POSTE ITALIANE SPA
POSTE ITALIANE SPA
SPEDIZIONE IN A. P. 70% - ROMA
3/2007
AGENZIA PER LA RAPPRESENTANZA
NEGOZIALE DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI
MAGGIO GIUGNO 2007
REDAZIONE XXX XXX XXXXX 000
00000 XXXX
EDITORIALE PRIMI PASSI
DELLA CONTRATTAZIONE
COMMENTI
DIRIGENZA PUBBLICA: UN DECALOGO
PER LA RIFORMA
VALUTAZIONE
E GOVERNANCE
DEL SISTEMA SCOLASTICO INGLESE
TRATTATIVE SINDACALI: LA RICHIESTA
DI TAVOLI SEPARATI
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DIRETTORE
Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxx
DIRETTORE RESPONSABILE
EDITORIALE
Primi passi della contrattazione
di Xxxxx Xxxxxxxxx 2
Xxxx Xxxxx Xxxxxxxx
COMITATO EDITORIALE
Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx D’Xxxxx Xxxxxxx D’Auria Carlo Dell’Aringa Xxxxxxxx Della Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxx Xxxx
COMMENTI
Dirigenza pubblica:
un decalogo per la riforma
di Xxxxxxx Xxxxxx 4
Valutazione e governance
del sistema scolastico inglese
di Xxxxxxx Xxxxxxx 17
Trattative sindacali:
la richiesta di tavoli separati
di Xxxxx Xxxxxx 33
numero 3 • maggio/giugno 2007
Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
Xxxxx Xxxxxxxxx
COMITATO DI REDAZIONE
Xxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx
SEGRETERIA DI REDAZIONE
Xxxxxxx Xx Xxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx
PROGETTO GRAFICO
Xxxxxx Xxxxxxxx
REDAZIONE
Telefono 0632483265-340
Fax 0000000000
xxxxxxxxxxxxxx@xxxxxxxxxxx.xx xxx.xxxxxxxxxxx.xx
STAMPA
Eurolit srl
Aut. Trib. di Roma n. 630 del 27.12.95 Sped. In Abb. post.
L. 662/96 art. 2 C. 20/c
ANNO XII N. 3 MAGGIO GIUGNO 2007
OSSERVATORIO UNIONE EUROPEA
Il Libro verde sulla Modernizzazione del Diritto del lavoro
Introduzione
di Xxxxxxx Xxxxxxxx 40
Brevi note sul Libro verde
di Xxxxxx Xxxxxxxx 41
IN BIBLIOTECA
Pubblici dipendenti: una nuova riforma?
di Xxxxx Xxxxxxxxx 44
FLASH NOTIZIE
a cura di Xxxxxxx Xxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxxxx
Attività svolta dall’Aran 48
OSSERVATORIO DI GIURISPRUDENZA
a cura del Servizio Studi Aran 52
numero 3 • maggio/giugno 2007
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PRIMI PASSI
DELLA CONTRATTAZIONE
L’invio all’ARAN degli atti d’indirizzo per i comparti dei ministeri e della scuola
e la conseguente immediata apertura delle trattative hanno dato infine avvio alla stagione contrattuale per i rinnovi del quadriennio 2006 - 2009.
Per la verità, l’attività negoziale nel settore pubblico non ha avuto mai tregua, almeno a partire dall’inizio dell’anno,
e non solo perché si sono concluse nel frattempo all’ARAN le trattative per alcuni contratti per i quali mancavano gli atti d’indirizzo nel precedente
quadriennio, o perché, a rigore, la stagione contrattuale ha avuto ufficialmente inizio con l’accordo di definizione
dei comparti, firmato in via definitiva il 18 aprile 2007.
