La proposta incorpora anche la precedente direttiva in materia di tutela inibitoria, della quale non ci occuperemo in queste brevi note. Come noto la direttiva è uno strumento legislativo che lascia libertà, più o meno ampia, agli Stati membri nello scegliere le concrete modalità di attuazione. Inoltre, la direttiva proposta espres- samente «non osta a che gli Stati membri adottino o mantengano in vigore le disposizioni intese a concedere agli enti legittimati o a qualunque altro soggetto in- teressato altri mezzi procedurali per esperire azioni finalizzate alla tutela degli interessi collettivi dei consumatori a livello nazionale» (art. 1).
[3] V. il saggio di X. Xxxxxxx, Class action negli USA: e in Europa?, CIE, 1/2009, 186; cfr. anche X. Xxxxxxxx, “Aggregate Litigation Across the Atlantic and the Fu- ture of American Exceptionalism”, (2009) 62 Vanderbilt Law Review 1, 28.
[4] Fonte: xxxxx://xxx.xxxxxxx.xxx/xxxxxxx/xx-xxxxxxxxxx-xxxxxxxxx/x-x-xxxxxxx-xxxxx-xxxxxxx-xxxxxxxxxxx-00-xxxxxxx-xxxxxx-xxxxxxxxxx-xxXXXXX0XX00X
[5] Fonte: xxxxx://xxx.xxxxxxxx.xx/xxxxxxx/xxxxxxxxxx-xxxx-xxxxxxxxx-xxxxx-xxxxxx-xxxxxx-xxxxx-xxxxxxx-xx-xxxxxxxxxx-xxx/
[6] Fonte: xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxx.xxx/xxxxxxxx/0000/xxx/00/xx-xxxxxxx-xxxx-xx-xxxxxxxxxx-xxxxxxxx-xxxxxxx-xxxxxxxxx-xxxxxxx Vi sono state alcune iniziati- ve negli Stati Membri, tra i quali segnaliamo un’azione di classe pendente avanti al Tribunale di Venezia, dove - secondo quanto riferito dall’associazione promo- trice - sarebbero state raccolte circa 76.000 adesioni (cifra record per il sistema italiano), e dove viene chiesto un danno pari al 15% del prezzo del veicolo. Fonte:
za di un vuoto di tutela nel continente europeo[7], in par- ticolare con riferimento al risarcimento del danno. A sua volta, consentire che gli autori degli illeciti trattengano (almeno in parte) i profitti delle proprie condotte vieta- te, si traduce in un vuoto di effettività del diritto, giacché violare le regole può essere più conveniente e redditizio che seguirle, anche se si viene scoperti.
Come lo scandalo Xxxxxxxx ha spinto il legislatore ita- liano ad introdurre l’azione di classe, anche per l’obietti- va difficoltà di gestire la partecipazione di migliaia di ri- sparmiatori danneggiati quali parti civili nell’azione pe- nale, così il Dieselgate si è imposto all’attenzione della Commissione UE imponendo un’accelerazione al pro- cesso di elaborazione di meccanismi processuali per ag- gregare gruppi di danneggiati che si trovano in una posi- zione omogenea (per usare una terminologia ormai cara al commentatore italiano. Nelle stesse parole della Com- missione, le valutazioni effettuate dalle istituzioni europee mostrano «che il rischio di violazioni della normativa UE a danno degli interessi collettivi dei consumatori sta au- mentando a causa della globalizzazione economica e del- la digitalizzazione»[8].
Alcuni settori del diritto europeo erano già stati oggetto di importanti interventi, anche sul piano processuale, che mostravano l’attenzione della Commissione per l’effetti- vità della tutela. Il riferimento è, ad esempio, alla tute- la della proprietà intellettuale, oggetto della direttiva c.d.
“enforcement”[9], o al settore delle azioni di risarcimento da violazione della normativa antitrust[10]. In entrambe le normative si trovano disposizioni che incidono, in par- ticolare sulla prova, con l’evidente finalità di offrire una tutela più effettiva e semplice ai titolari dei diritti di pro- prietà intellettuale e ai soggetti danneggiati da una con- dotta contraria alle regole sulla concorrenza.
Sul versante dei meccanismi di tutela collettiva, tuttavia, le resistenze sono sempre state più elevate e anche l’ultima proposta licenziata mostra il permanere delle stesse pre- messe concettuali che hanno caratterizzato gli interventi della Commissione negli ultimi dieci anni. Se vi è un ele- mento che emerge con assoluta chiarezza nella relazione di accompagnamento, e traspare anche in controluce dal testo della proposta di direttiva, infatti, è il costante rifiu- to di qualsiasi soluzione che possa anche solo accostare il meccanismo europeo alla class action di matrice USA[11]. Non è un caso che la Commissione, ancora una volta[12], ribadisca la necessità di trovare un «equilibrio tra l’acces- so alla giustizia e la prevenzione di possibili abusi, con un approccio distinto, diverso dal modello di contenzioso in stile statunitense».
Se il modello americano di tutela dei diritti collettivi ed omogenei si basa (anche) sulla figura del c.d. private at- torney general[13], ossia sull’individuo che, perseguendo una finalità di tutela privata, produce benessere per l’inte- ra collettività, partecipando alla complessiva opera di en-
xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxx.xx/xxxx-x-xxxx/xxxxxxxxxx/xxxx/xxxxxxxxxxxx-xxxxxx-xxxxxxxxxx ; e l’azione promossa dagli investitori di Volkswagen in Germania per la perdita del valore azionario, ove sono chiesti circa 9 miliardi di euro di risarcimento complessivo, fonte: xxxxx://xxx.xxxxxxxxxx.xx/xxxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/00/ news/volkswagen_class_action-206063668/
[7] Per alcuni cenni comparati, si v. il noto saggio di X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxx, “Class Actions for Continental Europe? A Preliminary Inquiry”, (1992) 6 Temple Inter- national & Comparative Law Journal 217.
[8] Proposta di direttiva, COM(2018) 184, p. 1.
[9] Direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale, disponibile all’indirizzo: https:// xxx-xxx.xxxxxx.xx/XxxXxxXxxx/XxxXxxXxxx.xx?xxxxXXXXX:00000X0000X(00):XX:XXXX La direttiva è stata attuata in Italia con il d.lgs. 16 marzo 2006 n. 140. V. diffu- samente AA.VV., L’enforcement dei diritti di proprietà intellettuale. Profili sostanziali e processuali, a cura di X. Xxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 2005; AA.VV., ll processo in- dustriale, a cura di X. Xxxxxxxx, Giappichelli, Torino, 2012.
[10] X. Xxxxxxxxx 0000/000/XX del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 novembre 2014 relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimen- to del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea disponibile all’indi- xxxxx: xxxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/xxxxx-xxxxxxx/XX/XXX/XXXX/?xxxxXXXXX:00000X0000 La direttiva è stata attuata in Italia con il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3. V. tra i tanti, AA.VV., Il risarcimento del danno nel diritto della concorrenza: commento al d.lgs. n. 3/2017, a cura di Xxxxxx Xxxxxxx, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2017.
[11] Un settore assai rilevante della tutela collettiva in USA - frutto della dimensione e della natura diffusa del capitalismo nord americano - è rappresentato dalle
c.d. securities class action, ossia da quelle azioni di classe che sono promosse da azionisti o risparmiatori che si ritengono danneggiati dalla condotta dei manager.
[12] Lo aveva già fatto, in particolare, nei Considerando 10, 13, 15, 19, 20 e 26 della Raccomandazione dell’11 giugno 2013 relativa a principi comuni per i mec- canismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione, in GUUE del 26 luglio 2013 L 201/60, disponibile all’indirizzo: xxxxx://xxx-xxx.xxxxxx.xx/xxxxx-xxxxxxx/XX/XXX/XXXX/?xxxxXXXXX:00000X0000
[13] X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxx - X. Xxxxxxx, “Private enforcement of statutory and administrative law in the United States”, Int’l Lis, 2011, 3-4, 153 ss; e X. Xxxxxxx, “The Private Attorney General in a Global Age: Public Interest in Private International Antitrust Litigation”, Y. L. J. XXVI, 2001, p. 219.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019 › LE TUTELE PER I CONSUMATORI
forcement del diritto ed in particolare delle normative a tutela del mercato e degli individui (es., antitrust, salute, ambiente, consumo), Bruxelles rifiuta decisamente l’idea che i danneggiati (rectius: i loro avvocati) possano vesti- re i panni degli imprenditori che utilizzano i potenti mez- zi processuali messi a disposizione dall’ordinamento per costringere i convenuti ad una transazione, pur di evita- re costi e pubblicità di un contenzioso processuale. Sono ancora troppo forti nell’ottica europea, da un lato la nar- rativa che vuole il sistema processuale americano preda di azioni vessatorie ed abusive nei confronti di società vi- ste come “pozzi senza fondo” dai quali trarre risarcimen- ti milionari, e dall’altro la marcata influenza del modello “pubblico” di enforcement, che affida la tutela di mercato e persone al diritto penale e al diritto amministrativo, au- torizzatorio (ex ante) o sanzionatorio (ex post), per poter consentire al processo civile di deviare dalla finalità com- pensatoria che gli è propria ed abbracciare anche una fun- zione dissuasiva.
Ed infatti, la proposta di direttiva prevede che solo en- ti esponenziali senza finalità di lucro possano farsi pro- motori dell’azione rappresentativa, ribadendo - in qual- che misura contro la filosofia che ha ispirato la direttiva in materia di danno da antitrust[14] - che per l’Unione l’en- forcement è solo pubblico, o al limite “quasi-public”, ossia associativo, e dichiaratamente senza scopo di lucro.
Nella stessa scelta dei termini linguistici, la Commissio- ne continua a marcare la distanza dal più noto e fortuna- to istituto statunitense, ed adotta la formula, pleonasti- ca, di «azioni rappresentative a tutela degli interessi col- lettivi dei consumatori»; ciò diversamente dal legislatore italiano che nel 2009 ha abbandonato la formula “azione
collettiva risarcitoria” adottata nel 2007[15], per diriger- si, almeno a parole, verso il termine “azione di classe”[16]. Passando al meccanismo di partecipazione all’azione col- lettiva, la proposta di direttiva introduce alcune promet- tenti novità, anche se - anticipiamo sin d’ora - non ne è del tutto chiara la portata. Per dare i contorni della que- stione, il tema del quale stiamo parlando è quello della nota contrapposizione tra partecipazione c.d. opt-in (è in- cluso nella classe solo chi aderisce attivamente) e parteci- pazione c.d. opt-out (tutti i danneggiati sono parte della classe, salvo chi manifesta l’intenzione di esserne escluso). Pur consapevoli che il successo della class action america- na poggia sulla combinazione, a tratti virtuosa, talvolta viziosa[17], di molti ingredienti, il meccanismo di parteci- pazione è sicuramente uno snodo cruciale. È stato, infatti, mostrato efficacemente[18] che l’assottigliarsi del danno comporta il progressivo emergere di un sentimento defi- nito “rational apathy”[19], per cui chi è titolare del diritto al risarcimento non compie alcuna azione: né aderisce al- la classe (se opt-in), né chiede di esserne escluso (opt-out). Ciò comporta che, in particolare nel caso di condotte che producono un danno seriale di scarsa entità individua- le, ma di importo aggregato rilevante e dannoso per il be- ne comune, il meccanismo di partecipazione diviene un ingrediente indispensabile per il successo dell’istituto. Lo dimostra bene l’esperienza italiana che nei suoi dieci anni di applicazione di un meccanismo opt-in ha visto - sino ai casi eclatanti più recenti[20] - classi composte solo da uni- tà o poche decine di aderenti. Sia che si ragioni in termi- ni di dissuasione delle condotte illecite (la quale richiede, de minimis, la completa neutralizzazione del profitto), di effettività o di diritto d’azione, è chiaro che vi sono - e so-
[14] V. supra nota 10.
[15] L. 24.12. 2007, n. 244, art. 2, c. 446.
[16] L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 49 e xx.xx. Sull’esperienza italiana v., tra i tanti, Donzelli R., L’azione di classe a tutela dei consumatori, Xxxxxx, Napoli, 2011; Consolo C. e Zuffi B., L’azione di classe ex art 140 bis cod. cons. Lineamenti processuali, Xxxxx, Padova, 2012; ed il nostro scritto, con A. De Luca, Le azioni di clas- se dei consumatori: presupposti e limiti, in Il risarcimento del danno al consumatore, Xxxxxxx, Milano, 2014. V. anche X. Xxxxxxxx, Studi sulle class actions, CEDAM,
Padova, 1996 e Id., Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, il Mulino, Bologna, 2008
[17] X. Xxxxxx, “Of Frankenstein Monsters and Shining Knights: Myth, Reality, and the “Class Action Problem””, (1979) 92 Harvard Law Review 664, 666-67; X. Xxxxxxxxxx, “The Consumer Fraud Class Action: Reining in Abuse by Requiring Plaintiffs to Allege Reliance as an Essential Element”, (2006) 43 Harvard Journal on Legislation 1, 1-10, 38-39.
[18] X. Xxxxxxxxx, “Mandatory-Litigation Class Action: The Only Option for Mass Tort Cases”, Harv. L. Rev. CXV, 2001-02, pp. 831-33; X. Xxxxxx, “Effectiveness of Antitrust Sanctions on Modern International Cartels”, J. Ind. Compet. Trade VI, 2006, p. 195; X. Xxxxx, “Obstacles in European Competition Law Enforcement: A Po- tential Solution from Collective Redress”, 7 European Journal of Legal Studies, 2014, pp. 128-36.
[19] È la nota espressione utilizzata dal Xxxxxxx Xxxxxx nel caso Carnegie v. Household Int’l, Inc., 376 E3d 656, 661 (7th Cir. 2004).
[20] V. supra nota 6 ed altre azioni nelle quali Altroconsumo afferma di aver raccolto migliaia di adesioni. V. ad es. xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxx.xx/xxxx-x-xxxx/xx- tomobili/news/class-action-fiat e xxxxx://xxx.xxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxx-xxxxxxxxxx/xxxxxxxx
no in aumento - una serie di situazioni nelle quali la tutela o è collettiva ed estesa, o è praticamente impossibile[21]. La proposta della Commissione non rimane del tutto in- sensibile a queste istanze. Lo schema previsto dalla Com- missione non è di immediata comprensione, ma potreb- be essere ricostruito in questi termini. Legittimati ad agi- re sono sicuramente solo gli “enti legittimati” senza scopo di lucro, dunque non anche i consumatori o altri soggetti che intendano trarre un profitto dalla lite. Tali enti legitti- mati possono chiedere misure inibitorie e/o il risarcimen- to del danno e l’art. 6 della direttiva lascia liberi gli Sta- ti membri di scegliere se imporre o meno che l’ente agisca con «il mandato dei singoli consumatori interessati». Tale elemento sembra aprire alla possibilità che gli Stati mem- bri adottino anche meccanismi di tipo opt-out.
Vi sono due casi, però, nei quali è il diritto europeo a prevedere come non necessario il mandato dei singoli consumatori, cosa che dovrebbe essere vincolante per gli Stati membri in sede di attuazione. Il primo si avrebbe quando questi «sono identificabili ed hanno subito dan- ni comparabili provocati dalla stessa pratica relativa a un periodo di tempo o a un acquisto». In tale caso, affer- ma la proposta, «l’obbligo del mandato dei singoli con- sumatori interessati non costituisce condizione per av- viare l’azione». La formulazione, oltre che tecnicamente imperfetta, è oscura[22]: il mandato non è necessario per avviare l’azione, ma lo è per poterne fare parte ed ave- re diritto al risarcimento? Ad ogni modo, rimane aperta la possibilità di un’interpretazione in favore di un mec- canismo opt-out.
La seconda ipotesi riguarda, invece, il caso di azioni nel- le quali il risarcimento del danno ha un valore unitario talmente minimo che la distribuzione dell’importo tra i danneggiati sarebbe più onerosa del risarcimento stes- so. In questo caso «gli Stati membri garantiscono che il mandato dei singoli consumatori interessati non sia
necessario»[23] e l’importo dovuto dal danneggiante è de- stinato per finalità pubbliche (come campagne di sensibi- lizzazione dei consumatori), disinnescando il fenomeno dei risarcimenti tramite “coupon”, ove i danneggiati rice- vono solo un “buono” per il prossimo acquisto sulla piat- taforma online del danneggiante, mentre gli studi legali promotori ricevono milioni in compensi legali[24].
La non perfetta chiarezza delle espressioni utilizzate, tut- tavia, non deve oscurare il potenziale innovativo e l’aper- tura, almeno parziale, a meccanismi di partecipazione opt-out.
Anche altre soluzioni avanzate nella proposta di direttiva sono meritevoli di attenzione, come la necessità di traspa- renza relativamente alle fonti di finanziamento dell’azio- ne, specie se ad opera di soggetti terzi (art. 7), o la neces- sità di una supervisione giudiziale delle transazioni collet- tive (art. 8), due passaggi delicati ove si possono annidare conflitti d’interesse e abusi.
Riproducendo soluzioni già sperimentate nell’ambito del- la direttiva antitrust[25], poi, la proposta di direttiva ac- coglie meccanismi processuali di esibizione coatta dei do- cumenti (art. 13), di sospensione della prescrizione (art. 11), nonché la valenza probatoria “pan europea” delle de- cisioni adottate in uno Stato membro che accertino la vio- lazione del diritto UE (art. 10), le quali possono così esse- re utilizzate in altro Stato membro per assolvere - almeno in parte - l’onere di provare la condotta illecita o il danno. Pur presentando certamente luci ed ombre, la proposta di direttiva nel suo complesso deve essere valutata positiva- mente quale tentativo della Commissione di rianimare il confronto tra le istituzioni europee intorno al tema della tutela collettiva. Resta da vedere se e in che misura il pro- cedimento legislativo che è stato avviato saprà migliorare il testo e chiarire i punti più oscuri, mantenendone però lo slancio innovativo, o se le aperture più coraggiose saran- no destinate a svanire.
[21] Facciamo riferimento qui al lavoro di X. Xxxxxxxxxxx, “Vindicating the Public Interest Through the Courts: A Comparativist’s Contribution”, 25 Buff. L. Rev. 643 (1975-76), p. 684
[22] Neanche il raffronto con le altre versioni linguistiche o la consultazione della relazione di accompagnamento aiutano a chiarire il senso della disposizione.
[23] Si noti la diversa formulazione tra le due ipotesi riportate nel testo. Nel primo caso «l’obbligo del mandato dei singoli consumatori interessati non costitui- sce condizione per avviare l’azione», nel secondo «gli Stati membri garantiscono che il mandato dei singoli consumatori interessati non sia necessario». Tentan- do un’interpretazione sistematica, ciò potrebbe lasciar intendere che solo nel secondo caso si ha un meccanismo puramente opt-out, mentre nel primo ad un cer- to punto è richiesta l’adesione del consumatore.
[24] Il compenso dello studio legale, infatti, viene di regola calcolato come percentuale dell’importo complessivo oggetto di risarcimento che, nel caso di classi composte tramite il meccanismo opt-out, può avere un valore aggregato assai elevato anche se al singolo consumatore sono destinati pochi dollari. X. Xxxxxx, “A Market-Based Approach to Coupon Settlements in Antitrust and Consumer Class Action Litigation”, UCLA L. Rev., XLIX, 2002, p. 991.
[25] Cfr. Direttiva 2014/104/UE, cit., artt. 5 ss., 9 e 10.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
EREDITÀ: LA NUOVA SOSPENSIONE
Articolo 463 bis c.c.: gli aspetti pratici della nuova sospensione dalla eredità
di Xxxxx Xxxxxxxx
del 3 aprile 2019
Sommario
1. Introduzione alla successione ereditaria. Lo stato di giacenza e il ruolo del curatore dell’eredità giacente
2. Articolo 463bis c.c., natura giuridica e riflessi pratici dell’istituto. La necessità di coordinazione tra diverse giurisdizioni
1. Introduzione alla successione ereditaria. Lo stato
di giacenza e il ruolo del curatore dell’eredità giacente Con l’istituto introdotto dall’art. 5 della Legge n. 4/2018, rubricato “sospensione dalla eredità”, il legislatore ha ag- giunto un fondamentale elemento di raccordo tra giuri- sdizioni nel campo delle c.d. “indegnità” a succedere.
Appare quindi utile, prima di analizzare le ricadute pra- tiche della nuova previsione, inquadrare la fattispecie nel più ampio contesto e meccanismo della successione mor- tis causa.
Ad ogni decesso, si ha l’estinzione dei rapporti personalis- simi facenti capo al de cuius, ossia quelli strettamente ine- renti alla persona (ad esempio diritto al nome, alla liber- tà, all’integrità personale etc.) e dei rapporti familiari (co- me, ad esempio, la potestà genitoriale o il matrimonio). Diversamente, per ciò che attiene ai rapporti patrimonia- li, si apre un procedimento complesso volto a far suben-
trare determinati soggetti nella titolarità di uno o più di- ritti o rapporti giuridici[1].
Questo meccanismo può operare sulla base di indicazio- ni contenute in un testamento o mediante un meccanismo successorio operante ex lege, la c.d. “successione legittima”. Ancora ed in parallelo, la successione può distinguersi tra successione a titolo universale e a titolo particolare[2].
Senza soffermarci sulle peculiarità di ciascun modello, è sufficiente accennare che il momento iniziale è da ravvi- sarsi, in ogni caso, nella apertura della successione ex art. 456 c.c., al momento della morte, nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto.
È da questo momento che, qualora vi sia una pluralità di eredi chiamati tutti a titolo universale che accettino la chiamata all’eredità, si instaurerà tra di essi una comunio- ne ereditaria[3] che dovrà essere sciolta mediante la divi- sione di cui all’art. 784 ss c.p.c.
[1] La cosiddetta “eredità” che, come detto, consta nel complesso dei rapporti patrimoniali trasmissibili, attivi e passivi del de cuius, esistenti al momento della sua morte. In base a ciò che è disposto dal legislatore agli artt. 587 e 588 c.c., tra le situazioni giuridiche patrimoniali che vengono devolute a terzi possiamo ci- tare: i rapporti patrimoniali personali, salvi quelli c.d. “intuitu personae” (essi implicano, difatti, un legame inscindibile rispetto alla persona che ne è titolare co- me, ad esempio, il diritto agli alimenti); i rapporti patrimoniali di natura reale (e contemporaneamente la legittimazione attiva rispetto alle azioni poste a loro tu- tela) e, ancora, i contratti in corso di esecuzione, salvo che la tipologia e natura del contratto non renda impossibile la devoluzione della posizione giuridica del de- funto in capo all’erede.
[2] Una delle principali differenze tra queste ultime tipologie di successione, è da ravvisare nel fatto che solo l’erede (non il successore a titolo particolare o lega- tario) subentra in tutti i rapporti patrimoniali trasmissibili, compresi, quindi, anche gli eventuali debiti e solo egli è legittimato nei procedimenti che aveva instau- rato in vita il de cuius. Questa fondamentale differenza si riflette direttamente sull’istituto dell’accettazione dell’eredità, istituto previsto come regola per la sola eredità. Al contrario il legato, poiché sostanzialmente solo attribuzione patrimoniale e, quindi, lascito migliorativo della posizione giuridica del ricevente, viene ac- quisito anche senza accettazione, salva facoltà di rinuncia.
[3] Tale è la situazione di contitolarità del patrimonio ereditario che si instaura tra gli eredi che abbiano accettato l’eredità. Trattasi di una tipologia di comunione ordinaria, da disciplinarsi ai sensi degli artt. 1100 ss c.c., ma con la fondamentale differenza che la contitolarità non ha ad oggetto solamente i diritti di proprie- tà, ma ogni diritto facente parte dell’asse ereditario.
La divisione, ovvero l’atto mediante il quale i coeredi pongono fine alla comunione ereditaria, può essere di va- rie tipologie: testamentaria e fatta direttamente dal de cu- ius; consensuale con l’accordo di tutti i comproprietari su base contrattuale; consensuale ma, in un’ottica più ga- rantista, con l’intervento di un notaio che si occuperà del- le operazioni di divisione e, infine, giudiziale, un procedi- mento caratterizzato da un litisconsorzio necessario poi- ché va proposto nei confronti di tutti i comproprietari.
Ad ogni modo, quale che sia il tipo di divisione operante, si giungerà allo scioglimento della comunione ereditaria e, quindi, alla chiusura della successione.
Vi sono casi però, nei quali l’iter appena descritto è carat- terizzato da un livello di complessità maggiore.
Ad esempio, può succedere che i chiamati accettino l’ere- dità con beneficio di inventario. Quest’ultima è una facol- tà[4] di carattere personale che permette all’erede di non confondere il proprio patrimonio con quello del defunto, con la conseguenza che, nelle more di una verifica circa la convenienza di una eventuale accettazione, non sarà tenu- to al pagamento dei debiti del de cuius.
Ancora, potrebbe succedere che i chiamati a succedere che non siano in possesso dei beni ereditari, non provve- dano ad accettare l’eredità o che tutti i chiamati rinunci- no alla stessa.
In questi casi, su istanza di chi ne sia interessato, ad esem- pio di eventuali creditori intenzionati a soddisfarsi sul la- scito, verrà nominato dal Giudice della successione un cu- ratore dell’eredità che si trovi nello stato di giacenza.
La giacenza[5], come accennato sopra, concerne, quindi, nella pendenza della delazione, ovvero nella situazione di incertezza circa la destinazione del patrimonio ereditario che può perdurare fino a dieci anni, poiché tale è il termi- ne per assumere una scelta definitiva[6].
I presupposti a fondamento della giacenza si ravvisano, pertanto, nella mancanza di una accettazione da parte dei chiamati, nel mancato possesso dei beni ereditari da parte degli stessi[7] e, infine, nella nomina di un curatore dell’e- redità giacente. Quest’ultimo è proprio l’atto che determi- na lo stato di giacenza.
La nomina del curatore determina, per i chiamati a succe- dere, la perdita dei poteri di cui all’art. 460 c.c.[8].
Il curatore dell’eredità giacente assume il proprio ufficio di diritto privato dal momento in cui presta il giuramento dinanzi al Giudice delle successioni del Tribunale del cir- condario in cui è avvenuto il decesso.
Da questo momento egli si pone quale ausiliario del Giu- dice stesso, con obblighi molteplici: preliminarmente sa- rà tenuto a redigere l’inventario del patrimonio ereditario e, unitamente, dovrà svolgere tutti gli atti ritenuti urgenti. Egli, inoltre, assume la legittimazione processuale in no- me e per conto dell’eredità e amministra il patrimonio per tutta la durata della giacenza.
La curatela cessa in caso di abbandono dell’ufficio da par- te del curatore, nel caso di accettazione dell’eredità, nel caso di accertato esaurimento dell’attivo ereditario e, in- fine, nel caso di accertamento della mancanza di chiama- ti all’eredità.
2. Art. 463bis c.c., natura giuridica e riflessi pratici dell’istituto. La necessità di coordinazione tra diverse giurisdizioni
Giungendo al punto nevralgico della questione, nel 2018 è stata introdotta, nel codice civile, una nuova previsione all’art. 463 bis c.c.
Con questa novità il legislatore ha ritenuto necessario ar- ricchire la normativa riguardante le indegnità a succede- re con una norma di raccordo, una norma avente lo sco-
[4] Da esercitare mediante dichiarazione scritta, ad substantiam, che dovrà essere ricevuta da un notaio o dal Cancelliere del Tribunale territorialmente compe- tente e, in seguito, inserita nel registro delle successioni e trascritta. Vi sono alcuni casi in cui la legge prevede che l’accettazione con beneficio d’inventario sia ob- bligatoria e non una facoltà. Questa imposizione ha lo scopo di tutelare i soggetti giuridicamente più deboli di cui agli artt. 471, 472 e 473 c.c., ovvero i minori e i minori emancipati, gli interdetti, gli inabilitati, le persone giuridiche, le fondazioni, le associazioni e anche gli enti non riconosciuti. Tale scelta è obbligata ma non automatica: per i minori e gli interdetti dovranno compiere la dichiarazione i genitori o i tutori dopo aver ottenuto il consenso del giudice tutelare; per gli inabili- tati e i minori emancipati, ai quali la legge riconosce una limitata capacità di agire, è sufficiente il consenso dei curatori e del giudice tutelare, potendo loro stes- si prestare la dichiarazione.
[5] Tale stato va differenziato rispetto alla c.d. “vacanza” dell’eredità. Quest’ultima potrà essere definita tale solo una volta accertata l’assenza di successibili, momento dal quale l’eredità potrà essere destinata allo Stato.
[6] Ciò nel caso in cui i chiamati non si trovino nel possesso dei beni ereditari. In quest’ultimo caso, infatti, il soggetto dovrà assumere una decisione entro 40 gior- ni dalla redazione dell’inventario dei beni di cui ha il possesso (adempimento questo da farsi entro tre mesi dall’apertura della successione).
[7] Secondo la giurisprudenza maggioritaria il “possesso” a cui fa riferimento l’art. 528 c.c. non richiede il c.d. animus possidendi, essendo sufficiente il posses- so del bene a qualsiasi titolo e, quindi, anche la mera detenzione di fatto.
[8] Posto che, nella maggior parte dei casi, è proprio l’inerzia degli stessi che va a innescare l’istanza per la nomina del curatore stesso.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019 › EREDITà: LA NUOVA SOSPENSIONE
po di regolare una fase intermedia nella quale le sorti del lascito sono indefinite.
L’articolo è rubricato, appunto, “sospensione dalla suc- cessione”.
Ivi si stabilisce che: “Sono sospesi dalla successione il co- niuge, anche legalmente separato, nonché la parte dell’u- nione civile indagati per l’omicidio volontario o tentato nei confronti dell’altro coniuge o dell’altra parte dell’unione ci- vile, fino al decreto di archiviazione o alla sentenza defini- tiva di proscioglimento. In tal caso si fa luogo alla nomina di un curatore ai sensi dell’art. 528 c.c. In caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., il responsabile è escluso dalla successio- ne ai sensi dell’art. 463 del presente codice.
Le disposizioni di cui al primo comma si applicano anche nei casi di persona indagata per l’omicidio volontario o ten- tato nei confronti di uno o entrambi i genitori, del fratello o della sorella.
Il pubblico ministero, compatibilmente con le esigenze di se- gretezza delle indagini, comunica senza ritardo alla cancel- leria del tribunale del circondario in cui si è aperta la suc- cessione l’avvenuta iscrizione nel registro delle notizie di re- ato, ai fini della sospensione di cui al presente articolo».
Per ciò che riguarda le c.d. indegnità a succedere, è oppor- tuno segnalare, senza entrare nel merito, che vi è un acce- so dibattito circa la natura di questo istituto, disciplina- to all’art. 463 c.c.
Per alcuni, l’indegnità è da considerarsi alla stregua di una vera e propria sanzione civile per il successibile che si sia reso autore di condotte riprovevoli. Trattasi, in questa ottica, di una ipotesi di rimozione dalla successione, ope- rante successivamente, dalla relativa pronuncia giudiziale e non una ipotesi automatica di incapacità a succedere al pari della diseredazione[9].
Secondo un differente e contrario orientamento, l’inde- gnità costituirebbe una ipotesi vera e propria di incapa- cità a succedere, con la conseguenza che, nei confronti dell’indegno, non si aprirebbe mai una successione legit- tima[10].
Da una lettura del nuovo art. 463 bis c.c., sembrerebbe avallata la seconda di queste tesi poiché, a seguito di una sentenza di condanna o di patteggiamento, il responsabile “è escluso dalla successione ai sensi dell’art. 463 c.c.”. Ol- tre alla sentenza di nell’ambito del giudizio penale, difat- ti, non è richiesta alcuna pronuncia ah hoc circa l’accerta- mento della qualità di indegno e, quindi, circa l’esclusio- ne dalla successione ereditaria.
Parimenti e a conferma di ciò, l’art. 537 c.p.p., introdot- to sempre con la riforma su menzionata del 2018, stabi- lisce che “quando pronuncia sentenza di condanna per uno dei fatti previsti dall’art. 463 del codice civile, il giudice di- chiara l’indegnità dell’imputato a succedere”.
Posto ciò, appaiono ancora più chiari il ruolo e la ratio le- gis del nuovo istituto della sospensione dalla successio- ne. Tale norma va a raccordare e coordinare due momen- ti temporalmente distanziati tra loro, nonché due giuri- sdizioni differenti.
Essa, primo su tutti, ha lo scopo di impedire che i sog- getti indagati per i gravi fatti di cui sopra, perpetrati ai danni di persone a cui sono legati da stretti vincoli di pa- rentela, possano, nelle more di un processo a loro cari- co, compiere atti di gestione relativi al patrimonio ere- ditario.
Sostanzialmente il legislatore ha, quindi, voluto sospen- dere, “congelare”, la delazione dell’eredità a soggetti che si trovino in tali condizioni[11].
Ciò permette la coordinazione tra il procedimento pena- le e lo sviluppo della successione ereditaria sulla quale ha competenza a statuire il diverso Giudice delle successio- ni, coordinazione che ha origine dall’onere posto, dal no- vello articolo 463 bis c.c., in capo al Pubblico Ministero di comunicare, alla cancelleria civile competente, l’avvenuta iscrizione nel registro delle notizie di reato.
In conclusione, questa nuova previsione all’interno del
[9] Così anche, X. XXXXX, Successioni in generale, artt. 456-511, in Comm. Cod. Civ., a cura di Xxxxxxxx e Xxxxxx, 1980, p. 166.
[10] La successione testamentaria, invece, ben sarebbe possibile posto che il testatore potrebbe scegliere di riabilitare sia espressamente che tacitamente l’indegno.
[11] Nel merito, il legislatore ha ritenuto di reagire, sulla scia del fenomeno del c.d. “femminicidio”, inserendo una sanzione civilistica di matrice pubblica di ca- rattere preventivo, operando una presunzione di temporanea indegnità a succedere
[12] La nuova previsione, è opportuno sottolineare, pare abbia implicitamente riconosciuto la legittimità della giacenza dell’eredità pro-quota, da sempre argo- mento dibattuto in dottrina e giurisprudenza. La dottrina maggioritaria ha più volte ribadito la fattibilità di una giacenza pro-quota, ritenendo che, nel caso in esa- me, qualora vi sia una pluralità di eredi, il curatore nominato dovrebbe occuparsi soltanto dell’amministrazione dei soli beni destinati al/ai soggetti indagati. Ol- tre a ciò, in questo caso peculiare, ai fini della giacenza, l’opinione maggioritaria ritiene che non sia necessario il rispetto del requisito del mancato possesso dei beni ereditari da parte del chiamato.
Codice Civile e, contemporaneamente il novello art. 537 inserito nel Codice di Procedura Penale, segnano un pun- to di svolta rispetto al passato.
Difatti, superata la fase di sospensione ed accertata la re- sponsabilità dell’imputato con sentenza di condanna, la pronuncia nata in sede penale, nei fatti, potrà essere qua-
lificata come sentenza dichiarativa di effetti anche civi- li[13].
Con questa “sinergia” tra giurisdizioni dall’inizio delle in- dagini sino alla conclusione del processo, ad oggi, pare possibile una deroga al principio sancito all’art. 651 c.p.p. sull’autonomia e separazione dei giudizi civile e penale.
[13] Dichiarativa ma non costitutiva, posto che gli effetti si sono già prodotti ope legis in capo al reo.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA: COME CAMBIA
È possibile estendere l’esdebitazione alle procedure
di amministrazione straordinaria? Una recente pronuncia tra passato e futuro della disciplina fallimentare
Sommario
3. Spunti di riflessione in tema di esdebitazione. Generalità introduttive
4. (segue) Nozione, effetti ed ambito operativo
7. Osservazioni sulla nuova disciplina del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
1. Introduzione: il caso
Il recente decreto 12 febbraio 2019 reso dalla Sezione fal- limentare del Tribunale di Torino si impone all’interesse dell’operatore non solo per l’assenza di precedenti pro- nunce pretorie sul tema dell’applicabilità dell’esdebita- zione al soggetto sottoposto alla procedura di ammini- strazione straordinaria; ma anche per l’attento iter argo- mentativo e la sensibilità sistematica che ha portato il giu- dicante ad esprimersi in senso favorevole alla estensione dell’ambito operativo dell’istituto.
Nel corso di una procedura di amministrazione straordi- naria viene proposta istanza per la ammissione al benefi- cio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei cre- ditori non soddisfatti. La Sezione fallimentare lo concede, dichiarando la non esigibilità nei confronti della parte dei debiti concorsuali non integralmente soddisfatti, dopo aver rilevato che nel caso di specie sussistevano tutti i presuppo- sti richiesti dagli artt. 142 ss. l. fall. per accordare l’esdebi- tazione: l’istanza è stata presentata prima della dichiara- zione di chiusura della procedura; il parere del Commis- sario Straordinario, depositato in uno alla valutazione del Comitato di Sorveglianza, è risultato non ostativo; l’istan- te ha cooperato con gli organi della procedura, in quan- to ha fornito le informazioni e le documentazioni utili per l’accertamento del passivo, non ha provocato ritardi nel- lo svolgimento del procedimento e non ha distratto l’atti-
A prescindere dalle evenienze del caso concreto, il vero punto focale della decisione è, come anticipato, la affer- mata compatibilità dell’istituto dell’esdebitazione con il sistema delle procedure di amministrazione straordinaria: la soluzione favorevole, invero non scontata, è frutto di argomentazioni di varia natura e di una visione ben defi- nita del sistema fallimentare.
2. L’iter argomentativo
Il percorso decisorio del tribunale parte da una constata- zione di base: il d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (recante, come noto, la “nuova disciplina dell’amministrazione straordi- naria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a nor- ma dell’articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274”) non contiene una regolamentazione dell’istituto dell’esdebita- zione; né presenta una norma di richiamo alle disposizio- ni contenute nella legge fallimentare.
Da ciò deriva una evidente lacuna nell’ordinamento che conduce, nell’opinione del giudicante, ad una disparita di
trattamento: difatti, la persona fisica potrebbe beneficia- re degli effetti favorevoli dell’esdebitazione solo nel caso in sui sia assoggettata ad una procedura fallimentare. Una di- sparità, questa, in contrasto con la ratio sottesa alla proce- dura dell’amministrazione straordinaria, posto che ai sen- si dell’art. 1 d.lgs. 270/1999 detta procedura è stata predi- sposta dal legislatore per rispondere a “finalità conservati- ve del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, ri- attivazione o riconversione delle attività imprenditoriali”. L’irragionevolezza del trattamento emergerebbe altresì dal- la circostanza per cui sono sottoponibili ad amministrazio- ne straordinaria i soggetti che già dispongano dei requi- siti soggettivi propri del fallimento, così da rendere possi- bile, anche in via officiosa, il passaggio dall’una all’altra procedura. Gli ammessi all’amministrazione straordina- ria, difatti, potrebbero ben essere dichiarati falliti qualo- ra risultino mancanti i requisiti richiesti per l’ammissione all’amministrazione straordinaria (art. 11, comma 2, d.lgs. 270/1999) ovvero qualora non sussistano prospettive con- crete per il recupero dell’equilibrio economico dell’attività di impresa (arg. ex artt. 27, comma 1, e 30, comma 1, d.lgs. 270/1999) ovvero ancora qualora l’amministrazione stra- ordinaria non possa essere “utilmente proseguita” (art. 69, comma 1, d.lgs. 270/1999). Sicché è consentito conclude- re che la lacuna normativa non costituisca espressione del principio ubi lex voluit dixit, ma si sostanzi in una vera e propria lacuna tecnica, in contrasto con il principio costi- tuzionale di eguaglianza-ragionevolezza in forza del quale, come noto, situazioni analoghe devono essere sottoposte ad un analogo trattamento normativo.
A sostegno della propria tesi il Tribunale torinese valoriz- za, oltre che il piano dello stretto diritto positivo (e la di- sparità di trattamento ad esso conseguente), anche una argomentazione di carattere teleologico. Difatti, nell’o- pinione dei giudici, qualora la possibilità di usufruire dell’esdebitazione non fosse ammissibile per le procedu- re di amministrazione straordinarie, la persona fisica in- solvente si troverebbe nella situazione di preferire il ricor- so alla procedura fallimentare, potendo solo in tale ambi- to concorsuale beneficiare del fresh start.
Infine, in un’ottica sistematica, il giudice rileva come l’ordi- namento vigente sia caratterizzato da un favor esdebitato- rio, frutto di una concezione moderna del fallimento, da in- tendersi non più come momento sanzionatorio, ma - almeno per quanto riguarda le evenienze non criminose - come stru- mento di riequilibrio e, ove possibile, di rinascita dell’attività imprenditoriale. Diversi gli indici da cui trarre tale conclusio-
ne. Si pensi al disposto di cui all’art. 14 terdecies l. 27 gennaio 2012, n. 3 che ha introdotto l’istituto dell’esdebitazione an- che nell’ambito della procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento. Ancora, una spinta in tal senso pro- viene dalle istituzioni eurounitarie. Viene presa in conside- razione, in particolare, la Raccomandazione della Commis- sione europea 2014/135/UE del 12 marzo 2014 che, parten- do dalla considerazione per cui “gli effetti del fallimento, in particolare la stigmatizzazione sociale, le conseguenze giuri- diche e l’incapacità di far fronte ai propri debiti sono un forte deterrente per gli imprenditori che intendono avviare un’at- tività o ottenere una seconda opportunità, anche se è dimo- strato che gli imprenditori dichiarati falliti hanno maggiori probabilità di avere successo la seconda volta”, afferma chia- ramente l’opportunità che gli Stati membri si adoperino “per ridurre gli effetti negativi del fallimento sugli imprenditori, prevedendo la completa liberazione dai debiti dopo un lasso di tempo massimo” (così il considerando n. 20). La pronun- cia, emessa ratione temporis sotto il vigore della legge falli- mentare di cui al r.d. 16 marzo 267, n. 267, non manca tutta- via di operare un richiamo alla legge 19 ottobre 2017, n. 155 di delega al Governo per la riforma delle discipline della cri- si di impresa e dell’insolvenza che, all’art. 8, dispone una re- visione della materia incentrata su tre principi tesi ad imple- mentare il ricorso alla esdebitazione: la possibilità di richie- dere l’applicazione dell’istituto entro tre anni dall’apertura della procedura; l’introduzione, per le insolvenze minori, di forme di esdebitazione c.d. di diritto; l’estensione del benefi- cio anche alle formazioni societarie (e non solo alla persona fisica). Indicazioni che, come sarà possibile osservare infra sono state recepite nel codice della crisi d’impresa e dell’in- solvenza di cui al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (pubblicato nella G.U. n. 38 del 14 febbraio 2019).
Le tre argomentazioni richiamate consento, pertanto, al Tribunale fallimentare di Torino di concedere il benefi- cio esdebitatorio al ricorrente, affermando la possibilità di applicare in via analogica gli artt. 142 ss. l. fall. alla procedura di amministrazione straordinaria.
3. Spunti di riflessione in tema di esdebitazione. Generalità introduttive
La pronuncia in nota consente di spendere alcune parole in merito all’istituto dell’esdebitazione, che ha conosciu- to nel corso degli anni una notevole espansione della pro- pria latitudine applicativa ed un sempre crescente utilizzo nella realtà operativa[1]; peraltro, pare opportuno muo- vere dalla disamina dell’esdebitazione così come risultan-
[1] Numerosi ed autorevoli i contributi sul tema. Per una prima indicazione bibliografica si v., senza pretesa di esaustività alcuna, Aa. Vv., Diritto fallimentare. Manuale breve, Xxxxxxx, Milano, 2008, 205 ss.; Xxxxxxxxx S., L’esdebitazione del fallito fra problemi interpretativi e dubbi di incostituzionalità, in Fallimento, 2009,
te dalla legge fallimentare - in quanto è questo il contesto normativo nel quale ha operato il decreto del Tribunale - senza però perdere l’occasione di formulare alcuni rilievi conclusivi in merito alla “nuova” disciplina di cui al co- dice della crisi di impresa e dell’insolvenza, di prossima vigenza (d’ora in avanti, per comodità espositiva: c.c.i.). L’istituto de quo è stato introdotto ad opera dell’art. 128 d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (recante la “riforma organica del- la disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’arti- colo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80”) e tro- va la propria disciplina di riferimento negli artt. 142 ss. l. fall.: in particolare l’art. 142 l. fall. disciplina i requisiti ne- cessari per accedere al beneficio; l’art. 143 l. fall. tratta del relativo procedimento; l’art. 144 l. fall. estende l’operatività dell’esdebitazione ai “creditori anteriori alla apertura del- la procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo” (creditori non concor- suali), seppur nel limite della parte di credito eccedente la percentuale attribuita ai creditori concorsuali di pari grado. A norma dell’art. 142, comma 1, l. fall. l’esdebitazione consiste nel beneficio, concesso alla sola persona fisica, del- la liberazione dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, purché sussistano determina- te condizioni. Come autorevolmente affermato in dottri- na, tale meccanismo non era ignoto all’impianto origina- rio della disciplina fallimentare: sia il concordato fallimen- tare sia il concordato preventivo, difatti, presentano tra i propri effetti quello della esdebitazione rispetto ai credito- ri anteriori, rispettivamente all’apertura del fallimento ov- vero a quella della procedura concordataria (cfr. artt. 135, comma 1, e 184, comma 1, l. fall.). Tuttavia, se queste tipo- logie di liberazione dai debiti costituiscono un aspetto di istituti di natura pattizia (e dell’accordo, lato sensu inteso, ai medesimi sotteso), l’esdebitazione ex artt. 142 ss. l. fall. rappresenta invece “un effetto [...] accessorio ed eventuale
della chiusura della procedura liquidativa”[2].
L’istituto, che trova la propria origine nella discharge di de- rivazione anglosassone[3], risponde alla ratio del c.d. fresh start del fallito, al quale si reputa debba essere consenti- to di riprendere ad operare nel contesto economico, pri- vo del fardello dei debiti precedenti, qualora abbia “la- sciato il proprio attuale patrimonio ai creditori e non ab- bia compiuto atti di frode”[4]. Una considerazione, questa, che ha assunto una rinnovata vis alla luce della crisi eco- nomica degli ultimi anni: l’osservazione della realtà macro e micro economica, difatti, ha evidenziato la fallacità del- la mera distinzione tra debitori solventi e debitori insolven- ti, in quanto la solvibilità è, in molti casi, non una questio- ne di semplice volontà dell’obbligato, ma “è legata a fatto- ri esterni alla sfera di controllo del debitore che opera in un settore del mercato in crisi, che si trova ad essere credito- re di debitori operanti a loro volta in settori del mercato in crisi, che ha investito in settori del mercato imprevedibil- mente caduti in default”[5]. In altri termini, l’istituto ben può essere qualificato come uno tra gli indici del mutato angolo visuale sotto il quale opera il fallimento, non più vi- sto come strumento di mera punizione, ma - almeno con ri- ferimento alle ipotesi non fraudolente - come ausilio per un auspicabile ritorno alla normalità operativa o, quantome- no, per (un tentativo di) riequilibrare la realtà economica perturbata dalla crisi dell’imprenditore, senza stigmatizza- zioni in danno del fallito. Indicazioni, queste, che proven- gono anche dalla realtà sovranazionale. Oltre alla già men- zionata Raccomandazione della Commissione UE, è pos- sibile altresì ricordare che la Corte di Strasburgo ha in di- verse occasioni sanzionato l’Italia non solo con riferimento alla durata eccessiva delle procedure fallimentari, ma an- che in ragione della violazione di altri diritti fondamentali conseguente ai risvolti afflittivi per il fallito contenuti in di- verse disposizioni nostrane[6].
II, 129 ss.; Xxxxxxxxxx A., L’esdebitazione del fallito, in Giur. comm., 2006, I, 448 ss.; Xxxxxxxxx G., L’esdebitazione, in Trisorio Liuzzi G. (a cura di), Manuale di dirit- to fallimentare e delle procedure concorsuali, Xxxxxxx, Milano, 2011, 297 ss.; Guglielmucci L., Diritto fallimentare (a cura di Xxxxxxxx X.), Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2017, 294 ss.; Xxxxx X., voce Fallimento (diritto privato e processuale), in Enc. dir., Xxx. XXX, Xxxxxxx, Milano, 2010, 387 ss.; Xxxxxxx S., voce Esdebitazione, in Enc. dir., Ann. VII, Xxxxxxx, Milano, 2014, 429 ss.; Xxxxxxx D., Xxxxxxxx F., L’esdebitazione, in Aa. Vv., Gli effetti del fallimento, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2014, 791 ss.; Xxxxx A., Vattermo- li D., Diritto della crisi delle imprese. Le procedura concorsuali, Il Mulino, Bologna, 2017, 275 ss.; Presti G., Xxxxxxxx M., Corso di diritto commerciale, I, Zanichel- li, Bologna, 2009, 307 ss.; Sciuto M., La chiusura del fallimento e l’esdebitazione, in Cian M. (a cura di), Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2018, 130 ss.
[2] Xxxxx A., Xxxxxxxxxx X., op. cit., 275.
[3] Per un’analisi dei profili storici-comparatistici della discharge e, più in generale, degli strumenti ad esso affini, si v. in particolare Letizia D., Xxxxxxxx F., op. cit., 791 ss. V. altresì Xxxxx A., Xxxxxxxxxx D., op. cit., 275-276.
[4] Jorio A., op. cit., 388.
[5] Xxxxxxx S., op. cit., 430.
[6] Cfr., a titolo di esempio, CoEdu, Sez. III, Bassani c. Italia, 11 dicembre 2003, ric. 47778/99; CoEdu, Sez. III, Peroni c. Italia, 6 novembre 2003, ric. 44521/98; Co- Edu, Sez. I, Luordo c. Italia, 17 luglio 2003, ric. 32190/96; CoEdu, Sez. I, Xxxxxxx x. Xxxxxx, 00 luglio 2003, ric. 56298/00. Tutte le pronunce citate sono liberamente
Il legislatore pare non essere stato sordo a tali moniti, tan- to da aver esteso - con l’introduzione nella l. 3/2012 dell’art. 14 terdecies ad opera dell’art. 18, comma 1, lett. s), d.l. 18
ottobre 2012, n. 179, conv. in l. 17 dicembre 2012, n. 221 - l’esdebitazione anche alle procedure di sovraindebitamen- to del debitore civile nonché - con l’entrata in vigore del co- dice della crisi d’impresa - alle società, con un intervento auspicato anche da parte della dottrina[7].
4. (segue) Nozione, effetti ed ambito operativo
Venendo ora ai principali profili di interesse degli artt. 142 ss. l. fall. è possibile osservare in primo luogo che, come accennato supra, il primo allinea dell’art. 143 l. fall. dispone che a seguito del decreto di esdebitazione i residui debiti concorsuali non soddisfatti integralmen- te diventano “inesigibili” nei confronti del debitore. Ciò significa, pertanto, che tali obbligazioni non vanno in- contro ad estinzione, ma ad un quid differente. La dot- trina maggioritaria reputa che tale inesigibilità consista in una sorta di trasformazione dell’obbligazione giuridi- ca in una obbligazione naturale (o morale), con conse- guente applicazione dell’art. 2034 c.c.[8]: dunque, qua- lora l’ex fallito si determini nel senso di pagare il debi- to oggetto di esdebitazione (ad esempio per recuperare la propria reputazione commerciale o per ri-presentarsi al mercato con una positiva immagine di “buon debito- re”) non potrà poi ripetere quanto versato, stante l’ope- ratività del meccanismo di soluti retentio di cui alla cita- ta disposizione codicistica.
Come è stato possibile più volte affermare, l’esdebitazio- ne è foriera di indubbi vantaggi per il fallito, tanto da po- tersi parlare di un vero e proprio beneficio. Si tratta, tut- tavia, di una utilità sottoposta a diverse condizioni e li- miti, accordata solo in seguito ad un “giudizio positivo di meritevolezza”[9] rimesso al giudice del caso concreto. Prima di esaminarle, pare opportuno soffermarsi su di un tema sinora solo adombrato, ossia quello del (non da tut- ti condiviso) ambito di operatività dell’istituto in parola. A norma del primo comma dell’art. 142 l. fall., difatti, af- ferma che l’ammissione al beneficio sia consentita al “fal-
lito persona fisica”, ivi compresi i soci illimitatamente re- sponsabili falliti in estensione.
Come è stato autorevolmente affermato, la limitazione in parola rappresenta un indice di una sorta di atteggiamento prudenziale mostrato dal legislatore, in quanto non è pos- sibile non ricordare che il meccanismo in esame costituisce una vistosa deroga al principio generalissimo per cui pac- ta sunt servanda[10]. Un atteggiamento che, pur in astrat- to condivisibile, ha portato ad escludere dall’ambito di ap- plicazione de quo non solo le vicende estranee al fallimen- to, ma anche - all’interno dell’habitat operativo di tale pro- cedura - una pletora decisamente ampia di soggetti, come l’insolvente civile (almeno prima dell’introduzione dell’art. 14 terdecies l. 3/2012), nonché i debitori non fallibili (im- prenditori agricoli e piccoli imprenditori), con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbi sulla legittimità costituzio- nale della disciplina in parola. Dubbi che, come sarà possi- bile osservare, appaiono meno pressanti alla luce della re- cente riforma del sistema regolatorio delle cristi.
5. (segue) I requisiti
Venendo ora ai requisiti necessari per godere del benefi- cio dell’esdebitazione, questi possono essere distinti in og- gettivi e soggettivi.
Per quanto attiene questi ultimi, oltre alla citata natura di persona fisica dell’istante, vengono in rilievo una condi- zione positiva e diverse condizioni negative. Quanto alla prima, ai sensi dell’art. 142, comma 1, n. 1), l. fall., è ne- cessario che il fallito abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni ed i documen- ti utili per l’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni concorsuali. La norma è stata interpretata come xxxxxxxx xxxx a “scongiu- rare - come si legge nella Relazione illustrativa - «distor- sioni nei comportamenti del debitore insolvente»”[11].
Le condizioni negative sono invece elencate dai successi- vi numeri della disposizione da ultimo citata. Il n. 2 dispo- ne che il fallito non debba aver ritardato (o contribuito a ri- tardare) in alcun modo lo svolgimento della procedura. La dottrina ha chiarito che non ogni attività od omissione che
consultabili nel sito xxx.xxxx.xxx.xxx.
[7] Cfr. Xxxxxxxxx X., op. cit., 130, che sottolineava i dubbi in merito alla compatibilità del previgente sistema con il principio di uguaglianza.
[8] Ex pluris Ambrosini S., op. cit., 132; Xxxxxxx S., op. cit., 443 ss., la quale dà conto anche di una diversa opinione, invero minoritaria, secondo cui la condizione de debito oggetto di esdebitazione sarebbe da ricondurre alla figura del debito prescritto, con applicazione dell’art. 2940 c.c.
[9] Così Xxxxxxxxxxxx L., op. cit., 294.
[10] Cfr. Jorio A., op. cit., 387-388.
[11] Xxxxxxxxx X., op. cit., 131.
possa aver anche minimamente ostacolato la procedura in- tegri un comportamento contrario alla norma: piuttosto, tale condotta deve essere ravvisata in “ogni comportamen- to antigiuridico di ostacolo alla ragionevole durata della procedura, prescritta dagli art. 6 Cedu e 111 cost.”[12]. Il
n. 3 afferma che osta alla concessione del beneficio la vio- lazione ad opera del fallito della regola di cui all’art. 48 l. fall., avente ad oggetto - come noto - l’obbligo di consegna- re la propria corrispondenza al Curatore fallimentare. Al- tra condizione per l’ammissione all’esdebitazione (prevista dal n. 4) è che il fallito non abbia beneficiato della misu- ra nei dieci anni precedenti la nuova richiesta. In merito al dies a quo dal quale decorre il termine decennale sono sta- te avanzate due tesi: la data di emissione del provvedimen- to ovvero il momento in cui lo stesso diviene definitivo. Il primo comma dell’art. 142 l. fall. prevede poi, al n. 5, che il fallito da un lato non deve aver distratto l’attivo o espo- sto passività inesistenti, così cagionando (o aggravando) la situazione di dissesto e rendendo di grave difficoltà “la ri- costruzione del patrimonio e del movimento degli affari” e dall’altro non deve aver fatto ricorso abusivo al credito. Infine, l’ultima condizione negativa prevista dalla norma consiste nel non essere stato condannato (con pronuncia passata in giudicato) per una serie di reati economici, salvi gli effetti di una eventuale riabilitazione.
L’operatività dell’esdebitazione trova, come accennato, limi- ti anche sul piano oggettivo. Il terzo comma dell’art. 142 l. fall. sancisce infatti che restano esclusi dall’ambito operati- vo dell’istituto gli obblighi di mantenimento, quelli alimen- tari e più in generale le obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa[13], nonché i debiti per il risarcimento da fatto illecito extracontrattuale, oltre che le sanzioni pecuniarie penali ed amministrative che non siano accessorie a debiti estinti. L’esdebitazione copre invece, co- me disposto dal già richiamato art. 144 l. fall., i debiti non concorsuali, sebbene per la sola parte eccedente la “percen- tuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado”.
Il secondo comma dell’art. 142 l. fall. pone una sorta di pre-condizione ostativa alla concessione dell’esdebitazio-
ne: questa non può essere accordata “qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali”. La norma ha prestato il fianco a diverse critiche, in ragione della propria formulazione non cristallina: ci si chiede, tra l’altro, se essa debba essere intesa nel senso che tutti i cre- ditori debbano essere (almeno in parte) soddisfatti ovvero nel senso che almeno una delle compagini creditorie debba trovare (piena) soddisfazione. Di rilievo appare al riguardo una recente sentenza della Cassazione, resa a Sezioni Uni- te, con la quale la Corte, nel dichiarato intento di estendere il più possibile il campo di applicazione dell’istituto, ne ha affermato che l’operatività anche qualora al termine della procedura sia stata pagata, pur se parzialmente, una sola parte dei creditori; ciò, tuttavia, a condizione che la conces- sione del beneficio non risulti irragionevole in base ad una valutazione rimessa al giudice di merito e che tenga conto di tutte le circostanze rilevanti del caso concreto[14].
6. (segue) Il procedimento
Per ciò che attiene ai profili più spiccatamente procedi- mentali, l’art 143 l. fall. prevede che la esdebitazione ven- ga concessa dal tribunale “con il decreto di chiusura del fallimento o su ricorso del debitore presentato entro l’an- no successivo”. La congiunzione “o” porterebbe a con- cludere del senso della possibilità di una concessione d’uf- ficio del beneficio, ma la dottrina reputa che sia sempre necessaria una apposita richiesta da parte del fallito, la quale potrà essere presentata contemporaneamente all’i- stanza di chiusura del fallimento di cui all’art. 119 l. fall. ovvero in un secondo momento, ma entro il termine di un anno dalla chiusura della procedura[15]. Peraltro, a nor- ma dell’art. 118, comma 2, l. fall. (così come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, conv. in l. 6 agosto 2015, n. 132), qualora a seguito della conclusione dei giudizi pro- seguiti dopo la chiusura del fallimento si siano verificati dei riparti supplementari idonei ad integrare il presuppo- sto di cui all’art. 142, comma 2, l. fall., il debitore potrà ri- chiedere l’esdebitazione entro l’anno successivo al riparto che ha determinato il sorgere del presupposto medesimo.
[12] Xxxxxxx S., op. cit., 439. Per conclusioni analoghe in giurisprudenza si x. Xxxx. Civ., Sez. I, 23 maggio 2011, n. 11279, in DeJure.
[13] L’espressione “obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa” è stata introdotta dall’art. 10, comma 1, d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169 ed ha sostituito la precedente che faceva riferimento alle “obbligazioni derivanti da rapporti non compresi nel fallimento ai sensi dell’art. 46”. La modifica è stata salutata con favore da parte della dottrina: x. Xxxxxxxxx X., op. cit., 131.
[14] Così Xxxx. Civ., Sez. Un., 18 novembre 2011, n. 24214, in DeJure. Più di recente si v. altresì Xxxx. Civ., Sez. I, 1° settembre 2015, n. 17386, in ilFallimentari- xxx.xx, 25 gennaio 2016, con nota di Xxxxxxxx X., Esdebitazione del fallito: il requisito della soddisfazione dei creditori (e note sulle possibili modifiche); Cass. Civ., Sez. I, 14 giugno 2012, n. 9767, in DeJure.
