TESI DI DOTTORATO
Corso di Dottorato in Scienze giuridiche
Curriculum in Diritto amministrativo e Diritto costituzionale, XXIX ciclo
LA PRASSI DELLA CONTRATTAZIONE TRA STATO E REGIONI NEI GIUDIZI IN VIA PRINCIPALE
QUANDO I GOVERNI “NEGOZIANO” IL CONTENUTO DELLE LEGGI: PROFILI CRITICI E PROSPETTIVE DI RIFORMA
Tesi presentata da: dott.ssa Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
matr. n. R10398
Settore scientifico disciplinare: Diritto costituzionale, IUS/08
Tutor:
xxxxx.xx xxxx.xxx Xxxxxxx Xxxxxxx
Coordinatore del Corso:
xxxxx.xx xxxx.xxx Xxxxx-Xxxxxx Xxxxxxx
Anno accademico 2015-2016
Indice
INTRODUZIONE pag. I
CAPITOLO I
LE ORIGINI DELLA CONTRATTAZIONE DI LEGITTIMITÀ: ANALISI DEL PRECEDENTE SISTEMA DI CONTROLLO GOVERNATIVO SULLA LEGISLAZIONE REGIONALE
Premessa
.....................................................................................................................
pag.1
1.1 La riforma del Titolo V e il ritorno alla prassi della “contratazione di legittimità” ...................................................................................................................
1.2 L’art. 127 della Costituzione secondo l’originario impianto costituzionale: la ratio del controllo sulle leggi regionali e la diffidenza nei confronti della legislazione regionale ..........................................................................
pag.4
pag.9
1.2.1 segue…Una “vistosa asimmetria” pag.13
1.3 La ratio del doppio regime di controllo governativo sulle leggi regionali pag.16
1.4 La doppia natura del ricorso governativo: controllo- verifica o
controllo-indirizzo? ....................................................................................................... pag.19
1.5 La prassi del controllo governativo sulle leggi regionali prima della
riforma: da contestazione a contratazione di legittimità ........................................... pag.25
1.6 I “rinvii plurimi”: la tesi formalista e la tesi sostanzialista a confronto .......... pag.27
1.6.1 segue… La Corte fa propria la tesi sostanzialista .............................. pag.35
1.6.2 Quale maggioranza per la seconda deliberazione? .......................... pag.36
1.7 I visti governativi atipici ................................................................................... pag.38
1.8 La portata della contratazione di legittimità e le sue ricadute pratiche ....... pag.43
1.9 Verso una riforma: l’evoluzione degli anni ’90 e la prassi c.d. “Bassanini”...... pag.48
CAPITOLO II
LA RIFORMA DEL TITOLO V E L’ESPLOSIONE DEL CONTENZIOSO STATO-REGIONI: DATI E TENDENZE DEL GIUDIZIO DI COSTITUZIONALITÀ
2.1 Il nuovo art. 127 Cost. e le sue ripercussioni sul giudizio in via principale pag.56
2.2 Il regime dei vizi denunciabili: il perdurare dell’asimmetria tra Stato e
Regioni pag.59
2.3 L’esplosione del contenzioso in via principale all’indomani della riforma
del 2001 pag.66
2.4 L’andamento del contenzioso pag.71
2.4.1 La “riscritura del Titolo V”: la giurisprudenza costituzionale del
triennio 2002-2005 pag.71
2.4.2 Profili quantitativi del contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni nel periodo 2006-2014 .....................................................................
2.4.3 segue… I casi di estinzione per rinuncia e di cessazione della
materia del contendere .................................................................................
2.4.4 La giurisprudenza costituzionale del biennio 2015-2016..................
2.5 Il definitivo venir meno della c.d. “promulgazione parziale” delle leggi
pag.75
pag.82 pag.92
siciliane
....................................................................................................................
pag.98
2.6 Le ulteriori tecniche decisorie cui ricorre la Corte in caso di ius superveniens. Spazi per interventi di “manutenzione straordinaria” alla
strutura del giudizio in xxx xxxxxxxxxx xxx.000
CAPITOLO III
LA “CONTRATTAZIONE DI LEGITTIMITÀ” OGGI: RICADUTE PRATICHE E POSSIBILI EVOLUZIONI DI UNA PATOLOGIA COSTITUZIONALE
3.1 I tentativi di arginare l’esplosione del contenzioso: la prassi introdota dal secondo Governo Xxxxx e le nuove prospettive per la “contratazione” Stato-
Regioni pag.109
3.2 La “contratazione di legittimità” oggi: il ruolo del Dipartimento Affari
regionali e le molteplici forme della negoziazione Stato-Regioni pag.114
3.3 Profili critici e limiti della “contratazione di legittimità”.............................. pag.119
3.3.1 segue…Un affondo sui limiti della contratazione .......................... pag.124
3.3.2 segue…Le ricadute della contratazione sul processo
costituzionale ............................................................................................... pag.127
3.4 Le alternative percorribili (tra interventi giurisprudenziali, proposte dotrinali e possibili revisioni costituzionali): le soluzioni interne al giudizio di
legittimità ................................................................................................................... pag.129
3.4.1 segue… Le soluzioni esterne al giudizio di costituzionalità.
Spunti dall’esperienza scozzese .................................................................... pag.133
3.4.2 segue… La procedimentalizzazione delle tratative tra Stato e
Regioni: l’esempio spagnolo ........................................................................ pag.136
CAPITOLO IV
IL SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PARITARIO COME RIMEDIO AL DEFICIT DI COLLABORAZIONE IN AMBITO LEGISLATIVO: RIFLESSIONI SUL RECENTE TENTATIVO DI RIFORMA COSTITUZIONALE
4.1 La negoziazione di legittimità quale prodoto del deficit di cooperazione in
ambito legislativo. Aspetti generali ...........................................................................pag. 142
4.2 Una riforma mai atuata. La mancata integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali pag.147
4.3 L’incessante domanda di cooperazione a livello legislativo e i possibili
sviluppi futuri del rapporto tra Stato e Regioni ......................................................... pag.150
4.4 Il d.d.l. c.d. “Xxxxx- Xxxxxx”: considerazioni generali sulle prospettive di
riforma pag.152
4.5 La riforma del Senato: profili struturali pag.156
4.5.1 segue… profili funzionali: le competenze legislative del Senato ..... pag.160 4.5.2 segue…le nuove funzioni del Senato ............................................... pag.163
4.5.3 segue…L’elezione dei giudici della Corte costituzionale .................. pag.166
4.6 Le modifiche al Titolo V: il riparto delle competenze legislative .................. pag.168
4.7 La clausola di supremazia............................................................................. pag.173
4.8 Considerazioni conclusive: i possibili effetti della riforma sul contenzioso... pag.175
4.8.1 segue… uno sguardo al futuro: la sentenza “Madia” apre uno
spiraglio? pag.180
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE pag.186
BIBLIOGRAFIA pag.194
SITOGRAFIA pag.214
RINGRAZIAMENTI pag.216
Introduzione
Com’è noto, i quindici anni trascorsi dall’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, che riformando il Titolo V parte II della Costituzione era diretta a realizzare all’interno del nostro ordinamento una forma di regionalismo avanzato, sono stati contrassegnati da un contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni di dimensioni straordinarie. Tra le principali novità introdotte dalla novella costituzionale si ricordano, in particolare, la modifica del criterio di distribuzione delle competenze tra i livelli di governo statale e regionale e l’abbandono della fase di controllo preventivo di legittimità che lo Stato esercitava nei confronti delle leggi regionali; modifiche, queste, che avrebbero dovuto ampliare gli spazi dell’autonomia regionale, rimediando alla tradizionale asimmetria caratterizzante i rapporti tra Stato e Regioni. Tuttavia, il concreto dispiegarsi delle relazioni tra i due livelli di governo ha riconsegnato al nostro ordinamento una realtà di gran lunga differente rispetto alle intenzioni originarie della riforma, all’interno della quale il forte tasso di conflittualità tra Stato e Regioni ha rappresentato una delle cifre maggiormente caratteristiche. L’anomalia e le dimensioni assunte da questo fenomeno hanno rivelato un uso atipico, se non addirittura improprio1, dell’impugnativa ex art. 127 Cost., che, in assenza di altre vie, viene utilizzata come strumento di definizione del nuovo riparto di competenze di cui all’art. 117 Cost..
Hanno certamente contribuito alla realizzazione di un simile scenario i numerosi difetti genetici della riforma aggravati dal sostanziale abbandono della stessa da parte del legislatore ordinario che ha omesso di approvare le necessarie norme di attuazione, costringendo la Corte costituzionale, investita da centinaia di ricorsi l’anno, a supplire a tali carenze colmando il vuoto normativo ed interpretativo lasciato dalla riforma.
Sulla base di queste premesse, il presente elaborato intende indagare uno degli aspetti più controversi della conflittualità tra Stato e Regioni, ben evidenziato dai dati quantitativi inerenti ai ricorsi in via principale ovvero quello autorevolmente definito come
1 V. A. STERPA, Negoziare le leggi. Quando Stato e Regioni fanno a meno della Corte costituzionale, in
Xxxxxxxxxxx.xx, p.3
“contrattazione di legittimità”2 delle leggi. L’analisi delle decisioni della Corte, infatti, porta alla luce un dato significativo: sempre più spesso il giudizio viene “gestito” dalle parti processuali che si accordano sull’esito dello stesso ponendo fine anticipatamente alla controversia costituzionale.
Secondo questa prassi, che negli anni ha trovato applicazione in particolar modo nei casi di ricorso governativo, nelle more del giudizio, la parte resistente, al fine di evitare che una pronuncia di incostituzionalità colpisca la propria legge, mette mano alla stessa, correggendola, sostituendola o abrogandola in modo da far venir meno l’interesse al ricorso e ponendo fine al processo con una pronuncia di estinzione del giudizio o di cessazione della materia del contendere.
Lo ius superveniens così generatosi rappresenta spesso il prodotto delle trattative tra gli apparati di governo centrale e regionale; trattative che, in assenza di una fase di conciliazione precontenziosa, si svolgono ora a giudizio già instaurato, con importanti ricadute sulla funzionalità del processo costituzionale.
Sempre più numerosi sono inoltre i casi in cui la rinuncia al ricorso viene formulata in assenza di ius superveniens, in seguito alla positiva conclusione tra le parti di accordi di natura politico-istituzionale volti a porre fine al contenzioso sulle norme impugnate.
La portata di questo fenomeno è ben testimoniata sia dal numero significativo di pronunce con cui la Corte costituzionale prende atto della rinuncia del ricorrente seguita dall’accettazione della controparte e dichiara estinto il giudizio, che dalle numerose decisioni con cui la Corte stessa dichiara la cessazione della materia del contendere in seguito al sopraggiungere di una nuova normativa che abroga o sostituisce quella originariamente impugnata, alla condizione che quest’ultima non abbia ricevuto medio tempore applicazione.
Sebbene le due tipologie di pronunce in esame possano considerarsi sostanzialmente
“inutili”3 poiché pongono fine al giudizio con un “nulla di fatto”4 , appare tuttavia utile
2 Così X. XXXXXX, Contestazione e contrattazione di legittimità: aspetti di prassi e spunti ricostruttivi per
l’applicazione dell’art. 127 della Costituzione, in Giur. Cost., 1980, p. 531 ss.
3 Così E. XXXXX, Le decisioni di estinzione per rinuncia nell’ultimo decennio di giurisprudenza costituzionale, tra ragioni sostanziali e profili procedurali, in Scritti in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, AA. VV. (a cura di), Jovene, 2009, p. 1606.
4 Così L. PESOLE, L’attuale connotazione del giudizio in via principale, in X. XXXXX, X. PESOLE (a cura di), Il contenzioso Stato-Regioni nella giurisprudenza costituzionale e l’avvenire delle Regioni, Jovene, 2015, p. 128.
indagarne la portata e il significato all’interno del nostro ordinamento in cui non solo costituiscono un importante indicatore dello stato in cui versano i rapporti tra Stato e Regioni ma rivelano anche la nuova connotazione assunta dal giudizio in via principale come importante strumento di dialettica tra i due livelli di governo, che, pur scontrandosi in sede giurisdizionale, ricorrono alla negoziazione in via politica.
Le ricadute processuali prodotte da questa prassi e le complesse modalità con cui essa si realizza presentano profili di criticità che verranno analizzati in questa sede. Uno degli aspetti maggiormente problematici è rappresentato dall’assenza di formalizzazione e di pubblicità delle trattative tra Stato e Regioni che rende l’ambito di indagine alquanto impervio risultando difficoltoso il reperimento degli accordi conclusi all’interno della documentazione ufficiale. I processi di contrattazione si svolgono nella pressoché totale opacità, “per vie sotterranee, nel chiuso di Palazzo Chigi”5; di essi soltanto prende atto la Corte costituzionale quando registra, estinguendo il processo o dichiarando la cessazione della materia del contendere, l’avvenuta stipulazione di un accordo tra le parti, magari sopraggiunto a ridosso dell’udienza di discussione. Attraverso la lente del contenzioso in via principale, si vuole, pertanto, in questa sede porre l’attenzione su quella che è stata efficacemente definita come una “dimensione sommersa del contenzioso”6, ovvero su quei casi in cui non si giunge ad una pronuncia di merito perché la contrattazione legislativa lo preclude alla Corte, così che i conflitti definiti nel merito da quest’ultima rappresentano solo la “punta di un iceberg dai contorni indefiniti”7.
Il fenomeno della contrattazione delle leggi non è una novità per il nostro ordinamento ma piuttosto rappresenta il volto rinnovato del meccanismo di controllo governativo sulle leggi regionali mediante richiesta di riesame, previsto dall’originaria versione dell’art. 127 Cost. e che la riforma del 2001 intendeva superare. Questo istituto conferiva al Governo centrale la possibilità di rinviare ai Consigli regionali le delibere da questi prodotte prima della loro promulgazione in modo da consentirne la modifica secondo i rilievi mossi dal Governo stesso.
5 Così A. XXXXXXXX, Molti quesiti ed una sola, cruciale questione, ovverosia se la riforma costituzionale in
cantiere faccia crescere ovvero scemare l’autonomia regionale, in Diritti regionali, 2016, p.111.
6 Così E. XXXXXXXXXXXXX, Undici anni dopo. Le Regioni, la Corte, la crisi, in X. XXXXXXXXX (a cura di), La giustizia
costituzionale e il “nuovo” regionalismo, Xxxxxxx, 2013, p. 109.
7 Ibidem.
Se tale strumento da un lato conduceva ad un’eccessiva compressione dell’autonomia regionale, dall’altro costituiva l’unico “filtro” costituzionalmente previsto per evitare che il confronto sulle leggi regionali si trasformasse quasi automaticamente in contenzioso davanti alla Corte8.
La legge costituzionale n. 3/2001, modificando l’art. 127 Cost., ha trasformato il ricorso statale da preventivo a successivo, contribuendo a determinare un’esasperazione della conflittualità tra Stato e Regioni e, all’interno di questa, generando una prassi che ripropone di fatto la funzione originaria del rinvio. Venuta meno la possibilità di bloccare l’entrata in vigore delle leggi regionali, il Governo ha sostituito di fatto il rinvio al Consiglio con il ricorso in via principale9, ricorrendo in prima battuta alla Corte, in particolare per non veder spirare inutilmente il breve termine previsto per l’impugnazione, e in seguito intraprendendo con la Regione una trattativa sul contenuto della legge contestata volta ad ottenerne una modificazione.
La perdurante inattuazione di alcuni aspetti fondamentali della riforma del 2001, tra cui l’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti delle autonomie locali, ha privato l’ordinamento italiano di elementi chiave per rendere effettivo il principio di leale collaborazione soprattutto in ambito legislativo; elementi che avrebbero permesso di risolvere a monte molti dei conflitti che tradizionalmente sfociano a valle nei giudizi davanti alla Corte. La ricerca di appropriate sedi di dialogo in cui gli interessi dei diversi livelli di governo possano giungere ad una sintesi condivisa rappresenta per il nostro sistema ancora una questione aperta e di notevole attualità.
Il periodo di scrittura di questo elaborato ha coinciso, infatti, con il percorso di approvazione del disegno di riforma costituzionale c.d. “Xxxxx- Boschi”, bocciato a seguito di referendum confermativo nel dicembre del 2016, che intendeva introdurre nel nostro ordinamento importanti innovazioni, in particolare, attraverso una profonda trasformazione del Senato e una nuova definizione del Titolo V parte II della Costituzione; interventi questi originariamente concepiti al fine di “realizzare un sistema di governo
8 Cfr. E. XXXXXXXXXXXXX, Il giudizio in via principale oggi: prevenire è meglio che reprimere. Sì, ma come, in AA. VV., I ricorsi in via principale. Atti del seminario svoltosi in Xxxx Xxxxxxx xxxxx Xxxxxxxx, 00 novembre 2010, Xxxxxxx, 2011, p. 5
9 E. XXXXX, op. ult. cit.,p. 1610.
multilivello ordinato, efficiente e non animato da dinamiche competitive, in grado di
bilanciare interessi nazionali, regionali e locali”10.
Partendo dallo scenario sopra illustrato, il presente studio percorrerà l’evoluzione del fenomeno della “contrattazione” delle leggi, dal suo affermarsi nei primi decenni di attuazione del nostro regionalismo, fino al recente tentativo di riforma della Costituzione; l’intento che anima la ricerca è quello di analizzare la portata di questo fenomeno e di individuarne il significato all’interno del nostro ordinamento.
Al fine di un migliore inquadramento della tematica in esame, sarà necessario innanzitutto svolgere qualche considerazione preliminare sull’evolversi dei rapporti tra Stato e Regioni e sui caratteri di fondo del nostro regionalismo.
Formulate queste premesse, nel primo capitolo si volgerà uno sguardo al passato attraverso l’analisi del precedente regime delle impugnative in via principale ed in particolare dell’abrogato istituto del controllo preventivo governativo sulle leggi regionali. La soppressione di quest’ultimo, considerato da autorevole dottrina come uno strumento di “polizia costituzionale”11 nelle mani dello Stato, è stata salutata come una delle novità più significative introdotte dalla riforma del 200112. Per questo motivo ci si intende soffermare sui fattori che, in via di prassi, hanno fatto di questo istituto uno dei principali strumenti di “mortificazione” dell’autonomia regionale e, al contempo, di “moltiplicazione”13 della supremazia statale.
Successivamente l’attenzione verrà dedicata allo stato del contenzioso in via principale e alle trasformazioni da esso subite per effetto della l. cost. n. 3 del 2001. In quest’ ambito, al fine di saggiare la reale portata della prassi oggetto di studio, si fornirà una disamina dei dati quantitativi relativi ai ricorsi in via d’azione e, in particolare, alle pronunce emesse dalla Corte costituzionale quando prende atto dell’avvenuta negoziazione tra le parti.
Il lavoro proseguirà con l’analisi dei caratteri di fondo della contrattazione legislativa tra Stato e Regioni per approfondire le modalità e le sedi in cui essa concretamente si svolge. Nel fare ciò verranno evidenziati i profili critici di un fenomeno le cui zone d’ombra e ricadute pratiche all’interno del nostro ordinamento sono tali da aver portato lo stesso
10 Così in Atto Senato n. 1429, disponibile all’indirizzo web xxx.xxxxxx.xx.
11 La celebre espressione risale a G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Il Mulino, 1988, p. 248.
12 Così A. XXXXXXX, X. XXXXXXX, Lineamenti di giustizia costituzionale, Xxxxxxxxxxxx, 2014, p. 260.
13 Così R. XXX, X. XXXXXX (a cura di), Diritto regionale, Il Mulino, 2012, p. 346.
Presidente della Corte costituzionale Xxxxx Xxxxxx, in occasione dell’ultima relazione sulla giurisprudenza costituzionale, a parlare di una vera e propria “disfunzione” del nostro sistema a cui è necessario porre rimedio. Una dichiarazione, questa, che ha stimolato la successiva indagine sulle possibili soluzioni ed evoluzioni della prassi in esame, in ciò guardando anche agli spunti offerti dalle esperienze straniere.
Nella consapevolezza che una delle principali cause dell’elevato tasso di litigiosità tra Stato e Regioni e delle distorsioni che essa produce risiede nell’assenza, all’interno del nostro ordinamento, di una sede di negoziazione politica e preventiva rispetto al giudizio davanti alla Corte, la trattazione si concluderà con un’analisi del recente tentativo di riforma costituzionale concepito per rimediare alla “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari”14 attraverso la creazione di un Senato costituito da rappresentanti delle autonomie territoriali. Nello specifico, si formuleranno alcune considerazioni sull’idoneità delle innovazioni previste dal progetto a porre un argine al contenzioso Stato-Regioni e dunque ad inaugurare una fase meno conflittuale dei rapporti tra centro e periferia.
Certo è che la clamorosa bocciatura del disegno di revisione costituzionale, a seguito dell’esito negativo del referendum del 4 dicembre 2016, non lascia intravedere possibilità di giungere ad una soluzione del problema in esame attraverso la realizzazione di nuovi interventi riformatori a breve termine; resta tuttavia vivo l’auspicio, incoraggiato anche da una recente pronuncia dei giudici costituzionali in tema di leale collaborazione, che le nostre istituzioni recepiscano quanto prima le istanze di rinnovamento che da lungo tempo animano il nostro ordinamento, partendo dalla valorizzazione delle procedure e dei meccanismi in esso già presenti.
14 Corte costituzionale, sentenza n. 6 del 2004.
Capitolo i
LE ORIGINI DELLA CONTRATTAZIONE DI LEGITTIMITA’: ANALISI DEL PRECEDENTE SISTEMA DI CONTROLLO GOVERNATIVO SULLA LEGISLAZIONE REGIONALE
SOMMARIO: Premessa - 1.1 La riforma del Titolo V e il ritorno alla prassi della “contrattazione di legittimità”-
1.2 L’art. 127 della Costituzione secondo l’originario impianto costituzionale: la ratio del controllo sulle leggi regionali e la diffidenza nei confronti della legislazione regionale - 1.2.1 Segue… Una “vistosa asimmetria” - 1.3 La ratio del doppio regime di controllo governativo sulle leggi regionali -
1.4 La doppia natura del ricorso governativo: controllo- verifica o controllo-indirizzo? - 1.5 La prassi del controllo governativo sulle leggi regionali prima della riforma: da contestazione a contrattazione di legittimità - 1.6 I “rinvii plurimi”: la tesi formalista e la tesi sostanzialista a confronto- 1.6.1 segue… La Corte fa propria la tesi sostanzialista - 1.6.2 Quale maggioranza per la seconda deliberazione? -
1.7 I visti governativi atipici - 1.8 La portata della contrattazione di legittimità e le sue ricadute pratiche - 1.9 Verso una riforma: l’evoluzione degli anni ’90 e la prassi c.d. “Bassanini”
Premessa
La storia del regionalismo italiano, si sa, non è stata delle più felici. A quindici anni dalla riforma del Titolo V, l’esplosione del contenzioso tra Stato e Regioni rappresenta senza dubbio uno dei fenomeni più rilevanti, ben evidenziata, con una certa preoccupazione, dalle relazioni annuali dei Presidenti della Corte Costituzionale15.
Un aumento del contenzioso, all’indomani di una riforma come quella del 2001 che ha modificato ben 19 articoli della Costituzione, sarebbe da considerarsi un riflesso fisiologico ad una fase di necessario assestamento. Alla stessa stregua, proseguendo nella metafora, rappresenta un dato fisiologico nei sistemi decentrati l’intervento del Giudice costituzionale nella risoluzione dei conflitti tra centro e periferia; intervento che mira a garantire l’equilibrio tra le esigenze contrapposte di uniformità da un lato e di differenziazione dall’altro16. Tuttavia, la recente esperienza del nostro territorialismo,
15 A questo proposito si vedano ad esempio le relazioni dei Presidenti della Corte costituzionale V. Onida e
X. Xxxxxxxxx relative alla giurisprudenza costituzionale rispettivamente degli anni 2004 e 2013, consultabili
all’indirizzo xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
16 V. S. XXXXXXXXXX, Giustizia costituzionale e federalismo: riflessioni sull’esperienza italiana, in X. Xxxxxxxxx (a cura di), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo, Vol. I, Atti dei Seminario di Studi, Roma, 29 maggio 2012, Xxxxxxx, 2013, p. 5.
protagonista di un incessante incremento dei ricorsi in via d’azione, è il sintomo di una
condizione ormai sfociata nella “patologia costituzionale”17.
L’intervento della giustizia costituzionale nel dirimere le controversie tra centro e periferia rappresenta, senza dubbio, un aspetto imprescindibile e comune a tutti gli ordinamenti che, come il nostro, hanno una struttura regionale o federale. Altrettanto vero è che la ripartizione delle attribuzioni legislative tra Stato e Regioni, poiché incide sulla potestà parlamentare, non può essere disciplinata da fonti di rango primario ma richiede una copertura costituzionale tale per cui il sindacato di legittimità spetta necessariamente alla Corte Costituzionale18.
A questo proposito, pare opportuno prendere in prestito la classificazione compiuta dal Presidente Xxxxx e suddividere l’attività della nostra Corte costituzionale in questo ambito in tre grandi periodi19. Il primo, dal 1956 al 1970, ha avuto ad oggetto, per ovvi motivi, solo le cinque Regioni ad autonomia speciale, già operanti dal 1948. In questi 15 anni, le pronunce dei giudici costituzionali nel giudizio in via d’azione sono state in totale 172 (in media 11,4 all’anno). Il periodo seguente inizia con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario e copre gli anni dal 1971 al 2001. In questo lungo lasso di tempo sono 845 le decisioni emesse della Corte in giudizi di questo tipo con una media annua di 15 pronunce fino al 1987 che arriva a 36 a partire dall’anno successivo, quando la Corte si è trovata a dover smaltire i ricorsi arretrati. Il terzo periodo ha inizio nel 2002 a seguito dell’entrata in vigore delle leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001 ed è attualmente in corso. È proprio questa ultima fase della giurisprudenza costituzionale a destare le maggiori preoccupazioni a causa di una conflittualità tra Stato e Regioni che ha fatto registrare cifre straordinarie occupando quote sempre più considerevoli dei ruoli d’udienza.
17 Così E. XXXXXXXXXXXXX, Undici anni dopo: le Regioni, la Corte, la Crisi, in X. XXXXXXXXX (a cura di), La giustizia costituzionale, cit., p. 102. Negli stessi termini si era pronunciato anche l’allora Presidente della Corte costituzionale F. Xxxxxxxx, in occasione della conferenza stampa sulla giurisprudenza del 2009 ha definito “patologico” il persistere di un così elevato numero di ricorsi, in F. AMIRANTE, Relazione del Presidente Amirante sulla giurisprudenza costituzionale del 2009. Incontro con la stampa del 25 febbraio 2010, p.5 in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
00 X. XXXXX, Xx giudice costituzionale e i conflitti tra legislatori locali e centrali, in Le Regioni, 2007, pp. 11-26; relativamente ai primi due periodi si veda anche X. XXXXXXX, Corte costituzionale e Regioni. Sentenze interpretative nel giudizio principale e regionalismo collaborativo, Maggioli editore, 1998, p. 45 e ss.
19 Cfr. Ibidem p.12
Sono molteplici e profonde le ragioni che hanno contribuito al realizzarsi di questo panorama, una su tutte la cattiva stesura della riforma del 2001 che ha generato non pochi problemi e dubbi interpretativi. Per poter vivere e produrre gli effetti sperati in un ordinamento, una riforma costituzionale necessita di interventi successivi da parte del legislatore ordinario; interventi che, nonostante i numerosi rinvii20, in Italia sono di fatto mancati contribuendo ad esasperare il quadro di incertezza generato dalla riforma. A ciò si aggiungano le criticità dovute ad una tecnica redazionale non eccellente e all’inadeguatezza dei criteri di ripartizione delle funzioni tra Stato e Regioni, ulteriormente aggravate dall’insufficienza degli strumenti di raccordo tra centro e periferia21 e dalla “perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e più in generale dei procedimenti legislativi”22. Infine, ha concorso ad esasperare una situazione di crescente litigiosità un fattore più squisitamente politico ovvero quello della contrapposizione tra la maggioranza governativa vincitrice al centro e le maggioranze presenti in molte Regioni23.
La somma di questi elementi non ha potuto non incidere significativamente sulla funzione della nostra Corte Costituzionale che, di fronte all’inesorabile espandersi del contenzioso in via principale, ha finito per trasformarsi da “giudice dei diritti in giudice dei conflitti”, secondo l’ormai celebre espressione del Presidente Onida24. L’assottigliarsi dello scarto numerico tra le pronunce rese in via principale e quelle rese in via incidentale mostra inequivocabilmente come il giudizio in via d’azione rivesta ormai un ruolo centrale nell’attività della Corte. Si avrà modo nel corso nel presente elaborato di analizzare più attentamente i dati relativi alla giurisprudenza costituzionale degli ultimi quindici anni; si può, tuttavia, fin d’ora ricordare annate quali il 2004, il 2010 e il 2012 in cui la
20 Sono numerosi i casi in cui la novella costituzionale si esauriva nel rinvio a futuri atti legislativi come, ad esempio, alla legge chiamata a fissare i principi di coordinamento della finanza pubblica, a quella sul fondo perequativo, alle norme di procedura per la partecipazione delle Regioni alla fase ascendente dei processi comunitari.
21 Così X. XXXXXXXXX in Relazione del Presidente Xxxxxxx Xxxxxxxxx sulla giurisprudenza costituzionale del 2013, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
22 Secondo la nota formula contenuta nella sent. 6/2004 della Corte Costituzionale.
00 X. X. XXXXXXX, Il confronto politico nel giudizio delle leggi in via d’azione, in AA.VV., Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti, X. XXXXXXXXXX, X. DAL CANTO, E. XXXXXXXX, X. XXXXXXX E A. PERTICI, XXXXXXXXXXXX (a cura di), 2010, pp. 65 ss.
24 Così V.ONIDA, Introduzione del Presidente della Corte Costituzionale a la giustizia costituzionale del 2004, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx
trasformazione paventata da Xxxxx sembrava potersi ritenersi realizzata considerando che, in questi anni, le sentenze nel giudizio in via principale hanno superato quelle rese nel giudizio in via incidentale.