Il fatto è che, come è ben noto agli addetti ai lavori, sulla questione dei contratti pubblici si è svolta nei mesi scorsi
una vicenda che ha calamitato per settimane l’attenzione dell’opinione pubblica, riguardante la definizione delle risorse messe a disposizione per i rinnovi. Una vicenda che, dopo varie trattative, confronti, scioperi attuati
e minacciati, si è conclusa con l’intesa del 29 maggio che ha consentito, appunto, di trovare il punto d’incontro ritenuto dalle parti necessario per l’inizio delle trattative nei comparti pubblici (e non per la firma del “contratto degli statali” come una parte degli organi d’informazione si ostina a riferire).
Nulla di particolarmente nuovo,
in apparenza, visto che le regole della finanza pubblica, e quelle non scritte della politica, hanno già dato vita,
in passato, ad agitate vicende tendenti a definire, in tempi diversi da quelli delle leggi finanziarie, l’entità delle risorse per l’inizio della contrattazione.
Ciò che ha però caratterizzato e distinto questa fase è il fatto che il confronto tra le parti non si è limitato questa volta
agli aspetti finanziari, ma ha ricompreso, con la “intesa sul lavoro pubblico e sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, più nota come memorandum, la precisazione di linee generali
su cui incanalare (non solo, ma anche) la stagione contrattuale. Un’intesa resa più importante ed autorevole dal fatto di essere stata sottoscritta anche dalle rappresentanze delle Autonomie
e dalla grande maggioranza delle Confederazioni sindacali
rappresentative nel lavoro pubblico.
È nel contesto brevemente accennato che è iniziato, in questo scorcio di inizio estate, il lavoro dell’ARAN per questo quadriennio contrattuale. Un lavoro che, data la natura tecnica dell’Agenzia, inizia dopo la definizione delle risorse complessive e delle linee generali d’indirizzo, ma al quale spetta il compito non meno rilevante e delicato
di distribuire il monte di risorse complessivo, mettendolo in relazione con i vari istituti contrattuali, da inventare o da rivisitare in quanto già definiti
in precedenti tornate di contrattazione.
Per rendersi conto della complessità del compito in questione basta leggersi il “viatico”, per dir così, che i documenti
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che conferiscono il mandato negoziale all’ARAN - la direttiva quadro e i primi atti d’indirizzo - hanno consegnato alle parti contraenti.
Si tratta di documenti dei quali non si può davvero dire che non esprimano, sia pure in forma talvolta ellittica
e frammentaria, un orizzonte complessivo e un’idea prospettica sulla missione e il funzionamento della pubblica amministrazione. Un’amministrazione, innanzitutto,
circondata da un controllo sociale diffuso
circa l’efficienza, i risultati, il grado di soddisfazione dei servizi erogati e le stesse decisioni strategiche.
Un’amministrazione, in secondo luogo, snella, priva cioè, attraverso un uso oculato della mobilità, di eccedenze e carenze di personale tali da minarne l’efficienza.
Un’amministrazione, infine, equa
e all’occorrenza severa, non tollerante cioè verso i comportamenti capaci di incrinare la fiducia dei cittadini verso la
p.a. e, attraverso essa, verso le istituzioni.
Per quanto riguarda gli aspetti più direttamente attinenti al rapporto
di lavoro, i primi atti di indirizzo pongono come obiettivi fondamentali l’orientamento ai risultati, la formazione, la valutazione, la promozione del merito e dell’impegno. Così, i sistemi di progressione professionale dovrebbero orientarsi verso quell’ampia fungibilità
di contenuti professionali che erano fin dall’inizio tra gli obiettivi del sistema, sulla serietà e la selettività delle progressioni collegate ad esigenze funzionali delle strutture e dunque non automatiche né indifferenziate.
Si tratta di obiettivi complessi, come si vede, soprattutto considerando
i tempi in cui avviene la contrattazione e la conseguente sollecitazione, che qualche atto di indirizzo come quello della scuola mette anche per iscritto, di chiudere le ipotesi di accordo
“nei tempi più rapidi possibili”. Fare presto e bene non è mai facile,
nelle relazioni industriali come altrove.