[15] Xxxxx A., Xxxxxxxxxx X., op. cit., 278 ss.; in senso contrario, ma al contempo dubitativo, Xxxxxxxxx S., op. cit., 132.
Il tribunale provvede sulla richiesta dopo aver verifi- cato la sussistenza dei requisiti richiamati, con una va- lutazione ritenuta da parte della dottrina “largamente discrezionale”[16]. È obbligatorio (ma non vincolante) il parere del Curatore e del Comitato dei creditori: la dottri- na reputa che, qualora esso non sia stato reso, sia neces- sario che il giudice vi supplisca con una indagine d’ufficio sul fascicolo del fallimento[17].
In caso di accoglimento della richiesta si provvede alla già citata dichiarazione di inesigibilità. Come osservato il lette- ratura, l’art. 143 non contiene alcuna regola a tutela del di- ritto al contraddittorio dei creditori, nonostante questi sia- no destinati a subire gli effetti del meccanismo esdebitato- rio. Sul punto è intervenuta la Consulta, che ha dichiara- to l’illegittimità costituzionale della disposizione in paro- la nella parte in cui non prevede la notificazione ai credi- tori non integralmente soddisfatti (da effettuarsi a cura del debitore ex artt. 137 ss. c.p.c.) del ricorso per l’esdebitazio- ne e del decreto con cui il tribunale abbia fissato l’udienza in camera di consiglio. Il legislatore è intervenuto sul tema, con una aggiunta al primo comma dell’art. 143 l. fall. che ora dispone altresì che “il ricorso e il decreto del tribuna- le sono comunicati dal curatore ai creditori a mezzo di po- sta elettronica certificata”[18]. Contro il decreto che prov- vede sulla richiesta è possibile proporre reclamo exart. 26 l. fall.: legittimati in tal senso sono il debitore, i creditori non integralmente soddisfatti, il P.M. e qualunque interessato. Osservazioni sulla nuova disciplina del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza
Sia consentita, in conclusione di questa disamina, una chiosa finale. Non può essere questa la sede per analiz- zare funditus le rilevanti e recentissime novità introdot- te nel sistema dell’insolvenza e della crisi d’impresa dal d.lgs. 14/2019 in tema di esdebitazione. Tuttavia, pare op- portuno muovere alcuni rilievi su tali innovazioni, che pa- iono essere dettate dall’intento (in linea con le raccoman- dazioni europee) di una decisa estensione dell’operatività del beneficio de quo.
La “nuova” disciplina, che entrerà in vigore - salvo quan- to previsto per alcune specifiche disposizioni - decorsi di- ciotto mesi dalla data della pubblicazione in G.U. (cfr. artt. 389 ss. c.c.i.), tratta dell’istituto che qui ci interessa
agli artt. da 278 a 283, in parte ricognitivi del preceden- te dettato positivo ed in parte innovativi. Tali norme so- no state inserite nel Capo X (del Titolo V, dedicato alla “liquidazione giudiziale”) a sua volta diviso in due Sezio- ni: la prima, avente ad oggetto “condizioni e procedimen- to della esdebitazione nella liquidazione giudiziale e nel- la liquidazione controllata”; la seconda che tratta del te- ma più specifico della “esdebitazione del sovraindebita- to”. Per quanto riguarda le norme che ricalcano il model- lo precedente, può qui ricordarsi, a mero titolo esempli- ficativo, che sono stati confermati la definizione in termi- ni di inesigibilità degli effetti dell’istituto[19]; la sua esten- sione ai crediti non concorsuali (e la relativa limitazione quantitativa); l’estensione, altresì, ai soci illimitatamente responsabili; i già richiamati limiti oggettivi.
Resta intatto anche l’impianto di massima in merito alle condizioni richieste per accedere al beneficio (contenuto nell’art. 280 c.c.i.), pur con alcune rilevanti novità. In pri- mo luogo non risulta più espressamente prevista la condi- zione positiva della collaborazione con gli organi della pro- cedura, che pure può ben essere considerata presupposto imprescindibile dell’esdebitazione da una semplice lettu- ra del dato positivo (cfr., ad esempio, l’art. 280, comma 1, lett. c), c.c.i., a norma del quale il debitore deve fornire agli organi preposti “tutte le informazioni utili e i documenti necessari” per il buon andamento della procedura); è sta- to inoltre espunto il riferimento alla consegna della corri- spondenza; infine l’280, comma 1, lett. d) ed e), c.c.i. dispo- ne che il beneficio non possa essere erogato nel caso in cui il richiedente ne abbia già usufruito nel termine di cinque an- ni precedenti la scadenza del termine per l’esdebitazione e, in ogni caso, qualora il lo abbia già ottenuto per due volte. Quanto alle principali differenze rispetto al passato vie- ne in rilievo il disposto dell’art. 278 c.c.i., che da un la- to estende la possibilità di richiedere il beneficio a tutte le categorie di debitori indicate dall’art. 1, comma 1, c.c.i. e dall’altro espressamente afferma la possibilità che a fru- xxxx siano anche le società (o altri enti), purché le condi- zioni di cui all’art. 280 c.c.i. sussistano pure in capo ai so- ci illimitatamente responsabili ed ai legali rappresentanti (con riferimento agli ultimi tre anni anteriori alla doman- da introduttiva di una procedura liquidatoria).
[16] Xxxxx A., Xxxxxxxxxx X., op. cit., 278.
[17] Xxxxxxxxx S., op. cit., 132-133.
[18] Disposizione introdotta dall’art. 17, comma 1, lett. p), d.l. 179/2012.
[19] Pur con i necessari adattamenti terminologici. In particolare, ai sensi dell’art. 278, comma 1, c.c.i., l’esdebitazione “consiste nella liberazione dai debiti e comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura concorsuale che prevede la liquidazione dei beni”.
L’art. 279 c.c.i. disciplina invece le “condizioni temporali di accesso” prevedendo che il debitore ha diritto a conse- guire il beneficio “decorsi tre anni dall’apertura della pro- cedura di liquidazione o al momento della chiusura della procedura, se antecedente”.
Quanto al procedimento, l’art. 281 c.c.i. pone le seguen- ti principali novità: introduce espressamente un termine (di trenta giorni) per proporre reclamo avverso il decreto del tribunale; esplicita che “l’esdebitazione non ha effetti sui giudizi in corso e sulle operazioni liquidatorie, anche se posteriori alla chiusura della liquidazione giudiziale di- sposta a norma dell’articolo 234”; disciplina il caso in cui all’esito di tali giudizi e operazioni si abbia un maggior ri- parto in favore dei creditori, affermando che in tale eve- nienza il meccanismo esdebitatorio ha effetti “solo per la parte definitivamente non soddisfatta”.
Gli artt. 282 e 283 c.c.i. sono dedicate all’esdebitazione del sovraindebitamento, ossia quella situazione definita dall’art. 2, comma 1, lett. c), c.c.i. come “lo stato di crisi o di insolvenza del consumatore, del professionista, dell’im- prenditore minore, dell’imprenditore agricolo, delle start- up innovative di cui al decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e di ogni altro debitore non assoggettabile alla liquidazione giudiziale ovvero a liquidazione coatta ammi- nistrativa o ad altre procedure liquidatorie previste dal co- dice civile o da leggi speciali per il caso di crisi o insolven- za”. Tale evenienze dà origine all’applicazione della proce- dura di liquidazione controllata del sovraindebitamento di cui agli artt. 268 ss. c.c.i.(che pare aver dunque sostituito la procedura di cui alla l. 3/2012): al riguardo è opportuno ri- levare che gli artt. 282 e 283 c.c.i. introducono due istitu- ti peculiari, ossia l’esdebitazione di diritto e l’esdebitazione del debitore incapiente, che potranno dunque operare so- lo con riferimento alle anzidette crisi d’impresa, caratteriz- zate da una (tendenziale) minor portata. La prima consi- ste in una esdebitazione ex lege ed automatica, che non ri- chiede una pronuncia del giudice se non in seguito ad even- tuali opposizioni. La seconda, invece, consente al “debito- re persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura” di accedere comunque all’esdebitazio- ne, senza automatismi e purché siano rispettate due condi- zioni: la possibilità è ammessa solo per una volta; è fatto
salvo l’obbligo di pagare il debito entro quattro anni dall’e- missione del decreto qualora sopravvengano “utilità rile- vantiche consentano il soddisfacimento dei creditori in mi- sura non inferiore al dieci per cento”.
A prescindere dalle - pur di notevole rilievo - innovazio- ni di specie, nell’economia del presente discorso pare op- portuno soffermarsi su un dato di decisa importanza del- la recente novella. L’art. 1, comma 1, c.c.i., nell’ottica di una (per quanto possibile) unitaria disciplina delle crisi d’impresa afferma che “il presente codice disciplina le si- tuazioni di crisi o insolvenza del debitore, sia esso consu- matore o professionista, ovvero imprenditore che eserciti, anche non a fini di lucro, un’attività commerciale, artigia- na o agricola, operando quale persona fisica, persona giu- ridica o altro ente collettivo, gruppo di imprese o società pubblica, con esclusione dello Stato e degli enti pubblici”; il prosieguo dell’articolo, per converso, fa salve, tra le al- tre, le disposizioni contenute nelle leggi speciali in mate- ria di amministrazione straordinaria delle grandi impre- se[20]. Si potrebbe allora presumere che, anche all’indo- mani dell’adozione del nuovo codice, l’istituto dell’esde- bitazione non possa trovare applicazione al di fuori del- la liquidazione giudiziale o della liquidazione controllata. Un dato, tuttavia, appare di decisiva importanza: l’art. 1, comma 2, lett. a), c.c.i., dopo aver fatto salva la discipli- na vigente in tema di amministrazione straordinaria del- le grandi imprese prevede che “se la crisi o l’insolvenza di dette imprese non sono disciplinate in via esclusiva, restano applicabili anche le procedure ordinarie regolate dal pre- sente codice”. Considerato il tenore letterale di tale dispo- sizione e l’affermazione, generalmente condivisa, per cui il nuovo codice abbia tra i propri criteri ispiratori quello di una differente visione delle crisi d’impresa nonché quello di provvedere ad una razionalizzazione del sistema ed ad una sua riconduzione ad unità (pur nel rispetto delle esigenze specifiche), pare potersi concordare con chi ritiene che il le- gislatore abbia previsto l’applicazione dei principi generali del codice ad ogni fattispecie di dissesto, purché compatibi- li con le discipline speciali[21]. Una soluzione, questa, che potrebbe interessare anche l’istituto oggetto della pronun- cia del Tribunale di Torino, così consentendo un’applica- zione più lata dello strumento esdebitatorio, in linea con il mutato quadro di riferimento in termini non solo tecnico- giuridici, ma anche socio-culturali.
[20] Al riguardo si v. l’art. 350 c.c.i., che si limita ad operare alcune modifiche al d.lgs. 270/1999 per armonizzarne la disciplina in termini di competenza territoriale.
[21] Si v. ad esempio la Relazione illustrativa redatta dall’Osservatorio sulle crisi di impresa in data 2 ottobre 2018, consultabile liberamente in www.osservato- xxx-xxx.xxx.
DANNI PUNITIVI: QUALI APPLICAZIONI?
L’articolo 96, comma 3, c.p.c.: teoria, applicazione e prospettive de iure condendo
di Xxxxx Xxxxxxx
dell’8 aprile 2019
Sommario
1. Premessa
2. I presupposti applicativi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c.
3. (Segue): Natura e funzione dell’istituto
4. (Segue): La quantificazione della condanna
5. Applicazioni della norma
6. Prospettive di riforma: una nuova configurazione del diritto di difesa?
1. Premessa
Come è noto, l’art. 45, comma 12, della l. 18.6.2009., n. 69, ha aggiunto all’art. 96 c.p.c. un comma terzo del se- guente tenore: “In ogni caso, quando pronuncia sulle spe- se ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può al- tresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.
Tale intervento legislativo ha comportato una riscoper- ta dell’istituto della responsabilità processuale aggravata tradizionalmente prevista nel primo comma della dispo- sizione[1]. Invero, la c.d. lite temeraria, presente nel co- dice di rito fin dalla sua promulgazione è a lungo rima- sta ignorata dalle aule dei tribunali, considerata, fino a pochi anni fa, una sorta di “fantasma” nel vissuto quoti- diano del processo civile, quasi che fosse stata tacitamen- te abrogata[2].
La “nuova vita” della responsabilità aggravata, compro-
vata da una produzione magmatica della recente giuri- sprudenza, ha trovato numerose applicazioni, nella pras- si degli uffici giudiziari.
Nelle pagine seguenti si cercherà, quindi, dopo aver in- quadrato a livello dogmatico l’istituto, di stilare un prag- matico “prontuario” delle condotte che, con buona pro- babilità, potranno fare incorrere, la parte che se ne ren- da autrice, nella condanna ex art. 96, terzo comma, c.p.c.; volgendo da ultimo l’attenzione alle prospettive di rifor- ma dell’istituto de iure condendo alla luce delle possibi- li modifiche al codice di rito recentemente al vaglio del le- gislatore e della rilevanza che la condotta abusiva può as- sumere nei confronti del rapporto tra parte sostanziale e parte processuale, andando a incidere sul contenuto degli obblighi contrattuali e dei doveri deontologici dell’avvo- cato, oltre che sul piano del suo diritto al compenso.
[1] In tale responsabilità può incorrere la parte che abbia agito o resistito in giudizio, con mala fede e colpa grava, ponendo in essere una condotta illecita rias- sumibile nel concetto di “lite temeraria. Quest’ultima locuzione venne adoperata soltanto nel codice di rito previgente il quale, all’art. 370, stabiliva che: “La parte soccombente è condannata nelle spese del giudizio, e trattandosi di lite temeraria, può inoltre essere condannata al risarcimento dei danni”. Sul 1° comma, dell’art. 96, si tornerà nel corso della trattazione. Per un inquadramento sul punto, cfr. XXXXXXX, “Responsabilità processuale e danno da lite temeraria”, Xxxxxxx Edito- re, Milano 2010; DI XXXXXX, “Vita nuova per il danno da lite temeraria (in attesa che l’ennesima riforma rimescoli le carte)”, in Giurisprudenza di Merito, 6, 1590.
[2] Lo scarso utilizzo, da parte della giurisprudenza, del tradizionale istituto della lite temeraria va attribuito all’inquadramento dogmatico, in termini di species del genus della responsabilità extracontrattuale e dei conseguenti presupposti applicativi, in particolare, la prova dell’esistenza di un danno e della sua quantifica- zione. In questi termini si esprime anche, XXXXXXXXXX, “Il danno da lite temeraria è…morto? Lunga vita all’art. 96 c.p.c.”, La Resp. Civ., 4, 2008. p. 307. Sul pun- to si veda, inoltre, la scheda di lettura del ddl. S1082, Ufficio Studi del Senato, rinvenibile sul sito xxx.xxxxxx.xx.
2. I presupposti applicativi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c.
Lo strumento messo a disposizione dal legislatore, con la novella del 2009, presenta caratterizzazioni indubbiamen- te atipiche che non hanno mancato di suscitare un acceso dibattito sia in dottrina sia in giurisprudenza[3].
Il ricorso officioso alla condanna exart. 96, terzo comma,
c.p.c. è, innanzitutto, limitato, da un punto di vista ogget- tivo, al richiamo fatto dalla stessa lettera della norma alla soccombenza della parte che abbia tenuto la condotta te- meraria ai sensi dell’art. 91 c.p.c.
In tal senso risulta, perciò, pacifico il collegamento dell’i- stituto alla pronuncia sulle spese e, quindi, di conseguen- za a un provvedimento che definisca il giudizio[4].
Oggetto di ampio e appassionato dibattito è, invece, la
questione riguardante i presupposti applicativi soggetti- vi della norma[5], la quale non esplicita se sia richiesto un particolare stato psicologico in capo al soggetto che pone in essere la condotta, ovvero se la condanna sia pronun- ciabile soltanto nei confronti della parte che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave[6].
Sul punto, la maggioranza della giurisprudenza[7], va- lorizza l’inserimento della disposizione all’interno della cornice dell’art. 96 c.p.c., ritenendo necessaria per l’ope- ratività del nuovo istituto la sussistenza dei requisiti della mala fede o della colpa grave[8], così come richiesto per il primo comma della norma.
Altra parte della giurisprudenza si discosta invece motiva- tamente[9] dall’estensione del requisito soggettivo richie-
[3] Per il cui inquadramento, cfr. XXXXXX, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile, in Giusto proc. civ., 2009, fasc. 3, p. 800 e ss.; XXXXXXX, Una buona no- xxxxx al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 000 xxx x 000 xxx) xx xxx xx xx xx xxxxx xxxx dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, p. 737; DE MARCHI, Il nuovo processo civile, Xxxxxxx, Milano 2009, p. 50; MENCHINI, in BALENA-XXXXXX-CHIZZINI-MENCHINI, La riforma della giustizia civile. Commento alle disposizioni della legge sul processo civile n. 69 del 2009, Torino, 2009; XXXXXX CINQUE, Lite temeraria: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., tra funzione punitiva e fun- zione risarcitoria, in Resp. civ. prev., 2010, n. 9, 1837 ss.; XXXXX, La “riforma” del processo civile: la dialettica tra il giudice e le parti (e i loro difensori) nel nuo- vo processo di primo grado, in Corr. giur. n. 10, 2009, p. 1309; PETRI, La responsabilità processuale aggravata: la condanna d’ufficio ex art. 96, comma 3°, c.p.c. , Corr. merito, 4, 2012, p. 362; XXXXXXX, L’art. 96, 3° comma, c.p.c., fra ristoro e sanzione, in Foro it., 2010, I, p. 2242 ss.; PROTO PISANI, La riforma del processo ci- vile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), in Foro it. 2009, V, 221; XXXXX, La riforma del processo civile, X. Xxxxxxxxxxxx Editore, Torino, 2009; SCAR- SELLI, Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso, in xxx.xxxxxxxx.xx.
[4] Si veda in tal senso anche, XXXXXXX, La responsabilità processuale aggravata: presupposti della nuova disciplina e criteri di determinazione della somma og- getto di condanna, in Giur. merito, n. 11, 2011, p. 2718.
[5] Dal punto di vista oggettivo il ricorso alla condanna officiosa è, innanzitutto, limitato dal richiamo fatto dalla stessa lettera della norma alla soccombenza del- la parte che abbia tenuto la condotta temeraria ai sensi dell’art. 91 c.p.c.
[6] Se la soccombenza fosse intesa quale unico presupposto per l’applicazione della fattispecie, ci si avvierebbe verso l’esito davvero paradossale per cui ogni po- sizione soccombente sarebbe, almeno astrattamente, temeraria, affidando alla mera valutazione dell’organo giudicante, caso per caso, se e quando la lite debba ritenersi sanzionabile. Tale interpretazione susciterebbe, inoltre, seri dubbi di legittimità costituzionale, dal momento che introdurrebbe un limite non giustificato all’esercizio del diritto di azione e di difesa in giudizio ponendosi in contrasto con gli artt. 24 e art. 111 della nostra Carta fondamentale. In questo senso si espri- me anche copiosa parte della dottrina, tra cui, SCARSELLI, Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c. …, cit., p. 7; DALLA XXXXXXX, Terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.: quando, quanto e perché, in Nuova Giurisp. Civile e Comm., 2011, p. 55 e ss, che nonostante ricostruiscano l’istituto in categorie dogmatiche diametralmente op- poste, concordano su tale punto.
[7] Cfr., Cass., Sez. 6-3, n. 3376 del 22 febbraio 2016; Cass. Civ., Sez. VI, del 30 novembre 2012, n. 21570, in cui il giudice di legittimità testualmente afferma: “L’art. 96, comma terzo, c.p.c. (…) indubbiamente presuppone il requisito della mala fede o della colpa grave, non solo perché è inserito in un articolo destinato a disciplinare la responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che alla fine si rileva infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile”. Con riferimento alla giurisprudenza di merito cfr., ex multis, Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, n. 855, Trib. Milano 13 giugno 2012, in www. xxxxxx.xx consultato il 20.9.2012; Trib. Bologna, 19 dicembre.2011, n. 13229, in banca dati Deiure, Trib. Gaeta, 13 aprile 2012, n.198, reperito in www.cassazione. net. Va inoltre segnalato il Protocollo, pubblicato dall’Osservatorio “Valore Prassi”, istituente le linee-guida per l’applicazione dell’art. 96 c.p.c., a seguito della re- cente innovazione legislativa, sul quale i giudici veneti fondano le proprie decisoni, reperibile sul sito xxx.xxxxxxxxxxxx.xx.
[8] La mala fede viene identificata, oggi stabilmente da dottrina e giurisprudenza, in quello stato soggettivo caratterizzato dalla piena consapevolezza dell’infon- datezza totale della domanda o eccezione proposta, o nella consapevolezza di agire slealmente abusando del proprio diritto o, ancora, nella consapevolezza di uti- lizzare lo strumento processuale per scopi estranei ai suoi fini istituzionali. La colpa grave, invece, è invece riconosciuta nella leggerezza della valutazione effettua- ta dalla parte circa la fondatezza della propria richiesta. In particolare, si ritiene configurabile ogniqualvolta il soggetto non abbia utilizzato la benché minima dili- genza nel verificare i necessari presupposti per la proposizione della domanda giudiziale ovvero per la difesa in giudizio. Xxxxxxxxx che avrebbe consentito alla par- te di avvedersi dell’infondatezza della propria pretesa e di prevedere le conseguenze dei propri atti.
[9] Si veda in proposito, Trib. Torino, ord. 16 ottobre 2010, secondo cui: “appare eccessivo affermare che la parte ricorrente abbia agito in giudizio con malafede o colpa grave, ossia con la consapevolezza dell’infondatezza delle proprie pretese (o almeno ignorando colpevolmente i diritti della controparte); ricorrono tuttavia i presupposti per la condanna di cui all’art. 96, comma 3, implicitamente considerata da parte resistente e comunque disponibile anche d’ufficio. Tale disposizione
sto dal primo comma, ampliando il novero delle condotte punibili e di conseguenza i confini della responsabilità per “processo ingiusto”, ritenendo, in particolare, sufficiente per l’applicazione della novella, il presupposto soggettivo che si concretizzi nel comportamento colposo, anche lieve, in violazione dei doveri di probità e lealtà di cui all’art. 88 c.p.c.[10] Tale lettura ermeneutica, facendo espressamente cenno alla violazione della fairness processuale[11], indivi- duerebbe, quindi, la ratio a capo dell’istituto nell’esigenza di sanzionare qualsiasi forma di abuso del processo, anche se dipendente soltanto da colpa lieve[12].
Recentemente la Corte di Cassazione ha affermato che: “la condanna ex art. 96, comma terzo, applicabile in tut- ti i casi di soccombenza, configura una sanzione di carat- tere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle
ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi pri- mo e secondo c.p.c. e con queste cumulabile, volta al con- tenimento dell’abuso dello strumento processuale”. La sua applicazione, pertanto, non richiederebbe il riscon- tro dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, bensì una condotta oggettivamente valutabile alla stregua dell’abuso del processo[13].
Nonostante la lettera dell’art. 96, terzo comma, c.p.c. si presti anche a tale ultima interpretazione non può tacersi come questa ricostruzione si ponga ai limiti della compa- tibilità costituzionale, comportando una forte compres- sione, in particolare, dell’art. 24 della nostra Carta fon- damentale[14].
Pertanto, aderendo alla tesi più garantista, pare preferibi- le escludere una sia applicabilità oggettiva dell’istituto, sia
si riferisce a situazioni di abuso del processo meno gravi di quelle considerate dal primo e dal secondo comma dell’art.96 e pur sempre presuppone condotte col- pevoli della parte processuale”.
[10] In tal senso potrebbe, inoltre, essere letta la mancata riproposizione da parte del legislatore, nel nuovo comma dell’art. 96 c.p.c., del requisito soggettivo mini- mo della colpa grave presente nell’abrogato art. 385, comma quarto, c.p.c., sul punto bene, FRADEANI, La lite temeraria attenuata dell’art. 96, comma terzo, c.p.c.: prime applicazioni, reperibile sul sito xxx.xxxxxxxx.xx.
[11] In tali termini si esprime il Trib. Terni, nella pronuncia del 17 maggio 2010, n. 2399.
[12] In dottrina, tra gli autori che sostengono la sufficienza della colpa comune in capo al soggetto che pone in essere la condotta sanzionata - come verrà eviden- ziato nel prossimo paragrafo - vi sono differenti vedute in ordine alle finalità dirette della norma, che dipendono dalla qualificazione giuridica risarcitoria o sanzio- nataria data alla fattispecie. Nel primo senso, cfr. XXXXXXX, op. cit., p. 2255 ; nel secondo, XXXXXXXX, op. cit., p. 5.
[13] Cfr. Cass. Civ., Sez. II, n. 27623 del 21 novembre 2017. La Suprema Corta con riferimento al requisito soggettivo richiesto dall’istituto in esame ha afferma- to che: “l’idea della sopravvivenza, nella nuova fattispecie, dell’elemento soggettivo previsto dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c., appare smentita dalla inequi- voca volontà del legislatore di sopprimere qualsiasi riferimento ai profili soggettivi di responsabilità. Sul punto, va rilevato che l’elemento soggettivo della “colpa grave” era transitato - col d.lgs. n. 40 del 2006 - dall’art. 96, primo comma, all’art. 385, quarto comma, c.p.c. Il fatto che il legislatore del 2009, nel ricollocare il testo dell’art. 385, quarto comma, nell’ambito dell’art. 96 c.p.c., non abbia replicato l’elemento della “colpa grave” ivi previsto, non può essere ascritto ad una di- menticanza; costituisce, invece, una scelta legislativa adottata sulla xxx xxxxx xxxxxxxxxxxxxxx xxxxx xxxxxxxxxxx, xxxx scopo di favorirne una più agevole applicazio- ne. L’opinione richiamata, d’altra parte, è smentita dall’inciso «In ogni caso», che apre il testo della disposizione e che, secondo corretti canoni interpretativi, non può che significare “al di fuori di quanto previsto dai commi che precedono”, ossia a prescindere dai presupposti richiesti dai primi due commi dell’art. 96 c.p.c. La stessa previsione, contenuta nell’art. 96, terzo comma, c.p.c., che vuole che il giudice pronunci condanna «quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91», se da un lato implica che vi sia stata condanna del soccombente all’integrale pagamento delle spese processuali e che non vi siano state ragioni per compensarle (neanche in parte), lascia intendere, dall’altro, l’applicabilità della disposizione a tutte le ipotesi di soccombenza, a prescindere da ogni valutazione circa la mala fede o la colpa grave della parte. Infine, conferma della volontà del legislatore di non esigere più che il giudice accerti la “mala fede” o la “colpa grave” della par- te soccombente si ricava dai lavori parlamentari che hanno preceduto l’approvazione della legge; in particolare, dalla circostanza che, nel corso dei lavori parla- mentari, l’incipit del nuovo terzo comma dell’art. 96 c.p.c. è stato modificato, laddove la precedente formulazione «Nei casi previsti dai commi precedenti, il giudice condanna altresì...» è stata sostituita dall’attuale «In ogni caso». L’adozione di tale diverso testo attesta inequivocabilmente il mutamento della volontà del legi- slatore, che ha determinato, di fatto, un altrettanto evidente mutamento della struttura della fattispecie. In definitiva, deve ritenersi che, col terzo comma dell’art. 96 c.p.c., il legislatore ha voluto configurare non già una fattispecie ancillare rispetto alle figure risarcitorie previste nei primi due commi dell’art. 96 c.p.c., ma una figura di responsabilità indipendente e autonoma, che prevede una “sanzione di carattere pubblicistico”, priva di natura risarcitoria, destinata a reprimere la par- te soccombente che abbia fatto “abuso” dello strumento xxxxxxxxxxx.Xx rafforzamento della repressione dell’abuso del processo si è manifestato nella scelta legi- slativa di sopprimere l’elemento soggettivo della fattispecie. Il giudice, nell’applicare l’art. 96, terzo comma, c.p.c., non è più tenuto a svolgere complessi - quan- to delicati - apprezzamenti sulla colposità e negligenza della condotta della parte e del suo difensore. Egli - invece - deve limitarsi a valutare “oggettivamente” la sussistenza di un “abuso del processo”, quale emerge dagli atti processuali e dal loro contenuto.
[14] Cfr., XXXXXX CINQUE, op. cit., p. 1842, secondo cui, non potrebbe ammettersi una responsabilità processuale in caso di colpa lieve, poiché il diritto di agire e resistere in giudizio “non tollera remore eccessive, e remora eccessiva all’esercizio di tale diritto sarebbe per la parte, la prospettiva di andare incontro alla co- mune responsabilità per fatti illeciti sanzionata dalla norma dell’art. 2043 c.c. e quindi anche per colpa lieve”.
che il presupposto soggettivo della colpa lieve possa esse- re stato introdotto, surrettiziamente, con l’ambiguo inci- pit della norma, in considerazione, inoltre, della mancan- za di ogni indicazione circa i presupposti applicativi dell’i- stituto che lasciano al giudice la piena discrezionalità di condannare chi abbia esercitato un suo diritto costituzio- nalmente garantito. In altri termini va ritenuto, a parere di chi scrive, che la violazione del dovere di lealtà e probi- tà, exart. 88 c.p.c., possa dare luogo alla sanzione dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., solo qualora integri il presuppo- sto soggettivo della lite temeraria[15], in termini quanto- meno di colpa grave.
Relativamente al rapporto tra la novella del 2009 e la di- sposizione di cui all’art. 88 c.p.c., giova rilevare come la dottrina, in sede di valutazione dei diversi presupposti at- tinenti alla tradizionale ipotesi di lite temeraria, exart. 96, xxxxx xxxxx, c.p.c., rispetto al combinato disposto de- gli artt. 88 e 92 c.p.c., abbia ritenuto che, nel primo caso, l’abuso risieda nella proposizione dell’azione giudiziaria nel suo complesso e, quindi, nel “se” dell’attività proces- suale del soccombente, ovvero, nella scelta stessa di pro- porre l’azione o di resistervi; mentre, nel caso della viola- zione del dovere di lealtà e probità, l’abuso si verifichi in relazione all’utilizzo di singoli strumenti processuali, inci- denti sul “come” dello stare in giudizio, a prescindere dal- la soccombenza delle parti, ovverosia, nell’eventuale sle- altà tecnica con la quale la parte compie i singoli atti del processo.
Pertanto, le ragioni alla base delle rispettive condanne possono essere considerate ulteriore elemento di differen- ziazione della responsabilità processuale aggravata rispet- to a quella prevista dall’art. 88 c.p.c..
Da un lato, “il perché” della condanna officiosa di cui al nuovo comma dell’art. 96 c.p.c., va rinvenuta nella lesio- ne di interessi pubblicisticamente orientati - quali l’econo-
mia processuale e il buon andamento del processo - pro- vocata da comportamenti abusivi e temerari, costituenti un intralcio all’amministrazione della giustizia.
Dall’altro, la disciplina prevista dal combinato disposto degli artt. 88 e 92 c.p.c., fonda la propria ratio, in funzio- ne del valore della correttezza in giudizio, su di un’ottica interna, essenzialmente riferibile al rapporto tra le parti processuali[16].
Ovviamente la correttezza in giudizio risulta propedeuti- ca all’efficiente funzionamento della macchina giudizia- ria; d’altro canto non è detto che la parte che ponga in essere una condotta sleale incida tout court sull’ammini- strazione della giustizia.
Quando ciò accada, d’altronde, la scelta circa il “come” dell’agire o resistere può arrivare a mettere radicalmen- te in discussione la decisione sul “se”, giacché, sulla base delle sole modalità con le quali la parte ha agito o resisti- to in giudizio, il giudice potrebbe emettere emettere una sentenza sullo stesso an dell’azione processuale, così ren- dendo soccombente la parte che avrebbe avuto altrimenti fondate ragioni e, se del caso, arrivando a condannarla ai sensi dell’art. 96, comma 3°, c.p.c[17].
3. (Segue): Natura e funzione dell’istituto
Una volta individuati, dalla prassi giurisprudenziale, i re- quisiti applicativi della norma, occorre addentrarsi nella dogmatica dell’istituto, per sciogliere il secondo nodo in- terpretativo che ammanta la disposizione, ovvero, la que- stione relativa alla sua natura giuridica.
In particolare, l’interprete si trova davanti a un bivio[18], dovendo scegliere se la nuova lite temeraria ricada all’in- terno della responsabilità aquiliana, oppure si ponga al di fuori di tale perimetro. In altri termini, è necessario chie- dersi se la condanna prevista dal terzo comma, dell’art. 96 c.p.c., abbia natura risarcitoria ovvero sanzionatoria.
[15] Xxxxxx, la mera violazione dell’art. 88 c.p.c. ha come sanzione la condanna alle spese indipendentemente dalla soccombenza ai sensi dell’art. 92 c.p.c., che appare più che sufficiente a sanzionare condotte che, nella maggior parte dei casi, sono riferibili ad iniziativa dell’avvocato, che abusi dei poteri che si ricollega- no al proprio mandato. In questo senso, cfr., XXXXXXX, op. cit., p. 10; viceversa, in senso contrario, CORDOPATRI, Ancora sull’art. 96, comma 3°, c.p.c. e sull’abu- so del processo, in Corr. merito, n. 2, 2012, p. 241.
[16] In questo senso, cfr., VERONESE, Alcune riflessioni a partire dal nuovo comma 3 dell’art. 96 c.p.c. , relazione nell’ambito dell’attività dell’Osservatorio Valore Prassi di Verona, 2010, reperibile su xxx.xxxxxxxxx.xx, consultato il 10.7.2013.; DALLA XXXXXXX, op. cit., p. 72.
[17] Cfr., Cfr., ANCESCHI, Le spese legali, Xxxxx, Padova, 2010, p.192; XXXXXXX, op. cit., p. 24; DALLA XXXXXXX, op. cit., p. 70.
[18] Xxxxxx, a seguito della ricostruzione dei presupposti soggettivi dell’istituto, rivenuti come si è visto nel precedente paragrafo dalla giurisprudenza maggiori- taria nella mala fede o colpa grave, non convince il tentativo di parte della dottrina - cfr. XXXXXXX, op. cit., p. 2242 - di eludere la scelta affermando, per un ver- so, che la norma si sarebbe certamente emancipata dal collegamento con i primi due commi e dunque sostanzialmente sarebbe fuori dalla responsabilità civile, riconoscendole però, per altro verso, il carattere di misura sostanzialmente riparatoria finalizzata a contrastare, attraverso il mezzo risarcitorio condotte connotate da colpa lieve. Nel senso del testo, cfr., XXXXXX XXXXXX, op. cit., p. 1840; BUSNELLI D’XXXXXXXXXX, L’enigmatico ultimo comma dell’art. 96 c.p.c.: responsabilità aggravata o condanna punitiva?, in Xxxxx e resp., n. 6, 2012, p. 590; XXXXXXXXXX, op. cit., p. 244.
In primo luogo, occorre osservare che, se non si pensas- se ad una differenziazione in ordine alla natura della con- danna contemplata nel primo e nel terzo comma, sarebbe inevitabile ammettere che ci si trovi a cospetto di una du- plicazione delle rispettive funzioni[19].
In secondo luogo, il carattere officioso della condanna rappresenta una delle principali criticità in cui incorre la parte della dottrina che, nell’inquadramento dell’istituto, intraprenda la via della responsabilità civile come chia- ve interpretativa dell’intero articolo, al punto da costrin- xxxx alcuni autori all’opinabile affermazione secondo cui il principio dispositivo non sarebbe di per sé a copertura costituzionale[20], o viceversa, a ritenere che la pronuncia ex officio sia in contrasto con i principi cardine del nostro ordinamento[21], o, infine, portando altri interpreti ad operare una notevole forzatura del terzo comma, dell’art. 96 c.p.c., piegandone l’operatività, “anche d’ufficio”, alla necessaria subordinazione a una previa istanza di parte ai sensi del primo comma[22].
Sul punto, la maggioranza dei giudici di merito[23] ha in- teso la norma prendendo le distanze dalla struttura tipica dell’illecito civile e ritenendo che il legislatore abbia volu- to introdurre nel nostro ordinamento una forma di danno punitivo - i c.d. punitive damages[24], ammessi e previsti negli ordinamenti di common law - finalizzata a scorag- giare l’abuso del processo e preservare la funzionalità del sistema giustizia, stigmatizzando la condotta di chi agisce o resiste con mala fede o colpa grave, attraverso iniziative giudiziarie avventate o comunque dilatorie, abusando in tal modo del diritto di azione o di difesa.
In altri termini, secondo la giurisprudenza citata e par- te della dottrina[25], la ratio del nuovo comma dell’art. 96 c.p.c. non sarebbe quella di consentire il ripristino di una situazione patrimoniale antecedente al verificarsi di un evento dannoso, bensì quella di irrogare una sanzione che funga anzitutto da deterrente rispetto al futuro verifi- carsi di condotte temerarie, ritenute intrinsecamente dan- nose per la collettività.
[19] Xxxx, se nell’ultimo comma, si intravedesse un ulteriore strumento volto all’ottenimento di una condanna risarcitoria, la sua presenza all’interno dell’art. 96
c.p.c. si giustificherebbe, unicamente, nell’opportunità di offrire una via ulteriore - caratterizzata essenzialmente per il fatto di essere sottratta al consueto onere probatorio - attraverso la quale ottenere un risarcimento del danno conseguente alla temerarietà della condotta processuale.
[20] Così, XXXXXXX, op. cit., p. 2244 ss., che sostiene tale tesi, riutilizzando le argomentazioni a suo tempo poste alla base della questione di legittimità costi- tuzionale dell’art. 96, 1° comma, c.p.c. nella parte in cui, “non tenendo conto dei principi del giusto processo costituzionalizzati attraverso la nuova formulazione dell’art. 111 della costituzione”, subordina la condanna al risarcimento dei danni della parte soccombente che ha agito con mala fede ad una “istanza dell’altra parte”. Questione non a caso dichiarata manifestamente infondata dalla Corte Costituzionale con la pronuncia 23 dicembre 2008, n. 435, op. cit., 2009, p. 2242 e ss., con nota di XXXXXXXX, con riferimento alla necessità della richiesta di parte ai fini dell’applicazione del primo comma, dell’art. 96, c.p.c.
[21] Così, XXXXXXXXX, Il nuovo art. 96, comma terzo …, cit., p. 2243, secondo il quale il giudice in ossequio agli artt. 24 e 111 della costituzione può pronunciare solo su istanza di parte, nel rispetto del principio della domanda e di terzietà.
[22] In questo senso, cfr. XXXXXXXX, X’XXXXXXXXXX, op. cit., p. 595., secondo cui in tal modo si realizzerebbe una tollerabile forzatura per contemperare la salva- guardia del fondamentale principio della domanda con l’esigenza di agevolare in ogni caso il risarcimento del danno derivante da una condotta temeraria.
[23] Emblematica in questo senso la pronuncia del Trib. Foggia, 28 gennaio 2011, in cui si afferma che il terzo comma, dell’art. 96, c.p.c. ha: “introdotto nel no- stro ordinamento un’ipotesi di danno punitivo (il c.d. punitive damages del modello anglosassone) prima sconosciuta alla tradizione giuridica italiana, e cioè una sanzione pecuniaria irrogabile anche in assenza della prova di un pregiudizio effettivamente subito dalla parte a favore della quale è pronunciata la relativa con- danna”. In senso conforme, ex multis, Trib. Reggio Xxxxxx, 25 settembre 12, n. 1924; Trib. Piacenza 15 novembre 2011; Trib. Verona, 30 aprile 2011, n. 11990.
[24] I danni punitivi rappresentano una delle fattispecie più caratteristiche del sistema di common law anglo-americano e materia di indagine comparatistica quando mai affascinante. I c.d. punitive damages rientrano nella categoria dei non compensatory damages e unitamente ai compensatory damages costituiscono le due voci principali della condanna risarcitoria. La differenza sostanziale tra i due tipi di danno consiste nelle diverse finalità cui rispettivamente tendono: schiet- tamente punitivo-afflittiva e simbolico-deterrente i primi, riparatoria, risarcitoria i secondi. I danni punitivi, infatti, ambiscono non già a sopperire alla perdita su- bita dal danneggiato, ma ad infliggere una pena al danneggiante, colpendolo economicamente per dissuaderlo del reiterare la condotta pregiudizievole sanziona- ta. Va tenuto presente, inoltre, che l’istituto nasce in sistemi giudiziari, come quelli di common law, che non conoscono bene la distinzione tra diritto civile e dirit- to penale, dove la condanna al risarcimento dei danni deve anche assolvere ad una funzione pedagogica: la condanna deve rappresentare un deterrente da utiliz- zare non solo nei confronti del condannato, ma anche nei confronti dell‘intera comunità (la condanna “esemplare”). Inoltre, la condanna deve rappresentare un ri- sarcimento pieno, in cui le esigenze di giustizia prendono il sopravvento sulle aspettative di punizione della parte soccombente. Cfr., RICCIO, I danni punitivi non sono, dunque, in contrasto con l’ordinamento pubblico interno, in Contr. e impr., 2009, p. 854 e ss; XXXXXXXXXX, I danni punitivi, in Nuova giur. civ. e comm., n. 2, 2008, p. 25 e ss; XXXXXX, I danni punitivi bussano alla porta: la Cassazione non apre, in Nuova giur. civ., n. 9, 2007, p. 983 e ss.; XXXXX, Lite temeraria e danni pu- nitivi, reperibile sul sito xxx.xxxxxxxxxxxxx.xx.
[25] Tra cui, XXXXXX, op. cit., p. 820; FRADEANI, op. cit., p. 6; DALLA MASARA, op. cit., p. 61; XXXXXXX, Un grimaldello normativo in ambito civile per frenare la pro- liferazione di liti temerarie, in Guida dir., n. 3, 2011, p. 50;
In tal senso, quindi, la funzione dell’istituto potrebbe, an- che, dirsi pubblicistica, nella misura in cui la minaccia del- la condanna sia in grado di indurre la generalità dei con- sociati ad evitare comportamenti litigiosi temerari[26].
In questi stessi termini si è espressa recentemente anche la Corte di Cassazione[27] e la Corte Costituzionale[28], rite- nendo che con la norma in esame il legislatore abbia inteso affidare al giudice uno strumento per reprimere, nell’inte- resse generale della collettività, il c.d. “abuso del processo”. Inoltre, recentemente il modello della “sanzione proces- suale civile” ha trovato conferma concettuale nel nuovo art. 5 quater[29], introdotto nella legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Xxxxx) dal decreto legge del 22 giugno 2012, n. 83, in cui si prevede che, in caso di domanda inammissibile ov- vero manifestamente infondata, il giudice possa condan- nare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1000 e non superiore ad euro 10000. In altri termini, con tale disposizione, rubricata espressamente “sanzioni pro- cessuali”, il legislatore conferma che il provvedimento de- finitivo di un procedimento ben può essere accompagnato da una condanna a somme di denaro che non hanno fun- zione riparatoria, bensì sanzionatoria.
La natura giuridica di quest’ultimo istituto, dentro ter- mini di pena privata o sanzione civile[30], potrebbe, dun-
que, apparire identica a quella dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.[31]
Benchè, siano differenti i beneficiari della sanzione - per la novella del 2009 la condanna è prevista a favore della con- troparte, mentre, nella fattispecie sopra richiamata, bene- ficiario della somma oggetto di condanna risulta essere lo Stato - l’aporia concettuale in cui si incorrerebbe, aderendo alla tesi che assegna all’istituto carattere di sanzione civile, non pare decisiva a sconfessarne la natura satisfattiva[32]. In conclusione, pare corretto ritenere che all’istituto in- trodotto nell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. possa esse- re riconosciuta natura giuridica ibrida, di “sanzione pro- cessuale”, che si colloca al di fuori dell’area della respon- sabilità civile. Tale previsione, infatti, svolge una funzio- ne diversa da quella risarcitoria, essendo improntata ad obiettivi di deterrenza, ed essendo finalizzata, da un lato, alla tutela dell’interesse pubblicistico e all’efficienza del sistema giudiziario civile, dall’altro, a quella dell’interes- se del privato a non essere indebitamente coinvolto in una lite temeraria.
4. (Segue): La quantificazione della condanna
L’ultimo profilo problematico del terzo comma, dell’art. 96, c.p.c. riguarda i criteri di quantificazione della somma oggetto di condanna. Tale questione scaturisce dal testo
[26] Cfr., DALLA XXXXXXX, op. cit., p. 60.
[27] Cfr. Cass. Civ. Sez. II n. 27623 del 21 novembre 2017. Nello stesso senso Cfr., Cass., Sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902, reperibile in banca dati DeJure, secondo la quale”mediante l’inserimento del comma terzo, all’art. 96 c.p.c., ad opera della legge del 18 giugno 2009, (il legislatore) ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla prova di un danno riconducibile alla condotta processuale dell’avversario”.
[28] Sul punto, la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 152 del 2016 -nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, terzo com- ma, c.p.c., in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost.- ha rilevato che la previsione di tale disposizione ha natura non tanto risarcitoria del danno cagionato alla con- troparte dalla proposizione di una lite temeraria, quanto più propriamente sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del diritto di azione e di difesa, si ser- vano dello strumento processuale a fini dilatori, aggravando il volume del contenzioso; ciò -secondo il giudice delle leggi- è confermato, sul piano testuale, dal ri- ferimento al “pagamento di una somma”, che segna una netta differenza terminologica rispetto al “risarcimento dei danni” di cui ai precedenti commi del mede- simo articolo, e dall’adottabilità della condanna “anche d’ufficio”, che la sottrae all’impulso di parte e ne attesta la finalizzazione alla tutela di un interesse tra- scendente quello della parte stessa e colorato di connotati pubblicistici. La stessa Corte costituzionale non ha mancato di osservare che la motivazione che ha in- dotto il legislatore a porre a favore della controparte la condanna del soccombente è plausibilmente ricollegabile all’obiettivo di assicurare una maggiore effettivi- tà ed una più incisiva efficacia deterrente allo strumento deflattivo, sul verosimile presupposto che la parte vittoriosa possa provvedere alla riscossione in tempi e con oneri inferiori a quelli gravanti su un soggetto pubblico.
[29] Norma inserita dall’articolo 55, comma primo, lettere f), del d.l. del 22 giugno 2012, n. 83.
[30] La possibilità di equiparare la nozione di “sanzione punitiva civile” a quella di “pena privata” è dibattuta: secondo XXXXXXX, Alla ricerca delle sanzioni civi- li indirette: premesse generali, in Contr. e impr., 1987, p.532, invero, non è corretto l’utilizzo del concetto di “pena privata” quale sinonimo di sanzione civile. Que- sta è una misura afflittiva (patrimoniale) comminata dalla legge ed applicata dall’autorità giudiziaria, mentre la pena privata è quella minacciata ed applicata dai privati nei confronti di altri privati.
[31] Cfr., DALLA XXXXXXX, op. cit., p. 62.
[32] Cfr., XXXXXXX, Novità della legge n. 69 del 2009 in tema di spese e responsabilità aggravata, in Giur. merito, 2010, p. 944, il quale pur riconoscendo che la na- tura di sanzione di ordine pubblico può apparire in contrasto con la circostanza che la somma vada corrisposta alla controparte e non allo Stato, supera tale per- plessità osservando che la scelta di prevedere il pagamento in favore di chi direttamente ha subito le conseguenze pregiudizievoli dell’abuso del processo, non pre- senta profili di manifesta irragionevolezza.
della disposizione, il cui dettato normativo si limita ad af- fermare che il giudice ha il potere di condannare la parte a una “somma equitativamente determinata”.
È evidente che il legislatore, proponendo un criterio di de- terminazione equitativa[33], abbia inteso rimettere all’or- gano giudiziario l’integrale individuazione della sanzione più adeguata al caso concreto.
Risulta, tuttavia, preferibile, rinvenire, per via interpreta- tiva, alcuni parametri, che, nel silenzio del legislatore, sia- no di riferimento al giudice, quali “criteri guida” - non più che meramente indicativi, s’intende - sulla scorta dei quali quantificare la sanzione.
A tal proposito, è bene richiamare il disposto dell’abrogato art. 385, comma quarto, c.p.c.[34], il quale prevedeva che in sede di pronuncia sulle spese la Corte di cassazione potes- se officiosamente condannare “la parte soccombente al pa- gamento, a favore della controparte di una somma, equita- tivamente determinata, non superiore al doppio dei massi- mi tariffari (…)”.[35] In tale ipotesi, era, dunque, fissato, se non il criterio, almeno la cornice all’interno della quale po- teva spingersi la discrezionalità del giudice.
A fronte della innegabile affinità fra i due istituti e della pacifica abrogazione per assorbimento della norma spe- ciale in quella più generale prevista con la novella, non sembra troppo azzardata l’idea di recuperare per via in- terpretativa proprio dal vecchio art. 385 c.p.c. un’indica- zione circa il limite massimo della condanna che, ai sen-
si del terzo comma, dell’art. 96, c.p.c., il giudice è xxxx- xxxx a fissare secondo equità, da rinvenire in una som- ma “non superiore al doppio dei massimi tariffari”. Tale cornice edittale risulta essere una ragionevole indicazio- ne di severità[36].
Nello stesso senso, pare utile un richiamo al Protocollo adottato dal Tribunale di Verona[37] ove si afferma che: “in mancanza di indicazioni normative, pare opportuna l’adozione di criteri idonei a contenere, normalmente, la sanzione di cui al comma 3° dell’art. 96 c.p.c. tra un mi- nimo di un quarto della somma liquidata a titolo di spese di lite, esclusi gli accessori, fino ad un massimo del dop- pio della somma liquidata a titolo di spese di lite, sempre esclusi gli accessori”[38].
Invero, il parametro delle spese di lite risulta già in sé “sin- tetico” sia del valore della controversia sia della durata del processo[39].
Sul punto la Suprema Corte ha sancito che: “il giudice nella determinazione della sanzione deve osservare il cri- terio equitativo, potendo la sanzione essere calibrata an- che sull’importo delle spese processuali o su un loro mul- tiplo, e non può - in nessun caso - superare il limite della ragionevolezza”[40].
Quanto alla concreta determinazione della condanna, ruolo centrale va assegnato al grado ed all’intensità del- la mala fede o della colpa grave in capo alla parte teme- raria, rispetto a cui, il valore e l’oggetto della causa e la
[33] Va, peraltro, evidenziato come il richiamo al criterio di equità sia rinvenibile in molteplici disposizioni del codice civile, si pensi, ex multis, agli artt. 1384, 1733, 1755, 1226, 1256, 2045 e 2056 c.c. In verità, le norme ora citate, ricollegano tale parametro generalmente all’intervento del giudice in materia di liquidazio- ne del danno. Invero è stato con il quarto comma dell’art. 385 c.p.c. che, per la prima volta, il legislatore ha stabilito che anche la determinazione di condanne af- flittive possa avvenire secondo equità.
[34] Non può essere sottaciuto come sia stata consequenziale, all’introduzione dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., l’abrogazione del comma quarto, dell’art. 385,
c.p.c. xxxxxxxxx quindi, secondo la maggioranza della giurisprudenza di merito e buona parte della dottrina, l’intenzione del legislatore di elevare, in tal modo, a principio generale il meccanismo processuale predisposto per il procedimento davanti alla Corte di cassazione. Cfr., Trib. Piacenza, 15 novembre 2011, n. 855; Trib. Reggio Xxxxxx, 25 settembre 2012, n. 1924.
[35] Xxxxxxx, inoltre, ricordare che il progetto originario del nuovo terzo comma dell’art. 96 c. p. c. prevedeva che la misura della condanna fosse contenuta tra la metà ed il doppio dei massimi tariffari; seguì alla Camera l’introduzione di un emendamento che stabiliva una misura minima (di 1.000 euro) ed una massima (di
20.000 euro); al Senato venne soppresso ogni riferimento al quantum della condanna, rimesso quindi alla determinazione equitativa del giudice.
[36] Invero, in assenza di esplicita previsione normativa, appare eccessiva la cornice edittale ulteriore che - valorizzando il testo dell’art. 96 prima delle modifiche operate al Senato - potrebbe essere applicata per via interpretatica, dal nuovo art. 5 quater, della c.d. legge Xxxxx, ove viene prevista la condanna a una somma di denaro non inferiore a 1000 euro e non superiore ad euro 10000.
[37] Cfr., Protocollo dell’Osservatorio Valore-Prassi, reperibile sul sito xxx.xxxxxxxxxxxx.xx.
[38] Inoltre, quel medesimo testo precisa che: “gli elementi di cui tener conto ai fini della determinazione della sanzione pecuniaria (...) sono l’intensità dell’ele- mento soggettivo e, sotto il profilo oggettivo, il comportamento della parte, con particolare riguardo al numero degli abusi commessi nel corso del giudizio. Altri pa- rametri che possono incidere su tale quantificazione, quali la durata del giudizio e il valore della controversia, sono invece già ricompresi nel criterio che si è indi- viduato a tale fine, ossia quello della somma riconosciuta a titolo di spese di lite”.
[39] In tal senso, anche, DALLA XXXXXXX, op. cit., p. 68.
[40] In questo senso, Xxxx., Sez. 6-2, n. 21570 del 30 novembre 2012, che, in applicazione di tale principio, ha respinto il ricorso avverso la decisione di merito, che aveva condannato il soccombente a pagare una somma non irragionevole in termini assoluti e pari al triplo di quanto liquidato per diritti e onorari.
durata del processo possono essere parametri integrati- vi[41], ma non sono sempre variabili, allo stesso modo, dipendenti.[42]
In definitiva, va, quindi, confermata la ragionevole inter- pretazione che si propone di orientare il giudice, nella sua scelta discrezionale, prevedendo l’utilizzo del parametro delle spese di lite quale tendenziale range (con un tetto massimo rappresentato dal doppio dei massimi tariffari) all’interno del quale determinare equitativamente la som- ma oggetto della sanzione, tenendo principalmente conto della gravità dell’abuso posto in essere[43].
5. Applicazioni della norma
Nonostante in dottrina fosse stata evidenziata, poco pri- ma dell’introduzione della novella, l’inopportunità della mancanza nel codice di rito di un preciso catalogo di pos- sibili fattispecie di abuso degli strumenti processuali[44], la ribadita scelta del legislatore del 2009 di non tipizzare le ipotesi di lite temeraria può, forse, spiegarsi con l’esi- genza di rimettere al giudice la valutazione di tutte le cir- costanze del caso concreto, anche se, è indubbio che l’in- dividuazione delle condotte illecite avrebbe avuto il van- taggio di assicurare meglio le finalità deterrenti del terzo comma, dell’art. 96, c.p.c., tanto più alla luce della fun- zione sanzionatoria che, come abbiamo visto nei prece-
denti paragrafi, va riconosciuta all’istituto[45].
Pare, dunque, opportuno indicare alcuni comportamenti processuali che possono costituire fondamento di responsa- bilità processuale aggravata in quanto indici di mala fede o colpa grave. Ciò, sia perché in tal modo ne risulterà incenti- vata la finalità deflativa della nuova fattispecie, sia per for- nire agli avvocati e agli operatori del diritto, uno strumen- to attraverso cui valutare “se” e “come” agire o difendersi in giudizio, a fronte anche dei recenti interventi normativi che vanno a incidere direttamente sul profilo attinente al com- penso del difensore in caso di condanna per lite temeraria. Stante la ricostruzione dei presupposti soggettivi, in ter- mini quantomeno di colpa grave, come denominatore co- mune per le ipotesi di lite temeraria, va ritenuto, innanzi- tutto, che i criteri identificativi delle condotte illecite, sino ad oggi individuati dalla giurisprudenza con riferimento al primo comma dell’art. 96 c.p.c., siano validi a fortiori ai fini dell’applicazione del terzo comma[46].
In dottrina si è così affermato che la misura potrà trovare applicazione in caso di: liti ingiuste, instaurate nonostan- te la palese e consapevole inesistenza del diritto sostanzia- le invocato od intentate slealmente con abuso del diritto; liti scorrette, ovvero, condotte con la violazione dolosa o gravemente colpevole delle forme e dei termini di rito; in- fine, liti c.d. emulative, vale a dire, attraverso l’utilizzo de-
[41] Xxxxx inoltre segnalati come ulteriori criteri che hanno trovato applicazione, in una pronuncia del Trib. Terni, 17 maggio 2010, la consistenza economica dei contendenti, “i costi sociali connessi al mancato recupero dei crediti di alcuni operatori economici, tra cui le banche, in grado di traslarne il peso sulla collettività, per mezzo dell’incremento del costo del credito”. Tuttavia, risulta evidente come, il riferimento al peso economico delle parti non può essere adottato come criterio generale. Esso, invero, potrà essere impiegato nei casi in cui la parte vittoriosa si trovi in condizioni di netta inferiorità economica rispetto a quella soccombente, sul presupposto che il coinvolgimento in una lite temeraria sia maggiormente impegnativo, sotto il profilo emotivo-psicologico, per la prima.
[42] In questo senso, XXXXXXX, op. cit., p. 13, afferma che: “potrebbe darsi che l’agire infondatamente in giudizio per una causa di valore o di oggetto rilevanti sia meno gravemente colpevole dell’intentare infondatamente un’azione per conseguire una minima utilità; ancora, la durata del processo potrebbe essere condi- zionata da condotte processuali dilatorie, in sé colpevoli, della parte soccombente, ma potrebbe essere dovuta anche ad atteggiamenti scorretti della parte che, in- fine, risulta vittoriosa ovvero essere conseguenza della situazione organizzativa dell’ufficio o di scelte del giudicante, in sé non imputabili alla parte soccombente”.
[43] Tuttavia, va evidenziato come, recentemente, parte della giurisprudenza di merito abbia utilizzato il parametro delle spese di lite aumentando notevolmente tale range e liquidando l’importo della sanzione nella misura del quadruplo delle spese di lite. Ciononostante, stante il rischio di abusi di discrezionalità del giudi- cante, quale regola interpretativa generale sembra più corretto limitare il quantum della condanna al doppio dei massimi tariffari.
[44] Cfr., XXXXXXXX, “Abuso del processo e garanzie costituzionali”, in Rivista di Diritto Processuale, n. 2, 2008, p. 336.
[45] Inoltre, tale scelta non risulta nemmeno perfettamente allineata a quelle che lo stesso legislatore ha compiuto in altri casi, allorché ha previsto specifiche ipotesi di iniziative giudiziarie temerarie. Si pensi, ad esempio, al secondo comma dell’art. 155 bis c.c. in cui si prevede che, nel caso in cui la domanda di affida- mento del minore ad un solo coniuge risulti “manifestamente infondata”, il giudice possa applicare proprio l’art. 96 c.p.c.; si pensi, ancora, alla recentissima no- vità dell’art. 27, comma primo, della l. 183 del 2011, c.d. legge di stabilità, che, nell’ambito di una serie di misure dirette all’accellerazione del contenzioso civi- le pendente in grado di appello, ha aggiunto, rispettivamente, agli artt. 283 e 431 c.p.c., un comma, dal tenore sostanzialmente identico, che attribuisce al giudi- ce dell’appello il potere di condannare a una pene pecuniaria, non inferiore a 250 euro e non superiore a 10000 euro, la parte che proponga istanza di sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado “inammissibile o manifestamente infondata”.
[46] Cfr., XXXXXXX, op. cit., p. 180 e ss., ove l’autore redige un elenco della - seppur scarsa - casistica giurisprudenziale in cui ha trovato applicazione il primo comma dell’art. 96 c.p.c., tra cui le ipotesi di: regolamento preventivo di giurisdizione a fini dilatori; opposizione tardiva a decreto ingiuntivo; chiamata temeraria del terzo; disconoscimento di paternità; contraffazione di marchi e concorrenza sleale; mancanza della procura speciale.
gli strumenti processuali per finalità diverse da quelle pre- viste dal legislatore[47].
Tuttavia, resta difficile immaginare concretamente quale sia la casistica dei comportamenti che si prestano a rima- nere intrappolati nelle maglie del terzo comma dell’art. 96 c.p.c.
In merito, pare utile stilare un elenco meramente indica- tivo quale “prontuario” dei comportamenti sanzionati at- traverso il nuovo comma dell’art. 96 c.p.c. nella più recen- te giurisprudenza di merito.