La sommarietà con cui è stato delineato il nuovo riparto competenziale e la perseverante inerzia del legislatore statale nell’emanare le necessarie norme di attuazione hanno costretto la Corte ad una “funzione di supplenza non richiesta e non gradita”25 che ha reso i giudici costituzionali gli interpreti quasi esclusivi della riforma, chiamati di fatto a riscrivere il Titolo V26. Investita di centinaia di ricorsi, la Corte ha dovuto elaborare una serie di formule e criteri, spesso innovativi, per rendere operanti le nuove disposizioni costituzionali e in particolare il riparto delineato dal nuovo art. 117 Cost., facendo in questo modo del diritto regionale italiano un diritto in gran parte giurisprudenziale all’interno di un sistema in cui il ricorso alla Corte costituzionale si configura come l’unica alternativa percorribile per la soluzione dei conflitti tra i due livelli di governo27.
1.1. La riforma del Titolo V e il ritorno alla prassi della “contrattazione di legittimità”28
Come efficacemente affermato da Xxxxx Xxxxx, la storia del nostro regionalismo sembra essere dominata da una sorta di “legge del pendolo”29 che lo vede oscillare da una lunga fase di inattuazione, che ha avuto inizio all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, ad ambiziosi interventi riformatori volti a concedere alle Regioni considerevoli spazi di autonomia, per poi assestarsi su nuove misure di riaccentramento dei poteri e delle competenze.
Alla continua ricerca di un’armonia tra i valori dell’unità e della differenziazione, il nostro
sistema ha dovuto più volte misurarsi con l’aperta collisione tra queste due esigenze, da
25 Così G. ZAGREBELSKY, in Conferenza stampa sulla giustizia costituzionale nel 2003, consultabile al sito
26 V. C. XXXXXXX, Politicità e asimmetria nel giudizio in via principale: un binomio in evoluzione?, in I ricorsi in via principale. Atti del seminario svoltosi in Roma al Palazzo della Consulta 19 novembre 20010, Xxxxxxx, 2011, p.70.
27 Così A. XXXXXXX, La pericolosa anomalia della “contrattazione” Stato- Regioni: una storia senza fine…in Xxxxxxxxxxx.xx, n.17/2013.
28 Secondo la fortunata espressione di X. XXXXXX, loc. ult. cit.
29 Così X. XXXXX, Prefazione in X. XXXXX, X. PESOLE (a cura di), Il contenzioso Stato-Regioni nella giurisprudenza
costituzionale e l’avvenire delle Regioni, Jovene, 2015, p. IX
cui sono originate le sempre più pressanti richieste di riforma dell’originario impianto regionalistico concepito dall’Assemblea Costituente, considerato a distanza di anni, da tutte le forze politiche, inadeguato a recepire le istanze di autodeterminazione provenienti dalle Regioni30.
A partire dagli anni ’90, si radicò l’idea che l’unico rimedio alla crisi del nostro sistema territoriale potesse essere rappresentato dall’istituzione di un “regionalismo forte”31 che sfociasse in un ampliamento delle competenze regionali, secondo un modello più schiettamente federale. Il percorso che ha condotto alla realizzazione della riforma non è stato sempre lineare: iniziato con la legge costituzionale n.1/1997, si era presto arenato a causa del venir meno dell’accordo politico tra le forze che lo sostenevano ma, nonostante questa interruzione, non venne mai archiviato. Fecero da apripista all’imminente revisione le c.d. leggi Bassanini (n. 59 e 127 del 1997) e il d.lgs. n.112/1998 che avviarono un processo di riorganizzazione dello Stato in senso autonomista intervenendo sull’allocazione delle funzioni amministrative. Un processo che non poteva considerarsi compiutamente realizzato senza una riforma che lo rendesse coerente alla disciplina costituzionale.
Una tale riforma vide finalmente la luce qualche anno più tardi con l’approvazione della legge cost. n. 3/2001, preceduta a sua volta dalle leggi cost. nn. 1/1999 e 2/2001 che intervenivano in materia di autonomia statutaria e di forma di governo delle Regioni ordinarie e di quelle ad autonomia speciale.
Esula da questo contributo l’esame delle innovazioni introdotte con la revisione costituzionale, peraltro già attentamente analizzate dalla dottrina più autorevole32; basti qui ricordare che questa è stata foriera di una serie di principi fortemente innovativi. Innanzitutto, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, all’articolo 114 Cost. viene sancito il principio di parità formale tra i livelli di governo, superando la precedente concezione gerarchica impostata sulla differenziazione delle competenze attribuite dalla
30 V. A. D’ATENA, Le Regioni dopo il big bang. Il viaggio continua, Xxxxxxx, 2005, pp. 6-7.
31 Così in U. DE SIERVO, Ipotesi di revisione costituzionale. Il cosiddetto regionalismo “forte”, in Le Regioni, 1995, pp.27 ss.
32 Per una ricostruzione delle principali novità introdotte dalla l. cost. n. 3 del 2001 si rimanda, ex plurimis, a A. PISANESCHI, Diritto costituzionale, Xxxxxxxxxxxx, 2014, pp. 391-433 e 643-653; R. XXX, X. XXXXXX, Diritto regionale, Il Mulino, 2012, pp. 67-99; X. XXXXXXXXXX, Letture sul regionalismo italiano, Giappichelli, 2007;
X. XXXXX, X. PESOLE (a cura di), Il contenzioso Stato-Regioni nella giurisprudenza costituzionale e l’avvenire
delle Regioni, cit..
Costituzione. Nella stessa direzione, il nuovo art. 117 Cost. esordisce al primo comma affermando che tanto la legislazione statale quanto quella regionale sono sottoposte ai limiti del rispetto della Costituzione e dei vincoli sovranazionali. Ma soprattutto nei commi successivi lo stesso articolo opera un ribaltamento del criterio di ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, facendo di queste ultime gli enti a competenza residuale generale, in analogia con quanto accade nei sistemi federali. Una rivoluzione, questa, che ha portato all’abbandono della generale presunzione di competenza a favore del legislatore centrale, la cui potestà non costituisce più la regola, bensì l’eccezione.
Ancora, fortemente innovative sono state sia la codificazione del principio di sussidiarietà all’art.118, per cui le funzioni amministrative sono conferite ai Comuni “salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”, che l’introduzione all’art.119 del c.d. federalismo fiscale, peraltro ancora in attesa di essere compiutamente attuato.
Un ripensamento radicale del nostro sistema regionale non poteva non passare per il superamento del ruolo “tutorio” che l’originario impianto costituzionale affidava allo Stato nei confronti delle Regioni33. La previsione di forme di controllo statale sulle Regioni ha rappresentato uno degli elementi più caratteristici del nostro regionalismo: nella Costituzione del’48, infatti, tutti gli atti regionali erano soggetti a controlli dello Stato di legittimità e di merito. L’incidenza della riforma in questo ambito non poteva essere più forte. Essa ha travolto tutto il sistema dei controlli sia con l’eliminazione dell’approvazione statale degli Statuti regionali prevista all’art. 123, che con la soppressione del controllo preventivo di legittimità disciplinato dall’art. 127. La stessa sorte è toccata alla figura del Commissario del Governo e alle norme riguardanti i controlli sugli atti amministrativi delle Regioni.
Nonostante i buoni propositi, le innovazioni introdotte non hanno prodotto gli effetti desiderati a causa, innanzitutto, di una serie di difetti strutturali. Si è già detto della cattiva stesura della riforma che, pur essendo l’esito di un cammino riformatore durato anni, fu redatta e sottoposta all’attenzione del Parlamento in prossimità della scadenza della XIII legislatura, entrando in vigore l’8 novembre 2001, al termine di un procedimento
33 V. A. D’ATENA, op. ult. cit., p.15.
legislativo “frettoloso”34. La nuova maggioranza politica, instaurarsi di lì a poco, inoltre, si è dimostrata poco interessata a portare avanti il progetto riformatore, omettendo di adottare le necessarie misure di attuazione; il primo intervento attuativo vedrà la luce solo due anni più tardi con la legge n.131/2003 (c.d. legge La Loggia).
In un siffatto scenario è stato decisivo, come già ricordato, l’intervento della Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su un numero spropositato di ricorsi provenienti dallo Stato e dalle Regioni. L’entità dell’apporto dei giudici costituzionali è stata tale da far parlare di una “sorta di diritto costituzionale vivente del Titolo V”35, forgiato grazie alle numerose pronunce con cui la Corte ha cercato di ricondurre a razionalità il sistema. Necessaria per il perseguimento di un tal risultato è stata l’elaborazione, talvolta creativa, di una serie di strumenti innovativi idonei al perseguimento di istanze unitarie; basti qui ricordare la chiamata in sussidiarietà, il criterio della prevalenza e le materie trasversali. Esauritosi il lavoro di chiarimento interpretativo della Corte, che ha attentamente ridefinito i confini delle materie, il perdurare oggi di una accesa conflittualità tra Stato e Regioni è imputabile in buona misura alla grave crisi economica che sta attraversando il nostro Paese. La riforma costituzionale del 2012, adottata sulla spinta delle pressioni provenienti dall’Unione europea, ha introdotto i principi dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità del debito, non solo a carico dello Stato ma anche degli enti autonomi. La stragrande maggioranza dei ricorsi che impegnano oggi la Corte hanno ad oggetto la lotta per le risorse economiche che porta spesso lo Stato a misure incisive a scapito dell’autonomia regionale36; interventi che vengono frequentemente legittimati dai giudici costituzionali, facendo oscillare il “pendolo” a favore del potere centrale37. La Corte, infatti, non senza ricorrere a interpretazioni “sempre più acrobatiche e creative”38, ha cercato di arginare i problemi di costituzionalità posti dalla miriade di misure finanziarie
34 X. XXXXXXXX, I rapporti Stato-Regioni nel nuovo titolo V, alla luce dell’interpretazione della Corte
Costituzionale, Xxxxxxx, 2007, p. XVII.
35 Ivi, pp. 12 ss.
36 A tal proposito si veda E. XXXXX, La giurisprudenza della Corte costituzionale nel giudizio in via principale nel triennio 2011-2013: profili statistici e tendenze più rilevanti, in Consulta Online, 2014, p.4-5.
37 Ad esempio, per l’anno 2014, il Presidente Xxxxxxxxx ha sottolineato come molte decisioni quell’anno abbiano dichiarato la conformità a Costituzione di interventi legislativi dello Stato in tema di autonomia finanziaria delle Regioni in A. XXXXXXXXX, Relazione del Presidente sulla giurisprudenza costituzionale del 2014, p.10 in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
38 Così X. X. XXXXXX, I tipi di potestà legislativa e la clausola di supremazia, in Il contenzioso Stato-Regioni
nella giurisprudenza costituzionale e l’avvenire delle Regioni, cit., p. 7.
adottate dallo Stato sulla spinta dell’emergenza economica e delle pressioni derivanti dai vincoli europei, leggendo in senso restrittivo molte delle potestà legislative regionali (in particolar modo quella c.d. residuale).
Conclusivamente sul punto, molte e complesse rimangono le problematicità e le zone d’ombra connesse alla riforma del 2001 in attesa di un’effettiva soluzione; altrettanto numerose sono le istanze di un ripensamento della nostra forma di Stato regionale che consenta di raggiungere uno stabile equilibrio tra le ragioni dell’autonomia e quelle della differenziazione. A tal proposito occorre ricordare che in questi quindici anni non sono mancati i tentativi di giungere ad una “riforma della riforma”, sull’ultimo dei quali ci si soffermerà nel corso della trattazione39.
Formulate queste necessarie premesse sullo stato attuale del nostro regionalismo, si vuole ora intraprendere l’analisi di un aspetto forse minoritario, sicuramente poco indagato, ma particolarmente controverso generatosi all’indomani della riforma del 2001; un fenomeno che il legislatore di revisione si proponeva di superare e che invece è tornato ad occupare oggi quote consistenti del giudizio in via d’azione ovvero quello della “contrattazione legislativa” tra Stato e Regioni, oggetto privilegiato della presente trattazione. Non si può sottovalutare, infatti, che la mole considerevole di ricorsi che ogni anno investono la Corte Costituzionale ha origine in parte anche dalla soppressione del controllo preventivo di legittimità costituzionale delle leggi regionali disciplinato dall’originario art.127 Cost.. Venuto meno il filtro rappresentato dal c.d. rinvio governativo con richiesta di riesame, una porzione considerevole dei ricorsi statali è diretta oggi ad ottenere dalla parte resistente una modifica della normativa impugnata. Il giudizio in via principale non rappresenta più, dunque, soltanto la sede di uno scontro diretto tra le parti in cui una ambisce a prevalere sull’altra, ma appare spesso uno strumento di pressione nelle mani del ricorrente (in prevalenza lo Stato) affinché la resistente apporti alla normativa contestata le “correzioni” dallo stesso indicate.
Prima di procedere con l’esame dei caratteri di fondo della prassi qui in esame e delle sue importanti ricadute all’interno del nostro sistema, occorre svolgere un’indagine sull’evoluzione dell’art. 127 Cost. al fine di ripercorrerne le tappe più significative alla ricerca del suo significato nel complesso del precedente dettato costituzionale.
39 Infra capitolo 4.
Risulterebbe infatti arduo comprendere la prassi che ci si propone di analizzare senza prima collocarla nella storia del nostro regionalismo, non potendosi sottovalutare il fatto che le connotazioni assunte nel tempo dall’art. 127 riproducono un’immagine fedele di come sono andati contemporaneamente delineandosi i rapporti tra Stato e Regioni all’interno del nostro ordinamento. Infatti, il riconoscimento o meno al potere statale della facoltà di bloccare l’entrata in vigore delle leggi regionali, in attesa di un verdetto sulla loro costituzionalità, e di conseguenza la capacità o meno delle Regioni di approvare leggi di immediata vigenza, condiziona in modo rilevante l’assetto dei rapporti territoriali. Si ricorda per inciso che tra i fattori che hanno portato nel 1776 alla Dichiarazione di indipendenza americana rientrava il divieto del Re britannico a che i suoi Governatori approvassero leggi “di immediata e urgente importanza, a meno che non fossero sospese nella loro operatività fino all’ottenimento del suo assenso” e “una volta sospese in tal modo, ha poi trascurato di occuparsene40”.
1.2. L’art. 127 della Costituzione secondo l’originario impianto costituzionale: la ratio
del controllo sulle leggi regionali e la diffidenza nei confronti della legislazione regionale
Secondo la visione dei Padri Costituenti, la scelta di riconoscere alle future Regioni italiane un’effettiva potestà legislativa necessitava di essere controbilanciata dalla previsione di un potere statale di controllo sulla legislazione regionale41. Il primo progetto di Costituzione, il c.d. progetto Ambrosini, subì da parte dell’Assemblea costituente una serie di correzioni in tal senso, dettate dalla preoccupazione che l’esercizio del potere
40 Così X. XXXXXX, L’asimmetria nel giudizio in via principale. La posizione dello Stato e delle Regioni davanti alla Corte costituzionale, Cedam, 2005, p.321.
41E. XXXXXXXX ricorda come il potere statale di controllo della legislazione regionale fu proposto, nell’ambito del Comitato di redazione per l’autonomia regionale istituito nell’ambito della seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, come immediatamente correlato all’attribuzione alle Regioni della funzione legislativa, in Commento all’art. 127 Cost., X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet Giuridica, 2006, p. 2505. Furono significative le parole con cui l’xx. Xxxxxxxxx concluse la propria relazione alla II Sottocommissione, con cui egli rilevò come “tutti hanno sentito la costante preoccupazione di risolvere il problema regionale non dal punto di vista particolaristico dell’interesse della Regione, ma in funzione dell’interesse generale dello Stato”; cfr. Atti Ass. cost., VII, 1303 in E. ROSSI, La legge controllata. Contributo allo studio del procedimento di controllo preventivo delle leggi regionali, Università degli Studi di Trento, 1993, p.21 nota 7.
legislativo regionale, qualora non tempestivamente sorvegliato, potesse compromettere
il valore primario dell’unità e indivisibilità dell’ordinamento42.
Il testo definitivo dell’art. 127 Cost. delineava pertanto un procedimento legislativo regionale sottoposto ad un doppio intervento governativo da esercitarsi necessariamente prima dell’entrata in vigore della legge regionale. A questo proposito è significativo che durante il dibattito costituente il Presidente Xxxxxxxxx, in un lapsus, aveva parlato di un “diritto di veto” del Governo salvo poi correggersi e giustificarne l’utilizzo soltanto per esigenze di semplificazione e scongiurandone pertanto l’inserimento esplicito in Costituzione43.
L’Assemblea Costituente disciplinò un procedimento legislativo regionale alquanto “farraginoso”44 che si declinava in diverse fasi. In primis, la delibera, una volta approvata dal Consiglio (allora Assemblea) regionale, doveva essere trasmessa al Commissario del Governo presso la Regione che nel termine di trenta giorni avrebbe dovuto vistarla oppure rinviarla al Consiglio, per chiedere una nuova deliberazione, nel caso in cui il Governo avesse riscontrato nel testo vizi di incompetenza o di lesione dell’interesse nazionale. Il rinvio comportava la perdita dell’effetto costitutivo dell’approvazione originaria e il ritorno alla fase legislativa precedente nel corso della quale la discussione avrebbe dovuto limitarsi alle parti investite dal rinvio e si sarebbe dovuta concludere o con l’accoglimento totale o parziale dei motivi del rinvio, oppure con la riapprovazione della legge a maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio. Solo in quest’ultimo caso, il Governo avrebbe potuto nei quindici giorni successivi impugnare la delibera legislativa davanti alla Corte Costituzionale per ragioni di legittimità o davanti al Parlamento per contrasto con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni 45.
42 Cfr. A. XXXXXXX, X. XXXXXXX, Lineamenti di giustizia costituzionale, Xxxxxxxxxxxx, 2001, p. 305
43 Cfr. Il resoconto sommario dell’attività svolta nella seduta del 30 novembre 1946 della Seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, disponibile all’indirizzo xxx.xxxxxxxxxxx.xxxxxx.xx v. in particolare p. 8.
44 S. CALZOLAIO, La delibera governativa di impugnazione delle leggi regionali nella prassi, in A. XXXXXXX, X.X. XXXXXXXX (a cura di), Le prassi degli organi costituzionali, Il Mulino, 2008, pp. 313.
45 Si riporta qui l’originario testo dell’art. 127 Cost: “Ogni legge approvata dal Consiglio regionale è comunicata al Commissario che, salvo il caso di opposizione da parte del Governo, deve vistarla nel termine di trenta giorni dalla comunicazione. La legge è promulgata nei dieci giorni dall'apposizione del visto ed entra in vigore non prima di quindici giorni dalla sua pubblicazione. Se una legge è dichiarata urgente dal Consiglio regionale, e il Governo della Repubblica lo consente, la promulgazione e l'entrata in vigore non sono subordinate ai termini indicati. Il Governo della Repubblica, quando ritenga che una legge approvata dal Consiglio regionale ecceda la competenza della Regione o contrasti con gli interessi nazionali o con
Ai fini del perfezionamento del procedimento legislativo regionale, non era necessaria l’effettiva apposizione del visto commissariale, essendo sufficiente, per poter validamente promulgare la delibera regionale, il decorso del termine di trenta giorni dall’invio della stessa al Commissario, alla scadenza del quale il “visto si [aveva] per apposto”46.
L’indagine prima facie sulla legittimità e sul merito delle delibere consiliari spettava in ogni caso al Governo e non al Commissario, relegato, soprattutto in via di prassi, ad un ruolo sostanzialmente notarile, di mera trasmissione degli atti all’Esecutivo47.
Una delle questioni che la lettera della Costituzione lasciava aperte a molteplici interpretazioni era quella volta ad individuare a chi spettasse il potere di rinvio tra i componenti dell’organo governativo, atteso che l’art. 127 Cost. faceva riferimento al Governo senza specificazioni ulteriori. Si trattava pertanto di precisare se la legittimazione ad operare il controllo in questione dovesse essere riconosciuta al Consiglio dei Ministri o anche soltanto al Presidente del Consiglio. Il dibattito dottrinale, avallato dall’orientamento della Corte costituzionale, è stato pressoché costante nel ritenere necessaria una delibera dell’organo collegiale ai fini di un valido compimento dell’atto di rinvio. Muovevano in questa direzione una serie di fattori: primo su tutti, la legge n. 87/1953 sulla costituzione e sul funzionamento della Corte che prevedeva una deliberazione del Consiglio nell’ipotesi analoga dell’impugnazione delle delibere regionali; in secondo luogo, l’atto di rinvio presupponeva una serie di valutazioni di carattere politico che si riflettevano sulla natura stessa del medesimo e che, di conseguenza, necessitavano di essere prese all’interno dell’organo collegiale48.
Soltanto in un caso, con la sent. 147/1972, la Corte ammise la proposizione del ricorso soltanto da parte del Presidente del Consiglio al manifestarsi di non meglio specificate
quelli di altre Regioni, la rinvia al Consiglio regionale nel termine fissato per l'apposizione del visto. Ove il Consiglio regionale l'approvi di nuovo a maggioranza assoluta dei suoi componenti, il Governo della Repubblica può, nei quindici giorni dalla comunicazione, promuovere la questione di legittimità davanti alla Corte costituzionale, o quella di merito per contrasto di interessi davanti alle Camere. In caso di dubbio, la Corte decide di chi sia la competenza”.
46 Cfr. art.13 della legge Scelba in L. PALADIN, Diritto regionale, Cedam, 1992, nota 13, p. 423.
47 Così F. DAL CANTO, Il controllo sulle leggi regionali secondo la prassi introdotta dal Governo Prodi, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Xxxxxxxxxxxxx, 1998, p. 454; E. XXXXX, Aspetti organizzativi e funzionali del controllo sulle leggi regionali, in AA. VV., Il controllo governativo delle leggi regionali, (Atti del Seminario di Bologna 26 settembre 1979), Xxxxxxx, 1980, p. 31.
48 L. PALADIN, loc. ult. cit.
“ragioni eccezionali”49 e a condizione che il Consiglio provvedesse alla ratifica di tale comportamento. La decisione, severamente criticata, si basava sulla configurazione del procedimento di controllo governativo della legge regionale come un procedimento essenzialmente unitario, in cui già con l’atto di rinvio il Governo, prendendo posizione sui vizi della delibera regionale, si “impegnava” anche in vista della fase eventuale e successiva del ricorso alla Corte avverso la delibera riapprovata50. Nonostante le numerose obiezioni mosse dalla dottrina ad un tale argomento51 per aver negato le connaturate differenze di effetti e scopi tra rinvio e ricorso, la configurazione unitaria del procedimento di controllo ha avuto il pregio di stabilire definitivamente il legame tra motivi del rinvio e motivi del ricorso, consentendo in questo modo alla Regione di conoscere anticipatamente i profili di incostituzionalità che avrebbero potuto fondare un eventuale successivo ricorso alla Corte.
In particolare, in quell’occasione la Corte costituzionale ha specificato che l’atto di rinvio avrebbe dovuto tracciare i binari entro i quali l’eventuale ricorso governativo avrebbe potuto successivamente muoversi; da ciò derivava non solo l’impossibilità da parte del Governo di far valere in sede di impugnativa vizi non rilevati nell’atto di rinvio, ma anche la facoltà della Corte di integrare il contenuto dell’atto di ricorso qualora in esso mancassero alcuni dei rilievi precedentemente mossi con l’atto di rinvio.
Era pertanto evidente che lo strettissimo legame tra motivi del rinvio e motivi del ricorso, unitamente alla possibilità riconosciuta, seppur in casi eccezionali, al Presidente del Consiglio di impugnare autonomamente la legislazione regionale, concorressero a sminuire il valore della delibera di proposizione del ricorso il cui ruolo, a differenza di quanto accade oggi, risultava sostanzialmente secondario52.
49 Cfr. in dottrina L. PALADIN, Note sul rinvio delle leggi regionali, in Giur. cost., 1975, p. 75; in giurisprudenza cfr. ad esempio le sentenze 119/1966 e 8/1967 Corte cost..
50 Cfr. X. XXXXXX, Genericità del rinvio, indeterminatezza della delibera a ricorrere, inammissibilità
dell’impugnativa statale contro la legge regionale, in Le Regioni, 1997, p. 1144.
51 V. ONIDA, Caratteri del procedimento di controllo sulle leggi regionali, in Giur. cost., vol. II, 1972, pp. 1504 ss.; X. XXXXXX, Competenze costituzionali del Governo e impugnativa delle leggi regionali, in Giur. cost., vol. II, 1972, pp. 150 ss..
00 X. X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 317; X. XXXXXX, loc. ult. cit..
1.2.1. segue….Una “vistosa asimmetria”53
Il ricorso statale aveva l’effetto di sospendere l’entrata in vigore della legge regionale fino alla pronuncia dell’organo giudicante: diversamente quindi da tutti gli altri giudizi di legittimità costituzionale, che avevano ad oggetto leggi già promulgate e pubblicate, il giudizio in questione godeva di una natura del tutto peculiare configurandosi come fase soltanto eventuale del procedimento legislativo regionale, collocata dopo l’approvazione della proposta di legge da parte dell’Assemblea ma necessariamente prima della promulgazione da parte del Presidente della Regione54.
Sull’opposto versante dei ricorsi regionali contro le leggi statali, la Costituzione non conteneva alcun riferimento alla possibilità per le Regioni di impugnare la legislazione statale avendo i Costituenti preferito rimandare ad altra sede il dibattito sul diritto di impugnativa regionale55. Tale potere finì per essere disciplinato dall’art. 2 della legge costituzionale n. 1/1948 in combinato disposto con l’art. 32 della l. cost. n. 87/1953 soltanto come potere successivo all’entrata in vigore della legge statale, da esercitarsi nel termine ristretto di trenta giorni dalla pubblicazione della stessa.
Il quadro che emergeva era quindi quello di una profonda disparità tra i due enti; una disparità che si manifestava in particolare sugli effetti prodotti dai due tipi di impugnazione. Infatti, mentre agli atti di opposizione statale era riconosciuto un effetto sospensivo in ordine all’entrata in vigore della legge regionale, nessun effetto simile poteva riscontrarsi a proposito dei ricorsi regionali contro la legislazione nazionale che, come si è detto, potevano realizzarsi solo in via successiva.
Infine, concorreva ad accentuare la “vistosa asimmetria” tra i due enti la restrizione dei vizi d’impugnativa rilevabili dalla Regione56. Secondo l’art. 2 l. cost. 1/1948, questa poteva
53 Così V. ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti tra Stato e Regione: profili processuali, in Le Regioni, 1986, p.991.
54 X. XXXXXXXX sottolinea come non fosse terminologicamente corretto classificare questo procedimento come “impugnazione di legge”, dal momento che l’impugnazione per definizione ha ad oggetto un atto già perfetto che si vuole venga rimosso dall’ordinamento, cfr. X. XXXXXXXX, Il controllo preventivo di legittimità costituzionale nel disegno costituzionale e nella sua attuazione pratica, in Giur. Cost., 1982, p.797.
55 A questo proposito si rimanda a X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Commentario alla Costituzione, Utet Giuridica, 2006, pp. 2505-2506.
56 Così recitava l’art. 2 comma 1 della l. cost. n.1 del 1948: “Quando una Regione ritenga che una legge od atto avente forza di legge della Repubblica invada la sfera della competenza ad essa assegnata dalla Costituzione può, con deliberazione della Giunta regionale, promuovere l'azione di legittimità
impugnare una legge o un atto avente forza di legge dello Stato (o di un’altra Regione) quando riteneva che invadesse la sfera di competenza assegnatale dalla Costituzione; un ricorso, dunque, diretto alla tutela del proprio patrimonio di attribuzioni legislative.
Diversamente, il Governo, poteva ricorrere alla Corte non soltanto in difesa dei propri ambiti di competenza, ma anche al fine di verificare la conformità del disegno di legge regionale alle norme della Costituzione; anche a norme diverse da quelle che regolavano la ripartizione delle competenze. Da sempre, infatti, l’“eccesso di competenza” cui faceva riferimento il comma 3 dell’art. 127 Cost. come motivo di impugnazione della delibera regionale era stato inteso dalla giurisprudenza costituzionale57 e dalla dottrina nella sua accezione più ampia di violazione dei limiti imposti all’azione della Regione, per cui oltrepassare tali limiti avrebbe comportato in ogni caso un’infrazione dell’ordinamento statale58. Il controllo governativo preventivo non era stato concepito, infatti, soltanto come strumento di azione dello Stato a tutela delle proprie competenze, ma, secondo una finalità più ampia, era inteso a garantire la legalità complessiva dell’ordinamento e il rispetto delle norme costituzionali in esso previste.
L’intervento del Governo nel procedimento legislativo regionale, sia nella forma del rinvio della delibera al Consiglio, sia nella forma del ricorso alla Corte costituzionale, rivestiva comunque maggiormente i caratteri del procedimento di controllo piuttosto che dell’istituto di garanzia costituzionale59. A sostegno di questa particolare concezione, la scelta del Costituente di non collocare la disciplina dei ricorsi statali in xxx xxxxxxxxxx xxx xx xxxxxxxxxxxx xx xxxxxx xx xxxxxxxx costituzionale riconosciute alla Corte dall’art. 134
costituzionale davanti alla Corte nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione della legge o dell'atto avente forza di legge.”
57 Si vedano in particolare le sentenze nn. 11, 30, 47 e 50 del 1959.
58 In G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Il Mulino, 1988, p. 237; così anche V. ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti tra Stato e Regione: profili processuali, in Le Regioni, 1986, p.992. In particolare, la Corte costituzionale, con la sent. n. 30 del 1959 aveva affermato che “per competenza legislativa attribuita alla regione deve intendersi la sfera entro la quale la stessa può legiferare, sfera che trova i suoi limiti nelle stesse norme costituzionali attributive della potestà”, con la conseguenza che lo Stato avrebbe potuto denunciare qualsiasi contrasto con la Costituzione; così in L. PALADIN, Diritto costituzionale, Cedam, 1998, p. 743.