Condizione imprescindibile per farlo è che la direzione verso cui muovono gli atti d’indirizzo, e lungo la quale è intenzionata a muoversi l’ARAN, sia
condivisa, nelle sue linee generali, dalle
controparti e che il contesto generale abbia caratteristiche di certezza tali da aiutare la fluidità delle trattative.
In comune, le parti dovrebbero avere almeno la consapevolezza del fatto che vi è ormai un nesso forte tra l’acuta sensibilità sociale verso la p.a.
e la credibilità stessa delle istituzioni.
L’ARAN, dal canto suo, pur consapevole della difficoltà dei compiti affidatile,
sa di muoversi su un terreno conosciuto. Molti degli obiettivi innovativi di cui tanto si è parlato in questi mesi sono stati oggetto, già in passato,
di approfondimento da parte dell’Agenzia e in parte sono già patrimonio
di precedenti contrattazioni. Naturalmente, si può e si deve migliorare, approfondire, innovare ancora e superare i risultati già raggiunti, ma riteniamo che oltre a ciò debba essere compiuto un intenso lavoro per tradurre in comportamenti concreti nelle singole amministrazioni ciò che sta scritto e che scriveremo, nella maniera più chiara ed accattivante possibile,
nei prossimi contratti.
Quanto allo sforzo verso l’innovazione, a partire dall’inizio dell’anno l’ARAN
si è impegnata in un intenso sforzo tendente a presentarsi ai tavoli delle trattative con qualificanti proposte su temi cruciali della stagione contrattuale. In particolare, si è lavorato per elaborare un documento sulla valutazione che, prendendo spunto dalle esperienze
in atto, e dall’ampio dibattito anche in sede scientifica, contribuisca
alla crescita della contrattazione collettiva su questo tema d’importanza davvero strategica.
L’aprirsi dei tavoli contrattuali non rappresenta insomma soltanto un rito, ma il nuovo inizio di uno sforzo d’innovazione che vorremmo fosse comune e proficuo.
Xxxxx Xxxxxxxxx
Componente Comitato direttivo ARAN
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DIRIGENZA PUBBLICA: UN DECALOGO
PER LA RIFORMA
1. LUCI ED OMBRE DELLA RIFORMA DEL 1998
Al tendenziale rafforzamento dell’autonomia dei dirigenti per la gestione amministrativa, venuti meno i poteri
di intervento sulla gestione, i decreti delegati della “seconda privatizzazione” del lavoro pubblico1 hanno fatto corrispondere un nuovo modello
di conferimento degli incarichi dirigenziali, discostandosi significativamente, rispetto alla riforma del 1993, in ordine agli aspetti essenziali dell’investitura.
Questa viene regolata in modo da far risaltare il carattere fiduciario, proprio per assicurare in altra maniera il controllo degli apparati e far risaltare pienamente il principio della responsabilità politica. D’altra parte, la stessa connotazione “privatistica” della riforma accentuerebbe il rilievo dell’elemento personale (dell’intuitus personae) e depotenzierebbe, con moto inverso, gli elementi garantistici o di status, nel passato considerati presidio dell’imparzialità amministrativa e che adesso vengono in parte sacrificati in nome di una delle letture possibili
del principio costituzionale di buon andamento2. In questo contesto, anzi, la preposizione alle cariche apicali
da parte della politica, su base fiduciaria, diviene il “tessuto connettivo attraverso
il quale portare a realizzazione
il programma sulla base del quale si è ricevuto il mandato politico-elettorale”3. Sul piano tecnico giuridico, per rendere operativo lo schema ipotizzato
dalla nuova norma, si prevede la scissione fra la stabilità del rapporto di lavoro dirigenziale e la variabilità del rapporto di incarico. Mai viene in discussione
la stabilità del posto (quando acquisita per via concorsuale), ma alla garanzia del rapporto di servizio fa riscontro
la variabilità dell’incarico, conferito dall’organo politico sempre a tempo determinato e comunque per
un termine minimo in grado di consentire la valutazione della performance dirigenziale. Per cui, solo in caso
di acclarata responsabilità per la gestione può derivare l’interruzione dello stesso incarico in corso di svolgimento prima della scadenza (olim determinata per via contrattuale ed attualmente, dopo
le ulteriori innovazioni della Legge
n. 145/2002, tramite lo stesso provvedimento di conferimento).