Possono ritenersi ritenute “figure sintomatiche” di re- sponsabilità processuale aggravata: l’esposizione di as- sunti che trovano smentita nella documentazione o nel- le consulenze di parte dimesse dalla stessa parte che li sostiene; le difese macroscopicamente infondate sotto il profilo giuridico, con riguardo sia ai presupposti di am- missibilità o di proponibilità delle domande, o delle pro- spettazioni, che a profili di merito rilevanti (lo stesso di- casi nel caso di procedimenti cautelari)[48]; le prospetta- zioni equivoche o contraddittorie o generiche, su circo- stanze rilevanti della controversia, non chiarite nei termi- ni di cui all’art. 183, comma 6°, c.p.c., nonostante il rilie- vo della controparte o del Giudice; la mancanza o l’insuf- ficienza grave delle richieste istruttorie su circostanze ri- levanti, a fronte di un onere probatorio; nei procedimen- ti a contraddittorio posticipato, il sottacere al giudice cir- costanze decisive al fine di ottenere provvedimenti favo- revoli; il disconoscimento o querela di falso nei confron- ti di un documento prodotto in causa dalla controparte e rilevante ai fini della decisione, qualora si tratti dell’uni- ca difesa o della difesa principale, ed essa venga smenti- ta, in termini di certezza o di elevata probabilità, dall’ac- certamento istruttorio conseguente; il disconoscimento o querela di falso nei confronti della totalità dei documen- ti prodotti in atti dalla controparte, che venga smentita in
termini di certezza o di elevata probabilità, dall’accerta- mento istruttorio conseguente, qualora non sia verosimi- le, sulla base degli elementi di causa, che la parte che ha adottato tali comportamenti prima del giudizio non ab- bia avuto la disponibilità della documentazione oggetto di disconoscimento.
6. Prospettive di riforma: una nuova configurazione del diritto di difesa?
In prospettiva de iure condendo occorre evidenziare che, nell’ambito delle recenti prospettive di riforma del proces- so civile, il legislatore ha manifestato la volontà di interve- nire nuovamente sull’istituto in esame per rafforzare l’in- tento deflattivo della norma ed evitare l’abuso dello stru- mento processuale. In particolare sulla base dell’articolato informale proveniente dal Ministero della Giustizia recan- te numerose modifiche da apportare al codice di rito, vi è l’intendo di intervenire nuovamente sul dettato dell’art. 96, comma terzo, c.p.c. al fine di introdurre parametri di quan- tificazione della sanzione per abuso del processo sino a die- ci volte il valore del contributo unificato dovuto.
Viene in tal modo espressamente ribadita la “nuova” at- tenzione del legislatore verso un uso corretto e responsa- bile del processo, intesa quale condicio sine qua non pro- pedeutica ad una buona amministrazione della giustizia; da questo punto di vista risulta, quindi, sempre più va- lorizzato ed immanente all’interno dell’ordinamento il principio della lealtà processuale.
Da ciò deriva un’immediata ricaduta sul contenuto degli obblighi contrattuali e dei doveri deontologici dell’avvo- cato, a tal riguardo, il codice deontologico forense dedica svariati articoli riconducibili al tema della correttezza nel processo[49], con importanti ricadute anche sul piano del diritto al compenso dell’avvocato[50].
In questa logica, il terzo comma dell’art 96 c.p.c., xxxxxx-
[47] In questo senso si veda, BARRACA, op. cit., p. 10.
[48] In tema di ricorso in Cassazione la Suprema Corte ha affermato che: “proporre un ricorso per cassazione malgrado la conoscenza o l’ignoranza gravemente colposa della sua insostenibilità, è fonte di responsabilità dell’impugnante ex art. 96, comma 3, c.p.c., per avere questi agito -e, per lui, il suo legale, del cui ope- rato il primo risponde verso la controparte processuale ex art. 2049 c.c.- sapendo di perorare una tesi infondata, oppure per non essersi adoperato con la exacta di- ligentia esigibile in relazione ad una prestazione professionale altamente qualificata come è quella dell’avvocato, in particolare se cassazionista” cfr. Cassazione civile, sez. III 05 luglio 2017, reperibile sul sito xxx.xxxxxx.xx
[49] Tra cui, dai principi generali, l’art. 6, rubricato “Dovere di lealtà e correttezza”, ove si afferma: “L’avvocato deve svolgere la propria attività professionale con lealtà e correttezza. L’avvocato non deve proporre azioni o assumere iniziative in giudizio con mala fede o colpa grave”; dal Titolo III relativo ai Rapporti con la parte assistita ove l’art. 36, rubricato “Autonomia del rapporto”, afferma: “ (…) L’avvocato non deve consapevolmente consigliare azioni inutilmente gravose, né sugge- rire comportamenti, atti o negozi illeciti, fraudolenti o colpiti da nullità”; dal Titolo IV relativo ai Rapporti con la controparte, i magistrati ed i terzi sia l’art. 48, ru- bricato “Minaccia di azioni alla controparte” sia l’art. 49, “Pluralità di azioni nei confronti della controparte”.
[50] Invero, proprio in quest’ultimo ambito, la modifica ai sensi dell’art. 10, del decreto del Ministero della giustizia del 20 luglio 2012, n. 140, ha previsto che, in caso di responsabilità processuale aggravata, il compenso dovuto all’avvocato del soccombente sia ridotto, di regola, del 50 per cento rispetto a quello liquidabile in astratto.
de una seria riflessione - per usare le parole della Cas- sazione[51] - in tema di “doveri d’informazione, di solle- citazione e di dissuasione ai quali il professionista deve adempiere, così all’atto dell’assunzione dell’incarico, co- me nel corso del suo svolgimento”; comportando un raf- forzamento dell’obbligo di diligenza di fronte a casi in cui un soggetto chieda assistenza senza avere valide ragioni da far valere in giudizio.
A parere di chi scrive, l’avvocato sarà tenuto non soltan- to a fornire al cliente tutte le informazioni sulle possibi- li conseguenze di una difesa o di un’iniziativa giudizia- ria, ostruzionistica o pretestuosa, ma anche, a svolgere nei confronti del medesimo un’attività di dissuasione ade- rente con la più moderna concezione del diritto di difesa, espressa anche dalla Cassazione sopra citata.
Pertanto risulterà assolutamente necessaria, per gli eser- centi la professione legale, un’attenta valutazione degli aspetti del rapporto con il cliente passibili di tradursi in scelte processuali rischiose e strategie difensive che possano incorrere nella sanzione del terzo comma dell’art. 96 c.p.c. In conclusione – considerando come dall’applicazione
della sanzione del comma terzo, art. 96 c.p.c., sarà age- vole ravvisare una conseguenza immediata e diretta del non corretto adempimento dei doveri informativi che fanno carico al professionista – pare necessario, pro fu- turo, un mutamento dei rapporti tra avvocato-cliente, adottando la prassi di fornire per iscritto informazioni e pareri sulle possibili scelte processuali e raccogliendo, nello stesso modo, il consenso del cliente, che dovrà es- sere richiesto in relazione a ciascuna scelta processua- le la quale presupponga una manifestazione di volon- tà del cliente stesso. Si tratterà a ben vedere di munirsi - proprio come il “bravo” sanitario - di un vero e proprio “consenso informato[52].
Ciò, non solo allo scopo di cautelare il legale da ipotesi di responsabilità professionale - precostituendosi la prova del consenso - ma soprattutto per dare un’adeguata, com- pleta e trasparente informazione al proprio assistito che - a fronte degli interessi in gioco, derivanti dalla novella al codice di procedura civile volti a realizzare una forte “re- sponsabilizzazione della parte” - non può più acconten- tarsi del semplice “non si preoccupi: l’avvocato sono io!”.
[51] In tali termini, cfr. Cass. del 14 novembre 2002, n. 16023, in Danno e resp., 2003, p. 256 e ss., che così si era espressa sul punto: “nell’ambito del dovere di informazione, di sollecitazione e di dissuasione, ai quali il professionista deve adempiere, così all’atto dell’assunzione dell’incarico come nel corso del suo svolgi- mento, prospettando, anzi tutto, al cliente le questioni di fatto e/o diritto, rilevabili ab origine od insorte successivamente, riscontrate ostative al raggiungimento del risultato e/o comunque produttive d’un rischio di conseguenze negative o dannose, invitandolo, quindi, a comunicargli od a fornirgli gli elementi utili alla solu- zione positiva della questioni stesse, sconsigliandolo in fine dall’intraprendere o proseguire la lite ove appaia improbabile tale positiva soluzione e, di conseguen- za, probabile un esito sfavorevole e dannoso”.
[52] Cfr., XXXXXXXX, La responsabilità dell’avvocato, Xxxxxxx, Milano, 2012, p. 29 e ss.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
ERRORE DEL GIUDICE
Il sindacato della Corte di Cassazione sull’errore
di percezione compiuto dal giudice di merito su un fatto controverso
Xxxxx Xxxxxxx
del 9 aprile 2019
La Corte di Cassazione e il giudizio di fatto
È noto come sia tutt’altro che semplice stabilire il confine oltre il quale alla Corte di cassazione è inibito il sindacato sul giudizio di fatto compiuto dal giudice di merito[1]. Xx- xxxxxxxx, secondo autorevole dottrina questa linea di con- fine è volutamente non tracciata, in quanto permettereb- be alla stessa Corte di decidere, di volta in volta, l’esten- sione e la profondità del suo controllo[2].
Ciò è stato sostenuto con il previgente numero 5) dell’art. 360, primo comma, c.p.c. che prevedeva il controllo sulla “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione cir- ca un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ma la situazione non sembra essere mutata a seguito della nuo- va versione, che contempla il più limitato “omesso esame
circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”[3].
Il problema, naturalmente, non riguarda i casi in cui il giudice, nel risolvere una questione di fatto, violi una nor- ma rigida[4]; esso si pone invece drammaticamente nella valutazione delle prove libere.
A tal riguardo, va osservato che l’art. 116 c.p.c., norma generale riguardante la valutazione di tutte le prove libe- re, nonché espressione del principio del libero convinci- mento, impone al giudice di merito[5] di adottare il crite- rio della «prudenza». Sfogliando i commentari e i massi- mari ci si accorge però che la giurisprudenza non si è sfor- zata di definire in positivo il sintagma «prudente apprez- zamento», sebbene sia certamente possibile individuare
[1] Ciò che infatti appartiene esclusivamente al giudice di merito è l’accertamento dei fatti rilevanti per il giudizio. L’esito di quell’accertamento sfocia in un “giu- dizio di fatto” che entro certi limiti è sottoposto al sindacato della Corte. Occorre dunque tenere distinti la «questione di fatto», l’«accertamento del fatto» e il «giu- dizio di fatto» (pur nella consapevolezza che tanto «accertamento», quanto «giudizio» possono significare rispettivamente «esito» dell’accertamento e «procedi- mento»). La prima ricomprende l’insieme dei fatti rilevanti per la decisione. Il secondo individua le operazioni che il giudice compie al fine di accertare la verità o meno dei fatti rilevanti per il giudizio. Il terzo indica l’esito di quegli accertamenti.
[2] È celebre, a tal riguardo, l’affermazione del Xxxxx nel suo famoso manuale, in cui leggiamo: “Se dovessimo trovare una costante al controllo della motivazio- ne da parte della Corte di cassazione, la riscontreremmo nel fatto che, in sostanza, la Corte fa quello che vuole, decidendo lei stessa l’ampiezza e la profondità del controllo della motivazione dei provvedimenti impugnati”, in F. P. Luiso, Diritto Processuale Civile, Vol. II, pag. 402, Xxxxxxx Editore, 2000.
[3] Numero sostituito dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv., con modif., in l. 7 agosto 2012, n. 134. La disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, con i limiti di applicabilità previsti dal terzo comma dello stesso art. 54 del d.l. n. 83. Ai sensi del secondo comma dell’art. 54 la disposizione si applica « ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto ».
[4] Si pensi al caso in cui il giudice xxxxxxx e poi utilizzi per la decisione una prova testimoniale che contrasti con quanto risultante da un atto pubblico o da una confessione giudiziale, così violando gli artt. 2704 c.c. e 2733 c.c.; è pacifico che in questi casi la sentenza sia da considerare viziata per violazione di nor- ma di diritto.
[5] Il libero convincimento è presentato dalla disposizione come un dovere del giudice. Il Satta, che riteneva superflua la norma de qua, nel suo Commentario al codice di procedura civile, Vol. 1, 1966, Vallardi, pag. 464, si era ironicamente chiesto: “verso chi?”.
casi in cui la valutazione del giudice di merito è stata rite- nuta - seppure implicitamente[6] - «non prudente» o co- munque, se si vuole, posta in essere in violazione di un corretto metodo di apprezzamento.
Così, in caso di nomina di un c.t.u., viola il canone del- la prudenza il giudice che si discosti dalle conclusioni dell’ausiliare, omettendo di indicare le ragioni tecnico- scientifiche che lo hanno indotto a prendere le distanze dalla consulenza[7]; oppure il giudice che, a fronte di os- servazioni puntuali e circostanziate formulate dal CTP ed ignorate dal c.t.u., ometta di prendere posizione sul- le stesse. È evidente che questa ultima ipotesi, seppure per decenni considerata, a seconda dei casi, come omessa o come insufficiente motivazione[8], a ben vedere consiste nella violazione di una “norma di metodo” che chiede al giudice, prima di aderire alle conclusioni del “suo” con- sulente, di assicurarsi che questi abbia risposto alle per- tinenti osservazioni di quelli di parte. Sempre in tema di c.t.u., viene considerata viziata la sentenza che, in caso di duplice conferimento di incarico in tempi e con esiti di- versi, sposi l’una o l’altra senza illustrare i motivi della scelta[9]. È palese come in questo ultimo caso la motiva- zione non è carente in sé stessa, per l’intrinseca contrad-
dittorietà o illogicità, bensì solo per il fatto che esiste agli atti una consulenza contenente conclusioni diverse. Tan- to ciò è vero che la stessa sentenza, in mancanza della re- lazione non considerata, potrebbe essere ritenuta perfet- tamente valida. Si tratta, quindi, di un errore di metodo, non di un vizio in sé della motivazione.
In materia di prova presuntiva, la S.C. ha più volte affer- mato che il giudice non può valutare gli elementi indizia- ri in maniera atomistica, dovendoli necessariamente ap- prezzare nel loro insieme, con metodo sintetico[10]. An- che in questo caso, ad un attento esame, ciò che si conte- sta al giudice è lo scorretto metodo usato e non un vizio di logica o di ragionevolezza.
Può essere del pari ricondotto all’imprudenza l’uso di massime di esperienza non verificate, non vere, oppure non accettabili in un dato momento storico[11].
E - last but not the least -: non è forse una norma di meto- do il nuovo n. 5) dell’art. 360 c.p.c. che considera come vi- zio il mancato esame di un fatto decisivo?
In buona sostanza, la prudenza di cui parla l’art. 116
c.p.c. potrebbe essere così declinata: il giudice, nel valu- tare la prova libera, deve usare un metodo razionale[12], impiegando massime di esperienza condivise e ragionevo-
[6] La S.C. è costante nel ricondurre le “imprudenze” del giudice di merito o come errori di diritto (v. ad es. le violazioni dell’art. 2729 c.c.), o come vizi della mo- tivazione.
[7] Per l’ovvia ragione che non è razionale nominare un c.t.u., sul presupposto della necessità di una valutazione tecnico-scientifica, e poi prescindere immotiva- tamente da quel risultato. X. Xxxxxxxxxx xxxxxx xxx. XX, 00/00/0000, x.00000: “In tema di ricorso per cassazione, la valutazione effettuata dal giudice di merito sul- le risultanze della CTU e viziata da errore di percezione è censurabile con la revocazione ordinaria se l’errore attiene ad un fatto non controverso, mentre è sindaca- bile ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c., se l’errore ricade su di una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti. (Nella specie, è stata ritenuta nulla la sentenza di merito che aveva respinto la domanda volta ad ottenere l’indennità di accompagnamento senza motivare il di- saccordo rispetto alle conclusioni di segno opposto formulate dal perito)”.
[8] Si tratta infatti di omessa motivazione se si fa riferimento alle osservazioni di parte, mentre di insufficienza se si ha riguardo alla motivazione nel suo com- plesso. Invero, la differenza tra omessa e insufficiente motivazione non è mai stata chiara con riferimento all’omesso esame di elementi di prova, mentre era più chiara con riferimento ai fatti: se il fatto non era stato considerato, si trattava di omessa motivazione; se il fatto era stato considerato, ma la motivazione non con- sentiva di comprendere il ragionamento del giudice, si trattava di insufficienza. Esattamente come il motivo di cui al n. 3) dell’art. 360 c.p.c. (solitamente prospet- tato unitariamente come vizio e falsa applicazione di norma di diritto), la S.C. non ha mai censurato la mancata distinzione o addirittura la confusione tra omes- sa e insufficiente motivazione.
[9] Sulla questione, dopo la modifica dell’art. 360 n. 5, vedi Cassazione civile, 13/5/2018, n. 13770, che sussume il vizio proprio nel n. 5).
[10] Tra le tante, v. ad es. Cassazione civile sez. III, 12/04/2018, n. 9059 in cui si legge testualmente: “Sul medesimo piano generale di valutazione della prova, va affermato il principio secondo il quale, al cospetto di una pluralità di fatti storici, ciascuno portatore di una propria, singola valenza indiziaria, il giudice non può procedere alla relativa valutazione attraverso un procedimento logico di scomposizione atomistica di ciascuno di essi, per poi svalutarne, singolarmente e fram- mentatamente, la relativa efficacia dimostrativa. La concordanza indiziaria di ciascuno dei fatti acquisiti al processo ne postula, difatti, la imprescindibile neces- sità di una compiuta analisi di tipo sintetico, all’esito di un ragionamento probatorio complesso e sincronico, non potendo evidentemente predicarsi alcuna “con- cordanza” di ciascun indizio a se medesimo, se la valutazione non segue il necessario percorso logico dell’analisi per sintesi e non per somma (per di più, inam- missibilmente scomposta)”.
[11] Si pensi ad una sentenza che affermasse che la morte di un figlio maschio genera nei genitori più sofferenza rispetto alla morte di una figlia femmina, o che la morte di un figlio adolescente genera più dolore rispetto alla morte di un figlio di pochi anni, con conseguente diverso risarcimento a titolo di danno non patri- moniale.
[12] Sono criteri di razionalità la «regola di completezza», secondo la quale il giudice dovrebbe prendere in considerazione tutti gli elementi di prova acquisiti in
li[13] ed, infine, giustificando logicamente le sue conclu- sioni. Ogni qual volta, pertanto, egli renda una giustifica- zione illogica o irragionevole[14], la sentenza potrà esse- re cassata dalla Suprema Corte, come pure nei casi in cui il metodo adottato sia inficiato sotto il profilo della razio- nalità[15].
Sennonché, l’orientamento assolutamente dominante in Corte predica che l’art. 116 c.p.c. non può mai essere in- vocato direttamente per denunciare il cattivo uso del po- tere/dovere di cui stiamo parlando. È infatti divenuta tra- xxxxxxx l’affermazione secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa ap- plicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiu- ta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ul-
xxxx abbia posto a base della decisione prove non dedot- te dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei li- miti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione”[16].
Il perché l’art. 116 c.p.c. non possa essere invocato diret- tamente allorquando si sia in presenza della violazione di una regola di prudenza non è facilmente spiegabile e sem- bra riposare sul “dogma” del libero convincimento che li- bero è, ma entro certi limiti che, come abbiamo visto, so- no dettati dalla logica, dalla ragionevolezza e dal metodo. Per la verità, nell’anno 2016 si è registrata un’importante apertura verso l’art. 116 c.p.c. La S.C.[17] ha infatti affer-
giudizio e non solo quelli che confermano la versione dei fatti che ritiene attendibile e la «regola di congruenza», secondo la quale il ragionamento deve svolgersi su prove effettivamente disponibili. In tal senso, Taruffo, Prova giuridica, Enc. Diritto, Annali, pag. 1033, il quale parla anche di «regola dei coerenza» (per la qua- le il ragionamento non deve essere internamente contraddittorio) che, però, noi preferiamo ricondurre alla logica.
[13] Anche per X. Xxxxxx, Norme processuali «elastiche» e sindacato in cassazione (dopo la modifica dell’art. 360, 1° comma, n. 5 c.p.c.), “questo concetto nor- mativo elastico offre certamente alla Corte di cassazione il parametro valutativo per effettuare il sindacato sull’applicazione delle massime di comune esperienza da parte dei giudici di merito, nonché per controllare il rispetto della logica nella ricostruzione della situazione di fatto rilevante in giudizio. È esposto così al sin- dacato di logicità della Corte suprema tutto il settore dell’uso delle massime di comune esperienza nella valutazione delle prove libere e nelle presunzioni sempli- ci (art. 2729 c.c.)”.
[14] Si legge in Lombardo L., La natura del sindacato della Corte di Cassazione, pag. 177: “Dall’art. 116, comma 1, cod. proc. civ. e dal metodo del «prudente ap- prezzamento» da esso dettato, scaturiscono essenzialmente due canoni fondamentali che il giudice deve osservare nel ragionamento col quale valuta le prove: 1) la “validità logica”, nel senso che la valutazione delle prove deve essere compiuta mediante inferenze che per un verso, ab interno, osservino le regole della logica, per l’altro, ab externo, siano coerenti rispetto al thema probandum e al contenuto degli elementi di prova acquisiti; 2) la “ragionevolezza” secondo il sensus com- munis e le conoscenze umane generalmente riconosciute, nel senso che la valutazione delle prove non può essere arbitraria, ma deve osservare le c.d. “regole d’e- sperienza” generalmente accettate nell’ambito della cultura della collettività sociale. In altri termini, il metodo del «prudente apprezzamento» implica che il giu- dice, nel valutare le prove, osservi due ordini di regole: le “regole della logica” e le “regole offerte dalla comune esperienza. Ed è assolutamente condivisibile ascri- vere ai canoni ora richiamati la natura di vera e propria norma giuridica; sicché, laddove il giudice decidesse in contrasto con la logica o con le massime di espe- rienza la sentenza risulterà affetta da “errori di diritto”, e sindacabile ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.”.
[15] Per fare un altro esempio, l’obbligo di razionalità dovrebbe obbligare il giudice a spiegare in maniera convincente le ragioni per cui abbia ritenuto recessiva una prova scientifica ad altissima probabilità, rispetto ad una testimonianza, ovvero ad un argomento di prova. Inserendosi “a gamba tesa” sulla valutazione del giudice di merito, in materia di impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio per difetto di veridicità (art. 263 c.c.), la Corte - sul presup- posto dell’altissima idoneità probatoria della prova scientifica - ha ritenuto scorretta la mancata valorizzazione preminente del comportamento dell’autore del ri- conoscimento, il quale si era rifiutato di sottoporsi al test genetico, affermando così questo principio di diritto: “Nel giudizio di impugnazione del riconoscimento di figlio nati fuori dal matrimonio per difetto di veridicità, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad esame genetico, in presenza di una situazione di incertezza, sul pia- no probatorio, circa la sussistenza o meno del rapporto di filiazione biologica fra l’autore del riconoscimento ed il figlio, deve essere valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., xxxxx 2, come decisiva fonte di convincimento”, Cassazione civile sez. I, 27/07/2017, n. 18626. Si tratta, a nostro modo di vedere, di una ap- plicazione non corretta che del «criterio di razionalità», perché altro è affermare la prevalenza di una prova scientifica, altro è inferire che il non consentirne l’e- spletamento ha la stessa efficacia probatoria.
[16] Tra le più recenti, v. Cassazione civile , sez. VI , 17/01/2019 , n. 1229.
[17] Cassazione civile sez. III, 10/06/2016, n. 11892: “[...] Può semmai ipotizzarsi che il ricorrente in Cassazione possa svolgere considerazioni sul cattivo eserci- zio del detto potere non già sub specie di denuncia in sé e per sé di un vizio della sentenza impugnata, bensì solo in funzione e, quindi, come elemento, di un’atti- vità di dimostrazione che il giudice di merito è pervenuto ad una erronea ricostruzione della quaestio facti, sì che essa l’abbia indotto in ultima analisi ad applica- re erroneamente una norma di diritto alla fattispecie dedotta in giudizio. Sicché il motivo di ricorso sia la denuncia di tale erronea applicazione. Si può dunque ipo- tizzare che dette considerazioni possano e debbano necessariamente incasellarsi solo come elemento di un ben più articolato quadro evidenziatore della deduzione di un error in iudicando ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, circa la norma applicabile ed applicata alla fattispecie. Tale residua possibilità supporrebbe sempre l’ar- gomentazione del cattivo esercizio non già con la prospettazione di una mera alternativa di apprezzamento limitata alla singola prova, bensì di un’alternativa non
mato che detta norma può essere invocata allorquando si dimostri che il cattivo uso del potere di valutare la prova libera ha determinato una errata ricostruzione del fatto e, quindi, una falsa applicazione di legge. Di conseguen- za, la censura andrebbe sussunta sotto il n. 3 dell’art. 360
c.p.c. A nostro modo di vedere, però, si tratta di un’aper- tura ancora insufficiente, che non valorizza nel giusto mo- do il sintagma contenuto nella norma in esame.
Il controllo sugli errori di percezione su fatti controversi Non è certamente questa la sede per approfondire l’inda- gine su questi complessi temi; qui si vuole invece eviden- ziare come accanto al controllo sulla logica, sulla ragione- volezza e sul metodo, si sia da poco affacciato quello sul- la “percezione di un fatto controverso”.
Si legge infatti nella recente - ma non isolata - pronuncia della Cassazione civile sez. III, 22/11/2018, n. 30182 che “mentre l’errore dì valutazione in cui sia incorso il giudi- ce di merito, e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare, non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’er- rore di percezione, cadendo sulla ricognizione del conte- nuto oggettivo della prova, qualora investa una circostan- za che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sin- dacabile ai sensi dell’articolo 360, n. 4 del codice di proce- dura civile, per violazione dell’articolo 115 del medesimo codice, norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate assenti, ma in realtà offerte”.
La decisione distingue pertanto il momento valutativo della prova, rispetto a quello percettivo, affermando che solo il secondo sarebbe censurabile in Cassazione. L’affer- mazione, in realtà, non va presa alla lettera, posto che an- che la valutazione manifestamente errata può essere sin- dacata dalla Corte. Si consideri l’ipotesi in cui un giudi- ce scrivesse testualmente in sentenza: “Il teste Ulpiano ha
dichiarato di aver assistito al sinistro e di aver visto il vei- colo attoreo provenire da sinistra rispetto al senso di mar- cia del veicolo condotto dal convenuto, tuttavia ad avvi- so di questo Giudice il teste intendeva certamente dire che detto veicolo provenisse da destra. Per l’effetto, la respon- sabilità va ascritta al convenuto, al quale va addebitato di non aver concesso la precedenza al veicolo attoreo prove- niente da destra, come previsto dal codice della strada”. Ci pare indubbio che in questo caso si sia nel campo del- la valutazione irragionevole e non dell’errore percettivo, in quanto il giudice, pur consapevole della dichiarazione del teste, immotivatamente ed arbitrariamente attribuisce ad essa un contenuto diverso ed opposto rispetto a quello fatto proprio dalle parole, certamente censurabile in Cas- sazione[18].
La sentenza di cui sopra parla di errore di percezione, in- teso come quell’errore che cade sul contenuto oggettivo della prova oggetto di discussione tra le parti, in quan- to se il fatto è pacifico, lo strumento impugnatorio va in- dividuato nella revocazione ex art. 395 n. 4 c.p.c. Se inve- ce l’errore di percezione cade su un fatto controverso, af- ferma la S.C., sarà possibile censurare l’errore invocando l’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.
A quanto consta, la prima sentenza che si è pronuncia- ta funditus sull’errore di percezione dopo la modifica dell’art. 360 n. 5 è Cassazione civile, sez. III, 12/04/2017,
n. 9356, la cui massima recita quanto segue: “Xxxx’esami- nare le prove offerte dalle parti, il giudice di merito può - teoricamente - incorrere in un duplice errore di giudizio: un errore di valutazione; un errore di percezione. L’erro- re di valutazione consiste nel ritenere la fonte di prova di- mostrativa o meno del fatto che con essa si intendeva pro- vare. Si tratta di un errore non sindacabile in sede di le- gittimità, in quanto non previsto dalla tassonomia dei vi-
solo necessaria, come avveniva quando operava il vecchio n. 5, quanto ad essa stessa, ma anche solo come punto di partenza per approdare alla censura in iure, essendo, dunque, ulteriormente necessario dimostrare come e perché l’apprezzamento corretto si sarebbe incasellato nel complessivo quadro probatorio, sì da ren- dere necessario - e non già solo possibile - appunto sul piano probatorio complessivo il risultato di una ricostruzione della quaestio facti del tutto diversa e, quin- di, tale da giustificare come approdo argomentativo finale in iure quello che la fattispecie è stata sussunta erroneamente in iure sotto la norma che il giudice di merito ha applicato, sì da risultare dimostrato un error iuris sul diritto sostanziale con cui la fattispecie è stato deciso. In pratica potrebbe ipotizzarsi che la critica all’esercizio concreto del potere di cui all’art. 116 c.p.c., si collochi come parte di un ragionamento più ampio che giustifichi innanzitutto in termini di necessarietà logica una ricostruzione della quaestio facti sulla base del materiale probatorio diversa da quella operata dal giudice di merito e per tale ragione evidenzi che egli ha mal sussunto la vicenda sotto la norma che ha applicato, perché tale norma non sarebbe stata applicabile se la ricostruzione fosse stata quella esatta. Una sif- fatta attività argomentativa sarebbe diretta ad evidenziare un errore di sussunzione della fattispecie concreta e di individuazione dell’esatto diritto applicabile e, dunque, della motivazione in iure, ma essa supporrebbe, in ossequio ai requisiti di chiarezza necessari in ogni motivo di impugnazione, l’articolazione dell’esposi- zione di un siffatto motivo in modo puntuale secondo le scansioni progressive appena sopra indicate”.
[18] Nel momento in cui scriviamo, il vizio andrebbe dedotto come nullità della sentenza per motivazione gravemente illogica o apparente e quindi per violazione dell’art. 132, co. 2, n. 4, in relazione all’art. 360, n. 4). A nostro avviso, la norma di riferimento è invece proprio l’art. 116 c.p.c., sempre in relazione all’art. 360, n. 4), trattandosi della violazione del canone di prudenza.
zi denunciabili con il ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c. L’errore di percezione, è, invece, quello che cade sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, ov- vero sul demonstratum e non sul demonstrandum. L’erro- re di percezione, quando investa un fatto incontroverso, è censurabile con la revocazione ordinaria, ai sensi dell’ar- ticolo 395, n. 4, c.p.c. Quando, invece, investa una circo- stanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, l’errore di percezione è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 115 c.p.c. Tale norma, infatti, nell’imporre al giudice di porre a fon- damento della decisione le prove offerte dalle parti, impli- citamente vieta di fondare la decisione su prove immagi- narie, cioè reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte. In ogni caso ci troviamo al di fuori dell’attività di valutazione delle prove, sempre insindacabile in sede di le- gittimità, giacché altro è ricostruire il valore probatorio di un atto o fatto (attività di valutazione), altro è individuar- ne il contenuto oggettivo (attività di percezione)”.
Nel caso di specie, il giudice del merito aveva ritenuto che la proprietà dei ricorrenti non fosse in buono stato di conservazione già prima dell’allagamento imputabile alla parte convenuta ed aveva tratto la prova di ciò dal- le fotografie scattate in epoca precedente agli eventi mete- orici. Ad avviso della Corte, però, l’esame delle fotogra- fie evidenziava un immobile in normale stato di conserva- zione, non certo in stato di vetustà e cattiva conservazio- ne. Per tale ragione, la sentenza impugnata è stata cassata con rinvio alla Corte d’appello, al fine di provvedere a li- quidare nuovamente il quantum debeatur[19].
Ora, se può considerarsi corretta l’affermazione secondo cui il giudice non può fondare il proprio giudizio su pro- ve immaginarie, non sembra condivisibile l’applicazione concreta fatta dalla S.C., tenuto conto che appare difficile sostenere che il giudizio sulla vetustà di un edificio ricava- to da una fotografia, sia da ricondurre all’attività di per- cezione e non all’attività di valutazione.
Anzitutto, questa impostazione sembra ignorare alcuni ar- resti della filosofia e della psicologia, secondo cui l’essere umano non “fotografa” e descrive la realtà che lo circon- da per come è, bensì la interpreta costantemente. La perce- zione non è dunque il risultato del mero “osservare”, ben-
sì è un processo mediante il quale si traggono informazioni sul mondo nel quale viviamo che avviene in maniera selet- tiva, costruttiva e interpretativa: la nostra mente, in base a determinate “leggi”, seleziona tra le varie sensazioni quelle che - in una data situazione - sono per noi importanti, or- ganizzandole in un insieme ordinato e comprensibile. Esi- ste pertanto una differenza tra ciò che percepiamo e ciò che la nostra mente ricava dalle percezioni; c’è un divario tra la realtà fisica e fenomenica e l’idea che soggettivamente ci facciamo di essa. Comunemente si crede che ciò che possia- mo osservare, ascoltare, xxxxxxx e via dicendo sia “la” real- tà; non a caso, però, questo modo di pensare, in psicologia e filosofia, è detto “realismo ingenuo”.
Ma anche senza scomodare la psicologia e la filosofia, è evidente come l’errore di percezione possa essere ritenuto compatibile con il sindacato della Corte, a tutto concede- re, quando investa classi di oggetti (ad es. uno skateboard scambiato per una bicicletta, una linea di mezzeria conti- nua scambiata per una linea tratteggiata, ecc.), mentre ap- pare difficilmente compatibile con un giudizio sulla qua- lità di una cosa, in totale assenza di parametri sicuri che permettano di affermarne o negarne l’esistenza. Detto al- trimenti: in presenza di quali caratteristiche obiettive, di un edificio si può dire che è divenuto vetusto[20]?
In conclusione, riteniamo che la negazione della vetustà di un immobile a seguito dell’esame di alcune fotografie non può considerarsi il risultato di una attività di “mero sguardo obiettivo”, quanto piuttosto l’esito di una valu- tazione che dovrebbe essere riservata al giudice di merito, laddove ragionevole.
Considerazioni conclusive sul controllo del giudizio di fatto L’esatta individuazione di quel confine, cui sopra face- vamo cenno, sembra ancora lontana. Certo è che laddo- ve l’orientamento qui esaminato dovesse consolidarsi, si espanderebbe l’area di intervento della Suprema Corte sul giudizio di fatto che, ad oggi, ricomprende per la verità non pochi casi: le valutazioni illogiche, apodittiche e ir- ragionevoli; le valutazioni che pretermettono fatti decisi- vi; le valutazioni frammentarie; le valutazioni fondate su indizi non gravi, precisi e concordanti e in violazione di norme rigide.
[19] Interessante osservare come il giudizio di fatto della S.C. si sia sovrapposto, sostituendolo, a quello del giudice di merito, esattamente come avrebbe potuto fare per la motivazione in diritto. Si insegna, invece, che la Corte non potrebbe mai ricostruire diversamente il fatto storico, ma solo censurare il modo in cui detta ricostruzione è avvenuta; in tal senso x. Xxxxx F. P., op. ult, cit., pag. 404.
[20] Ciò non esclude l’impiego della ragionevolezza; di un edificio senza parte del tetto e delle pareti sarebbe irragionevole predicare il normale o buono stato di conservazione.
Ciò che rimane fuori dal sindacato della Corte è la valu- tazione logica e ragionevole, seppure non condivisa dal- la stessa[21], come pure la valutazione fondata solo su al- cuni elementi di prova, senza la espressa invalidazione di quelli contrari[22]. Ma mentre la prima (cioè la valuta- zione ragionevole, ma non condivisibile) sembra difficil- mente compatibile con il giudizio di legittimità, in quan- to la sostituzione di una soluzione con altra maggiormen- te plausibile, oltre a non integrare un vizio di legge, tra- sformerebbe la Corte in un giudice di terzo grado a tutti gli effetti, la seconda (cioè la valutazione fondata su una parte degli elementi di prova) appare difficilmente difen- dibile, proprio alla luce del criterio di prudenza che, al fi-
ne di scongiurare il sempre in agguato pericolo del confir- xxxxxx xxxx[23], dovrebbe obbligare il giudice a prendere posizione espressa su tutti gli elementi di prova e non solo su quelli ritenuti decisivi[24]. Difatti, allorquando il giudi- ce accorda preferenza ad alcuni elementi di prova rispet- to ad altri, la mancanza di motivazione sul rigetto di quel- li scartati non consente alcuna verifica sul corretto modus procedendi, in quanto la ritenuta attendibilità di un mezzo di prova non necessariamente comporta di per sé un giu- dizio di inattendibilità di un altro mezzo di prova[25]; in secondo luogo, proprio perché trattasi di omessa pronun- cia, nulla esclude che il mancato rilievo possa dipendere non da una scelta, bensì da una svista.
[21] In realtà, non sono rari i casi in cui la S.C., dietro l’apparente censura di illogicità, sostituisce la propria ricostruzione a quella del giudice di merito. Sulla que- stione si v. ampiamente X. Xxxxxxx, Xxxxxxxx generali e sindacato della Cassazione, UTET, 2003. Osserva X. Xxxxxx, Norme processuali «elastiche» e sindacato in cassazione (dopo la modifica dell’art. 360, 1° comma, n. 5 c.p.c.), che l’aggettivo possessivo «suo», riferito a «prudente apprezzamento» nell’art. 116 c.p.c., sta a significare che né le parti, né la Cassazione possono sostituirlo con il «loro» apprezzamento.
[22] Seppure non manchino in giurisprudenza sentenze che hanno affermato l’insindacabilità della motivazione allorquando il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi acquisiti, riassumendo i risultati in maniera globale e sintetica (Cass. 1072/1971), è assolutamente prevalente l’orientamento che afferma che l’esa- me dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendi- bilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motiva- zione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incom- patibili con la decisione adottata (tra le tante v. Cassazione civile, sez. I, 02/08/2016 , n. 16056).
[23] Il Confirmation bias è un atteggiamento tipico della natura umana; esso sta a significare che siamo portati più a confermare una ipotesi tramite prove a favo- re che cercare di prendere in considerazione evidenze contrarie. Nell’ambito del processo, il rischio è che il giudice si formi il convincimento (c.d. pre-giudizio) sul- la base di una intuizione e che utilizzi solo alcune prove al fine di confermare la propria conclusione. La motivazione, in questi casi, rappresenterebbe non il ragio- namento che ha condotto alla decisione (c.d. ragionamento giustificatorio), bensì la giustificazione ex post di una decisione presa a monte (c.d. ragionamento de- cisorio) per imponderabili motivi (pregiudizi di vario tipo, amicizia/inimicizia con parti o difensori, pigrizia mentale, ecc.).
[24] In tal senso si veda Cass. 2526/1971; id. 1450/1971; id. 861/1971; id. 785/1971; ecc. “L’apprezzamento degli elementi probatori è demandato al potere so- vrano del giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità, sempre che sia sorretto da una motivazione congrua, nonché logicamente e giuridicamente corretta, dalla quale risulti che detto giudice abbia desunto il proprio convincimento dall’esame di tutte le risultanze istruttorie ed abbia ottemperato al dovere di spiegare le ragioni che lo hanno indotto a preferire l’una anziché l’altra delle versioni prospettate dalle parti”.
[25] Affermare che «il teste Xxxx è attendibile», non spiega per quale ragione il teste Mevio sarebbe da considerare inattendibile. Non si tratta, evidentemente, di incompatibilità logica.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
CONTRATTO PRELIMINARE E IPOTECHE
Il subentro del curatore nel contratto preliminare
di compravendita immobiliare e il potere del Giudice delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche
Xxxxxxxxxxxx Xxxx
del 10 aprile 2019
Sommario
2. Il potere del Giudice delegato ordinare la cancellazione delle ipoteche
3. Gli atti di liquidazione del curatore come tipi di vendite forzate
1. Posizione del problema
Ricorre spesso, nella prassi, il problema di sapere se il Giudice Delegato ha il potere di ordinare la cancellazione delle ipoteche gravanti sull’immobile oggetto di un con- tratto preliminare di compravendita nel quale il curato- re fallimentare, debitamente autorizzato dagli organi del- la procedura, abbia deciso di subentrare. L’ipotesi che un bene immobile promesso in vendita dalla società in bo- nis risulti gravato da ipoteca è molto più frequente rispet- to a quella in cui il bene immobile sia libero da vincoli pregiudizievoli; ed il riconoscimento di un siffatto potere in capo al Giudice Delegato appare spesso determinante per dare piena attuazione ai principi che sovrintendono le norme sui «fallimenti immobiliari» e gli art. 72 ss. l. f. In altre parole, l’esclusione del potere del Giudice Delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche, nell’ipotesi di subentro del curatore nel preliminare di compravendita, non consentirebbe una tutela effettiva e reale del promis- sario acquirente - riconosciuta anche dalle Cass., SS.UU. 16 settembre 2015, n. 18131[1] - e sarebbe di ostacolo al-
la applicazione delle norme sui rapporti pendenti, atteso che il curatore non potrebbe vendere il bene come libero. Le tesi gravitano intorno a due poli, così sintetizzabili. Da un lato, si afferma che il subentro del curatore nel contrat- to preliminare di compravendita costituisce una modali- tà di liquidazione del bene che si attua indipendentemen- te dalla volontà del debitore: tale modalità di liquidazio- ne è un tipo di vendita forzata, con la conseguenza che il Giudice delegato ha il potere di ordinare la cancellazio- ne delle ipoteche[2]. Dall’altro, si sostiene che il trasferi- mento di proprietà in esecuzione delle obbligazioni con- tenute in un contratto preliminare non avrebbe finalità li- quidatoria, bensì quella di dare attuazione al programma negoziale vincolante per le parti contraenti ed al quale la curatela è sottomessa (o per scelta, o perché costretta, al- lorquando si dice che la volontà di sciogliere il contratto preliminare non è opponibile al promissario acquirente: il subentro nel contratto preliminare, in questa prospettiva, non può mai essere qualificato come un atto di liquida- zione di un cespite compreso nella massa fallimentare[3].
[1] La sentenza, pubblicata in Foro it., 2015, I, 3488 con nota di XXXXXXX ed in Fallimento, 2015, 1284 con nota di BALESTRA Trascrizione della domanda e potere del Curatore fallimentare: luci (e qualche ombra) nella decisione delle Sezioni Unite, ha fissato il principio secondo cui la scelta del curatore di sciogliersi dal con- tratto preliminare di compravendita non è opponibile al promissario acquirente che ha trascritto la domanda giudiziale ante sentenza dichiarativa di fallimento ed ha ottenuto la sentenza ex art. 2932 c.c. dopo la dichiaraizone di fallimento.
[2] Cass. 8.2.2017, n.3310, in Dir. Fall., 2017, 3-4, 889; Trib. Verona 16.4.2014, in Fallimento, 2014, 7, 825; Trib.Varese, decreto, 16.11.2017 (RG n. 2732/2017), inedita
[3] Trib. Milano 21.9.2017, in xxxxx://xxxxxxxx00xxxxxxx.xxxxxx00xxx.xxx. Xxxxxx Xxx., La sorte dell’ipoteca sull’immobile venduto dal curatore per subentro nel preli-
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2. Il potere del Giudice delegato ordinare la cancellazione delle ipoteche
Per addivenire alla soluzione del problema occorre chiari- re, in via preliminare, quale sia la fonte del potere del Giu- dice Delegato di ordinare la cancellazione delle ipoteche. Qualora il programma di liquidazione, proposto dal cu- ratore ed approvato dal Comitato dei Creditori[4], optas- se per una vendita forzata di diritto comune (exart. 107, 2° comma, l. f.), il bene venduto secondo le regole del co- dice di procedura civile verrebbe trasferito all’aggiudica- tario ai sensi dell’art. 586 c.p.c. e il decreto di trasferimen- to conterrebbe l’ordine di cancellazione delle ipoteche. In questa ipotesi, il Giudice Delegato è il Giudice dell’ese- cuzione del patrimonio fallimentare e l’ordine di cancel- lazione delle ipoteche trova la propria fonte nelle norme sull’esecuzione forzata individuale.
La vendita forzata di diritto comune, tuttavia, non è il so- lo modello procedimentale utilizzabile per la liquidazio- ne dei beni acquisiti alla massa fallimentare. L’art.107, 1° comma, l. f. dispone che nel programma di liquidazione è possibile prevedere che il bene possa essere liquidato at- traverso una procedura competitiva destinata a conclu- dersi con un atto negoziale. In questi casi, ai sensi dell’art. 108, 2° comma, l. f., una volta eseguita la vendita e riscos- so interamente il prezzo, il Giudice Delegato ordina, con decreto, la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione[5].
La norma della legge fallimentare, quindi, sembrerebbe avere lo scopo di consentire il trasferimento di un bene purgato da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli tutte le volte in cui la liquidazione del bene avvenga attraverso forme diverse rispetto a quelle del codice di rito e il trasfe- rimento sia conseguenza di un atto negoziale, non di un decreto di trasferimento. Ratio che troverebbe conferma nell’analoga previsione dell’art. 13, comma 3°, l. n. 3/2012
- per il piano del consumatore e l’accordo di ristruttura- zione del sovraindebitato - e dell’art. 14 novies, comma 3°, l. n. 3/2012 - per la procedura di liquidazione del so- vraindebitato[6].
3. Gli atti di liquidazione del curatore come tipi di vendite forzate
Il potere del Giudice Delegato di ordinare la cancella- zione delle ipoteche, e delle trascrizioni pregiudizievoli, è strettamente connesso con la natura di vendita forza- ta dell’atto di liquidazione[7]: se l’atto di liquidazione del curatore può essere inquadrato come una vendita forza- ta, allora il Giudice Delegato può ordinare la cancellazio- ne delle ipoteche.
Sul punto, si è detto che gli atti del curatore sono sem- pre delle vendite coattive in quanto prevedono un iter au- torizzativo[8]; o avvengono invito domino[9]; o, infine, si ritiene siano delle vendite coattive per il semplice fatto che si realizzano nel contesto della procedura concorsua- le[10].
Al riguardo, assume carattere dirimente il rilievo che l’at- to negoziale è posto in essere da un organo che non è pro- prietario del bene oggetto del trasferimento e che tale or- gano nemmeno agisce in forza di un potere conferito da chi ha il diritto di disporre del bene: il curatore è il sog- getto che, in forza di una disposizione di legge, ha il pote- re di liquidare il patrimonio fallimentare; l’atto di trasfe- rimento della proprietà, pertanto, prescinde dalla volon- tà del titolare del diritto[11]. Ne consegue che, qualunque sia la forma dell’atto di trasferimento, gli atti di liquida- zione posti in essere dal curatore costituiscono degli at- ti traslativi della proprietà, dovendosi dare rilevanza alla natura del potere esercitato, non alle forme del suo eserci- zio. Argomento che viene utilizzato dalla giurisprudenza per riconoscere natura di vendita forzata alla transazio-
minare stipulato dal fallito, in Dir fall. 2017, p.890 ss.
[4] Xxx completezza, si rileva che il Giudice Delegato può autorizzare la vendita dei beni anche prima dell’approvazione del programma di liquidazione, ai sensi dell’art. 104 ter, comma 7°, l.fall., qualora ciò possa comportare un pregiudizio per i creditori.
[5] In dottrina, v. X. Xxxxxxxxx, in Commentario alla legge fallimentare Xxxxxxxxx, sub art. 108, p. 1083.
[6] Cfr. Xxxxxxxx, Cancellazione delle formalità ex art. 108 e “atti negoziali” del curatore, in Fallimento, 2018 p. 1459.
[7] Xxxxxx Xxx., La sorte dell’ipoteca sull’immobile venduto dal curatore per subentro nel preliminare stipulato dal fallito, in Dir fall. 2017, p.898 ss. ritiene, invece, che l’art. 108, 2° comma, l. f. trovi applicazione delle sole ipotesi di vendite competitive. V., altresì, Trib. Milano 21.9.2017, cit.
[8] Zanichelli, Liquidazione dell’attivo e garanzie dell’aggiudicatario, in Fall., 2003, 877. Cass. 23.09.2003, n. 14103, in Giust. civ., 2004, I, 78, in materia di ven- dite mobiliari, ove si è valorizzata la rilevanza, ai fini del trasferimento della proprietà, del pagamento del prezzo, non del consenso.
[9] X. Xxxxxxxx, X. Xxxxxxxx, Commento sub art. 108 l. f. , in Commentario Xxxxx-Xxxxxxx, 2007, II, 618.
[10] Cass. 16.05.2018, n. 11957.
[11] Questa la ragione per la quale le vendite poste in essere dai Commissari nell’amministrazione straordinaria sono delle vendite forzate. Contra, F. X’Xxxxxx, X. Xxxxxxx, in AA.VV., La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Ferro (a cura di), Padova, 2007, 835.
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ne traslativa di diritti[12] e, nel precedente sistema, in cui non era consentita la vendita a trattativa privata dei be- ni appartenenti alla massa fallimentare, per ammettere il trasferimento di proprietà del bene, oggetto della contro- versia che le parti intendono comporre, senza ricorrere ad una vendita all’incanto[13].
4. l subentro del curatore nel contratto preliminare
di compravendita immobiliare come atto di liquidazione di un bene del patrimonio fallimentare
Abbiamo tutti gli elementi per risolvere la nostra que- stione: il Giudice Delegato può ordinare la cancellazio- ne allorquando si ritenga che il subentro del curatore nel contratto preliminare, e il successivo atto di trasferimen- to della proprietà, costituiscano delle modalità di liqui- dazione del patrimonio fallimentare[14]. La scelta del cu- ratore di dare esecuzione al contratto preliminare non è ontologicamente diversa da qualunque altra attività di li- quidazione dei beni acquisiti al patrimonio attivo del fal- limento, atteso che il curatore (pubblico ufficiale a ciò de- putato), al pari di qualsivoglia altro organo esecutivo, si sostituisce al debitore e in forza di un potere diverso da quello del proprietario del bene, trasferisce a terzi la tito- larità del diritto sul bene promesso in vendita.
In senso contrario, si è detto che le vendite fallimenta- ri sarebbero solo quelle previste dagli artt. 105 ss. l. f. e quelle che hanno i requisiti formali previsti da quelle nor- me[15], ma la collocazione tipografica della norma all’in- terno della legge fallimentare non pare possa risultare un argomento dirimente. Nel contempo, deve essere dimo- strata, e non assunta a priori, la tesi che gli atti di liquida- zione del patrimonio fallimentare siano solo quelli aventi determinati requisiti previsti dalla legge.
Sotto altro aspetto, l’argomento secondo cui il curatore che subentra nel contratto preliminare è tenuto ad adem- piere a tutti gli obblighi contrattuali ivi previsti[16], com- preso quello della cancellazione delle ipoteche, avreb- be conseguenze poco razionali. Il trasferimento di pro- prietà, in questa prospettiva avverrebbe secondo il regi- me delle vendite ordinarie: con le garanzie per vizi della cosa e con i requisiti previsti a pena di nullità dall’artico-
lo 40, 2° comma, della legge 28 febbraio 1985 n. 47 (che esclude solo i trasferimenti coattivi derivanti da procedu- re concorsuali), la cui violazione costituirebbe una fonte di eventuale responsabilità le cui conseguenze andrebbe- ro allocate in prededuzione. Un curatore avveduto e pru- dente, di conseguenza, potrebbe essere portato ad esclu- dere l’opzione economicamente più conveniente (che pre- veda il subentro nel preliminare, rispetto alla vendita for- zata che porterebbe a ricavare un prezzo minore), ma che si presenta più stabile, senza alcun rischio di impugnazio- ne e che lo esponga a responsabilità.
Non convince, infine, il rilievo che la qualificazione come
«vendita fallimentare» del trasferimento conseguente al su- bentro nel preliminare si pone in contrasto con l’argomen- to fondante la tesi della opponibilità della sentenza ex art. 2932 cod. civ. ottenuta da un promissario acquirente in ac- coglimento di una domanda trascritta prima del fallimen- to[17]. La tesi si fonda su una equiparazione tra questa fat- tispecie e quella del subentro del curatore nel prelimina- re come frutto di una sua scelta tra le diverse modalità di liquidazione del bene, ma tale equiparazione non convin- ce: l’effetto di sottrazione del bene dalla massa fallimenta- re con efficacia retroattiva è proprio della sola sentenza di accoglimento exart. 2932 c.c. ed in ragione di tanto, corret- tamente, non deve conseguire alcun ordine di cancellazio- ne delle ipoteche. Nel caso di subentro del curatore nel pre- liminare, invece, il bene resta acquisito alla massa fallimen- tare e il trasferimento di proprietà non avverrebbe con ef- fetto retroattivo (come nell’ipotesi della sentenza), ma co- stituirebbe un vero e proprio atto di liquidazione.
Tra le due opzioni, in ultima analisi, quella che attribu- isce il potere al Giudice di Delegato di ordinare al can- cellazione delle ipoteche è quella che sembra essere più in linea con lo spirito della legge. Se la ratio delle norme sul contratto preliminare pendente è quella di dare tute- la al promissario acquirente, impedire al Xxxxxxx Xxxxxx- to di provvedere alla cancellazione delle ipoteche signifi- cherebbe, sul piano pratico, escludere l’applicabilità del- la normativa predetta nel caso più frequente, cioè quel- lo del contratto preliminare avente ad oggetto un immo- bile ipotecato.
[12] Trib. Messina 11.04.2018, in Fall.2018, 1456.
[13] Cass. 14.10.2008, n. 25136; Cass. 10.05.2017, n. 11464; Cass. 23.12.2016, n. 26954.
[14] Cass.8 .02.2017, n. 3310, cit.
[15] Trib. Milano 21.9.2017, cit.
[16] Trib. Milano 21.9.2017, cit.
[17] Xxxxxx Xxx., cit., 898, ss.
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ESECUZIONE FORZATA: IL PUNTO OGGI
Le ultime novità in materia di esecuzione forzata nel D.L. n. 135 del 2018 convertito con modificazioni dalla L. 11 febbraio 2019, n. 12
Xxxxxxxx Xxxxxx
del 11 aprile 2019
Sommario
1. Continua l’«urgenza» per riformare il processo esecutivo
2. Il nuovo art. 560 c.p.c.
3. L’immobile pignorato adibito ad abitazione del debitore non può essere liberato
4. Diversa è la sorte dell’immobile non abitato dal debitore esecutato
5. Il nuovo ruolo del custode
6. L’autorizzazione a locare l’immobile pignorato
7. Il diritto di visita dell’immobile dei potenziali acquirenti è mantenuto, ma con qualche modifica
8. I casi in cui il giudice ordina la liberazione anticipata dell’immobile
9. Le ulteriori modifiche al processo esecutivo: nuovi incentivi al debitore che intenda beneficiare della conversione del pignoramento
1. Continua l’«urgenza» per riformare il processo esecutivo Ancora una volta, ed a sorpresa, il nostro legislatore in- terviene sul processo esecutivo con una riforma che ri- guarda tre articoli del codice di rito contenuta nel D.L. 14 dicembre 2018, n. 135, convertito con modificazioni dal- la legge 11 febbraio 2019, n. 12 e lo fa utilizzando impro- priamente la decretazione d’urgenza ad efficacia differi- ta (successiva cioè alla pubblicazione della legge di con- versione), in spregio ai presupposti costituzionali di ne- cessità e urgenza, secondo quella che sta ormai divenen- do una cattiva abitudine del nostro legislatore. Inoltre è in sede di conversione che l’art. 560 c.p.c. viene sostanzial- mente riscritto.
Ma procediamo con ordine. Il decreto legge n. 135 è rubri- cato “Disposizioni urgenti in materia di sostegno e sem- plificazione per le imprese e per la pubblica amministra- zione”. Se leggessimo le riforme che sono state apportate al processo esecutivo dall’art. 4, specie dopo la conversio- ne in legge, non comprenderemmo la ragione di una rifor- ma ricompresa in un decreto legge così intitolato. La sor- presa poi si trasforma in sbigottimento leggendo proprio la rubrica dell’art. 4, dedicato alle riforme di cui inten- diamo occuparci, che recita così: “Modifiche al codice di procedura civile in materia di esecuzione forzata nei con-
fronti dei soggetti creditori della pubblica amministrazio- ne”, che è rimasta invariata sebbene l’unico riferimento ai creditori delle pubbliche amministrazioni fosse contem- plato nel secondo comma dell’art. 4 del d.l. che in sede di conversione è stato integralmente modificato ed oggi non contempla più alcun riferimento ai creditori delle pubbli- che amministrazioni. Insomma la legge di conversione ci ha consegnato un articolo 4 il cui contenuto è assoluta- mente discordante dalla sua rubrica.
Per chiarezza espositiva ricordo brevemente che il com- ma 2 dell’art. 4 del d.l. n. 135 prevedeva l’aggiunta di due nuovi periodi al comma 2 dell’art. 560 c.p.c. che avrebbe- ro consentito al debitore, assoggettato ad una procedu- ra espropriativa immobiliare, la possibilità di non subire l’ordine di rilascio dell’immobile pignorato, se non in una data compresa tra il sessantesimo e il novantesimo giorno successivo a quello della pronuncia del decreto di trasfe- rimento del bene, se fosse stato in grado di documentare di essere titolare di crediti nei confronti di pubbliche am- ministrazioni certificati e risultanti dalla piattaforma elet- tronica per la gestione telematica del rilascio delle certi- ficazioni, per un ammontare complessivo pari o superio- re all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti. Di questa disposizione erano
state già evidenziate le incongruenze e ne era stato auspi- cato lo stralcio[1], che invero avviene in sede di conversio- ne in cui il legislatore, come anticipato, sceglie di riscrive- re l’art. 560 c.p.c. ignorando proprio l’unica modifica che avrebbe giustificato l’inserimento dell’art. 4 nel d.l. n. 135. Infatti, alla ridotta portata applicativa del decreto legge, che consentiva soltanto ad una ristretta categoria di debi- tori di beneficiare del rinvio della liberazione dell’immo- bile ad un momento successivo al decreto di trasferimen- to, si sostituisce una previsione di carattere generale che estende questo beneficio alla generalità dei debitori che abitino l’immobile pignorato.
Come abbiamo già anticipato l’art. 4 contempla la rifor- ma degli articoli 495, 560 e 569 del codice di procedura civile. Iniziamo ad esaminare la riforma più dirompente, che è proprio quella apportata alla disciplina delle moda- lità della custodia.
2. Il nuovo art. 560 c.p.c.
L’art. 560 c.p.c., del quale riportiamo per esteso l’attuale versione, recita così:
«Il debitore e il terzo nominato custode debbono rendere il conto a norma dell’articolo 593.
Il custode nominato ha il dovere di vigilare affinché il de- bitore e il nucleo familiare conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia e ne manten- gano e tutelino l’integrità.
Il debitore e i familiari che con lui convivono non perdo- no il possesso dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, salvo quanto previsto dal se- sto comma.
Il debitore deve consentire, in accordo con il custode, che l’immobile sia visitato da potenziali acquirenti.
Le modalità del diritto di visita sono contemplate e stabi- lite nell’ordinanza di cui all’articolo 569.
Il giudice ordina, sentiti il custode e il debitore, la libera- zione dell’immobile pignorato per lui ed il suo nucleo fa- miliare, qualora sia ostacolato il diritto di visita di po- tenziali acquirenti, quando l’immobile non sia adeguata- mente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conser- vazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare, quando il debitore viola gli altri ob- blighi che la legge pone a suo carico, o quando l’immo-
bile non è abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare. Al debitore è fatto divieto di dare in locazione l’immobi- le pignorato se non è autorizzato dal giudice dell’esecu- zione.
Fermo quanto previsto dal sesto comma, quando l’im- mobile pignorato è abitato dal debitore e dai suoi familia- ri il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobi- le pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferi- mento ai sensi dell’articolo 586».
Dopo la recentissima riforma rimane invariato soltanto il primo comma. Infatti anche il divieto per il debitore e il custode di dare in locazione l’immobile pignorato senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione, prescritto nel secondo comma già nella versione originale dell’articolo in esame, viene circoscritto unicamente al debitore e spo- stato al settimo comma. Per il resto l’articolo viene inte- ramente riscritto.