59 Cfr. X. XXXXXXXX, Il controllo preventivo di legittimità delle leggi regionali nel disegno costituzionale, cit., p. 796 ss.. Nella stessa direzione anche X. XXXXXXXXXX secondo cui “il ricorso dello Stato nei confronti delle leggi regionali [aveva] carattere preventivo per la circostanza…che lo Stato si trova, come ente sovrano, in una posizione di superiorità rispetto alle Regioni, enti “derivati”; di conseguenza, secondo l’A. l’impugnativa del Governo presentava “la natura di un atto di controllo,…, l’estrinsecazione di un potere di vigilanza che lo Stato [esercitava] sugli enti subordinati”, in Corte costituzionale, Enciclopedia dei diritto, Xxxxxxx, 1972.
Cost.. La sede prescelta per la disciplina dei ricorsi in esame fu invece il Titolo V, relativo alle Regioni, Province e Comuni, e precisamente, come si è visto, l’art. 127 Cost. che regolava le diverse fasi del procedimento legislativo regionale tra cui si inseriva appunto l’eventuale controllo statale. Si consideri, inoltre, che l’iniziativa statale nei confronti delle leggi regionali costituiva l’unico caso di iniziativa davanti alla Consulta ad essere direttamente regolata in Costituzione, essendo, invece, la disciplina delle altre vie d’accesso demandata ad una successiva legge costituzionale (la l. cost. n. 1/1948)60.
L’introduzione del controllo di costituzionalità all’interno del processo legislativo regionale rappresentava uno dei tratti più emblematici della posizione di subalternità in cui versavano le Regioni, la cui libertà politica avrebbe potuto di fatto essere condizionata “dall’interno” dagli interventi del Commissario di Governo, del Governo e della Corte Costituzionale61. Alla stessa stregua, la decisione di inserire direttamente in Costituzione la disciplina dell’impugnativa statale derivava dalla necessità di fissare, “senza rinvii e lacune”62, nell’ambito dei rapporti tra Stato e Regioni, gli strumenti per la tutela contro i rischi “allora temuti ( e oggi potremmo precisare: sopravvalutati)”63 per l’integrità dell’ordinamento, paventati a seguito dell’introduzione di un regime di pluralismo legislativo.
Quando decisero di stabilire una forma di controllo governativo sulle leggi regionali, i Padri costituenti quasi certamente non avevano pensato alle criticità e ai problemi che il sistema delineato all’art. 127 avrebbe prodotto in sede di applicazione; difficoltà che hanno concorso a definire in modo del tutto singolare il quadro dei rapporti tra centro e periferia, facendo spesso perdere di vista quale fosse la ratio che avrebbe dovuto sorreggere l’istituto.
60 Ivi, p. 798.
61 La posizione di inferiorità in cui versavano le Regioni a causa del carattere preventivo del ricorso di legittimità è stata autorevolmente evidenziata dalla dottrina più sensibile; ex plurimis G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit. p. 237 e ss.; X. XXXXXXXX, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Xxxxxxx, 1979, p. 406; E. XXXXX, Le parti necessarie del giudizio in via principale, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Xxxxxxxxxxxx, 1998, p. 209; X. XXXXXX, Xxxxx riapprovazione a maggioranza semplice della legge regionale rinviata, in Le Regioni, 1990, p. 959.
62 G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., p. 235.
63 Ibidem
1.3. La ratio del doppio regime di controllo governativo sulle leggi regionali
Il panorama degli orientamenti dottrinali volti ad individuare la ratio giustificatrice del modello originariamente delineato dall’art. 127 Cost. si presentava, prevedibilmente, diviso tra chi sottolineava la bontà del meccanismo del “controllo mediante richiesta di riesame”64 e chi non poteva fare a meno di evidenziarne l’intima contraddizione con il testo costituzionale65.
Sul primo versante si collocava quella parte della dottrina convinta che il potere di opposizione statale fosse necessario per garantire la tutela della superiore istanza di legalità, eletta a misura dell’interesse complessivo dell’ordinamento. Costoro riconoscevano nel potere governativo uno strumento preposto “a garanzia di un armonico e (benché articolato) sostanzialmente unitario sviluppo dell’ordinamento giuridico”66 e dunque coerente e funzionale all’ordinato sviluppo di una forma di Stato regionale; allo stesso modo, essi ravvisavano nel controllo governativo un “mero controllo di legalità sulle leggi regionali”67, teso a prevenire le illegittimità costituzionali in cui avrebbero potuto incorrere le normative regionali.
Secondo questo orientamento, dunque, l’intromissione del Governo nel processo legislativo regionale non avrebbe avuto altra funzione se non quella di garantire la certezza del diritto, ed era pertanto paragonabile all’intervento del Presidente della Repubblica nella fase di promulgazione delle leggi statali68.
Concorreva a giustificare la razionalità dell’istituto in esame e la sua conformità ad una forma di Stato regionale anche quella parte della dottrina che vedeva nel controllo preventivo governativo il tentativo dei Costituenti di realizzare un modello di
64 La paternità di questa espressione risale a X. XXXXXXXXX, Il controllo mediante richiesta di riesame, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, p. 376
65 Ai fini della ricostruzione in esame ci si avvale della sintesi attentamente compiuta da E. ROSSI, La legge controllata. Contributo allo studio del procedimento di controllo preventivo delle leggi regionali, Università degli Studi di Trento, 1993, p. 15 ss.
66 X. XXXXXX, L’opposizione governativa alle leggi regionali nel 1977, in Le Regioni, 1978, p. 913.
67 Così, tra i molti, A. BARDUSCO, Lo Stato regionale, Xxxxxxx, 1980, p.226 e X. XXXXXXX, Xxxxxxxxx politico e imparzialità nel controllo delle leggi regionali in AA. VV., Il controllo governativo delle leggi regionali. Atti del seminario di Bologna, 26 settembre 1979, Xxxxxxx, 1982, p.18.
68 Così secondo G. PASTORI, L’esperienza dei rinvii delle Regioni a statuto ordinario, in Le Regioni, 1986, p. 781; analogamente X. XXXXXXXXXX, Controllo preventivo e controllo successivo sulle leggi regionali siciliane, in Riv. trim. dir. pubb., 1956, p. 670.
regionalismo concurrent e non dual69, in cui Stato e Regioni avrebbero dovuto cooperare, seppur attraverso un meccanismo di tipo verticale, per il raggiungimento di finalità condivise di interesse primario.
In contrasto con le tesi fin qui riportate si ponevano le ricostruzioni che muovevano dal presupposto per cui l’istituto in esame, da qualsiasi parte lo si esaminasse, non rappresentasse altro che la principale manifestazione della posizione di inferiorità riconosciuta alle Regioni dal Legislatore costituente. L’attribuzione del potere legislativo a soggetti esterni rispetto allo Stato-persona rappresentava una novità assoluta per l’ordinamento italiano: la scelta di sottoporre la legislazione regionale ad un doppio intervento preventivo governativo originava dunque dalla diffidenza dei Costituenti verso la creazione delle Regioni i cui legislatori dovevano essere tenuti “sotto tutela” dal potere statale70; da qui l’intervento della Corte nei rapporti tra Stato e Regioni pareva giustificabile più con la necessità di “contenere” queste ultime, che non con l’esigenza di garantirle. Dall’esame dei lavori preparatori71 emerge infatti che la scelta di attribuire carattere preventivo al giudizio promosso dallo Stato nasceva dal timore che i nuovi enti da “autonomi” si ergessero a “sovrani”72: permettere l’entrata in vigore della legge regionale prima che sulla sua legittimità si fosse pronunciata positivamente la Corte costituzionale avrebbe significato riconoscere alla Regione una posizione di parità rispetto al potere statale. Tuttavia, l’idea di Stato regionale prevista dai Costituenti, e delineata dall’originario Titolo V, non contemplava un rapporto di parità tra Stato e Regioni ma piuttosto si basava sulla netta supremazia del primo sulle seconde, per cui non era ammissibile che una legge regionale potesse entrare in vigore prima che sulla sua legittimità si fossero pronunciati gli organi di garanzia statale.
Il carattere preventivo del ricorso, e l’effetto sospensivo che ne derivava, non doveva intendersi, pertanto, come un “corollario” del rinvio, una naturale conseguenza del potere statale di opporsi alla legge regionale; esso, piuttosto, costituiva, secondo questo orientamento, un “autonomo fattore penalizzante” per l’autonomia regionale, “che si è
69 Così E. XXXXX, La legge controllata, cit., p.28.
70 Così in A. PERTICI, Il giudizio in via d’azione, in Dig. disc. pubbl., Aggiornamento, Giappichelli, 2012, p.410. 71 Per i lavori preparatori in tema di articolo 127 si rimanda a X. XXXXX, Art. 137, III, in X. XXXXXX (a cura di) Commentario alla Costituzione, Zanichelli, 312 ss.
72 Cfr. X. XXXXXX, L’asimmetria nel giudizio in via principale. La posizione dello Stato e delle Regioni davanti
alla Corte costituzionale, Cedam, 2005, p.116.
ritenuto introdurre ma che poteva mancare”73. A fondamento di tale introduzione si poneva la “differente funzione del giudizio in via principale nei due casi: giudizio sulla costituzionalità della legge nel ricorso statale, giudizio sul conflitto legislativo nel ricorso regionale”74; una diversa funzione che si era tradotta, come si è detto, anche in una diversa ampiezza dei motivi deducibili.
A questo proposito, si vuole tuttavia precisare che dalla possibilità che il giudizio in via principale rivesta funzioni differenti a seconda che venga attivato dallo Stato o dalle Regioni non possono automaticamente dedursi conclusioni circa il carattere preventivo o successivo del ricorso; a conferma di ciò si vedrà come la riforma del 2001 abbia attribuito carattere successivo al ricorso statale lasciando sostanzialmente inalterato il diverso regime dei vizi deducibili.
Secondo i Costituenti, dunque, la legislazione regionale avrebbe dovuto rappresentare il prodotto di enti autonomi ma non sovrani, giacché la sovranità era da considerarsi prerogativa unicamente degli ordinamenti originari75. Senonché, la sottoposizione dell’attività legislativa regionale ad un doppio controllo governativo non solo non poteva riguardare enti sovrani ma mal si conciliava anche con la rappresentazione delle Regioni come enti politicamente autonomi. Difatti, affinché l’autonomia sia effettiva è indispensabile che gli enti che di essa sono dotati possano soddisfare le istanze della comunità di cui sono espressione elaborando un indirizzo politico all’occorrenza autonomo da quello del potere centrale. Di conseguenza, un intervento dello Stato così penetrante come quello delineato dall’art. 127 Cost. appariva poco coerente con la scelta di riconoscere alle Regioni una propria autonomia politica.
Tale incoerenza avrebbe manifestato tutta la sua problematicità quando dalla carta si sarebbe trasposta nella realtà: la prassi applicativa dell’istituto in esame ha dato vita, infatti, per molti anni ad una “netta ed ingiustificata riduzione di autonomia”76 regionale, portando inevitabilmente alla luce la contraddizione insita in un sistema che, se da un
73 Ivi, p. 115
74 Tra molti, E. XXXXX, Le parti necessarie, cit. 211.
75 Cfr. E. XXXXX, La sovranità, la funzione di governo, l’indirizzo politico, in X. XXXXX, X. BARBERA ( a cura di),
Manuale di diritto pubblico, Il Mulino, 1991, p. 298.
76 Così X. XXXXXXXXXX, Le Regioni fra il potere centrale e il potere locale, in E. XXXXX, La legge controllata, cit., p.31.
lato attribuiva alle Regioni una potestà legislativa, dall’altro la sottoponeva a forme di
controllo ben più penetranti di quelle delle fonti statali di pari grado77.
In conclusione, il modello delineato dalla Costituzione del ’48 e dalle sue principali leggi di attuazione rifletteva una concezione gerarchica e non paritaria del rapporto tra Stato e Regioni in cui il giudizio in via principale, come si vedrà, era destinato ad avere il proprio momento conclusivo e risolutivo, ancor prima che in una pronuncia della Corte, nella disparità di armi tra chi promuoveva il ricorso e chi ne era destinatario78.
1.4. La doppia natura del ricorso governativo: controllo- verifica o controllo-indirizzo?
La difficile ricerca della ratio del peculiare regime di controllo governativo portava necessariamente a cercare una risposta ad alcuni degli interrogativi che il modello delineato all’art. 127 Cost. lasciava senza soluzione. Il primo, e certamente più importante, verteva sulla doppia anima del controllo governativo, da sempre in bilico tra atto di natura tecnica e atto di natura politica; interrogativo che ora si analizzerà dal punto di vista prettamente teorico ma che ha trovato una risposta concreta soltanto nell’effettivo svolgersi dell’esperienza istituzionale.
Le tesi a sostegno della natura politica dell’istituto muovevano dalla comune premessa per cui la Costituzione affidava il controllo sulle leggi regionali all’organo politico per eccellenza, il Governo che, in quanto tale, non avrebbe potuto svolgere questa funzione senza lasciarsi condizionare dall’indirizzo politico delineato a livello centrale. Secondo questa impostazione, il controllo statale sulla legislazione regionale avrebbe permesso di risolvere ogni potenziale contrasto tra l’indirizzo politico regionale e l’indirizzo politico statale attraverso l’affermazione del secondo sul primo. Inoltre, il Governo, tenuto a rispondere delle proprie decisioni soltanto al Parlamento, avrebbe potuto esercitare o meno il suo potere di opposizione sulla base di valutazioni prettamente discrezionali di carattere schiettamente politico prima ancora che giuridico. Dunque, tale organo non avrebbe potuto, per la natura e per le funzioni ad esso riconosciute dalla Costituzione,
77 E. XXXXX, op. ult. cit., p.33.
78 Cfr. G. PASTORI, L’esperienza dei rinvii nelle Regioni a statuto ordinario, in Le Regioni, 1986, p.775.
operare nell’ambito del controllo sulle delibere regionali alla stregua di un arbitro neutrale, essendo stato invece configurato come parte di un contraddittorio che avrebbe potuto ricercare solo dinanzi alla Corte costituzionale, “essa sì istituzionalmente neutrale e chiaramente preposta all’esercizio di funzioni non politiche”79, la garanzia di una soluzione imparziale80.
Infine, la circostanza che il controllo governativo avesse ad oggetto atti prettamente politici, ovvero atti legislativi, rendeva difficile, secondo questa parte della dottrina, credere che l’attività svolta dal Governo non partecipasse degli stessi caratteri dell’oggetto del controllo. Di conseguenza, il Governo, avrebbe potuto liberamente dar vita con le Regioni a transazioni sugli aspetti più spinosi della competenza legislativa, a seconda degli obiettivi che, di volta in volta, avesse ritenuto più opportuno perseguire81. Sul versante opposto, i teorici della neutralità (o più correttamente della “non- politicità”)82 dell’istituto in esame evidenziavano come il potere di controllo del Governo si sarebbe dovuto esercitare soltanto nell’ambito dei parametri giuridici fissati in Costituzione83, escludendo così la possibilità di intromissioni nella sfera regionale dettate dalla sola convenienza politica. In questa ricostruzione il Governo appariva innanzitutto nella sua dimensione di organo preposto alla cura degli interessi generali della Nazione, certamente espressione di una maggioranza politica ma al contempo responsabile dell’integrità dell’ordinamento. Di conseguenza, l’istituto del controllo sulle leggi regionali avrebbe rivestito i caratteri di funzione imparziale diretta alla tutela del complessivo sistema delle autonomie “del tipo assimilabile a quella spettante a un pubblico ministero o a un procuratore pubblico”84.
79 X. XXXXXXX, Xxxxxxxxx politico e imparzialità nel controllo delle leggi regionali, in AA. VV., Il controllo governativo sulle leggi regionali, (Atti del Seminario di Bologna 26 settembre 1979), Xxxxxxx, 1982, p.7.
80 Così E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali. Profili procedimentali, Xxxxxxx, 1994, p.87.
81 Così X. XXXXXXX, ult. op. cit., p.7.
82 Così E. XXXXX, La legge controllata, cit., p.35.
83 E. XXXXX, Il rinvio delle leggi regionali: l’art. 127 della Costituzione, in AA. VV., Il controllo dello Stato sulle Regioni, Atti del Convegno C.I.D.I.S. (Centro Internazionale di Studi Giuridici), Jesolo, 29-31 maggio 1986, Cedam, 1987, p. 127.
84 Così G. PASTORI, L’esperienza dei rinvii nelle Regioni a statuto ordinario, in Le Regioni, 1986, p.774, il quale, poco dopo rileva come “Per contro, i dati dell’esperienza via via emergenti hanno contribuito ad avallare un’opposta prospettazione”.
In un ordinamento in cui le aree di competenza riconosciute alle Regioni e i limiti alla loro azione sono sanciti da una Costituzione rigida non era prerogativa del Governo il sostituirsi alle Camere per attuare una loro modificazione: ciò avrebbe significato ammettere che il medesimo avesse la facoltà di violare di proposito la legge, in netto contrasto con i principi di uno Stato di diritto85. Secondo questa visione, inoltre, la distinta previsione, accanto a quello di legittimità, di un controllo di merito, per sua natura implicante valutazioni di carattere politico, avrebbe dovuto consentire di non ricomprendere drasticamente il rinvio tra gli atti di esercizio del potere politico, ma di evidenziare l’anima prettamente giuridica del controllo.
La questione, come intuibile, non era di poco conto giacché propendere per l’una o l’altra di queste impostazioni significava riconoscere una valenza diversa al giudizio in via d’azione. Da sempre infatti i giudizi in via principale si contraddistinguono, come si è visto, per la loro connotazione ambigua di giudizi di legittimità delle leggi da un lato e giudizi su un conflitto di attribuzioni legislative dall’altro86. Secondo il primo significato si caratterizzerebbero in senso prevalentemente oggettivo, giacché diretti a garantire la conformità costituzionale dell’ordinamento; nel secondo senso, invece, assumerebbero una valenza innanzitutto soggettiva, in quanto volti a tutelare l’interesse concreto della salvaguardia delle sfere di competenza previste in Costituzione.
Sposare la tesi del rinvio governativo come atto sostanzialmente politico significava esaltare l’anima “contenziosa”87 del giudizio davanti alla Corte; un giudizio “di parti”, tra autorità politiche, in cui la Consulta avrebbe svolto una funzione sostanzialmente analoga a quella esercitata in sede di conflitto di attribuzioni. Di contro, sostenere la natura neutrale del controllo equivaleva a vedere nel ricorso in via principale e preventivo alla Corte costituzionale lo strumento con cui agire a tutela dell’integrità dell’ordinamento, in cui lo Stato solo formalmente avrebbe ricoperto il ruolo di parte, mentre da un punto
85 Così E. XXXXX, loc. ult. cit..
86 Così G. ZAGREBELSKY, X. XXXXXXX, Giustizia costituzionale, Il Mulino, 2012, p.321. Così anche X. XXXXX secondo cui il giudizio in questione è animato da un “oscillare senza soluzione tra le opposte sponde del controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi e della risoluzione dei conflitti di attribuzione”, in Garanzie costituzionali, in Commentario alla Costituzione (a cura di Xxxxxx), Il Mulino, 1981, p.332.
87 E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali, cit., p.88.
di vista sostanziale i suoi interessi, diretti a garantire l’osservanza della legge, sarebbero coincisi con quelli del giudice delle leggi88.
La risposta a questi interrogativi, e la conseguente collocazione dell’istituto più nell’orbita del controllo politico o viceversa del controllo neutrale, passa necessariamente attraverso l’esame dell’utilizzo che di esso è stato fatto e soprattutto del concreto atteggiarsi del Governo di fronte alla scelta “di far pendere la bilancia più sull’uno che sull’altro dei versanti possibili”89, fermo restando che nell’ambito dei giudizi in esame la Corte si sarebbe in ogni caso pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’atto contestato e non sulla spettanza dell’attribuzione legislativa90.
È possibile fin da ora accennare che, nonostante i lavori dell’Assemblea costituente dimostrino come l’istituto fosse stato originariamente concepito a garanzia dell’intero ordinamento, la prassi abbia riconsegnato alla realtà un controllo governativo utilizzato sempre più come strumento di controllo politico piuttosto che come mezzo atto a garantire la legalità dell’ordinamento. La mancanza di riferimenti giuridici certi, la grande discrezionalità degli interventi governativi (spesso contraddittori da Regione a Regione e da legge a legge) e il massiccio ricorso alla “contrattazione” hanno concorso a costituire un procedimento di controllo sempre più lontano dal modello delineato dai Costituenti, tale da costringere di volta in volta gli interpreti a interrogarsi sulla ratio dell’istituto91.
L’incertezza circa la natura del giudizio in via principale si ricollegava alla soluzione di un ulteriore aspetto problematico legato all’obbligatorietà o meno del ricorso. La dottrina prevalente era nel senso della facoltatività, poiché in questa direzione sembravano muoversi sia la lettera degli artt. 2 l. cost. 1/1948, 32 e 33 l. 87/1953 sia la considerazione per cui la doverosità avrebbe dovuto essere accompagnata dalla previsione di una qualche sanzione in caso di mancata attivazione da parte del Governo. Inoltre, solo la facoltatività avrebbe giustificato il conferimento ad organi sostanzialmente politici della titolarità del potere in questione, considerato che “i ricorsi non [erano] direttamente collegati ai presupposti che li legittimano, ma a valutazioni politiche ed apprezzamenti
00 X. X. XXXXXXX, Xxxxxxxxx politico e imparzialità nel controllo delle leggi regionali, cit., pp. 6-10; così anche X. XXXXXXXX, Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Xxxxxxx, 1979, pp. 406 ss.
89 E. XXXXX, La legge controllata, cit., p.38.
90 Così G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., 1988, p. 235.
91 Ibidem
discrezionali di quei presupposti, in base ai quali il ricorso può essere considerato opportuno o meno, ma non obbligatorio”92. Il Governo sarebbe stato quindi libero, a seconda delle circostanze, di difendere o meno le competenze dello Stato sancite in Costituzione, non potendo una sua eventuale inerzia essere considerata pari al venir meno ai propri doveri, come una sorta di “lascia passare” alle possibili violazioni da parte delle Regioni. In ogni caso, infatti, la legittimità di una legge regionale avrebbe potuto essere oggetto di un sindacato in via incidentale, dal momento che il controllo di cui all’art. 127 Cost. non era certo stato concepito in sostituzione alle ordinarie forme di giurisdizione costituzionale93.
Sul versante opposto, l’orientamento dottrinale che vedeva nel ricorso statale lo strumento per la tutela dell’interesse “indisponibile” alla legalità dell’ordinamento sottolineava come la discrezionalità del Governo sarebbe rimasta circoscritta al solo momento dell’identificazione del vizio della legge regionale. Una volta individuati ed espressi i profili di illegittimità nell’atto di rinvio, il successivo ricorso alla Corte costituzionale, nel caso di riapprovazione a maggioranza assoluta della delibera da parte del Consiglio regionale, avrebbe dovuto costituire un passaggio obbligato. Di conseguenza, lo Stato non avrebbe potuto far valere altro interesse se non quello diretto alla salvaguardia dell’ordinamento, affrancato da logiche prettamente partitiche94.
Deponeva a favore di tale tesi la facoltà dello Stato di far valere qualsiasi profilo di contrasto della legge regionale con le norme della Costituzione, sulla base dell’interpretazione estensiva dell’“eccesso di competenza” di cui all’art. 127 Cost.; limite cui invece era strettamente vincolata l’impugnativa regionale. La disparità di trattamento tra i due casi si giustificherebbe, come già rilevato, con l’idea che lo Stato, quando promuove un giudizio di legittimità costituzionale, agisce in qualità di garante dell’ordinamento giuridico complessivo e pertanto in modo obiettivo ed imparziale.
92 X. XXXXXXXXXX, Legislazione regionale e principi di fonte regolamentare, in AA. VV., Il controllo governativo delle leggi regionali, cit., p. 62 in E. XXXXX, La legge controllata, cit., p. 41.
93 Così X. XXXXXXX, Xxxxxxxxx politico e imparzialità nel controllo delle leggi regionali, cit. p.7.
94 Secondo E. XXXXX, principale esponente di questo orientamento dottrinale, “ammettere un comportamento libero del Governo significherebbe ritenere che il medesimo abbia la facoltà di violare di proposito la legge, in contrasto con le caratteristiche dello Stato di diritto” in E. XXXXX, Il rinvio delle leggi regionali, in Il controllo dello Stato sulle regioni. Atti del Convegno CIDIS (Jesolo, 29-31 maggio 1986),Cedam, 1987, p. 127.
Al di là di queste ricostruzioni teoriche, la lettera della Costituzione, secondo cui il Governo poteva e non doveva promuovere la questione davanti alla Corte o alle Camere, unitamente all’assenza di qualsiasi sanzione a carico del Governo in caso di mancata attivazione, sembrava comunque diretta a sancire la natura facoltativa del ricorso95. Difatti, tanto lo Stato quanto le Regioni non si trovavano - né si trovano ora - nella stessa posizione del giudice a quo, giuridicamente tenuto a sollevare una questione in via incidentale ogni volta nutra dei dubbi circa la legittimità costituzionale di una norma che deve applicare nel corso del suo giudizio.
Tuttavia la facoltatività del ricorso concorreva ad evidenziarne il legame con la dimensione politica; un legame che appariva non sempre conciliabile con la sua funzione di tutela dell’ordinamento costituzionale ma piuttosto più affine a quella di controllo teso a garantire il patrimonio di competenze statali96, secondo la logica di un conflitto di attribuzioni legislative.
La stessa possibilità di rinunciare al ricorso già esperito e di porre in questo modo fine al giudizio era - e rimane tutt’oggi - la conseguenza più immediata del carattere disponibile del giudizio in via principale; una disponibilità che, sebbene non fosse piena, dovendo la rinuncia essere accompagnata dall’accettazione validamente espressa della controparte, rimaneva comunque difficilmente armonizzabile con la funzione del ricorso statale di strumento garante dell’integrità costituzionale dell’ordinamento97.
1.5. La prassi del controllo governativo sulle leggi regionali prima della riforma: da
contestazione a “contrattazione di legittimità”98
95 Sul tema, ex multis, si veda L. PALADIN, Diritto regionale, cit., p. 432; V. ONIDA, Caratteri del procedimento di controllo sulle leggi regionali, in Giur. cost., 1972, p. 1511; E. XXXXX, La legge controllata, cit., p.34; E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali. Profili procedimentali, Xxxxxxx, 1994, p. 121.
96 Ancora E. XXXXX, La legge controllata, cit., p.42.
97 Così G. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 250; si vedrà (infra cap. 2) come tali caratteristiche denotino tuttora i giudizi in via principale.
98 Secondo la celebre espressione, poi ripresa da molti autori, con cui X. Xxxxxx, ha definito l’involuzione in via di prassi del modello disciplinato dall’ originario art. 127 Cost. in X. XXXXXX, Contestazione e contrattazione di legittimità: aspetti di prassi e spunti ricostruttivi per l’applicazione dell’art. 127 della Costituzione, in Giur. Cost., 1980, pp. 531- 544.
Avendo ricostruito le posizioni teoriche e dottrinali, si vuole ora procede con l’indagine sulle reali manifestazioni che il fenomeno che qui ci si propone di analizzare ha prodotto nella realtà istituzionale; manifestazioni che, nei primi decenni della nostra esperienza regionale, sono venute a svilupparsi lungo un tracciato diverso da quello delineato in Costituzione. Le concrete modalità con cui è stato via via applicato il controllo governativo sulle leggi regionali avevano condotto, in via di prassi, ad un vero e proprio “snaturamento” del giudizio preventivo con ripercussioni consistenti a danno delle Regioni, sempre più compresse nella massima espressione della loro autonomia ovvero il potere legislativo99, inesorabilmente costrette a sopportare una presunzione di “probabile incostituzionalità” a carico delle loro leggi, a fronte della “probabile costituzionalità” di quelle statali100.
Secondo l’intenzione dei Padri costituenti, le ingerenze del Governo nel procedimento legislativo regionale avrebbero dovuto rappresentare un momento di incontro tra lo Stato e la Regione, necessario per fissare in modo più puntuale i termini della controversia il cui merito avrebbe dovuto essere giudicato dal suo giudice naturale ovvero la Corte Costituzionale. Almeno sulla carta, il meccanismo previsto dall’art. 127 Cost. sembrava, dunque, voler promuovere una proficua collaborazione tra i due enti stimolando il raggiungimento, in fase precontenziosa, di un equilibrio tra le ragioni dell’autonomia e quelle dell’unità; un meccanismo in cui la prima fase del rinvio governativo avrebbe dovuto costituire “una sorta di fase conciliativa volta ad evitare, in quanto possibile, la successiva fase contestativa”101 davanti al Giudice delle leggi.
Il modello ideato ab origine dai Costituenti non sembrava lasciare spazio a forme di “contrattazione” tra lo Stato e le Regioni; al contrario, il rinvio avrebbe dovuto rappresentare un efficace strumento con cui definire preventivamente il contenuto di un eventuale e successivo ricorso alla Corte costituzionale e, al contempo, stimolare la
99 In E. XXXXX, op.ult.cit., p. 125.
100 Così A. XXXXXXX- A. XXXXXXX, Lineamenti di giustizia costituzionale, Xxxxxxxxxxxx, 2014, p.258. Afferma lo stesso pensiero R. BIN, Xxxx e falsi problemi del federalismo in Italia, in AA. VV., Il federalismo preso sul serio. Una proposta federalista per l’Italia, Il Mulino, 1996, p. 69 quando ricorda come si fosse sprofondati in un circolo vizioso in cui la presunta inaffidabilità politica delle Regioni legittimava l’estensione del “protettorato” statale su di esse, ma l’estensione del “protettorato” ha contribuito a comprimere l’autonomia politica regionale.
101 Così X. XXXXXXXX, Riapprovazione di una legge regionale a maggioranza assoluta dopo il rinvio da parte del Governo. La questione della legge nuova, in Osservatorio legislativo interregionale, 1989, p. 368.
Regione a “prendere in seria considerazione, e con la disposizione d’animo più propensa all’accordo, le osservazioni motivate che [venissero] […] eventualmente fatte dal Governo centrale”102. Di fatto, il rinvio avrebbe dovuto costituire un invito al riesame della legge che trovava, all’interno del nostro ordinamento, un “ascendente diretto”103 nell’analogo potere del Presidente della Repubblica nei confronti delle leggi statali.