Il sistema, d’altra parte, dovrebbe autobilanciarsi “in via ordinaria” proprio attraverso l’interesse diretto della politica a scegliere (ovvero a preporre ai posti chiave) i dirigenti professionalmente più idonei, perché solo attraverso
la migliore scelta otterrà i migliori risultati in termini di efficacia delle politiche amministrative, di cui risponderà a sua volta al Parlamento prima, ed all’elettorato successivamente.
La riforma del 1998 ha quindi introdotto nel nostro ordinamento giuridico
quel modello spurio denominato, con
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consapevole approssimazione giuridica,
spoils system all’italiana,
le cui caratteristiche sono costituite dalla temporaneità dell’incarico
(del rapporto di ufficio) e dalla continuità del rapporto di servizio;
dal potere di nomina dell’organo politico agli incarichi maggiori, nonché dall’assenza dell’onere di motivare le mancate conferme 4.
2. GLI ASSETTI VIGENTI
Con la successiva Legge n. 145/2002 muta, in modo, non certo irrilevante,
la “curvatura fiduciaria” che lega organo di direzione politica e dirigenza
(nelle amministrazioni ministeriali
ed in minor parte in quelle parastatali) che, pure già prevista dal modello che la Legge n. 145 va a modificare, assume ora un’accentuazione più pronunciata e viene gestita attraverso vari strumenti tecnico-normativi, tutti tesi a garantire la prevalenza sistemica dell’attività
di policy su quella amministrativa. Rimane, tuttavia, comune alle due riforme il complessivo effetto
di “precarizzazione”5 che rileva,
indirettamente, anche sull’autonomia della funzione dirigenziale, atteso che sul dirigente pesa sempre più la Damoclis glaudius della riconferma da parte dell’organo politico nominante, che si risolve nei fatti in una sorta di gradimento politico i cui caratteri di discrezionalità tecnico amministrativa appaiono
di molto sfumati6.
Tutto il sistema, inoltre, appare sostanzialmente inerte dal punto di vista della valutazione delle performances
e ciò vanifica in limine il circuito “virtuoso” autonomia-responsabilità dirigenziale e, anzi, pone le premesse per la riproposizione del circuito vizioso burocratico, in cui la dirigenza
è particolarmente propensa
ad assecondare i voleri della politica in cambio di protezione e benefici. La valutazione dei dirigenti è, infatti,
fino ad oggi rimasta ad uno stato quasi larvale o teorico. Tuttavia, se essa
è preposta a consentire una verifica strumentale al rinnovo dell’incarico,
della medesima ora non vi è più bisogno, essendo la stessa compensata da incarichi che cessano automaticamente e non obbligano l’organo politico a giustificare il mancato rinnovo attraverso inefficienze gestionali oggettivamente acclarate7.
Il gradimento della politica, quindi, sembra sostituire l’accertamento oggettivo del merito della gestione dirigenziale con inevitabili ricadute
sulla distinzione di ruoli e responsabilità. Tale situazione normativa era alla base di un cospicuo dibattito già prima della Legge n.145.