Il legislatore del 2019 con un colpo di spugna vanifica le modifiche apportate alla disciplina delle modalità della custodia con le riforme che si sono susseguite dal 2005 fino al 2016[2], con le quali, recependo le prassi virtuo- se adottate da alcuni uffici giudiziari, specialmente quelli di Monza e Bologna, il legislatore aveva ripensato al ruo- lo del custode, valorizzandolo e attribuendogli ampi com- piti di gestione anche durante la fase liquidativa. Al fine poi di rendere più appetibile sul mercato delle vendite im- mobiliari il bene pignorato, le riforme precedenti avevano previsto una liberazione anticipata dell’immobile pigno- rato, da compiersi proprio a cura del custode, fuorché nel- le ipotesi in cui il giudice dell’esecuzione avesse autorizza- to il debitore a continuare ad abitarlo. In tale ultimo ca- so l’ordine di liberazione sarebbe stato reso unitamente al provvedimento di aggiudicazione.
L’intento era chiaramente quello di consegnare all’acqui- rente il bene immobile aggiudicato libero da persone e da cose, sì da renderlo più appetibile nel mercato delle vendi- te. Proprio al fine di facilitare la liberazione dell’immobile da beni mobili che lo occupassero, con la riforma del 2016 era stato anche introdotto un meccanismo agevole per l’a- sporto di beni e documenti presenti nell’immobile, su in- timazione del custode da compiersi in un termine non in- feriore a trenta giorni a cura della parte tenuta al rilascio ovvero del soggetto cui i beni o i documenti risultavano
[1] Questo l’auspicio di Finocchiaro G., «I nuovissimi mostri» nelle modifiche al c.p.c. del decreto semplificazioni, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx . Di previsione ir- ragionevole e di dubbia costituzionalità parlava X. Xxxxxx, In difesa dell’art. 560 c.p.c. e dell’ordine di liberazione cd. anticipato, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx .
[2] Ricordiamo che l’art. 560 c.p.c. è stato modifica dapprima dal d.l. 14 marzo 2005, n.35 conv. con modif. in l. 14 maggio 2005, n. 80. Dunque dalla l. 28 dicem- bre 2005, n. 263 ed infine dal d.l. 3 maggio 2016 n. 59 conv. con modif. nella l. 30 giugno 2016, n. 119.
appartenere. Qualora poi l’intimazione fosse rimasta ine- seguita, sarebbe stato lo stesso custode ad occuparsi del- la distruzione o comunque del loro smaltimento. Anche questa disposizione dell’art. 560, comma 4 c.p.c. scompa- re dalla nuova norma facendo riemergere dubbi, già noti, circa la sorte di questi beni.
Procedendo ad un’analisi del nuovo art. 560 c.p.c. ci ac- corgiamo immediatamente che, ponendosi in controten- denza rispetto alle precedenti modifiche, il novello legi- slatore, alla regola per cui il giudice dell’esecuzione avreb- be dovuto disporre la liberazione dell’immobile pignora- to, sostituisce, al terzo comma, quella per cui “il debito- re e i familiari che con lui convivono non perdono il pos- sesso dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento”. Occorre sin d’ora rilevare la singolarità del riferimento ai familiari conviventi con il debitore ese- cutato (che nel proseguo della norma diventeranno il suo nucleo familiare), quali soggetti che insieme all’esecuta- to continueranno a godere del bene curandone la conser- vazione. Invero soltanto nella versione originaria dell’art. 560 c.p.c. si faceva riferimento alla famiglia del debitore per individuare la porzione dell’immobile che il giudice avrebbe autorizzato ad abitare per soddisfare i loro biso- gni. Il riferimento ai familiari del debitore esecutato, che compare in ben quattro commi sui complessivi otto di cui si compone l’articolo, non è opportuno, non solo per gli equivoci che può generare, ma anche perché finisce per far gravare su di essi doveri cui non sarebbero tenuti, qua- li quelli scaturenti dalla custodia del bene, così come di- spone oggi l’art. 560, comma 2 c.p.c.
3. L’immobile pignorato adibito ad abitazione del debitore non può essere liberato
Tornando al terzo comma dell’art. 560 c.p.c., per compren- derne l’effettiva portata innovativa esso va letto in combi- nato disposto con il 6° comma, a mente del quale il giudi- ce dell’esecuzione sentiti il custode e il debitore ordina “la
liberazione dell’immobile pignorato per lui e per il suo nu- cleo familiare, qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, quando l’immobile non sia adegua- tamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona con- servazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare, quando il debitore viola gli altri ob- blighi che la legge pone a suo carico, o quando l’immobile non è abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare”. Sof- fermandoci proprio su quest’ultima previsione, l’impres- sione per cui sia ormai la regola quella per cui il giudice dell’esecuzione ordinerà la liberazione dell’immobile dopo la pronuncia del decreto di trasferimento, si attenua.
Se anteriormente alla recentissima riforma il debitore avrebbe dovuto essere autorizzato ad abitare l’immobi- le dal giudice dell’esecuzione[3], oggi tale autorizzazione non è più necessaria qualora il debitore e i suoi familiari siano già in possesso dell’immobile pignorato e, così co- me puntualizzato nel comma 6, lo abitino al momento del pignoramento[4]. Diversamente, qualora l’immobile non sia abitato dal debitore esecutato, il giudice dell’esecuzio- ne dovrà ordinarne la liberazione, anche nell’ipotesi in cui ad occuparlo fossero soltanto i suoi familiari.
Insomma anche dopo la riforma del 2019 l’immobile pi- gnorato non abitato dal debitore e dal suo nucleo familia- re deve essere liberato[5]. Ciò non toglie che la nuova pre- visione segna un cambio di prospettiva. L’ordine di libe- razione anticipata dell’immobile pignorato non costitui- sce più la regola, da contravvenire unicamente nell’ipote- si in cui il debitore fosse stato autorizzato a continuare ad abitare l’immobile pignorato.
Ulteriore rilevante novità è che il rilascio dell’immobile abitato dal debitore sarà disposto, non più al momento dell’aggiudicazione, ma solo dopo il decreto di trasferi- mento, così come vuole l’art. 560, comma 3 e come ri- badito nell’ottavo comma dell’art. 586 c.p.c. Si tratta di previsioni che vorrebbero favorire il debitore bisogno- so[6], ma che, generalizzando il godimento dell’immobi-
[3] Il quale, lo ricordiamo, avrebbe potuto concedere tale autorizzazione senza bisogno di specifici motivi e senza che fosse necessario uno stato di bisogno del de- bitore.
[4] Qualora il bene non fosse abitato dal debitore esecutato, ma costituisse l’unico bene immobile nel suo patrimonio, per esigenze umanitarie si potrebbe autoriz- zare il debitore ad abitare l’immobile non occupato. In tal caso l’autorizzazione tornerebbe ad essere necessaria.
[5] Invero ciò si pone in linea con quanto già disposto nel 2° comma dell’art. 559 c.p.c. in cui è prescritta la nomina di un custode diverso dal debitore nell’ipotesi in cui l’immobile pignorato non sia occupato dal debitore, sebbene il coordinamento tra le due norme, come avremo modo di evidenziare infra, pone qualche dub- bio interpretativo.
[6] Xxxxx al riguardo leggere l’intervento del senatore Xxxxxxxx che ha proposto l’emendamento in forza del quale è stato sostituito l’art. 560 c.p.c. (riportato nel resoconto stenografico della seduta del Senato della Repubblica dello scorso 28 gennaio, riferito da Xxxxxxxxxxx, La conversione del decreto semplificazioni: riscrit- to integralmente l’art. 560 c.p.c. , in www.quotidiano xxxxxxxxx.xx), per giustificare il quale si fa proprio riferimento allo stato di estremo bisogno in cui verserebbe- ro i debitori le cui sofferenze si aggraverebbero qualora questi dovessero lasciare l’immobile pignorato prima della sua vendita all’asta, senza ricordare che finora
le da parte di qualsiasi debitore che lo abiti, indipenden- temente dalla sua reale situazione economica, finisce per favorire indiscriminatamente i debitori, pregiudicando i creditori. È indubbio che un bene libero da persone e da cose è più appetibile. Senz’altro più ragionevole, e più in linea con le finalità e l’efficienza dell’esecuzione forzata, era la norma laddove attribuiva al giudice dell’esecuzio- ne la possibilità di valutare la complessiva situazione eco- nomica del debitore, autorizzandolo, se del caso, a conti- nuare ad abitare l’immobile pignorato, considerando an- che la compatibilità di tale scelta con le finalità liquidato- rie della procedura espropriativa[7].
Viene anche soppressa la previsione di una liberazione dell’immobile a cura del custode che, secondo la previ- sione dell’art. 560, comma 3 c.p.c. ormai abrogata, il giu- dice dell’esecuzione avrebbe ordinato al più tardi al mo- mento dell’aggiudicazione o dell’assegnazione. Ormai la liberazione dell’immobile abitato dal debitore è posterga- ta al decreto di trasferimento e in tali ipotesi solo qualora il debitore o i suoi familiari contravvenissero agli obblighi posti a loro carico, tra cui quello di garantire la conserva- zione e l’integrità dell’immobile, il giudice dell’esecuzione ne ordinerà la liberazione anticipata.
4. Diversa è la sorte dell’immobile non abitato dal debitore esecutato
Leggendo il terzo comma dell’art. 560 c.p.c. ci accorgiamo che nessun riferimento è fatto all’uso abitativo dell’immo- bile del quale l’esecutato e i suoi familiari manterrebbero il possesso sino al decreto di trasferimento.
Si pensi all’ipotesi di un immobile adibito ad attività im- prenditoriale. In tal caso qualora l’immobile fosse già in possesso del debitore non dovrebbe esserne disposto il ri- lascio, stante la previsione in esame. Ciò significa che il debitore esecutato potrà continuare a svolgervi la sua at- tività d’impresa, garantendone la produttività.
Questo è quanto si ricaverebbe dalla lettura del nuovo art. 560 comma 3 c.p.c. Il condizionale però è d’obbligo, per- ché leggendo il sesto comma della medesima disposizio- ne si apprende che il legislatore impone al giudice dell’ese- cuzione di ordinare la liberazione dell’immobile pignora-
to ogniqualvolta non sia abitato dal debitore e dal suo nu- cleo familiare. Dunque anche nell’ipotesi poco prima esa- minata, nonostante il disposto del terzo comma, il giudi- ce dell’esecuzione, dopo aver sentito il custode e il debi- tore, ordina la liberazione dell’immobile non abitato dal debitore. Per questa categoria di immobili, insomma, la norma si contraddice ed impone uno sforzo esegetico per giungere ad una soluzione ragionevole[8].
Ciò che appare chiaro è l’intento del novello legislatore di assicurare al debitore esecutato ed ai suoi familiari il beneficio di continuare ad abitare l’immobile pignorato escludendone la liberazione, meno chiaro invece è il desti- no degli altri tipi di immobili.
Xxxxxx, a dispetto di quanto disposto nel terzo comma, probabilmente il legislatore anche in questa previsione in- tendeva fare riferimento al possesso esercitato da chi co- munque abita l’immobile. In tal senso sembrerebbe de- porre il riferimento ai familiari conviventi. Inoltre, se co- sì non fosse, non si comprenderebbe la previsione del se- sto comma per cui il giudice dell’esecuzione debba ordi- nare la liberazione dell’immobile non abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare. Se dovessimo propendere per questa interpretazione, ancora oggi il giudice dell’esecu- zione deve ordinare la liberazione anticipata dell’immobi- le pignorato, fuorché nell’ipotesi in cui l’immobile sia abi- tato dal debitore e dai suoi familiari, nel qual caso questi continueranno ad abitarlo senza che sia necessaria alcu- na specifica autorizzazione. Ciò ovviamente sarà possibi- le per uno solo degli immobili eventualmente facenti par- te del patrimonio del debitore, che dovrebbe coincidere con quello in cui è la sua residenza anagrafica.
Rimane fermo che qualora l’immobile fosse abitato da soggetti diversi dal debitore il giudice dell’esecuzione ne ordinerà la liberazione, e questo anche quando l’immo- bile sia nel possesso del debitore, ma non sia destinato ad uso abitativo o comunque non sia destinato a tale uso in modo specifico e continuativo.
Il 6° comma prescrive che anche in questo caso l’ordine di liberazione debba essere preceduto dall’ascolto del custo- de e del debitore[9]. Al riguardo forse sarebbe stato pre- feribile fare riferimento all’ascolto delle parti e degli altri
è sempre stato riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di consentire al debitore che versi in stato di bisogno di continuare ad abitare l’immobile.
[7] Al riguardo va ricordato che in un’ottica efficientista tra le indicazioni contenute nella Circolare del C.S.M. 11 ottobre 2017, n. 12, si suggeriva di anticipare l’or- dinanza di liberazione al momento in cui il giudice dell’esecuzione avrebbe pronunciato l’ordinanza di vendita ai sensi dell’art. 569 c.p.c.
[8] Così già Finocchiaro, La conversione del decreto semplificazioni, cit.
[9] Anteriormente a tale esplicita previsione, la necessità del rispetto del contraddittorio era sostenuta prevalentemente in dottrina e giurisprudenza. Diversamente pe- rò Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, 2015, 1488, la quale riteneva che il provvedimento potesse essere reso in assenza di contraddittorio con la parte intimata.
interessati, sì da ricomprendere anche il creditore, il quale potrebbe avere interesse a che il debitore mantenga il pos- sesso dell’immobile pignorato.
Insomma il nuovo art. 560 c.p.c. distingue tra immobi- li pignorati destinati all’abitazione del debitore e dei suoi familiari ed immobili destinati ad un uso diverso, per i quali dovrà essere disposta la liberazione anticipata.
Lo specifico riferimento ad immobili destinati o meno all’uso abitativo del debitore dimostra che il legislatore ignora le ipotesi in cui il debitore non sia una persona fi- sica[10].
5. Il nuovo ruolo del custode
La permanenza in capo al debitore esecutato del pos- sesso dell’immobile che abita lo rende responsabile del- la conservazione ed amministrazione del bene, cui secon- do la previsione dell’art. 560, comma 5 c.p.c. ante rifor- ma avrebbe dovuto provvedere il custode, previa autoriz- zazione del giudice[11].
Il nuovo art. 560 c.p.c. prescrive piuttosto al comma 2 che il custode vigila “affinché il debitore e il nucleo familia- re conservino il bene pignorato con la diligenza del buon padre di famiglia e ne mantengano e tutelino l’integrità”, costituendo la cura del bene pignorato un presupposto per una sua vendita fruttuosa. La collocazione di questa previsione, che precede l’attuale comma 3 in cui è dispo- sto che il debitore e i familiari conviventi non perdono il possesso dell’immobile, potrebbe lasciarci intendere che la regola è quella per cui gli obblighi di conservazione del bene pignorato gravino sempre sul debitore esecutato, an- che quando l’immobile non sia nella sua disponibilità.
Non possiamo però dimenticare che le modifiche appor- tate con le precedenti riforme alla custodia erano dipe- se principalmente dal disinteresse manifestato dal debito- re nella cura dell’immobile pignorato che ormai sa di do- ver perdere, inducendo a preferire quale custode un sog- getto estraneo alla procedura esecutiva, certo più attento alle esigenze di conservazione e amministrazione dell’im- mobile pignorato.
La nuova previsione sembrerebbe non tener conto di que-
sto dato, finendo per ridimensionare significativamente il ruolo del custode giudiziario chiamato soltanto a com- piti di mera vigilanza dell’operato del debitore e dei suoi familiari. Si ha l’impressione che il nuovo legislatore ab- bia voluto arrestare l’evoluzione messa in atto dalle prece- denti riforme, che ci avevano consegnato un istituto della custodia profondamente cambiato rispetto al passato ed attento alla cura del bene pignorato, da collocare sul mer- cato delle vendite in modo competitivo.
Non mi sembra che la scelta di ridimensionare così signi- ficativamente il ruolo del custode giudiziario sia da condi- videre. Invero, gravare il debitore che continui ad abitare l’immobile pignorato dell’obbligo di conservarlo, mante- nendone e tutelandone l’integrità, potrebbe avere un sen- so considerando l’interesse del debitore a mantenere in buono stato l’immobile in cui abita. Questa scelta avrebbe potuto avere il pregio di evitare i costi della custodia per la procedura, considerando che il debitore, già costitui- to custode al momento del pignoramento, non ha diritto ad alcun compenso. Non è stata questa però la scelta del legislatore del 2019 che ha preferito mantenere, anche in queste ipotesi, la custodia in capo ad un soggetto diverso dal debitore, esautorandolo però dei suoi compiti ordina- ri, attribuendogli soltanto quello di vigilare... sull’anda- mento della custodia[12]. Insomma, la nomina di un cu- stode, privato degli obblighi derivanti dal suo ruolo e re- trocesso a mero controllore, potrebbe apparire disecono- mica, se non fosse che la sua presenza torna ad essere uti- le per scongiurare condotte ostruzionistiche dell’esecuta- to quando si tratti di pianificare le visite dei potenziali ac- quirenti in accordo con il debitore, il quale, si sa, non ha alcun interesse ad invogliare i terzi all’acquisto del suo be- ne in sede esecutiva.
La scelta di mantenere il custode giudiziario accanto al debitore è comunque imposta dall’immutato art. 559 c.p.c., che al comma 4 prescrive la sostituzione del debito- re nella custodia del bene pignorato, da attribuire al dele- gato alle vendite o all’istituto vendite giudiziarie, nel mo- mento in cui il giudice autorizza la vendita del bene pi- gnorato, salvo che lo stesso ritenga che la sostituzione
[10] In tal senso Xxxxxx, Analisi del nuovo art. 560 c.p.c. in seguito alla legge 11 febbraio 2019, n. 12 , in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xxx, § 10 e Finocchiaro, op. ult. cit.
[11] Ricordiamo la previsione dell’art. 560, comma 5 c.p.c. a mente della quale: “il custode provvede in ogni caso, previa autorizzazione del giudice dell’esecuzio- ne, all’amministrazione e alla gestione dell’immobile pignorato ed esercita le azioni previste dalla legge e occorrenti per conseguirne la disponibilità”.
[12] Sui rischi della nomina di un custode diverso dal debitore, sul quale però continuino ad incombere i doveri del custode, v. X. Xxxxxxxxxxx, op. ult. cit., il quale ricordando il disposto dell’art. 388, commi 5 e 6 c.p. pone in evidenza come le nuove disposizioni finiscano per ridurre la tutela penale per la conservazione del be- ne pignorato, finendo per deresponsabilizzare sia il custode giudiziario che il debitore-custode.
non abbia utilità[13]. La scelta di una sostituzione del de- bitore nella custodia a partire dal momento in cui l’esecu- zione entra nella fase liquidativa risponde(va) ad esigenze di trasparenza, efficienza e proficuità di tale fase.
Rimane fermo che qualora l’immobile non sia occupa- to dal debitore, a mente dell’art. 559, comma 2 c.p.c. il giudice provvede a nominare custode una persona diver- sa dal debitore, già anteriormente all’avvio della fase li- quidativa[14]. In tale ipotesi l’attuale previsione norma- tiva non chiarisce su chi incombano gli obblighi della cu- stodia. Considerando che senza il possesso - diretto o in- diretto - del bene la custodia assumerebbe carattere irrea- le[15], qualora il bene immobile non sia occupato dal de- bitore, essendo libero oppure occupato da terzi, l’obbligo di conservazione e gestione del bene graverà sul custode già nominato ai sensi dell’art. 559, comma 3 c.p.c., il qua- le, a mio sommesso modo di vedere, continuerà a compie- re tutte le attività necessarie a mantenere la piena integri- tà del bene e la sua utilità economica anche dopo l’avvio della fase liquidativa. Ciò è quanto si ricava dalla norma di carattere generale in cui si legge che “La conservazio- ne e l’amministrazione dei beni pignorati [...] sono affida- te a un custode, quando la legge non dispone altrimen- ti” (art. 65 c.p.c.), attività alle quali egli dovrà attendere con la diligenza del buon padre di famiglia (art. 67, com- ma 2 c.p.c.). Al ricorrere di una simile evenienza non mi sembra che possa trovare applicazione l’art. 560, comma 2 c.p.c. Insomma anche con riferimento alla custodia del bene pignorato ed ai compiti conferiti al custode giudizia- rio bisogna distinguere se l’immobile è o meno destinato ad abitazione del debitore esecutato.
Riassumendo e tentando di dare un’interpretazione siste- matica alle disposizioni in esame, dovremmo ritenere che qualora il debitore occupi l’immobile e continui ad abitar- lo, il dovere esplicitamente prescritto dall’art. 560, com- ma 2 c.p.c. a carico del custode giudiziario sia quello di vigilanza sull’operato del debitore e dei suoi familiari, te- xxxx al compimento delle attività volte alla conservazione
dell’immobile pignorato, di cui devono mantenere e tute- lare l’integrità. A quest’ultimo riguardo, la scelta del legi- slatore di riferire alla diligenza del buon padre di famiglia l’osservanza dell’obbligo di mantenimento in buono sta- to dell’immobile pignorato, cui fa riferimento anche l’art. 67 c.p.c. nel sancire la responsabilità del custode giudizia- rio resosi inadempiente ai propri doveri, costituisce un ul- teriore argomento a riprova che i doveri che incombono sul debitore e sui suoi familiari sono proprio quelli ricon- ducibili alla custodia. Qualora però il debitore esecutato contravvenisse a tali doveri la conseguenza sarà il rilascio anticipato dell’immobile che il giudice disporrà, presumi- bilmente, su segnalazione del custode-vigilante. Diversa- mente quando il custode giudiziario sia già stato nomina- to anteriormente all’avvio della fase liquidativa, trattan- dosi di un bene non occupato dal debitore, gli obblighi di conservazione e gestione del bene continueranno a grava- re su di lui.
L’abrogazione della previsione per cui l’attività del cu- stode, funzionale alla conservazione e all’amministra- zione dell’immobile pignorato, dovesse essere autorizza- ta dal giudice dell’esecuzione deve indurci a ritenere og- gi non più necessaria tale autorizzazione, sia che la custo- dia spetti al debitore ovvero ad un terzo. Non va dimen- ticato però che il potere di vigilanza della procedura ese- cutiva permane per tutta la sua durata in capo al giudice dell’esecuzione. Pertanto, pur ritenendo ormai superflua l’autorizzazione del giudice per il compimento di atti di ordinaria amministrazione[16], per quelli invece di straor- dinaria amministrazione l’autorizzazione potrebbe, pru- dentemente, ritenersi ancora necessaria, quale manifesta- zione appunto del potere di vigilanza del giudice. In tal caso, pur non essendo previsto, dovrebbe essere lo stes- so custode, sia esso il debitore o un terzo, ad attivarsi per ottenere l’autorizzazione al compimento di tali attività. Xxxxxxxx altresì necessaria l’autorizzazione del giudice qualora si dovesse intraprendere un’azione giudiziaria a tutela del bene custodito. Infatti, in mancanza ormai di
[13] Utilità che potrebbe non presentarsi quando la particolare natura del bene da vendere renda inutile la sostituzione del custode, come nel caso in cui si trat- ti di un terreno fabbricabile per il quale non vi sono esigenze di conservazione e amministrazione, né di esame da parte dei potenziali acquirenti. In tal caso la cu- stodia permarrà in capo al debitore. Trattandosi di una previsione piuttosto elastica, qualora il debitore abiti l’immobile il giudice dell’esecuzione potrebbe ritenere non utile la nomina di un custode terzo rispetto al debitore cui spettano già gli obblighi inerenti alla custodia del bene staggito.
[14] Si tratta di una situazione accertata dal perito stimatore ai sensi dell’art. 173-bis, n. 3 disp. att. c.p.c. La sostituzione nella custodia si avrà anche quando il debitore-custode non osservi gli obblighi su di lui incombenti oppure quando ne faccia istanza il creditore procedente o altro creditore intervenuto.
[15] Così Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Commentario al codice di procedura civile, Torino, 2013, 967.
[16] Si risolverebbe così il dubbio suscitato dall’ormai abrogato 5° comma dell’art.560 c.p.c. in cui era contemplato un generico riferimento alla previa autoriz- zazione del giudice dell’esecuzione per l’attività di amministrazione e gestione del custode, che aveva indotto a non distinguere tra attività di ordinaria e straordi- naria amministrazione.
alcun riferimento alla legittimazione del custode all’eser- cizio delle azioni previste dalla legge e occorrenti a con- seguire la disponibilità del bene pignorato[17], non può non attribuirsi al custode giudiziario la legittimazione ad agire in tutte le controversie concernenti la conservazione e l’ordinaria amministrazione dei beni non occupati dal debitore e dei quali egli continua a mantenere la custo- dia iniziata ancor prima dell’avvio della fase liquidativa.
6. L’autorizzazione a locare l’immobile pignorato
L’attuale previsione dell’art. 560 c.p.c. dovrebbe implica- re una modifica dell’art. 171 disp. att. c.p.c. in cui ancora oggi si legge che le autorizzazioni al debitore ed al custo- de previste dall’art. 560 c.p.c. sono date dal giudice dell’e- secuzione dopo aver sentito le parti. Infatti, nonostante le considerazioni poco sopra compiute circa la necessità dell’autorizzazione del giudice per il compimento atti di straordinaria amministrazione o per l’esercizio di azioni giudiziarie a tutela del bene pignorato, oggi l’unica auto- rizzazione cui fa menzione l’art. 560 c.p.c. è prevista nel comma 7 e riguarda esclusivamente il debitore che inten- da dare in locazione il bene pignorato. Se vogliamo valo- rizzare questa scelta del novello legislatore, e non attribu- irla ad una mera dimenticanza, dovremmo ritenere che il custode giudiziario sia ormai libero di locare l’immobile anche senza l’autorizzazione del giudice[18]. A mio som- messo modo di vedere però tale autorizzazione non do- vrebbe mancare anche qualora a locare il bene fosse il cu- stode, rientrando nella competenza del giudice la valuta- zione sull’opportunità di servirsi del bene pignorato per renderlo produttivo di una rendita.
Non possiamo non rilevare invece la singolarità di questa previsione laddove attribuisce al debitore il potere di da- re in locazione l’immobile pignorato. Invero, consideran- do che gli immobili pignorati oggi vanno distinti tra quelli adibiti ad abitazione del debitore e quelli non in uso al de- bitore, relativamente ai quali il giudice deve ordinarne la liberazione, l’unica ipotesi in cui sembrerebbe consentito al debitore di dare in locazione il bene pignorato e quan-
do lo abiti. Il che potrebbe apparire paradossale, a me- no che non si dimostri che questa operazione possa esse- re vantaggiosa per la procedura esecutiva[19]. È evidente che in tal caso il canone di locazione dovrà essere destina- to proprio alla procedura esecutiva, né potrebbe ritenersi diversamente, sebbene l’art. 560 c.p.c. riconosca al debi- tore il mantenimento del possesso del bene pignorato[20].
7. Il diritto di visita dell’immobile dei potenziali acquirenti è mantenuto, ma con qualche modifica
Il legislatore del 2019 ha opportunamente mantenuto la possibilità per chi è interessato a presentare offerte di esa- minare i beni in vendita. Quanto al diritto di visita dei po- tenziali acquirenti, il nuovo testo dell’art. 560 c.p.c. vi de- dica i commi 4 e 5, nei quali è prescritto, laconicamente, che “il debitore deve consentire, in accordo con il custo- de, che l’immobile sia visitato da potenziali acquirenti” e che “le modalità del diritto di visita sono contemplate e stabilite nell’ordinanza di cui all’art. 569 c.p.c.”, mentre nel comma 6 è disposto che qualora il debitore ed il suo nucleo familiare dovessero ostacolare il diritto di visita, il giudice ordinerà la liberazione dell’immobile che, in que- sta previsione, va considerata alla stregua di una sanzio- ne da infliggere al debitore che continua ad abitare l’im- mobile, ma che poi si rifiuta di collaborare per favorirne la vendita forzata[21].
Per ciò che attiene alla possibilità riconosciuta ai poten- ziali acquirenti di esaminare i beni in vendita, il legisla- tore del 2019 ha scelto di eliminare la previsione che nel comma 5 dell’art. 560 c.p.c., così come modificato nel 2016, aveva procedimentalizzato il diritto degli offeren- ti di prendere visione dell’immobile, in forza della qua- le la richiesta avrebbe dovuto essere formulata mediante il portale delle vendite pubbliche, da rendere nota unica- mente al custode, il quale si sarebbe dovuto adoperare per far visitare l’immobile entro quindici giorni dalla richie- sta e secondo modalità tali da garantire la riservatezza de- gli offerenti, evitando alcun contatto tra loro. Nonostante questa abrogazione la genericità del nuovo l’art. 560 c.p.c.
[17] Che, lo ricordiamo, era esplicitamente prescritta nel quinto comma dell’art. 560 c.p.c.
[18] Come ritenuto da Xxxxxx, op. cit., § 5. In tal senso anche Xxxxxxxxxxx, op. ult. cit.
[19] Si pensi all’ipotesi in cui il debitore scelga di abitare solo una parte dell’immobile.
[20] Xxxxx vengono manifestati al riguardo da Xxxxxxxx, Note in punta di penna sul nuovo art. 560 c.p.c ., in xxx.xx xxxxxxxxxxxxxx.xx, la quale pur ipotizzando che i frutti civile potrebbero essere acquisiti dallo stesso debitore in forza del mantenimento del possesso del bene pignorato, esclude poi tale evenienza considerando che anche il debitore è obbligato al rendiconto.
[21] Come è stato opportunamente rilevato, oggi l’ordine di liberazione dell’immobile si è trasformato in una misura sanzionatoria “per colpire l’esecutato che non presti la dovuta collaborazione alla vendita della propria abitazione”. In tal senso Fanticini. Il nuovo ordine di liberazione, in xxx.xxxxxxxxxxxx.xx.
lascia ampio spazio alla discrezionalità del giudice dell’e- secuzione, che nell’ordinanza con cui autorizza la vendi- ta, dovendo stabilire le modalità con cui il custode deve adoperarsi per consentire agli interessati di visitare l’im- mobile, potrebbe recuperare quanto precedentemente di- sposto nell’art. 560 c.p.c., imponendo ai custodi di rispet- tare una cadenza temporale negli accessi, sì da garantire l’assenza di contatti tra i potenziali acquirenti.
8. I casi in cui il giudice ordina la liberazione anticipata dell’immobile
Quanto poi alle ipotesi in cui il giudice dell’esecuzione ordinerà la liberazione dell’immobile pignorato, a quel- la poco sopra esaminata conseguente alla condotta irri- spettosa del debitore che abbia ostacolato il diritto di vi- sita dei potenziali acquirenti, si aggiunge quella prescrit- ta, sempre con funzione sanzionatoria, qualora il debi- tore manchi al dovere di conservazione e manutenzio- ne del bene e lo faccia scientemente o contravvenendo all’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia ed an- xxxx quando il debitore violi gli altri obblighi previsti dalla legge a suo carico[22] ed infine quando l’immobi- le non è abitato dal debitore e dal suo nucleo familia- re. Si tratta di casi tassativamente indicati dal legislato- re. Fuori da queste ipotesi l’ordine di liberazione segui- rà al decreto di trasferimento, che costituisce già titolo esecutivo per il rilascio. Il legislatore del 2019 non ritie- ne insomma che la vendita forzata di un bene libero pos- sa essere più vantaggiosa, tornando a gravare l’acqui- rente del bene venduto forzatamente della liberazione dell’immobile, con inevitabili ricadute negative sul prez- zo di vendita del bene pignorato.
Nella nuova disposizione non è più prevista una libera- zione nell’interesse dell’aggiudicatario a cura del custo- de, il che fa anche dubitare della ragione della coesisten- za di due distinti titoli esecutivi in capo alla stessa perso- na, finalizzati entrambi al rilascio del bene venduto in se- de esecutiva[23].
Quanto alla forma del provvedimento con cui è ordinata la liberazione anticipata dell’immobile, ancora una volta
il legislatore tace. Dovrebbe trattarsi di un’ordinanza, per la quale non è più prescritta alcuna forma di impugnazio- ne. In tal modo il legislatore del 2019, contravvenendo a quanto disposto esplicitamente nel 2016 circa l’impugna- bilità del provvedimento di liberazione ai sensi dell’art. 617 c.p.c., interviene ancora sulla disciplina di tale prov- vedimento preferendo però, incomprensibilmente, torna- re al silenzio. Xxxxxxxx che mantiene anche sulle modalità di esecuzione del provvedimento per il quale, così come già nel 2016, non è più previsto che esso costituisca titolo esecutivo per il rilascio[24], né che vada attuato, a cura del custode, secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzio- ne, senza l’osservanza delle formalità prescritte dagli artt. 605 e ss. c.p.c., così come invece aveva disposto proprio il legislatore del 2016.
Si tratta anche in questo caso di una scelta discutibile. Non si comprende la ragione per cui il legislatore del 2019 abbia fatto un passo indietro rispetto a quanto preceden- temente disposto, facendo così riemergere dubbi che, al- meno parzialmente, erano stati risolti. Non mi sembra pe- rò che possa dubitarsi dell’esecutività dell’ordine di libe- razione anticipata dell’immobile pignorato[25], per quan- to la mancata esplicita previsione legislativa ne impedi- rebbe la riconducibilità ai titoli esecutivi giudiziali di cui all’art. 474, comma 2, n. 1 c.p.c. Quanto alle modalità con cui portare ad esecuzione tale provvedimento nulla è di- sposto, né è più disposto che la liberazione avvenga a cura del custode. La presenza però del custode dovrebbe indur- ci a ritenerlo il soggetto più adatto per procedere esecu- tivamente contro chi occupi l’immobile da liberare anti- cipatamente, non potendosi escludere che a subire l’ordi- ne di liberazione potrebbe essere lo stesso debitore. Quan- to alla modalità con cui portare ad esecuzione tale ordi- ne, non escluderei il ritorno alle formalità prescritte dagli artt. 605 e ss. c.p.c.
Per ciò che attiene alla mancata esplicita previsione di un rimedio oppositivo avverso l’ordine di liberazione dell’immobile, trattandosi di un provvedimento del giudi- ce dell’esecuzione, anche se non esplicitamente previsto, dovrà ammettersi l’opposizione agli atti esecutivi da par-
[22] Si pensi all’ipotesi in cui abbia dato in locazione l’immobile senza autorizzazione del giudice.
[23] Diversamente, nel vigore della precedente disciplina Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, in Riv. esecuz. forz., 2006, 75, os- servava come la coesistenza in capo allo stesso soggetto di due diversi titoli esecutivi aventi la stessa funzione, avrebbe finito con il rendere residuale il decreto di trasferimento, considerato il carattere obbligatorio del rilascio ad opera del custode.
[24] Diversamente da quanto disposto espressamente con la riforma del 2005.
[25] Al riguardo può ribadirsi quanto affermato nel lontano 31 marzo 1949 dalla Suprema Corte con la sentenza n. 744, in Rep. Foro it., 1949, in cui si legge che il provvedimento con cui il giudice ordina la liberazione dell’immobile è atto per sé stesso esecutivo.
te del debitore[26] e l’opposizione all’esecuzione da parte del terzo occupante che intenda resistere al rilascio, van- tando un diritto di godimento del bene pignorato oppo- nibile alla procedura[27].
9. Le ulteriori modifiche al processo esecutivo: nuovi incentivi al debitore che intenda beneficiare della conversione del pignoramento
L’art. 4 del d.l. n. 135 del 2018 convertito dalla legge n. 12 del 2019 al comma 1 modifica ancora l’art. 495 c.p.c. per favorire l’accesso del debitore alla conversione del pignora- mento[28]. A tal fine, nel comma 2, la somma che il debi- tore dovrà versare a titolo di acconto unitamente all’istan- za di conversione del pignoramento dovrà essere pari non più ad un quinto, bensì ad un sesto dell’importo del credi- to per cui è stato eseguito il pignoramento e dei crediti dei creditori intervenuti indicati nei rispettivi atti di intervento. Ancora, nel comma 4, il numero dei ratei che, in caso di pignoramento immobiliare o mobiliare, il giudice dell’e- secuzione potrà concedere, al ricorrere di giustificati mo- tivi, è stato elevato fino ad un massimo di quarantotto mesi, con un aumento di dodici mesi rispetto alla previ- sione precedente[29].
Infine, modificando il comma 5, il termine di tolleranza nel pagamento di ciascuna rata è stato raddoppiato e por- tato da quindici a trenta giorni. Tale ritardo determine- rà la decadenza dal beneficio della conversione, fermo re-
stando che le somme già versate andranno a far parte del compendio dei beni pignorati.
Si tratta di modifiche che potrebbero essere guardate con favore, se consideriamo che l’istituto della conversione evita la vendita forzata del bene, consentendo l’integra- le soddisfacimento dei creditori. Ciò nonostante l’aumen- to fino a quarantotto mesi del numero dei ratei potreb- be sembrare penalizzante per i creditori, ponendosi an- che in controtendenza con l’esigenza di ridurre la durata del processo esecutivo[30]. A ben vedere però il buon esi- to del sub-procedimento di conversione consente di evi- tare la lunga ed incerta fase liquidativa del bene pigno- rato. Inoltre il progressivo soddisfacimento dei diritti dei creditori, cui ogni sei mesi verranno distribuite le somme versate dal debitore, potrebbe rendere tollerabile l’ulterio- re ampliamento della dilazione nel pagamento della som- ma determinata in sostituzione del bene pignorato, la cui liberazione, lo ricordiamo, sarà successiva al versamento dell’intera somma determinata per la conversione.
Al di là di queste considerazioni, c’è comunque da augu- rarsi che il giudice dell’esecuzione, alla cui discrezionalità è rimessa la valutazione dei giustificati motivi che consen- tono la rateizzazione entro il termine massimo consenti- to dalla legge, utilizzi con parsimonia il suo potere, valu- tando con ponderatezza le caratteristiche del credito e le difficoltà del debitore a versare l’intera somma in un’uni- ca soluzione.
[26] Ciò invero è quanto già sostenuto nel vigore dell’art. 560 c.p.c. anteriormente alla riforma del 2016, quando era prevista esplicitamente la non impugnabilità del provvedimento. Al riguardo era stato affermato che una interpretazione costituzionalmente orientata della norma imponesse l’attribuzione al debitore del rime- dio dell’opposizione agli atti esecutivi costituendo il provvedimento un atto del processo esecutivo idoneo a determinare un mutamento dello stato di fatto del bene pignorato. Così Xxxx. 17 dicembre 2010, n. 25654, in Riv. dir. proc., 2011, 1262, con nota di Xxxxxx, L’ordine di liberazione dell’immobile pignorato: legittimazione passiva e rimedi; Castoro, Il processo di esecuzione nel suo aspetto pratico, 2017, 738. Xxxxxxx, op. cit., 75, invece non escludeva la possibilità di un ricorso straor- dinario per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost.
[27] A quest’ultimo riguardo ragionevole e condivisibile è l’abrogazione della previsione per cui l’opposizione agli atti esecutivi costituiva il rimedio proponibile an- che dal terzo destinatario dell’ordine di liberazione dell’immobile. Ricordiamo al riguardo le critiche mosse da Xxxxxxx, Le novità in materia di esecuzione forzata nel
D.L. n. 59/2016 ... terza e non ultima puntata della never ending story (sulle sofferenze bancarie), in Corr. giur., 2016, 1340, alla scelta del legislatore del 2016 di attribuire anche al terzo questo rimedio oppositivo, pur non trattandosi di una parte del processo espropriativo.
[28] Il testo originario del 1942 era già stato modificato dalla l. 10 marzo 1976, n. 358 che aveva introdotto per la prima volta il beneficio del versamento ratea- le consentito fino a sei mesi. È però la l. 26 novembre 1990, n. 353 che, nel delineare la nuova fisionomia dell’istituto, sopprime tale beneficio a vantaggio del de- bitore, che sarà reintrodotto dalla l. 3 agosto 1998, n. 302 soltanto per il pignoramento immobiliare. Più di recente è la l. 15 maggio 2005, n. 80 ad intervenire con modifiche più di dettaglio elevando fino a diciotto mesi il versamento rateale ed infine con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 conv. con modif. in l. 6 agosto 2015, n. 132 il legislatore interviene ancora per favorire l’accesso all’istituto della conversione.
[29] Con il d.l. n. 83 del 2015 la conversione rateale è stata consentita anche per i pignoramenti mobiliari ed estesa da diciotto ad un massimo di trentasei rate. Contestualmente all’ampliamento della rateizzazione, per evitare un eccessivo sacrificio dei creditori, il legislatore ha previsto una distribuzione delle somme ver- sate dal debitore da compiersi ogni semestre a cura del giudice.
[30] Ponendosi in contrasto con quanto previsto dalla legge Xxxxx anche con riferimento alle procedure esecutive. Al riguardo X. Xxxxxxx, Commento a prima lettura alla novella di cui all’art. 4, d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 , in xxx.xxxxxxxxxxxx.xx, ricorda come, a mente dell’art. 2, comma 2- bis, l. 24 marzo 2001, n. 89, il ter- mine di ragionevole durata del processo esecutivo è di tre anni, che non potrebbe essere rispettato alla stregua della nuova previsione.
10. Le ulteriori modifiche al processo esecutivo: nuovi incentivi al debitore che intenda beneficiare della conversione del pignoramento
Il comma 3 dell’art. 4 del d.l. n. 135 del 2018, sempre al fine di favorire l’accesso all’istituto della conversione del pignoramento, interviene sull’art. 569 c.p.c. al cui pri- mo comma sono aggiunti i due seguenti periodi: «Salvo quanto disposto dagli articoli 565 e 566, non oltre trenta giorni prima dell’udienza, il creditore pignorante e i cre- ditori già intervenuti ai sensi dell’articolo 499 depositano un atto, sottoscritto personalmente dal creditore e previa- mente notificato al debitore esecutato, nel quale è indi- cato l’ammontare del residuo credito per cui si procede, comprensivo degli interessi maturati, del criterio di calco- lo di quelli in corso di maturazione e delle spese sostenu- te fino all’udienza. In difetto, agli effetti della liquidazio- ne della somma di cui al primo comma dell’articolo 495, il credito resta definitivamente fissato nell’importo indica- to nell’atto di precetto o di intervento, maggiorato dei soli interessi al tasso legale e delle spese successive».
Com’è noto l’art. 569 c.p.c. disciplina il provvedimento di autorizzazione alla vendita dei beni immobili. Pertan- to non si comprende la ragione per cui la nuova previ- sione, che intende anch’essa favorire l’accesso ad un isti- tuto di portata generale quale senz’altro è la conversio- ne del pignoramento, sia stata circoscritta unicamente al- le espropriazioni immobiliari, creando un’ingiustificabile disparità di trattamento tra creditori, a seconda del tipo di espropriazione al quale abbiano dato avvio o nel qua- le siano intervenuti, per evitare la quale sarebbe bastato inserire la previsione in esame proprio nell’art. 495 c.p.c. La nuova previsione impone ai creditori, sia procedente che intervenuti, di redigere un atto nel quale deve essere indicato l’ammontare del residuo credito per cui si pro- cede, comprensivo degli interessi maturati, del criterio di calcolo di quelli in corso di maturazione e delle spese so- stenute fino all’udienza. L’atto prima di essere deposita- to presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione, dovrà essere notificato al debitore esecutato. Non è chiara la ra- gione per cui il legislatore qualifichi come residuo il cre- dito il cui ammontare dovrà essere indicato in tale atto. Siamo ancora all’inizio della procedura esecutiva e tale qualificazione sembrerebbe indicare un parziale soddisfa-
cimento che, se c’è, è solo eventuale e dipende da eventua- li acconti già versati dal debitore.
In quest’atto il creditore è chiamato a compire un’ope- razione aritmetica per il calcolo della somma complessi- vamente a lui dovuta, comprensiva: del credito per cui si procede o si interviene detratti gli eventuali acconti già ri- cevuti, degli interessi già maturati e di quelli “in corso di maturazione”. Per questi ultimi, invero la norma prescri- ve che il creditore si limiti ad indicare i criteri di calcolo. Le spese non sono solo quelle di giustizia affrontate fino all’udienza di autorizzazione alla vendita, ma anche quel- le affrontate dai creditori fuori dal processo esecutivo per il recupero dei rispettivi crediti, ma non anche quelle da sostenere fino alla chiusura del processo esecutivo.
A parte i dubbi che può suscitare l’attribuzione al credi- tore di queste operazioni di calcolo, va rilevato come tale adempimento vada compiuto indipendentemente dall’in- tenzione del debitore di beneficiare della conversione del pignoramento ed implica dei costi di cui dovrà intanto farsi carico il creditore, che graveranno sulla procedura esecutiva.
La ragione di questa previsione è stata indicata nell’op- portunità di far conoscere al debitore l’esatta somma do- vuta ai creditori, per formulare la sua istanza di conver- sione del pignoramento con piena consapevolezza, pre- disponendo, se del caso, eventuali trattative con familiari o con finanziarie per reperire le somme necessarie a sod- disfare interamente i creditori[31]. Gli atti predisposti da ciascun creditore saranno comunque utili al debitore che nell’istanza di conversione deve indicare la somma che of- fre in sostituzione dei beni pignorati “pari, oltre alle spese di esecuzione, all’importo dovuto al creditore pignoran- te e ai creditori intervenuti, comprensivo del capitale, de- gli interessi e delle spese” (art. 495, comma 1 c.p.c.). Non dovrebbero invece servire al debitore per determinare la somma complessiva rispetto alla quale calcolare quella da depositare unitamente all’istanza di conversione che, così come dispone l’art. 495, comma 2 c.p.c., deve essere con- teggiata tenendo conto della pretesa indicata nell’atto di pignoramento e negli atti di intervento, deducendo unica- mente gli acconti già versati ai creditori, debitamente do- cumentati[32].
Ancora tali atti non dovrebbero incidere sul contenuto
[31] Così si legge nell’Atto del Senato n. 989, XVIII legislatura, in xxx.xxxxxx.xx.
[32] In tal senso Xxxxxxxx, L’esecuzione forzata, Padova, 2009, 104, nt. 98; Xxxxxxx, L’espropriazione forzata immobiliare, Milano, 2005, 158; Soldi, Manua- le dell’esecuzione forzata, Padova, 2017, 587. Diversamente Danovi, Sulla determinazione della somma da depositare ex art. 495, secondo xxxxx, c.p.c ., in Riv. dir. proc., 2002, 557.
dell’ordinanza con cui il giudice, sentite le parti, determi- na la somma da sostituire al bene pignorato attenendosi a quanto dichiarato dai creditori concorrenti e valutando anche la ritualità degli interventi e le eventuali contesta- zioni del debitore. Al riguardo sono noti i dubbi suscitati dalla valutazione rimessa al giudice dell’esecuzione chia- mato a pronunciarsi sull’istanza di conversione del pigno- ramento[33], il quale determinerà la somma da sostituire tenendo conto, a mente di quanto disposto dall’art. 495, comma 1 c.p.c., dell’importo dovuto al creditore pigno- rante ed ai creditori intervenuti, comprensivo del capitale, degli interessi e delle spese. Sebbene non sia prescritto, è inevitabile che il giudice determini la somma consideran- do i crediti risultanti dai documenti prodotti dagli interes- sati, tra cui oggi dovremmo far rientrare anche gli atti de- positati dai creditori ai sensi del nuovo art. 567, comma 1
c.p.c. che, senza vincolare il giudice, potrebbero servirgli per una sorta di verifica incrociata, al fine di valutare, ad esempio, che quanto affermato e documentato dal debi- tore circa i pagamenti parziali eseguiti a favore dei credi- tori risponda a ciò che gli stessi creditori indicano nei ri- spettivi atti[34].
Non so quanto sia opportuna questa nuova previsione che introduce un ennesimo adempimento a carico dei cre- ditori, tenuti a depositare l’atto di precisazione del credi- to non oltre trenta giorni prima della data fissata per l’u- dienza in cui il giudice autorizzerà la vendita, senza che tale adempimento giovi significativamente alla procedura esecutiva[35]. Inoltre, con riferimento ai creditori inter- venienti l’art. 499, comma 2 c.p.c. dispone che il ricorso per intervento “deve essere depositato prima che sia tenu- ta l’udienza in cui è disposta la vendita o l’assegnazione ai sensi degli artt. 530, 552 e 569”. Con riferimento all’e- spropriazione immobiliare, avendo riguardo a quanto di- sposto dall’art. 564 c.p.c., l’intervento tempestivo è pos- sibile fintantoché il giudice dell’esecuzione non abbia au-
torizzato la vendita. Oggi, considerata la previsione in- trodotta nel primo comma dell’art. 569 c.p.c., si finirebbe per imporre ai creditori che volessero intervenire nel pro- cesso espropriativo di depositare il relativo ricorso in un termine anticipato rispetto a quello di trenta giorni prima dell’udienza di autorizzazione alla vendita, fissato per il compimento dell’atto di precisazione del credito.
Ancora va rilevato come l’art. 495 c.p.c. individua il ter- mine oltre il quale non è più possibile proporre l’istanza di conversione, ma non fissa alcun termine iniziale. Il de- bitore, che abbia interesse ad anticipare l’istanza di con- versione rispetto al termine finale, è legittimato a propor- la sin dal momento in cui la procedura è avviata con la notificazione dell’atto di pignoramento, che reca l’avver- timento di cui al citato art. 492, comma 3 c.p.c. Al ricor- rere di una simile evenienza non si comprenderebbe però la ragione di costringere i creditori a redigere un atto di precisazione del credito che dovrebbe servire unicamente al debitore per individuare le somme da considerare ai fi- ni della conversione, fermo restando che la pretesa credi- toria vantata dai creditori che intervengano dopo il depo- sito dell’istanza di conversione non imporrà alcuna inte- grazione della somma già depositata dal debitore conte- stualmente all’istanza, ma sarà valutata dal giudice nella determinazione della somma complessiva da sostituire ai beni pignorati.
Insomma è indubbio che quello prescritto nel primo com- ma dell’art. 596 c.p.c. sia un nuovo onere a carico dei cre- ditori. Infatti, qualora dovesse mancare tale adempimen- to “agli effetti della liquidazione della somma di cui al primo comma dell’articolo 495, il credito resta definitiva- mente fissato nell’importo indicato nell’atto di precetto o di intervento, maggiorato dei soli interessi al tasso legale e delle spese successive”. Si tratta evidentemente di una di- sposizione che ha una funzione sanzionatoria, dato che in caso di inottemperanza il creditore potrebbe ottenere una
[33] Al riguardo all’opinione di chi ritiene debba trattarsi di una mera attività contabile, consistente in un’operazione aritmetica riepilogativa di quanto risulta da- gli atti del fascicolo dell’esecuzione, considerando anche gli interessi maturati e maturandi, oltreché le spese necessarie fino alla chiusura del processo esecutivo (così Xxxxxx, Il processo esecutivo ordinario, Milano, 1994, 287), cui dovrebbe aggiungersi la verifica formale di regolarità degli interventi (così Satta, Commenta- rio al codice di procedura civile, II, rist. 1966, 161; Garbagnati, In tema di conversione del pignoramento, in Riv. dir. proc., 1992, 420), si contrappone quella di chi invece ritiene che il sub-procedimento di conversione del pignoramento costituisca la sede per una cognizione incidentale non solo sui requisiti di legittimazione all’intervento, ma anche sul merito delle rispettive pretese (così Capponi, Conversione del pignoramento e cognizione sui crediti, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1988, 485 e ss.). In giurisprudenza la soluzione prescelta è quella di riconoscere al giudice il potere di determinare la somma mediante una valutazione sommaria delle pretese avanzate dai creditori (così Xxxx. 3 settembre 2007, n. 18538).
[34] Rimane comunque ferma l’audizione delle parti in udienza, così come prescritto dall’art. 495, comma 3 c.p.c., nel corso della quale il giudice potrebbe chie- dere loro dei chiarimenti.
[35] Tra l’altro non è chiara la conseguenza per il creditore che depositi tempestivamente l’atto di precisazione del credito, senza averlo prima notificato al debitore o che indichi nell’atto un’erronea determinazione dell’ammontare del credito. Così Xxxxxxxxxxx, «I nuovissimi mostri» nelle modifiche al c.p.c., cit.
parziale soddisfazione del suo credito qualora gli interes- si legali corrisposti fossero inferiori a quelli convenuti, per recuperare i quali il creditore sarà costretto ad intrapren- dere una nuova procedura esecutiva.
Così come concepita e come collocata all’interno del co- dice di rito la nuova disposizione è destinata a generare soltanto dubbi interpretativi, oltre che - come già rileva- to - una disparità di trattamento tra creditori, per scon- giurare i quali sarebbe bastato inserirla nell’art. 495 c.p.c., prescrivendo che il termine per il deposito dell’atto di pre- cisazione dei crediti venisse indicato dal giudice dell’ese- cuzione anteriormente alla data fissata per l’adozione dell’ordinanza di conversione[36].
Facendo un rapido bilancio delle riforme apportare al processo esecutivo dalla legge di conversione n. 12 del 2019, evidente è l’intento del legislatore di favorire il de- bitore a discapito non solo del creditore, ma della stessa procedura esecutiva e della sua efficienza. Non può infat-
ti non manifestarsi una certa preoccupazione specie per la modifica che in tutta fretta è stata apportata all’art. 560
c.p.c. che, prevedendo un differimento dell’ordine di ri- lascio dell’immobile al momento della pronuncia del de- creto di trasferimento, consente al debitore di continua- re ad abitarlo per tutta la durata del processo espropria- tivo e anche dopo l’aggiudicazione del bene e l’integrale versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario. Il ri- schio è che le vendite forzate tornino ad essere meno ap- petibili, con un inevitabile decremento del prezzo di ven- dita ed un danno anche per il debitore che verrà comun- que privato del suo bene, pur avendolo “comodamente” abitato fino al decreto di trasferimento. Infatti è prevedi- bile che l’immobile ancora occupato dal debitore venga venduto ad un prezzo vile, pregiudicando il creditore che non viene interamente soddisfatto e ripercuotendosi an- che sul debitore, destinato a rimanere tale anche dopo la vendita del bene.
[36] Così X. Xxxxxxx, op. cit.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
LE DECISIONI NELL’UNIONE EUROPEA
La circolazione delle decisioni giudiziarie nel sistema del regolamento Bruxelles I bis - Prima Parte
Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxx
del 15 aprile 2019
Sommario
1. Introduzione: il principio di automatico riconoscimento
2. Il regolamento n. 1215 del 2012 e il “metodo ibrido”
3. L’ambito di applicazione del regolamento n. 1215
4. Alcune definizioni rilevanti nel contesto in esame (in particolare, con riferimento ai provvedimenti cautelari e provvisori)
5. Il riconoscimento delle decisioni degli altri Stati membri tra regolamento n. 44 e n. 1215
6. L’esecuzione immediata
7. La documentazione da allegare (in particolare, per l’attuazione delle decisioni cautelari)
1. Introduzione: il principio di automatico riconoscimento Lo spazio di giustizia europeo, come noto, ha come prin- cipio cardine quello dell’automatico riconoscimento delle decisioni. La libera circolazione dei provvedimenti giudi- ziari rientra, in effetti, tra le libertà fondamentali che l’U- nione europea ha inteso realizzare.
Il riconoscimento automatico delle decisioni si basa su considerazioni economiche e politiche[1]. Dal primo pun- to di vista, uno spazio giudiziario integrato europeo è fun- zionale allo sviluppo economico e alla tutela delle persone che vivono ed operano nel territorio dell’Unione. Le proce- dure intermedie all’esecuzione, inoltre, implicano costi e ri- tardi aggiuntivi nel recupero dei crediti transfrontalieri. Sul piano politico, il superamento delle barriere e dei limiti alla circolazione dei provvedimenti giudiziali attraverso le fron- tiere è considerato un tassello fondamentale per la realizza- zione di una vera Unione di popoli e cittadini.
Il principio del riconoscimento automatico come obiet- tivo dell’azione delle istituzioni europee è stato sancito
dal Consiglio europeo di Tampere del 1999 ed in segui- to è stato recepito dal Trattato di Lisbona del 2009[2], che lo ha posto a base della cooperazione in materia civile. I Programmi dell’Aja del 2005 e di Stoccolma del 2009 ne hanno previsto l’implementazione e lo sviluppo[3]. At- tualmente, le Strategic guidelines del Consiglio europeo continuano a mettere tale principio al centro degli inter- venti in ambito di giustizia civile[4].
A livello politico, il principio di automatico riconosci- mento si basa sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri e l’equivalenza delle giurisdizioni. In sostanza, la fiducia reciproca impone a tutti gli Stati membri di ritenere, sal- ve circostanze eccezionali, che ogni altro Stato membro rispetti il diritto europeo e i diritti fondamentali sanciti in tale ambito[5].
L’obiettivo delle azioni delle istituzioni europee è il supe- ramento delle procedure intermedie tra la pronuncia della decisione in uno Stato membro e la sua esecuzione in uno Stato membro diverso. Attualmente, peraltro, tale obietti-
[1] X. Xxxxxx, Abolition of exequatur, all in the name of mutual trust!, in EU Civil Justice. Current issues and future outlook, a cura di Xxxx, Xxxxxxxxx, Storskrubb, Oxford, 2016, p. 264.
[2] Storskrubb, Mutual recognition as a governance strategy for civil justice, in EU Civil Justice. Current issues and future outlook, cit., p. 302 ss.
[3] V. Storskrubb, op. cit., p. 304; Xxxxxx, op. cit., p. 262.
[4] Storskrubb, op. cit., p. 304
[5] Così l’opinion 2/13 della Corte di giustizia. In materia, v., tra gli altri, Xxxxxxxxxx, In the Court(s) we trust - A procedural solution to the mutual trust dilemma, in Freedom, security & justice: European legal studies, 2017, fasc. 1, p. 26 ss.
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vo è stato realizzato in modo pieno solo in alcuni limita- ti settori. In effetti, lo scenario dei metodi per l’esecuzione delle decisioni nei rapporti tra gli Stati membri dell’Unione è molto variegato. Di tali metodi, in particolare, se ne pos- sono individuare sino a cinque, diversificati tra loro in base alle possibilità e alle modalità offerte al debitore di conte- stare e di opporsi all’esecuzione nei suoi confronti[6].
Solo in alcuni (limitati) ambiti del diritto di famiglia, con- tro la decisione certificata in uno Stato membro non è am- messa alcuna opposizione. In altri casi (come nel regola- mento 1896 del 2006) è previsto un riesame nello Stato di origine. In altri ancora (come nel regolamento n. 650 del 2012 in materia di successioni) è tuttora previsto un mec- canismo di exequatur come quello introdotto dalla con- venzione di Bruxelles del 1968 e poi perfezionato dal re- golamento n. 44 del 2001.
2. Il regolamento n. 1215 del 2012 e il “metodo ibrido”
Nel contesto tratteggiato nel paragrafo precedente, il re- golamento n. 1215 del 2012 (c.d. Bruxelles I bis) che, dal 10 gennaio 2015[7] ha rimpiazzato il regolamento n. 44 del 2001 (Bruxelles I), sulla giurisdizione, il riconoscimen- to delle decisioni in materia civile e commerciale tra gli Stati membri dell’Unione, si colloca in una posizione in- termedia e adotta quello che è stato definito un metodo “ibrido”[8].
In effetti, nella proposta della Commissione di rifusione del regolamento Bruxelles I[9], rispetto all’esecuzione del- le decisioni, si prospettava una soluzione particolarmen- te innovativa, con l’abbattimento del muro dell’exequa- tur, estendendo (con qualche attenuazione) alla generali- tà delle decisioni in materia civile e commerciale i principi sottesi al titolo esecutivo europeo (in particolare, con l’a-
[6] Xxxxxx, op. cit., p. 257 ss.
[7] Ai sensi dell’art. 66, il regolamento si applica solo alle azioni proposte, agli atti pubblici formalmente redatti o registrati e alle transazioni giudiziarie approva- te o concluse alla data o successivamente al 10 gennaio 2015. Il para. 2 della norma prevede altresì che, in deroga all’art. 80, il regolamento n. 44 del 2001 conti- nua ad applicarsi alle decisioni emesse nei procedimenti promossi, agli atti pubblici formalmente redatti o registrati e alle transazioni giudiziarie approvate o con- cluse anteriormente al 10 gennaio 2015 che rientrano nel relativo ambito di applicazione.
[8] Xxxxxx, op. cit., p. 270.