Certamente, anche durante il dibattito costituzionale non era mancato chi, con una certa lungimiranza, vedesse nell’istituto del rinvio non solo un mezzo con cui portare preventivamente l’Assemblea regionale a conoscenza dei motivi di un’eventuale impugnativa statale, ma anche uno strumento con cui influire direttamente sul contenuto della legislazione regionale. A tal proposito, l’onorevole Xxxxxxxxx aveva sottolineato come il rinvio con richiesta di riesame fosse stato concepito al fine di “evitare quel conflitto tra Governo centrale e Assemblea regionale, che si verificherebbe immediatamente nel caso in cui il Governo impugnasse senz’altro il disegno di legge approvato dall’Assemblea regionale” rilevando come “le osservazioni fatte dal Governo all’Assemblea regionale possono metterla sulla via di modificare il precedente deliberato”104.
Ad ogni modo, il meccanismo previsto dall’art. 127 era piuttosto lineare: o la Regione faceva proprie le indicazioni del Governo espresse nell’atto di rinvio, in modo da scongiurare la successiva contestazione davanti alla Corte, oppure poteva cristallizzare la propria volontà legislativa opponendosi al rinvio attraverso la riapprovazione della propria delibera a maggioranza assoluta, demandando così la definizione del conflitto al giudice delle leggi: tertium non datur. Questo almeno secondo le intenzioni del Costituente che, concependo questo istituito, “aveva previsto un onesto e lineare scontro di sciabola, non un raffinato gioco di fioretto nel quale a volte si fa fatica a capire se i duellanti fanno sul serio o, appunto, giocano”105.
Senonché, ben presto ad affermarsi nella realtà istituzionale non fu il modello della contestazione di legittimità ideato dai Costituenti, bensì un sistema di “contrattazione di
102 V. A.C. a verbale della seduta dell’Assemblea costituente del 4 dicembre 1947, consultabile all’indirizzo
xxx.xxxxxx.xx , p. 2801-2802.
103 Corte cost. sent. n. 158/1988, p. 1.1 del Considerato in diritto.
104 Così X. XXXXXX, Contestazione e contrattazione di legittimità, p. 532- 544.
105 X. XXXXXXXXXXX de’ SANTI, Xxxxx regionale non nuova e reiterazione del rinvio governativo, in Giur. Cost., 1988, p.550.
legittimità”, come fu molto efficacemente definito106. Fin dai primi anni della sua concreta applicazione, l’istituto del rinvio assunse connotati del tutto peculiari, resi manifesti da un’ampia casistica che sembrava sempre più allontanarsi dal modello teorico dell’aut aut appena descritto. Nel prosieguo si vedrà come il significato di questo istituto era venuto via via caricandosi di una forte valenza politica fino al punto che esso, piuttosto che venire utilizzato per predeterminare i termini della contestazione di legittimità nel controllo statale sulle leggi regionali, aveva assunto “la veste, per dirla in termini privatistici, di una proposta contrattuale mediante la quale il Governo tendeva non tanto a controllare la legittimità della legge, quanto a condizionare il contenuto di essa rispetto a punti non necessariamente attinenti alla legittimità”107.
1.6. I “rinvii plurimi”: la tesi formalista e la tesi sostanzialista a confronto
Il concreto dispiegarsi dell’intromissione statale nell’attività legislativa regionale aveva determinato, nei primi decenni della nostra esperienza regionale, l’affermazione di un controllo “contrattato e a carattere transattivo”108; una sorta di do ut des in cui la Regione era sempre più incline a rinunciare al libero esercizio della propria autonomia al fine di scongiurare l’impugnativa statale.
I Consigli regionali, infatti, di fronte alla contestazione della propria delibera da parte di un atto di rinvio governativo, non solo potevano scegliere di deliberare a maggioranza assoluta la legge nel medesimo testo (o di non deliberare affatto), ma ben potevano, con una seconda deliberazione, approvare un testo diverso che facesse propri i rilievi mossi dal Governo. Per conseguire un tale risultato, spesso era sufficiente apportare alla delibera oggetto di rinvio modifiche che, seppur non pienamente rispondenti alle pretese governative, sembrassero perlomeno muoversi nella loro direzione109.
La natura contrattuale di un tale processo manifestava tutta la sua vis espansiva nel momento in cui la trattativa tra i due enti non riusciva ad esaurirsi in una sola fase di
106 X. XXXXXX, loc. ult. cit..
107 Così X. XXXXXXXXX, Visti governativi atipici su leggi regionali, in Le Regioni, 1985, pp. 467.
108 E. XXXXX, op. cit., p. 129.
109 Cfr. X. XXXXXXXX, loc. ult. cit..
approvazione-rinvio-riapprovazione110. Infatti, poteva accadere, e di fatto accadeva, che il Governo non ritenesse sufficienti le modifiche apportate dall’Assemblea regionale, determinando il sorgere di non pochi interrogativi su cosa esso avrebbe potuto fare: considerare la delibera come una legge nuova e dunque rinviarla nuovamente oppure solo impugnarla nel breve termine di quindici giorni? Per poter sciogliere tale dubbio era necessario prima individuare cosa dovesse intendersi per “legge nuova” e per “legge non nuova”: ammettere che una benché minima modifica alla delibera regionale avesse potuto dar vita ad una delibera diversa da quella precedente avrebbe reso la stessa suscettibile di un secondo rinvio, che, secondo questa logica, avrebbe in realtà rappresentato un primo rinvio della nuova legge. Ciò avrebbe reso possibile il realizzarsi di “un gioco delle navette”111 tra Regione e Governo potenzialmente prorogabile per un periodo di tempo indeterminato, quanto meno fino a che questi avessero raggiunto un accordo, frutto di reciproche concessioni.
L’alternativa, non solo teorica, tra “legge nuova” e “legge non nuova” aveva costituito il terreno di uno scontro dottrinale, spesso dai toni accesi, che vedeva contrapporsi gli autori sostenitori della tesi c.d. “formalista” e i fautori della tesi c.d. “sostanzialista”. Secondo il primo orientamento, una qualsiasi modificazione, la benché minima innovazione, apportata al testo della delibera oggetto di rinvio avrebbe generato una “legge nuova”; pertanto, per verificare il carattere innovativo della disposizione regionale, sarebbe stato sufficiente constatare il semplice mutamento della proposizione lessicale, senza la necessità di procedere ulteriormente ad indagini volte ad individuare la linea di confine tra modifiche formali e sostanziali112. Un’impostazione che sul piano pratico avrebbe prodotto l’effetto distorsivo di consentire al Governo di sottoporre la delibera regionale ad una catena infinita di rinvii, che la Regione avrebbe potuto interrompere soltanto o attraverso il totale accoglimento delle censure governative o con l’approvazione di un testo identico a quello rinviato, che avrebbe aperto così le porte alla successiva fase contenziosa.
110 V. G. FALCON, loc. ult. cit..
111 X. X. xx’ XXXXX, loc. ult. cit..
112 Tra i più autorevoli sostenitori di questa impostazione si ricorda E. XXXXX, Manuale di diritto regionale, Xxxxxxx, 1976, p. 561 e ID., Aspetti organizzativi e funzionali del controllo sulle leggi regionali, in AA. VV., Il controllo governativo delle leggi regionali, (Atti del Seminario di Bologna 26 settembre 1979), Xxxxxxx, 1982, p.48.
Sul fronte opposto, vi era chi sottolineava come la prassi dei c.d. “rinvii multipli” andasse contro ogni equilibrio istituzionale comportando un’evidente erosione dell’autonomia regionale; diventava così necessario riportare a razionalità la fase di contrattazione politica, impedendo al Governo di reiterare sine die la sequenza dei rinvii113. I sostenitori della tesi “sostanzialista” muovevano dal presupposto secondo cui non qualsiasi modifica al testo legislativo avrebbe potuto dar vita ad una nuova legge, ma solo quelle che si riteneva, a seguito di un’attenta analisi da compiersi caso per caso, avessero inciso sul significato normativo delle disposizioni oggetto di rinvio e non soltanto sulla loro veste formale.
La pratica dei rinvii plurimi ottenne l’avallo della Corte Costituzionale che, con la nota sentenza n. 40 del 1977, risolse la “vexata quaestio” della qualificazione della legge parzialmente modificata dal Consiglio regionale in seguito al rinvio accogliendo la tesi “formalista”, a cui rimase fedele per oltre un decennio. Queste le parole della Corte: “l’unica soluzione che dia sempre pratica certezza è quella più strettamente aderente al testo e alla ratio dell’art. 127, ultimo comma, Cost. che ricollega l’esigenza della maggioranza assoluta e il decorso del termine di quindici giorni per la promulgazione o per l’eventuale ricorso governativo al dato, di agevole e sicura verificazione, che la legge sia stata approvata «di nuovo»: vale a dire, nel medesimo identico testo che aveva formato oggetto della prima deliberazione e del successivo rinvio”114.
Tale pronuncia era stata emessa in occasione di un conflitto d’attribuzione sollevato dal Governo contro la Regione Umbria che, a seguito di un rinvio, aveva approvato per la seconda volta a maggioranza assoluta una legge con emendamenti che si conformavano ai rilievi governativi solo nella parte relativa alla copertura finanziaria; nessuna modifica sostanziale era stata invece introdotta nelle parti colpite dalle censure circa una presunta violazione del riparto di competenze. Ritenendo il testo approvato con la seconda deliberazione identico al precedente, stante anche l’inerzia del Governo nei quindici giorni successivi, il Presidente della Regione aveva provveduto a promulgare la legge. Il Governo, nel ricorrere alla Corte, sottolineava come la seconda approvazione non potesse considerarsi “una seconda lettura del medesimo disegno di legge, la quale
113 Ex multis, L. PALADIN, Diritto regionale, Cedam,1992, p. 355 ss.
114 V. sent. n. 40/1977, p. 5 del considerato in diritto.
soltanto avrebbe potuto escludere un secondo rinvio, bensì una prima approvazione di una legge nuova in considerazione delle modificazioni introdotte in quella sede al disegno di legge. Al Governo, pertanto, a norma dell’art. 127, terzo comma Cost., doveva riconoscersi il potere di effettuare il rinvio entro trenta giorni dalla comunicazione”115.
Come riportato dalla dottrina più autorevole116, la Corte costituzionale a quel tempo non si era dimostrata particolarmente incline a garantire i limiti costituzionalmente previsti nel rapporto tra Stato e Regioni, mostrandosi invece più propensa a demandare la definizione degli stessi al legislatore ordinario e, ancor di più, alla preventiva risoluzione del conflitto tra le parti. Il ricorso alla Consulta rappresentava, pertanto, l’extrema ratio, l’unica via percorribile nei (pochi) casi in cui i contrasti tra le parti non avessero trovato una composizione per mezzo di un accordo politico117. Di conseguenza, appariva coerente con questa tendenza il favor per l’impostazione formalista manifestato con la sentenza in esame che, considerando come “nuova” ogni legge emendata, di fatto legittimava la prassi dei rinvii plurimi e la conseguente contrattazione di legittimità tra Governo e Giunte regionali.
Sebbene la prassi in esame risultasse un fattore penalizzante per l’autonomia regionale e in aperto contrasto con la scelta di riconoscere alle Regioni un’autonomia politica e legislativa, il suo perpetrarsi per quasi trent’anni era il segno evidente che tutti e tre i protagonisti coinvolti ne traessero dei vantaggi118.
In primis, la Corte costituzionale, che, come si è detto, per molti anni ha preferito lasciare la definizione dei rapporti tra Stato e Regioni nelle mani dei diretti interessati, manifestando una netta preferenza per la ricerca di soluzioni consensuali. In questo modo le controversie che ad essa giungevano erano, per così dire, già “filtrate” ossia si trattava di questioni in cui il raggiungimento di un compromesso tra le parti era impossibile a causa di un dissenso insanabile.
Che lo Stato avesse qualcosa da guadagnare da tale prassi appare più che evidente. In questo scenario egli rimase dominus indiscusso dei rapporti tra i due livelli di governo,
115 Ivi, p. 1 del ritenuto in fatto.
116 Cfr. L. PALADIN, La riforma costituzionale tra Costituzione e prassi, in Dir. e soc., 1979, p.271.
117 Cfr. X. XXXXXX, op. ult. cit., p. 535; F. BASSANINI, Tendenze della recente giurisprudenza della Corte costituzionale sulle Regioni di diritto comune, in Giur. Cost., vol. I, 1976, p. 2311.
118 Cfr. X. XXXXXX, op. ult. cit, pp. 537-538.
assumendo di fatto la veste di “cogestore” della legislazione regionale ed evitando così che questa assumesse delle derive ritenute pericolose per l’unità e l’indivisibilità dell’ordinamento, da sempre considerati valori primari nel nostro sistema.
Quanto alle Regioni, di fronte all’alternativa tra insistere nella fase interlocutoria o approvare a maggioranza assoluta un medesimo testo di legge, esse optavano quasi sempre per la prima soluzione, ottenendo “il vantaggio non indifferente di non essere mai obbligate ad abbandonare il campo della trattativa per affrontare il terreno di un giudizio in termini giuridici (e, perciò, necessariamente statici)”119. Nonostante, infatti, le catene di rinvii minacciassero di dilatare eccessivamente i tempi del procedimento legislativo regionale, la prospettiva del giudizio costituzionale appariva per tali enti qualcosa da cui rifuggire.
È a partire dagli anni ’70 del secolo scorso che si iniziò a parlare, infatti, di una vera e propria “fuga delle Regioni dalla giustizia costituzionale”120, causata non solo dal tradizionale atteggiamento “antiregionalista”121 della Corte, ma soprattutto dal timore delle Regioni di rimanere costrette per anni nelle maglie del processo costituzionale. In quegli anni infatti la Corte si era trovata costretta a dover smaltire un numero considerevole di ricorsi arretrati ancora pendenti, accumulatosi in seguito all’istituzione delle Regioni ordinarie e soprattutto allo svolgimento del processo “Lockheed”, a causa del quale un’eventuale impugnazione statale poteva bloccare di qualche anno l’entrata in vigore di una legge regionale. Ciò significava che la Regione rischiava non solo di incorrere in un numero potenzialmente infinito di rinvii, ma anche di trovarsi imbrigliata in un procedimento che poteva protrarsi persino per qualche anno122.
119 Ibidem.
120 La celebre espressione è di A. BARBERA, Le istituzioni del pluralismo, Xx Xxxxxx, 1977, p. 258 in cui l’Autore, molto puntualmente, rileva che “la sfiducia dei governi regionali verso il loro giudice naturale, nei confronti del quale avevano mostrato nei primi mesi della loro attività un atteggiamento di fiducioso riguardo, ha determinato un fenomeno che sembrava esclusivo del processo civile: la fuga dalla giustizia costituzionale. Fuga resa ancora più necessaria dall’opportunità di evitare di tenere immobilizzati, per il tempo certo non breve della conclusione del processo costituzionale, fondi e finanziamenti del magro bilancio regionale o di evitare il rinvio sine die della erogazione dei fondi speciali già così tardi e lenti nella fase della ripartizione e distribuzione”. Conclusioni simili verranno tratte anche una decina di anni più tardi da X. XXXXXXXX, Il controllo preventivo di legittimità delle leggi regionali nel disegno costituzionale e nella sua attuazione pratica, cit., p. 803. In proposito anche X. XXXXXXX, Politicità e asimmetria nel giudizio in xxx xxxxxxxxxx, xxx.,x.00.
121 Così A. BARBERA, loc. ult. cit..
122 Secondo l’analisi fornita da X. XXXXXXX, Considerazioni sulla funzionalità della Corte costituzionale, in X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX, X. LOIODICE (a cura di), Regioni e Corte costituzionale, Xxxxxx Xxxxxx, 1988, p. 6 (tab.
Ciò che spingeva le Regioni a persistere nella trattativa con il Governo non era, quindi, soltanto “la consapevolezza di non poter contare su un giudice imparziale, pronto a sostenere accanto alle esigenze unitarie anche quelle delle autonomie”123, ma anche di non poter beneficiare di un’eventuale, benché improbabile, esito positivo. In questo modo, il merito giuridico delle osservazioni governative sulla costituzionalità della delibera rinviata assumeva per le Regioni un ruolo di secondo piano, data la più pressante esigenza di sfuggire al ricorso dello Stato. Infatti, anche se favorevoli, le sentenze della Corte, venendo alla luce dopo molti anni, avrebbero finito per turbare il normale susseguirsi delle leggi regionali, dal momento che portavano a far inserire tra le stesse disposizioni ormai superate, la cui entrata in vigore avrebbe generato effetti distorsivi tali che le stesse Regioni sarebbero state costrette alla loro abrogazione o revisione. Si riporta, a mo’ d’esempio, il caso di una legge della Valle d’ Aosta del 1976 in relazione alla quale il rigetto del ricorso statale è avvenuto “soltanto” nove anni dopo, con la conseguenza che per i dipendenti regionali furono previste provvidenze di maternità inferiori a quelle nel frattempo concesse con legge statale124.
Era l’anima stessa dell’istituto del controllo preventivo di legittimità sulle leggi regionali, a differenza del giudizio sulle leggi già in vigore, a richiedere che il relativo processo si concludesse in tempi brevi, sia per non ostacolare il naturale decorso dell’attività legislativa regionale, sia affinché il Presidente della Regione potesse esercitare correttamente il proprio potere di promulgazione. Tale potere avrebbe potuto garantire la piena conformità della proclamazione all’effettiva volontà dell’Assemblea legislativa solo se esercitato tempestivamente, in modo da non spezzare il necessario collegamento
1-2) nel periodo compreso tra il 1971 e il 1985, sia per i ricorsi statali che per quelli regionali, dalla notificazione del ricorso alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale trascorrevano in media 717 giorni (per i ricorsi statali) e 740 ( per quelli regionali). Inoltre l’A. evidenzia come “al manifestarsi dei primi ritardi, a partire, pertanto, dal 1974 in avanti, furono dapprima i ricorsi regionali ad essere posticipati e pertanto quelle statali ad essere favoriti: questa scelta non va letta come espressione di un orientamento statalista, in quanto una pronta decisione sul ricorso statale comporta un rapido espletamento dell’intera procedura di controllo sulle leggi regionali, qual è disciplinata dall’art. 127 Cost., e va quindi a vantaggio delle regioni che vedono contenuti I tempi di incertezza sulle proprie leggi (…)”. Sempre l’A., a proposito dell’arretrato accumulatosi, sottolinea come, nell’ambito dei giudizi di legittimità in via principale, si registrassero “16 pendenze nel 1971 e 215 nel 1985, il che corrisponde nel primo caso al 145,45% dei giudizi dello stesso tipo pervenuti nel 1971 (11) e, rispettivamente, al 447,91% dei giudizi pervenuti nel 1985 (48)”. in S. CALZOLAIO, La delibera di impugnazione delle leggi regionali nella prassi, cit., note 27-28, p. 319.
123 A. BARBERA, Le istituzioni del pluralismo, Xx Xxxxxx, 1977, p. 258.
124 Cfr. E. XXXXX, Il rinvio delle leggi regionali: l’art. 127 della Costituzione, cit., p. 129.
cronologico tra la deliberazione del legislativo regionale e, in caso di sentenza di rigetto della Corte, la promulgazione della legge125.
Tradizionalmente, infatti, le leggi regionali sono dirette a realizzare obiettivi politici specifici, che necessitano di tempi ragionevolmente brevi per poter essere conseguiti. Dato l’effetto sospensivo dell’impugnativa statale, per le Regioni quindi non era tollerabile dover attendere qualche anno prima di vedere approvate le proprie misure. È cosa nota che le sentenze, anche quelle della Corte costituzionale, quando sopraggiungono oltre termini ragionevoli, perdono gran parte della loro efficacia; una sentenza tardiva sull’impugnazione statale di una delibera regionale era da considerarsi sempre dannosa per il funzionale svolgimento dell’autonomia regionale, qualunque fosse il merito della decisione adottata dalla Corte.
Questa esigenza aveva spinto i Costituenti ad affidare allo stesso art. 127 Cost. la determinazione del termine entro cui il Governo avrebbe potuto sollevare davanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità del disegno di legge regionale. Non solo si trattava dell’unico termine ad essere fissato direttamente in Costituzione - si ricorda infatti che l’art. 137 rimette ad una legge costituzionale la disciplina dei termini di proponibilità dei giudizi di legittimità in xxxxxx000- ma, poiché di soli quindici giorni, costituiva anche il più breve127. Era quindi evidente come i tempi decisamente lunghi del processo costituzionale fossero inconciliabili con la ratio del controllo previsto dall’art. 127 Cost. e con la possibilità per le Regioni di godere dell’effettivo esercizio della propria autonomia.
Il ricorso governativo che, secondo l’intenzione dei Costituenti, avrebbe dovuto rappresentare soltanto un atto preliminare al successivo giudizio della Corte Costituzionale, aveva finito per assumere esso stesso la funzione di atto di controllo; di
125 In X. XXXXXXXX, Il controllo preventivo di legittimità costituzionale nel disegno costituzionale, cit. p. 796 ss.. In generale, sul problema dei tempi di decisione nel giudizio principale, X. PALADIN, La giustizia costituzionale nel 1985, in Giur. Cost., 1986, p.289.
126 Tali termini sono stati stabiliti con la legge costituzionale n. 1 del 1948, poi integrata dalla legge n. 87 del 1953.
127 In particolare il termine per l’impugnazione di una legge statale era stato fissato in 30 giorni, quello per l’impugnazione di una legge di altra Regione da parte delle Regioni in 60 giorni; sempre di 60 giorni era il termine previsto per promuovere un conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni; nessun termine, infine, per il conflitto tra poteri dello Stato e la sollevazione della questione di legittimità in via incidentale.
strumento con cui il Governo, ancora prima che la Corte, poteva impedire l’efficacia di un
progetto di legge regionale ritenuto viziato.
Si trattava, certamente, di una misura di “natura cautelare e transitoria”128 destinata ad essere travolta dalla pronuncia della Corte; una pronuncia, però, che per il tempo in cui sarebbe venuta, avrebbe prodotto una legge ormai priva di attualità ed di efficacia concreta. Risultava quindi difficile riuscire a scorgere ancora nel giudizio davanti alla Corte quella fase ulteriore ed eventuale del processo legislativo regionale volta a garantire la conformità della legislazione regionale all’ordinamento costituzionale. Piuttosto, l’unico significato che sembrava potergli essere riconosciuto era quello di produrre una menomazione nell’autonomia delle Regioni attraverso il divieto, costituzionalmente garantito, di promulgare la legge impugnata fino all’esito del giudizio.
Alla luce di quanto fin qui considerato, appariva del tutto naturale la scelta delle Regioni di contrattare con il Governo le modifiche da apportare alle proprie leggi, anche a costo di dover accettare passivamente qualsivoglia osservazione e censura129, piuttosto che rivendicare in sede giurisdizionale gli ambiti dell’autonomia legislativa che la Costituzione aveva loro formalmente garantito.
1.6.1. segue… La Corte fa propria la tesi sostanzialista
La Corte, resasi complice con la sent. n. 40/1977 della progressiva erosione dell’autonomia regionale, mantenne immutato il proprio orientamento per oltre dieci anni fino a quando, con la pronuncia n. 156 del 1988, fece proprie tesi meno formalistiche, riavvicinandosi allo spirito originario dell’art. 127 Cost. e riappropriandosi di quel ruolo interpretativo precedentemente abbandonato. Anche in questo caso i giudici costituzionali furono chiamati a pronunciarsi in occasione di un conflitto d’attribuzione, sollevato questa volta contro la Regione Abruzzo. Con un cambio di rotta
128 Così X. XXXXXXXX, Il controllo preventivo di legittimità costituzionale, cit., p. 803.
129 Cfr. A. BARBERA, loc. ult. cit..
rispetto all’impostazione precedente, il Giudice delle leggi decretò il divieto di reiterare i rinvii di una legge regionale, ricavandone la ratio dalla lettera dell’art. 31 della legge n. 87/1953 (ora abrogato), secondo cui il Governo avrebbe potuto impugnare la legge regionale nel solo caso in cui questa fosse stata approvata per la seconda volta dal Consiglio regionale. Ancora una volta, però, il divieto presumeva che la legge regionale non fosse “nuova”: “ innanzitutto occorre sottolineare che una legge deve essere considerata come identica o «non nuova», ai fini dell’applicazione dell’art. 127 Cost., non solo nell’ovvia ipotesi che nessuna modifica sia stata apportata al suo testo, ma anche in quella in cui l’intervento di eventuali modifiche in sede di approvazione non sia tale da comportare un mutamento del significato normativo delle disposizioni oggetto della rinvio. È infatti una nozione giuridica comune che il testo legislativo è soltanto un mezzo materiale per esprimere un significato normativo (o norma) e che, ai fini della valutazione della legittimità di una certa disposizione, ciò che rileva è il testo in relazione al suo significato normativo, non certo il bruto materiale linguistico in sé considerato”130. Con queste parole la Corte, pur nell’evidente tentativo di porre un freno all’infinito gioco delle transazioni tra Stato e Regioni, lasciava scoperti alcuni interrogativi circa la possibilità di definire con certezza se una modifica comportasse o meno un effettivo mutamento del significato normativo della disposizione censurata. Non solo, l’indagine che il Governo avrebbe dovuto compiere caso per caso, anche se non impossibile, era comunque ostacolata dal breve termine di decadenza (di 15 giorni) entro cui proporre ricorso. Per questo motivo, anche dopo questa sentenza, il modello non poteva ancora ritenersi compiutamente delineato131. I principali ostacoli interpretativi riguardavano il nesso di causalità tra il contenuto dell’atto di rinvio e le modifiche apportate dal Consiglio con la seconda deliberazione.
La sentenza n. 158 non aveva fatto chiarezza sul punto, ma alla luce di alcune pronunce successive132, era possibile giungere ad almeno due conclusioni: il Governo che avesse rinviato una delibera legislativa per la seconda volta non poteva censurare norme diverse,
000 X. Xxxxx xxxx. sent. n. 158/1988, p. 1.1 del Considerato in diritto.
131 Cfr., E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali. Profili procedimentali, Xxxxxxx, 1994,
p. 127; L. PALADIN, Diritto regionale, cit., p. 430; X. XXXXXXXXXX, Il controllo sulle leggi regionali: le precisazioni della Corte, in Il Diritto della Regione, 1988, p.112.
132 Si veda ad esempio Corte Cost sent. n. 973/1988.
se rimaste immutate, da quelle indicate nel primo rinvio; inoltre, lo stesso non poteva chiedere un riesame della disposizione controversa, una volta modificata, sulla base delle stesse osservazioni già presentate, dovendo, in questo caso, scegliere necessariamente tra l’impugnativa o un rinvio fondato su motivi diversi. In sostanza, com’è stato efficacemente osservato, il Governo avrebbe dovuto “vuotare il sacco tutto in una volta e non operare, cambiando via via tiro ed obiezioni, un boicottaggio della legge regionale e nemmeno una forma di partecipazione protratta alla riformulazione della legge stessa”133.
1.6.2. Quale maggioranza per la seconda deliberazione?
Tra le numerose questioni lasciate aperte dalla disciplina del precedente sistema di controllo governativo di legittimità rientrava certamente quella connessa alla maggioranza necessaria per l’approvazione della legge regionale134. Se era chiaro, infatti, che, ai fini dell’applicazione del meccanismo di cui al quarto comma dell’art. 127 Cost., fosse necessaria la maggioranza assoluta, la Costituzione taceva, invece, sulla valenza da attribuire ad una delibera del Consiglio riapprovata, con emendamenti in tutto o in parte in linea con le richieste del Governo, con la sola maggioranza semplice, ipotesi che non mancò di manifestarsi, rendendo il quadro della prassi ante riforma ancora più intricato. Si sarebbe potuto legittimamente presumere che la maggioranza richiesta dall’art. 127 fosse sempre necessaria per la seconda deliberazione: una “condizione di esistenza”135 della stessa, a prescindere dal suo contenuto. Si riteneva infatti che, sia che il Consiglio avesse riapprovato la legge con lo stesso contenuto, sia che invece l’avesse modificata, il rinvio di fatto avrebbe spezzato il procedimento legislativo, costringendo pertanto la Regione a cristallizzare la propria volontà in ordine alla delibera attraverso una maggior
133 X. XXXXXXXXXXX DE’ SANTIS, op. ult. cit., p. 551.
134 Sul punto: C. MEZZANOTTE, Riapprovazione della legge a maggioranza semplice e reiterazione del rinvio, in Giur. cost., 1976, pp. 602 ss.; X. XXXXXX, Questioni nuove e vecchie in tema di rinvio della legge regionale, in Le Regioni, 1989, pp. 87 ss.; ID., Sulla riapprovazione a maggioranza semplice della legge rinviata, in Le Regioni, 1990, pp. 942 ss.; ID., Contestazione e contrattazione di legittimità, cit., p. 542-543; E. XXXXXXXXXXXXX, op. ult. cit., pp. 137-142.
135 X. XXXXXX, op. ult. cit., pp. 542-423.
coesione delle forze politiche presenti nell’Assemblea legislativa. Pertanto, senza la maggioranza assoluta, l’iter legis non avrebbe potuto proseguire positivamente verso la promulgazione, ma sarebbe stato continuamente esposto ai rinvii governativi.
Una tale impostazione si rivelava, tuttavia, eccessivamente rigida e ben presto fu superata da una visione del controllo governativo diretta a valorizzarne il carattere “procedimentale”136, secondo la quale si sarebbe dovuto considerare la maggioranza assoluta non più come una condizione imprescindibile, ma soltanto come il segno della volontà della Regione di porre fine al “ping-pong” di rinvii-riapprovazioni e rimettere definitivamente la “palla in mano” al Governo, che avrebbe dovuto decidere se desistere dal conflitto o sollevare la questione di costituzionalità.
Quale valore riconoscere, pertanto, alla delibera approvata dal Consiglio a maggioranza semplice? Un testo, identico al precedente, approvato con la sola maggioranza dei presenti, sarebbe stato certamente incostituzionale per contrasto con l’art. 127 Cost.; nel caso, invece, gli emendamenti introdotti avessero dato origine ad una “nuova legge” (secondo l’orientamento della Corte espresso con la sent. n. 158), il Governo avrebbe senz’altro potuto procedere ad un nuovo rinvio137.
I vuoti lasciati dal legislatore, costituzionale e ordinario, rendevano difficile rinvenire
quale fosse, tra le due sopra esposte, l’interpretazione più corretta da attribuire all’art.