Un avvertito Autore, non certo avversario della privatizzazione, aveva rilevato come “il vincolo fiduciario, unito
alla temporaneità dell’incarico dirigenziale, finisce per determinare, fra dirigente e ministro, un rapporto di dipendenza che inevitabilmente contraddice il principio di distinzione fra politica ed amministrazione”8, con la conseguenza ciclica che i ministri
del futuro governo tenderanno a sostituire i dirigenti “di fiducia” del governo uscente, con personale di propria fiducia. Infatti, se il principio di nomina è collegato ad una consonanza, chiaramente all’uscita del governo nominante la stessa diventerà discordanza e preluderà al ricambio dei vertici
con inevitabile rottura della continuità amministrativa. Esemplare al riguardo pare la vicenda conseguente ai due spoils system generalizzati che hanno comportato la risoluzione anticipata di diritto degli incarichi in corso, seguiti al primo intervento riformatore
del D.Lgs. n. 80/98 (realizzato con la disciplina transitoria dell’art. 8, comma 2, del DPR n. 150/99) ed alla Legge
n. 145/2002, votata da una maggioranza parlamentare di segno opposto (realizzata con l’art. 3, comma 7,
della stessa legge). In entrambi i casi si è verificato il sostanziale azzeramento degli incarichi dirigenziali, vale a dire
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la cessazione ante tempus ed ex lege dei contratti e degli incarichi in fase di prima applicazione della legge, a favore (solo) della maggioranza (rectius del Governo) che aveva approvato la legge9.
3. UN DECALOGO PER LA RIFORMA
Tutte le riforme, soprattutto quelle che insistono in settori nevralgici
della pubblica amministrazione, eccitano resistenze e provocano reazioni, soprattutto ad opera delle categorie interessate. Gioca un ruolo decisivo, spesso, la tendenza all’autoconservazione dei corpi burocratici, che ha buon gioco nella tradizionale ed anelastica strutturazione dell’organizzazione amministrativa. Sempre, comunque, richiedono uno sforzo continuo
di implementazione, una manutenzione ordinaria ed a volte straordinaria,
che comporta rettifiche
ed aggiustamenti in corso d’opera. Nel caso delle riforme in materia di dirigenza pubblica, tuttavia,
i problemi hanno carattere più strutturale, perché la riforma ha coinvolto la stessa Costituzione materiale10, ha avuto cattiva attuazione, non ha portato a buoni risultati, ha diffuso la percezione
nella collettività di una dirigenza
non più efficiente che nel passato, ma in compenso più asservita alla politica e graniticamente arroccata
nel tradizionale parassitismo corporativo, ne ha nuovamente mortificata l’identità professionale, ha provocato nella stessa una depressione diffusa
e la consapevolezza che al merito ed alle capacità professionali possa
ovviarsi con l’attivazione delle giuste affiliazioni partitiche o sindacali ovvero con indovinate appartenenze ai gruppi di pressioni che fanno il bello
ed il cattivo tempo nella nostra società iper corporativizzata.
Il problema della dirigenza pubblica è
un problema di costruzione di cautele e garanzie per la funzione pubblica
oggettivamente considerata11, ma anche
di reale messa in campo di strumenti, in un caso per impedire l’ingerenza
pervasiva dei Governi sull’amministrazione, con effetti sulla neutralità
e sull’imparzialità garantiti dalla Carta costituzionale, nell’altro per evitare che la burocrazia, non autonoma e non valutabile, divenga un corpo inerte
e sbandato, adespota ovvero incontrollabile ed inamovibile.
Di una nuova riforma, per tutti questi motivi, si ha bisogno.
3.1. Se ne ha bisogno soprattutto per fare chiarezza in ordine al delicatissimo rapporto intercorrente fra politica
ed amministrazione, per chiarire la necessità di motivare nomine e mancate conferme attraverso, anche, una fase procedimentale in grado di far risaltare trasparenza, pubblicità, correttezza
e qualità delle scelte e la sintonia rispetto ai criteri di legge, nell’ambito di un processo sorvegliato da organi neutrali, indipendenti ed autorevoli.