[9] Su cui v. Recasting Brussels I, a cura di Xxxxx, Viarengo, Villata, Padova, 2012; Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Can exequatur be abolished in Brussels I whilst retai- ning a public policy defence?, in 6 Jour. int. priv. law, 2010, p. 249; Xxxxxxxx, L’abolizione dei motivi ostativi al riconoscimento e all’esecuzione nella proposta di re- visione del regolamento Bruxelles I , in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2011, p. 971; Biavati, Judicial cooperation in Europe: is exequatur still necessary?, in Int. jour. proc. law, 2011, p. 403; Xx Xxxxxxxxxx, The abolition of exequatur proceedings: speeding up the free movement of judgments while preserving the rights of the de- fense, ivi, p. 432; Xxxxxxxxx, Provisional measures in the “Brussels I” review: disturbing the status quo?, in 6 Jour. priv. int. law, 2010, p. 519; Xxxxxx, L’ordine pub- blico nel diritto dell’Unione europea, Milano, 2012; Franzina, La garanzia dell’osservanza delle norme sulla competenza giurisdizionale nella proposta di revisione del regolamento “Bruxelles I”, in Cuad. der. trans., Marzo 2011, vol. 3, n. 1, p. 144; Gaudemet-Tallon, La refonte du Règlement Bruxelles I, in La justice civile eu- ropéenne en marche, a cura di Douchy-Pudot, Xxxxxxxxx, Parigi, 2012, p. 21; Xxxxxxx, Creation of subsidiary jurisdiction rules in the recast of Brussels I: back to the drawing board ?, in 8 Jour. priv. int. law, 2012, p. 489; Honorati, Provisional measures and the recast of Brussels I regulation: a missed opportunity for a better ru- ling, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2012, p. 525; Xxxxxx , Cross-border enforcement in the EU: mutual trust versus fair trial? Towards principles of European ci- vil procedure, in Int. jour. proc. law, 2011, p. 202; Xxxxxxx, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 (“Bruxelles I bis”), in Giusto proc. civ., 2013, p. 583; Xxxxx, M.A., La proposta di modifica del regolamento n. 44 del 2001: le norme sulla giurisdizione, in G iustizia senza confini. Studi offerti a Xxxxxxxx Xxxxx, Bo- logna, 2012, p. 281; Xxxxxxxx Xxxxxxxxx, La disciplina della litispendenza nei rapporti tra giudici di paesi membri e giudici di paesi terzi nella proposta di revisio- ne del regolamento n. 44/2001 , in Riv. dir. internaz., 2011, p. 496; Rasia, Arbitrato e regolamento Ce n. 44 del 2001: permane l’esclusione dal campo di applicazio- ne? Note a margine della proposta della Commissione per la riforma del regolamento, in G iustizia senza confini. Studi offerti a Xxxxxxxx Xxxxx, cit., p. 391; Sandri- ni, Tutela cautelare in funzione di giudizi esteri, Padova, 2012, p. 405 ss.; Xxxxxxx, Vasiliades, The enforcement of jurisdiction agreements under the Brussels I re- gulation: reconsidering the principle of party autonomy, in Jour. priv. int. law, 2010, p. 565; Xxxxxxxxxx, Commentaire de la refonte du règlement n. 44/2001, in Rev. trim. dr. eur., 2011, p. 1; Xxxxxx, La proposta per la riforma del regolamento “Bruxelles I” e i provvedimenti provvisori, in 3 Cuad. der. transn. 11, fasc. 2, 170; Ca- chia, Recent developments in the sphere of jurisdiction in civil and commercial matters, in Elsa Malta law rev., 2011, p. 69; Xxxxxx, L’abolizione dell’exequatur nella proposta di revisione del regolamento n. 44/2001: quale destino per i motivi di rifiuto del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni R. d. int. 11, 832; Miglio- rini, Xxxxx propose di modifica del regolamento 44/2001 in tema di competenza relativa alle controversie individuali di lavoro R. d. int. 10, 89; Pocar, Con la nuova proposta di abolizione dell’exequatur lo spazio giuridico europeo cerca il rafforzamento G. d. 11, fasc. 6, 8; Salerno, Coordinamento e primato tra giurisdizioni civili nella prospettiva della revisione del regolamento (CE) n. 44/2001 , in Cuadernos der. trans., 2010, fasc. 1, p. 5; Rossolillo, Forum necessitatis e flessibilità dei cri- xxxx di giurisdizione nel diritto internazionale privato nazionale e dell’Unione europea, in 2 Cuadernos derecho trans., 2010, p. 403; Xxxxxxx, La proposta per la ri- forma del regolamento “Bruxelles I” e l’arbitrato, in Riv. dir. int., 2011, p. 177; Bariatti, I profili internazionali del contrasto alla contraffazione: le prospettive di ri- forma del Regolamento (CE) 44/2001 , in Dir. ind., 2011, p. 169; Briza, Choice of court agreements: could the Hague choice of court agreements convention and the reform of the Brussels I regulation be the way out of the Xxxxxx-Xxxxx disillusion?, in 5 Jour. priv. int. law, 2009, p. 537.
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bolizione di ogni procedura intermedia di controllo nello Stato membro richiesto), al fine di accelerare i tempi e ri- durre i costi del recupero dei crediti attraverso le frontie- re[10], assicurando un effettivo accesso alla giustizia nel territorio europeo[11].
Tale proposta è stata ritenuta prematura a livello poli- tico. L’esclusione di ogni possibilità di opposizione nel- lo Stato ad quem rappresentava, in effetti, una “fuga in avanti” che gli Stati membri non erano pronti a recepire. La proposta della Commissione è così uscita fortemen- te ridimensionata dal passaggio avanti al Parlamento nel novembre 2012, anche alla luce di critiche e perplessità espresse della dottrina[12].
Per quanto più ci interessa qui, nel testo finale del regola- mento n. 1215 si è preferita una soluzione di compromes- so: da un lato, è stato in effetti eliminato il filtro dell’exe- quatur, prevedendo l’immediata esecuzione delle decisio- ni rese negli altri Stati membri; dall’altro, si continua a ri- conoscere al debitore la possibilità di opporsi all’esecu- zione nello Stato ad quem, sulla base degli stessi motivi già previsti dal regolamento Bruxelles I[13], ma con mo- dalità procedurali diverse[14].
3. L’ambito di applicazione del regolamento n. 1215
Il nuovo regime di esecuzione immediata si applica alle decisioni rientranti nell’ambito di applicazione del rego- lamento n. 1215.
Da questo punto di vista, la refusione del regolamento Bruxelles I non ha introdotto particolari novità.
Rispetto all’ambito “territoriale” di applicazione, esso in- clude tutti gli Stati membri, compresi Regno Unito, Irlan- da e Danimarca, la quale ha manifestato la sua volontà in tal senso, ai sensi dell’art. 3 dell’accordo del 2005 tra tale Stato e la Comunità europea.
Dal punto di vista oggettivo, rispetto alle materie inclu- se ed escluse dall’ambito di applicazione della normati- va uniforme, l’art. 1 del regolamento n. 1215 riproduce il testo dell’omologa norma di Bruxelles I, con qualche in- novazione.
In primo luogo, nel para. 1, si specifica che il regolamento
n. 1215 non si applica alla responsabilità dello Stato per atti o omissioni nell’esercizio di pubblici poteri (acta iure imperii): non si tratta, peraltro, di una novità di sostanza, in quanto la Corte di giustizia era giunta ad intendere la “materia amministrativa” proprio con riferimento a quel- le situazioni in cui un soggetto pubblico si trova in una posizione di imperio rispetto alla sua controparte.
Tra le materie escluse, nella lett. a), al regime patrimonia- le fra coniugi si è equiparato il regime patrimoniale deri- vante da rapporti che secondo la legge applicabile a questi ultimi hanno effetti comparabili al matrimonio: si è così preso atto del diffondersi negli Stati membri di modelli di unione familiare non fondati sul matrimonio ma cui sono riconosciuti effetti equiparabili a quelli del vincolo coniu- gale tradizionale. Già rispetto alla vecchia norma, peral- tro, per via interpretativa, era possibile pervenire al mede- simo risultato[15].
Per i testamenti e le successioni vi è stata solo una modi-
[10] Xxxxxxxx-Xxxxxx, op. cit., p. 27; Xxxxxxxxx, Some remarks on the efficiency of exequatur, in Law working paper series. Paper n. 2012-01, xxxx://xxxxxx.xxxx. com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1998030, p. 569.
[11] Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 12, Xxxxxxxxx, Xxxxx, Abolition of exequatur. Addressing the Commission’s concerns, in Law working paper series, 12-10-2010; Di- ckinson, op. cit., p. 6 s.; Xxxxxx, Abolition of exequatur under the Brussels I Regulation: effecting and protecting rights in the European judicial area, in Neth. int. priv., 2011, p. 633 s.: Biavati, op. cit., p. 421; Xxxxxx, L’ordine pubblico nel diritto dell’Unione europea, 2012, p. 213 ss.; id, L’abolizione dell’exequatur nella propo- sta di revisione del regolamento n. 44/2001: quale destino per i motivi di rifiuto del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in Riv. dir. int., 2011, 832; Bia- gioni, L’abolizione dei motivi ostativi al riconoscimento e all’esecuzione nella proposta di revisione del regolamento Bruxelles I in Riv. d. int. pr. proc., 2011, p. 971.
[12] Rispetto ai nuovi criteri di collegamento Lupoi, M. A., La proposta di modifica, cit., p. 287, 309; Xxxxxxxxx, op. cit., p. 3; Xxxxx, op. cit., p. 20. Rispetto al con- testo dell’exequatur, v. Xxxxxxx Xxxxxx, On the abolition of exequatur, in EU Civil Justice. Current issues and future outlook, cit., p. 283.
[13] Su questa soluzione Cuniberti, Xxxxx, op. cit., p. 20 ss.; rispetto alla proposta della Commissione, Biavati, op. cit., p. 428, si era mostrato favorevole, sep- pur ritenendo necessaria l’introduzione di alcuni correttivi al superamento dell’exequatur; più prudente De Cristofaro, op. cit., p. 450, per cui una forma di controllo nello Stato di esecuzione costituisce l’unico modo per garantire il giusto processo; sulle reazioni alla proposta su questo punto Xxxxxx, L’ordine pubblico cit., p. 216 ss., che riteneva a sua volta necessario bilanciare il diritto del creditore ad ottenere l’esecuzione negli Stati membri delle decisioni emesse da giudici dell’Unione e il diritto del debitore a vedersi garantiti i diritti fondamentali
[14] Anche se il testo finale del regolamento è più “timido” rispetto alla proposta della Commissione, il regolamento stesso riconosce al creditore un vero e pro- prio diritto all’esecuzione: x. Xxxxxxxxx, La circolazione delle sentenze di condanna alla luce del regolamento n. 1215/2012: sistemi di esecuzione e riconoscimento a confronto, in Ordines, 2015, fasc. 2, p. 185 e i riferimenti in nota 61.
[15] Xxxxx, M.A., R apporti patrimoniali tra coniugi e provvedimenti riconoscibili, in A.A.V.V., Il riconoscimento reciproco dei provvedimenti in materia di regime pa- trimoniale tra coniugi o tra conviventi, Napoli, 2007, p. 43 s.
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fica formale: la materia, infatti, è stata espunta dalla lett.
a) per essere trasferita nella nuova lett. f). Tale materia, in effetti, è oggi disciplinata, a livello europeo, dal regola- mento n. 650 del 2012. La nuova “eccezione” all’interno di Bruxelles I bis, peraltro, specifica che devono intender- si escluse anche le obbligazioni alimentari mortis causa. La lett. d) fa riferimento alla tradizionale esclusione dell’arbitrato, senza ulteriori specificazioni. Il conside- rando 12, d’altro canto, per quanto qui di rilievo, espli- cita che la decisione dell’autorità giurisdizionale di uno Stato membro relativa alla nullità, inoperatività o inap- plicabilità di una convenzione arbitrale non dovrebbe es- sere soggetta alle disposizioni del regolamento in materia di riconoscimento ed esecuzione, indipendentemente dal fatto che l’autorità giurisdizionale abbia adottato tale de- cisione in via principale o in via incidentale: con questa affermazione si esclude che il giudice della sede dell’arbi- trato possa essere costretto a riconoscere, ad sensi della normativa comune europea, le decisioni a qualsiasi tito- lo rese in altri Stati sulla validità \ efficacia della conven- zione arbitrale.
Il considerando 12 chiarisce pure che la decisione adotta- ta da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro che eserciti la competenza giurisdizionale in base al regolamen- to o al suo diritto nazionale, che dichiara nulla, inoperan- te o inapplicabile una convenzione arbitrale non dovreb- be impedire il riconoscimento e, se del caso, l’esecuzione, conformemente al regolamento in esame, della decisione dell’autorità giurisdizionale nel merito della controversia, senza pregiudizio della competenza delle autorità giurisdi- zionali degli Stati membri a decidere sul riconoscimento e sull’esecuzione dei lodi arbitrali conformemente alla con- venzione per il riconoscimento e l’esecuzione delle senten- ze arbitrali straniere di New York del 10 giugno 1958, che prevale sul regolamento ai sensi dell’art. 73.
Il considerando 12, inoltre, recepisce le indicazioni già in precedenza fornite dalla Corte di giustizia, chiarendo, ove ve ne fosse stato bisogno, che il regolamento non dovreb- be applicarsi, inter alia, alle cause o alle decisioni riguar- danti l’annullamento, il riesame, l’impugnazione, il rico- noscimento o l’esecuzione di un lodo arbitrale.
Tra le materie escluse dall’applicazione del regolamento, inoltre, figurano oggi anche le obbligazioni alimentari de- rivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimo- nio o di affinità, cui è dedicata una nuova lett. e). La ma- teria, in effetti, è oggi disciplinata dal regolamento n. 4 del 2009, come evidenzia il considerando 10. In tale ambito, opera uno specifico metodo di esecuzione delle decisioni, definito “metodo internazional-privatistico”.
4. Alcune definizioni rilevanti nel contesto in esame
(in particolare, con riferimento ai provvedimenti cautelari e provvisori)
Tra gli elementi di novità introdotti in sede di rifusione del regolamento Bruxelles I, si segnala l’introduzione di una norma ad hoc (art. 2) per “definire” alcune delle no- zioni utilizzate nel nuovo regolamento.
Alcune di tali definizioni riguardano anche l’ambito della circolazione delle decisioni.
In particolare, la nozione di decisione fornita dalla lett. a) è ripresa dall’art. 32 del regolamento n. 44 del 2001 per quanto riguarda la prima parte[16]. Si conferma, dunque, che il regime uniforme di libera circolazione delle decisio- ni non riguarda solo le sentenze, ma tutte le “decisioni” rese da un organo giurisdizionale, a prescindere dalla de- nominazione utilizzata, purchè dotate di esecutività nel- lo Stato di origine.
La seconda parte della lett. a), invece, “esplicita” risulta- ti a cui si era già arrivati in precedenza per via interpre- tativa.
In primo luogo, si chiarisce che solo i provvedimenti provvisori e cautelari emessi da un’autorità giurisdizio- nale competente a conoscere nel merito ai sensi del rego- lamento sono idonei a circolare all’estero, ad esclusione, dunque, di quelli emessi ai sensi dell’ex art. 31 (ora 35) dal giudice non competente del merito, del luogo di esecuzio- ne della misura richiesta[17]. Al riguardo, il considerando 33 è molto esplicito. In effetti, dopo che la Corte di xxxxxx- xxx aveva affermato che il foro cautelare alternativo pre- suppone la possibilità di eseguire il provvedimento nel- lo Stato del foro, si poteva già ritenere che tale provvedi- mento non fosse idoneo all’esportazione. L’odierna preci-
[16] “A prescindere dalla denominazione usata, qualsiasi decisione emessa da un’autorità giurisdizionale di uno Stato membro, compresi un decreto, un’ordinan- za, una decisione o un mandato di esecuzione, nonché una decisione relativa alla determinazione delle spese giudiziali da parte del cancelliere”.
[17] V. anche Xxxxxxxx, Il nuovo sistema delle misure provvisorie e cautelari nel reg. UE n. 1215 del 2012 , in Riv. trim. dir. proc. civ., 2013, p. 1480. Per una criti- ca a tale formulazione v. Honorati, Provisional measures, cit., p. 528 ss., per cui, p. 532, la soluzione raggiunta dal legislatore “is clearly inconsistent with the ge- neral aim of the Regulation to xxxxxx and strengthen the circulation of judgments”.
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sazione è comunque utile perché risolve un’accesa diatri- ba interpretativa[18].
Come si vedrà infra, il giudice che emette il cautela- re autocertifica la sua eventuale competenza per il meri- to, nell’apposito modulo rilasciato ai sensi dell’art. 53. In questo modo, si semplificano i meccanismi esecutivi del provvedimento cautelare all’estero, senza possibilità, vi è da ritenere, che l’autorità esecutiva dello Stato ad quem possa contestare la valutazione del giudice d’origine cir- ca la natura della propria competenza. Alla luce dei prin- cipi della fiducia reciproca e dell’equivalenza tra le giuri- sdizioni, infatti, nell’ambito dello spazio europeo di giu- stizia, di norma, i giudici di uno Stato membro non pos- sono interferire con le decisioni dei giudici degli altri Sta- ti membri in merito alla sussistenza della propria giuri- sdizione. Al riguardo, dunque, possono essere considera- ti solo strumenti di diritto interno: da un lato, per con- testare le valutazioni del giudice adito in merito al crite- rio di collegamento invocabile nella fattispecie (ad esem- pio, in sede di reclamo exart. 669- terdecies c. p. c.)[19]; dall’altro, per correggere eventuali “errori” nella compi- lazione del modulo di cui all’art. 53 del regolamento (in cui, ad esempio, si sia accreditata la competenza sul meri- to del giudice che ha emesso il provvedimento quando da tale decisione emerga, invece, l’applicazione dell’art. 35). Il legislatore europeo, tratteggiando la dicotomia tra provvedimenti del giudice di merito e provvedimenti del giudice del luogo di attuazione, lascia aperti dubbi di non poco rilievo.
Nessun problema si pone quando già pende il procedi- mento sul merito, azionato in forza di uno qualsiasi dei criteri uniformi di collegamento giurisdizionale. Se l’i- stanza cautelare è proposta al giudice di tale procedimen- to, il relativo provvedimento sarà destinato a circolare all’estero; se, invece, viene adito il giudice di un altro Sta- to membro, la decisione cautelare potrà trovare attuazio- ne solo in ambito “locale”.
Un primo problema si pone nell’ipotesi in cui la misu- ra cautelare sia chiesta al giudice della causa di merito il
quale poi abbia a dichiararsi incompetente. Nell’esperien- za italiana, la contestazione della competenza del giudice adito non priva quest’ultimo del potere di emettere misu- re cautelari in corso di causa e una pronuncia di incompe- tenza non determina ipso facto l’inefficacia della misura cautelare. Nel nostro contesto specifico, peraltro, anche per contrastare situazioni di forum shopping, si deve rite- nere che la parte interessata, dopo una pronuncia di difet- to di giurisdizione, possa chiedere la correzione o la revo- ca del modulo emesso ai sensi dell’art. 53, essendo venuto meno il presupposto per la circolazione del provvedimen- to in questione tra gli Stati membri.
Le ipotesi più difficili sono, però, quelle relative alle cau- tele chieste ante causam: la proposizione di un’istanza cautelare in uno Stato membro, infatti, non rende ancora operanti le norme europee sulla litispendenza e sulla con- nessione tra cause e nulla impedisce la proposizione di al- tre istanze cautelari o del procedimento di merito in uno Stato membro diverso da quello adito con la prima azio- ne per provvedimenti provvisori[20].
In generale, mi pare da respingere la tesi per cui, prima dell’inizio della causa di merito, si debba presumere che i provvedimenti cautelari siano comunque emessi ai sen- si dell’art. 35 e dunque non destinati alla circolazione[21]. La normativa europea, in effetti, non impone la penden- za attuale del processo di merito né la necessaria instau- razione di tale giudizio entro un termine peraltro non in- dividuato né individuabile e sarebbe irragionevole pensa- re che la parte che voglia ottenere una misura cautelare con effetti extraterritoriali sia costretta a dare corso ad un procedimento di merito che, in base alla normativa appli- cabile, potrebbe restare meramente eventuale.
È necessario trovare, quindi, una soluzione che unisca “semplicità” e rispetto dello spirito e della ratio della nor- mativa comune europea, partendo dall’osservazione che il sistema di Bruxelles I bis dà per scontato che vi possa essere una pluralità di corti nazionali competenti sul me- rito di una controversia. In applicazione della norma sul- la pendenza della lite di cui all’art. 32, inoltre, la lite sul
[18] In arg. x. Xxxxx, M. A., L’attuazione negli altri Stati membri dei provvedimenti provvisori e cautelari nel regolamento UE n. 1215 del 2012 (Bruxelles I bis), in Il processo esecutivo, a cura di Xxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 1517 ss.
[19] Deve, in effetti, ritenersi sussistere un interesse della parte soccombente a proporre reclamo contro il provvedimento emesso nei suoi confronti anche solo per “rettificare” il criterio di collegamento giurisdizionale cui abbia fatto riferimento il giudice: per il soccombente, infatti, dalla prospettiva di circolazione del provve- dimento cautelare concesso sull’erroneo presupposto della sussistenza della competenza sul merito deriva un interesse giuridicamente rilevante a un riesame del- la decisione sul punto.
[20] Su questi aspetti problematici v. Honorati, op. cit., p. 538 ss.
[21] Riserve su questa opzione interpretativa anche di Xxxxxxxx, op. cit., p. 540.
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merito pende solo dal momento in cui la domanda intro- duttiva viene notificata o depositata nella cancelleria del giudice. Sino a quel momento, si deve ritenere che possa essere simultaneamente proposta una pluralità di istanze cautelari in Stati membri diversi e che i giudici così adi- ti si possano, simultaneamente, ritenere competenti per il merito ai (limitati) fini della circolazione del provvedi- mento che andranno eventualmente a concedere. Il con- corso di provvedimenti cautelari a effetti extraterritoriali sarà, se del caso, risolto in base alle norme sul contrasto di decisioni (v. infra).
D’altro canto, la competenza per il merito è da valuta- re con riferimento alla situazione di fatto e di diritto esi- stente alla data di proposizione dell’istanza cautelare. Ciò vuol dire che un giudice adito con un’istanza cautelare ed ipoteticamente competente per la decisione del relati- vo merito può emettere una misura cautelare ad effetti ex- traterritoriali anche se, dopo la proposizione dell’istanza stessa, il procedimento di merito sia cominciato in un al- tro Stato membro.
La lett. a) del nuovo art. 2, inoltre, “chiarisce” che, nella nozione di decisione, ai fini del riconoscimento e dell’ese- cuzione, non rientrano i provvedimenti provvisori e caute- lari emessi dall’autorità giurisdizionale competente per il merito senza che il convenuto sia stato invitato a compa- rire, a meno che la decisione contenente il provvedimen- to sia stata notificata o comunicata al convenuto stesso pri- ma dell’esecuzione: anche qui si recepisce la giurispruden- za della Corte di giustizia che aveva, in più occasioni, ne- gato la circolazione ai provvedimenti interinali o cautela- ri emessi inaudita altera parte, se non dopo avere offerto al convenuto la possibilità di farvi opposizione. Il conside- rando 33, d’altro canto, sostiene che ciò non esclude il rico- noscimento o l’esecuzione dei provvedimenti provvisori ai sensi della normativa locale più favorevole eventualmente applicabile. Si è voluto così operare un compromesso tra il garantismo della normativa europea ed eventuali disposi- zioni nazionali più favorevoli al soggetto in favore del quale sia stata emessa una misura cautelare inaudita altera par- te. Per l’Italia, questa “clausola di salvezza” non ha ambi- to operativo, considerato che, in forza della normativa in- terna sul riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni (art. 64 xx. x. x. 000 xxx 0000), xx xxxxx, xxxx provvedimenti pas- sati in giudicato possono trovare ingresso nel nostro Paese.
Il riconoscimento delle decisioni degli altri Stati membri tra regolamento n. 44 e n. 1215
Come noto, parlando di “riconoscimento” delle decisioni straniere, si fa riferimento alla valorizzazione nello Stato
degli accertamenti sul diritto sostanziale compiuti da un giudice estero. L’esecuzione, invece, concerne l’attuazio- ne nello Stato di provvedimenti emessi nell’ambito di un procedimento straniero.
Rispetto al riconoscimento, il regolamento n. 1215 non apporta novità rispetto a un principio (quello dell’auto- maticità) già previsto dalla convenzione del 1968 e con- fermato dal regolamento n. 44. Nel regolamento Bruxel- les I, peraltro, in caso di contestazione, si doveva accerta- re per via giudiziale l’esistenza di eventuali motivi ostati- vi al riconoscimento (art. 33). L’esecuzione dei provvedi- menti stranieri richiedeva, invece, la concessione del c.d. exequatur da parte del giudice dello Stato ad quem, con il ricorso a una procedura semplificata.
Nel regolamento n. 44, il procedimento previsto per il ri- conoscimento (in caso di contestazione) o per l’exequa- tur aveva carattere monitorio: l’interessato depositava un ricorso al giudice indicato come competente dal regola- mento (per l’Italia, la Corte d’appello), allegando i docu- menti elencati dall’art. 53. Il giudice, senza potere esami- nare, in questa fase, osservazioni del convenuto, compiu- ti alcuni adempimenti formali, doveva concedere, con de- creto, il riconoscimento o l’exequatur, senza potere rileva- re, d’ufficio, l’esistenza di uno dei motivi di diniego previ- sti dal regolamento. Il provvedimento veniva a quel pun- to notificato alla controparte insieme al relativo ricorso. A far data dalla regolare notificazione del provvedimen- to, la controparte aveva un mese di tempo (due, se domici- liata in uno Stato membro diverso), per proporre opposi- zione. Si instaurava così un procedimento di accertamen- to, nel contraddittorio delle parti, nell’ambito del quale si potevano esclusivamente valutare i motivi di diniego di cui agli artt. art. 34 e art. 35, essendo espressamente escluso ogni riesame nel merito della decisione straniera. Il procedimento di opposizione, peraltro, poteva essere sospeso in caso di impugnazione di tale decisione nell’or- dinamento di provenienza. Inoltre, in pendenza dell’op- posizione, non poteva procedersi ad atti di esecuzione del- la decisione straniera, ma solo a provvedimenti “conser- vativi”, a tutela del credito della parte opposta, per la cui concessione non era richiesto né fumus boni juris né peri- culum in mora (art. 47).
Nel regolamento n. 1215, il principio del riconoscimento automatico è sancito dall’art. 36 (che corrisponde, con al- cuni adattamenti, all’art. 33 del regolamento n. 44), con la conferma della possibilità per ogni parte interessata di chiedere una decisione giudiziale che attesti la mancan- za di motivi di diniego del riconoscimento. Non si fa pe- rò più riferimento alla “contestazione” della controparte,
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“liberalizzando” così, sul piano della legittimazione atti- va, la procedura di riconoscimento (azionabile peraltro solo dalla parte “interessata”, a cui dunque possa deriva- re un’utilità giuridica da tale riconoscimento).
È stato parzialmente modificato anche il para. 3, sul c.d. riconoscimento incidentale. Oggi, infatti, si prevede che il giudice di merito, che conosca di una causa rispetto al- la quale si ponga come preliminare una richiesta di dinie- go di riconoscimento, possa decidere su tale questione in via incidentale. La norma sembra fare espresso riferimen- to alle situazioni disciplinate dagli artt. art. 33 e art. 34, in cui il giudice di uno Stato membro può trovarsi a dichia- rare l’estinzione del procedimento dopo avere delibato la riconoscibilità della sentenza straniera. Ove la questione sia controversa tra le parti, la norma chiarisce che il giudi- ce possa decidere sul punto incidenter tantum, senza do- vere attendere che, sulla questione, si pronunci il g. del ri- conoscimento proposto in via principale.
Ai sensi dell’art. 37, i soli documenti da produrre, ai fi- ni del riconoscimento, sono una copia autentica della de- cisione e un attestato rilasciato dal giudice d’origine ri- empiendo un modello allegato al regolamento. Tali docu- menti non devono neppure essere tradotti. La traduzio- ne dell’attestato di cui alla lett. b), o della sentenza se ne- cessario, può (non deve) essere richiesta dal giudice, come precisa il para. 2, sostanzialmente corrispondente all’art. 55, para. 2 del regolamento n. 44. Si conferma, così, la volontà del legislatore europeo di ridurre le formalità ed i costi della circolazione delle decisioni.
A tutela della parte contro cui viene chiesto il riconosci- mento, l’art. 38 prevede la possibilità che il giudice dello Stato ad quem possa sospendere (totalmente o parzial- mente) il procedimento nel quale sia invocata una deci- sione emessa in uno Stato membro, qualora la decisione sia stata impugnata nello Stato membro d’origine (come già prevedeva l’art. 37, para. 1 del regolamento n. 44) o qualora sia stata presentata una domanda al fine di ac- certare che non sussistono motivi di diniego del ricono- scimento di cui all’articolo 45 ovvero al fine di accerta- re che il riconoscimento deve essere negato per uno dei
predetti motivi. Tale seconda ipotesi prevede, dunque, un rapporto di pregiudizialità tra il procedimento di ri- conoscimento ed il giudizio in cui la decisione stranie- ra sia stata invocata, con sospensione, però, facoltativa e non obbligatoria.
6. L’esecuzione immediata
È in materia di esecuzione che, come si è detto, si registra la principale novità del regolamento n. 1215 sul piano si- stematico. Al riguardo, infatti, l’art. 39 prevede il supera- mento della necessità di ottenere l’exequatur nello Stato di esecuzione prima di potervi dare attuazione alla deci- sione straniera[22].
Si è già anticipato che, nel testo finale del regolamento, si lascia al debitore la possibilità di chiedere il diniego dell’esecuzione nello Stato di esecuzione, senza recepire la proposta della Commissione che riduceva gli spazi per il debitore di opporsi all’esecuzione stessa[23].
Per i commentatori, si è trattato di una scelta saggia, che bilancia la fiducia reciproca con il principio del giusto processo[24].
Il considerando 26 giustifica la scelta del legislatore in questo ambito con la volontà di ridurre la durata e i costi dei procedimenti giudiziari transfrontalieri ed indica, co- me conseguenza del nuovo sistema, che la decisione emes- sa dall’autorità giurisdizionale di uno Stato membro deb- ba essere trattata come se fosse stata pronunciata nello Stato membro interessato per l’esecuzione.
L’art. 39, in modo programmatico, stabilisce che ogni de- cisione esecutiva nello Stato membro di origine lo sia pu- re, automaticamente, negli altri Stati membri, senza biso- gno di dare corso, in loco, ad ulteriori attività giudiziarie. Le implicazioni di questa novità sono evidenti sia a livello teorico, sul piano del maggiore livello di integrazione tra gli ordinamenti nazionali, sia a livello pratico, con un evi- dente risparmio di tempo e denaro per il creditore tran- sfrontaliero[25].
In coerenza con il superamento dell’exequatur per le deci- sioni in materia civile e commerciale[26]], il nuovo art. 40 rende automatica la concessione di misure cautelari nel-
[22] Su queste tematiche, di recente, Xxxxxx, Cross-border enforcement in the EU, cit., p. 204 s.; Xxxxxxx, op. cit., p. 406 ss.; De Cristofaro, op. cit., p. 438 ss.
[23] Xxxxxx, in xxx.xxxxxxxx.xxx.
[24] X. Xxxxxx, Cross-border enforcement in the EU, cit ., p. 221; Xxxxxxxxx, Some remarks on the efficiency of exequatur, cit., p. 575, peraltro, osserva che la viola- zione del diritto al giusto processo si verifica in meno dell’1% dei casi.
[25] Come conseguenza di tale innovazione, nel nuovo regolamento sono state abrogate le norme di cui agli artt. 38, da 39 a 48, 50, 52, 53, 55, para. 1 del rego- lamento n. 44 del 2001, incompatibili con il nuovo sistema.
[26] X. Xxxxxxxx, La tutela del creditore in pendenza del procedimento di exequatur nel regolamento Bruxelles I, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2012, p. 613.
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lo Stato di esecuzione a tutela di una decisione esecutiva nello Stato d’origine.
Il nuovo art. 41, dal canto suo, chiarisce che l’esecuzio- ne concreta della decisione stranierà è disciplinata dalla lex fori, salvo quanto previsto dal regolamento. Si tratta di una previsione forse superflua (ma che richiama quella di altri regolamenti europei in ambito processuale), consi- derato che, sinora, il legislatore dell’Unione si è guardato dall’intervenire per l’armonizzazione delle regole dell’ese- cuzione forzata. Il para. 2, peraltro, pone un limite all’o- perare della lex fori, stabilendo che i motivi di diniego o di sospensione dell’esecuzione previsti dalla legge nazionale si applicano solo in quanto non incompatibili con i moti- vi di cui all’art. 45.
Al riguardo, il considerando 30 precisa che la parte che si oppone all’esecuzione di una decisione emessa in un altro Stato membro dovrebbe, nei limiti del possibile e confor- memente al sistema giuridico dello Stato membro xxxxxx- xxx, poter invocare, nella medesima procedura, oltre ai mo- tivi di diniego contemplati dal regolamento, i motivi di di- niego previsti dal diritto nazionale ed entro i termini pre- visti da tale diritto. Tuttavia, il riconoscimento di una de- cisione dovrebbe essere negato solo in presenza di uno o più dei motivi di diniego previsti dal regolamento in esame. Al riguardo, si osserva che il riferimento compiuto ai “motivi di diniego dell’esecuzione previsti dalla legge dello Stato membro richiesto” non riguarderebbe i mo- tivi ostativi (al “riconoscimento” ed) alla “esecuzione” che ciascuno Stato membro individua al fine di negare ingresso nel proprio territorio a decisioni non rientran- ti nell’ambito oggettivo o soggettivo di applicazione della disciplina comunitaria uniforme, bensì le circostanze che, secondo il diritto interno, possono costituire altrettanti motivi di opposizione all’esecuzione forzata propriamen- te intesa[27]. Si afferma pure che il legislatore europeo sembrerebbe voler mantenere una certa “autonomia” del- la procedura che la domanda di diniego dell’esecuzione è idonea ad instaurare rispetto ai rimedi giurisdizionali che ogni singolo Stato membro concede al debitore per conte- stare il diritto di procedere ad esecuzione forzata (per mo- tivi di rito e/o di merito)[28].
Il para. 3, infine, nell’ottica della deformalizzazione del- le procedure, esonera la parte che chiede l’esecuzione dal munirsi di recapito postale nello Stato richiesto o di rap- presentante autorizzato, salvo che tale rappresentanza sia obbligatoria nello Stato a prescindere dalla cittadinanza o dal domicilio delle parti, come nel caso dell’Italia.
7. La documentazione da allegare (in particolare, per l’attuazione delle decisioni cautelari)
Anche ai fini dell’esecuzione, si richiedono una copia autentica della decisione e l’attestato rilasciato ai sen- si dell’art. 53 (che, a sua volta, rinvia al modulo di cui all’all. I e che fornisce gli elementi necessari a consenti- re l’immediata esecuzione della decisione negli altri Stati membri, senza bisogno di exequatur). Tale attestato certi- fica l’esecutività della decisione e, dunque, in Italia sosti- tuisce l’apposizione della formula esecutiva (art. 42)[29]. Una documentazione più dettagliata è peraltro richiesta per l’esecuzione di provvedimenti provvisori o cautelari emessi in un altro Stato membro.
Per questi ultimi, in particolare, oltre alla copia autentica della decisione, si richiede che il modulo di cui all’allegato 1 contenga una descrizione del provvedimento e certifichi (al punto 4.6.2.2.1) che l’autorità giurisdizionale è com- petente a conoscere del merito e che la decisione è esecu- tiva nello Stato membro d’origine (come si è visto, infatti, solo in questo caso i provvedimenti provvisori e cautelari sono idonei alla circolazione).
La semplice lettura della “casellina” all’uopo prevista nel modulo compilato dal giudice d’origine, dunque, dovreb- be consentire all’autorità incaricata dell’attuazione del provvedimento straniero di verificare se esso rientri nella nozione di decisione cautelare riconoscibile di cui all’art. 2, lett. a). Ciò lascia pensare che il giudice ad quem non abbia margini di valutazione rispetto alla competenza “sul merito” del giudice a quo, in linea con il tradizionale approccio seguito nell’ambito del sistema di giustizia eu- ropea, ove si limitano al minimo i controlli sulla compe- tenza indiretta del giudice d’origine.
Inoltre, ai sensi della lett. c) del para. 2 dell’art. 42, il ri- chiedente, qualora il provvedimento cautelare sia stato di-
[27] Xxxxxx, xxx.xxxxxxxx.xxx, che evidenza l’incertezza sul modo di delineare un rapporto di (in)compatibilità tra circostanze che possono condurre all’accerta- mento della insussistenza del diritto di procedere ad esecuzione forzata in relazione a qualsiasi titolo esecutivo, a prescindere dalla sua “provenienza”, e motivi che detto diritto finiscono con l’escludere in ragione della “irriconoscibilità” tout court della decisione nello Stato membro richiesto.
[28] Xxxxxx, in xxx.xxxxxxxx.xxx.
[29] Sull’attestato disciplinato dall’art. 53 x. Xxxxxxx, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea alla luce del reg. UE n. 1215/2012 , in Il processo esecuti- vo, a cura di Xxxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxx, Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 190 ss., che evidenzia le possibili difficoltà nella sua compilazione.
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sposto senza che il convenuto sia stato invitato a compa- rire, deve fornire la prova della notificazione o comunica- zione della decisione. In altre parole, si deve soddisfare il presupposto cui fa riferimento il considerando n. 25, alla cui stregua l’attuazione di una misura inaudita altera par- te non può avere luogo prima che al destinatario sia stato comunicato o notificato il provvedimento in questione, al fine di consentirgli di dare corso all’eventuale opposizio- ne al riconoscimento o all’exequatur[30].
Il regolamento n. 1215 tenta, qui, un difficile compromes- so tra le ragioni del creditore e quelle del debitore, ma il risultato rende perplessi: in ogni caso, infatti, l’onere di previa notifica della decisione emessa inaudita altera par- te farà venire meno l’effetto sorpresa.
D’altro canto, ai sensi dell’art. 40 del regolamento, una decisione esecutiva implica di diritto l’autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari previsti dalla lex fo- ri dello Stato di esecuzione. Questa disposizione, a un pri- mo esame, appare sostanzialmente irrilevante nel conte- sto qui esaminato: che senso potrebbe avere, infatti, ot- tenere misure cautelari in attesa di attuare altre misure cautelari? A ben vedere, però, il combinato disposto de- gli artt. 42 e 40 induce a ritenere che chi voglia dare attua- zione a un provvedimento cautelare emesso inaudita alte- ra parte, prima di notificare la decisione, in ottemperan- za al requisito di cui alla lett. c) dell’art. 42, para. 2, possa richiedere la concessione automatica di un provvedimen- to cautelare, in ipotesi dal contenuto identico a quello del
provvedimento (a sua volta cautelare) di cui già dispone, anche questo inaudita altera parte, in base alle norme del- la lex fori, dimostrando ad esempio i presupposti di cui al nostro art. 669 c. p. c.
Il regolamento, d’altro canto, non stabilisce un termine mi- nimo che debba decorrere tra la notifica della decisione emessa inaudita altera parte e l’inizio della sua attuazione. Secondo gli auspici del considerando 32, tale notifica o co- municazione dovrebbe avvenire “in tempo ragionevole ante- riormente alla prima misura di esecuzione”, con la specifi- cazione che, in questo contesto, per prima misura di esecu- zione dovrebbe intendersi la prima misura di esecuzione do- po la notifica o comunicazione. Si tratta, inevitabilmente, di una indicazione sin troppo generica e che rischia di creare problemi interpretativi non indifferenti, soprattutto ove non sia approvata una normativa interna di raccordo tra discipli- na europea e lex fori (ciò che appare irrealistico per l’Italia). Per l’interprete italiano, il termine che appare possibile ri- chiamare è quello dilatorio previsto dall’art. 482 c. p. c. tra la notifica del precetto e la richiesta del pignoramento[31]. L’attestato rilasciato dal giudice d’origine non deve neces- sariamente essere tradotto nella lingua del foro e non se ne richiede la traslitterazione del contenuto: tali adempi- menti possono pero essere richiesti dall’autorità compe- tente per l’esecuzione. Allo stesso modo, tale autorità può (non deve) chiedere la traduzione della decisione qualora in mancanza non sia in grado di procedere.
(Fine della prima parte - Segue)
[30] V. anche Xxxxxx, Abolition of exequatur under the Brussels I regulation: ill conceived and premature?, in Jour. priv. int. law, 2013, p. 134.
[31] Così pure Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 193.
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La circolazione delle decisioni giudiziarie nel sistema del regolamento Bruxelles I bis - Seconda Parte
Sommario
8. L’adattamento del titolo straniero
9. L’opposizione all’esecuzione e i relativi motivi
10. (Segue) Coordinamento tra procedura esecutiva ed opposizione
11. Regole procedimentali uniformi
12. Quali regole procedurali sono applicate in Italia al procedimento di opposizione?
13. Uno sguardo al futuro (non necessariamente tranquillizzante)
8. L’adattamento del titolo straniero
L’art. 43 introduce una nuova disposizione di diritto pro- cessuale uniforme in relazione alle attività prodromi- che all’inizio dell’esecuzione nello Stato di una decisione emessa in un altro Stato membro. Per garantire che il de- bitore abbia avuto conoscenza di tale decisione (e dunque la possibilità di opporvisi o contestarla), si richiede dun- que la previa notifica o comunicazione al debitore dell’at- testato rilasciato ai sensi dell’art. 53, unitamente alla deci- sione qualora questa non sia già stata notificata o comu- nicata. Per l’Italia, questo adempimento sostituisce la no- tifica del titolo esecutivo. Il considerando 32 mette in evi- denza che l’attestato rilasciato ai sensi del regolamento, eventualmente corredato della decisione, dovrebbe essere notificato o comunicato alla persona in tempo ragionevo- le anteriormente alla prima misura di esecuzione, specifi- cando che, in questo contesto, per prima misura di esecu- zione dovrebbe intendersi la prima misura di esecuzione dopo la notifica o comunicazione.
La decisione non deve necessariamente essere tradotta nella lingua dello Stato d’esecuzione. Il para. 2, in effet- ti, prevede che il debitore possa richiedere tale traduzione qualora sia domiciliato in uno Stato membro diverso da quello dello Stato d’origine, qualora la decisione non sia redatta in una lingua a lui conosciuta ovvero nella lingua
ufficiale dello Stati membro in cui è domiciliato. La tute- la “linguistica” del debitore è attuata prevedendo che sin- ché quest’ultima non abbia ricevuto la traduzione della decisione (anche prima dell’inizio dell’esecuzione, come si desume dalla parte finale del para. 2), non possa esse- re attuata alcuna misura esecutiva[1]. In tale lasso di tem- po è possibile attuale solo misure cautelari[2]. Le garan- zie di rapidità sottese all’esecuzione di un provvedimen- to cautelare (emesso anche ai sensi dell’art. 40, sulla ba- se della mera esecutività della decisione straniera) han- no peraltro indotto il legislatore europeo ad escludere in tal caso l’onere di traduzione della decisione in questio- ne (para. 3)[3].
Una disposizione di diritto processuale uniforme è conte- nuta anche all’art. 54, che si occupa dell’ipotesi in cui la de- cisione straniera contenga un provvedimento ignoto alla legge dello Stato membro richiesto. In tal caso, il provve- dimento in questione deve essere adattato, nella misura del possibile[4], a un provvedimento previsto dalla legge del- lo Stato di esecuzione che abbia efficacia equivalente e che persegua obiettivi e interessi analoghi. In altre parole, l’au- torità esecutiva locale si dovrà sforzare di adattare tale de- cisione a quella più simile prevista dalla lex fori, quanto ad efficacia e ad obiettivi ed interessi perseguiti[5]. Ai sensi del considerando 28, ogni singolo Stato membro ha la pre-
[1] X. Xxxxxxx, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 192.
[2] Xxx Xxxxxx, in xxx.xxxxxxxx.xxx, si tratta di un meccanismo farraginoso.
[3] X. Xxxxxxxx, op. ult. cit., p. 615 ss., che osserva che l’esigenza di informare compiutamente la controparte sorge solo in relazione agli atti propriamente esecu- tivi e riguardo alle misure meramente conservative.
[4] Come osserva Xxxxxxx, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 614, tale inciso “dà l’idea che l’adattamento può essere infruttuoso (...). Ma lo stesso inciso appare esortativo di una ricerca attenta e capillare prima di escludere l’adattamento”.
[5] Per Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 197, peraltro, l’adattamento sarebbe onere dell’esecutante e, nel diritto italiano, il luo-
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rogativa di determinare le modalità e i soggetti competen- ti per l’adattamento in questione. Da questo punto di vi- sta, le indicazioni contenute nell’attestato rilasciato ai sensi dell’art. 53 dovrebbero fornire utili punti di riferimento. In generale, si osserva che la ricerca dovrebbe avere ad ogget- to le “peculiarità funzionali” dei modelli previsti per i prov- vedimenti giudiziari e le relative finalità[6].
La norma, peraltro, chiarisce che, da tale adattamento, non possono derivare effetti che vanno oltre quelli previsti dalla legge dello Stato membro d’origine. Si tratta di un’importan- te precisazione, per eliminare ogni dubbio in merito al fat- to che l’ambito oggettivo dell’esecuzione del provvedimento straniero è governato dalla legge dello Stato d’origine.
È pure previsto un “controllo” sull’adattamento del tito- lo esecutivo straniero: e, infatti, qualsiasi parte (il credi- tore, il debitore e pure, eventualmente, un terzo coinvolto nell’esecuzione) può impugnare il relativo provvedimento davanti a un’autorità giurisdizionale. In Italia, l’impugna- zione in questione dovrebbe prendere la forma dell’oppo- sizione agli atti esecutivi[7]. Non si può escludere, peral- tro, che, in determinate ipotesi, si possa prospettare pure il ricorso all’opposizione (di terzo) all’esecuzione, come ad esempio nel caso in cui l’adattamento disposto dal giu- dice riguardi la (im)pignorabilità di un determinato bene o la (in)coercibilità di un obbligo di fare o non fare.
9. L’opposizione all’esecuzione e i relativi motivi
Come si è anticipato, il regolamento n. 1215 continua ad ammettere la possibilità di opporsi, nello Stato ad quem, al riconoscimento e all’esecuzione, contestando la sussi- stenza di uno o più dei motivi ostativi previsti dalla nor- mativa comune europea. La principale differenza rispetto al passato è che, in materia di esecuzione, il debitore non debba più proporre opposizione al decreto di esecutività previamente ottenuto dal creditore ma, piuttosto, formu- lare un’istanza diretta di xxxxxxx di esecuzione (art. 46). Si è, in sostanza, invertito l’onere di impulso processuale, spostandolo dal creditore al debitore.
La norma che disciplina i motivi di diniego del riconosci- mento della decisione straniera è oggi l’art. 45, che preve- de l’istanza di ogni parte interessata (e dunque non neces- sariamente solo un soggetto che abbia partecipato al pro- cedimento nello Stato d’origine) e, nella sostanza, ripro- duce i motivi (tassativi)[8] già previsti dagli art. 34 e 35 di Bruxelles I[9].
Senza poter entrare qui nei dettagli di ciascuno specifico motivo, in particolare, la lettera a) fa riferimento alla ma- nifesta contrarietà del riconoscimento all’ordine pubbli- co dello Stato “ospite”. Invero, questo motivo di esclusio- ne (da interpretare comunque in modo restrittivo)[10], sul piano sostanziale, ha sempre avuto un’applicazione limi- tata, nella materia civile e commerciale coperta dal rego- lamento Bruxelles I / I bis, tanto che alcuni ne avevano in- vocato l’abrogazione nel passaggio dalla convenzione del 1968 al regolamento del 2001. Tale opzione non è stata accolta, ma, come noto, è stato specificato che la contra- rietà all’ordine pubblico debba essere manifesta.
Va rilevato che, in tempi recenti, in un clima politico più euroscettico e a fronte di una crisi di quella fiducia reci- proca su cui si fonda lo spazio europeo di giustizia, l’ec- cezione di ordine pubblico è stata, in qualche modo, ria- bilitata[11]. Essa, in particolare, è stata intesa non come un ossimoro giuridico rispetto al principio del riconosci- mento automatico, bensì come strumento per valorizzare, nel caso concreto, la fiducia reciproca tra gli Stati mem- bri. In altre parole, proprio permettendo a ciascuno Sta- to membro di non recepire valori giuridici stranieri in in- sanabile contraddizione con i propri valori fondamentali si può superare il sospetto tra gli ordinamenti e valorizza- re le specificità di ciascuno di essi.
Alla lettera b), viene in rilievo la mancata notifica o co- municazione dell’atto introduttivo del giudizio al conve- nuto contumace in tempo utile e in modo tale da permet- tere a quest’ultimo di presentare le proprie difese, eccet- to qualora, pur avendone avuto la possibilità, questi non abbia impugnato la decisione. In effetti, l’attuale formula-
go di tale adattamento sarebbe l’atto di precetto, che può delineare il contenuto del dare, del fare o del non fare di cui si domanda l’attuazione forzata.
[6] Xxxxxxx, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 614.
[7] Così pure Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 197
[8] La Corte di giustizia, nel regime del regolamento n. 44, ha, infatti, escluso che il giudice xxxxx possa negare o revocare la dichiarazione di esecutività di una decisione per un motivo diverso da quelli espressamente indicati dal reg. stesso (come ad esempio, nella fattispecie, l’esecuzione della decisione stessa nello Sta- to membro d’origine: x. Xxxxx giust., c. Prism Investments BV c. xxx xxx Xxxx.
[9] Per Biavati, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 194, tale identità ha reso meno efficace l’abolizione dell’exequatur.
[10] V., ad esempio, i casi Hendrikman, Régie nationale des usines Renault, Xxxxxxxx.
[11] Xxxxxxxxx, op. cit., p. 183, ne parla in termini di baluardo attorno al quale è costruita la difesa dell’identità di ciascuno Stato membro. V. anche Xxxxxxx Xxxxxx, On the abolition of exequatur, cit., p. 286 ss., per la quale, a p. 287, l’eccezione dell’ordine pubblico “works to protect and to increase mutual trust”.
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zione dell’art. 45 lett. b) riprende la giurisprudenza della Corte di giustizia che, in precedenza, aveva affermato che il riconoscimento o l’esecuzione di una decisione pronun- ciata in contumacia non potessero essere negati qualora il convenuto avesse potuto proporre un ricorso avverso la decisione pronunciata in contumacia e tale ricorso gli avesse consentito di far valere che la domanda giudiziale o l’atto equivalente non gli era stato notificato o comuni- cato in tempo utile e in modo tale che egli potesse presen- tare le proprie difese[12].
Le lett. c) e d) riguardano, invece, il contrasto tra decisio- ni[13], ovvero uno dei motivi classici che possono esclu- dere l’ingresso in uno Stato della decisione emessa in uno Stato diverso. Vengono, in particolare, in rilievo il contra- sto con una decisione precedentemente pronunciata nel- lo Stato richiesto e il contrasto con una decisione pronun- ciata tra le medesime parti in uno Stato membro diverso o in uno Stato terzo, se tale previa decisione sia passibile di riconoscimento nello Stato richiesto.
Il rischio di provvedimenti contrastanti emessi da giudici di diversi Stati membri è stato da sempre oggetto di par- ticolari attenzioni nella normativa uniforme europea sul- la giurisdizione e la circolazione delle decisioni in mate- ria civile e commerciale. Sin dalla convenzione di Bruxel- les del 1968, infatti, si sono individuati meccanismi pro- cessuali per prevenire, superare e coordinare situazioni di contemporanea pendenza in Stati membri diversi della stessa causa o di cause connesse.
In particolare, come xxx xxxx, xxx xxx 0000, xx xxxxxxxxxxx- xx “europea” è stata risolta con un meccanismo di preven- zione temporale secca, di rigida applicazione quanto di amplia portata, in particolare sul piano oggettivo della nozione di identità di causa.
Il regolamento n. 1215, cercando di dare soluzione ad al- cuni aspetti problematici di tale meccanismo di preven- zione secca, potrebbe peraltro avere gettato il seme per un aumento di decisioni contrastanti.
In materia di litispendenza, infatti, il para. 2 dell’art. 31
introduce una deroga al criterio della prevenzione secca, per l’ipotesi in cui il giudice adito per primo sia diverso da quello scelto contrattualmente delle parti. Fatta sal- va l’applicazione dell’art. 26 (sull’accettazione tacita del- la giurisdizione da parte del convenuto che si costituisce senza nulla contestare), si prevede dunque, che, qualora sia adito il giudice di uno Stato membro dotato di com- petenza esclusiva in forza di un accordo ex art. 25, qua- lunque giudice di un altro Stato membro[14] è tenuto a sospendere il procedimento fino a quando il giudice adi- to sulla base dell’accordo dichiara di non essere compe- tente ai sensi dell’accordo stesso. Con tale previsione, in sostanza, si priva il giudice adito per primo del potere di pronunciarsi sulla validità e l’efficacia di una clausola di scelta delle corti di un altro Stato membro.
La norma si applica a condizione che, dopo la proposi- zione della causa in un foro diverso da quello scelto dalle parti, essa sia “duplicata” nel foro “contrattuale”, al qua- le, a questo punto, la corte previamente adita deve cede- re il passo, sospendendo il procedimento, per quanto at- tiene la decisione sulla validità, l’efficacia e l’ambito della clausola di proroga. Una volta poi che il giudice indicato dalla clausola abbia affermato la propria giurisdizione, il giudice concorrente, ancorché adito per primo ai sensi del para. 3, dovrà dichiararsi incompetente.
Nell’ipotesi contemplata dalla disposizione in esame, pe- raltro, il giudice indicato nella clausola, una volta adi- to, deve potersi pronunciare sulla validità e sulla effica- cia della clausola stessa a prescindere dal fatto che il giu- dice adito per primo abbia già deciso di sospendere il pro- cedimento (così recita il considerando 22). Si giunge così a contemplare la possibilità che entrambi i processi pro- cedano per la propria strada e conducano a un conflitto di decisioni. A decisioni contrastanti si può giungere an- che qualora il primo giudice ritenga “prima facie” inesi- stente un accordo di cui all’articolo 23 e decida di non so- spendere il suo procedimento. Il giudice adito per secon- do, per contro, potrà giungere a valutazioni discordanti e
[12] C. Apostolids x. Xxxxx. Al riguardo, la Corte aveva pure osservato che si può esperire un ricorso contro una decisione solo se l’autore del ricorso abbia avuto la possibilità di conoscere il contenuto della stessa, mentre la semplice conoscenza dell’esistenza di questa non è a tal fine sufficiente: ed in effetti, perché il con- venuto abbia la possibilità di esperire un ricorso efficace che gli consenta di far valere i propri diritti, occorre che egli possa prendere cognizione della motivazione della decisione contumaciale per poterla contestare utilmente. Poiché, dunque, la norma qui in esame non implica che il convenuto sia tenuto ad attivarsi oltre la misura della normale diligenza nella tutela dei propri diritti (per esempio informandosi del contenuto di una decisione adottata in un altro Stato membro), ne conse- gue che, per considerare che il convenuto contumace abbia avuto la possibilità di impugnare una decisione contumaciale emessa contro di lui, egli deve aver avu- to conoscenza del contenuto di tale decisione, il che presuppone che questa gli sia stata notificata o comunicata, ancorché in modo irregolare ma tuttavia in tem- po utile per consentirgli di presentare le sue difese dinanzi al giudice dello Stato di origine (caso ASML Netherlands).
[13] Situazione che si verifica quando dalle due decisioni derivino conseguenze giuridiche che si escludono reciprocamente: Corte giust., x. Xxxxxxx.
[14] Ancorchè adito sulla base di un titolo di giurisdizione stabilito dal diritto interno: Villata, L’attuazione degli accordi, cit., p. 151.
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a sua volta fare procedere il giudizio instaurato avanti a sé, in applicazione dell’art. 31.
In altre parole, tentando di risolvere un problema, il legi- slatore europeo potrebbe averne prodotto un altro. D’al- tro canto, sulla base di una valutazione prognostica, le si- tuazioni problematiche non dovrebbero superare quelle in cui l’art. 31 sarà applicato in modo corretto da entrambi i giudici coinvolti. Anche su questo piano, peraltro, vie- ne messa alla prova la fiducia reciproca su cui si fonda lo spazio giudiziario europeo.
Infine, alla lettera e), si prevede un (limitato) controllo del giudice dello Stato di esecuzione rispetto alla corretta applicazione di (specifiche) norme sulla giurisdizione da parte del giudice di origine. Il controllo sulla c.d. compe- tenza indiretta, in particolare, viene in rilievo qui rispet- to alle disposizioni del capo II, sez. 3, 4 e 5 nella misura in cui il contraente dell’assicurazione, l’assicurato, il be- neficiario di un contratto di assicurazione, la parte lesa, il consumatore o il lavoratore sia il convenuto; ovvero con le disposizioni del capo II, sez. 6. In sostanza il riconosci- mento o l’esecuzione possono essere rifiutati se il giudice d’origine abbia violato le norme del regolamento in mate- ria di contratti di assicurazione o conclusi dai consumato- ri o di lavoro dipendente[15] nonché i criteri di competen- za esclusiva dell’art. 24. Fuori da queste ipotesi, il divieto di riesame della giurisdizione del primo giudice, anche sul piano dell’ordine pubblico, resta assoluto.
Il considerando 29, inoltre, sul presupposto che l’esecu- zione diretta nello Stato membro richiesto di una decisio- ne emessa in un altro Stato membro senza dichiarazione di esecutività non dovrebbe compromettere il rispetto dei diritti della difesa, afferma che tra i motivi per chiedere in rigetto dell’esecuzione dovrebbe figurare anche la manca- ta possibilità di presentare le proprie difese qualora la de- cisione sia stata resa in contumacia nell’ambito di un’a- zione civile collegata a un procedimento penale nonché i motivi che possono essere invocati sulla base di un accor- do tra lo Stato membro richiesto e uno Stato terzo a nor- ma dell’art. 59 convenzione di Bruxelles del 1968.
Anche nel nuovo sistema, si conferma, in ogni caso, che
la decisione straniera non può essere riesaminata nel me- rito in sede di riconoscimento\opposizione all’esecuzione in un altro Stato membro (art. 52).
10. (Segue) Coordinamento tra procedura esecutiva ed opposizione
Del coordinamento tra l’immediata eseguibilità della de- cisione straniera e la possibilità per il debitore di chiedere il rigetto della relativa esecuzione ai sensi della successi- va sez. 3 si occupa l’art. 44. Si prevede in particolare che, dopo la proposizione di tale istanza, il giudice dello Stato membro richiesto possa:
a) limitare il procedimento a misure cautelari: in sostanza, per bilanciare gli interessi contrapposti delle parti, si pos- sono disporre misure provvisorie (ad esempio, di natu- ra conservativa) senza ancora compiere i veri e propri at- ti esecutivi (ad esempio, il pignoramento e la vendita dei beni del debitore);
b) subordinare l’esecuzione alla costituzione di una garan- zia (la “cauzione” del diritto italiano);
c) sospendere il procedimento di esecuzione. L’applicazio- ne della norma presuppone un coordinamento tra la pro- cedura esecutiva e il giudizio relativo al diniego dell’e- secuzione che potrà realizzarsi, in Italia, solo su istanza della parte interessata (di norma, il debitore).
Il para. 2, inoltre, prevede che il procedimento di esecu- zione sia sospeso se l’esecutività della decisione sia sospe- sa nello Stato membro di origine. Anche in questo caso, si presuppone l’istanza della parte interessata, che dovrà fornire la prova di tale “sospensiva”.
11. Regole procedimentali uniformi.
Nella tradizione della convenzione del 1968 e del regola- mento n. 44, neppure il regolamento n. 1215 detta rego- le uniformi sul procedimento per il riconoscimento o per l’opposizione all’esecuzione di un provvedimento emesso in un altro Stato membro: la normativa europea si limi- ta a disciplinare aspetti specifici, come i documenti da al- legate all’istanza[16], lasciando poi ad ogni Stato l’indivi- duazione del modello procedurale applicabile.
[15] Il riferimento alle norme sulle controversie in materia di lavoro dipendente è una novità del regolamento n. 1215.