127 Cost.; certamente sarebbe stata preferibile una lettura sistematica meglio rispondente alla ratio di un sistema di controllo improntato più sulla ricerca di una soluzione consensuale che non sulla “più drastica”138 soluzione giudiziale (o parlamentare). In questa direzione pareva andare la seconda lettura, che ammetteva delibere modificative approvate a maggioranza semplice, nonostante questo avrebbe potuto facilmente paralizzare il procedimento legislativo regionale in tutti i casi più complessi in cui si sarebbero potuti manifestare tutti i profili controversi sopra richiamati:
136 Così E. XXXXXXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 128.
137 Cfr. sull’argomento E. XXXXX, Legge regionale, nuove certezze e persistenti incertezze in ordine al “procedimento di controllo”, in Il Foro italiano, 1991, p. 408 ss.; X. XXXXXXX, Inconvenienti e prospettive della giurisprudenza costituzionale in materia di controllo statale delle leggi regionali, in Le Regioni, 1991, p. 608 ss.; X. XXXXXX, Rinvio della legge al Consiglio regionale e contemporaneo ricorso alla Corte costituzionale: quando il Governo gioca su due tavoli, in Le Regioni, 2000, p. 728 ss..
138 E. Xxxxxxxxxxxxx, loc. ult. cit..
modifiche consequenziali a norme non colpite dal rinvio, modifiche parziali e rinvii reiterati a seguito di delibere votate a maggioranza semplice.
1.7. I visti governativi atipici
Se quando si discorre del sistema di controllo governativo sulle leggi regionali precedente alla riforma del 2001 appare naturale individuare nei rinvii, e nelle loro molteplici manifestazioni, la causa prima delle limitazioni all’autonomia regionale, non bisogna dimenticare che la “negoziazione” tra Stato e Regioni ha avuto modo di manifestarsi anche sul terreno, meno battuto ma forse più impervio, dei visti apposti dal Commissario di Governo. Nell’analisi fin qui compiuta si è avuto più volte modo di sottolineare come la prassi applicativa della procedura di controllo governativo sia andata sempre più distaccandosi dalle forme previste dall’originario art. 127 Cost.; questo fenomeno diventa ancora più evidente se ci si addentra nello studio dei c.d. visti atipici o visti con osservazioni, ovvero di quella categoria di visti commissariali non conformi al modello costituzionale di formula di non opposizione del Governo, perché corredati da una serie di valutazioni sulle delibere regionali139.
Sotto il previgente sistema di controllo era infatti invalsa la prassi di accompagnare ai visti osservazioni di vario genere che spaziavano dalla semplice indicazione di errori materiali nel testo legislativo a notazioni che legavano la non opposizione del Governo all’impegno della Regione di modificare, con una nuova legge, la delibera comunque vistata.
Una prima fonte di problematicità era costituita da quei visti le cui notazioni di accompagnamento consistevano in indicazioni governative sul significato da riconoscere alle disposizioni contenute nel testo regionale. Le ambiguità erano in particolar modo legate al valore da attribuire all’interpretazione “autorevolmente o (autoritativamente)”140 data dal Governo una volta che la legge fosse entrata in vigore.
139 Sul tema: E. XXXXX, I caratteri del controllo governativo sulle leggi regionali, cit., p. 170; E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali, in AA. VV., Le Regioni: politica o amministrazione ?, Edizioni di Comunità, 1973, pp. 53-59; X. XXXXXXXXX, Visti governativi atipici su leggi regionali, in Le Regioni, 1985, pp. 456- 469; E. ROSSI, La legge controllata, cit. pp. 80-91.
140 Così X. XXXXXXXXX, Visti governativi atipici su leggi regionali, cit., p. 457.
Non avrebbe certamente potuto trattarsi di un’interpretazione autentica dello Stato sulle leggi regionali poiché l’interpretazione autentica, per sua natura, spetta in via esclusiva allo stesso organo che ha posto in essere l’atto normativo. L’unico valore da riconoscere a tali indicazioni sarebbe rimasto quindi quello di criterio di giudizio della Commissione di controllo sull’amministrazione regionale, per valutare gli atti amministrativi posti in essere dalla Regione in attuazione della legge vistata. Ma anche sotto questo profilo si trattava di osservazioni frutto di informali trattative tra Governo e Regione, non vincolanti per nessuno ma rilevanti solo sul piano politico e solo nella misura in cui gli organi amministrativi della Regione intendessero adeguarsi all’interpretazione data141.
Ancora più problematica appariva l’ipotesi dei visti accompagnati da c.d. osservazioni condizionanti142, in cui la concessione del visto era subordinata all’impegno della Regione di approvare, non appena fosse entrata in vigore la legge vistata, una nuova e diversa legge contenente integrazioni e modifiche alla precedente. Si trattava di osservazioni che, se in alcuni casi potevano lasciare alla Regione alcuni margini di manovra, molto spesso si sostanziavano in elencazioni eccessivamente minuziose e particolareggiate delle modifiche da introdurre alla legge vistata, tali per cui gli enti in questione si vedevano di fatto spogliati di ogni facoltà di autodeterminazione143.
Appare utile ricordare alcuni tra i casi più emblematici dell’anomalia in esame. Il primo riguardava un visto con cui il Governo, nel consentire l’ulteriore corso di una legge in materia di igiene e sanità pubblica, veterinaria e farmaceutica, prendeva atto dell’impegno del Presidente della Giunta regionale di “presentare nel primo Consiglio regionale emendamenti […] nel senso di ricondurre alla competenza della Regione i provvedimenti concernenti la pianta organica delle farmacie”, e ad eliminare parte di una
141 E. XXXXX, op. ult. cit., p. 85 in cui l’A. rileva come restava pur sempre salva “la ricorribilità in sede giurisdizionale dell’eventuale annullamento delle delibere regionali da parte della Commissione di controllo, con la possibilità che per quella via si affermi un’interpretazione della legge diversa da quella prospettata dal Commissario, alla quale questi dovrebbe quindi successivamente adeguarsi”. Giungono alla stessa conclusione anche X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 458 e E. XXXXXXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 55.
142 Così X. XXXXXXX, La Commissione bicamerale per le questioni regionali ed il controllo governativo delle deliberazioni legislative delle Regioni, in Le Regioni, 1983, p. 340. X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., parla invece di “visti accompagnati dalla presupposizione di future modifiche della legge vistata”, dove il termine “presupposizione” è utilizzato nella sua accezione civilistica di “motivo particolarmente rilevante, perché determinante nella formazione della volontà, benché non configurato come condizione: motivo che opera come previsioni di particolari effetti e conseguenze dell’atto ed al quale si subordina la dichiarazione di volontà” (p. 463).
143 Cfr. E. XXXXXXXXXXXXX, op. ult. cit., nota 46 p. 57.
norma. Dello stesso tenore la vicenda di un’altra legge approvata dal Consiglio regionale in seguito a un visto corredato di minuziose indicazioni con cui il Governo “pregava” di “interessare i competenti organi regionali a voler assumere sollecitamente le necessarie iniziative intese ad apportare le occorrenti modifiche ed integrazioni alla legge di cui trattasi”. Ancora più preoccupante il caso di una legge della Regione Lombardia in cui il visto era stato apposto con l’intesa che il Consiglio regionale lombardo, con un’ulteriore legge, apportasse una serie di modifiche dettagliatamente elencate in un facsimile cui il legislatore regionale era invitato a conformarsi144.
Le censure mosse a questa categoria di visti erano particolarmente rilevanti, segnalate non solo dalla dottrina unanime ma anche dalla Commissione bicamerale per le questioni regionali nella relazione presentata nel 1982 a seguito dell’indagine condotta sull’attività di controllo governativo delle leggi regionali145.
Una prima serie di valutazioni era diretta a mettere in luce l’impossibilità di ricondurre tale categoria di visti al modello delineato dalla nostra Costituzione; una Costituzione rigida che non ammette “nessuna scorciatoia e nessuna variazione”146 dagli schemi in essa tipizzati, tanto più quando ad essere in gioco è la tutela di valori indisponibili.
Mentre “la contrattazione di legittimità” di cui si è trattato a proposito dei rinvii, seppur discutibile, si svolgeva comunque lungo il tracciato segnato dall’art. 127 Cost. dal momento che aveva luogo prima della promulgazione e dell’entrata in vigore della legge regionale; nei casi qui in esame essa espandeva i suoi effetti fino ad impegnare la Regione anche per il futuro147. Inoltre, l’accordo sulle modifiche da apportare era raggiunto dal Governo con il Presidente della Regione (molto spesso addirittura dai funzionari statali e dagli assessori regionali), il quale in ogni caso non avrebbe potuto impegnarsi sulle leggi regionali future, dato che l’approvazione di una nuova legge non dipendeva dalla volontà del Presidente. A niente sarebbe valsa anche la garanzia di proporre un progetto di legge
144 Gli esempi sono tratti da X. XXXXXXXXX, Visti governativi atipici, cit., pp.458-460 e da E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali, cit., nota 45 p. 57.
145 Sul punto, in particolare, X. XXXXXXX, L’attività governativa di controllo della legislazione regionale nella
relazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali, in Le Regioni, 1986, pp. 809-818.
146 X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 461.
147 Cfr. E. XXXXX, La legge controllata, cit., p. 89.
di integrazione o modifica, poiché sarebbe stato illegittimo per contrasto con il divieto di mandato imperativo148.
Si aggiunga anche che sul Consiglio regionale non ricadeva alcun obbligo giuridico di apportare le modifiche concordate dal Presidente, né il Governo aveva a disposizione alcun mezzo giuridico per ottenere l’adempimento forzoso di tali modifiche; ciò giustifica l’affermazione di chi ha parlato di “assegni a vuoto normativo”149 rilasciati dal Presidente della Giunta al Governo.
Nelle note di accompagnamento dei visti atipici, sovente il Governo riconosceva esplicitamente l’illegittimità della legge da vistare sottolineando al contempo la necessità di eliminarne i vizi; tuttavia, riteneva sufficiente l’impegno del Presidente della Regione in tal senso, consentendo così l’immissione nell’ordinamento di leggi invalide e provvisorie foriere di spinosi problemi di diritto transitorio nel lasso di tempo tra l’entrata in vigore della legge vistata e di quella di modifica150.
Per comprendere la reale portata del fenomeno in esame non è tuttavia sufficiente limitare il proprio angolo visuale alla sfera prettamente giuridico-formale ma occorre non perdere di vista la commistione tra politica e diritto, così forte quando, come in questo caso, gli attori in scena sono soggetti politici. Il peso della dimensione politica era reso manifesto dalla constatazione che in tutti i casi in cui il Governo aveva corredato i propri visti con osservazioni condizionanti, i Legislativi regionali avevano provveduto molto celermente ad approvare una nuova legge conforme ai desiderata del Governo, riconoscendo dunque vincolatività a condizioni che, sul piano giuridico-formale, non avevano alcuna reale efficacia.
Ancora più che nei visti accompagnati da precisazioni interpretative, qui il significato politico risultava predominante poiché il rispetto delle indicazioni governative era
148 Così X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 464-465; l’A. vede nell’impegno assunto dal Presidente della Regione una fattispecie simile alla promessa di fatto altrui di stampo civilistico (ex art. 1381 c.c.), improponibile però al di fuori del campo di origine. L’A. sottolinea, inoltre, come in questo modo il Governo finiva, “sulla base di considerazioni esclusivamente politiche, per riconoscere al Presidente della Regione […] un potere sostanzialmente legislativo, quanto meno in via provvisoria e salvo ratifica consiliare. […] Quindi, quel potere di legislazione di urgenza che la legislazione e gli Statuti non riconoscono in capo all’esecutivo regionale viene di fatto riconosciuto dal Governo in capo al Presidente della Giunta, che diviene così abilitato ad emanare, quanto meno con effetti verso il Governo stesso, «decreti-legge» da sottoporre a conversione da parte del Consiglio regionale”.
149 Ivi, p. 466.
150 Ibidem.
affidato più ai rapporti di forza tra Regioni e Governo che a concreti strumenti giuridici, con difficoltà ancora maggiori a ricondurre questo fenomeno allo schema tipico dei controlli preventivi delineati in Costituzione.
Certamente il modello costituzionale era stato concepito a maglie sufficientemente elastiche, tali da consentire l’affermarsi di una serie di comportamenti difformi rispetto all’idealtipo di intervento. Questo sia per l’ineliminabile difficoltà di ricondurre le eterogenee sfaccettature di cui è fatta la realtà a schemi tipizzati e predefiniti: ma soprattutto, in questo caso, per la naturale propensione dell’istituto a oltrepassare i confini dell’intervento di stretta legittimità per approdare ad un controllo dal carattere eminentemente politico151. Il rinvio, ben presto diventato il principale strumento di negoziazione, non interferiva tuttavia nel gioco della dialettica giuridico-politica dei diversi organi regionali e ne rispettava formalmente le competenze. Il visto atipico, al contrario, produceva un’alterazione di competenze prima in campo politico, e poi in ambito giuridico 152.
Xxxx realizzarsi ancora quella fuga della politica dal diritto che nel sistema costituzionale previgente sembrava essere conveniente a tutti i livelli di Governo: l’apparente assenza di contrapposizione tra Stato e Regioni non era sorretta da un solido equilibrio istituzionale, ma era il riflesso dell’avversione delle parti per la contrapposizione in sede giurisdizionale, per cui ogni tipo di definizione preventiva ed extragiuridica era sempre una via da preferire.
La prassi delle osservazioni che accompagnavano i visti apposti dal Commissario di Governo rappresentava dunque una delle più significative testimonianze della contrattazione tra Governo e Regioni propria del precedente sistema di controllo legislativo; una prassi, come si è visto, criticabile e foriera di numerosi profili di criticità. Le osservazioni formulate dal Governo su atti che non erano di rinvio, poiché autorizzavano l’ulteriore corso della legge, rivelavano “una paternalistica ed equivoca collaborazione governativa allo svolgimento e all’attuazione della legislazione
151 Cfr. E. XXXXX, op. ult. cit., p. 91.
152 Così X. XXXXXXXXX, op. ult. cit, p. 468.
regionale”153; un’anomala collaborazione che sfociava in una co-decisione frutto
dell’attività transattiva tra due soggetti non dotati della stessa forza contrattuale.
1.8. La portata della contrattazione di legittimità e le sue ricadute pratiche
I dati statistici relativi al controllo governativo sulle leggi regionali ante riforma mostrano come a partire dagli anni ’70 il Governo era solito rinviare una percentuale di delibere regionali compresa tra il 15 e il 25%; di queste solo meno del 10% veniva successivamente impugnata; ciò significa che solo l’1-2% delle delibere regionali veniva contestata davanti alla Corte Costituzionale154.
L’enorme scarto tra il numero dei rinvii e quello delle pronunce in via diretta sulla legittimità delle leggi regionali dimostrava come, in sostanza, la soluzione giurisdizionale rappresentasse un “esito del tutto marginale, non più che una remotissima possibilità”155; ciò a dimostrazione di come il rinvio finisse per assolvere una sua funzione autonoma156, solo eventualmente preordinata alla contestazione di legittimità o di merito, venendo le volontà governative sostanzialmente assecondate dalle modifiche introdotte dall’Assemblea regionale in sede di riesame del testo legislativo.
Un quadro siffatto si poneva in contrasto con la visione tradizionale che, come si è avuto modo di dire, concepiva il controllo preliminare governativo come un continuum in cui le due fasi del rinvio e dell’eventuale impugnativa avrebbero dovuto rappresentare due momenti di un procedimento sostanzialmente unitario. Il ricorso governativo era andato assumendo nel tempo i caratteri di un’arma “tanto più micidiale di quanto voluto dal
153 X. XXXXXXXXXX, Controllo sulle leggi regionali e specialità, in Il controllo governativo sulle leggi regionali. Analisi dell’esperienza e prospettive di riforma (Convegno di S. Xxxxxxxxxx xx Xxxx, 18 aprile 1986), Consiglio regionale della Sardegna, 1987, p. 30.
154 X. XXXXXXXX, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, in A. XXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, Il Mulino, 2006, pp. 14 ss.; A. XXXXXX, Rapporto 1982 sullo stato delle autonomie, Roma, 1982, pp. 670 ss.; X. XXXXXXXXXXX, Il controllo sulle leggi, in AA. VV., Il rapporto sulle Regioni, Xxxxxx Xxxxxx, 1994, p. 181; P. F. XXXXXX, X. XXXXXXXX, X. XXXXXX, L’incidenza del controllo governativo sul prodotto legislativo regionale, in X. XXXXXXX (a cura di), Il procedimento legislativo regionale, II, Cedam, 1997, p. 107 ss..
155 Cfr. X. XXXXXX, op. ult. cit., p. 536.
156 Così E. XXXXX, Il rinvio delle leggi regionali: l’art. 127 della Costituzione, cit., p. 134.
Costituente”157: era dunque il rinvio, e non l’impugnativa, “lo sbocco normale della vicenda di controllo”158.
Messa volutamente fuori gioco la Corte Costituzionale, i rapporti tra i due livelli di governo si configuravano come i rapporti di forza di una parte sull’altra. Il Governo era il vero detentore del potere contrattuale che, attraverso il c.d. controllo mediante richiesta di riesame, si garantiva il pieno dominio sulla produzione legislativa regionale, potendo all’occorrenza correggerne le derive non gradite per conformarla alla propria visione. Di conseguenza, l’azione del Governo esplicatasi sotto l’etichetta del potere di controllo di legittimità ad esso attribuito aveva finito per assomigliare sempre più ad un’azione di “guida e di coordinamento” dell’autonomia regionale, fedele agli sviluppi dell’indirizzo politico centrale159.
Secondo i dati riportati, dunque, una cospicua parte delle leggi regionali era il risultato di un’intensa attività “transattiva” tra gli esecutivi e le burocrazie dei soggetti pubblici coinvolti, con una significativa e preoccupante estromissione dei Consigli regionali e con il conseguente slittamento del reale potere decisionale sulle leggi regionali dalla sua sede naturale verso una forma di co-decisione degli esecutivi coinvolti160. Per questa via, la legislazione regionale finiva per essere in gran parte una legislazione di apparati, come si è visto ad esempio a proposito dei c.d. visti con osservazioni condizionanti dove il contenuto delle leggi veniva predeterminato sulla base di intese fra Ufficio regioni e assessorato.
Ci si è precedentemente interrogati su quale fosse la natura da riconoscere al controllo governativo sulle leggi regionali161 e, nello specifico, se fosse più corretto parlare di un controllo-verifica o di un controllo- indirizzo e si è rilevato come una risposta a tale quesito dovesse passare necessariamente per l’analisi dell’utilizzo che di questo istituto è stato fatto. I dati fin qui riportati consentono di poter affermare, abbastanza serenamente, che il potere governativo di opposizione riconosciuto dal precedente art.
157 X. XXXXXXXX, Il controllo preventivo di legittimità delle leggi regionali, cit., p. 803.
158 E. XXXXX, loc. ult. cit..
159 Così G. PASTORI, L’esperienza dei rinvii nelle Regioni a statuto ordinario, in Le Regioni, 1986, pp.773-786. 160 Cfr. A. PABUSA, Il controllo governativo sulle leggi e tendenze del procedimento legislativo regionale, in AA. VV., Il controllo governativo sulle leggi regionali. Analisi dell’esperienza e prospettive di riforma (Convegno di S. Xxxxxxxxxx xx Xxxx, 18 aprile 1986), Consiglio regionale della Sardegna, p. 21.
161 Supra par. 1.4
127 Cost. aveva finito per assumere sempre più i caratteri di un controllo preventivo dalla spiccata connotazione politica, annoverabile nel genus degli atti di indirizzo spettanti al Governo162; una forma di controllo-indirizzo i cui unici limiti risiedevano nella necessità di fondarsi sui precisi argomenti di diritto idonei a giustificarlo163. L’esperienza di effettiva attuazione del dettato costituzionale ha fornito sempre più elementi a dimostrazione di come l’esercizio del controllo preventivo governativo sia stato costantemente esercitato in funzione della omogeneizzazione dell’ordinamento e della sua conservazione, ponendo un freno alle spinte innovative della legislazione regionale.
La mortificazione dell’autonomia regionale perpetratasi nel sistema ante riforma non derivava soltanto dal carattere politico del controllo, carattere che era insito nella natura dell’organo ad esso preposto, ma forse ancora di più dalla circostanza che la politicità trascendeva i limiti tracciati dalla Costituzione164. Di fatti, benché la disciplina del controllo governativo fosse prevista all’interno della nostra Carta costituzionale, cui uno dei tratti fondamentali è la rigidità, l’esperienza di attuazione concreta si è rivelata “sempre meno giurisdicizzata” e “sempre più affetta da una grande labilità di riferimenti giuridici”165. La mancata codificazione dei principi fondamentali per mezzo delle leggi cornice aveva determinato il susseguirsi di una serie di rinvii statali disancorati da parametri giuridici certi che rendeva difficilmente identificabile il parametro principale del controllo e pertanto maggiormente discrezionale l’attività del Governo. In particolare, si è assistito in via di prassi alla dissoluzione dei parametri del controllo concepito come controllo di legittimità, dovuta all’innalzamento a parametri di controllo di valutazioni di merito legate all’indirizzo politico governativo del momento, ad esempio attraverso un utilizzo assai ampio del principio costituzionale del buon andamento dell’amministrazione codificato all’art. 97 Cost., eletto a “superprincipio passepartout”166 e richiamato attraverso formulazioni così generiche da lasciare spazio ad ampie valutazioni di merito da parte del Governo .
162 Cfr. G. PASTORI, L’esperienza dei rinvii nelle Regioni a statuto ordinario, cit., pp. 775-776.
163 Ivi, p. 777.
164 A. PABUSA, op. ult. cit., p. 18.
165 X. XXXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 39.
166 G. PASTORI, L’esperienza dei rinvii, cit., p. 777.
Tale fenomeno appariva scarsamente compatibile con il quarto comma dell’art. 127 Cost., dal momento che sottraeva i rilievi effettivamente di merito alle procedure per essi appositamente previste e al loro arbitro naturale, le due Camere, cui sarebbe spettato di decidere sulle questioni di rilevanza politica, ma che di fatto non furono mai concretamente interpellate.
Si aggiunga che i rilievi di merito, sistematicamente vestiti dei panni della legittimità167, si appuntavano su questioni del tutto marginali, ininfluenti sugli ambiti della competenza statale e forse più propriamente destinati ad essere fatti valere nell’ambito dei ricorsi in via incidentale168. Di fatti, dalla lettera della Carta pareva potersi dedurre che l’oggetto dei conflitti tra Governo e Regioni dovesse investire questioni di notevole rilevanza, tali da porre concretamente in discussione gli ambiti della competenza statale, quando cioè vi fosse un evidente straripamento dalla competenza regionale, meritevole di mettere in moto la macchina governativa. A favore di questa ricostruzione deponevano il riferimento dei Costituenti al riparto delle competenze, la scelta dell’organo chiamato a porre in essere i rilievi e la maggioranza richiesta all’Assemblea legislativa regionale per la riapprovazione169.
Occorre inoltre sottolineare che anche quando le norme-quadro venivano emanate, il loro contenuto era così dettagliato da lasciar supporre che lo Stato si fosse dimenticato dell’esistenza stessa di ulteriori spazi dell’autonomia regionale. Di conseguenza, le leggi statali, travalicando i confini dei principi fondamentali, facevano sì che il Governo incentrasse gran parte del suo controllo su questioni puramente di dettaglio e che la legislazione regionale assumesse un carattere amministrativo non solo dal punto di vista dei soggetti effettivamente coinvolti nella decisione, ma anche nel contenuto, alimentando “un certo fastidio” della Corte verso un contenzioso a basso tenore costituzionale170.
167 Cfr., A. PABUSA, op. ult. cit., p. 30.
168 Così Ivi, p. 19.
169 Ibidem.
170 Così V. ONIDA, Sindacato di legittimità costituzionale e Regioni, in Giustizia e Regioni, (Atti del Convegno di Bologna 1-2 dicembre 1989), Cedam, 1990, pp. 26-43, in cui l’A. rileva come “Fra leggi cornice assai dettagliate, norme specifiche di incerta derogabilità, norme giustificate da interessi nazionali, da esigenze di coordinamento, da esigenze di programmazione nazionale, o semplicemente dall’esigenza di far fronte a situazioni che si affermano eccezionali, straordinarie o di emergenza, sembra sempre più difficile individuare ambiti relativamente garantiti della potestà legislativa regionale concorrente, che va sempre più assomigliando ad una potestà normativa di semplice attuazione.” (p. 37).
D’altro canto, è anche necessario ammettere che le Regioni dimostravano scarso interesse nel promuovere e difendere i propri ambiti di competenza avallando di fatto il consolidarsi di un sistema legislativo e amministrativo che ne comprimeva il ruolo istituzionale.
La politicità del controllo è stata peraltro esasperata tutte le volte in cui il Governo, di fronte a leggi regionali sostanzialmente identiche, ne rinviava e successivamente impugnava solo alcune a seconda della consonanza o meno con la parte politica di cui esse erano espressione. Il carattere politico della procedura in esame non risiedeva pertanto solo nei rilievi fatti valere in sede di rinvio ma anche nelle valutazioni alla base della decisione di far valere o meno quei rilievi. Le disparità di trattamento poste in essere dal Governo ogni qual volta aveva censurato soluzioni adottate da alcune Regioni, che invece erano state lasciate correre a vantaggio di altre, rendevano sempre più difficile scorgere nel controllo preliminare di legittimità quell’istituto posto a tutela del sistema complessivo autonomistico, in cui il Governo sarebbe dovuto apparire innanzitutto nella sua dimensione di organo preposto alla cura degli interessi generali dell’ordinamento.
Questo processo di disancoraggio dalla Costituzione ha avuto modo di manifestarsi in forme eclatanti ad esempio nel caso di tutte le leggi regionali adottate in violazione del principio per cui le funzioni amministrative avrebbero dovuto essere esercitate delegandole agli enti locali e, invece, mai fatte oggetto di rinvio171. Nella stessa direzione anche i casi in cui, a proposito del rinvio di disposizioni di rifinanziamento di leggi già in vigore, il Governo aveva dichiarato espressamente che non ricorrevano più le ragioni che precedentemente avevano giustificato un atteggiamento più benevolo, così da ritenersi costretto a dover negare l’ulteriore corso al rifinanziamento di disposizioni in altre occasioni approvate172. Quest’uso strategico e politico del rinvio rivelava la mancanza di un filo conduttore nelle scelte operate dal Governo, rendendo difficile l’individuazione di un disegno unitario volto alla tutela delle competenze costituzionalmente previste173; difficoltà che non restava confinata soltanto alla fase del rinvio ma travolgeva anche la fase del ricorso.
171 X. XXXXXXXXXX, Controllo sulle leggi regionali, cit., p. 32.
000 X. XXXXXXX, Xx controllo governativo sulle leggi regionali, cit., p. 22.
173 Ibidem.
In conclusione, il carattere politico del controllo, indissolubilmente legato alla natura dell’istituto stesso, era venuto in rilievo oltre i limiti del consentito e necessitava di essere ricondotto entro una cornice più attentamente definita. Certamente la scelta dei Costituenti di non irrigidire eccessivamente il quadro dei rapporti tra centro e periferia era stata dettata dall’intento di garantire la flessibilità necessaria ad un ordinamento che, per la prima volta, si apprestava all’esperienza regionale e che necessitava dunque della giusta capacità di adattarsi alle esigenze che solo la realtà fattuale avrebbe rivelato. La flessibilità, per poter funzionare all’interno di un sistema strutturato su più livelli, richiede che le due parti possano validamente confrontarsi tra loro; ma nell’ ordinamento italiano questo confronto non aveva potuto realizzarsi effettivamente a causa dell’involuzione subita dalla nostra esperienza regionale, in cui gli spazi lasciati vuoti dal legislatore costituzionale erano stati colmati con interventi a danno della capacità delle Regioni di esprimere la propria legittimazione politica nel contraddittorio con il Governo174.
Con grande realismo, già a partire dagli anni ’80 si rilevava come “la dissoluzione dei parametri di controllo, la contrattualizzazione del suo esercizio, la causalità degli esiti conseguenti esprimono compressivamente la realtà di un controllo che non è più tale ma che si muove tra discrezionalità politica e fiscalismo burocratico”175.
1.9. Verso una riforma: l’evoluzione degli anni ’90 e la prassi c.d. “Bassanini”
I deludenti risultati cui aveva condotto l’istituto del riesame nell’esperienza concreta portarono alle prime richieste di un intervento nel sistema volto a ricondurre a razionalità quel procedimento di controllo che nei fatti si era rivelato totalmente squilibrato e molto poco garantista nei confronti delle autonomie territoriali del nostro regionalismo. In particolare, si faceva sempre più pressante l’esigenza di porre un argine ai rischi che potevano derivare dalla prassi della “contrattazione”, specialmente quelli connessi al verificarsi di accordi tra Stato e Regione basati su meri scambi di utilità e pertanto in netta
174 Cfr. E. XXXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali, cit., pp. 90-91.
175 G. PASTORI, op. ult. cit., p. 783.
rottura con la tradizionale concezione di un controllo statale teso a garantire il rispetto della legalità costituzionale176.
Il primo tentativo di modifica risale al 1995, quando il Ministro della funzione pubblica e degli affari regionali Xxxxxx Xxxxxxxx, con una circolare interna177, tentò di ampliare le funzioni e il peso del Commissario di Governo, relegato fino a quel momento ad un ruolo puramente tecnico di trasmissione di atti, raccolta di notizie e di “tramite per l’esecuzione dell’obbligo di reciproca informazione nei rapporti con le autorità regionali”. Si stabilì che questi dovesse trasmettere al Dipartimento per gli Affari regionali la delibera approvata dal Consiglio regionale nel termine non più di cinque ma di sette giorni, allegando una scheda illustrativa contenente osservazioni circa i possibili vizi di legittimità costituzionale. Nonostante il tentativo di valorizzare la figura del Commissario, numerosi progetti di riforma in sede di Commissione bicamerale ne auspicavano invece il ridimensionamento, se non addirittura la soppressione attraverso l’abrogazione dell’art. 124 Cost.178. Si profilava così all’orizzonte il definitivo superamento del rinvio governativo con richiesta di riesame, che si sarebbe realizzato solo qualche anno più tardi con l’approvazione della legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001.