[16] Ai sensi dell’art. 47, para. 3, una copia della decisione e, se necessario, una traduzione o traslitterazione della stessa. Tale produzione non è peraltro sempre necessaria: l’istante può esserne dispensato se la corte ne sia già in possesso oppure se sia irragionevole chiedere al richiedente di ottemperarvi. In questo caso, il giudice adito può chiedere il deposito di tali documenti all’altra parte (ovvero il creditore). Ai sensi dell’art. 57, 1. Le traduzioni o le traslitterazioni richieste ai sen- si del presente regolamento sono effettuate nella lingua ufficiale dello Stato membro interessato oppure, ove tale Stato membro abbia più lingue ufficiali, nella lin- gua ufficiale o in una delle lingue ufficiali dei procedimenti giudiziari del luogo in cui è invocata una decisione emessa in un altro Stato membro o in cui è presen- tata la domanda, conformemente alla legge di quello Stato membro. Ai fini dei moduli di cui agli artt. 53 e 60, le traduzioni o le traslitterazioni possono essere al-
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In effetti le norme comuni europee continuano a limitarsi. Pur senza menzionarlo espressamente, il sistema comu- ne europeo presuppone che il procedimento si svolga nel contraddittorio tra le parti, come si desume dal riferimen- to alla “domanda”, alla possibilità di agire per il ricono- scimento o il diniego al riconoscimento, alla legittimazio- ne ad impugnare riconosciuta ad ogni parte e così via[17]. Per quanto riguarda la competenza, in base a quanto pre- visto dagli artt. 47 e 75, lett. a), l’Italia ha indicato come organo giudiziario di riferimento il Tribunale (superan- do una storica tradizione che vede nella Corte d’appello il giudice - di primo e unico grado - competente in materia di “vaglio” delle decisioni straniere).
Si tratta di una competenza funzionale, che ha come og- getto l’accertamento delle situazioni che, in base al dirit- to comune europeo, escludono il riconoscimento o l’ese- cuzione di una decisione straniera nello Stato.
I motivi di opposizione all’esecuzione relativi all’efficacia del titolo straniero, d’altro canto, come si è visto, possono cumularsi (senza confondersi) con quelli più schiettamen- te collegati al diritto ad agire in executivis ai sensi dell’art. 615 c. p. c. Tale sovrapposizione è espressamente prevista dal considerando n. 30, che comunque chiarisce che i mo- tivi “interni” non possono essere usati per negare il rico- noscimento in quanto tale. In altre parole, al giudice del- lo Stato di esecuzione resta precluso qualsiasi riesame nel merito della decisione straniera (ad esempio, rispetto alla originaria esistenza del credito fatto valere o alla legitti- mazione attiva o passiva delle parti coinvolte). In sede di opposizione all’esecuzione potranno però essere fatti va- lere motivi estintivi, modificativi o impeditivi di tale dirit- to venuti in essere successivamente al formarsi del titolo e compatibilmente con l’onere (e la possibilità) per la parte interessata di fare valere tali fatti nello Stato d’origine, ad esempio, in sede di impugnazione.
A questo riguardo, si pone il dubbio se il giudice compe- tente funzionalmente al riconoscimento dell’efficacia nel- lo Stato del titolo straniero possa avere “per attrazione” la competenza anche sui motivi di opposizione derivan- ti dalla contestazione del diritto ad agire in via esecuti-
va oppure se si debba configurare una scissione di com- petenze tra giudice dell’opposizione alla efficacia del tito- lo straniero e giudice dell’opposizione all’esecuzione tra- dizionale, ove non coincidenti[18].
In alcuni ordinamenti, in effetti, sono attribuite compe- tenze diverse per i due diversi profili e questo crea il ri- schio di procedimenti paralleli[19]. In Italia, avere in- dividuato come giudice dell’opposizione all’esecuzione ai sensi del regolamento il Tribunale riduce la rilevanza pratica della questione. Questione che, però, si può por- re, ad esempio, in caso di opposizione a precetto su cui, in base ai criteri ordinari, sia competente il Giudice di pace. Per tale strada, si può configurare anche nel no- stro ordinamento un concorso di procedimenti afferen- ti a due diversi profili, con la conseguente necessità di disporre meccanismi di coordinamento per evitare pro- nunce contrastanti.
Anche nel regolamento Bruxelles I bis, come già nell’art. 41 di Bruxelles I, si dispone che la parte che chiede il di- niego dell’esecuzione di una decisione emessa in un altro Stato membro non è obbligata ad avere un recapito posta- le nello Stato membro richiesto, né è tenuta ad avere un rappresentante autorizzato nello Stato membro richiesto, a meno che tale rappresentante sia obbligatorio indipen- dentemente dalla cittadinanza o dal domicilio delle par- ti. In questo modo si garantisce parità di trattamento tra creditore e debitore.
L’art. 48, dal canto suo, prevede che l’autorità giurisdi- zionale dello Stato richiesto statuisce sulla domanda di diniego dell’esecuzione senza indugio. Si tratta evidente- mente di una norma programmatica, che sollecita il giu- dice nazionale a provvedere sull’istanza il più rapidamen- te possibile, magari creando corsie privilegiate per la trat- tazione e la decisione di queste istanze. La norma, peral- tro, fornisce all’interprete anche un importante fattore di valutazione ai fini dell’individuazione del modello proce- dimentale da applicare in questo contesto: sul punto v. in- fra[20].
L’art. 51, inoltre, prevede la sospensione (facoltativa)[21] del procedimento (anche di impugnazione: v. infra) per
tresì effettuate in qualunque altra lingua ufficiale delle istituzioni dell’Unione che lo Stato membro interessato abbia dichiarato di accettare. Qualsiasi traduzione ai sensi del regolamento n. 1215 è effettuata da una persona a tal fine abilitata in uno degli Stati membri.
[17] V. anche Xxxxxxx, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 619.
[18] Su questo dilemma x. Xxxxxxx, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 622.
[19] X. Xxxxxx, op. cit., p. 280.
[20] V. pure Xxxxxxx, Prime osservazioni sul regolamento (UE) n. 1215/2012 , cit., p. 619,
[21] Xxx Xxxxxxx, L’esecutorietà delle decisioni nell’Unione europea, cit., p. 194, il giudice del paese di destinazione deve compiere al riguardo una sommaria deli- bazione sia sulla fondatezza dei motivi di opposizione, sia sul contenuto della decisione estera.
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l’ipotesi in cui la decisione straniera sia stata impugnata con un mezzo di impugnazione ordinario nello Stato d’o- rigine (o se il termine per una tale impugnazione non sia ancora decorso). In quest’ultimo caso, l’autorità giurisdi- zionale può fissare un termine entro il quale l’impugna- zione deve essere depositata.
Ai sensi dell’art. 49, d’altro canto, la decisione emessa sull’istanza di riconoscimento o di opposizione all’esecu- zione può essere impugnata. In Italia, coerentemente con la scelta del giudice di prima istanza, tale impugnazione va proposta in Corte d’appello.
Per la prima volta, inoltre, il legislatore ha previsto un’ul- teriore (ed eventuale) grado di giudizio, per l’impugna- zione della decisione emessa sulla prima impugnazione: ai sensi dell’art. 50, tale ulteriore riesame è possibile uni- camente dietro indicazione dello Stato membro interessa- to alla Commissione, ex art. 75, lett. c). Tradizionalmen- te, nel diritto italiano, non si prevede un terzo livello di giudizio in materia di riconoscimento di decisioni stra- niere: in questo contesto, però, si è confermata (anche per coerenza con il precetto dell’art. 111, comma 7° Cost.) la possibilità di ulteriormente impugnare la decisione della Corte d’appello in Cassazione.
12. Quali regole procedurali sono applicate in Italia al procedimento di opposizione?
In Italia, rispetto al sistema di Bruxelles I, dottrina e giu- risprudenza erano giunte a ritenere che il procedimento per il riconoscimento o l’esecuzione seguisse le forme del rito ordinario, per quanto strutturato secondo modalità lato sensu riferibili al procedimento monitorio (e alla re- lativa opposizione) per l’ipotesi della richiesta di exequa- tur. Rispetto al riconoscimento, dunque, si riteneva che la domanda introduttiva dovesse avere la forma della cita- zione[22], mentre l’opposizione all’exequatur veniva assi- milata, sul piano procedimentale, all’opposizione a decre- to ingiuntivo[23]: anche qui, in effetti, il debitore era chia- mato a “contestare” un provvedimento emesso nei suoi confronti inaudita altera parte. Non si riteneva, peraltro,
inammissibile la proposizione della domanda con ricor- so, purché l’atto fosse notificato alla controparte entro i termini perentori all’uopo previsti[24]. Tale soluzione in- terpretativa, probabilmente obbligata de iure condito, im- plicava tempistiche particolarmente lunghe per l’esperi- mento di un procedimento ordinario dinanzi alla Corte d’appello.
Oggi, però, i termini della questione sono cambiati. L’art. 30 del decreto legislativo n. 150 del 2011 (sulla c.d. semplificazione dei riti), dal 7 ottobre 2011, prevede l’ap- plicazione del rito sommario di cognizione (o meglio del modello ad hoc di tale rito tratteggiato dalla normativa speciale) alle “controversie aventi ad oggetto l’attuazione di sentenze e provvedimenti stranieri di giurisdizione vo- lontaria di cui all’articolo 67 della legge 31 maggio 1995,
n. 218”. È stata così colmata una lacuna della legge di ri- forma del diritto internazionale privato e processuale la quale, in effetti, non aveva esplicitato il modello proce- dimentale da applicare al procedimento per il riconosci- mento e l’esecuzione di una sentenza straniera. La scelta del legislatore del 2011 è innovativa perché in preceden- za, per via interpretativa, il modello procedurale di riferi- mento era stato individuato nel processo ordinario di co- gnizione[25], introdotto con citazione[26] e definito con sentenza collegiale. Il decreto legislativo del 2011 ha dun- que cambiato rotta, in favore di un rito più deformalizza- to e snello, con una valutazione generale ed astratta cir- ca la tendenziale semplicità istruttoria dei procedimenti in questione. La relazione di accompagnamento al decre- to, in effetti, afferma che le controversie in questione so- no state ricondotte al rito sommario di cognizione, ade- rendo all’indicazione in tal senso formulata dalle compe- tenti commissioni parlamentari, in espressa considerazio- ne del fatto che esso, nel suo pratico svolgimento, è carat- terizzato da un thema probandum semplice, cui consegue ordinariamente un’attività istruttoria breve, a prescinde- re dalla natura delle situazioni giuridiche soggettive coin- volte o delle questioni giuridiche da trattare e decidere. Per quanto ci interessa qui, parte della dottrina, dopo l’en-
[22] Cass., sez. un., 12 gennaio 2010, n. 253, in Giust. civ., 2011, 1, I, p. 227; Campeis, Xx Xxxxx, La disciplina europea del processo civile italiano, Padova, 2005, p. 401.
[23] Cass., 1 agosto 1997, n. 7151, in Riv. dir. int.. priv. proc., 1998, p. 570.
[24] Cass., 12 gennaio 2010, n. 253, cit.
[25] Cass., 14 gennaio 2003, n. 365, in Riv. dir. int.. priv. proc., 2003, p. 201. Si escludeva, invece, l’applicazione delle norme del procedimento camerale: App. An- cona, 21 luglio 1999, in Riv. dir. int. priv. proc., 2000, p. 169; contra App. Venezia, 9 aprile 1997, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 890; App. Napoli, 14 xxxxx- io 1998, in Giur. nap., 1998, p. 122.
[26] App. Perugia, 10 gennaio 2002, decr., in Xxx. xxx. xxx. xxxx. xxxx., 0000, x. 000; App. Venezia, 26 novembre 1997, in Dir. com. sc. int., 1998, p. 233.
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trata in vigore del decreto n. 150, per cercare di propor- re una soluzione più efficiente alla questione, si è espres- sa a favore dell’applicazione del modello sommario sem- plificato anche ai procedimenti di opposizione previsti dai vari regolamenti europei quando essi abbiano ad oggetto l’accertamento della (in)esistenza dei requisiti ostativi al riconoscimento e alla esecuzione di provvedimenti giuri- sdizionali civili pronunciati da giudici di un diverso Sta- to[27], dal momento che si tratta delle regole procedimen- tali previste in via generale dall’ordinamento italiano per risolvere tale tipo di questioni.
Il problema si pone poiché, come si è visto, le normative regolamentari in questo ambito si limitano a prevedere i principi fondamentali e le norme strutturali del sistema europeo di circolazione delle decisioni nei vari contesti, lasciando poi agli Stati membri il compito di completa- re tale struttura, con le disposizioni processuali di detta- glio: purtroppo, sinora, il legislatore italiano non ha mai dettato norme integrative delle discipline generali euro- pei, creando, con tale criticabile insensibilità, dubbi in- terpretativi di un certo rilievo: in effetti, dove altri ordi- namenti si sono premutati di introdurre discipline speci- fiche di raccordo, l’Italia non ha ancora saputo o voluto disporre interventi di tal tipo, rimettendo agli operatori e agli interpreti la determinazione delle regole procedu- rali di riferimento.
Si afferma che l’estensione della disciplina del nuovo rito sommario al riconoscimento delle sentenze eurounitarie sarebbe sorretta da argomenti “plurimi”[28]. Si è osserva- to, ad esempio, che appare ormai obsoleta ed ingombran- te la scelta del rito deputato alla tutela di merito dei di- ritti soggettivi rispetto a un procedimento in cui il giudi- ce è chiamato a un mero controllo estrinseco circa la re- golarità procedurale della sentenza straniera, in un conte- sto che viene qualificato di giurisdizione oggettiva[29]. In quest’ottica, anzi, si mostrerebbe irragionevole assogget-
tare il controllo sulle decisioni provenienti dagli altri Sta- ti membri (e soggette a minori “limiti” di accesso) a un ri- to come quello ordinario, prevedendo invece un rito più informale per le sentenze degli Stati terzi[30]. In tale li- nea di pensiero, si ritiene che la “rubrica” dell’art. 30 non ne vincoli l’ambito applicativo, considerando troppo for- malistico il richiamo al riguardo della massima “ubi lex voluit”[31]. La posizione qui in esame, in effetti, non ritie- ne l’art. 30 del decreto del 2011 una norma a natura ec- cezionale ai sensi dell’art. 14 disp. prel. c. c.: nulla dun- que ne impedirebbe un’applicazione estensiva, anche per via analogica. D’altro canto, come è stato rilevato, vi è omologia tra procedimenti aventi tutti ad oggetto l’accer- tamento dei requisiti di riconoscibilità di provvedimenti stranieri, con una lacuna da colmare rispetto alle decisio- ni coperte dai regolamenti europei[32].
Chi scrive condivide la tesi interpretativa appena analizzata: essa, infatti, garantisce l’attuazione del principio di equiva- lenza tra la tutela interna e quella europea a situazioni ana- loghe[33], eliminando una evidente disparità di trattamento processuale a svantaggio della seconda. Peraltro, una volta che di tale interpretazione si siano accettati i presupposti te- orici, essa appare agevolmente applicabile a tutti quei proce- dimenti di riconoscimento ed esecuzione previsti dai regola- menti europei per i quali l’Italia ha indicato la competenza della Corte d’appello[34]. In tali casi, in effetti, l’applicazio- ne dell’art. 30 del decreto n. 150 è del tutto lineare.
Un discorso a parte va fatto rispetto al regolamento n. 1215 del 2012 di cui si parla in queste pagine.
Anche tale regolamento si limita a stabilire alcune rego- le quadro ad hoc, lasciando poi ad ogni Stato l’individua- zione del modello procedurale applicabile al riconosci- mento e all’esecuzione delle decisioni provenienti dagli al- tri Stati membri. Tra tali “norme quadro”, ho già segnala- to l’art. 48, alla cui stregua l’autorità giurisdizionale dello Stato richiesto statuisce sulla domanda di diniego dell’e-
[27] Xxxxxxxxx, in Commentario alle riforme del processo civile dalla semplificazione dei riti al decreto sviluppo, 2013, p. 384 ss.; Xxxxxx, Attuazione delle sen- tenze e provvedimenti stranieri di volontaria giurisdizione, in Riordino e semplificazione dei procedimenti civili. Commentario al decreto legislativo 1° settembre 2011 , n. 150, a cura di Xxxxxxxxxx, Milano, 2012, p. 916 ss.; Xxxxxxx, Il nuovo rito sommario (a cognizione piena) per il giudizio di accertamento dell’efficacia del- le sentenze straniere in Italia dopo il d.lgs. n. 150/2011 , in Riv. dir. int. priv. proc., 2012, p. 523, afferma che gli argomenti che fanno propendere con forza per l’e- stensione della disciplina del nuovo rito sommario al riconoscimento delle sentenze comunitarie siano “plurimi”
[28] Xxxxxxx, Il nuovo rito sommario (a cognizione piena), cit., p. 523.
[29] Consolo, op. loc. cit.
[30] Consolo, op. loc. ult. cit.
[31] Consolo , op. loc. cit.
[32] Consolo , op. cit., p. 524.
[33] Consolo, op. loc. ult. cit.
[34] Il riferimento è, in primis, al regolamento n. 2201 del 2003.
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secuzione senza indugio, anticipando che tale norma for- nisce all’interprete italiano anche un importante fattore di valutazione ai fini dell’individuazione del modello pro- cedimentale da applicare in questo contesto.
È vero che il regolamento n. 1215 ha eliminato il procedi- mento di exequatur: è dunque venuto meno, nella mate- ria civile e commerciale, il richiamo analogico al procedi- mento monitorio, strutturato con una fase inaudita altera parte ed una successiva di opposizione.
Nel nuovo regime, piuttosto, come si è visto, si prospetta la possibilità, per il debitore, di proporre opposizione all’ese- cuzione della decisione straniera, proponendo quello che si configura come un procedimento di accertamento negati- vo, di cui, però, il regolamento n. 1215 non detta alcuna di- sciplina specifica. Nel nuovo sistema, inoltre, è venuta me- no la competenza della Corte d’appello a pronunciarsi in materia di riconoscimento e di opposizione all’esecuzione. La disciplina del regolamento n. 1215 è peraltro successi- va all’art. 30 del decreto n. 150. Quest’ultima norma non ha natura eccezionale e il “sotto-rito” dalla stessa enucle- ato può essere elevato a modello di riferimento per ogni situazione processuale in cui, in mancanza di norme ad hoc, si debba esaminare la sussistenza o la mancanza di elementi ostativi all’ingresso nel nostro ordinamento di decisioni giudiziarie straniere.
In sostanza, nel contesto del regolamento n. 1215 del 2012, è possibile prospettare un ulteriore “sotto-rito” ri- spetto a quello previsto dall’art. 30 del decreto n. 150 e in cui il modello sommario semplificato non è seguito avan- ti alla Corte d’appello bensì avanti al Tribunale, per le op- posizioni all’esecuzione della decisione straniera proposte dal debitore per fare valere la sussistenza di uno dei moti- vi di diniego di cui all’art. 45.
Tale soluzione interpretativa consente, in effetti, di dare attuazione al disposto dell’art. 48 del regolamento (v. su- pra), essendo evidente che il rito sommario abbia tempi- stiche ben più celeri rispetto a quello ordinario.
13. Uno sguardo al futuro (non necessariamente tranquillizzante)
Come si è visto, il regolamento n. 1215 ha introdotto un “metodo ibrido” per la circolazione delle decisioni tra gli Stati membri dell’Unione. Si tratta sicuramen-
te di un “passo in avanti” nell’attuazione del principio del riconoscimento automatico ma, al contempo, è l’e- spressione di un atteggiamento prudente rispetto alla direzione intrapresa a livello politico dalla Commissio- ne europea.
Il generale superamento di ogni controllo “a valle” della decisione resa in un altro Stato membro è stato in effet- ti considerato prematuro. Tale prudenza appare condivi- sibile[35].
A ben vedere, alla fiducia reciproca elevata a pilastro del- lo spazio europeo di giustizia a livello politico non neces- sariamente fa riscontro una fiducia effettiva nel caso con- creto. In effetti, è ormai evidente che le norme comuni eu- ropee in questo ambito e la relativa attività interpretati- va svolta dalla Corte di giustizia, nel valorizzare, a livel- lo “politico”, la fiducia reciproca come canone ermeneu- tico delle regole che governano lo spazio europeo di giu- stizia, hanno dimostrato di non riuscire a tutelare in mo- do adeguato la violazione di diritti fondamentali da parte del giudice di origine nel caso concreto[36].
Emblematica a questo riguardo (peraltro con riferimento al regolamento n. 2201 del 2003) mi sembra la recente de- cisione della Corte di giustizia nel caso C-386/17, del 16 gennaio 2019 (nomi delle parti omessi per motivi di priva- cy), in risposta a una questione di interpretazione pregiu- diziale proveniente dalla Cassazione italiana[37].
Nella fattispecie, tra due coniugi (marito italiano e ma- dre romena), era stato inizialmente proposto un procedi- mento in Italia sulla separazione e sulla responsabilità ge- nitoriale sul figlio della coppia. In seguito, la madre ave- va instaurato un procedimento di divorzio in Romania, nel quale aveva chiesto anche l’affidamento del medesi- mo minore. Il giudice romeno, pur adito per secondo, non aveva accolto l’eccezione di litispendenza sollevata ai sen- si dell’art. 19 del regolamento del 2201, per poi emettere una sentenza, poi passata in giudicato, con la quale ave- va affidato il figlio minorenne in via esclusiva alla madre. Tutto questo prima che fosse definito il procedimento ita- liano previamente instaurato, nel quale il minore stesso era stato affidato in via esclusiva al padre. Dopo il passag- gio in giudicato della sentenza romena di divorzio, poi, la Corte d’appello di L’Aquila aveva dichiarato inammissi- bile la domanda del padre di affidamento del figlio xxxx-
[35] Per una posizione critica rispetto alla “fiducia reciproca”, v. Storskrubb, op. cit., p. 331; Xxxxxxx Xxxxxx, op. cit., p. 289.
[36] X. Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 27, che scrive: “So far, the EU’s apex court may have played an ambiguous role as it seemed to promote trust and recognition to the detriment of individual scrutiny”. V. anche Xxxxxx, op. cit., p. 275 ss.
[37] Cass., 20 giugno 2017, n. 15183.
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re in quanto la questione era già stata decisa in senso con- trario in via definitiva in Romania.
La Cassazione, a quel punto, aveva proposto alla Corte di giustizia una questione interpretativa delle norme sulla litispendenza eurounitaria, in sostanza chiedendo se po- tesse essere negato il riconoscimento di un provvedimen- to emesso all’estero in caso di violazione di tali norme, sul piano dell’ordine pubblico processuale. Si trattava di un tentativo di garantire il rispetto di un diritto fondamen- tali nel caso concreto, a fronte di quello che appariva un evidente “errore” nell’applicazione delle norme sulla liti- spendenza da parte del giudice straniero.
La Corte di giustizia, però, non ha ritenuto fondati i dub- bi espressi dalla Cassazione, in sostanza attribuendo al- la “fiducia reciproca” tra le autorità giurisdizionali un va- lore assorbente rispetto al rispetto delle regole uniformi nel caso concreto. Come conseguenza, il procedimento di separazione italiano, pur preventivamente instaurato, ha dovuto “cedere” al riconoscimento della decisione rome- na di divorzio (dal contenuto diametralmente opposto a quello dei provvedimenti sino a quel momento emessi in Italia) resa nel giudizio iniziato per secondo ma deciso in tempi più brevi.
Questa pronuncia a mio avviso conferma l’affermazio- ne di esordio del mio ragionamento. Il rischio che si pro- spetta, nell’attuale contesto socio-politico, è quello di una “crisi di rigetto” rispetto a norme comuni europee perce- pite come non adeguate a garantire le specificità dei sin- goli Stati membri[38].
In un’Europa connotata dal diffondersi di movimen- ti “sovranisti”, il funzionamento dello spazio europeo di giustizia non attira l’attenzione dei demagoghi e non è un tema spendibile in una campagna elettorale. Resta il fatto
che prima o poi qualcuno potrebbe ritenere inaccettabi- le la cessione di sovranità orizzontale causata dal ricono- scimento automatico delle decisioni[39] e che dunque, in un mutato assetto politico delle istituzioni dell’Unione, si possa assistere a inversioni di tendenza rispetto alle attua- li scelte politiche. In altre parole, quella che appariva co- me la marcia inarrestabile verso l’affermazione universa- le del principio di automatico riconoscimento nell’ambito dello spazio europeo di giustizia potrebbe avere una bat- tuta di arresto e forse anche fare dei passi indietro.
Personalmente, non lo ritengo uno scenario tranquilliz- zante. Al contempo, ritengo che ci debba essere piena consapevolezza del fatto che, allo stato, alla fiducia reci- proca affermata come principio non corrisponde, nei fat- ti, una fiducia effettiva: fiducia che, d’altro canto, non si costruisce con le affermazioni altisonanti o con la retori- ca, ma operando fattivamente sulla realtà.
In altre parole, il principio dell’automatico riconoscimen- to non va né rinnegato né xxxxxxxxxx ma va attuato co- struendo in concreto quella fiducia che di tale principio è il presupposto e l’ossatura.
In particolare, molti interpreti sostengono che tale fiducia si possa conseguire aumentando il livello di armonizzazio- ne ed uniformazione del diritto (anche processuale)[40]. Si deve poi garantire che negli Stati membri la magistra- tura sia democratica e indipendente. Inoltre, appare ne- cessario sviluppare i contatti tra autorità giurisdizionali e i network tra operatori del diritto di Stati membri diver- si. Il primo passo per la fiducia, in effetti, parte dalla co- noscenza reciproca.
La risposta ai dubbi e alle perplessità che si sono qui trat- teggiati sta dunque nell’aumentare i contatti e i confronti, non nella (ri)costruzione di barriere.
[38] Per una prospettiva interessante, v. StorskrubB, op. cit., p. 312, che propone un paragone tra automatico riconoscimento e multiculturalismo.
[39] V. Storskrubb, op. cit., p. 312.
[40] Come evidenzia Düsterhaus, op. cit., p. 72, “common rules xxxxxx confidence”. V. anche Storskrubb, op. cit., p. 298.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
NOTIFICAZIONI A MEZZO PEC
La Cassazione afferma la nullità della notificazione ad indirizzo di posta elettronica certificata estratto dal registro INI-PEC: una decisione da dimenticare
Sommario
1. Il caso deciso dalla sentenza n. 3709/2019 della Corte di cassazione
2. Il principio di diritto affermato
1. Il caso deciso dalla sentenza n. 3709/19 della Corte di cassazione
Con la sentenza n. 3709/19 la Corte di cassazione si oc- cupa della questione se sia valida la notificazione effet- tuata dal difensore ad indirizzo PEC estratto dal registro INI-PEC.
In sintesi i fatti del caso.
L’amministrazione finanziaria proponeva ricorso per cas- sazione avverso una sentenza notificata al difensore tra- mite PEC ad indirizzo estratto dall’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC).
Al fine di stabilire la tempestività dell’impugnazione, po- sto che, pur rispettato il termine semestrale di cui all’art. 327 c.p.c., era decorso il termine breve per l’impugnazio- ne di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, la Corte si è chiesta se potesse ritenersi valida la notificazio- ne effettuata all’indirizzo di posta elettronica risultante nel registro INI-PEC.
La soluzione cui è approdata la Corte è stata in senso ne- gativo, sì da ritenere ammissibile l’impugnazione, sulla scorta del rilievo per cui la notificazione della sentenza ad indirizzo PEC attinto dal registro INI-PEC dovrebbe rite- nersi nulla e perciò inidonea a far decorrere il termine bre- ve per l’impugnazione.
2. Il principio di diritto affermato
Siffatta conclusione è stata argomentata attraverso il ri- chiamo a precedenti giurisprudenziali[1], nei quale sareb- be stato stabilito - nella lettura operatane dai giudici di le- gittimità -, per un verso, che la notificazione dell’impu- gnazione andrebbe effettuata all’indirizzo PEC del difen- sore costituito risultante dal registro generale degli indi- xxxxx elettronici (ReGIndE) e, per altro verso, che la notifi- cazione della sentenza ad indirizzo PEC diverso da quel- lo inserito in tale registro non sarebbe idonea a far decor- rere il termine breve per l’impugnazione.
In base a tali principi, la sentenza è giunta ad affermare che «Il domicilio digitale previsto dal d.l. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif., in l. n. 221 del 2012, come modificato dal d.l. n. 90 del 2014, conv. con modif., in l. n. 114 del 2014, corrisponde all’indirizzo pec che ciascun av- vocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenen- za e che, per il tramite di quest’ultimo è inserito nel registro generale degli indirizzi elettronici (ReGIndE), gestito dal Ministero della giustizia. Solo questo indirizzo è qualifica- to ai fini processuali ed idoneo a garantire l’effettiva difesa, sicché la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo pec riferibile - a seconda dei casi - alla parte personalmente o al difensore, ma diverso da quello inserito nel ReGIndE, è nulla, restando del tutto irrilevante la circostanza che detto
[1] Cass. 14 dicembre 2017, n. 30139; Cass. 25 maggio 2018, n. 13224.
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indirizzo risulti dall’Indice Nazionale degli Indirizzi di Po- sta Elettronica Certificata (INI-PEC)».
3. Osservazioni critiche
Un tale principio di diritto appare criticabile per varie ra- gioni.
L’art. 16-sexies d.l. n. 179/12 dispone che, fatto salvo quan- to previsto dall’art. 366 c.p.c. in relazione al giudizio di cas- sazione[2], le notificazioni di atti in materia civile al difen- sore in cancelleria su istanza di parti private è possibile so- lo quando la notificazione tramite PEC sia impossibile per causa imputabile al destinatario. A sua volta, l’art. 82, r.d.
n. 37/1934 stabilisce che il difensore, che eserciti fuori dal- la circoscrizione d’appartenenza, deve eleggere domicilio nel luogo dove ha sede il giudice adito, considerandosi, in mancanza, il domicilio presso la cancelleria. Dal coordina- mento delle due norme sembra oggi da negare la possibilità di procedere alla notifica in cancelleria anziché all’indirizzo PEC[3]. Si coglie dunque che l’art. 16-sexies regola il “do- micilio digitale” del difensore imponendo la notifica degli atti alla PEC di quest’ultimo, con esclusione della possibi- lità di procedere alla notifica in cancelleria, rimanendo per contro estranea dal campo di applicazione della norma l’i- potesi di notificazione direttamente alla parte, di cui erro- neamente discorre la Corte[4].
Quanto poi l’indirizzo PEC al quale va effettuata la noti- ficazione, può osservarsi, per un verso, che l’art. 16-sexies
d.l. n. 179/12 fa riferimento a quelli risultanti nel registro INI-PEC in alternativa nel ReGIndE e, per altro verso, che i precedenti richiamati dalla sentenza in esame non hanno invero escluso la rilevanza del registro INI-PEC[5]. La soluzione adottata dalla Corte non può perciò essere condivisa neppure sotto tale profilo.
Con riferimento, più in generale, alle notificazioni con mo- dalità telematica ad opera del difensore, l’art. 3-bis l. n. 53/94 stabilisce che vadano eseguite all’indirizzo PEC risultante da pubblici registri. A sua volta, l’art. 16-ter d.l. n. 179/12 individua i pubblici registri dai quali può essere estratto l’in- dirizzo PEC al quale procedere alla notificazione. Più speci- ficamente, nella versione di tale articolo introdotta, da ulti- mo, dal d.lgs. n. 217/17 viene fatto riferimento ai registri pre- visti dagli articoli 6-bis[6], 6-quater[7] e 62[8] d.lgs. n. 82/05, dall’art. 16, comma 12, del medesimo decreto legislativo[9], dall’art. 16, comma 6, d.l. n. 185/08, conv. con modif. dalla
l. n. 2/09[10], nonché al registro generale degli indirizzi elet- tronici, gestito dal Ministero della giustizia. In ragione di ciò, il principio di diritto affermato dalla Corte appare privo di fondamento positivo, laddove, anche con riferimento alla notificazione personale alla parte, ne limita la validità se ef- fettuata ad indirizzo PEC inserito nel ReGIndE[11].
4. Rilievi conclusivi
Sorge, infine, il dubbio se il problema giuridico che era chiamata a risolvere la Corte non fosse piuttosto quel-
[2] In particolare il riferimento va all’art. 366, comma 2, c.p.c. giusta il quale «Se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione».
[3] Sul punto, cfr. X. Xxxxxxxx, L’art. 82, x.x. x. 00/0000 xxxxx la spinta del “domicilio digitale”. Una pronuncia a conferma del favor per le forme telematiche, in
Corriere giur., 2018, 88 ss.
[4] Una acritica ed errata applicazione del principio di diritto affermato dalla Corte è stata fatta dalla giurisprudenza di merito, la quale ha ritenuto non corretta- mente effettuata la notifica di un decreto ingiuntivo all’indirizzo PEC del debitore ingiunto estratto dal registro INI-PEC: cfr. Trib. Cosenza 1 marzo 2019, in www.il- xxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, con nota critica di F. Testa.
[5] Cass. 25 maggio 2018, n. 13224 ha sostenuto che «l’unico indirizzo di posta elettronica criticata rilevante è quello risultante dagli elenchi di cui al d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis [il registro INI-PEC, ndr], nonché dal ReGIndE, gestito dal Ministero della giustizia», su questa premessa escludendo che la notifica- zione possa essere effettuata al diverso indirizzo PEC che sia eventualmente indicato dalla parte negli atti di causa. In senso simile Cass. 14 dicembre 2017, n. 30139 ha osservato, con riferimento all’art. 16 sexies d.l. n. 179/12 che «tale norma, dunque, nell’ambito della giurisdizione civile (…) impone alle parti la noti- ficazione dei propri atti presso l’indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui al d. lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis (codice dell’amministrazione digitale) ovve- ro presso il ReGIndE, di cui al d.m. n. 44 del 2011, gestito dal Ministero della giustizia», con conseguente nullità della notificazione presso la cancelleria, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo PEC per cause imputabili al destinatario.
[6] Indice nazionale dei domicili digitali (INI-PEC).
[7] Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato, non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese.
[8] A sensi dell’art. 3-bis d.l. n. 179/12 ogni cittadino può comunicare alla PA un proprio indirizzo PEC quale proprio domicilio digitale, che viene inserito nell’A- nagrafe nazionale della popolazione residente.
[9] Elenco indirizzi PEC delle pubbliche amministrazioni.
[10] Registro delle imprese.
[11] X. Xxxxxxx, I pubblici registri utilizzabili per la notifica telematica: la Cass. n. 3709/19 e i profili problematici, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
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lo della validità della notificazione effettuata ad indirizzo PEC risultante dell’Indice delle Pubbliche Amministrazio- ni (iPA); registro oggi disciplinato dall’art. 6-ter d.lgs. n. 82/05 e nel quale sono indicati «i domicili digitali da uti- lizzare per le comunicazioni e per lo scambio di informa- zioni e per l’invio di documenti a tutti gli effetti di legge tra le pubbliche amministrazioni, i gestori di pubblici ser- vizi e i privati». Difatti, si legge nel provvedimento in esa- me che la difesa erariale aveva eccepito la nullità della no- tificazione della sentenza impugnata e sostenuto di conse- guenza la tempestività del ricorso per cassazione in ragio- ne del fatto che l’indirizzo PEC al quale era stata effettua-
ta la notifica «viene utilizzato dall’Avvocatura dello Stato per scopi amministrativi e non giudiziari». Il che fa pensare che tale indirizzo PEC fosse quello indicato nell’iPA e non nel registro INI-PEC, come, per contro, si legge nella sen- tenza[12]. Il registro iPA sino al 2014 poteva essere utilizza- to per l’individuazione degli indirizzi PEC ai quali proce- dere con la notificazione, essendo annoverato dall’art. 16- ter d.l. n. 179/12 fra i pubblici registri. Il richiamo ad esso, però, è stato espunto dal contesto dell’art. 16-ter, per effet- to dell’art. 45, comma 2, lett. a), d.l. n. 90/2014, ragione per cui è oggi discussa la validità delle notificazioni effettuate agli indirizzi PEC ricavati da tale registro[13].
[12] Secondo il Presidente del CNF, come evidenziato nella lettera del 5 marzo 2019 inviata al Primo Presidente della Corte di cassazione, si tratterebbe di un er- rore materiale nel quale sarebbero incorsi i giudici di legittimità. Conf., X. Xxxxx, La Cassazione non qualifica INI PEC pubblico elenco valido per le notifiche xx x.
x. 00 xxx 0000 , xx xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
[13] L’orientamento prevalente appare orientato a negare che il registro iPA che possa essere considerato pubblico registro ai fini in questione: cfr. Cass. 9 gennaio 2019, n. 287; Cass. 11 maggio 2018, n. 7026. Conf. X. Xxxxxxxx, L’atto processuale telematico. Forma, patologie, sanatorie, Napo- li, 2017, 230; X. Xxxxxxx, La notificazione a mezzo posta elettronica certificata da parte dell’avvocato, in Giusto proc. civ., 2017, 1251; V. Di Giaco- mo, Il processo civile telematico, Milano, 2015, 263 s. In senso contrario, cfr. Cons. Stato 12 dicembre 2018, n. 7026; Trib. Milano 8 dicembre 2016,
n. 33200, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, con nota critica di X. Xxxxxxx.
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MALA FEDE E COLPA GRACE DELLA PARTE PROCESSUALE
La lite temeraria: analisi dell’art. 96, commi 1 e 2, c.p.c.
Xxxxxxx Xxxxxx
del 18 aprile 2019
Sommario
1. Il principio del victus victori e la responsabilità aggravata o per c.d. lite temeraria
2. L’art. 96, comma, 1 c.p.c. Il presupposto soggettivo (malafede e colpa grave) e oggettivo (soccombenza totale)
1. Il principio del victus victori e la responsabilità aggravata o per c.d. lite temeraria
L’art. 91 c.p.c. a norma del quale «il giudice, con senten- za che chiude il processo davanti a lui, condanna la par- te soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa» xxxxxxxx, per il processo di cognizione, il principio della soccombenza.
Tale principio, noto anche con il brocardo victus victo- ri[1], costituisce una specificazione della regola secondo cui «la necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi abbia ragione»[2] chiamando, quindi, colui il quale è stato dichiarato soccombente dal giudice al paga- mento delle spese di lite e degli onorari di difesa.
La ratio di questa norma è, quindi, quella di «ristabilire un corretto riequilibrio del rapporto fra le parti, che non devono (o almeno non dovrebbero) subire un pregiudizio per il fatto di essere state costrette a convenire o per esse- re state convenute in giudizio quando il giudice abbia poi
concluso riconoscendo il loro buon diritto»[3].
L’obbligo di refusione derivante dalla soccombenza, per tale ragione, non ha carattere sanzionatorio bensì inden- nitario in quanto l’agire e il resistere in giudizio sono espressione di un diritto costituzionale tale per cui le par- ti sono sempre pienamente libere di ricorrere al giudice. Il principio generale della soccombenza opera, tuttavia, fino a che tale diritto non si trasformi in abuso e, in particolare, quando l’abuso sia perpetrato dalla parte risultata vincitrice. Su questi presupposti si fonda la responsabilità aggrava- ta[4] o per c.d. lite temeraria[5] prevista all’art. 96 c.p.c. Tale disposizione, infatti, vieta espressamente l’uso di- storto dell’azione e della difesa in giudizio configurando una forma di responsabilità aggravata[6].
Naturalmente, poiché il risarcimento dei danni presuppo- ne un fatto illecito è evidente che tale responsabilità si po- trà configurare solo quando il comportamento di colui che ha agito o resistito in giudizio, ed ha poi avuto torto, abbia assunto modalità tali da attribuirgli i caratteri dell’illeceità.
[1] L’espressione è stata coniata da CHIOVENDA G., Principi di diritto processuale civile, Napoli, 1928, 46 ss.
[2] Così CHIOVENDA G., La condanna alle spese giudiziali, II, Roma, 1953, p. 147.
[3] Così E. M. XXXXXXXX, La concezione polifunzionale della responsabilità civile e l’art. 96 comma 3 c.p.c., in xxx.xxxxxxxxxx.xx, 2019.
[4] In generale sull’argomento v. X. XXXXXXX, La condanna al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1954, p. 378; X. XXXXXX, Note sui danni da illecito processuale, in Riv. dir. proc., 1959, p. 270; X. XXXXXX, Della responsabilità delle parti, in Comm. c.p.c diretto da X. Xxxxxxx, I, Torino, 1973, p. 109; X. XXXXXXXXX, Responsabilità aggravata, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; X. XXXXXXXX, Responsabilità aggravata (dir. proc. civ.), in Diritto on line Treccani, 2012; S. DE LUCIA, P ercorsi di giurisprudenza - La lite temeraria tra indennità e sanzione, in Giur. It., 2019, 1, 212; X. XXXXXXXXX - A. CAR- RATTA, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, vol. I, Torino, 2015, p. 430 ss.
[5] L’espressione lite temeraria con la quale è meglio ricordato il disposto dell’art. 96 c.p.c. era adoperata espressamente nel codice previgente all’art. 370 il qua- le disponeva «la parte soccombente è condannata alle spese del giudizio, e trattandosi di lite temeraria, può inoltre essere condannata al risarcimento dei danni.»
[6] Non bisogna, tuttavia, cadere nell’errore di identificare la lite temeraria con la disciplina dell’abuso del processo. Si tratta, infatti, di fattispecie diverse in rap- porto di strumentalità e trasversalità. La lite temeraria e, in particolare, il nuovo terzo comma dell’art. 96 c.p.c. (comma aggiunto dall’art. 45, comma 12, della L. 69/2009) viene considerato dalla giurisprudenza come uno strumento volto a sanzionare l’abuso del processo.
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Ciò può realizzarsi, trattandosi dell’esercizio di un diritto, solo in quanto si ponga in essere un abuso di quel diritto[7], ossia un suo esercizio al di fuori del suo schema tipico o al di là dei limiti determinati dalla sua funzione.
L’art. 24 Cost., infatti, sancendo che «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legitti- mi. La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» conferisce, da un lato, il diritto invio- labile di difesa e, dall’altro un potere di azione che la par- te può esercitare a tutela dei suoi diritti. Xxx, tuttavia, si accerti che tale potere è stato esercitato a tutela di pretese infondate la parte sarà chiamata a rispondere del suo ope- rato che, inevitabilmente, ha ingenerato un danno.
Infatti «poiché la ragione per cui l’agire o il resistere in giudi- zio è riconosciuto come diritto anche a colui al quale il giu- dice darà torto sta nel fatto che al momento in cui si deci- de di agire o resistere non si può ancora sapere se si avrà ra- gione o torto, quando viceversa dovesse risultare certo che la parte, che ha agito o resistito, era ben consapevole del suo torto ed ha agito per spirito di emulazione od altre ragioni analoghe o resistito con intenti dilatori o defatigatori, que- sta situazione di malafede sarebbe rilevatrice di un abuso del diritto d’azione e perciò di un comportamento illecito»[8]. La legge, quindi, accorda protezione e garanzia solo a co- loro i cui diritti o interessi siano stati realmente lesi o vio- lati mentre chi agisce o resiste in giudizio temerariamente, utilizzando in maniera distorta il processo, non ha diritto ad essere garantito bensì punito in quanto, impegnando ingiustamente la giustizia, viola il principio dell’econo- mia processuale e della ragionevole durata del processo. La ratio della previsione di cui all’art. 96 c.p.c. è, quindi, quella di risarcire il danno causato dal riprovevole com- portamento processuale dell’altra parte e di costituire un monito in grado di condizionare il comportamento delle parti nel processo.
Secondo autorevole dottrina[9] la norma sanziona con la condanna al risarcimento dei danni, in aggiunta alla refu- sione delle spese di lite, il c.d. illecito processuale, caratte- rizzato da un elemento materiale, vale a dire un contegno relativo ad una controversia e, da un elemento soggettivo, ossia il fatto che l’autore rivesta necessariamente la quali- tà di parte nel processo.
Anche la giurisprudenza qualifica detta responsabilità co- me processuale in quanto la stessa scaturisce da un com- portamento doloso o colposo posto in essere nel proces- so (sia esso cognitivo, cautelare, esecutivo o di volontaria giurisdizione) oppure da un comportamento connesso al processo (trascrizione di domanda giudiziale) ovvero suc- cessivo al processo (iscrizione di ipoteca giudiziale).
c.p.c. configura un’ipotesi speciale di responsabilità aqui- liana ex art. 2043 c.c.
La Suprema Corte, infatti, ha più volte affermato che
«l’art. 96 c.p.c. si pone con carattere di specialità rispetto all’art. 2043 cod. civ. di modo che la responsabilità pro- cessuale aggravata, - ad integrare la quale è sufficiente nell’ipotesi di cui al secondo comma dell’art. 96 c.p.c. la colpa lieve, come per la comune responsabilità aquilia- na, - pur rientrando concettualmente nel genere della re- sponsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue possibili ipotesi, sotto la disciplina normativa conte- nuta nel citato art. 96 c.p.c., né è configurabile un concor- so, anche alternativo, dei due tipi di responsabilità»[10]. La specialità delle ipotesi di responsabilità configura-
[7] Sull’abuso del processo v. in dottrina A. DONDI - X. XXXXXXXX, Appunti sul problema dell’abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 193 ss; MONTANARI M., Note minime sull’abuso del processo civile, in Corr. Xxxx., 2011, 556; X. XXXXXXXX, L’abuso del processo civile, Roma, 2005;
L. P. XXXXXXXX, Abuso del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 319; L. P. XXXXXXXX, Abuso dei diritti di difesa e durata ragionevole del proces- so: un nuovo parametro per i poteri direttivi del giudice? (Nota a Cass. S. U., 3 novembre 2008, n. 26373, Foschini c. Soc. servizi tecnici), in Riv. dir. proc, 2009, 0000, X. XXXXXXXXX, Xxxxx del processo, in Dig. civ., Agg., I, Torino, 2007; X. XXXXX, Abuso del processo (dir. proc. civ.), in Enc. dir. Xxxxxx, XXX, Milano, 2010; X. XXXXXXX, L’abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 117; X. XXXXXXXXXX, L’abuso dell’abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2017, 6, 1456; X. XXXXXXXX, L’abu- so del processo e la sua sanzione: sulle incertezze applicative dell’art 96 comma 3 c.p.c., in Fam e dir., 2011, 814; X. XXXXXXXXXX, L‘abuso del processo, Padova 2000;
[8] Si esprime in questi termini X. XXXXXXXXX - X. XXXXXXXX, Diritto processuale civile. Nozioni introduttive e disposizioni generali, vol. I, Torino, 2015, p. 430-431.
[9] Cfr. X. XXXXXX, Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, in Comm. c.p.c. Xxxxxxx, I, Torino, 1973, 1030, ID., Note sui danni da ille- cito processuale, in Riv. dir. proc., 1959, 270 e ID., Individuazione delle fattispecie di illecito processuale e sufficienza della disciplina dell‘art. 96 c.p.c ., in Giur. it., 1961, I, 93.
[10] Così Cass. civ. sez. II, 12 marzo 2002, n. 3573. Recentemente nello stesso senso cfr. Cass. civ. sez. VI - 3, Ord. 16 maggio 2017, n. 12029 ove si legge che «le ipotesi di responsabilità configurate dall’art. 96 c.p.c. (quanto meno nei primi due commi, e prescindendo dal terzo comma di più recente introduzione) costitui-
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te dall’art. 96 c.p.c., rispetto alla fattispecie generale di cui all’art. 2043 c.c., è costituita dal presupposto della soccom- benza (richiesto dalle prime e non dalla seconda) e dalla pe- culiarità del fatto illecito dannoso rappresentato dalla viola- zione di una norma di diritto processuale (ove, invece, il ge- nerale illecito aquiliano è basato sulla violazione di una nor- ma di diritto sostanziale). Inoltre, il risarcimento ex art. 2043 può essere chiesto in un processo diverso da quello nel qua- le si è prodotto il danno, mentre l’art. 96 c.p.c. presuppone che il danno sia liquidato nella sentenza che chiude il proces- so nel quale esso si è verificato. La domanda di cui all’art. 96 c.p.c, tanto per l’an che per il quantum, è, infatti, inammissi- bile se non formulata di fronte allo stesso giudice competen- te per il merito della causa cui i pretesi danni si riferiscono. Sulla base di tali considerazioni si può affermare che l’art. 96 c.p.c. contiene la disciplina integrale e completa del- la c.d. «responsabilità processuale aggravata» tale per cui è preclusa ogni possibilità di invocare, con domanda auto- noma e concorrente, i principi generali della responsabilità per fatto illecito di cui all’art. 2043 c.c., poiché tra le due fat- tispecie vi è un rapporto di specialità che rende inconfigu- rabile il concorso tra le due norme. Pertanto - non essendo possibile il concorso tra la fattispecie generale ex art. 2043
2. L’art. 96, comma, 1 c.p.c. Il presupposto soggettivo (malafede e colpa grave) e oggettivo (soccombenza totale) L’art. 96 c.p.c. al primo comma stabilisce che «se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’al- tra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimen- to dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza». L’affermazione di responsabilità processuale aggravata della parte soccombente, secondo tale previsione normativa, xxxxxx-
de la sussistenza di tre elementi: il carattere totale della soc- combenza; l’elemento soggettivo consistente nell’aver agito con mala fede o colpa grave e l’elemento oggettivo rappresen- tato dalla dimostrazione della concreta ed effettiva esistenza di un danno subito dalla controparte come conseguenza di- retta ed immediata di detto comportamento processuale[11]. Presupposto indefettibile della responsabilità processuale aggravata è la totale soccombenza nel giudizio[12].
La responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., infatti, in- tegrando una particolare forma di responsabilità proces- suale, a carico della parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, richiede necessariamente la totale soccombenza della parte.
Secondo la giurisprudenza, infatti, non si può ricorrere all’applicazione dell’art. 96 co. 1 c.p.c. quando non si sia verificato il requisito della totale soccombenza[13].
Per quanto concerne, invece, l’elemento soggettivo la dot- trina distingue la malafede dalla colpa grave individuan- do la prima nella «coscienza di operare slealmente o nel- la piena consapevolezza di avere torto» e, la seconda, nel- la «mancanza di diligenza della parte nel valutare se il di- ritto sia sussistente o se l’atto sia rituale».
La giurisprudenza, invece, tende a far rientrare l’elemento soggettivo all’interno del concetto unitario di temerarietà che consiste nella ignoranza colpevole, nel mancato dove- roso impiego della necessaria diligenza, nella consapevo- lezza del proprio torto, nella volontà di servirsi del pro- cesso per scopi estranei ai suoi fini istituzionali.
La Suprema Corte afferma, infatti, che «l’elemento sog- gettivo deve ravvisarsi in tutti quei casi in cui vi sia cono- scenza della infondatezza della domanda e delle tesi so- stenute ovvero difetto della normale diligenza nell’acqui- sizione di detta conoscenza».
Recentemente, inoltre, la Corte di Cassazione[14] ha affer- mato che «in materia di responsabilità civile aggravata con- dotte sintomatiche dell’elemento soggettivo della mala fede
scono fattispecie speciali di responsabilità civile in rapporto a quella generale prevista dall’art. 2043 c.c. e la loro specificità (che ne giustifica la particolare disci- plina, anche sul piano della tutela giudiziale) è costituita proprio dal peculiare fatto illecito dannoso, rappresentato da una condotta processuale (consistente, per quanto riguarda la fattispecie di cui dell’art. 96 c.p.c., comma 1, nell’avere agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave). Ne consegue che, non essen- do possibile concorso tra la fattispecie generale di cui all’art. 2043 c.c. e quella speciale di cui all’art. 96 c.p.c., il danno riconducibile alla scorretta condotta pro- cessuale è soggetto esclusivamente alla speciale disciplina di cui all’art. 96 c.p.c ». La giurisprudenza, sul punto, è costante: cfr., in proposito, Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2010, n. 5069; Cass. civ. sez III, 24 luglio 2007, n. 16308; Cass. civ. sez. III, 20 luglio 2004, n. 13455; Cass. civ., sez. III, 23 aprile 2001, n. 5972; Cass. civ., sez. sez. I, 19 maggio 1999, n. 4841; Cass. Sez. Un. civ., 6 febbraio 1984 n. 874. In dottrina v. X. XXXXXX, Individuazione della fattispecie di illecito processuale e sufficienza dell’art. 96 cod. proc. civ., in Giur. it. 1961, I, 1, 93. In senso contrario X. XXXXXXXXXX, Un principio in crisi: xxxxxx xxxxxxx, in Riv. dir. proc., 2011, 265 ss
[11] In giurisprudenza cfr. Cass. civ. sez. III, 29 settembre 2016, n. 19285; Cass. civ. sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645; Trib. Modena, sez. II, 13 aprile 2012, n. 620.
[12] Si esprime in questi termini Cass. civ. sez. I, 28 luglio 2000, n. 9897.
[13] Cfr. in tal senso Cass. civ. sez. II, 14 aprile 2016, n. 7409; Cass. civ. sez. I, 2 marzo 2001, n. 3035; Cass. civ. sez. II, 12 ottobre 2009, n. 21590.
[14] Cass. civ. sez. VI - 3 Ord., 21 febbraio 2018, n. 4136.
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o della colpa grave non si ravvisano soltanto nella consape- volezza della infondatezza in jure della domanda, ma anche nella omessa deduzione di circostanze fattuali dirimenti ai fini della corretta ricostruzione della vicenda controversa.» Il comportamento sanzionato dalla norma in commento si caratterizza, quindi, dal punto di vista soggettivo, per la mala fede e la colpa grave della parte che agisce o resiste in giudizio con la consapevolezza dell’infondatezza del- la propria pretesa o difesa, cioè abusando del diritto d’a- zione o per spirito di emulazione o per fini dilatori ovvero con la mancanza di quel minimo di diligenza o prudenza necessarie per rendersi conto dell’infondatezza della pro- pria pretesa e per valutare le conseguenze dei propri atti. Il presupposto oggettivo dell’entità del danno comporta, invece, l’esistenza di un danno e la prova da parte dell’i- stante sia dell’an che del quantum debeatur in modo da consentire al giudice di identificarne concretamente l’esi- stenza e di disporne la relativa liquidazione[15].
Ciò, tuttavia, non osta a che l’interessato possa dedurre, a so- stegno della sua domanda, «condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, potendosi desumere il dan- no subito da nozioni di comune esperienza anche alla stre- gua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) e della legge
n. 89 del 2001 (c.d. legge Xxxxx), secondo cui, nella norma- lità dei casi e secondo l’id quod plerumque accidit ingiusti- ficate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (qua- li quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata ini- ziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano
strettamente economico dal rimborso delle spese ed onora- ri liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano ex se anche danni di natura psi- cologica, che per non essere agevolmente quantificabili, van- no liquidati equitativamente sulla base degli elementi in con- creto desumibili dagli atti di causa»[16].
La liquidazione del danno può operarsi, anche d’ufficio, in via equitativa ma ciò non scalfisce l’onere della prova, gra- vante sulla parte che richiede il risarcimento, sia della con- creta esistenza di un pregiudizio sia della sua quantificazione. L’art. 96, 1 xxxxx, c.p.c. configura, quindi, una forma di responsabilità che, andando oltre la normale responsa- bilità di rimborso come pura conseguenza obiettiva del- la soccombenza, si aggrava in quanto fondata su un ille- cito. Tale responsabilità dà diritto al risarcimento di tutti i danni che conseguono all’aver dovuto partecipare ad un giudizio obiettivamente ingiustificato.
In sostanza al soccombente temerario verranno addos- sati, oltre al normale rimborso delle spese, anche quegli ulteriori oneri che il vincitore ha subito in conseguenza del processo: come ad es. le quote non ripetibili, eventua- li spese di viaggio, interessi di un tasso superiore a quello legale, eventuali lucri cessanti ecc.
Inoltre, dal momento che l’illecito si concreta nell’abuso di uno strumento processuale, la domanda del conseguente risarcimento è configurabile soltanto nell’ambito di quel processo, sicchè essa non costituisce oggetto di un’autono- ma azione ma si esaurisce in un potere endo-processuale collegato e connesso all’azione (o alla resistenza) esercitata in quel processo[17] o in quel grado di giudizio[18].
[15] Cfr. Trib. Milano, sez. I, 18 aprile 2008, n. 5119; Trib. Bari, sez. II, 28 novembre 2005, n. 2597; Cass. civ. sez. I, 4 novembre 2005, n. 21393; Cass. civ. sez. I, 12 dicembre 2005, n. 27383.
[16] Così Xxxx. civ. sez. lav., 27 novembre 2007, n. 24645.
[17] Cfr. Cass. civ. sez. III, 18 febbraio 2007, n. 9297 ove si è affermato che: «In tema di responsabilità aggravata, la norma dell’art. 96, cod. proc. civ., nell’affida- re al giudice avanti al quale si è “agito o resistito” (primo comma) ed a quello che ha compiuto l’accertamento “l’inesistenza del diritto” (secondo comma) il com- pito di essere investito della relativa istanza, non pone una regola di competenza, cioè non indica avanti a quale giudice si può esercitare un’azione di cui l’istan- za è espressione, ma disciplina un fenomeno che si colloca all’interno di un processo già pendente e che si esprime nell’esercizio da parte del litigante di un pote- re all’interno di esso - quello di formulazione di un’istanza (e non della proposizione di un’azione) - il cui esercizio impone al giudice di provvedere sull’oggetto del- la richiesta, la quale, dunque, è strettamente collegata e connessa all’agire od al resistere in giudizio. Ne discende che il potere di rivolgere l’istanza, essendo pre- visto come potere endo processuale collegato e connesso all’azione od alla resistenza in giudizio, non può essere considerato (salvo il caso eccezionale che il suo esercizio sia rimasto precluso in quel processo da ragioni attinenti alla sua struttura e non dipendenti dall’inerzia della parte) come potere esercitatile al di fuo- ri del processo e, quindi, suscettibile di essere esercitato avanti ad altro giudice, cioè in via di azione autonoma. Pertanto, quando tale esercizio avvenisse non ri- correrebbe una situazione di esercizio di un’azione davanti ad un giudice diverso da quello che sarebbe stato competente, bensì, l’esercizio di un’azione per un di- ritto non previsto dall’ordinamento, il quale appunto prevede il diritto di vedersi liquidare il danno da responsabilità aggravata (nelle due ipotesi previste dai due commi dell’art. 96) soltanto come diritto espressione del diritto di azione esercitato in un processo a tutela della situazione giuridica soggettiva principale che vi sia dedotta e, quindi, come diritto che di tale situazione è conseguenza e che, perciò lo è anche dell’azione con cui essa è fatta valere (in via attiva o passiva).»
[18] Per quanto riguarda la proponibilità della domanda ex art. 96 c.p.c. nel giudizio d’appello cfr. Cass. civ. sez. VI, 21 gennaio 2016, n. 1115 ove si afferma che
«la domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. può essere proposta per la prima volta nella fase di gravame solo con riferimen-
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3. L’art. 96, comma 2, c.p.c. Il presupposto soggettivo (colpa lieve) e oggettivo (inesistenza del diritto)
Lo stesso concetto di abuso del diritto di azione analizza- to sta alla base della disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 96 c.p.c. a norma del quale «il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’e- secuzione forzata, su istanza della parte danneggiata con- danna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore pro- cedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liqui- dazione dei danni è fatta a norma del comma precedente». L’istituto della responsabilità aggravata viene, qui, appli- cato all’esercizio dell’azione esecutiva e all’esercizio della fase esecutiva dell’azione cautelare o ad altre iniziative o trascrizioni di provvedimenti.
Il legislatore, in questi casi, ha ritenuto opportuno disci- plinare separatamente e più severamente alcuni compor- tamenti che, per la loro aggressività, rischiano di creare danni a chi li subisce e, in relazione ai quali, sono neces- sarie maggiori cautele.
La responsabilità aggravata, di cui all’art. 96, secondo comma, c.p.c., sussiste, infatti, solo se, in aggiunta all’ele- mento soggettivo della violazione dei canoni di normale prudenza, sia accertato anche l’elemento oggettivo ossia l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provve- dimento cautelare ovvero è stata trascritta domanda giu- diziale ovvero è stata iscritta ipoteca giudiziale ovvero l’e- secuzione forzata è stata iniziata e/o proseguita.