Sulla strada verso la riforma si collocano le novità introdotte sotto il primo Governo Xxxxx (1996 - 1998) dall’allora Ministro per gli affari regionali Xxxxxx Xxxxxxxxx nel tentativo di procedimentalizzare e rendere più formali e trasparenti le trattative condotte dagli esecutivi statale e regionale “al fine di stabilire […] elementi minimi di certezza e di omogeneità nella soluzione di situazioni analoghe” e di porre un freno alle “violazioni anche gravi della legalità costituzionale”179.
Si trattava di rispondere alle richieste di razionalizzare un sistema in cui il confronto politico, benché benefico ai fini di una maggiore elasticità e duttilità, necessitava di essere inquadrato all’interno di una cornice meglio definita che ne temperasse gli elementi di imprevedibilità180.
176 Cfr. F. DAL CANTO, Il controllo delle leggi regionali secondo la prassi introdotta dal Governo Xxxxx, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, Xxxxxxxxxxxx, 1998, p. 451.
177 V. Circolare del Ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali n. 22 del 27 novembre 1995 in
G.U. 17 gennaio 1996, n. 13.
178 Cfr. F. DAL CANTO, op. ult. cit., p. 455, in particolare v. nota 29.
179 Così E. XXXXX, La legge controllata, cit., p. 92.
180 Così X. XXXXXXXXXX, op. ult. cit., p.40.
In occasione di una seduta della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome del luglio 1996, il Ministro Xxxxxxxxx presentò una direttiva interna con cui sottolineava l’importanza di coinvolgere le Regioni nel procedimento di controllo governativo ex art. 127 Cost. e descriveva analiticamente i passaggi procedurali e i limiti temporali cui questo doveva essere sottoposto, in un’ottica più autenticamente collaborativa.
Il procedimento di rinvio veniva così suddiviso, secondo un’efficace elaborazione dottrinale181, in cinque fasi: nella prima fase, il Commissario del Governo riceveva entro cinque giorni dal Consiglio la delibera legislativa approvata e la trasmetteva non solo al Dipartimento per gli Affari regionali ma anche ai Ministeri dell’Interno, del Tesoro, delle Finanze e del Ministero allora vigente del Bilancio. Il coinvolgimento di queste strutture ministeriali nel procedimento di controllo non era, in verità, una innovazione pensata dal Ministro Xxxxxxxxx ma una prassi già affermatasi agli inizi degli anni settanta che la direttiva in esame si proponeva di istituzionalizzare e di rendere pubblica182.
Nella seconda fase, il Dipartimento per gli Affari regionali coinvolgeva i Ministeri ora citati affinché essi potessero intervenire attivamente, presentando osservazioni sul testo legislativo sottoposto al loro esame ed esprimendo pareri sul provvedimento da adottare (visto o rinvio). In questo momento doveva compiersi la vera e propria attività istruttoria da parte del Dipartimento, che doveva concludersi entro quindici giorni dal ricevimento della delibera.
Rappresentava la vera novità nel sistema la terza fase del procedimento che consentiva alle Regioni, dal sedicesimo al ventesimo giorno, di richiedere informazioni sullo stato dell’istruttoria e di presentare memorie per illustrare le ragioni sottostanti alle scelte operate con la delibera in esame. In questo modo, la Regione poteva conoscere e reagire alle eventuali censure mosse durante la fase dell’istruttoria presso il Dipartimento: si instaurava così un dialogo formalizzato tra le istituzioni centrali e periferiche che, diversamente dal passato, non si sarebbe più svolto in via informale ed ufficiosa, ma era destinato a lasciare tracce visibili grazie agli atti prodotti in questa fase. La
181 Cfr. F. DAL CANTO, op. ult. cit., pp. 448- 449.
182 Cfr. S. CALZOLAIO, La delibera governativa di impugnazione delle leggi nella prassi, cit., p. 338, nota n. 11.
“contrattazione” tra funzionari burocratici avrebbe dunque dovuto lasciare spazio al “contraddittorio” tra istituzioni costituzionalmente garantite183.
Si voleva dunque superare la “politicità” che aveva dominato la prassi dei rinvii per tutti gli anni ’70-’80 e riportare l’attenzione sul carattere giuridico del controllo. Vi era chi ricordava come tale “giuridicità” derivasse direttamente dall’interpretazione letterale dell’art. 127 Cost. secondo cui “il Governo, quando ritenga che una legge ecceda la competenza della Regione […] la rinvia”; il rinvio dunque non poteva più rappresentare il frutto di una scelta discrezionale del Governo ma sostanzialmente un atto dovuto184.
La quarta fase si apriva al termine dell’istruttoria quando, alla luce delle memorie presentate dalla Regione, il Dipartimento inviava nei due giorni successivi una relazione al Consiglio dei Ministri in cui esponeva le proprie ragioni e proponeva l’apposizione del visto ovvero, in presenza di vizi di legittimità costituzionale, il rinvio al Consiglio regionale. A prescindere dal contenuto della relazione, sia che il Dipartimento avesse optato per il rinvio, sia che avesse proposto di vistare il testo legislativo, questo veniva esaminato nella penultima seduta utile del Consiglio dei Ministri e, in caso di difficoltà a raggiungere una decisione sul punto, si predisponeva un supplemento di istruttoria con un nuovo coinvolgimento del Dipartimento Affari regionali, di Ministeri e degli uffici regionali.
Dunque, anche attraverso quest’ultima fase eventuale, si intendeva promuovere un’effettiva concertazione tra Stato e Regione, nel tentativo di riavvicinarsi allo spirito che aveva animato i Costituenti quando concepirono il coinvolgimento del Governo nel procedimento legislativo regionale come un momento di incontro e di collaborazione tra i due enti. La previsione esplicita che la delibera regionale dovesse essere trasmessa al Consiglio dei Ministri (e non solo all’ufficio della Presidenza del Consiglio) rappresentava la reazione a quella prassi distorta per cui il Consiglio aveva perso ogni reale potere decisionale e si limitava a ratificare ex post l’operato della Presidenza.
Gli stessi segmenti procedurali dovevano essere seguiti anche per l’eventuale decisione
di impugnare la delibera che il Consiglio regionale avesse riapprovato a maggioranza
183 Così F. DAL CANTO, op. ult. cit., p. 453.
184 Cfr. X. XXXXXXX, Così è se vi pare. La “novità” della legge regionale (riapprovata) secondo la Corte
costituzionale, in Riv. Trim. dir. pubbl., pp. 113-114.
assoluta nel medesimo testo: in questo caso, dato il termine ristretto di quindici giorni
per l’impugnazione, tutti i termini avrebbero dovuto essere dimezzati185.
Appare dunque significativo l’apporto del Ministro Xxxxxxxxx ai fini di una razionalizzazione del sistema delineato dall’art. 127 Cost., e sintomatica in tal senso è senz’altro l’esposizione del disegno descritto in seno alla Conferenza Permanente che decretava di fatto coinvolto il coinvolgimento di tale organo nelle decisioni governative inerenti ai rapporti Stato-Regione. Il Ministro stesso in quell’occasione aveva anticipato che si sarebbero svolte in futuro apposite sedute della Conferenza per definire meglio l’applicazione concreta di questa prassi. Più in generale l’intento di Xxxxxxxxx era quello di potenziare e permettere aree maggiori di intervento per la Conferenza : la comunicazione del luglio del ’96 si collocava, infatti, nella più ampia traiettoria degli obiettivi del Governo Xxxxx, che culminò con l’entrata in vigore della legge n. 59 del 1997 (non a caso la legge è meglio nota come “Legge Xxxxxxxxx”) con cui si posero le basi per un’effettiva razionalizzazione dei rapporti tra Stato e autonomie e, più in particolare, per un ripensamento del ruolo della Conferenza186.
Il maggiore pregio della prassi introdotta dal Ministro Xxxxxxxxx era stato quello di portare allo scoperto e rendere ufficiale un segmento della contrattazione, offrendo alle Regioni la possibilità di presentare memorie scritte e stabilendo regole precise che garantissero la trasparenza e la pubblicità degli atti. In questo modo, grazie alla documentazione scritta e formale, si sarebbero ridotte le probabilità che il contenuto dell’accordo raggiunto venisse disatteso e ribaltato in sede di esecuzione, così da offrire maggiori garanzie procedurali alla parte tradizionalmente più debole, le Regioni.
Tali previsioni però, incentrandosi solo sulla fase dell’istruttoria precedente al rinvio, mancavano di portare alla luce altri momenti della contrattazione, ugualmente importanti nel raggiungimento di un accordo tra le parti; i membri della Giunta, infatti,
185 Cfr. F. DAL CANTO, op. ult. cit., p. 449, nota n. 7.
186 Si veda infatti l’art. 9, l. n. 59/1997, in cui si legge: “Il Governo è delegato ad emanare, […] un decreto legislativo volto a definire ed ampliare le attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano […]. Nell’emanazione del decreto legislativo il Governo si atterrà ai seguenti principi e criteri direttivi: a) potenziamento dei poteri e delle funzioni della Conferenza, prevedendo la partecipazione della medesima a tutti i processi decisionali di interesse regionale interregionale e infra regionale almeno a livello di attività consultiva obbligatoria; b) semplificazione delle procedure di raccordo tra Stato e Regioni attraverso la concentrazione in capo alla Conferenza di tutte le attribuzioni relative rapporti fra Stato e Regioni”.
erano soliti instaurare una fitta rete di contatti del tutto ufficiosi con il Dipartimento Affari regionali fin dalla stesura della prima bozza di legge. Specialmente nel caso di leggi particolarmente complesse o dal contenuto controverso la Regione si rivolgeva all’organo centrale per ottenere pareri preventivi e chiarimenti per orientare la Giunta stessa nella redazione della proposta di legge da presentare in Consiglio dei Ministri e di tali contatti non vi era alcuna traccia visibile, nessun documento formale che ne costituisse una prova. Si è precedentemente accennato che, in caso di difficoltà a raggiungere un accordo, nella penultima seduta del Consiglio dei Ministri era prevista la possibilità di un ulteriore momento concertativo per integrare l’istruttoria e dipanare eventuali dubbi. Anche in questo caso la Regione poteva inviare memorie e fornire chiarimenti, e anche in questo caso i contatti ufficiosi erano spesso ben più numerosi ed intensi dei contatti ufficiali, data anche la necessità di concludere l’istruttoria in tempi brevi; generalmente, infatti, la seduta del Consiglio dei Ministri avveniva intorno al 23esimo giorno dall’apertura del procedimento quando, stante il termine perentorio per vistare o rinviare le leggi, si era prossimi allo spirare del termine. Nel caso poi in cui non si volesse rinviare ma impugnare la delibera regionale il tempo disponibile era ancora minore, dato il dimezzamento dei termini previsti.
Anche dopo la delibera governativa di rinvio della legge regionale permanevano spazi per i contatti tra Governo e Regione, anche in questo caso informali e sui quali si riproponevano i medesimi problemi del passato; in particolare, residuavano ampi margini di “politicità” per il Governo, che continuava ad esercitare forti pressioni sul Consiglio regionale in ordine al contenuto delle delibere legislative. Residuavano infine i dubbi di ordine generale sulla legittimità costituzionale di questa xxxxxx000 , dubbi che, come si vedrà, persistono anche oggi, a quindici anni dalla riforma che nel 2001 ha soppresso l’istituto del controllo governativo preventivo.
In conclusione, la Xxxxxx Xxxxxxxxx ha avuto certamente il pregio di voler portare a galla parte del continente sommerso della “contrattazione” tra Stato e Regioni; tuttavia, in ragione di delle problematiche ora ricordate e della constatazione che non sempre la procedura d’istruttoria sfociava negli esiti sperati, non si esaurirono le istanze di una razionalizzazione del procedimento necessaria per porre fine alla perdurante incertezza
187 Cfr. E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali, cit., p. 123.
e opacità nei rapporti tra centro e periferia, una razionalizzazione che si auspicava sarebbe venuta attraverso una specificazione dei contenuti dell’art. 127 Cost. a mezzo di una legge ordinaria o di un regolamento governativo188.
In realtà era opinione diffusa che tale articolo, più che “spiegato”, andasse riformulato, dal momento che il controllo preventivo aveva generato effetti troppo penalizzanti per l’autonomia delle Regioni, essendosi rivelato in via d’applicazione uno dei principali fattori di distorsione dei rapporti con lo Stato.
Pertanto, proprio negli anni in cui si cercava di dare al controllo statale sulle leggi regionali una veste più formale e istituzionale, in sede di Commissione bicamerale iniziavano a profilarsi i primi ambiziosi progetti di riforma della Costituzione189 che, per gli aspetti che qui interessano, prevedevano la soppressione del Commissario del Governo ex art. 124 e l’abolizione dell’istituto del rinvio, tramite l’abrogazione dei commi 3 e 4 dell’art. 127; si collocava in questa direzione il “Progetto Amato” che avrebbe poi ispirato la riforma del 2001.
Appare infine opportuno ricordare che, nonostante fosse evidente che il sistema di controllo sulla legislazione regionale, come concepito dai Costituenti, non avesse dato buona prova di sé, si prospettavano alcune riserve già prima dell’entrata in vigore della riforma che avrebbe poi, almeno formalmente, equiparato le posizioni istituzionali di Stato e Regioni. Il progetto di riforma, sebbene molto innovativo per alcuni aspetti, rimaneva di fatto ancora legato all’idea di un regionalismo basato più su una rigida separazione fra centro ed enti periferici che su una proficua collaborazione tra Stato e Regione, restando in ciò ancorato all’impostazione di fondo del testo originario della Costituzione. Poco prima che la riforma venisse approvata ci si interrogava su come sarebbe potuto evolvere il rapporto tra i due enti una volta che, superato il meccanismo del controllo preventivo, sarebbe rimasto solo lo strumento dell’impugnativa; in particolare, non senza una certa lungimiranza, si prevedeva che “ se lo Stato è concepito come una figura paternalistica di tutore dell’ordinamento in genere e degli enti locali in particolare, è chiaro che il contenzioso con le Regioni resterà elevatissimo. La previsione
188 Sul tema in particolare E. ROSSI, La legge controllata, cit. p. 79, nota n. 57.
189 Cfr. X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. OLIVETTi (a cura di), Commentario alla Costituzione, p. 2507-2508.
del controllo solo successivo rischia perciò di trasformarsi in un fattore di forte instabilità
dell’ordinamento, di sistematica precarietà delle leggi regionali”190.
190 Così R. BIN, Grandi riforme, piccole virtù, in Le istituzioni del federalismo, 1999, pp. 251-253.
Capitolo ii
LA RIFORMA del TITOLO V E L’ESPLOSIONE DEL CONTENZIOSO STATO- REGIONI. DATI E TENDENZE DEL GIUDIZIO DI COSTITUZIONALITA’ CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL’INCIDENZA DELLE PRONUNCE DI ESTINZIONE DEL GIUDIZIO E DI CESSAZIONE DELLA MATERIA DEL CONTENDERE
SOMMARIO: 2.1. Il nuovo art. 127 Cost. e le sue ripercussioni sul giudizio in via principale – 2.2 Il regime dei vizi denunciabili: il perdurare dell’asimmetria tra Stato e Regioni. - 2.3 L’esplosione del contenzioso in via principale all’indomani della riforma del 2001 - 2.4 L’andamento del contenzioso - 2.4.1 La “riscrittura del Titolo V”: la giurisprudenza costituzionale del triennio 2002-2005 - 2.4.2 Profili quantitativi del contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni nel periodo 2006-2014 - 2.4.3 segue… I casi di estinzione per rinuncia e di cessazione della materia del contendere - 2.4.4 La giurisprudenza costituzionale del biennio 2015-2016 - 2.5 Il definitivo venir meno della c.d. “promulgazione parziale” delle leggi siciliane - 2.6 Le ulteriori tecniche decisorie cui ricorre la Corte in caso di ius superveniens. Spazi per interventi di “manutenzione straordinaria” alla struttura del giudizio in xxx xxxxxxxxxx
0.0. Il nuovo art. 127 Cost. e le sue ripercussioni sul giudizio in via principale
Alla vigilia della riforma del Titolo V, i deludenti risultati cui aveva condotto il controllo preventivo governativo facevano ragionevolmente presumere che per questo istituto ormai “le campane suonassero a morto”191. Le modalità con cui era venuto concretamente sviluppandosi il controllo di legittimità delle leggi regionali ne avevano determinato l’involuzione da strumento di verifica del rispetto della Costituzione a mezzo principale con cui condizionare l’autonomia regionale192, al punto tale da essere definito come “un sistema di controllo astruso, caratterizzato da insanabili contraddizioni ed estremamente penalizzante per le Regioni”193. Era evidente che una riforma in senso federalista dello Stato italiano non potesse tollerare un’intromissione del potere centrale così penetrante nella vita delle autonomie territoriali.
191 L’espressione è efficacemente utilizzata da E. XXXXXXXXXXXXX, Il controllo governativo sulle leggi regionali. Profili procedimentali, cit., I dell’Introduzione.
192 Ibidem.
193 X. XXXXXXX, Il procedimento di controllo delle leggi regionali tra vecchia e nuova normativa costituzionale, in Riv. giur. scuola, 2002, p.9.
Il “controllo mediante richiesta di riesame”, pur avendo dalla sua il pregio di promuovere la collaborazione tra i due livelli di governo, statale e regionale, rappresentava il simbolo di un regionalismo debole che, se comprensibile e desiderabile nel 1947, sia per la scarsa familiarità dei Costituenti con uno Stato decentrato sia perché il Titolo V fu il risultato del delicato equilibrio raggiunto fra le forze politiche presenti in Assemblea, cessava di esserlo di fronte alle imprescindibili esigenze di rinnovamento del nostro sistema.
Appariva dunque inevitabile che, verso la fine degli anni ‘90, diversi progetti di riforma avessero di mira l’eliminazione del carattere preventivo del ricorso. Dopo il fallimento del progetto approvato dalla Commissione per le riforme istituzionali della XI legislatura (Commissione De Mita- Iotti), presentato alle Camere nel gennaio del 1994, che comunque manteneva intatto il carattere preventivo del ricorso governativo, il nuovo progetto di riforma costituzionale approvato nel 1997 dalla Commissione bicamerale presieduta dall’on. D’Xxxxx sembrava rispondere alle sentite esigenze di rinnovamento. Secondo questo progetto di legge, infatti, il ricorso statale doveva essere esperito entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge regionale e, allo stesso modo, il ricorso regionale doveva essere proposto entro lo stesso termine dalla pubblicazione della legge statale194. Fallito anche il tentativo di riforma della l. cost. n. 1/1997, a causa del venir meno del necessario sostegno politico, la soppressione del carattere preventivo del ricorso statale venne definitivamente realizzata con la legge costituzionale n. 3 del 2001. Finalmente la riforma costituzionale, concepita in risposta alle istanze federaliste che da alcuni anni dominavano il panorama politico italiano, interveniva a correggere uno dei più profondi squilibri del nostro sistema costituzionale per ridare dignità all’autonomia delle entità regionali, fino ad allora fortemente compressa dal volere statale.
Si è già avuto modo di ricordare come la riforma del 2001 abbia determinato, sulla scia del principio di equi-ordinazione tra le diverse componenti territoriali della Repubblica di cui al novellato art. 114 Cost., il venir meno del ruolo “tutorio”195 tradizionalmente esercitato dallo Stato nei confronti delle Regioni. È soprattutto con la modifica dell’art. 127 che la legge cost. n. 3 del 2001 ha decretato, almeno formalmente, il superamento
194 X. XXXXXXXX, La giustizia costituzionale, in X. XXXXXXXX, X. X. FERRARI, G.G. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXX (a
cura di), La Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, Cedam, 1998, 418 e ss.; X. XXXXXX,
Federalismo, regionalismo e sussidiarietà, Giappichelli, 2009, 49-50.
195 A. D’ATENA, Le Regioni dopo il big bang, cit., p.15
del ruolo di “polizia costituzionale”196 fino ad allora esercitato dal Governo: tant’è che in occasione della prima pronuncia sul novellato Titolo V (sent. 282/2002) la Corte costituzionale ha significativamente rilevato che “finalmente (…) una legge regionale viene presa sul serio, cioè trattata come una vera fonte primaria, in diretto contatto con la Costituzione, e non come un atto sotto tutela, il cui rapporto con la Costituzione debba essere sempre e comunque mediato dall’interposizione della legislazione statale”. Ciò, tra l’altro, era già stato evidenziato dall’espressa sottoposizione della potestà legislativa statale e regionale a limiti comuni previsti dal nuovo art. 117 comma 1.
La nuova formulazione dell’art. 127 Cost. ha innovato profondamente il regime dei giudizi in via d’azione con l’intento dichiarato di superare la disparità di trattamento tra lo Stato e le Regioni in ordine all’impugnazione delle leggi davanti alla Corte costituzionale, al fine di riequilibrare, anche sotto questo importante profilo, la posizione tra i due livelli territoriali di Governo. È stata inoltre eliminata la possibilità di un controllo di merito esperibile dal Governo davanti alle Camere nel caso di contrasto della delibera regionale con gli interessi nazionali (strumento che peraltro non è mai stato concretamente attivato), riconducendo così i possibili contrasti tra lo Stato e le Regioni esclusivamente al piano della legittimità costituzionale.
I ricorsi di legittimità, oggi, sono sono disciplinati entrambi all’interno del medesimo art.
127 della Costituzione (potendosi implicitamente ritenere abrogato l’art. 2 l. cost. 1/1948): sia l’impugnazione statale di una legge regionale sia il ricorso della Regione avverso una legge dello Stato o di un’altra Regione possono aver luogo solo entro sessanta giorni dalla pubblicazione dell’atto, secondo un meccanismo di controllo successivo, certamente più attento alle istanze di autonomia e dunque coerente con l’intento di introdurre nel nostro ordinamento elementi tipici delle forme di Stato federali.
L’equiparazione tra Stato e Regioni (riguardo al profilo cronologico del ricorso) ha fatto emergere, inoltre, l’esigenza di dotare la Corte costituzionale di un potere di sospensione cautelare della legge impugnata, potere che le è stato riconosciuto con l’art. 9 c. 4 della legge 131/2003. Benché sia evidente che tale norma abbia origine della trasformazione da preventivi a successivi dei ricorsi governativi, essa assoggetta alla possibilità di
196 La celebre espressione risale a G. ZAGREBELSKY, Giustizia costituzionale, Il Mulino, 1988, p. 248.
sospensione anche le leggi dello Stato, al fine di realizzare la tanto agognata “parità delle armi” tra i due enti. Si ricorda infatti come nel precedente regime l’impugnazione regionale non determinasse la sospensione dell’efficacia dell’atto dello Stato, nemmeno nel solo territorio della Regione ricorrente, determinando il paradosso per cui, se la Regione nel frattempo avesse voluto legiferare, avrebbe dovuto rispettare la stessa legge statale impugnata, che, in attesa della pronuncia della Corte, si presumeva costituzionalmente legittima.
La nuova formulazione dell’art. 35 c. 1 della legge 87/1953 ha disciplinato in verità un potere di sospensione attivabile ex officio dalla Corte; tuttavia la portata di questa disposizione, evidentemente in contrasto con la natura dispositiva del giudizio in via principale, è stata ridimensionata dalle nuove Norme Integrative che sembrano considerare le sole ipotesi di sospensione su istanza di parte (art. 21 N.I.). In particolare, la Consulta può sospendere l’efficacia della legge impugnata quando ritenga che dall’esecuzione della stessa possa derivare il rischio di un “irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini”197. Si consideri, ad ogni modo, che ad oggi la Corte non ha mai utilizzato questo istituto preferendo ritenere assorbite le istanze di sospensione nella pronuncia che definisce il giudizio198, così che l’effetto più evidente prodotto dalle istanze in questione è quello di condurre ad un’accelerazione dei tempi del giudizio; in altre parole, la Corte cerca di definire il giudizio il più rapidamente possibile, in modo da prevenire gli effetti di una sospensione dell’efficacia della legge.
2.2. Il regime dei vizi denunciabili: il perdurare dell’asimmetria tra Stato e Regioni.
La volontà del legislatore costituzionale di superare la tradizionale asimmetria nei rapporti tra Stato e Regioni necessitava, per la sua realizzazione, di un intervento sul
197 Così l’art. 35 della legge 87/1953 come novellato dall’art. 9 comma 4 della legge 131/2003.
198 A. PERTICI, Giudizio in via d’azione, in Dig. disc. pubbl., Aggiornamento, Utet., pp. 438-439; Si vedano ad esempio le pronunce nn. 250, 251, 341 del 2009 e 16, 68, 107 del 2010; F. DAL CANTO, E. XXXXX, Il giudizio di costituzionalità delle leggi, in X. XXXXXXX (a cura di) Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2011- 2013), Xxxxxxxxxxxxx, 2014, p.214.
regime dei vizi denunciabili nell’ambito del giudizio in via principale e la legge costituzionale n. 3/2001, in quest’ottica, ha eliminato il riferimento al contrasto con gli “interessi nazionali” tra i motivi di impugnativa statale, riducendo formalmente questi ultimi al solo caso in cui una “legge regionale ecceda la competenza della Regione”; del pari, ha riconosciuto alla Regione una legittimazione ad agire qualora un atto legislativo statale (o di un’altra Regione) “leda” la sua sfera di competenza.
Ad un tale cambiamento terminologico non è corrisposto, tuttavia, un cambiamento di orientamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale che in più occasioni si è espressa nel senso del perdurare della tradizionale asimmetria tra i due livelli di governo con riferimento ai parametri invocabili nell’ambito del giudizio in via d’azione non arrivando a cogliere, nonostante la nuova formulazione testuale lo permettesse, un’importante occasione per giungere finalmente ad un’effettiva parificazione tra Stato e Regioni; parificazione che avrebbe potuto produrre effetti rilevanti sul significato complessivo dei giudizi in via principale della cui connotazione ambigua si è già avuto modo di discorrere. Difatti, attraverso un’ equiparazione verso l’alto, ai due enti sarebbe stato concesso di far valere qualunque vizio di incostituzionalità con il risultato di esaltare la natura oggettiva dei giudizi in esame come giudizi incentrati sulla costituzionalità sia delle leggi statali che di quelle regionali; sul versante opposto, una parificazione verso il basso, che avesse riconosciuto ad entrambi gli enti la facoltà di invocare unicamente i parametri costituzionali relativi al riparto di competenze, avrebbe valorizzato la dimensione dei giudizi in via d’azione come giudizi sulle attribuzioni legislative, esaltandone l’anima soggettiva di giudizi volti alla tutela del proprio patrimonio di competenze.
Il permanere di una diversificazione del regime dei vizi rilevabili in via principale anche dopo la novella costituzionale è stata valutata positivamente da una parte autorevole, seppur minoritaria, della dottrina199, secondo la quale tale diversificazione si imporrebbe al fine di garantire un equilibrio tra il regime dei controlli di costituzionalità delle leggi statali e regionali. Queste ultime infatti non sono soggette, in sede di promulgazione, al
199 Cfr. X. XXXXXXX, L’assetto dei rapporti tra competenza legislativa statale e regionale, alla luce del nuovo Titolo V della Costituzione: aspetti problematici, in Le Regioni, 2001, p. 1230 ss.; X. XXXXXXX, Le modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione. Premessa, in Foro italiano, 2001, p. 193.
vaglio di legittimità costituzionale cui soggiacciono le leggi statali, cosicché “per questi aspetti la garanzia di rigidità della Costituzione sarebbe interamente rimessa all’eventuale attivazione di un procedimento in via incidentale”200. Dunque, soltanto attraverso un’estensione in via interpretativa dei parametri invocabili nei ricorsi statali si sarebbe potuto ovviare, secondo questa corrente dottrinale, a tale “diversità di regime”201. Tuttavia, è soltanto con la nota sentenza n. 274/2003202 che la differenziazione dei vizi da far valere si è affermata nel diritto vivente. In quell’occasione la Corte costituzionale ha per la prima volta preso posizione su questo tema e, ponendosi in continuità con il passato, si è espressa a sostegno del mantenimento in capo allo Stato del potere di denunciare la violazione da parte della legislazione regionale di qualsiasi norma costituzionale, sottolineando al contempo che per le Regioni permane la possibilità di ricorrere solo a difesa della propria sfera di competenza; ciò nonostante l’intervenuto rovesciamento del criterio di ripartizione delle competenze che, facendo delle Regioni l’ente a competenza residuale generale, avrebbe addirittura potuto fondare l’accoglimento della soluzione opposta. Risulta così confermato l’orientamento consolidatosi prima della riforma del 2001 secondo cui l’interesse delle Regioni ad agire in giudizio è legato esclusivamente alla finalità di ripristinare l’integrità delle proprie competenze lese da atti legislativi statali.
A giustificazione del mantenimento in capo allo Stato della precedente condizione di favor, la Corte ha citato la “ripetuta evocazione di un’istanza unitaria” che vede nel ruolo di garante proprio lo Stato, richiamando a tal fine gli artt. 5, 117 comma 1 e 120 comma 2 della Cost.203. Su questa base, la Consulta ha dunque stabilito che “pur dopo la riforma, lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la violazione di
200 Così X. XXXXXXX, op. ult. cit., 1231.
201 Ibidem.
202 Più recentemente ripresa dalla sent. n. 9/2010.
203 Nella sentenza si legge: “E’ decisivo rilevare come, nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti di tutte le potestà legislative (art. 117, c.1) e dal riconoscimento dell’esigenza di tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento stesso (art. 120 c.2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esita un soggetto- lo Stato, appunto- avente il compito di assicurarne il pieno soddisfacimento.”, n. 2 del Considerato in diritto.
qualsiasi parametro costituzionale”204, anche se sul punto si concorda con chi sostiene che, se da un lato è vero che la suddetta istanza necessiti un’estensione dei parametri invocabili dallo Stato, dall’altro la stessa potrebbe parimenti fondare, proprio in funzione di tutela dell’integrità dell’ordinamento, un ampliamento dei parametri invocabili anche delle Regioni205.
La sentenza in esame ha rappresentato inoltre per la Corte l’occasione di pronunciarsi su un’altra delle innovazioni più rilevanti introdotte dalla novella del 2001 ovvero sulla “pari dignità istituzionale” tra Stato ed enti costitutivi della Repubblica, prevista all’art. 114 Cost.. Facendo leva, in particolare, sulla circostanza che solo allo Stato spetta il potere di revisione costituzionale e che Comuni, Città metropolitane e Province non godono di potestà legislativa, la Corte è giunta a ridimensionare la portata potenzialmente rivoluzionaria della nuova norma, sottolineando come alla stessa debba essere riconosciuta solo una finalità puramente descrittiva degli enti che compongono la Repubblica e non invece un valore prescrittivo circa la parificazione degli stessi nel quadro dei rapporti costituzionali206.
La perdurante disparità tra Stato e Regioni è stata comunque temperata sotto diversi profili. Innanzitutto è andato consolidandosi, fin dalla prima applicazione della riforma, l’orientamento, affermatosi già sotto la precedente versione dell’art. 127 Cost., per cui alle Regioni è concesso di denunciare la lesione di norme diverse da quelle del Titolo V purché tale lesione “ridondi” in un una violazione della sfera di competenze loro garantita207, che risulta così “indirettamente” lesa.
Ci si riferisce, in primo luogo, alle ipotesi di ricorsi con cui le Regioni lamentano la lesione delle norme costituzionali relative al sistema delle fonti (in particolare degli artt. 76 e 77 Cost.). In questo ambito la Corte costituzionale, con la sent. n. 216/2008, ha inaugurato un orientamento volto a dare una lettura sufficientemente elastica del concetto di “lesione indiretta”208, secondo cui le Regioni, quando adducono la violazione delle norme
204 Corte cost. sent. 274/2003.
205 Così X. XXXXXXXX, op. ult. cit., p. 19.
206 V. C. XXXXXXX, Politicità e asimmetria nel giudizio in xxx xxxxxxxxxx, xxx., x.000.
207 Cfr. E. ROSSI, Parametro e oggetto nel giudizio in via principale. Riflessi processuali della caotica produzione normativa statale e possibili rimedi, in AA.VV. I Ricorsi in xxx xxxxxxxxxx, xxx., x. 000 x xx; X. XXXXXXXXX, La giustizia costituzionale e il nuovo regionalismo, p. 47 e ss. X. XXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXX (a cura di), Commentario alla Costituzione, pp. 2514 – 2515.
000 X. X. XXXXXX, op. ult. cit., p. 97.
costituzionali concernenti la delegazione legislativa e la decretazione d’urgenza, agiscono, di fatto, a tutela dell’interesse generale “al rispetto dei principi costituzionali sull’attività normativa”, operando su questo fronte un importante ravvicinamento tra il regime dei vizi denunciabili da Stato e Regioni.
In secondo luogo, è stata ammessa in via giurisprudenziale209 la facoltà regionale di ricorrere in giudizio per denunciare lesioni di competenze non proprie, bensì degli enti locali, a cui è preclusa qualsiasi possibilità di accesso alla Corte; un potere, questo, che è stato riconosciuto in ragione della stretta connessione tra competenze locali e regionali e dunque delle possibili ricadute che la disposizione impugnata avrebbe a livello regionale. Sempre al fine di compensare il mancato riconoscimento in capo agli enti locali di strumenti per difendersi davanti alla Corte da eventuali interferenze provenienti dalla legislazione statale, si è ammesso che la Regione, nella veste di “sostituto processuale”210, non debba necessariamente addurre la violazione di proprie attribuzioni legislative, essendo invece sufficiente che sia prospettato un vulnus delle attribuzioni a livello locale211.
In generale, nei casi in cui una Regione lamenti la lesione indiretta delle proprie competenze essa procede all’impugnazione di norme statali che, sebbene conformi ai parametri di cui al Titolo V, sono considerate in violazione di ulteriori parametri costituzionali. In questi casi spetta alla Regione dare conto, nell’atto introduttivo del giudizio, di come la violazione di questi parametri ulteriori si traduca in una lesione indiretta delle proprie competenze e alla Corte valutare la sufficienza della motivazione sulla “ridondanza” e, nel caso di un riscontro positivo, l’effettiva esistenza di una lesione indiretta212.
209 A tal proposito si segnalano in particolare le sent. nn. 196/2004, 417/2005, 169/2007, 159/2008, 298/2009, 220 e 326 del 2013.
210 V. A. XXXXXX, La giurisprudenza costituzionale nel 2005, consultabile all’indirizzo
211 Cfr. E. ROSSI, Parametro e oggetto nel giudizio in via principale, in AA.VV. I ricorsi in via principale, cit., p. 148 e ss.. A questo proposito, nella sent. n. 298/2009 si legge che “le Regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche per la lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla prospettazione della violazione della competenza legislativa regionale”.
212 A questo proposito si segnala che a partire dalla sent. n. 22/2012 la Corte, pronunciandosi sugli emendamenti apposti in sede di conversione dei decreti legge e in grado di stravolgerne il contenuto, ha ammesso che quando il ricorso regionale riguarda le norme sul sistema delle fonti sarebbe sufficiente che l’atto legislativo statale incida su una materia di competenza regionale, così E. XXXXXXXXXXXXX, Undici anni dopo, cit., p. 117.
Rilevata la sensibilità mostrata dalla Corte nel riconoscere la possibilità per le Regioni di far valere nei giudizi in via d’azione vizi diversi da quelli relativi al riparto di competenze, occorre ora segnalare un altro fattore che concorre a colmare il divario tra il regime dei parametri invocabili dalle due parti. Se si osserva infatti la realtà dei ricorsi statali, emerge come nella maggior parte dei casi essi si fondino sulla violazione dei parametri competenziali, mentre l’invocazione di parametri ulteriori rispetto a quelli denunciabili dalle Regioni si limita essenzialmente alla presunta lesione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, cosicché il sindacato di costituzionalità in via d’azione, anche per il fronte statale, sembra avvicinarsi allo schema dei conflitti di attribuzione intersoggettivi, ove, ciascuna parte è legittimata a ricorrere a tutela del proprio patrimonio di attribuzioni213. A ciò si aggiunga un’ulteriore considerazione sul ruolo dello Stato nell’ambito dei giudizi in via d’azione, ruolo che, secondo quanto si legge nella sent. 274/2003, dovrebbe essere quello di garantire, all’interno del sistema, il soddisfacimento della suprema istanza unitaria. Se così fosse davvero, esso, in qualità di tutore della conformità costituzionale dell’ordinamento, dovrebbe attivarsi nei confronti di tutte le leggi regionali sospette di incostituzionalità; mentre per i ricorsi statali valgono le stesse considerazioni precedentemente formulate a proposito dei rinvii, per cui il carattere facoltativo di questi atti ne esalta la natura essenzialmente politica. La scelta di ricorrere o meno poggia, infatti, su valutazioni discrezionali su cui possono influire considerazioni di convenienza politica e pertanto risulta difficile armonizzare la facoltatività del ricorso e la conseguente politicità con la funzione che ad esso si vorrebbe riconoscere di tutore dell’integrità dell’ordinamento costituzionale. Oggi, così come avveniva in passato, rappresenta un’evenienza tutt’altro che remota quella per cui lo Stato impugni la legge di una Regione e non quella, pur di analogo contenuto, di un’altra, lasciando intravedere a monte dello scontro in sede giurisdizionale la contrapposizione fra gli schieramenti politici delle maggioranze al potere nei livelli di governo coinvolti214. A questo proposito occorre
213 Così L. PALADIN, Diritto costituzionale, cit., p. 745 e G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, cit., p. 247 ss..
214 Sul tema V. A. PERTICI, Il confronto politico sulle leggi in via d’azione, in X. XXXXXXXXXX, X. DAL CANTO, E. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. PERTICI (a cura di), Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti, Giappichelli, 2011, p. 65 ss., in particolare par. 3.1 e 3.2; cfr. S. CALZOLAIO, La delibera governativa di impugnazione nella prassi, cit., p. 331 ss.; X. XXXXXXX, Politicità e asimmetria nel giudizio in xxx xxxxxxxxxx, xxx., xx. 00-000.
ricordare quanto affermato dalla Corte in occasione della sent. n. 93/2008 per cui, nell’ambito dei giudizi in via d’azione, non vengono in rilievo motivazioni ulteriori rispetto a quelle rese palesi nella motivazione del ricorso, sia nel caso in cui queste abbiano condotto all’impugnativa sia nel caso in cui abbiano determinato l’inerzia degli esecutivi statale o regionale215.
A conferma di quanto fino a qui rilevato depone il numero crescente di leggi regionali, sfuggite al sindacato in via principale, dichiarate invece invalide a seguito di giudizi di costituzionalità in via incidentale216; giudizi la cui attivazione non dipende da una scelta discrezionale dell’autorità giudiziaria ma rappresenta invece, qualora ne ricorrano le circostanze, un atto dovuto217.
Se è certo che l’asimmetria tra Stato e Regioni continua a caratterizzare i rapporti tra questi due livelli di governo, è dunque altrettanto vero che, dall’angolo visuale del regime dei vizi denunciabili, il distacco non appare, nei fatti, eccessivamente ampio. La soppressione, con la riforma del 2001, della fase del controllo preventivo di legittimità statale e la tendenziale “parità di armi” tra Stato e Regioni hanno confermato il carattere politico del ricorso al giudizio di costituzionalità e, come si vedrà, della rinuncia ad esso218. Si ripropongono per tanto e con maggior vigore alcuni degli schemi tipici del passato, per cui risulta spesso difficile rinvenire nel ricorso statale contro le leggi regionali quell’istituto posto a tutela della legalità costituzionale dell’ordinamento; tali ricorsi
215 In quell’occasione la Corte ha affermato che “nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale […] non è lecito inferire, anche nell’ipotesi di mancata impugnazione da parte del soggetto a ciò legittimato di altri atti aventi lo stesso contenuto, né la rinunzia all’impugnazione di disposizioni legislative analoghe o, addirittura, uguali, né tanto meno, qualsivoglia giudizio in ordine alla loro corrispondenza ai parametri costituzionali”; sul punto v. anche X. XXXXXXX, op. ult. cit., p.96.
216 A titolo d’esempio si ricorda che nell’ambito dei giudizi in via incidentale risolti nel 2014, vi sono state 22 pronunce (18 sentenza e 4 ordinanze) che hanno avuto ad oggetto questioni attinenti al riparto delle competenze fra Stato e Regioni, mentre l’analogo dato dell’anno successivo è di 18 pronunce (10 sentenze e 8 ordinanze). Diversamente, uno dei fattori che nel precedente regime di impugnativa in via principale giustificava il riconoscimento al Governo della facoltà di ricorrere a tutela di qualunque parametro costituzionale era da ricondursi alla inidoneità che di regola le leggi regionali avevano ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive dei privati e dunque ad essere oggetto di un sindacato in via incidentale, sul punto V. A. XXXXXXX, X. XXXXXXX, Lineamenti di giustizia costituzionale, cit., p. 307.
217 Sul punto v. L. PESOLE, op. ult. cit., p. 100; analogamente X. XXXXXXXX, La “manutenzione” del giudizio in via principale, cit., pp. 20-21.
218 V. E. XXXXXXXXXXXXX, La rinuncia al ricorso nel giudizio in via principale all’indomani della riforma del Titolo
V. Alcune brevi considerazioni, in Le Regioni, 2002, pp. 1495-1501.
infatti assolvono solo parzialmente alla funzione di garanzia loro affidata e ciò nonostante il Governo abbia la facoltà di rilevare qualsiasi vizio di incostituzionalità219.
2.3. L’esplosione del contenzioso in via principale all’indomani della riforma del 2001
Quello dell’interesse a ricorrere rappresenta solo una delle numerose questioni interpretative generate dalla revisione del 2001 che per anni hanno impegnato i giudici costituzionali nel difficile compito di risolvere le numerose incertezze lasciate scoperte dal legislatore costituzionale, soprattutto in merito al nuovo riparto di competenze.
Rappresenta una scelta comune agli ordinamenti organizzati secondo una struttura federale quella di non dotare le proprie Carte costituzionali di elenchi eccessivamente dettagliati di competenze, ma di lasciare alcuni margini di elasticità per consentire quella giusta dose di flessibilità necessaria a permettere gli opportuni adattamenti a realtà in continua evoluzione quali sono gli ordinamenti. L’incidenza della giurisprudenza costituzionale sul riparto di competenze non rappresenta quindi una specialità tutta italiana ma il “quod plerumque accidit del diritto federale”220. Una premessa, questa, doverosa prima di procedere più dettagliatamente con l’analisi dei dati sullo stato del nostro contenzioso in via principale, in cui l’ingente sforzo dei giudici costituzionali non può essere ricondotto soltanto al “tentativo di far funzionare la riforma costituzionale cercando di supplire, seppur con esiti differenziati da settore a settore, all’inerzia del legislatore nazionale”221.
È opinione condivisa in dottrina che tra le diverse cause della preoccupante esplosione del contenzioso in via principale vi sia stata anche la soppressione dell’istituto del rinvio con richiesta di riesame delle leggi regionali. Si è visto infatti come il rinvio fosse stato concepito dall’Assemblea costituente non solo come uno strumento di controllo con cui l’apparato centrale avrebbe dovuto garantire la tutela dell’unità dell’ordinamento e
219 Cfr. L. PESOLE, op. ult. cit., p. 100.
220 Si veda in proposito X. XXXXXXXXXX, Giustizia costituzionale e federalismo: riflessioni sull’esperienza
italiana, in X. XXXXXXXXX (a cura di), Giustizia costituzionale e “nuovo” regionalismo, cit., p. 20.
221 Cfr. U. DE SIERVO, Il regionalismo italiano fra i limiti della riforma del titolo quinto e la sua mancata attuazione, Seminario su “Cooperazione e competizione tra enti territoriali: modelli comunitari e disegno federale italiano”, Roma 18 giugno 2007, consultabile al sito xxx.xxxxxxx.xxx.xx.
dell’interesse nazionale, ma anche come un congegno volto a promuovere una sorta di “conciliazione” preventiva tra Stato e Regioni al fine di evitare, per quanto possibile, la successiva contestazione davanti alla Corte. Con la parificazione dei termini e delle condizioni dell’impugnazione in via principale, il Governo ha perso – perlomeno sulla carta – la possibilità di svolgere una funzione di “cogestore” nell’iter legislativo regionale; di conseguenza, da un lato, non vi è oggi più alcuna chance di ostacolare l’entrata in vigore di una legge non conforme ai desiderata del potere centrale e, dall’altro, è diventato più arduo giungere ad una definizione pre-contenziosa del conflitto.
Come è stato attentamente rilevato, la fase di dialogo preventivo, pur essendosi rivelata fortemente “riduttiva dell’autonomia decisionale della Regione, costituiva uno strumento efficace nel garantire, anteriormente all’entrata in vigore, la piena legittimità costituzionale dei suoi «prodotti» normativi. Oggi, invece (…) i momenti nel corso dei quali individuare soluzioni stragiudiziali sembrano assottigliarsi, favorendo le condizioni per una potenziale crescita del numero dei giudizi pendenti”222.
Venuta meno la fase della “collaborazione” preventiva, la delicata definizione dei limiti entro cui potesse esplicarsi l’autonomia legislativa regionale è pertanto spettata ai giudici costituzionali che, per la prima volta nella storia del nostro regionalismo, sono stati attivi protagonisti nell’ambito dei giudizi in via principale.
I dati sull’andamento del contenzioso in via d’azione negli ultimi quindici anni testimoniano come la definitiva soppressione del controllo governativo preventivo abbia fatto del giudizio costituzionale l’unica sede istituzionale per un confronto dialettico tra enti sulla produzione legislativa. Spesso infatti le parti ricorrono ad un uso “tattico” e “strategico”223 dell’impugnativa ex art. 127 Cost. con il fine specifico di raggiungere soluzioni di tipo transattivo attraverso la modifica delle leggi impugnate per assecondare il volere ex latere actoris e porre fine alla prosecuzione del giudizio. Lo ius superveniens così generato potrebbe essere il risultato sia di una modifica di una legge regionale che di una legge statale; tuttavia, i dati dimostrano come i rapporti di forza continuino a pendere a favore dello Stato e come gran parte degli emendamenti negoziati riguardino
222 Così X. XXXXXXX, Considerazioni introduttive sul potere di rinvio presidenziale delle leggi regionali e sugli altri possibili istituti compensativi, in Le Regioni, 2005, pp. 104-105.
000 Xx X. XXXXXXXXXXXXX, Xx giudizio in via principale oggi: prevenire è meglio che reprimere. Sì, ma come? in AA. VV., I ricorsi in via principale, cit. p. 12.
leggi regionali. Sembra dunque potersi parlare di una “nuova vita” del rinvio governativo,
o meglio della funzione che esso svolgeva224.
Il drammatico incremento dei conflitti tra Stato e Regioni è stato anche il risultato di fattori “contingenti”225 strettamente connessi al nostro panorama politico e partitico. In particolare, all’interno della nostra forma di Stato regionale può facilmente verificarsi che nelle Giunte si formino delle maggioranze di colore politico diverso rispetto alle maggioranze di governo nazionale e con altrettanta facilità è accaduto che tali tensioni politiche siano sfociate in utilizzi strategici dei ricorsi ex art. 127 Cost.226, andando ad incidere sensibilmente non solo sul numero totale dei ricorsi presentati, ma anche sulla “distribuzione regionale” degli stessi227. Come sopra ricordato228, il giudizio in via d’azione, infatti, è il giudizio in cui maggiormente emerge l’anima politica propria della giustizia costituzionale, dal momento che in questa sede le parti, che sono soggetti politici, si contrappongono direttamente chiedendo alla Corte un giudizio sul significato “astratto” dei rispettivi atti legislativi, impugnati subito dopo la loro approvazione e indipendentemente dalla loro concreta applicazione229.
Si è già detto di come la crisi economica e finanziaria che negli ultimi anni ha colpito duramente il nostro Paese abbia inciso e continui ad incidere in modo significativo sul numero dei ricorsi230; a ciò si deve aggiungere che il notevole incremento delle impugnative in via d’azione ha avuto origine anche dall’evoluzione che le modalità di produzione legislativa hanno subito dal 2001 ad oggi.
224 Cfr. E. XXXXX, Le decisioni di estinzione per rinuncia nell’ultimo decennio di giurisprudenza costituzionale, tra ragioni sostanziali e profili procedurali, in Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. Scritti in onore di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx, Xxxxxx, 2009, p. 1610.
225 X. XXXXXXXX, La “manutenzione” del giudizio in via principale, in X. XXXXXX, X. XXXX, X. XXXXXXXXXX, Atti del Seminario annuale del Gruppo di Pisa sul tema “La «manutenzione» della giustizia costituzionale. Il giudizio sulle leggi in Xxxxxx, Xxxxxx x Xxxxxxx”, Xxxx 00 novembre 2011, Giappichelli, 2012. L’articolo è disponibile anche al sito xxx.xxxxxxxxxxxx.xx.
226 Ivi, p. 8. Sul tema molto attentamente anche A. PERTICI, Il confronto politico sulle leggi in via d’azione, in
X. XXXXXXXXXX, X. DAL CANTO, E. XXXXXXXX, X. XXXXXXX, X. XXXXXXXXX, X. PERTICI (a cura di), Le garanzie giurisdizionali. Il ruolo delle giurisprudenze nell’evoluzione degli ordinamenti, Giappichelli, 2011, p. 65 ss., in particolare par. 3.1 e 3.2; cfr. S. CALZOLAIO, La delibera governativa di impugnazione nella prassi, cit., p. 331 ss.; X. Xxxxxxx, Politicità e asimmetria nel giudizio in via principale, cit., in particolare pp. 87-97.
000 Xxx. X. XXXXX, Xx giudice costituzionale e i conflitti tra legislatori locali e centrali, cit., p. 13.
228 Supra par.2.2.
229 Corte cost. sent. 407/2002; sul punto cfr. V. ONIDA, op. ult. cit., pp. 13-17.
230 Supra Cap.1, par.1; approfonditamente sul tema R. BIN, L’impatto della crisi sulla tutela dei diritti delle Regioni, Intervento alla tavola rotonda del Seminario “L’impatto della crisi sulla tutela dei diritti nelle Regioni. La prospettiva italiana, spagnola ed europea”, Roma, 2014, consultabile all’indirizzo xxx.xxxxxxx.xxx.xx.
La rapidità dell’iter legislativo regionale, il massiccio ricorso alla decretazione d’urgenza e alla delega legislativa, la procedimentalizzazione della funzione legislativa da parte del Governo che consente l’inserimento della rappresentanza degli interessi regionali231, hanno contribuito a rendere alluvionale tanto la produzione legislativa statale che quella regionale. Logicamente, sono divenute maggiori le possibilità di intervenire per correggere le disposizioni prodotte e di conseguenza non solo il numero di impugnazioni delle stesse ma anche le eventualità di una “gestione fai da te” dei ricorsi232.
Se durante i primi decenni del nostro regionalismo il contenzioso tra Stato e Regioni aveva occupato solo marginalmente l’attività della Corte, la riforma del 2001, con i suoi difetti strutturali e di inattuazione, ha messo a dura prova il lavoro dei giudici costituzionali. Ai problemi interpretativi sorti a causa delle numerose disposizioni lacunose ed ambigue sparse nel testo della riforma si sono sommate tutte le criticità dovute all’assenza di interventi integrativi del legislatore ordinario, interventi che sono mancati soprattutto negli anni immediatamente successivi alla revisione. Rappresenta l’emblema di questa grave inattuazione l’art. 119 Cost. in materia di federalismo fiscale ad oggi non ancora realizzato; una mancanza, questa, che ha contraddetto lo spirito stesso della riforma e in particolare la scelta di ampliare gli spazi di intervento delle Regioni.
Parimenti, è rimasta praticamente lettera morta la previsione di cui all’art. 8 comma 6 della legge La Loggia, secondo cui: “Il Governo può promuovere la stipula di intese in sede di Conferenza Stato- Regioni o di Conferenza Unificata, dirette a favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Non solo infatti sono mancati intese legislative e atti concertativi sulla distribuzione dei poteri legislativi ma, più in generale, non si è mai instaurato un effettivo dialogo extragiudiziale tra i due Legislatori, necessario per contemperare le esigenze di unità e di differenziazione233 e per conseguire quell’equilibrio politico che nel nostro ordinamento pare spesso troppo difficile da raggiungere.
Se prima della riforma questa ardua ricerca avveniva, con tutte le problematicità
esaminate nel capitolo precedente, nell’ambito dei controlli preventivi con richiesta di
231 Cfr. A. STERPA, Negoziare le leggi. Quando Stato e Regioni fanno a meno della Corte costituzionale, in
Xxxxxxxxxxx.xx, p.9.
232 Ibidem.
233 Cfr. X. XXXXXXXXXX, Giustizia costituzionale e federalismo, cit., p. 25.
riesame, oggi la sede privilegiata per la composizione dei conflitti è rappresentata dai giudizi in via principale.
Tutto ciò premesso, si vuole ora procedere con l’analisi dell’andamento del contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni emerso a seguito della riforma del 2001, individuandone le caratteristiche principali e gli atteggiamenti delle parti nella proposizione dei ricorsi.
Poiché uno degli intenti alla base del presente contributo è quello di mostrare come sempre più spesso il giudizio venga “gestito” dalle parti processuali, che si accordano sull’esito dello stesso, pare necessario esaminare le diverse tipologie di pronunce adottate dalla Corte e individuare gli strumenti da questa utilizzati al fine di “modulare gli effetti delle proprie decisioni”234, specialmente nei casi di ius superveniens, in cui l’oggetto del processo viene modificato dalle parti a giudizio già instaurato.
Si procederà dapprima all’esame dei dati relativi al periodo immediatamente seguente all’entrata in vigore della riforma, un periodo di grande importanza nella storia della nostra giurisprudenza costituzionale in cui le numerose pronunce della Corte hanno di fatto “riscritto” il Titolo V andando a costituire “una colonna imprescindibile per sostenere l’architrave del nuovo regionalismo”235; la giurisprudenza degli anni successivi è infatti fortemente debitrice nei confronti delle massime e delle tendenze emerse nel primo triennio.
Seguirà poi lo studio dei dati relativi al decennio seguente, dal 2006 fino all’anno in corso, in cui ha acquisito sempre più rilevanza la “contrattazione” fra Stato e Regioni oggetto di questo studio, resa palese dall’incremento di pronunce (soprattutto ordinanze) recanti capi di dispositivo che dichiarano l’estinzione del giudizio o la cessazione della materia del contendere. Si vedrà come nell’ultima relazione sulla giurisprudenza costituzionale, il Presidente Xxxxxx, se da un lato ha potuto constatare un sensibile decremento dei ricorsi, dall’altro ha rimarcato come il numero considerevole di decisioni di estinzione per
234 M. D’AMICO, Il giudizio davanti alla Corte e gli effetti delle decisioni. Sull’uso delle regole processuali da
parte della Corte nel giudizio in via principale, in I ricorsi in xxx xxxxxxxxxx, xxx., x. 000.
000 X. XXXXXXXXX, Gli anni della riscrittura del Titolo V: la Giurisprudenza costituzionale 2002-2005, in X. XXXXXXXXX (a cura di), La giustizia costituzionale e il nuovo regionalismo, cit., p. 32.
rinuncia e di dichiarazioni di cessazione della materia del contendere rappresentino una
vera e propria “disfunzione”236 del nostro sistema.
2.4. L’andamento del contenzioso
2.4.1. La “riscrittura del Titolo V” 237: la giurisprudenza costituzionale del triennio 2002-2005
Gli anni immediatamente successivi alla novella costituzionale hanno rappresentato un punto di svolta nell’attività della Corte, “investita” del compito di dover gestire il delicato periodo di transizione dal vecchio al nuovo sistema e di pronunciarsi sui più controversi punti nevralgici della riforma. Risalgono a questo momento le numerose sentenze manipolative foriere di nuovi criteri e definizioni “creative”238 con cui sono stati forgiati i principi cardine della regolamentazione del rapporto tra enti. Le celebri pronunce prodotte in questi anni hanno tracciato i binari lungo cui si sarebbe in seguito mossa la giurisprudenza degli anni successivi, che spesso poi ha ripreso in maniera “pedagogica e didattica”239 i precedenti sanciti in questa fase di “rodaggio”240.
I primi sforzi dei giudici costituzionali sono stati diretti ad affrontare le numerose questioni di diritto intertemporale che, sorte sotto l’assetto previgente, richiedevano ora di essere compiutamente definite. L’assenza di disposizioni transitorie funzionali “a disciplinare la fase di passaggio […] da procedure accentrate a forme di gestione […] xxxxxxxxxx xxxxx Xxxxxxx”000 ha condotto all’elaborazione del “principio di continuità” per cui “restano in vigore le norme preesistenti, stabilite in conformità al passato quadro costituzionale, fino a quando non vengano sostituite da nuove norme dettate dall’autorità dotata di competenza nel nuovo sistema”242. Proprio sulla continuità si sono
236 P. GROSSI, Relazione del Presidente Xxxxx Xxxxxx, consultabile al sito xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, p.11.
237 X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 31.
238 Si veda in proposito V. XXXXX, Il giudice costituzionale e i conflitti tra legislatori locali e centrali, in La circolazione dei modelli e delle tecniche del giudizio di costituzionalità in Europa, Atti del XXI Convegno annuale svoltosi a Roma il 27 e 28 ottobre 2006, Jovene, 2010, in particolare p. 109.
239 X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 33.
240 X. XXXXXXXXXX, L’attuazione delle regioni di diritto comune e la Corte costituzionale, in Pol. Dir., 1972, p. 668.
241 X. Xxxx. x. 000/0000, x. 0 xxx Xxxxxxxxxxx in diritto.
242 V. Sent. n. 376/2002, p. 4 del Considerato in diritto.
fondate anche le celebri sentenze, la n. 274/2003 e la n. 50/2005, con le quali si è mantenuta l’antica asimmetria tra Stato e Regioni in tema di vizi deducibili e parametri invocabili nel processo in via d’azione.
Risale altresì a questi anni la definizione del principio di sussidiarietà, codificato per la prima volta nella nostra Carta con la riforma del 2001, e utilizzato di fatto per assecondare le perduranti tendenze centripete del nostro sistema. Allo stesso modo, nascono le c.d. “competenze trasversali” e il criterio della “prevalenza”, concepiti al fine di risolvere i dubbi interpretativi sull’effettiva spettanza delle riformate competenze legislative; nodi che sono stati prevalentemente sciolti a vantaggio dello Stato centrale, secondo un orientamento giurisprudenziale volto essenzialmente alla “conservazione dell’esistente”243.
Ma il dato più caratteristico di questa fase è certamente rappresentato dalla crescita esponenziale dei ricorsi in via principale. Come mostrato dal grafico che segue (figura 1), si è passati dai 25 ricorsi proposti nel 2000, ai 43 dell’anno successivo, più che raddoppiati nel 2002, quando hanno iniziato a profilarsi i primi conflitti basati sul nuovo Titolo V. Una crescita, questa, che ha fatto registrare cifre preoccupanti anche nelle annate successive: sono 98 i ricorsi promossi nel 2003, ben 116 nel 2004 e 101 nel 2005244.
243 Così A. ANZON, Il difficile avvio della giurisprudenza costituzionale sul nuovo Titolo V della Costituzione, in
Giur. cost., 2003, p. 7.
244 I dati sono presi dall’analisi di X. XXXXXXXXXX, Profili quantitativi del contenzioso costituzionale, in ISSIRFA- CNR, Quarto rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia, Xxxxxxx, 2007, pp. 123-124.
Ad eccezione del 2003, è lo Stato ad essere ricorso maggiormente all’impugnativa, come ad esempio nel 2005, anno in cui dei 101 ricorsi presentati, ben 77 (quasi l’86%) era di provenienza governativa, mentre i restanti erano frutto dell’azione delle Regioni e delle Province autonome. Certamente ciò deve essere ricondotto, oltre alla disinvoltura nel legiferare dimostrata dai Consigli regionali all’indomani della riforma, all’ovvia considerazione per cui venti Regioni e due Province autonome hanno senz’altro una produzione legislativa quantitativamente superiore a quella dello Stato centrale, dimostratosi ancora restio a riconoscere gli spazi di autonomia legislativa del nuovo legislatore regionale245.