Rispetto all’agire temerario di cui al primo comma, per i comportamenti tipizzati in questo secondo capoverso, so-
no fissati dei requisiti ben differenti ai fini dell’integrazio- ne dell’illecito processuale. Infatti, abbandonato il generico riferimento alla soccombenza, il presupposto di ordine og- gettivo è rappresentato dalla inesistenza del diritto a tutela del quale erano stati compiuti gli atti indicati dalla norma. Inoltre non si richiede l’elemento soggettivo della mala fe- de o della colpa grave bensì il difetto della normale pru- denza che è espressione comunemente intesa di culpa lie- vis ossia «la ragionevole ed oggettiva prevedibilità, secon- do l’ordinaria diligenza del buon padre di famiglia, del successivo accertamento dell‘inesistenza del diritto.»
Il secondo comma dell’art. 96 c.p.c., quindi, riferendosi alla parte che abbia agito senza la normale prudenza, ab- bassa la soglia dell’illecito alla colpa lieve.
La norma è, infatti, più severa rispetto alla norma di cui al primo comma in quanto la legge vuole evitare che si faccia un uso indiscriminato ed incauto di quella particolare normativa che, anticipando il giudizio, consente di agire, malgrado non sia stata ancora definitivamente accertata l’esistenza del dirit- to. L’ordinamento, in questi casi, per esigenze di rapidità ad immediata efficacia, mette a disposizione delle parti un’arma il cui uso è a rischio e pericolo di chi se ne avvale.
La ragione del maggior rigore risiede, dunque, nella ne- cessità di tutelare in modo più efficace chi si trovi ingiu- stamente colpito da tali procedure le quali incidono sulla sfera patrimoniale dei soggetti passivi toccando la dispo- nibilità dei beni loro appartenenti.
Per quanto riguarda, infine, il rapporto tra il primo e il se- condo comma dell’art. 96 c.p.c. si suole affermare sia in dottrina[19] che in giurisprudenza[20] che, poiché la por- tata dell’art. 96 esaurisce ogni ipotesi di responsabilità
to a comportamenti della controparte posti in atto in tale grado del giudizio, quali la colpevole reiterazione di tesi giuridiche già reputate manifestamente infonda- te dal primo giudice ovvero la proposizione di censure la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata in modo da evitare il gravame, e non è sog- getta al regime delle preclusioni previste dall’art. 345, comma 1, c.p.c., tutelando un diritto conseguente alla situazione giuridica soggettiva principale dedotta nel processo, strettamente collegato e connesso all’agire od al resistere in giudizio, sicché non può essere esercitato in via di azione autonoma». Nello stesso senso x. Xxxx. civ. sez. III, 16 giugno 2016, n. 12413; Cass. civ. sez. III, 30 dicembre 2014, n. 27534; Cass. civ. sez. VI - 3, 18 novembre 2014, n. 24546 e Cass. civ. sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22226. La domanda di condanna al risarcimento dei danni ex art 96 c.p.c. può essere proposta anche in sede di legittimità cfr. Cass. civ. sez. lav. 11 dicembre 2012, n. 22659 secondo cui «la domanda di condanna al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., può, in linea di principio, essere proposta anche in sede di legittimità, per i danni che si assumono derivanti dal giudizio di cassazione. In particolare, se tale do- manda si riferisce a danni conseguenti alla proposizione del ricorso, deve essere formulata, a pena di inammissibilità, con il controricorso. Tuttavia, l’accoglimen- to della domanda, per avere la controparte processuale agito o resistito in giudizio con dolo o colpa grave, presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo dell’illecito (mala fede o colpa grave), sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto), con la conseguenza che, ove dagli atti del processo non risultino ele- menti obbiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno, nulla può essere liquidato a tale titolo, neppure ricorrendo a criteri equitativi».
[19] Cfr. X. XXXXXX, Della responsabilità delle parti, in Comm. c.p.c diretto da X. Xxxxxxx, I, Torino, 1973, p. 1035. L’opinione, tuttavia, non è pacifica: in senso con- trario v. X. XXXXXXXXX, Sulla speciale responsabilità per imprudente esecuzione in materia di istruzione preventiva, in Giur. it., 1956, I, 1, 1037.
[20] Cfr. Cass. civ. sez. I, 30 luglio 2010, n. 17902 secondo cui «la previsione di cui al 1 comma dell’art. 96 c.p.c. non riguarda esclusivamente il processo di co- gnizione, ma ha natura generale e può ricomprendere anche illeciti processuali maturati all’interno delle ipotesi previste dal comma 2 dello stesso articolo, fuori dell’ipotesi speciale tipizzata dell’inesistenza del diritto.»
L’Aula Civile • n. 4 - 2019 › MALA FEDE E COLPA GRACE DELLA PARTE PROCESSUALE
aggravata, e poiché, d’altra parte, il 2 comma della nor- ma suddetta contempla ipotesi specifiche e ben delinea- te, ogni altra ipotesi di responsabilità aggravata non risul- tante tra queste ultime, ancorché concernente il processo esecutivo o cautelare, rientri nella portata del 1 comma.
1. Analisi casistica
L’art. 96, secondo xxxxx, c.p.c. disciplina ipotesi di re- sponsabilità aggravata tra loro eterogenee: esecuzione di un provvedimento cautelare; trascrizione di domanda giudiziale; iscrizione di ipoteca giudiziale; inizio o prose- cuzione dell’esecuzione forzata.
Appare utile, pertanto, passare brevemente in rassegna le principali fattispecie attraverso l’analisi delle più rilevanti pronunce della Suprema Corte.
Per quanto riguarda il settore dell’esecuzione delle misu- re cautelari la giurisprudenza ha affermato la sussisten- za della responsabilità aggravata in diverse ipotesi: nell’i- potesi in cui venga chiesta una misura cautelare ad un giudice che l’istante sappia incompetente, il quale sia in- dotto maliziosamente a concedere il mezzo cautelare con una fuorviante documentazione incompleta e nell’ipotesi in cui sia chiesta ed ottenuta una misura cautelare a tute- la di un credito che, se pur esistente, sia all’esito del giudi- zio, di gran lunga inferiore alla somma per la quale il mez- zo cautelare è stato eseguito[21].
Secondo la Corte, infatti «ai fini della condanna al risarci- mento dei danni per responsabilità aggravata, ex art. 96, comma 2, c.p.c., della parte soccombente che abbia chiesto ed ottenuto, provvedendo poi ad eseguirle, misure cautelari a tutela di un diritto inesistente, siffatta nozione di inesistenza è da ritenere comprensiva anche della notevole sproporzione fra il quantum accertato e quello per cui sono state sollecitate le dette misure, con riguardo alla differenza fra tali importi.» Sussiste, inoltre, responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, secondo comma, c.p.c. nel caso di trascrizione di una doman- da giudiziale che, in concreto, non poteva essere trascritta. La Suprema Corte ha affermato, infatti, che «l’azione di risarcimento dei danni subiti in conseguenza della trascri- zione di una domanda giudiziale trova il suo titolo giu- ridico nell’art. 2043 c. c. nella ipotesi di domanda non trascrivibile, in quanto non compresa in nessuno dei casi
previsti dagli art. 2652 e 2653 c. c., dovendosi nell’esegui- ta trascrizione ravvisare un vero e proprio fatto illecito, e nell’art. 96, 2° comma, c. p. c., nella ipotesi di domanda che pure essendo suscettibile di trascrizione, in concreto non poteva essere trascritta, non sussistendo il diritto con essa fatto valere: con la conseguenza in quest’ultimo ca- so che è improponibile la domanda con la quale si chie- da al giudice della causa del merito, che è investito dell’e- sclusiva competenza, il solo accertamento della responsa- bilità con la liquidazione del danno in separata sede»[22]. Per quanto riguarda, invece, l’iscrizione di ipoteca giudizia- le ex art. 2818 c.c. si applica il secondo comma dell’art. 96
c.p.c. laddove la suddetta iscrizione avvenga in totale caren- za di diritto mentre si è asserito che si applicherebbe il primo comma dell’art. 96 se, avvenuta l’iscrizione su beni, il valo- re ecceda di gran lunga l’importo del credito garantito[23] o se il creditore resista con malafede o colpa grave nel giudizio per la riduzione delle ipoteche proposto dal debitore.
La giurisprudenza ha affermato, inoltre, che «l’iscrizione di ipoteca in base a decreto ingiuntivo, dichiarato prov- visoriamente esecutivo dal giudice che lo ha emesso, è fonte di responsabilità processuale aggravata a norma dell’articolo 96, comma 2, del c.p.c. ove venga accerta- ta l’inesistenza del diritto di credito fatto valere dal giudi- ce dell’opposizione, purché concorra l’elemento soggetti- vo del difetto della normale prudenza, mentre, ove il det- to giudice accerti che la clausola di provvisoria esecuzio- ne non poteva essere concessa per mancanza del pericu- lum in mora e l’ipoteca essere iscritta, è configurabile re- sponsabilità a norma del comma 1 dello stesso articolo nel concorso dell’elemento soggettivo da tale norma ri- chiesto, a prescindere dall’esistenza del credito»[24].
Sussiste, infine, responsabilità aggravata, ai sensi dell’art. 96 comma 2 c.p.c., per l’inizio o il compimento dell’ese- cuzione forzata in mancanza di titolo esecutivo, origina- ria o sopravvenuta, a seguito dell’accertamento dell’ine- sistenza del diritto di procedere in via esecutiva. In que- sti casi, secondo la Corte, la richiesta di condanna «può essere proposta soltanto al giudice del giudizio di merito nel quale il titolo esecutivo si è formato, ovvero dinanzi al giudice dell’opposizione all’esecuzione e non davanti al giudice dell’opposizione agli atti esecutivi»[25].
[21] Cass. civ. sez. III, 2 febbraio 1994, n. 1037.
[22] Così Cass. civ. sez. II, 20 ottobre 1990, n. 10219.
[23] Cfr. Cass. civ. sez. I, 28 maggio 2010, n. 13107; Cass. civ. sez. III, 24 luglio 2007, n. 16308; Cass. civ. sez. III, 7 maggio 2007, n. 10299; Cass. civ. sez. III, 4 aprile 2001, n. 4968.
[24] Cfr. Cass. civ. sez. III, 23 maggio 2003, n. 8171. In senso conforme x. Xxxx. xxx. xxx. X, 00 novembre 2016, n. 23271.
[25] Così Cass. civ. sez. III, 23 gennaio 2013, n. 1590.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
ASSISTENZA MORALE AI FIGLI
La tutela processuale del diritto dei figli all’assistenza morale da parte dei genitori
Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
del 23 aprile 2019
Sommario
2. Il ricorso alla esecuzione indiretta ex art. 614 bis c.p.c.
3. L’applicazione dellart. 709 ter c.p.c.
4. La cumulabilità degli strumenti ex artt. 614 bis e 709 ter c.p.c.
1. Il diritto dei figli all’assistenza “morale” da parte dei genitori e la difficoltà di tutela in sede processuale
Con l’introduzione nel corpo del codice civile dell’art. 315 bis, ad opera della L. 10 dicembre 2012, n. 219[1], è stato delineato, nell’ambito della complessiva ed orga- nica riforma dei rapporti di filiazione, un vero e proprio “statuto” dei diritti e dei doveri del figlio nei confronti dei genitori, che contempla, in maniera esplicita, il dirit- to del figlio all’assistenza “morale”. Si tratta di una in- novazione di rilevantissima portata in quanto per la pri- ma volta si è espressamente attribuita rilevanza giuridi- ca ad elementi non patrimoniali del rapporto di filiazio- ne; in linea con la tendenza a modificare la tradiziona- le impostazione codicistica, notoriamente orientata ad assicurare essenzialmente una tutela di carattere patri- moniale.
Tale scelta legislativa è stata successivamente ribadita mediante la previsione, nell’ambito della riformulazione dell’art. 147 c.c. ad opera del D. Lgs. 28 dicembre 2013, n.
154, dello speculare dovere di assistenza morale dei figli, espressamente stabilito in capo ai genitori.
Si può quindi affermare che, a seguito delle menziona- te innovazioni legislative, il diritto all’assistenza “morale” del figlio[2] trova la sua specifica fonte nella legge, che lo comprende espressamente nel fascio delle posizioni giu- ridiche attive vantate dal figlio in relazione al suo status, valorizzando il contributo genitoriale a contenuto sostan- zialmente relazionale[3].
«L’assistenza morale altro non è che l’esplicitazione di un diritto all’affetto e all’amore dei figli»[4]: un diritto sogget- tivo di carattere strettamente personale, di primaria rile- vanza costituzionale, il cui oggetto è improntato su un’im- posizione non soltanto “morale”, ma invece giuridica, la cui inottemperanza deve poter essere sanzionata[5], in as- soluto, come in occasione della crisi familiare.
Tuttavia, pur essendo sempre più sentita la necessità di una tutela giurisdizionale in grado di prevenire e sanzio- nare quei comportamenti del genitore che violano il dirit- to all’assistenza morale del figlio, il carattere non patri-
[1] Tale diritto era, invero, stato già enunciato nella disciplina delle adozioni e dell’affidamento dei minori (all’art. 12, della L. n. 184/1983) e fatto proprio anche da un risalente disegno di legge (il d.d.l. n. 2514/1983), il cui contenuto in buona parte è stato poi trasferito nella nuova regolamentazione.
[2] Per approfondire, nota di X. Xxxxx, L’affidamento dei figli minori nella crisi della coppia genitoriale, in Figli Genitori Famiglia Aspetti Giuridici Personali e Patri- moniali dopo la Riforma della Filiazione, a cura di X. Xxxxxxx e X. Xxxxxxx, Xxxxxx, 2014, p. 231.
[3] Cfr. X. Xxxxx, La privazione genitoriale, Xxxxxxx, Varese, 2015, p. 9.
[4] Cfr. X. Xxxxxxxx Xxxxxxx, L’assistenza morale nei confronti dei figli e la modifica della formula celebrativa del matrimonio, 31 ottobre 2013, in xxxx://xxx.xxxxx- xxxx.xx/Xxxxxxxxxx/xxxxxxxxxx-xxxxxx-xxxxx/.
[5] In ordine all’attuazione dei provvedimenti relativi al c.d. «diritto di visita o di frequentazione», si veda l’interessante contributo di C. Gamba, “I provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale”, a cura di M. A. Lupoi, tomo II, Maggioli, Santarchangelo di Romagna, 2018, p. 643 e ss.
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moniale del diritto rende estremamente difficoltosa l’in- dividuazione di adeguati strumenti di tutela, che possano assicurarne l’effettività[6].
Rivelandosi, in tal modo, una tangibile insufficienza dell’ordinamento giuridico, che si manifesta non piena- mente in grado di assicurare l’attuazione del diritto dei fi- gli di beneficiare concretamente dell’assistenza morale dei genitori in funzione del proprio pieno sviluppo.
Per di più, la giurisprudenza è restìa all’applicazione di misure considerate troppo “forti”, ritenendo che possano acuire una conflittualità familiare spesso già elevatissima. Come conferma il principio espresso nel decreto del Tri- bunale per i Minorenni dell’Aquila dell’8 giugno 2007, se- condo il quale nessuna legge può costringere un soggetto a manifestare un affetto non percepito ovvero ad esercita- re un ruolo genitoriale non voluto[7].
2. Il ricorso alla esecuzione indiretta ex art. 614 bis c.p.c. La misura di coercizione indiretta prevista dall’art. 614 bis c.p.c.[8] sembrerebbe la più confacente per il caso di violazione del dovere all’assistenza morale, stante l’infun- gibilità della prestazione di fare del genitore.
Peraltro, detto strumento ad oggi consta di pochissime appli- cazioni, e per di più essenzialmente allo scopo di tutelare il di- ritto di visita di un genitore a fronte di comportamenti ostati- vi messi in atto dall’altro; nella prospettiva, cioè, di una tutela diretta del diritto di visita del genitore, cui consegue solo indi- rettamente la tutela del diritto dei figli a conservare un rappor- to con entrambi i genitori. E senza alcuna considerazione, in realtà, neppure indiretta, dell’assistenza “morale” che costitui- sce il contenuto specifico del diritto che ci occupa.
In tal senso, si segnala la sentenza del Tribunale di Roma, sez. I, del 16 dicembre 2016, esempio di applicazione ex officio dell’astreinte di cui all’art. 614 bis c.p.c. Secondo il Collegio, contro il genitore che viola il diritto del figlio al- la frequentazione con l’altro, può essere applicata la mi- sura di cui all’art. 614 bis c.p.c., al fine di assicurare l’os- servanza degli obblighi di fare previsti dal dictum giudi- ziale afferente alla responsabilità genitoriale[9].
3. L’applicazione dell’art. 709 ter c.p.c.
Con particolare riferimento alle situazioni di crisi fami- liare può anche venire in considerazione l’art. 709 ter c.p.c.[10], in quanto previsto come strumento apposita-
[6] La non patrimonialità del diritto all’assistenza morale del figlio è ripresa altresì da X. Xxxxxxx, Il diritto all’amore dei figli, 1 agosto 2017, in diritto civile e com- merciale, xxxxx://xxx.xxxxxxx.xx/xxxxxxx-xxxxxxxx-xxx-xxxxx/, dal quale, tuttavia, ci si discosta in quanto propone quale tutela del diritto all’assistenza morale del fi- glio il risarcimento dei danni, dunque, ancora una volta un rimedio di carattere patrimoniale.
[7] Della stessa tendenza, seppur più risalente, è la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Torino del 16 giugno 1980, in Xxxx.xx., I, 2, c. 561, di cui colpiscono le parole: «Non si può costringere un padre ad esserlo davvero», dalle quali emerge la concreta difficoltà della coercibilità dell’amore verso un figlio.
[8] La misura sanzionatoria ex art. 614 bis è stata definitivamente inserita nel codice di procedura civile dalla L. del 18 giugno 2009, n. 69. Essa è improntata sull’analoga misura francese denominata “astreinte”, derivante dal latino “adstringere”, che significa “costringere”, di derivazione molto antica, collocabile cro- nologicamente ai primi anni dell’Ottocento, di creazione giurisprudenziale. Un primo tentativo di introduzione delle astreintes nell’ordinamento italiano risale al progetto “Carnelutti” del 1926, il quale (agli artt. 667 e 668) contemplava, in caso di mancata esecuzione di un obbligo di fare e di non fare, il pagamento di una somma di denaro su istanza del soggetto adempiente, per ogni giorno di ritardo, a partire dal termine stabilito dal giudice. Un ulteriore passo in avanti è stato fatto dal Ministro Reali, che nel 1925 presentava un progetto di legge recante provvedimenti urgenti relativi al processo civile, il quale prevedeva l’aggiunta al codice di procedura civile dell’art. 259 bis. Va fatto poi cenno al progetto “Vaccarella” del 2003, che all’art. 42 introduceva una misura coercitiva di natura patrimoniale del- la quale nel prosieguo avrebbero beneficiato sia il creditore sia lo Stato. L’importanza di tale strumento è di coartare la volontà del debitore per indurlo all’adempi- mento spontaneo del provvedimento di condanna, onde evitare il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento, ovvero di versa- re una quota fissa per ogni singola violazione. Si ravvisa, dunque, l’applicabilità dello strumento in parola altresì per il caso del genitore che viola il dovere all’as- sistenza morale del figlio, al fine di indurlo all’adempimento spontaneo, tramite il pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza successi- va, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento del giudice. Sulla misura di coercizione indiretta exart. 614 bis c.p.c., si veda X. Xxxxx Xxxxxx, L’effetti- vità dei mezzi di tutela giurisdizionale con particolare riferimento all’attuazione della sentenza di condanna, in Riv. dir. proc., 1975, p. 627; X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxx- no, La riforma del processo civile, in Giust.civ., suppl., n. 6/09, p. 116; X. Xxxxxxxxx, Misure coercitive e tutela dei diritti, Xxxxxxx, Milano, 1980; A. Proto Pisani, Rap- porti tra diritto sostanziale e processo e La tutela di condanna, in Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, p. 133 ss.; X. Xxxxxxxxx, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. Trim. dir. proc. Civ., 1976, p. 1341 ss.
[9] Conformi: ord. Trib. Roma, del 10 maggio 2013; sent. Trib. Roma, sez. I, del 27 giugno 2014.
[10] Questo strumento può essere applicato «in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai fi- gli di genitori non coniugati», ex art. 4, comma 2, L. 54/2006, disposizioni finali. Rimedio, dunque, punitivo che tende a sanzionare la condotta di chi ha violato gli ob- blighi genitoriali inerenti alla visita e soprattutto alla presenza del genitore nella vita del figlio. In caso di gravi inadempienze (v. sent. del Tribunale di Modena, sez. I, del 22 novembre 2007 in Giurisprudenza locale - Modena 2008), di atti che arrechino pregiudizio al minore o che ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affi- damento, il giudice può modificare i provvedimenti in vigore e congiuntamente applicare: ammonimento del genitore inadempiente; risarcimento dei danni nei confron-
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mente finalizzato alla risoluzione di controversie relative all’esercizio della responsabilità genitoriale[11].
Notevole, in tal senso, è la considerazione del Tribunale di Milano, che con sentenza del 14 giugno 2012, n. 529, ha messo in evidenza la difficoltà di eseguire coattivamente i provvedimenti nella materia relativa alle relazioni fami- gliari e ha rinvenuto nell’art. 709 ter c.p.c. uno strumento utile a salvaguardare il rapporto equilibrato tra il minore ed entrambi i suoi genitori, lasciando ampia discreziona- lità al giudice nello scegliere il trattamento sanzionatorio e utilizzando il risarcimento come extrema ratio.
L’applicazione dell’art. 709 ter c.p.c.[12] è, tuttavia, og- gettivamente limitata in quanto presuppone un provvedi- mento sull’affidamento del figlio, rispetto alla cui attua- zione o interpretazione sia insorto un contrasto tra gli ex coniugi[13], consistente in un triplice ordine di interventi del giudice, tra loro cumulabili ovvero adottabili distinta- mente gli uni dagli altri.
Peraltro, nell’applicazione giurisprudenziale, allo stru-
mento in parola si ricorre essenzialmente al fine di risol- vere le situazioni di contrasto tra i genitori, in ordine a comportamenti dell’uno idonei a violare o intralciare l’e- sercizio del diritto di visita dell’altro: non per intervenire nei rapporti diretti tra genitore e figlio.
In pratica, l’art. 709 ter c.p.c. prevede un triplice ordine di possibili modalità di intervento, il primo dei quali è l’am- monimento[14], consistente in un avvertimento per il geni- tore inadempiente al rispetto di quanto previsto nella sen- tenza o nell’accordo di separazione o di divorzio.
La sentenza della Corte di Appello di Milano del 21 feb- braio 2011 costituisce esempio di applicazione della misu- ra in parola. In questa sede, la Corte ha ammonito il ge- nitore che senza previo avvertimento, né accordo con l’al- tro, ha iscritto il figlio ultradodicenne a un percorso di ca- techismo, con il fine del battesimo, originariamente esclu- so da entrambi i genitori[15].
In secondo luogo, l’art. 709 ter c.p.c. consente il ricorso alla tutela risarcitoria[16] a carico di uno dei genitori nei
ti del minore; risarcimento dei danni a carico del genitore verso l’altro; sanzione amministrativa pecuniaria tra i 75,00 e i 5.000 euro in favore della Cassa delle ammen- de. Prima della riforma n. 54 del 2006, non vi era alcuna norma nel sistema tradizionale che potesse supportare l’attuazione dei provvedimenti relativi al rapporto geni- tore-figlio; l’introduzione dell’art. 709 ter c.p.c. ha ovviato a tale lacuna. Esempi di “gravi inadempienze” possono essere: il rifiuto di un genitore di fornire all’altro notizie riguardanti la salute del figlio o altre indicazioni in proposito della scuola; il trasferimento del figlio in un’altra città senza l’assenso dell’altro genitore; l’impedimento al- la frequentazione o al contatto telefonico con l’altro genitore. Parte della dottrina ritiene che l’interpretazione più corretta di tale misura sia la finalità punitiva, mediante l’introduzione nel nostro ordinamento dei “punitive damages” (danni ccdd. punitivi), di derivazione statunitense, che svolgono la funzione pubblicistica di deterrenza e di punizione. Tra gli altri, X. Xx Xxxxx, La Cassazione e la responsabilità civile nelle relazioni familiari, in Corriere giur., 2005, p. 925 e ss.. Con l’ovvia conseguenza che il giudice sarebbe legittimato ad applicare anche d’ufficio le misure previste, prescindendo dalla domanda del genitore. Per ovviare alla sovrapposizione delle domande risarcitorie che le parti possono autonomamente presentare, parrebbe utilizzabile il solo criterio della gravità della condotta. In tal modo, il risarcimento viene a configu- rarsi come una pena privata non sovrapponibile alle misure risarcitorie ordinarie. Altra parte della dottrina ritiene, invero, che la natura dei risarcimenti sia deterrente- punitiva, con il preciso fine da parte del legislatore di distogliere il soggetto da comportamenti gravi non solo per sé ma anche per i figli. Sulla natura generalmente san- xxxxxxxxxx della misura ex art. 709 ter c.p.c., si veda, invece, X. Xxxxxx, Lealtà e trasparenza nei processi di famiglia, in Riv. Dir. Proc. n. 3, Maggio-Giugno 2017, p. 610.
[11] Con riguardo alle novità sostanziali e processuali introdotte con la n. 54 del 2006, si veda X. Xxxxx, X. Xxxxx Xxxxxx (a cura di), L’affidamento condiviso, Mila-
no, 2006; B. De Xxxxxxxx, L’affidamento condiviso dei figli nella separazione e nel divorzio, Padova, 2006; X. Xxxxxx, L’affidamento condiviso dei figli, Milano, 2007;
[12] Cfr. A.N. Manzione, X. Xxxxxxxx, B. De Filippis, A. Mascia, La mediazione familiare e la soluzione delle controversie insorte tra genitori separati (nuovo art. 709 ter c.p.c.), Xxxxx, Padova, 2009, p. 216 ss.
[13] Mentre nel caso di applicazione della misura di cui all’art. 614 bis c.p.c., il giudice irroga la sanzione civile che colpirà il genitore inadempiente, invece nel caso di attuazione dell’art. 709 ter c.p.c., grava sulla parte non una sanzione futura certa, ma la mera possibilità di incorrere in una sanzione, laddove lo stesso si ponga in contrasto con il dettato giudiziale. Per approfondire, si veda l’opera di X. Xxxxxxxx, I provvedimenti nell’interesse dei figli minori ex art. 709 ter c.p.c. , X. Xxxxxxxxxxxx Editore, Torino, 2018, p. 77.
[14] Questo tipo di intervento costituisce un deterrente psicologico ad evitare la reiterazione di quei comportamenti ai quali fa riferimento la norma attraverso la nozione di “gravi inadempienze”, esortando il genitore a terminare l’atteggiamento elusivo verso le regole che impone il rapporto con il figlio. Tuttavia, questa mi- sura ha un’efficacia piuttosto dubbia, in quanto a livello pratico non comporta delle conseguenze immediate ed incisive. Sembra, inoltre, che più ammonizioni som- mate tra loro possano portare a una modificazione ulteriore delle condizioni relative all’affidamento e perfino, nei casi più gravi, a provvedimenti restrittivi x xxxx- tivi della potestà genitoriale.
[15] Corte di Appello di Milano del 21 febbraio 2011, in «Foro it.» 2012, 3, I, 919. Si veda anche la più risalente sentenza della Corte di Appello di Napoli, in «Fo- ro it.» 2009, 3, I, 836, nel quale caso, la Corte ha ammonito la madre di figli minori, che aveva cambiato recidivamente la residenza di questi ultimi, senza il con- senso dell’ex marito.
[16] Sempre più spesso, i giudici pronunciano condanne risarcitorie, ritenendo il danno un naturale effetto del comportamento deplorevole (v. Corte di Appello di Firenze del 29 agosto 2007 e sentenza del Tribunale di Catania, sez. I, del 23 novembre 2012). In merito al risarcimento del danno nei confronti del minore,
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confronti del minore ovvero nei confronti dell’altro geni- tore: intrinsecamente insoddisfacente, però, in quanto ap- plicata per equivalente.
Il Tribunale di Pavia, del 14 dicembre 2017[17], ha stabili- to la conseguenza del risarcimento dei danni in favore del figlio, qualora il genitore ponga in essere atti lesivi alla se- renità del minore e del corretto esercizio dell’affidamento condiviso[18]. Con sentenza n. 18799 dell’11 ottobre del 2016, il Tribunale di Roma ha reso noto l’onere a carico del genitore di attivarsi per il recupero e il mantenimento dell’immagine dell’altro genitore nei confronti del figlio. Così, in caso di “boicottaggio” di un genitore nei con- fronti dell’altro, scatta la sanzione prevista dall’art. 709 ter, comma 3, c.p.c. del risarcimento dei danni nei con- fronti dell’altro genitore[19].
La terza modalità prevista dall’art. 709 ter c.p.c. è la san- zione amministrativa pecuniaria[20], inquadrata dalla dot-
trina come misura coercitiva indiretta, sul modello delle
astreintes[21].
A tal riguardo, il Tribunale di Pisa del 14 agosto 2009[22], ha condannato la madre al pagamento della sanzione am- ministrativa pecuniaria quantizzata in euro 1.500 dal Tri- bunale, per aver impedito al padre della bambina ogni ti- po di partecipazione alla cura di quest’ultima e rendendo il contatto tra i due oltremodo difficoltoso.
4. La cumulabilità degli strumenti ex artt. 614 bis e 709 ter c.p.c.
Al fine di sanzionare le condotte del genitore che viola- no il dovere all’assistenza morale del figlio, non si esclude nemmeno la sovrapponibilità degli strumenti ex artt. 614 bis c.p.c. e 709 ter c.p.c.
Dottrina e giurisprudenza si sono a lungo interrogate sul- la cumulabilità tra la misura prevista all’art. 614 bis c.p.c.
vi è il problema della proposizione della domanda. Infatti, si pone il dubbio se la richiesta possa essere esperita dall’altro genitore, in qualità di sostituto pro- cessuale del minore (v. Tribunale di Catania del 29 settembre 2006, decr., in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx) ovvero da un curatore speciale, nominato, ex artt. 78 ss.
c.p.c. (v. Trib. min. di Ancona del 3 ottobre 2008, in Dir. fam.., 2009, p. 265), il quale potrà eventualmente procedere anche in esecuzione per il pagamento for- zato da parte del genitore condannato. Il giudice dovrà verificare la sussistenza effettiva del danno del figlio, astenendosi dalla configurazione di una lesio- ne in re ipsa (v. Corte di Appello di Firenze, del 22 agosto 2007, decr., in xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx ). Quest’ultima considerazione può essere fatta altresì nel ca- so di risarcimento del danno nei confronti dell’altro genitore: il giudice dovrà analizzare attentamente la dimostrazione della sussistenza del danno, sia patri- moniale sia non patrimoniale (v. Tribunale di Salerno del 22 dicembre 2009, in Fam. dir., 2010, p. 924; Tribunale di Milano, del 18 giugno 2009, decr., in Fam. pers. succ., 2010, p. 473).
[17] X. Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxxxxx, xxx 00 agosto 2007, in «Fam. Pers. Succ.», 2008, 370.
[18] Tribunale di Pavia del 14 dicembre 2017, in xxxxxxxxxxxxxx.xx, 2018. Nel caso di specie, il genitore pretendeva che la comunicazione con l’altro avvenisse sol- tanto per il tramite dei rispettivi legali, rendendo, inoltre, partecipe il figlio dei propri contrasti con l’altro genitore, criticandolo aspramente in sua presenza, fa- cendogli addirittura leggere comunicazioni scambiate tra i relativi difensori; Si veda anche la più risalente sentenza del Tribunale di Novara, del 21 luglio 2011, in
«Giur. Mer.», 2013, 5, 1048 (con nota di Xxxxx). Il Tribunale, in questa sede ha osservato che il genitore inadempiente agli obblighi riguardanti il diritto di visita può essere sanzionato al risarcimento nei confronti del minore, ex art. 709 ter c.p.c., sposando l’indirizzo che inquadra tale istituto come misura a carattere puni- tivo, riconducibile alle astreintes, con il risultato che la valutazione del giudice prescinde dall’accertamento dell’esistenza degli elementi di cui all’art. 2043 c.c., dovendo essere valutata secondo criteri equitativi.
[19] V. Tribunale di Roma, sez. I, dell’11 ottobre 2016, n. 18799, in Guida al diritto 2016, 44, 26. Nel caso di specie, il Tribunale ha condannato la madre colloca- taria al pagamento di euro 30.000 in favore del padre in quanto la donna, anziché attivarsi per “consentire il giusto recupero del ruolo paterno da parte del figlio”, aveva continuato a “palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti del marito”. Per i giudici, entrambi i genitori devono avere rispetto dell’ex, che va salvaguardato nei confronti del figlio e, in particolare, per la tutela della bigenitorialità, cui è improntato l’affido condiviso stesso.
[20] X. Xxxx. civ., sez. I, del 27 giugno 2018, n. 16980, in Giustizia Civile Massimario 2018. La Corte ha ribadito quanto le misure sanzionatorie previste all’art. 709 ter c.p.c. e, in particolare, la condanna al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria, siano suscettibili di applicazione facoltativa del giudice, nei con- fronti del genitore responsabile di gravi inadempienze e di atti “che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento”. Tuttavia, esse non presuppongono l’accertamento in concreto di un pregiudizio subìto dal minore, poiché l’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “od” mette in evidenza che l’aver ostacolato il corretto svolgimento delle prescrizioni giudiziali è un fatto che giustifica di per sé l’irrogazione della condanna, coe- rentemente con la funzione deterrente e sanzionatoria intrinseca alla norma richiamata.
[21] Risalta il carattere pubblicistico della previsione introdotta dalla Legge n. 56 del 2006. Questo tipo di intervento è a carattere patrimoniale, può essere adot- tato congiuntamente con l’ammonimento, reagendo al grave atteggiamento del genitore inottemperante agli obblighi che gli fanno capo per indurlo ad assumere un comportamento doveroso nei confronti del figlio.
[22] Sent. del Tribunale di Pisa del 14 agosto 2009, in «Dir. Fam.», 2010, 2, 730. Nel caso in esame, la madre della minore è arrivata alla sottoposizione della stes- sa ad una visita ginecologica eccessivamente invasiva e traumatizzante, senza previa comunicazione al padre, né all’autorità giudiziaria, né ai servizi sociali, vio- lando gravemente i canoni socio-psiconormativi regolanti l’affido condiviso.
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e i rimedi specificamente individuati dall’art. 709 ter c.p.c. La dottrina è apparsa perlopiù favorevole[23], rilevando una sovrapponibilità di misure a carattere speciale, ex art. 709 ter c.p.c., e di quelle previste in via generale dall’art. 614 bis c.p.c. È escluso, infatti, che vi sia inconciliabili- tà tra la misura ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c. ed il risar- cimento dei danni, stante la diversa natura delle due mi- sure. Analogamente, non si registra incompatibilità tra la sanzione ex art. 614 bis c.p.c. e l’ammonizione. La misu- ra coercitiva indiretta funge da rafforzativo all’ammoni- zione, mentre quest’ultima non comporta alcun sacrificio patrimoniale per il genitore inadempiente. Le due misu- re, pertanto, perseguono il medesimo obiettivo: il rispet- to delle regole dell’affidamento condiviso al genitore ver- so cui sono rivolte, di conseguenza cumulabili.
Sicché, non sono mancate pronunce di merito in ordine ad applicazioni cumulative degli strumenti ex artt. 614 bisc.p.c. e 709 ter c.p.c. relative, anche in questo caso, all’ipotesi di ostacolo di uno dei genitori all’esercizio dell’assistenza mo-
rale dell’altro verso il figlio. Il Tribunale di Milano, sez. IX, del 7 gennaio 2018, in un procedimento exart. 337 quin- quies c.c., accertati gli atteggiamenti ostativi alla frequen- tazione dei figli da parte dell’ex coniuge, oltre all’ammoni- mento previsto dall’art. 709 ter c.p.c., ha disposto ex offi- cio la misura, ai sensi dell’art. 614 bis c.p.c., alla condanna a corrispondere una somma di denaro per ogni comporta- mento ostativo specificamente individuato dal Tribunale, quale deterrente alla condotta pregiudizievole[24].
Infine, pare sia possibile l’applicazione della misura di cui all’art. 614 bis c.p.c. anche in caso di sanzione ammini- strativa pecuniaria, exart. 709 ter c.p.c.. Si pensi alla con- danna adottata dal Tribunale di Roma al risarcimento dei danni contro il genitore che ostacolava la frequentazione dell’altro genitore, nonché al pagamento di una somma di denaro per ogni inosservanza del genitore agli appunta- menti con lo psicoterapeuta del figlio ovvero degli incon- tri organizzati dai servizi sociali tra genitore e minore[25].
[23] Cfr. X. Xxxxxx, Le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. dopo la riforma del 2015, in Riv. Dir. Proc., Xxxxx, n. 2, Marzo-Aprile 2017, p. 380; F. Tedioli, Osservazioni criti- che all’art. 000 xxx xxx. xxxx. xxx. , xx Nuova giur. civ. comm., 2013, II, pp. 71-72; X. Xxxxx, Cumulo dei provvedimenti ex artt. 709 ter c.p.c. e 614 bis c.p.c. e adempimento dei doveri genitoriali, in Danno e resp., 2012, pp. 783 ss.; X. Xxxxxxxxx, L’attuazione forzata indiretta dei comandi cautelari ex art. 614 bis c.p.c., in Riv. Trim. dir. e proc. civ., 2014, p. 1500, nota 76. Esempio di cumulo tra i rimedi ex artt. 709 ter c.p.c. e art. 614 bis c.p.c. è la sent. del Tribunale di Salerno, sez. I, del 22 dicembre 2009, in «Fam. dir.», 2010. Il giudice, in suddetta occasione, segnalava che qualora ne ricorrano i presupposti, pronunciando uno dei provvedimenti previsti all’art. 709 ter c.p.c., il geni- tore inadempiente può essere condannato al pagamento di una somma di denaro ex art. 614 bis c.p.c., nonostante abbia rigettato nel merito la richiesta di applicazione di quest’ultima norma, giacché “manifestamente iniqua”. In particolare, per “iniqua” ivi s’intende, la misura coercitiva indiretta all’art. 614 bis c.p.c., che qualora applicata sarebbe stata eccessivamente onerosa per la parte inadempiente, aggravandola in maniera eccessiva. La condotta del genitore inottemperante, appare infatti tenuta per finalità protettive del minore, anche se non concretamente dimostrate e dal fatto che appare, dunque, sufficiente il ricorso alla misura del risarcimento del danno, ex art. 709 ter c.p.c.. Una dottrina minoritaria non contempla tale cumulo, ritendendolo inammissibile. A tal riguardo si veda: X. Xxxxx, in Fam. dir., 2010, p. 931. L’autore asserisce quanto segue: «la nuova misura coercitiva di portata generale sia applicabile solo nei casi in cui manchi una forma di esecuzione indiretta specifica, dovendosi così esclu- dere tanto il cumulo con altre misure coercitive tipiche (patrimoniali o no), quanto la possibilità di assumere il provvedimento previsto dall’art. 614 bis c.p.c. in alternativa a quello già contemplato da una norma speciale. Dunque, poiché nel novero dei provvedimenti previsti dall’art. 709 ter c.p.c. è già compresa una misura coercitiva di natu- ra patrimoniale - e precisamente la possibilità di condannare il genitore inadempiente «al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 eu- ro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende” - non dovrebbe esserci spazio per fare ricorso allo strumento esecutivo di cui all’art. 614 bis c.p.c.».
[24] Tribunale di Milano, sez. IX, del 7 gennaio 2018, in xxxxxxxxxxxxxx.xx, 2018 (nota di Xxxxx). Conformi: Trib. Roma, 16 dicembre 2016; Trib. Roma, 23 dicembre
2017; la più risalente ord. del Tribunale di Firenze dell’11 gennaio 2011, con la quale il giudice istruttore, in corso di causa di separazione giudiziale tra i coniugi, ha illustrato quanto i provvedimenti emessi dal Tribunale in sede di separazione, recanti i futuri rapporti tra i genitori e i figli, contengano obbligazioni di fare in- fungibili, ricomprese nel “provvedimento di condanna” cui allude la disposizione processualistica. Il giudice xxxxxxxxxx ha ammonito la donna «a rispettare tutte le prescrizioni relative alla frequentazione padre-figlio sin qui emanato e ad adoperarsi attivamente perché veda il padre» e al contempo l’ha sanzionata al pagamen- to di euro 50,00 per ogni violazione compiuta dalla stessa nell’accompagnamento del figlio a scuola, nei giorni in cui sarebbe spettato al padre riprenderlo, appli- cando l’art. 614 bis c.p.c. La donna, infatti, impediva al figlio di frequentare il padre, nonostante il piccolo avesse all’epoca soltanto dieci anni, rifiutandosi di ac- compagnarlo volutamente a scuola nei giorni in cui il padre sarebbe dovuto andare a prenderlo per passare del tempo con lui. Il Tribunale si pronunciava nel mo- do seguente: «L’atteggiamento della madre di consentire che il figlio non vada a scuola i giorni nei quali doveva essere il padre ad andarlo a prendere perché il fi- glio non vuole [...] non può essere ritenuto né commendevole né giustificato, non essendo affatto educativo l’atteggiamento di così completo lassismo nei confron- ti di un bambino che frequenta ancora le scuole primarie. E in questa stessa direzione deve essere segnalato il complessivo atteggiamento della madre in rela- zione alla frequentazione di [...] col padre, come evidenziati dalla c.t.u.: cioè della affermazione che “di peso non può più prenderlo” (p. 49 C.T.U.) per portarlo dal padre, significativa di un atteggiamento che da un lato dimostra scarsa responsabilità genitoriale (in generale non può ritenersi che per ottenere qualcosa da un bambino di 10 anni glielo si debba imporre con la forza) e dall’altro non è conforme a quanto disposto dall’articolo 155 c.c. che prevede un vero e proprio diritto del minore al mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con i genitori, e conseguentemente un dovere di ciascun genitore di favorire il rapporto con l’al- tro». La madre è stata ammonita a «rispettare tutte le prescrizioni relative alla frequentazione padre-figlio (...) e ad adoperarsi attivamente perché veda il padre».
[25] Sent. del Tribunale di Roma del 23 marzo 2013.
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I POTERI DEL C.T.U.
L’ampiezza dei poteri del consulente tecnico di ufficio nel processo civile e la loro compatibilità con le preclusioni istruttorie
Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx
del 24 aprile 2019
Sommario
b. Distinzione tra CTU deducente e percipiente
c. Il potere in generale del CTU di acquisire documenti e informazioni da terzi
a. Premessa
Nel processo civile la consulenza tecnica non è, alme- no normalmente e comunque secondo l’ottica del codice di procedura civile, un mezzo di prova in sé, ma un mez- zo per aiutare il giudice a formarsi il suo convincimento sui fatti che sono rappresentati da altri mezzi di prova[1]. La legge, infatti, più che disciplinare un mezzo, disciplina l’attività di un soggetto: il consulente tecnico, quale ausi- liario del giudice.[2] Insomma, se i fatti rilevanti (diretta- mente e indirettamente) per la causa sono fissati dal giu- dice in base ai mezzi di prova ed ai mezzi di presunzione ovvero alla mancata contestazione ai sensi dell’art. 115, comma 1°, c.p.c., la consulenza tecnica serve a “interpre- tare” quei fatti quando per la loro concreta comprensio- ne è necessario avere una conoscenza tecnica o scientifica che va al di là di quella comunemente posseduta dall’uo- mo medio in una certa epoca. La consulenza tecnica è strumento di comprensione e, quindi, di formazione del convincimento del giudice. Ciò nonostante la natura del- la consulenza tecnica d’ufficio ha, talvolta, oscillato tra
quella di mezzo istruttorio e quella di mezzo di prova, ov- verossia nell’adesione alla tesi secondo la quale la c.t.u. sia un mezzo di prova in senso proprio, oppure solo un mezzo per sopperire all’incapacità del giudice di com- prendere appieno le risultanze probatorie.
Parte della dottrina[3] ha definito la CTU non come un vero mezzo di prova, ma come un mero mezzo istruttorio, sia per la collocazione dell’istituto all’interno del codice, considerato che esso risulta regolato pur sempre all’inter- no della sezione dedicata all’istruzione probatoria, senza essere ricompreso fra gli altri mezzi di prova, sia perché il codice vigente dà molta più importanza al profilo sogget- tivo, inquadrando il consulente fra gli ausiliari del giudi- ce, anzi identificandolo nel suo principale ausiliario, che lo aiuta ad una migliore valutazione dei fatti, già allega- ti ed asseverati dalle parti, fornendogli le massime dell’e- sperienza di quello specifico settore di materie che il giu- dice non conosce, e che, se anche conoscesse non potreb- be utilizzare per il divieto di scienza privata. Pertanto, e qui si individua il secondo motivo per cui la consulenza
[1] Vedi già le classiche pagine di X.Xxxxxxxxxx, La prova civile (1915) ora rist. Milano 1992, 74 ss., il quale, però, non dimenticava le ipotesi in cui il consulente può avere una funzione “percipiente” (op. cit., 70 ss.),
[2] X. Xxxxxxx, Consulenza tecnica nel diritto processuale civile, voce in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. III, Torino 1988, 525; X. Xxxxx, Profili del processo civile. Pro- cesso di cognizione, Napoli 2006, 140; X. Xxxxxxxxx, Diritto processuale civile, vol. II. Il processo ordinario di cognizione, Torino 2009, 200; F. P. Xxxxx, Diritto proces- suale civile, Milano 2017.
[3] Xxxxxxxxx Xxxxx Xxxxx, Diritto processuale civile, II, Il processo di cognizione, Milano, 2017, IX edizione. Ved. anche Xxxxxxxxx Xxxxxxx, Il procedimento di istru- zione probatoria mediante consulente tecnico, Padova,2002.
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non sarebbe mezzo di prova tout court, la sua attività, a differenza di quella del testimone che è di mera narrazio- ne dei fatti, costituirebbe una valutazione degli stessi, o meglio di prevalenza di simile fase su quella propriamen- te rappresentativa.
Altra parte della dottrina, però, prendendo appunto le mosse dalla distinzione giurisprudenziale tra consulenza deducente e consulenza percipiente, di cui poi si dirà, ha ritenuto che la CTU non possa più esser distinta dalla te- stimonianza, consistendo in una dichiarazione di scien- za resa al giudice di fatti di cui si è avuto conoscenza[4]. Altri infine concludono che, qualora il giudice incarichi il consulente della sola percezione dei fatti allegati, non sia- mo lontani da una prova in senso stretto, e comunque a quel punto il consulente finisce per diventare la longa ma- nus del giudice, tanto che gli accertamenti dei fatti dal- lo stesso compiuti non hanno un’efficacia diminuita, ma quella vera e propria delle indagini ispettive.[5]
Da ultimo, la Suprema Corte con sentenza del 19/04/2011
n. 8989 contribuendo a delineare il quadro interpretativo, richiamando l’orientamento oramai consolidato, ha pun- tualmente ricordato (invocando Cass n. 16256/04) che la consulenza tecnica, può assurgere al rango di fonte ogget- tiva di prova, quando si risolva in uno strumento di accerta- mento di situazioni rilevabili solo con ricorso a determina- te cognizioni tecniche[6]: ovviamente si colloca tra i mez- zi di prova solo in senso lato, in quanto non può essere di- sposta per ovviare a delle carenze probatorie imputabili al- le parti stesse o per la ricerca delle prove che le parti hanno l’onere di fornire.
b. Distinzione tra CTU deducente e percipiente
Come si diceva la giurisprudenza, con la sentenza delle Sezioni Unite del 4.11.1996 n. 9522, e in particolar mo- do la dottrina, opera una distinzione essenziale che per- mea tutto l’argomento , tra consulenza deducente e con- sulenza percipiente.
I termini in realtà sono equivoci, perché sembra che vi si-
ano attività di conoscenza che esigono una valutazione (“deducente”) ed un’attività che non esige una valutazio- ne (“percipiente”), senza comprendere che ogni accerta- mento dei fatti esige sempre una valutazione, anche se es- sa può essere più o meno complessa. Ma la distinzione è giuridicamente chiara, dal punto di vista del processua- lista, perché è evidente che nell’una si immagina un con- sulente che “legge” fatti che risultano da mancate conte- stazioni, mezzi di prova o mezzi di presunzione, mentre nell’altra si immagina un consulente che diventa egli stes- so strumento di percezione e, quindi, di acquisizione del- la prova del fatto nel processo, eventualità che si prospet- ta quando un simile accertamento è possibile solo se com- piuto da un soggetto che abbia determinate conoscenze specialistiche. Inoltre, trattando della c.t.u. c.d. “perci- piente” la giurisprudenza tiene a chiarire che, se questa è un mezzo di prova, è anche vero che le parti non posso- no fondarsi semplicemente su di essa, senza assolvere i lo- ro oneri probatori, in particolare i loro oneri di allegazio- ni[7]. Si legga a tal proposito la seguente massima: “Le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimet- tere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consu- lente neppure nel caso di consulenza tecnica d’ufficio co- siddetta “percipiente”, che può costituire essa stessa fon- te oggettiva di prova, demandandosi al consulente l’ac- certamento di determinate situazioni di fatto, giacché, an- che in siffatta ipotesi, è necessario che le parti stesse de- ducano quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti”. Pertanto l’attività di deduzio- ne da fatti già acquisiti al processo, di fatti ignoti sulla ba- se di sapere specialistici si differenzia dalla attività di per- cezione, ove per la percezione sono necessari saperi tecni- ci e specialistici, ma in entrambi i casi vi sarà una valuta- zione tecnica, e la produzione quantomeno dei fatti e ele- menti posti a fondamento dei diritti lesi.
Nel primo caso, consulenza deducente, la CTU figura, quindi, quale mezzo di indagine volta ad accertare fat- ti già provati dalle parti e non costituisce la fonte di alcu-
[4] Xxxxxx Xxxxx Xxxxxx, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 1996, 477.
[5] Xxxx Xxxxxxx, La consulenza tecnica tra mezzo istruttorio e mezzo di prova: aspetti problematici e profili applicativi , xxx.xxxxxxxx.xx; in questo senso Xxxx Xxxxxx Xxxxx, Le prove atipiche tra ricerca della verità e diritto di difesa, Atti del XXV Convegno Nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo ci- vile, Cagliari, 7/8 ottobre 2005.
[6] Xxxx Xxxxxxx, La consulenza tecnica tra mezzo istruttorio e mezzo di prova: aspetti problematici e profili applicativi , xxx.xxxxxxxx.xx; in questo senso Xxxx Xxxxxx Xxxxx, Le prove atipiche tra ricerca della verità e diritto di difesa, Atti del XXV Convegno Nazionale dell’Associazione italiana fra gli studiosi del processo ci- vile, Cagliari, 7/8 ottobre 2005.
[7] Cassazione Sentenza n. 3191/2006. Altrimenti essa non è ammissibile, perché comunque si deve partire dall’idea che in linea di principio la c.t.u. non sa- rebbe un mezzo di prova, ma solo un mezzo d’integrazione per la valutazione del giudice. Insomma codesta c.t.u. “percipiente” è concepibile unicamente quando l’accertamento non si potrebbe effettuare senza specifiche cognizione tecnico-scientifiche
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na prova; nel secondo caso, consulenza percipiente, inve- ce, essa assume una portata leggermente più ampia, seb- bene giammai ascenda al rango di prova, poiché è fina- lizzata ad accertare fatti non altrimenti accertabili se non per mezzo di particolari competenze specialistiche di set- tore. Nel secondo caso il Giudice, quindi, può affidare al consulente, non solo l’incarico di valutare i fatti accerta- ti o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), ed in tal caso è necessario e sufficiente che la parte dedu- ca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il giudice ritenga che l’accertamento richieda specifiche co- gnizioni tecniche (Cass. Civ., Sez. III, 13/03/2009 n. 6155). Anche in tale ipotesi, si badi bene, la consulenza tecni- ca rimane un mezzo di ausilio del giudice volto alla più approfondita conoscenza di fatti già provati dalle par- ti, la cui interpretazione richiede nozioni tecnico scien- tifiche non in possesso dell’organo Giudicante. Essa, pe- rò, non diviene mai un mezzo di soccorso volto a sop- perire l’inerzia delle parti. Un’eventuale ammissione del- la CTU in tal senso comporterebbe inevitabilmente “lo snaturamento dell’istituto previsto dal codice di procedu- ra, il mancato rispetto della posizione paritaria delle par- ti nel processo, un allungamento dei tempi processuali, con palese violazione del giusto processo, anche sotto il profilo della ragionevole durata, tutelato dall’art. 111 del- la Costituzione” (Cass. Civ., Sez. III, 19/04/2011 n. 8989). Acclarata la rilevanza della Consulenza Tecnica come mero strumento di accertamento di situazioni rilevabili con il concorso di determinate cognizioni tecniche e, in ogni caso, fermo restando che le valutazioni espresse dal CTU non hanno efficacia vincolante per il Giudice, e che essa non rientra nella disponibilità delle parti, ma è rimes- sa al potere discrezionale del Magistrato, si può addiveni- re alla consulenza percipiente solo allorché si verta in si- tuazioni rilevabili unicamente con il concorso di determi- nate cognizioni tecniche, ed i normali mezzi rendano im- possibile, o estremamente difficile, il raggiungimento del- la prova, come, ad esempio, in caso di danno alla salu- te (Cass. Civ. Sez. III, 19/01/2006 n. 1020; Cass. Civ., Sez. III, 07/05/2015 n. 9249).
Quando la c.t.u. ha valenza di mezzo di prova bisogna ap- plicare, in ogni caso, i principi che vigono appunto per l’i- struzione probatoria. Le istanze istruttorie hanno sempre due profili: uno che riguarda l’ammissibilità del mezzo e l’altro che riguarda la rilevanza dell’oggetto su cui si chie- de l’assunzione del mezzo, ossia il fatto che si vuole pro- vare. Ecco allora che ogni istanza istruttoria presuppone necessariamente un’attività di allegazione dei fatti. Ma,
affermare questo principio non significa anche dire che allora esiste una sorta di monopolio delle parti in ordine ai fatti, perché, salvo il divieto di scienza privata ed il prin- cipio della domanda, bisogna trovare un punto di equili- brio tra i poteri delle parti ed i poteri del giudice (compre- si i poteri di un suo ausiliare qual è il consulente tecnico). Certamente è onere della parte allegare, sempre, i fatti che servono all’individuazione dei diritti che si fanno valere in giudizio, e dei fatti che possono fondare eccezioni in senso stretto. Il giudice non potrebbe fondare la sua deci- sione su tali fatti, se questi, non allegati dalle parti, risul- tino comunque dagli atti. Ma altrettanto vero che il giu- dice può utilizzare fatti che non individuano i diritti fat- ti valere, o che fondano eccezioni c.d. in senso lato (rile- vabili anche dal giudice), pur se questi risultino dagli atti, quindi emergano dall’attività istruttoria, anche se le par- ti non li abbiano espressamente allegati (fatti c.d. avven- tizi). Se questi principi valgono anche in riferimento alla consulenza tecnica, certamente essa non può essere utiliz- zata come strumento che sostituisca gli oneri di allegazio- ne delle parti, purché, però, si specifichi l’ambito entro il quale quegli oneri operano. E detto ambito riguarda solo i fatti che individuano i diritti azionati ed i fatti che fon- dano eccezioni in senso stretto (rilevabili solo ad istanza di parte). Insomma, ed in definitiva, non è pensabile che si possa ammettere la c.t.u. per accertare fatti non anco- ra allegati dalle parti, se essa può valere come un mezzo di prova, allora è evidente che, come ogni mezzo di pro- va (costituenda) di cui si chiede l’assunzione, la parte ri- chiedente deve anche individuare il fatto sul quale si chie- de l’ammissione della prova.
Poi, nell’espletamento del sub-procedimento istruttorio può accadere che emergano fatti avventizi (non indivi- duatori del diritto azionato né fondanti eccezioni in senso stretto), ed allora il giudice non potrà non utilizzarli. Ma detti fatti non possono emergere per mezzo della richie- sta di informazioni a terzi da parte del consulente, a me- no che detta richiesta di informazioni sia resa necessaria al fine di rispondere ai quesiti posti al consulente dal giu- dice e sempre che si tratti di fatti accessori.
In tale contesto si dovrà inquadrare, pertanto, l’ampiez- za dei poteri del CTU nell’espletamento del proprio in- carico.
c. Il potere in generale del CTU di acquisire documenti e informazioni da terzi
Le principali contestazioni concrete, in subiecta materia nascono, infatti, principalmente dalla compatibilità di detto potere in generale con il principio dispositivo e, in
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particolare, con il rispetto dei termini perentori per il de- posito nel giudizio dei documenti che, per il giudizio or- dinario di cognizione, è sancito dal combinato disposto degli articoli 183 sesto comma c.p.c. e 87 disp. att. c.p.c. Può, pertanto, il CTU acquisire documentazione non prodotta dalle parti nel rispetto dei termini perentori pre- visti per il giudizio ordinario di cognizione, e su detti do- cumenti fondare il proprio convincimento, e quindi ri- spondere al quesito formulatogli dal giudice?
Il consulente ha bisogno di uno specifico mandato dal giudice per assumere informazioni, deve indicare le fonti e può riguardare fatti costitutivi o soltanto fatti accessori? L’attività del consulente è delimitata, innanzitutto, dal giu- dice con la formulazione dei c.d. “quesiti”. Precisamente la nomina del consulente avviene con ordinanza del giudi- ce istruttore ai sensi dell’art. 183, 7° comma, c.p.c., o con altra successiva ordinanza, il quale, nella medesima ordi- nanza, formula i quesiti e fissa l’udienza nella quale il con- sulente deve comparire (art. 191, come modificato con l. n. 69/2009, che si applica ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009). Non si può prescindere, per dar risposta ai quesiti suspecificati, alle statuizioni della Suprema Corte, e in par- ticolare la Cassazione con sentenza n. 3990 del 23.2.2006, per la prima volta, collega il potere di acquisizione e di va- lutazione da parte del consulente tecnico di ufficio dei do- cumenti nuovi, e non prodotti dalle parti alla distinzione tra consulenza deducente, per la quale questo potere non è consentito, e consulenza percipiente, per la quale invece questo potere è attribuito al perito. Ha, quindi, esplicita- mente affermato che, nel caso di accertamenti di fatti per i quali sia necessario ricorrere a specifiche cognizioni tecni- che, la CTU diventa percipiente, e cioè essa stessa fonte di prova dei fatti stessi, e in questo caso al consulente è con- sentito acquisire anche da una delle parti e quindi valutare documenti nuovi non prodotti[8]. Ragionamento ribadito
poi con la sentenza n. 12921 del 23 giugno 2015, ove ha co- sì statuito “...in tema di consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere del consulente tecnico d’ufficio attingere “aliunde” notizie e dati, non rilevabili dagli atti processuali e concer- nenti fatti e situazioni formanti oggetto del suo accertamen- to, quando ciò sia necessario per espletare convenientemen- te il compito affidatogli, e che dette indagini possono con- correre alla formazione del convincimento del giudice, pur- chè ne siano indicate le fonti, in modo che le parti siano mes- se in grado di effettuarne il controllo, a tutela del principio del contraddittorio”.