Un’immagine il più fedele possibile del contenzioso di questi anni richiede tuttavia che non si limiti l’indagine al mero conteggio numerico dei ricorsi e delle pronunce, ma piuttosto che ci si riferisca al numero complessivo delle questioni sollevate e ai corrispondenti capi di dispositivo con cui le sentenze della Corte le risolvono. Il ricorso, infatti, può presentarsi come unico ma essere invece “plurimo nel contenuto”246, così che con un unico atto possono essere poste diverse questioni di legittimità. Ad esempio nel 2003 i giudici costituzionali con 93 pronunce hanno risolto più di 200 questioni.
È stato il 2004 a rappresentare l’ annus horribilis dei giudizi in via principale, decretando la fine della “centralità del sindacato incidentale”247 e l’inizio di un trend che ha visto negli anni successivi confermare il peso del contenzioso tra Stato e Regioni nei lavori della Corte. In questo anno, per la prima volta nella storia della nostra giurisprudenza costituzionale, le sentenze emesse nei giudizi in via d’azione hanno superato quelle rese nei giudizi in via incidentale: le sentenze (63) nel 2004 sono state rese nel 37,72% dei casi nel processo in via incidentale, mentre i livelli si attestano intorno al 48,50% per il giudizio in via principale (sono 81 infatti le sentenze emesse e in termini assoluti il numero è destinato ad aumentare con 85 sentenze nel 2005)248; un dato senza dubbio emblematico
245 Cfr. X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 35.
246 V. Sent. n. 201/2003, p. 1 del Considerato in diritto.
247 X. XXXXXXXX, La Corte e i suoi principi. Le proposte di riforma della Corte costituzionale e il modello di giustizia costituzionale italiano, in ID., Forme e soggetti della democrazia pluralista. Considerazioni su continuità e trasformazioni dello stato costituzionale, Xxxxxxxxxxxx, 2000, pp. 231-301.
000 X. X. XXXXX, Xx Xxxxxxxxx costituzionale del 2004, cit. p. 5; X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 37.
delle ricadute che la riforma del 2001 ha prodotto in questo primo periodo di
“assestamento”.
Con specifico riferimento all’oggetto di questo studio, occorre segnalare che nel triennio in esame aumentano significativamente rispetto al passato i casi in cui le parti, nelle more del giudizio, ricercano una soluzione transattiva ed extraprocessuale alla lite, al fine di evitare una pronuncia della Corte sul punto.
Sebbene tale fenomeno rappresenti chiaramente un retaggio del precedente modello di controllo di costituzionalità, sarebbe troppo semplicistico imputare il boom dei ricorsi alla sola abolizione del controllo preventivo di legittimità che, come noto, riguardava soltanto le leggi regionali, dato che ad esempio nel 2004 la maggior parte delle dichiarazioni di cessazione della materia del contendere ha riguardato leggi statali. Di conseguenza, sebbene fosse inevitabile che tale mutamento nel sistema avesse importanti ricadute sull’andamento dei conflitti di competenza, le ragioni della accresciuta litigiosità tra Stato e Regioni debbono essere in primo luogo ricondotte alle innumerevoli incertezze interpretative sorte con la revisione costituzionale.
I dati (figura n. 2) relativi alle ordinanze che estinguono il processo, sia per rinuncia che per cessata materia del contendere, sono comunque molto significativi e confermano come la “contrattazione di legittimità” costituisca un elemento intrinseco dei giudizi di parte249, incardinati sulla disponibilità dell’oggetto del processo250, che trova la sua espressione più tipica nel numero di pronunce (per lo più ordinanze) che estinguono il processo per rinuncia del ricorrente accettata dalla controparte o per dichiarata cessazione della materia del contendere. Alla base di queste ultime in particolare vi è la constatazione dell’avvenuto soddisfacimento delle pretese del ricorrente nel corso del giudizio a seguito dell’intervenuta modificazione della disciplina oggetto di contestazione.
000 Xxx. X. XXXXXXXXXXXXX, Xx giudizio in xxx xxxxxxxxxx xxxx, xxx., x. 00.
000 Xxxxxxxxxxxxxx xxx xxxxx: E. XXXXX, Delle conseguenze del riformarsi dell’arretrato nel giudizio in via principale (e sulle pronunce di cessazione della materia del contendere), in Giur. cost., 2000, p. 1346 ss.; E. XXXXXXXXXXXXX, La rinuncia al ricorso nel giudizio in via principale all’indomani della riforma del Titolo V. Alcune brevi considerazioni, in Giur. cost., 2002, p. 1495 ss.; E. XXXXX, Le decisioni di estinzione per rinuncia nell’ultimo decennio di giurisprudenza costituzionale, cit., pp. 1642 ss.; M. X’XXXXX, Il giudizio davanti alla Corte e gli effetti delle sue decisioni, cit., pp. 191-266.
A questo proposito, i dati analizzati251 indicano la crescita del numero delle pronunce con cui la Corte pone fine al contenzioso dopo aver preso atto della gestione dello stesso avvenuta per opera delle parti attraverso i casi di ius superveniens.
Si rimanda a tra poco l’approfondimento dei diversi tipi di strumenti processuali cui ricorre la Consulta per far fronte a questo tipo di evenienze; basti ora sottolineare come i dati dimostrino che la “contrattazione” tra Stato e Regioni non sia affatto venuta meno con la riforma costituzionale del 2001 ma rappresenti anzi un fenomeno tuttora in atto sebbene dal volto rinnovato.
2.4.2. Profili quantitativi del contenzioso costituzionale tra Stato e Regioni nel periodo 2006-2014
Si vuole intraprendere ora l’analisi dell’andamento del contenzioso in via principale nell’ultimo decennio di attività della Corte, i cui dati di riferimento sono il riflesso delle
251 F. DAL CANTO, E. XXXXX, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in X. XXXXXXX (a cura di),
Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2005-2007), Xxxxxxxxxxxx, 2008, p. 230 ss.; F. DAL CANTO,
E. XXXXX, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in X. XXXXXXX ( a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2002-2004), Xxxxxxxxxxxx, 2005, p. 143 ss.; E. XXXXX, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in X. XXXXXXX, (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1999-2001), Xxxxxxxxxxxx, 2002, p. 143 ss.; A. XXXXXX, Negoziare le leggi, cit., pp. 6-7.
tendenze giurisprudenziali che complessivamente caratterizzano gli anni seguenti alla riforma.
Può dirsi a questo punto archiviata la prima fase di assestamento in cui la Corte ha dovuto imparare ad orientarsi lungo il tracciato della nuova riforma, che, grazie alla legge c.d. La Loggia del 2003, ha finalmente ricevuto una prima attuazione.
I primi anni di questo decennio sono caratterizzati anche da un sensibile calo della conflittualità tra Stato e Regioni, a seguito dell’emanazione nel 2006 di una direttiva interna del Ministro Xxxxxxxxxxx con cui si è promosso il ricorso a “pratiche conciliative” per la prevenzione del contenzioso futuro e la risoluzione - per vie alternative a quella “giudiziale”- di quello in atto252. Sembra dunque che le istituzioni repubblicane abbiano reagito al preoccupante dilagare del contenzioso tra enti successivo alla riforma, facendo ben sperare il ritorno dello stesso entro limiti accettabili. Significative a tal riguardo appaiono le parole del Presidente Xxxx che, nella Conferenza stampa sull’anno 2007, anno in cui si è registrata un’importante diminuzione delle pronunce (infra figure n.5 e n.6), affermava: “Tale notevole diminuzione, da un lato, conferma quanto già rilevato l’altro anno, ossia che - dopo il prevedibile disorientamento seguito ad una riforma come quella del Titolo V parte II della Costituzione intervenuta nel 2001 – tanto lo Stato quanto le Regioni si sono progressivamente adeguate ai principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, in particolare al canone della leale collaborazione. E, dall’altro, dimostra come si sia affermata la tendenza a ricercare la soluzione dei problemi di competenza nella sede propria politico-istituzionale, nella quale essi trovano più appaganti modalità di composizione. La tendenza si è espressa anche dopo la proposizione del giudizio in via principale, con frequenti rinunzie delle parti a seguito della definizione della controversia in altra sede.”253
252 Sul punto si rimanda a Infra cap. 3, par. 3.1.; V. anche S. XXXXXXXXX, Calo del contenzioso e recente prassi introdotta dalla “direttiva” del Ministro per gli Affari regionali: collaborazione, contrattazione o ritorno al controllo preventivo ?, 2007, in xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx, p.3.
253 Conferenza stampa del Presidente Xxxxxx Xxxx sulla giurisprudenza costituzionale del 2007, consultabile al sito xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx.
Purtroppo, nonostante gli auspici e le buone premesse, i dati relativi alle pronunce degli anni successivi254 hanno smentito tali ottimistiche previsioni e hanno invece rinsaldato il peso che il giudizio in via d’azione riveste nell’attività della nostra Corte.
In questo periodo si conferma anche la tendenza delle parti a ricercare una risoluzione “stragiudiziale”- per usare un termine civilistico -255 della controversia così che i ricorsi in via principale assumono sempre più spesso il carattere di “strumento di pressione politica”256 tramite il quale indurre la parte resistente alla modifica della disposizione oggetto di contestazione; un’evenienza, questa, ben testimoniata dall’incremento, nel corso di tutto il decennio qui considerato, delle ipotesi di estinzione per rinuncia e di dichiarazione di cessazione della materia del contendere.
La figura che segue (n.3), offrendo una panoramica generale del quantitativo delle pronunce rese ogni anno dalla Corte costituzionale, costituisce una premessa necessaria per comprendere la reale portata dei fenomeni che ci si propone di analizzare. Successivamente (figura n.4) si riportano i dati percentuali del rapporto tra pronunce rese nei giudizi in via principale e il totale delle decisioni emesse dalla Corte. Occorre comunque segnalare che in questo periodo diverse questioni a rilevanza regionale vengono trattate anche nei giudizi in via incidentale: ad esempio, nel 2014 in questo ambito vi sono state 22 pronunce (18 sentenza e 4 ordinanze) che hanno avuto ad oggetto questioni attinenti al riparto delle competenze fra Stato e Regioni257. Esse hanno dato luogo a un totale di 32 capi di dispositivo, di cui 29 aventi ad oggetto normative regionali e 3 che hanno pronunciato su disposizioni statali.
254 I dati e i grafici relativi al quinquennio 2006-2010 sono stati elaborati anno per anno dall’Istituto ISSIRFA- Istituto di studi sui sistemi regionali federali e sulle autonomie, consultabili all’indirizzo web xxx.xxxxxxx.xxx.xx, o altrimenti disponibili in forma cartacea in X. XXXXXXXXX, X. XXXXXXXXX (a cura di), La giustizia costituzionale e il “nuovo” regionalismo, vol. II, Xxxxxxx. Per gli anni successivi fino al 2014: X. XXXXXXXXX, La giurisprudenza costituzionale a rilevanza regionale 2014, in xxx.xxxxxxx.xxx.xx; ; parimenti PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, DIPARTIMENTO PER GLI AFFARI REGIONALI, IL TURISMO E LO SPORT, UFFICIO II, La
giurisprudenza della Corte costituzionale nei giudizi promossi dal Governo ai sensi dell’art. 127 della Costituzione, Anni 2009-2012, al sito xxx.xxxxxxx.xxx.xx; SERVIZIO STUDI, CORTE COSTITUZIONALE, Analisi del contenzioso Stato/Regioni anni 2011- 2015(I e II trimestre), xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx. Per il 2015: SERVIZIO STUDI, CORTE COSTITUZIONALE, Giurisprudenza costituzionale dell’anno 2015, dati quantitativi e analisi, xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx; X. XXXXXXXXX, La giurisprudenza costituzionale a rilevanza regionale 2015, disponibile all’indirizzo xxx.xxxxxxx.xxx.xx.
255 Così X. XXXXXXXXX, La giurisprudenza costituzionale 2006-2010, cit., p.24.
000 X. X. XXXXXXXXX, op. ult. cit., p. 40.
257 Nello specifico le sentt. nn.13, 46, 64, 67, 100, 166, 171, 177, 187, 202, 211, 212, 213, 231, 255, 258,
275, 278, nonché delle ordd. nn. 43, 146, 147, 179. Per approfondimenti sul punto si rimanda a X. XXXXXXXXX, La giurisprudenza costituzionale 2014, cit., p 22 ss.
Dalla prima figura emerge come il totale delle decisioni adottate dalla Corte costituzionale in tutti i tipi di giudizio sia andato calando a partire dal 2009 con una media di 331,3 pronunce a fronte della media di 458,66 nel triennio compreso tra il 2006 e il 2009, ciò sia in conseguenza della diminuzione degli atti di promovimento, ma anche della crescente complessità delle questioni proposte che, spesso scisse e riunite, hanno prodotto una serie di pronunce articolate in un numero rilevante di capi.
Particolarmente significativi sono i dati relativi al biennio 2012- 2013 in cui si riafferma la preponderanza dei giudizi in via principale su quelli in via incidentale, avendo i primi impegnato quasi il 50% dei lavori della Corte (fig. n. 4): in questi anni infatti il numero complessivo delle pronunce rese nei giudizi in via d’azione (sentenze più ordinanze) ha superato l’analogo dato dei giudizi in via indiretta.
Di nuovo, un’immagine più aderente alla reale incidenza delle questioni sollevate, necessaria per poter misurare l’effettivo tasso di conflittualità tra Stato e Regioni, emerge dall’analisi quantitativa dei capi di dispositivo emessi nel giudizio in via principale, ripartiti a seconda che le questioni siano sollevate dal Governo o dalle Regioni (figura n. 5).
Dai dati riportati si evidenzia come il rapporto tra questioni sollevate da Governo e Regioni non segua affatto un andamento omogeneo; si può invece con fermezza rilevare che se, sulla base del numero delle sentenze rese, l’anno più litigioso sembra essere il 2010, dal grafico si evince che il picco delle questioni sollevate si sia registrato nel 2009, dal momento che i capi di dispositivo sono rispettivamente 418 nel 2009 e 300 nel 2010258.
Rappresenta un tratto caratteristico della decade in esame la netta prevalenza del Governo sulle Regioni soprattutto nei casi in cui il ricorrente è il Governo stesso; al contrario, quando ad agire sono le Regioni si è registrato un limitato accoglimento delle
258 X. XXXXXXXXX, La giurisprudenza costituzionale a rilevanza regionale 2014, cit., p. 4.
questioni da esse proposte259. Emblematico a tal proposito è l’anno 2014, in cui, se il numero delle questioni sollevate dalle due parti sostanzialmente si eguaglia (140 dalle Regioni e 137 dal Governo), gli esiti delle stesse non sono parimenti bilanciati ma segnano una netta soccombenza delle Regioni (circa nell’80% dei casi), come mostra la figura numero 6. La soccombenza è data dalla sommatoria delle pronunce di non fondatezza, manifesta infondatezza, inammissibilità o manifesta inammissibilità della questione, i cui dati specifici sono riportati nella figura n.7. Lo Stato ha invece visto accolte quasi la metà delle questioni proposte, un dato questo che necessita di essere completato dalla considerazione che nella maggior parte dei casi le pronunce di cessazione della materia del contendere e di estinzione per rinuncia sono satisfattive delle pretese del Governo, attestando la persistenza di uno squilibrio tra i due enti: i capi di dispositivo che unitamente pronunciano la cessazione o l’estinzione del giudizio sono 32 per il Governo e 7 per le Regioni.
259 Cfr. E. XXXXX, La giurisprudenza della Corte costituzionale nel giudizio in via principale nel triennio 2011- 2013. Profili statistici e tendenze più rilevanti, in Giur. cost., p.10, in particolare nota n. 14, consultabile all’indirizzo xxx.xxxxxxxx.xxx.
2.4.3. segue… I casi di estinzione per rinuncia e di cessazione della materia del
contendere
Offerta una panoramica generale sullo stato del contenzioso nel decennio appena conclusosi, è ora necessario completare l’indagine svolta con l’analisi delle pronunce di estinzione del giudizio e di cessazione della materia del contendere, che, come già ricordato, rappresentano la contropartita processuale del fenomeno sostanziale della “contrattazione” tra Stato e Regioni. Si tratta di due tipologie decisorie legate alla natura disponibile del ricorso in via d’azione, per cui è possibile che, in seguito all’impugnazione di una legge statale o regionale, la parte resistente abroghi o modifichi la disposizione contestata in modo da assecondare le ragioni del ricorrente e far così cadere l’interesse al ricorso.
È facile rivenire alla base di questi casi fenomeni di gestione politica ed extra giudiziaria dei conflitti riconducibili in larga misura al venir meno, con la riforma dell’art. 127 Cost., della fase di controllo preventivo governativo sulle leggi regionali, per cui spesso lo ius supervenies al centro delle pronunce in esame altro non è che il risultato della pressione politica che il Governo esercita sulla Regione. Quest’ultima, di fronte all’impugnazione statale, anziché attendere l’esito del giudizio di costituzionalità, decide di approvare una
nuova legge che corregga o che abroghi le disposizioni originariamente censurate, al fine di indurre il ricorrente a rinunciare al ricorso ponendo fine alla controversia.
Occorre inoltre precisare che, sebbene nella maggior parte dei casi a monte di un atto di rinuncia vi sia la correzione, la sostituzione o l’abrogazione della norma impugnata, non può escludersi che il “revirement”260 possa essere legato al mutamento dei rapporti politici tra il centro e le Regioni261; peraltro la rinuncia, emblema della natura disponibile del giudizio in via d’azione, non necessita di essere motivata - né di conseguenza sussiste per la Corte un obbligo di dar conto delle motivazioni nella sentenza o nell’ordinanza- così che può accadere che le ragioni ad essa sottese non vengano mai rese note262.
Di fronte a tutte queste evenienze la Corte, “come un arbitro che registra ex post l’esito della contrattazione”263, si limita a prendere atto dell’accordo raggiunto dalle parti, dell’avvenuta modifica dell’oggetto del processo e dell’appagamento della pretesa del ricorrente. Infatti, pur potendosi comunque pronunciare sul merito della disposizione originariamente impugnata, o sulla sopravvenuta modifica legislativa (fenomeno che, come si vedrà tra poco, talvolta si realizza), essa, per ragioni di economia processuale, preferisce lasciare che la “contrattazione” ponga fine alla prosecuzione del giudizio ricorrendo ai due tipi di decisione qui in esame.
Questa forma di composizione “contrattata” della controversia tra Stato e Regioni sta occupando quote considerevoli del giudizio di costituzionalità in via principale: i dati di seguito riportati indicano il rapporto percentuale tra i capi di dispositivo che pronunciano la cessazione della materia del contendere o l’estinzione del giudizio e il totale delle questioni sollevate nello stesso giudizio. Da questi dati si ricava la preponderanza degli esiti favorevoli per il Governo, la cui media percentuale si attesta intorno al 21% a fronte dell’8% per le Regioni. Ciò lascia intendere che il ricorso in via d’azione non rappresenti
260 E. XXXXX, Le decisioni di estinzione per rinuncia nell’ultimo decennio di giurisprudenza costituzionale, cit.,
p. 1606; A. PERTICI, Il confronto politico sulle leggi in via d’azione, cit., p. 65 ss., in particolare par. 3.1 e 3.2. 261 Ibidem; sul tema anche E. XXXXXXXXXXXXX, La rinuncia al ricorso nel giudizio in via principale all’indomani della riforma del Titolo V, cit., p. 1495 ss..
262 Si segnala inoltre che non sono mancati casi in cui la rinuncia al ricorso era legata al sopravvenire di pronunce costituzionali in cui venivano affermati principi tali da far presumibilmente prevedere l’intervento di una sentenza di rigetto (ordd. nn. 3 e 4/2012). Analogamente, è accaduto che la declaratoria di cessazione della materia del contendere originasse non da ipotesi ius superveniens ma dal sopraggiungere di una dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge per la cui violazione il giudizio era stato attivato (ord. 159/2010), in M. X’XXXXX, op. ult. cit., p. 226.
263 X. XXXXXXXX, La “manutenzione del giudizio in via principale”, cit., p. 15.
per le Regioni, a differenza di quanto accade per lo Stato, uno strumento di pressione politica con cui indurre il Parlamento centrale a modificare la propria normativa, sotto la “minaccia” di un “intervento demolitorio” 264 dei giudici costituzionali. Sebbene, infatti, non manchino casi in cui i rapporti si svolgono a parti invertite ed è lo Stato a modificare la propria normativa, ciò non può essere ricondotto alla riforma del 127 Cost., dato che il nostro ordinamento è sempre stato privo di sedi in cui Stato e Regioni potessero giungere ad una composizione preventiva così come di strumenti di controllo preventivo regionale sulle leggi centrali265. Piuttosto, i casi di ius superveniens statale possono essere più facilmente ricollegati alla “volatilità e instabilità” del nostro ordinamento, che spesso rende opportuna la modifica di disposizioni entrate in vigore da pochi mesi per far fronte a situazioni contingenti legate, oggi in particolare, alla crisi economico-finanziaria in cui da anni versa il nostro Paese266.
264 Così E. XXXXX, op. ult. cit., p.1611.
265 Ibidem.
266 Così F. DAL CANTO- E. XXXXX, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in X. XXXXXXX (a cura di), Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2011-2013), Xxxxxxxxxxxx, 2014, p. 196.
I due tipi di pronuncia qui in esame, sebbene producano effetti simili sul piano procedurale, presentano importanti differenze sostanziali. L’estinzione postula la rinuncia al ricorso la quale, a sua volta, presuppone la disponibilità dell’azione; per cui così come a Stato e Regioni è rimessa la facoltà di attivare o meno il giudizio, allo stesso modo essi possono desistere dallo stesso, prima dell’intervento di una sentenza di merito. In particolare, anche per la rinuncia valgono le stesse considerazioni svolte a proposito della connotazione ambigua del ricorso statale “sospeso tra una costruzione che ne accentua la valenza obiettiva di garanzia di legittimità e quella che ne accentua, al contrario, la valenza soggettiva di difesa di interessi di parte”267.
Nel caso di estinzione per rinuncia, la Corte si limita a prendere atto di quest’ultima che, per poter dar luogo a questo tipo di decisione, deve essere validamente268 accettata dalla controparte regolarmente costituita269. Ciò significa che la disponibilità dell’azione da parte del ricorrente non è piena, ma presuppone l’esistenza di un interesse che, pur non coincidendo con quello generale alla conformità costituzionale dell’ordinamento, è comunque più ampio di quello alla base del ricorso ossia l’interesse a che lo stesso venga dichiarato infondato270. Mentre in caso di mancata costituzione in giudizio della parte resistente, per giurisprudenza costante della Consulta271, è sufficiente la sola rinuncia al ricorso per condurre all’estinzione del processo. Quella qui in esame costituisce pertanto un tipo di decisione che soltanto formalmente emana dalla Corte, mentre sostanzialmente rappresenta il frutto di una scelta delle parti (in particolare del ricorrente).
267 Così G. ZAGREBELSKY, X. XXXXXXX, La giustizia costituzionale, cit., p. 325.
268 Si segnala che a partire dall’ordinanza n.418/2008 la Corte ha adottato un orientamento rigoroso in merito all’accettazione della rinuncia da parte della resistente; accettazione che, per poter essere efficace, deve necessariamente provenire dall’organo collegiale. L’ordinanza è stata emessa in occasione di un ricorso statale contro una legge della Regione Campania, modificata da quest’ultima prima della pronuncia della Corte, dando così luogo alla rinuncia del ricorrente. Il difensore della Regione aveva dichiarato in udienza di accettare la rinuncia senza però che vi fosse una specifica delibera in tal senso della Giunta regionale. Pertanto la Corte ha negato di poter dichiarare estinto il giudizio per rinuncia, dichiarando invece cessata la materia del contendere, dal momento che la legge impugnata non aveva nel mentre ricevuto applicazione. Occorre tuttavia rilevare che, dopo un periodo iniziale di rigore, la Corte non sempre si è attenuta a questo principio, confermando le oscillazioni che caratterizzano la giurisprudenza costituzionale. 269 L’art. 23 delle Norme Integrative recita: “La rinuncia al ricorso, qualora sia accettata da tutte le parti costituite, estingue il processo”.
270 Così G. ZAGREBELSKY, X. XXXXXXX, loc. ult. cit..
271 Ex plurimis, sentt. nn. 206/2010 e 98/2012.
Peraltro, la Consulta ha più volte ribadito che la rinuncia, anche qualora non sia ritualmente accettata, può fondare, unitamente alle circostanze di cui di seguito si dirà, una dichiarazione di cessazione della materia del contendere272, sul presupposto che il deposito di una rinuncia può far legittimamente ritenere satisfattivo il carattere delle norme sopravvenute, comportando il venir meno dell’interesse a ottenere una pronuncia di merito.
In ogni caso, la cessazione della materia del contendere dovrebbe essere dichiarata a prescindere da manifestazioni di volontà in tal senso espresse dalle parti e a prescindere dalla titolarità in capo alle medesime del potere di rinuncia, qualora la Corte ritenga sussistere due requisiti di natura sostanziale ovvero che lo ius superveniens abbia effettivamente un contenuto tale da superare i profili di incostituzionalità denunciati dal ricorrente e che la normativa impugnata non abbia ricevuto medio tempore applicazione. In questo caso pertanto la Corte è chiamata a pronunciarsi sull’oggetto della questione273, mentre nelle ipotesi di estinzione per rinuncia effettua soltanto una valutazione di tipo squisitamente procedimentale274.
Sono numerosi i dispositivi che chiariscono i requisiti che giustificano siffatte pronunce: tra le più recenti si ricorda la sentenza n. 11 del 2014 con cui la Corte costituzionale ha precisato che “lo ius superveniens può determinare la cessazione della materia del contendere solo ove al contempo rivesta efficacia satisfattiva rispetto alle ragioni del ricorrente e la normativa censurata non abbia avuto medio tempore applicazione”275, con l’ovvia conseguenza che laddove non ricorrano tali presupposti non è possibile emettere questo tipo di decisione persistendo comunque l’interesse al ricorso, tanto nel caso in cui le vicende modificative non siano soddisfacenti per il ricorrente, tanto nel caso in cui il
272 Ex plurimis, pronunce nn. 179 e 199/2010, 310/2011, 19,46, 75, 77 e 82 del 2015.
273 Cfr. E. XXXXX, Le decisioni di estinzione per rinuncia, cit., p. 1628 ss. In cui l’A. sottolinea come la valutazione della Corte sottesa alla dichiarazione di cessazione della materia del contendere non modifica la natura di tale decisione che rimane pertanto prettamente processuale e non di merito.
274 Già in occasione della sentenza n. 3 del 1962 la Corte aveva avuto modo di affermare che la rinuncia al ricorso “incide esclusivamente sul processo e, qualora sia accettata, ne produce l’estinzione, mentre la dichiarazione che è cessata la materia del contendere costituisce pronunzia attinente all’oggetto della controversia”. Di conseguenza, mentre le norme relative alle pronunce di estinzione “operano esclusivamente nell’ambito del processo”, “la dichiarazione della cessazione della materia […] a differenza della rinunzia al processo, importa, da parte dell’organo giudicante, un’indagine circa il merito della contestazione”, punto 1 del Considerato in diritto.
275 V. sent. 11/2014 Corte Cost., p. 3.2 del Considerato in diritto. Similmente le sentt. nn. 19, 44, 54, 129, 141, 181, 209, 249, 269.
tempo trascorso dall’entrata in vigore della disciplina impugnata lasci presumere che essa
abbia ricevuto applicazione, non essendo pervenute prove in contrario276.
I giudici costituzionali hanno più volte evidenziato la diversa natura dei due tipi di pronunce e il rapporto di priorità logica dell’accertamento relativo all’estinzione; emblematiche a riguardo le parole espresse con l’ordinanza 204 del 2011: “il ricorrente, dopo aver depositato dichiarazione di rinuncia al ricorso proposto in via principale ed aver preso atto della mancata costituzione in giudizio della Regione resistente, ha chiesto alla Corte di dichiarare cessata la materia del contendere; […] la volontà delle parti di non dare ulteriore xxxxx xxxx xxxxxxxxxxx xxx xxxxxxxx […] xxxxxxx al processo e non al suo oggetto; che la dichiarazione di cessazione della materia del contendere riguarda, invece, l’oggetto di giudizio la cui trattazione sia voluta dalle parti; [...] l’accertamento della perdurante volontà delle parti di coltivare l’impugnazione ha carattere logicamente preliminare rispetto alla valutazione circa l’effettivo ricorrere delle circostanze normative o fattuali che inducono a dichiarare cessata la materia del contendere”. In sostanza, come ritenuto dalla dottrina più autorevole, la dichiarazione di cessazione della materia del contendere è una decisione che ricade sul “merito della controversia”277 in quanto, pur non pronunciandosi sulla costituzionalità della legge contestata, presuppone da parte del Giudice delle leggi la verifica circa la persistenza o meno dell’interesse oggettivo alla prosecuzione del giudizio e registra la soddisfazione della pretesa della parte ricorrente. Tuttavia, nonostante le differenze tra i due tipi di decisone possano dirsi, almeno dal punto di vista teorico, chiare, il fatto che entrambe trovino applicazione nei casi di ius superveniens modificativo o abrogativo della norma impugnata, fa sì che nella prassi le due pronunce vengano considerate sostanzialmente fungibili278, sia dalle parti che, talvolta, anche dalla Corte. Quest’ultima, ad esempio, per orientamento costante, ritiene che se, nelle ipotesi non solo di ius superveniens ma anche di accordo raggiunto tra le
276 Sempre per l’anno 2014 si segnalano le sentt. nn. 11, 19, 49,54, 68,86, 97, 108, 144, 165, 181, 209, 249,
269.
277 X. XXXXXXX, Xxxxxx tra cessazione della materia del contendere, difetto di interesse e rinuncia parziale al giudizio, in Giur. cost., 2006, p. 24 ss..
278 Cfr. F. DAL CANTO, La Corte e lo jus superveniens. Esplosione e crisi del giudizio di costituzionalità in xxx xxxxxxxxxx, xxx., x. 00; M. D’AMICO, Il giudizio davanti alla Corte e gli effetti delle decisioni, sull’uso delle regole processuali da parte della Corte nel giudizio in xxx xxxxxxxxxx, xxx., x. 000; E. XXXXX, Le decisioni di estinzione per rinuncia nell’ultimo decennio di giurisprudenza costituzionale, tra ragioni sostanziali e profili procedurali, cit., 1605 ss.; X. XXXXXXX, loc. ult. cit..