E tuttavia occorre chiarire entro che limiti è legittimo l’e- sercizio di tale facoltà da parte del consulente e quali si- ano i dati, le notizie, i documenti che egli può acquisi- re aliunde. Il criterio guida è che si tratta di un potere funzionale al corretto espletamento dell’incarico affidato, che non comporta alcun potere di supplenza, da parte del consulente, rispetto al mancato espletamento da parte dei contendenti al rispettivo onere probatorio. Esso viene le- gittimamente esercitato in tutti i casi in cui al consulente sia necessario, per portare a termine l’indagine richiesta, acquisire documenti in genere pubblici non prodotti dal- le parti e che tuttavia siano necessari anche per verifica- re sul piano tecnico se le affermazioni delle parti siano o meno corrette. Potrà anche, nel contraddittorio delle par- ti, acquisire documenti non prodotti e che possano esse- re nella disponibilità di una delle parti o anche di un ter- zo qualora ne emerga l’indispensabilità all’accertamento di una situazione di comune interesse. Può acquisire, inol- tre, dati tecnici di riscontro alle affermazioni e produzioni documentali delle parti, e pur sempre deve indicare loro la fonte di acquisizione di questi dati per consentire loro di verificarne l’esatto e pertinente prelievo. Quindi, l’ac- quisizione di dati e documenti da parte del consulente tec- nico ha funzione di riscontro e verifica rispetto a quanto
[8] Con il primo motivo(violazione degli artt. 61 c.p.c. e art. 87 disp. att. c.p.c.) la ricorrente ha dedotto che dalla irrituale produzione dei preventivi di spe- sa relativi al materiale didattico danneggiato non era derivata alcuna lesione del diritto di difesa, avendo la controparte preso conoscenza di tali documenti con la relazione di consulenza, sottoponendoli a critica nel merito, e che la consulenza tecnica, pur avendo, di regola, funzione di fornire al Giudice una valutazione rela- tiva a fatti già acquisiti o accertati, può legittimamente costituire fonte oggettiva di prova qualora si risolva non soltanto in uno strumento di valutazione, bensì di accertamento di situazioni di fatto rilevabili esclusivamente attraverso il ricorso a determinate cognizioni tecniche. La censura è fondata. L’eccezione di irritualità della produzione dei preventivi è stata sollevata soltanto con l’atto di appello, come risulta anche dal controricorso, mentre non è stata fatta alcuna opposizione in sede di merito in primo grado, sicchè i documenti, conosciuti attraverso la lettura della relazione del C.T.U., e comunque prendendo visione degli atti allegati a tale relazione, discussi nel merito dalle parti ed esaminati dal Tribunale, devono aversi per ritualmente prodotti nonostante la violazione dell’art. 87 disp. att. cod. proc. civ. (Cass. n. 4313 del 1986 e n. 5722 del 1984). Il Giudice può affidare al consulente tecnico non solo l’incarico di valutare i fatti accertati o dati per esistenti (consulente deducente), ma anche quello di accertare i fatti stessi (consulente percipiente), e in tal caso, in cui la consulenza costituisce essa stessa fonte oggettiva di prova, è necessario e sufficiente che la parte deduca il fatto che pone a fondamento del suo diritto e che il Giudice ritenga che l’accertamento ri- chieda specifiche cognizioni tecniche (Cass. S.U. n. 9522/1996; Cass. n.10871/1999). Ed è il caso di specie, in cui l’intervento del consulente è stato rite- nuto necessario per accertare sia lo stato dei luoghi e la riduzione del valore locativo dell’immobile che eventuali danni patrimoniali ai beni di proprietà dell’attrice
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affermato e documentato dalle parti. Non è invece con- sentito al consulente sostituirsi alla stessa parte, andan- do a ricercare aliunde i dati stessi che devono essere og- getto di riscontro da parte sua, che costituiscono materia di onere di allegazione e di prova (ovvero gli atti e i do- cumenti che siano nella disponibilità della parte che agi- sce e dei quali essa deve avvalersi per fondare la sua pre- tesa che non gli siano stati forniti, acquisendoli),in quan- to in questo modo verrebbe impropriamente a supplire al carente espletamento dell’onere probatorio, in violazione sia dell’art. 2697 cc. che del principio del contraddittorio. Infatti la esigenza principale da tutelare è quella di armo- nizzare l’attività del consulente con la regola generale pre- vista dall’art. 2697 c.c.: in nessun caso la consulenza tec- nica può servire ad esonerare la parte dal fornire la prova che le spetta offire in base ai principi che regolano l’onere relativo; solo nel caso di fatti, il cui accertamento richieda l’impiego di un sapere tecnico qualificato, l’onere si ridu- ce all’allegazione, spettando poi al Xxxxxxx decidere se ri- corrono o meno le condizioni per l’ammissione della con- sulenza tecnica. In punta di diritto la CTU ben può essere disposta anche per l’acquisizione di dati la cui valutazione sia poi rimessa all’ausiliario consulente (consulenza c.d. percipiente), di tal che è così consentito a quest’ultimo pure di acquisire ogni elemento necessario per risponde- re ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti e documenti «acces- sori», in modo che rimanga comunque esclusa, nella CTU concretamente disposta, una «funzione vicariale della pro- va» ( cfr. sul punto a Corte di Cassazione, Sezione VI Ci- vile, con l’ordinanza del 11 settembre 2018, n. 22116).
In tale panorama si incunea anche la possibilità per il con- sulente di acquisire informazioni da terzi, nel corso delle indagini peritali, escluso ovviamente il caso in cui le infor- mazioni siano richieste alla pubblica amministrazione, in quanto per tale fattispecie esiste lo strumento dell’art. 213 cpc, l’aspetto da chiarire riguarda, quindi, il potere del CTU di assumere informazioni da terzi che non siano la pubblica amministrazione, considerato che questo potere gli viene esplicitamente riconosciuto dall’art. 194 cpc, ma solo su autorizzazione del giudice. In linea con i principi ispiratori teste descritti si può assumere che il consulente, anche senza espresso mandato, abbia il potere di assume- re informazioni da terzi, ma solo su fatti accessori, e non su fatti su cui si fondano le domande e le eccezioni del- le parti, indicandone le fonti di prova in modo che le par- ti siano messe in grado di contestarle, con l’onere di far- lo nella prima difesa utile successiva al deposito della re- lazione peritale.
d. Conclusioni
Il nostro legislatore ha scelto di fondare la trattazione del processo sul principio della domanda, sul principio di- spositivo e sul divieto di scienza privata, per cui sta certa- mente solo alle parti allegare i fatti che individuano il di- ritto fatto valere, sta normalmente alle parti produrre le prove o presentare le istanze istruttorie volte a dimostra- re la narrazione che fonda le loro pretese giuridiche ed in ogni caso il giudice non può fissare i fatti in base ad una sua scienza privata. Non sempre, però, il giudice è in gra- do di compiere la necessaria razionalizzazione pregiuridi- ca del dato, prima di applicare ad esso la norma giuridica, perché non è detto che il giudice possieda i criteri di valu- tazione, le massime di esperienza che sono necessarie per quella razionalizzazione. Xxxx, allora, che nell’esperienza giuridica può emergere l’esigenza di appoggiarsi a sogget- ti che abbiano quelle conoscenze tecniche, non giuridiche di cui l’operatore del diritto ha bisogno, per la soluzione di una controversia giuridica. Tuttavia, se normalmente la consulenza tecnica serve al giudice per integrare delle conoscenze che a lui mancano al fine della soluzione della quaestio facti, sta normalmente allo stesso giudice valu- tare nella sua piena discrezionalità l’opportunità o la ne- cessità di ricorrervi e delegando specifici poteri .
A questo proposito, si deve contemperare, il pur esisten- te spazio di valutazione del giudice con il diritto alla pro- va della parte, esigenza che viene giustamente attuata dal- la giurisprudenza in due modi. Per un verso, affermando che, se è vero che rientra nei poteri discrezionali del giu- dice disporre o meno una c.t.u., è anche vero che l’istanza di parte, quando trattasi di una consulenza con funzione di accertamento, non può essere disattesa dal giudice sen- za una puntuale motivazione. Per altro verso, precisan- do che il giudice non potrebbe dar torto alla parte istan- te imputandogli di non aver assolto al suo onere probato- rio, dopo aver rifiutato di assumere proprio la consulen- za tecnica per mezzo della quale quell’onere probatorio si sarebbe potuto assolvere.
Va da se che il consulente nominato, per sopperire ad una lacuna di sapere tecnico, dovrà far uso di quei strumenti che gli consentano di poter serenamente valutare , ricor- rendo a verifiche suppletive che gli permettano di rispon- dere ai quesiti tecnici necessari per l’accertamento della verità reale, che non sempre coincide con la verità pro- cessuale: il fine ultimo dell’operatore del diritto, che, sep- pur caldeggiato negli ultimi disegni legge, aventi ad ogget- to la Riforma del processo civile, con l’obiettivo di xxx- xxxx il giudizio di primo grado “ luogo elettivamente de- putato alla cognizione del fatto, che sia capace di tendere
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ad una decisione giusta della causa, in quanto basata su un accertamento dei fatti tendenzialmente corrisponden- te alla realtà”, purtroppo allo stato nulla è cambiato, po- tendosi definire meri ritocchi tecnici quelli contenuti nel- la Riforma del 2009.
Lasciando ai margini la vexata quaestio circa la possibile qualificazione della consulenza come vero e proprio mez- zo istruttorio , e mostrando di ignorare le ampie critiche
sollevate da quella parte della cultura processualcivilsiti- ca che ha evidenziato il ritardo fra le impostazioni giuri- sprudenziali del nostro ordinamento, rispetto a quelle di altri ordinamenti, il tema delle modalità di utilizzazione di cognizioni esperte affidabili che rappresenterebbe uno degli snodi essenziali per il corretto funzionamento della giustizia civile, sarebbe auspicabile che venisse posto se- riamente in luce[9].
[9] La consulenza tecnica nel processo civile. Problemi e funzionalità Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Temi di dirittp privato . Xxxxxxx Editore 2011 pagg.263 264
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SOVRAINDEBITAMENTO
La meritevolezza del debitore sovraindebitato nella procedura di liquidazione del patrimonio (Tribunale di Bergamo, decreto 25 gennaio 2019)
Xxxxxxx Xxxxxxxx
del 26 aprile 2019
Sommario
1. Premessa
2. La fattispecie
3. In generale, sui requisiti previsti per l’accesso alla procedura di liquidazione del patrimonio
4. La meritevolezza nella liquidazione del patrimonio
5. La svolta del Tribunale di Bergamo
6. Alcuni rilievi circa la pronuncia del Tribunale di Bergamo
7. Il CCII e la nuova liquidazione controllata
1. Premessa
La procedura di liquidazione del patrimonio è disciplina- ta dagli artt. 14-ter ss. L. 3/2012[1] e, in via di prima ap- prossimazione, rappresenta (in senso lato) una procedu- ra concorsuale proponibile, alternativamente rispetto al- la proposta di accordo o di piano di composizione del- la crisi, dal debitore (anche consumatore) sovraindebita- to. Concretamente, quest’ultimo richiede la liquidazione di tutti i suoi beni per poter soddisfare (verosimilmente) parzialmente[2] i propri creditori e beneficiare, a deter- minate condizioni, dell’effetto esdebitatorio di cui all’art. 14-terdecies L. 3/2012, liberandosi così dai debiti contrat- ti.
La pronuncia del Tribunale di Bergamo offre a studiosi, operatori e professionisti del settore concorsuale la possi- bilità di riflettere sulla menzionata procedura di liquida- zione del patrimonio, ma anche -e, forse, soprattutto- sul
nuovo Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza (nel prosieguo anche solo “CCII”)[3], il quale (decorso il pe- riodo di vacatio legis di diciotto mesi) abroga l’intera di- sciplina della composizione della crisi da sovraindebita- mento e diventa il corpus normativo di riferimento anche di tale area concorsuale “minore”.
Infatti, se da un lato il provvedimento quivi annotato va- luta -nella fattispecie concreta- la ricorrenza dei presup- posti per l’apertura della procedura di liquidazione del patrimonio, dall’altro rappresenta il primo èlan vital del nuovo CCII, in quanto la valutazione del tribunale oro- bico circa i medesimi (richiamati) presupposti recepisce (e applica, seppur implicitamente) anche i principi ispirato- ri dettati dalla nuova riforma.
Nel caso di specie, il Tribunale di Bergamo valuta la me- ritevolezza del debitore sovraindebitato di accedere alla procedura liquidatoria di cui agli artt. 14-ter ss. L. 3/2012,
[1] Introdotti dall’art. 18, co. 1, lett. s) D.L. 179/2012, convertito con modifiche nella L. 221/2012.
[2] X. Xx Xxxxxx, L’ennesima modifica alla legge sulla composizione della crisi da sovraindebitamento (L. 27 gennaio 2012, n. 3), in Il fall., 2013, 813; Id., La com- posizione delle crisi da sovraindebitamento (Introduzione), in Il fall., 2012, 1021 ss.; X. Xxxxxxxxx, L a composizione delle crisi da sovraindebitamento del debito- re non fallibile: alcuni profili problematici, in Dir. fall., 2012, 423 ss.; Id., I nuovi procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento dopo il maquilla- ge della L. n. 3/2012 , in Il fall., 2013, 1433; F. Xx Xxxxxx, Xxxxx composizione negoziale della crisi da sovraindebitamento, in Dir. fall., 2010, 659 ss.; X. Xxxxxxx, La continua evoluzione dei rimedi alle crisi da sovraindebitamento, in Il fall., 2012, 1285 ss.
[3] Cfr. artt. da 65 a 73 CCII.
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requisito non espressamente previsto nella normativa tuttora vigente, ritenendolo un principio generale delle procedure di composizione della crisi (peraltro ribadito nell’art. 68, co. 3, CCII).
2. La fattispecie
Con ricorso ritualmente depositato, il ricorrente chiedeva al Tribunale di Bergamo la nomina di un professionista ai sensi dell’art. 15 L. 3/2012 affinché svolgesse i compiti e le funzioni di cui è deputato l’Organismo di composizione della crisi (OCC). Nel ricorso veniva allegata la relazione del professionista, nella quale si prevedevano forme di ri- soluzione della crisi da sovraindebitamento (tra le quali la liquidazione del patrimonio ex artt. 14-ter ss. L. 3/2012). Esaminato il ricorso, il Giudice nominava il professioni- sta, il quale redigeva la relazione particolareggiata.
Successivamente, il debitore sovraindebitato chiedeva di essere ammesso alla procedura di liquidazione del pro- prio patrimonio ex artt. 14-ter L. 3/2012 e, a tal fine, met- teva a disposizione tutto il suo patrimonio (in ossequio al principio di universalità del concorso dei creditori). Nel piano di liquidazione veniva previsto i) il pagamento inte- grale dei crediti prededucibili ii) il pagamento del 50,16% dei crediti assistiti da ipoteca iii) il pagamento del 15,89% dei creditori chirografari. Il ricorrente chiedeva, per l’ef- fetto, di essere ammesso al beneficio dell’esdebitazione ex art. 14-terdecies L. 3/2012[4].
Il Tribunale di Bergamo, valutato che ricorressero, nel ca- so di specie, i presupposti per l’apertura della procedura di liquidazione del patrimonio di cui agli artt. 14-ter ss. L. 3/2012 (il debitore non era soggetto alle disposizioni sul fallimento, né ha fatto ricorso, nei cinque anni preceden- ti, a procedure di composizione della crisi da sovraindebi- tamento) e che, in concreto, il ricorrente fosse meritevole di accedere a benefici di legge richiesti, dichiarava aperta la predetta procedura di liquidazione, disponendo altresì che fosse escluso dal patrimonio liquidabile in favore del ceto creditorio una somma corrispondente al fabbisogno minimo del ricorrente e del suo nucleo familiare.
3. In generale, sui requisiti previsti per l’accesso alla procedura di liquidazione del patrimonio
La liquidazione del patrimonio[5], come si è detto, è di- sciplinata, in primis, dall’art. 14-ter L. 3/2012, il quale li- mita l’accesso alla predetta procedura prevedendo i) con- dizioni di ammissibilità dell’istanza di liquidazione, per le quali rinvia all’art. 7, co. 2, L. 3/2012 ii) contenuti mini- mi dell’istanza di liquidazione, per i quali rinvia all’art. 9 L. 3/2012.
Per quanto concerne il primo profilo, il debitore in stato di sovraindebitamento può presentare istanza di liquida- zione del patrimonio solo ove
1. non sia assoggettabile (né assoggettato) alle procedu- re previste dall’art. 1 l. fall. (cfr. art. 7, co. 2, lett. a) L. 3/2012);
2. non abbia fatto ricorso, nei cinque anni precedenti, alla procedura di composizione della crisi (cfr. art. 7, co. 2, lett. b) L. 3/2012);
3. non abbia subito, per cause a lui imputabili, uno dei prov- vedimenti di cui agli articoli 14 e 14-bis X. 0/0000 (xxxx- ca, risoluzione o annullamento dell’accordo omologato, revoca e dichiarazione di cessazione degli effetti dell’o- mologazione del piano del consumatore) (cfr. art. 7, co. 2, lett. c) L. 3/2012);
4. non abbia fornito documentazione che non consenta di ricostruire compiutamente la sua situazione economica e patrimoniale (cfr. art. 7, co. 2, lett. d) L. 3/2012).
Circa invece il secondo profilo, diversi ed ulteriori sono gli elementi necessari affinché il giudice possa ammette- re la domanda di un soggetto (in astratto) legittimato, di- chiarando aperta la procedura: unitamente alla proposta il debitore sovraindebitato deve depositare l’elenco di tut- ti i creditori, con l’indicazione delle somme dovute, di tut- ti i propri beni e degli eventuali atti di disposizione com- piuti negli ultimi cinque anni, corredati delle dichiarazio- ni dei redditi degli ultimi tre anni e dell’attestazione sul- la fattibilità del piano, nonché l’elenco delle spese corren- ti necessarie al sostentamento suo e della sua famiglia[6]; il debitore che svolge attività d’impresa deve altresì depo-
[4] Al tempo in cui la domanda veniva proposta, il patrimonio della parte ricorrente constava di crediti retributivi derivanti da rapporto di lavoro subordinato, di un immobile di proprietà e di un autoveicolo.
[5] Sono soggetti alla domanda di liquidazione tutti i beni del debitore (tantoché deve essere allegato alla stessa l’inventario), tra cui sono sicuramente individua- bili quelli attuali, gli accessori, le pertinenze ed i frutti, nonché i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi all’apertura della procedura; al contrario, ne sono esclusi i crediti impignorabili (assolutamente o relativamente), i crediti alimentari, di mantenimento, gli stipendi, le pensioni, i salari e così tutto ciò che il debito- re guadagni con la sua attività. Andranno poi ulteriormente escluse le somme, quantificabili/quantificate dal giudice solo in relazione al caso concreto, strettamen- te necessarie al debitore per il mantenimento proprio e della sua famiglia, nonché i frutti dell’usufrutto legale sui beni del figlio, il fondo patrimoniale, e i relativi frutti (salvo quanto previsto dall’art. 170 c.c.).
[6] Previa indicazione della composizione del nucleo familiare corredata del certificato dello stato di famiglia.
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sitare le scritture contabili degli ultimi tre esercizi (cfr. art. 9, co. 2 e 3, L. 3/2012).
Verificati i requisiti di cui all’art. 14-ter, il giudice dovrà in ultimo verificare, ex art. 14-quinquies L. 3/2012, che il de- bitore non abbia, nei cinque anni precedenti alla propo- sizione dell’istanza, posto in essere atti in fronde ai cre- ditori.
4. La meritevolezza nella liquidazione del patrimonio Considerati i requisiti che ricorrono per l’apertura della procedura di liquidazione del patrimonio, non si rinviene nella disciplina in esame alcuna norma a mente della qua- le sia richiesto un espresso giudizio di meritevolezza (co- me, invece, nel piano del consumatore, ove l’OCC deve re- lazionare anche su tale parametro[7]) da parte dell’orga- no giudicante.
Ne deriva che, in assenza di limiti legislativi che impon- gano una valutazione in tal senso, una indagine sulla me- ritevolezza del debitore sovraindebitato di accedere alla procedura dovrebbe ritenersi preclusa in capo al Giudice. Al più, si potrebbe ammettere che tale sindacato si limiti a verificare che il debitore non abbia, nei cinque anni prece- denti alla proposizione dell’istanza, posto in essere atti in fronde ai creditori (così come previsto dall’art. 14-quin- quies L. 3/2012). In questo caso, tuttavia, si tratterebbe di vagliare la sussistenza di elementi ostativi all’apertu- ra della procedura di liquidazione che coincidono con l’a- stensione del debitore dal compimento, in un determina- to arco temporale, di atti fraudolenti verso il ceto credi- torio. Non ci sarebbe, invece, una indagine ufficiosa rela- tiva a ulteriori particolari condotte poste in essere dal ri- corrente a giustificazione della sua meritevolezza di ac- cedere al beneficio della liquidazione (e della successiva esdebitazione).
5. La svolta del Tribunale di Bergamo
Chiarito che, sulla scorta del solo dato letterale, l’unico sindacato di meritevolezza del debitore dovrebbe essere li- mitato alla verifica del mancato compimento di atti frau-
dolenti verso il ceto creditorio, il provvedimento emesso dal Tribunale di Bergamo sembra rappresentare una svol- ta sul tema.
Nella pronuncia in esame vengono infatti valutate anche altre condotte del sovraindebitato, il quale non solo deve essersi astenuto dal recare pregiudizio verso i propri cre- ditori, ma non deve neppure aver fatto accesso al credito in maniera colposa e negligente, ossia nella consapevolez- za che, nella sua concreta situazione economica, non sa- rebbe mai stato in grado di adempiere a tali obbligazioni. Per quanto attiene al caso di specie, letta la relazione dell’OCC, il giudicante ha escluso che il debitore abbia avuto comportamenti negligenti nel contrarre le obbliga- zioni e che le stesse cause del sovraindebitamento fossero rintracciabili in una condotta omissiva dello stesso. In al- tre parole, il Tribunale di Bergamo, prima di emettere il decreto di apertura della procedura liquidatoria, ha valu- tato la ricorrenza dei medesimi presupposti per l’omolo- ga del piano del consumatore.
In particolare, il giudice xxxxxxx ha ritenuto di sindaca- re (e, nel caso di specie, riconoscere) la meritevolezza del sovraindebitato di accedere alla predetta procedura sia da un punto di vista oggettivo che soggettivo: dal primo punto di vista, devono rinvenirsi esigenze particolarmen- te meritevoli di tutela giuridica documentate dalla atten- dibilità della documentazione allegata all’atto introdut- tivo; dal secondo, invece, deve essere caratterizzato, dal- la diligenza nell’assunzione delle obbligazioni rappresen- tata dalla sussistenza della ragionevole prospettiva di po- ter adempiere alle obbligazioni assumende in quanto pro- porzionate alle capacità del debitore.
6. Alcuni rilievi circa la pronuncia del Tribunale di Bergamo La pronuncia in esame pare dunque aver assimilato la li- quidazione del patrimonio al piano del consumatore, quantomeno rispetto ai requisiti di accesso.
Sono dunque opportuni alcuni rilievi a riguardo.
La ratio della procedura di liquidazione del patrimonio mira a garantire al debitore sovraindebitato la possibi-
[7] Xxx, si noti, il proprium del giudizio di omologazione è rappresentato dall’indagine in merito al requisito della meritevolezza dell’accesso al credito da parte de- bitore. In tale procedimento, il requisito della meritevolezza può essere definito secondo un requisito di carattere soggettivo ed uno di natura oggettiva del ricorso al credito che, sulla base di tali parametri, deve essere ritenuto idoneo a giustificare l’omologa di un piano del consumatore. Il ricorso, infatti, dal punto di vista og- gettivo, deve essere giustificato dalla sussistenza di esigenze particolarmente meritevoli di tutela giuridica documentate dalla attendibilità della documentazione allegata all’atto introduttivo delle procedure mentre, dal punto di vista dell’elemento soggettivo, deve essere caratterizzato, al momento della assunzione delle ob- bligazioni, dalla diligenza del debitore nell’assunzione delle obbligazioni rappresentata dalla sussistenza della ragionevole prospettiva di poter adempiere alle ob- bligazioni assumende in quanto proporzionate alle capacità del consumatore stesso ed, inoltre, l’accesso al credito non deve essere stato determinato colposamen- te dal debitore. X. Xxxxxxxx, La meritevolezza dell’accesso al credito nel sovraindebitamento del consumatore, in Giur. it., 2017, 1570-1571.
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lità di esdebitarsi da tutte le obbligazioni (e debiti) con- tratti nell’esercizio della propria attività e, al contempo, ad assicurare il maggior soddisfacimento del ceto credi- torio.
Tuttavia, il legislatore considera l’effetto esdebitatorio della predetta procedura un rilevante beneficio e, pertan- to, prescrive dei requisiti affinché il debitore vi possa ac- cedere (cfr. par. 3).
Sulla scorta di questa osservazione, non pare fuori luogo sostenere che, sebbene non sia espressamente previsto, in tale procedura possa trovare ingresso una indagine uffi- ciosa (e, ancor prima, dell’OCC), relativamente alla con- dotta tenuta dal sovraindebitato e alla sua meritevolezza di accedere alla liquidazione.
In particolare, tale ultimo concetto dovrebbe sostanziar- si, da un lato, dal mancato compimento di atti fraudo- lenti a pregiudizio dei creditori, dall’altro, dalla diligenza nell’assunzione delle obbligazioni, ossia della ragionevole prospettiva (valutata ex ante) di poter adempiere alle ob- bligazioni contraende.
Ciò è espressione del più generale principio di buona fe- de, applicabile (proprio in virtù del carattere pregnante all’interno dell’ordinamento) anche alla procedura in esa- me. D’altro canto, potrebbe risultare iniquo e non rispon- dente ad esigenze di giustizia concedere il beneficio esde- bitatorio ad un debitore sovraindebitato che abbia in pre- cedenza fatto acceso al credito in maniera colposa e ne- gligente, nella consapevolezza di non essere in grado di adempiere alle obbligazioni contratte.
7. Il CCII e la nuova liquidazione controllata
Con il D.lgs 12 gennaio 2019, n. 14 (emanato in attuazio- ne della Legge Delega 19 ottobre 2017, n. 155), il legisla- tore ha riformato la materia delle procedure concorsuali promulgando il Codice della crisi di impresa e dell’insol- venza, il quale abroga le normative vigenti in materia (ivi compresa la L. 3/2012)[8].
Con specifico riferimento alla procedura in esame, l’ul- tima parte della disciplina della procedura di sovrainde- bitamento è regolata dagli artt. 268 ss. CCII ed è dedica-
ta alla c.d. liquidazione controllata del debitore sovrain- debitato.
Ai sensi dell’art. 268 CCII, anche nella nuova disciplina, il debitore in stato di sovraindebitamento può domanda- re[9] con ricorso al tribunale competente l’apertura di una procedura di liquidazione controllata dei suoi beni[10] (con le esclusioni di cui all’art. 268, co. 3, CCII[11]).
Affinché il tribunale possa decretare l’apertura della pro- cedura, l’istante deve allegare al ricorso una relazione, re- datta dall’OCC, che esponga una valutazione sulla com- pletezza e l’attendibilità della documentazione depositata a corredo della domanda e che illustri la situazione eco- nomica, patrimoniale e finanziaria del debitore.
Verificati i presupposti di legge, il Tribunale dichiara con sentenza (e non, invece, con decreto) l’apertura della pro- cedura di liquidazione controllata ex art. 270 CCII. Nessun cenno, nessuna integrazione legislativa, rispetto alla rilevanza del criterio della meritevolezza del debitore sovraindebitato all’interno di tale procedura.
Rebus sic stantibus, anche dopo la riforma si ritiene che le procedure di composizione della crisi da sovraindebi- tamento, e in particolare la liquidazione controllata, mi- rino a garantire al debitore sovraindebitato la possibili- tà di esdebitarsi da tutte le obbligazioni assunte e, allo stesso momento, ad assicurare il maggior soddisfacimen- to dei creditori.
Pertanto, in tale contesto normativo, e in assenza di un in- tervento legislativo in tal senso, si è spinti a pensare che lo scenario non sia, almeno sotto il profilo, sostanzialmen- te mutato.
Alla luce del nuovo CCII e dei suoi principi ispiratori (tra i quali vi è senza dubbio quello di garantire un fresh start del debitore) si ritiene che la meritevolezza del debitore sia un fondamentale presupposto per accedere alle proce- dure di composizione della crisi da sovraindebitamento e, in particolare, a quella di liquidazione controllata. Diver- samente, non si dovrebbe garantire l’effetto esdebitatorio al debitore che abbia fatto acceso al credito nella consa- pevolezza di non essere in grado di adempiere alle obbli- gazioni contratte.
[8] Ad eccezione di quelle relative alla amministrazione straordinaria delle grandi imprese e della liquidazione coatta amministrativa.
[9] La domanda può essere presentata da un creditore anche in pendenza di procedure esecutive individuali e, quando l’insolvenza riguardi l’imprenditore, dal pubblico ministero (art. 268, co. 2, CCII).
[10] La domanda può essere presentata oltre che dal debitore assistito dall’OCC, da un creditore o dal pubblico ministero. Si noti altresì che non sono compresi nella liquidazione alcuni crediti dettagliatamente elencati. Il deposito dell’istanza sospende il corso degli interessi legali e convenzionali sino alla chiusura della li- quidazione, salvo talune deroghe previste per i crediti garantiti da ipoteca, pegno e privilegio.
[11] X. Xx Xxxxxx, Il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: considerazioni a prima lettura, in Il fall., 2019, 267-268.
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PIGNORAMENTO E REDDITO DI CITTADINANZA: QUALI POSSIBILITÀ?
Si può pignorare il Reddito di cittadinanza? Brevi considerazioni a margine di un recente intervento normativo
Xxxxx Xxxxxxxx
del 29 aprile 2019
Sommario
1. Che cos’è il Reddito di Cittadinanza?
2. Come viene determinato ed erogato il RdC?
3. Qual è la natura del RdC?
4. La parola alla giurisprudenza
1. Che cos’è il Reddito di Cittadinanza?
Col D.L. n. 4 del 28.01.2019, denominato “Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensio- ni”, in vigore dal 29.01.2019, è stato introdotto nell’ordi- namento, e sarà operativo dal mese di aprile p.v.[1], con le modifiche che verranno introdotte in sede di conversione, il Reddito di cittadinanza (“RdC”), misura d’integrazio- ne ai redditi famigliari, erogata dallo Stato, “di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’i- struzione, alla formazione e alla cultura attraverso politi- che volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”[2].
Il RdC, per quanto si apprende dal decreto, deve essere associato ad un percorso di reinserimento lavorativo e so-
xxxxx, di cui i beneficiari sono protagonisti, sottoscrivendo un Patto per il lavoro ed un Patto per l’inclusione sociale. In particolare, il RdC viene erogato ai nuclei famigliari in possesso, cumulativamente, al momento della presen- tazione della domanda e per tutta la durata dell’eroga- zione del beneficio, di determinati requisiti. Sotto il profi- lo soggettivo, il richiedente deve essere cittadino maggio- renne, italiano o dell’Unione Europea, oppure un suo fa- migliare che sia titolare del diritto di soggiorno o del di- ritto di soggiorno permanente, o un cittadino di un Paese terzo in possesso di un permesso di soggiorno nell’Unio- ne per soggiornanti di lungo periodo. È necessario essere residente in Italia da almeno 10 anni, di cui gli ultimi 2 in modo continuativo.
Dal punto di vista dei requisiti oggettivi, reddituali-eco- nomici, il nucleo famigliare[3] deve essere in possesso di
[1] I cittadini in possesso dei requisiti ne hanno fatto domanda a partire dal 6.03.2019 (e da ogni giorno 6 del mese), obbligandosi ad un percorso personalizzato di inserimento lavorativo di inclusione sociale.
[2] Per i nuclei famigliari, composti esclusivamente da uno o più componenti di età pari o superiore a 67 anni, il RdC assume la denominazione di Pensione di cit- tadinanza, misura di contrasto alla povertà delle persone più anziane cui non si chiede la ricerca di lavoro.
[3] I coniugi permangono nel medesimo nucleo anche a seguito di separazione o divorzio qualora continuino a risiedere nella stessa abitazione; il figlio maggioren- ne non convivente coi genitori fa parte del nucleo famigliare dei genitori esclusivamente se di età inferiore a 26 anni, nella condizione di essere a loro carico ai fi- ni IRPEF, non sia coniugato e non abbia figli. Con i nuovi emendamenti in esame in Parlamento, in sede di conversione, si prevede - per evitare abusi - che qualo- ra la separazione tra i coniugi sia avvenuta dopo il 1.09.2018, gli ex coniugi che ne facciano domanda saranno esclusi dal beneficio, senza appositi “verbali cer- tificati dalla polizia locale sul cambio di residenza”. In sede di conversione è stata prevista anche una stretta sui “finti” genitori single: tutte le coppie di genito- ri non sposati e non conviventi dovranno presentare comunque l’ISEE congiunto, anche quando uno dei due non si occupi, almeno dal punto di vista economico, dei figli minori.
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un valore ISEE[4] inferiore a 9.360 euro; di un patrimo- nio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione princi- pale, di valore non superiore a 30.000 euro[5]; di un valore del patrimonio mobiliare non superiore a 6.000 euro per il singolo, incrementato in base al numero dei componenti della famiglia[6], alla presenza di più figli[7] o di compo- nenti con disabilità[8]; di un valore del reddito famigliare inferiore a 6.000 euro annui, moltiplicato per il corrispon- dente parametro della scala di equivalenza[9]. La soglia è aumentata a 7.560 euro per la Pensione di cittadinanza. Se il nucleo famigliare risiede in un’abitazione in locazio- ne, la soglia è elevata quindi a 9.360 euro.
Per accedere alla misura di sussidio nessun componen- te del nucleo deve possedere autoveicoli immatricolati la prima volta nei 6 mesi antecedenti la richiesta, o autovei- coli di cilindrata superiore a 1.600 cc oppure motoveicoli di cilindra superiore a 250 cc, immatricolati la prima vol- ta nei due anni antecedenti[10], né navi e imbarcazioni da diporto[11].
Il RdC è compatibile con il godimento della NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) e con altri strumenti di sostegno al reddito per la disoccupazione in- volontaria[12], ma sostituisce il REI (Reddito di Inclusio- ne[13]), che continuerà ad essere erogato, ai soggetti ri- chiedenti che ne abbiano i requisiti, solo fino ad aprile 2019, al pieno avvio del RdC.
2. Come viene determinato ed erogato il RdC?
Il beneficio economico in parola si compone di due parti, una che integra il reddito famigliare fino alla soglia di 6.000 euro moltiplicati per la scala di equivalenza[14]; l’altra, de- stinata solo a chi conduce un immobile in locazione, incre- menta il beneficio di un ammontare annuo pari al xxxx- ne locatizio fino ad in massimo di 3.360 euro[15]. È previ- sta un’integrazione per famiglie proprietarie dell’abitazio- ne, ove sia stato contratto un mutuo: in questa ipotesi l’in- tegrazione, pari al massino alla rata del mutuo, non può su- perare 1.800 euro. L’importo complessivo, con le due com- ponenti, non può superare i 9.360 euro all’anno (cioè 780 euro al mese), moltiplicati per la scala di equivalenza.
Il versamento del beneficio decorre dal mese successivo a quello di richiesta e viene erogato per un periodo conti- nuativo di massimo 18 mesi[16], con un’apposita Carta di pagamento elettronica (Carta RdC), emessa da Poste Ita- liane[17], per l’acquisto di beni e servizi di base (alimenti, farmaci, bollette[18]), effettuare prelievi in contante entro un limite mensile non superiore a 100 euro per i nuclei fa- migliari composti da un singolo individuo (incrementata in base al numero di componenti il nucleo sino a 210 eu- ro[19]) ed effettuare bonifico mensile in favore del locato- re indicato nel contratto di locazione o dell’intermediario che ha concesso il mutuo[20].
Senza entrare nel dettaglio degli obblighi e degli impegni
[4] È l’Indicatore della Situazione Economica Equivalente, cioè lo strumento che consente di misurare la condizione economica della famiglia per accedere a deter- minate agevolazioni, sconti, bonus e riduzioni.
[5] Gli stranieri non potranno richiedere RdC (e Pensione) di cittadinanza se proprietari di immobili di valore superiore a 30.000 euro ubicati non solo in Italia ma anche all’estero.
[6] Fino a 10.000 euro.
[7] 1.000 euro in più per ogni figlio, oltre il secondo.
[8] 5.000 euro in più per ogni componente con disabilità
[9] È 1 per il primo componente del nucleo famigliare, incrementato di 0,4 per ogni ulteriore componente maggiorenne e di 0,2 per ogni ulteriore componente mi- norenne, fino ad un massimo di 2,1.
[10] Sono esclusi gli autoveicoli ed i motoveicoli per cui è prevista un’agevolazione fiscale per persone con disabilità.
[11] Ex art. 3, comma 1 D.Lgs. n. 171/2005.
[12] Non può essere erogato ai nuclei famigliari che abbiano tra i loro componenti soggetti disoccupati a seguito di dimissioni volontarie nei dodici mesi succes- sivi alla data delle dimissioni, salve le dimissioni per giusta causa.
[13] Introdotto con X.Xxx. n. 147 del 15.09.2017.
[14] Sono 7.560 euro per la Pensione di cittadinanza cit.
[15] 1.800 euro per la Pensione di cittadinanza.
[16] Potrà essere rinnovato, previa sospensione di in mese, prima di ciascun rinnovo. La sospensione non è prevista per la Pensione di cittadinanza.
[17] Gialla, senza nome, coi numeri in rilievo, il logo di Poste e dotata di chip. La Pensione di cittadinanza, invece, sarà pagabile anche in contanti e non solo su card.
[18] Si vorrebbero introdurre anche altre voci, come vestiario, piccoli elettrodomestici.
[19] Per questione privacy - rispetto all’impianto originario - è stata allentata la pervasività dei controlli dello Stato sulle spese: saranno monitorati i soli importi complessivamente spesi ed i prelevi dalla Carta, non la tipologia di acquisti.
[20] Il beneficio deve essere ordinariamente fruito entro il mese successivo a quello di erogazione, pena la sottrazione del 20% del beneficio non speso o non prelevato.
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previsti dal legislatore in capo al beneficiario per gode- re e/o continuare a godere del RdC e dei casi in cui que- sta erogazione può essere persa e/o ridotta d’ammontare, ovvero esaminare le sanzioni per le fattispecie di elusio- ne o violazione della normativa e tutte le criticità e/o dub- bi che accompagnano la nuova misura ex legge di bilan- cio del 2019[21], preme concentrarsi sugli effetti che ta- le emolumento per famiglie in difficoltà[22] potrebbe ave- re nell’ambito dei rapporti creditore-debitore, ed in parti- colare per l’art. 2740 c.c., e per gli strumenti procedimen- tali che il Codice accorda al creditore, ove il debitore non rispetti le obbligazioni e si renda inadempiente, dal mo- mento che tale erogazione in denaro e/o comunque le in- formazioni ed i dati del beneficiario che alla stessa sono legati, potrebbero fare aumentare le risorse a disposizio- ne del debitore ed i suoi beni con cui “rispondere delle ob- bligazioni contratte” e fare pensare alla “aggredibilità” da parte del creditore del RdC e della Carta RdC.[23] Restando nell’ambito del processo e delle procedure esecu- tive, ci si chiede, in particolare, se il RdC e la Carta Rdc sia/ siano pignorabili nelle forme del pignoramento presso terzi. Il testo del decreto non si esprime in merito e, non essen- do ancora pienamente operativo, nessuna pronuncia o de- cisione è sinora intervenuta da parte dei Giudici.
Preme un richiamo alle disposizioni più simili, ovvero la ricerca di una risposta in via interpretativo-analogica, ri- correndo alle norme esistenti.
Gli artt. 543 s.s. c.p.c. disciplinano il pignoramento presso terzi, ovvero l’espropriazione di crediti del debitore verso terzi o cose di proprietà del debitore di cui terzi abbiano il possesso. L’art. 545 c.p.c. individua, in particolare, i cre- diti/le somme che non si possono pignorare in modo as- soluto e altre, come stipendi e pensioni, che si possono pi- gnorare solo entro determinati limiti.
Tra i crediti non pignorabili ci sono quelli alimentari, “tran- ne che per cause di alimenti, e sempre con l’autorizzazione
del presidente del tribunale o di un giudice da lui delegato e per la parte dal medesimo determinata mediante decreto, i sussidi di maternità e per malattie” ed “i sussidi di sostenta- mento a persone comprese nell’elenco dei poveri”.
Il Codice di Xxxx non elenca tali sussidi, che hanno avu- to nel tempo, diversi nomi. In questo senso non sarebbe- ro pignorabili il REI, l’assegno sociale e la pensione so- ciale, perché definiti e specifici nella loro natura e funzio- ne di ausilio e di tutela delle persone in stato di povertà ovvero che necessitano del minimo indispensabile per la sussistenza. Al contrario è pignorabile, con gli stessi limiti delle pensioni, e dunque non in maniera assoluta, la NA- SpI[24], ossia l’assegno di disoccupazione in quanto sosti- tuto del reddito, come lo è la cassa integrazione. E il RdC?
3. Qual è la natura del RdC
Xxxxxxx chiedersi a cosa sia assimilabile il RdC e quale sia la natura dell’emolumento, perché, in funzione della ri- sposta data, potrebbero ottenersi conseguenze diverse: in particolare se sia assimilabile ad un sussidio/aiuto alla po- vertà impignorabile, ovvero ad un reddito vero e proprio, perché legato ad impegni ed obblighi in capo al beneficia- rio connessi alla ricerca di lavoro e che in un lavoro devo- no e vogliono sfociare[25].
La natura del RdC è probabilmente ibrida e non del tut- to chiara: infatti, inizialmente lanciato come una forma di sostegno della povertà, il RdC ha progressivamente cam- biato “veste”, per non apparire una misura assistenziale. L’art 1 del decreto attuativo ne dà, peraltro, una definizio- ne molto ampia, ma quella che coglie più nel segno è forse quella di politica attiva del lavoro, per “mobilitare” i be- neficiari alla ricerca di un’occupazione che potrebbe ren- derli autonomi[26]. Tanto è vero che chi è completamen- te inabile al lavoro non può percepire il RdC, il che sotto- linea ancora di più lo scopo non rivolto in via immediata a sostenere i poveri. Nello stesso senso sono da leggere gli
[21] L. n. 145 del 30.12.2018 in suppl. ord. n. 62 della Gazzetta Ufficiale n. 302 del 31.12.2018.
[22] Tra le ultime proposte si è prevista l’apertura anche ai c.d. working poor, cioè anche a chi un lavora già ce l’ha, ma pagato poco, e che sarà considerato disoc- cupato - ai fini della normativa sul RdC e potrà entrare nel patto per il lavoro previsto nel programma e ricevere le c.d. “offerte congrue”.
[23] Parimenti, la misura dovrà essere valutata e potrà avere un ruolo, modificativo, anche nell’ambito di altri rapporti tutelati dal diritto positivo o processuale, come quelli famigliari, per la maggiore disponibilità economica in cui potrebbe venire a trovarsi, anche solo temporaneamente, colui che già beneficia ovvero colui che sia tenuto ad effettuare corresponsioni nell’ambito de rapporti famigliari, come l’assegno di mantenimento e/o divorzile a favore di coniuge o figli.
[24] Si legga, nel merito, Trib. Ragusa, sez. distaccata di Vittoria, n. 75 del 20.04.2004 in xxx.xxxxxxx.xx, sentenza che, a seguito di un’opposizione all’esecuzione, affronta la questione della natura previdenziale del trattamento speciale di disoccupazione agricola, risolvendola in senso positivo, giungendo alla conclusione del- la pignorabilità delle relative somme esclusivamente nei limiti stabiliti dalla Corte Cost., con sentenza n. 506 del 4.12.2002 in Giur. It, 2003, 7, p. 1326. Si veda, altresì, Corte Cost. n. 85 del 15.05.2015, in Sito Ufficiale Corte Cost., 2015.
[25] La Pensione di cittadinanza, essendo indirizzata a chi non può più lavorare, ha lo scopo di contrastare la povertà e non sarà pignorabile.
[26] Viene previsto l’obbligo alla dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro da parte dei componenti maggiorenni del nucleo famigliare, nonché l’adesione
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sgravi contributivi per le aziende private che assumano un beneficiario di questo reddito[27].
Se si tratta, allora, di un reddito di lavoro, o di somme as- similabili ad uno stipendio, ad un salario o altre indennità relative ad un rapporto di lavoro o di impiego, il RdC po- trebbe essere pignorabile exart. 545, comma 3 c.p.c., con li- miti, almeno da coloro (locatore, intermediario finanziario, ecc.) che con quelle somme si prevede vengano pagati, pe- na l’inefficacia e/o la parziale inefficacia del pignoramento. Sebbene per lo stipendio il minimo vitale non sia previsto (come invece per le pensioni e si legga punto 4), i lavorato- ri possono comunque contare sulla limitazione del quinto dell’importo (totale) dello stipendio netto, oltre il quale il pignoramento non può estendersi[28].
L’art. 545, comma 7 c.p.c. statuisce infatti che “le somme da chiunque dovute a titolo di pensione, di indennità che tengono luogo di pensione o di altri assegni di quiescen- za, non possono essere pignorate per un ammontare cor- rispondente alla misura massima mensile dell’assegno so- ciale, aumentato della metà. La parte eccedente tale am- montare è pignorabile nei limiti previsti dal terzo, quarto e quinto comma [ossia 1/5 o 1/3, previa autorizzazione del tribunale per i crediti alimentari e di mantenimento] non- ché dalle speciali disposizioni di legge”.
Tale somma, per il 2018, era pari a 679,50 euro (453 eu- ro dell’assegno sociale più 1/2). Il pignoramento, in questo caso, potrebbe riguardare solo la parte eccedente tale am- montare, peraltro non per l’intero ma nei limito del quinto. Il comma 8 continua, poi, stabilendo che “le somme dovute a titolo di stipendio, salario, altre indennità relative al rap- porto di lavoro o di impiego[29]., comprese quelle dovute a causa di licenziamento, nonché a titolo di pensione, di in- dennità che tengono luogo di pensione, o di assegni di quie- scenza, nel caso di accredito su conto bancario o postale in- testato al debitore, possono essere pignorate, per l’importo
eccedente il triplo dell’assegno sociale [per il 2018: 1.359 eu- ro], quando l’accredito ha luogo in data anteriore al pigno- ramento; quando l’accredito ha luogo alla data del pignora- mento o successivamente, le predette somme possono essere pignorate nei limiti previsti dal terzo, quarto, quinto e setti- mo comma nonché dalle speciali disposizioni di legge[30]”. Ora con l’avvento del RdC ci si può domandare se la so- glia di non pignorabilità sia stata aumentata sino alla nuova misura dell’emolumento di cui può beneficiare il soggetto che ne abbia diritto al RdC, oppure no, tenu- to conto del fatto che molte retribuzioni e/o stipendi, an- che di soggetti e contribuenti che non potranno beneficia- re del RdC, per non averne i requisiti, e specialmente nel- le Regioni del Sud, sono attualmente di importo più bas- so o inferiore rispetto a quello ritenuto “congruo” ed ero- gato quale Reddito di cittadinanza.
Ciò costituirebbe forte vincolo e limite per il creditore, anche rispetto a chi non possa beneficiare di detto emo- lumento, non avendone i requisiti, qualora si assistesse all’adeguamento a tale nuova soglia.
Parimenti, ammesso (e non concesso) che il RdC sia pigno- rabile, e che lo sia - coi limiti descritti sopra dell’art. 545 c.p.c.
- resterebbe da definire chi sia il terzo debitor debitoris cui notificare l’atto di pignoramento e rivolgere gli “inviti” di cui all’art. 547 c.p.c.: l’INPS o il Ministero del Lavoro e delle Po- litiche Sociali oppure ancora Poste Italiane, che ha realizza- to e stampato la carta acquisti, o l’istituto di credito dove il titolare del RdC abbia un proprio conto corrente in cui ab- bia fatto confluire i prelievi in contante? Anche rispetto a ta- li quesiti emerge la natura tutta incognita ed in fieri di que- sto nuovo istituto, poiché il debitore-titolare del RdC, in pre- senza dei requisiti, beneficia di un sostegno economico, sen- za potersi dire creditore nei confronti degli Enti previdenzia- li o astrattamente del Legislatore che ha introdotto il Reddi- to di Cittadinanza, come lo potrebbe essere (e lo è, nelle fatti-
ai percorsi di accompagnamento all’inserimento lavorativo.
[27] Parimenti, le erogazioni di questo “reddito” cessano quando il beneficiario comincia a lavorare [con facoltà di rifiutare per tre volte un’offerta “non congrua”. Un’offerta di lavoro per essere giudicata “congrua” e obbligare il beneficiario all’accettazione deve prevedere uno stipendio di almeno 858 euro, pari al 10% in più della misura massima di RdC per un single] e le mensilità residue non ancora riscosse vanno all’azienda che avrà assunto a tempo indeterminato.
[28] Inoltre il pignoramento dello stipendio per simultaneo concorso di cause diverse non può estendersi oltre la metà del suo ammontare.
[29] Sull’estensione al lavoro privato delle disposizioni previste peri dipendenti della PA x. Xxxx. Civ., sez. 3, n. 685 del 18.01.2012 in “Il Sole 24 Ore”, “Guida al Lavoro”, 2012, 19, p. 40.
[30] Comma aggiunto dall’art. 13, comma 1, lett. l) D.L. 27.06.2015 n. 83, conv. con modific. da L. 6.08.2015 n. 132; per l’applicazione della disposizione v. art. 23, comma 6 del D.L. 83/2015. Con riguardo a questa disposizione, prima dell’intervento legislativo, si legga Cass. Civ., sez. L, n. 26042 del 17.10.2018 in “CED”, Cassazione, 2018: “In tema di esecuzione forzata presso terzi, il trattamento pensionistico versato sul conto corrente pignorato in data antecedente all’entrata in vigore del D.L. n. 83/2015 (conv. con nodific. in L. n. 132/2015), di modifica dell’art. 545 c.p.c., è sottoposto all’ordinario regime dei beni fungibili secondo le regole del deposito irregolare, in virtù del quale le somme versate perdono la loro identità di crediti pensionistici e, pertanto, non sono sottoposte ai limiti di pignorabilità dipendenti dalle cause che diedero origine agli accrediti, con conseguente applicazione del principio generale di cui all’art. 2740 c.c.”.
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specie “tradizionali”) nei confronti della banca per il rappor- to contrattuale di conto corrente che lo lega all’istituto ovve- ro del proprio datore di lavoro, per la prestazione lavorativa resa, o ancora nel contratto di locazione o negli altri rappor- ti sinallagmatici e patrimoniali[31].
4. La parola alla giurisprudenza
La giurisprudenza è intervenuta, specialmente quella di le- gittimità, della Corte Costituzionale[32], ma anche di meri- to[33], a sancire la mancanza di irragionevolezza e di dispa- xxxx nel diverso trattamento accordato ex lege alla pensione e allo stipendio rispetto al pignoramento di somme presso terzi, con pronunce del medesimo tenore[34].
Pur residuando ancora giudici, di merito, che parificano pensione e stipendio ai fini della non pignorabilità, ragio- nando per analogia (contemperando diverse esigenze), l’orientamento è oramai dominante e si può presumere sarà lo stesso anche rispetto al nuovo RdC e alla Pensione di cittadinanza e che il discrimine, da parte dell’interpre- te sarà ancora una volta quello dell’individuazione del- le somme che costituiscono il minimo vitale o comunque necessarie per la sussistenza e per “assicurate un’esisten-
za libera e dignitosa”[35], pur dovendosi probabilmente ragionare sulla aumentata soglia minima a quella rappre- sentata oggi dalle somme erogate dal RdC.
Citiamo qui Tribunale di Ravenna, sent. 23.01.2012[36]: “il credito professionale dell’avvocato non rientra tra i crediti ‘qualificati’ indicati dall’art. 2, n. 2 DPR 180/1950 che con- sentono la pignorabilità della pensione nei limiti di un quinto anche quando questa assicuri al pensionato il solo ‘minimum vitale’”, ma anche un orientamento del Giudice dell’Esecu- zione del medesimo Tribunale di Ravenna (ord. 24.02.2016 nel proc. RG n. 151/16 non pubblicata), che ha applicato il
D.L. n. 83/2015 conv. in L. 132/2015, previsto per le pensioni, estensivamente anche alle retribuzioni, in analogia al princi- pio del rispetto del minimo vitale, sul presupposto della pa- xxxx delle situazioni economiche del debitore, sia che sia pen- sionato, sia che sia lavoratore dipendente[37].
In linea con quanto statuito dal Giudice delle Leggi si leggano, invece, nel merito Trib. Bolzano, 3.02.2010[38] e, quale pronuncia del Giudice penale, che riprende l’o- rientamento dominante e la diversa natura tra sequestro penale e pignoramento presso terzi, Cass. Pen, sez. 5, n. 35531 del 1.10.2010[39].
[31] Mancherebbe pure, nella fattispecie del RdC, l’obbligazione, se non nell’impegno/onere a seguire il percorso di reinserimento al lavoro che il RdC auspica, pe- na la perdita del contributo.
[32] Tra le tante, Corte Cost., ord. n. 91 del 28.10.2017, Sito Ufficiale Corte Cost., 2017 “È dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costitu- zionale […] in riferimento agli artt. 3 e 26 Cost., dell’art. 545, comma 4 c.p.c., nella parte in cui non prevede l’impignorabilità assoluta della parte di retribuzione necessaria a garantire al lavoratore i mezzi indispensabili alle sue esigenze di vita, o in via subordinata, nella parte in cui non prevede le medesime limitazioni in materia di pignoramento per crediti tributari disposte dall’art. 72-ter del D.P.R. n. 602 del 1973. Analoga questione, sollevata con atto di identico contenuto è stata già dichiarata non fondata dalla sentenza n. 248 del 2015, la quale ha precisato che la tutela della certezza dei rapporti giuridici, in quanto collegata agli strumen- ti di protezione del credito personale, non consente di negare in radice la pignorabilità degli emolumenti ma di attenuarla per particolari situazioni la cui individua- zione è riservata alla discrezionalità del legislatore, e che gli evocati tertia comparationis (regime di impignorabilità delle pensioni e, in subordine, limiti al pignora- mento per la riscossione coattiva delle imposte sul reddito) sono eterogenei rispetto alla disposizione censurata”. Anche Corte Cost., ord. n. 202 del 15.11.2018, ord. n. 222 del 2.10.2016, ord. 70 del 5.04.2016, Corte Cost. sent. n. 248 del 3.12.2015, n. 85 del 15.05.2015, ord. n. 225 del 29.05.2002, sent. n. 434 del 23.12.1997.
[33] Trib. Messina, sez, 2, ord. 18.05.2016 “il trattamento stipendiale non è assimilabile a quello pensionistico, per il quale deve escludersi la pignorabilità di quelle somme necessarie ad assicurare al pensionato mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita. Ne consegue che per il trattamento stipendiale non opera il li- mite della impignorabilità del minimo indispensabile per vivere e che l’inconveniente, pe quanto socialmente doloroso, non dà luogo ad una illegittimità costitu- zionale della normativa, in ragione dell’esigenza di non vanificare la garanzia del credito, ferma la discrezionalità del legislatore nell’introdurre appositi limiti”.
[34] Si legga Cass., sez. L,. n. 9950 del 24.05.2004 e Cass. Civ., sez. 3, n. 4887 del 30.07.1986, entrambe in “Il Sole 24 Ore”, “Ventiquattrore Avvocato”, 2005, 9, p. 50.
[35] Art. 36 Cost. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e al- la famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
[36] In “Centro studi giuridici di Mantova”, xxx.xxxxxx.xx, 2012, p. 6877, pt. I.
[37] Tale provvedimento, preme precisare, è stato fatto oggetto di opposizione agli atti esecutivi e di successiva pronuncia del giudice di merito con sentenza di annullamento n. 328 del 12.04.2017 inedita, in linea con l’orientamento dominante della Corte Cost. cit., che non rileva alcuna irragionevolezza nel diverso tratta- mento tra stipendio e pensione.
[38] “È escluso che l’azione esecutiva, avente ad oggetto denaro giacente in conto corrente, possa andare incontro alle restrizioni previste nel caso di crediti da re- tribuzione o pensione - oggetto di pignoramento - atteso che il titolo, che abbia giustificato il suddetto versamento, e dunque acquisizione non ha più rilevanza una volta che la somma di denaro è stata, per l’appunto, versata nel conto”. In “Il Corriere Giuridico”, 2011, 8, p. 1147.
[39] “Il sequestro conservativo può avere ad oggetto una somma di denaro proveniente da un credito di lavoro, non valendo i limiti all’esecuzione del pignoramen- to previsti dai commi 3 e 4 dell’art. 545 c.p.c., in quanto, fermo il titolo di un sequestro conservativo disposto dal giudice penale, le questioni relative alla pignora- bilità dei crediti sono proponibili solo in sede di esecuzione civile”. In “La Tribuna”, “Rivista Penale”, 2011, 11, p. 1215.
L’Aula Civile • n. 4 - 2019
Le “comunicazioni” e le “notifiche” nell’era digitale: il momento perfezionativo della spedizione via pec
e la sentenza della Corte Costituzionale del 9 aprile 2019,
n. 75, dichiarativa della illegittimità dell’art. 16 septies, L. n. 221 del 2012
Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
del 30 aprile 2019
Sommario
1. Le “comunicazioni” e le “notifiche” xxx xxx x xxx xxx
0. La notifica via pec e la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 16 septies, L. 9 aprile 2019, n. 75
1. Le “comunicazioni” e le “notifiche” via fax e via pec L’art. 136 c.p.c. connota le «comunicazioni» come «for- ma abbreviata» di trasmissione di informazioni o docu- menti, originariamente affidata al biglietto di cancelleria in carta non bollata e poi oggetto di reiterate modifiche che hanno via via affiancato a tale modalità il fax e la po- sta elettronica, in particolare nella versione più formale della posta elettronica certificata[1].
La giurisprudenza ha precisato che la comunicazione
«non contiene alcuna certificazione di conformità all’o- riginale, ma ha il solo scopo di porre le parti in grado di prendere visione del provvedimento»[2] e ha pure con- fermato con concordia che la stessa conferisce certezza dell’avvenuta consegna anche quando fatta con mezzi equipollenti al biglietto di cancelleria[3].
Il telefax e la posta elettronica certificata sono entrati nel quotidiano procedimentale, sovente espressamente ri- chiamati dalle norme dei regolamenti arbitrali, trasferen-
dovi la loro funzionalità, ma anche le problematiche lo- ro connesse, quali quelle concernenti il valore probatorio della copia comunicata rispetto all’originale o della rice- vuta, questioni di soluzione non così lineare come dimo- stra l’ampia elaborazione giurisprudenziale.
La Corte di cassazione annovera sovente la copia di un atto mediante il servizio di telefax fra le riproduzioni mec- caniche di cui all’art. 2712, c.c. (la cui elencazione è consi- derata meramente esemplificativa e dunque suscettibile di applicazione in via analogica), con la conseguenza di ri- conoscere che anch’essa forma piena prova dei fatti o del- le cose rappresentati, se colui contro il quale la riprodu- zione è prodotta non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesimi[4].
Con riferimento alla trasmissione via fax degli atti pro- cessuali, la conformità della copia all’originale deposita- to richiede l’attestazione della ricezione da parte dell’av- vocato munito di procura, ai sensi dell’art. 1, comma 1,
[1] Tra i numerosi interventi legislativi su questa norma si ricordano, da ultimo, l. n. 148 del 2011, l. n. 183 del 2011, l. n. 221 del 2012. Sull’entrata nel proces- so dell’uso degli strumenti elettronici: X. Xxxxxx, Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla legge n. 80 del 2005. Uso del fax e degli strumenti elet- tronici, in Foro it., 2005, V, c. 96
[2] Cass., 28 marzo 1997, n. 2810, in De Jure.
[3] Tra le molte: Cass., 29 aprile 2002, n. 6221; Cass. 16 giugno 2004, n. 11319; Cass. 20 ottobre 2005, n. 20279; Cass. 26 ottobre, n. 27250/2018 sulle comuni- cazioni effettuate via pec, possono leggersi integralmente tutte in De Jure.
[4] In questo senso: Xxxx. 24 novembre 2005, n. 24814, in De Jure; Cass. 13 febbraio 1989, n. 886, in Foro it., 1990, I, c. 3490; Cass., 14 giugno 2007, n. 13916, in Giust. civ., 2008, I, p. 1767. X. Xxxxx, Sull’efficacia probatoria del telefax, in Banca borsa e tit. cred., 1990, II, p. 429; X. Xxxxxx- Xxxxxxxxxx, Efficacia probatoria di telex e fax, in Foro pad., 1990, I, p. 1; G. L: Xxxxxxx, Telex e telefax nel sistema delle prove documentali, in Riv. dir. proc., 1991, p. 907; M.E. La Torre, Contributo alla teoria giuridica del documento, Xxxxxx 0000, x. 000 xx. (xxxxx riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2742 x.x.) x x. 000 x. (xxxxx xxxxxxxxxxxx a mezzo telefax).