Anche i fautori del ruolo forte
della politica ipotizzato dalle recenti riforme non possono non riconoscere che la relazione può funzionare solo
a condizione che siano attivati tutti
i contrappesi previsti dalle norme: limiti al potere di scelta, criteri proceduralizzati, selezione nell’ambito di un corpo professionale selezionato a monte, con fissazione di requisiti di professionalità più o meno stringenti, confronto
fra i candidati, al limite in modo paraconcorsuale. Altrimenti, sarà inevitabile che il potere di nomina
e di mancata conferma rasenti l’arbitrio e condizioni pesantemente la concreta realizzazione di quel principio
di distinzione fra la sfera politica
e quella dell’amministrazione che, oltre ad essere il presupposto dell’autonomia e della responsabilità del dirigente,
è considerato - a ragione - la golden rule di un riassetto della dirigenza pubblica conforme alla Costituzione.
Al di là, infatti, del noto strabismo
della nostra Carta fondamentale, che si destreggia ambiguamente fra principi
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all’apparenza inconciliabili (la neutralità e l’imparzialità dell’art.97, che sembrano preludere ad un amministrazione “apparato indipendente”
e la responsabilità ministeriale dell’art.95, che appare recepire il tradizionale modello verticistico), va considerato
il complesso di norme costituzionali che delinea un complessivo “statuto”
del dipendente pubblico sottratto a condizionamenti politici.
Per restaurare una corretta relazione fra le due sfere potrebbe essere opportuno, innanzitutto, circoscrivere le ipotesi di investitura fiduciaria solo ad alcune posizioni di particolare
rilevanza strategica che presuppongono una relazione eminentemente fiduciaria. Negli altri casi (che sono
la maggioranza) dovrebbe essere ricomposta la scissione fra rapporto di ufficio e di servizio attraverso l’eliminazione del termine di durata dell’incarico.
La previsione di incarichi a tempo indeterminato eviterebbe le discrezionalità collegate alla cessazione automatica
alla scadenza dell’incarico (in quanto il rapporto si interromperebbe,
essenzialmente, solo nei casi di inefficiente gestione o di inosservanza delle direttive impartite dall’organo politico) e, conseguentemente, anche gli effetti indotti di conformismo: perché appare illusorio pensare che il dirigente che rischia di perdere la titolarità
della funzione per volontà politica possa essere autonomo12.
L’incarico a tempo indeterminato, ovviamente, non comporta l’inamovibilità del dirigente, con la restaurazione
dello ius ad officium proprio dell’ancièn regime burocratico, che provoca cristallizzazione di potere, irrigidimenti, autoreferenzialità ed irresponsabilità ma, casomai, la necessità di rafforzare
il sistema di valutazione dei rendimenti dirigenziali, da cui deve dipendere,
in modo cogente, la revoca dell’incarico (infra).
3.2. A tali fini, quindi, potrebbe essere opportuno prevedere la costituzione di un’autorità indipendente costituita sul modello della civil service
commission americana, con compiti di garanzia e presidio del corretto funzionamento del sistema
(dal conferimento di incarichi dirigenziali, alla gestione delle eccedenze
di personale con qualifica dirigenziale), posta al centro di un vero e proprio network di controllo.
In particolare, la costituenda commissione indipendente potrebbe essere coinvolta nel processo di sistema di valutazione dei dirigenti in una doppia occasione: nelle ipotesi di comminazione di sanzioni (per responsabilità dirigenziale
ed eventualmente disciplinare), quale organismo valutatore di seconda istanza, e per esaminare la congruenza dei sistemi di controllo interno
delle diverse amministrazioni, anche in relazione alle istruzioni o direttive generali dalla stessa impartite.
Nella prima delle due funzioni, quindi, la commissione sarebbe chiamata
a succedere, rimpiazzandolo, all’attuale comitato dei garanti. In conclusione, si giungerebbe a ricostituire un modello basato
su incarichi a tempo indeterminato (tranne i casi dei residui incarichi fiduciari a tempo determinato) ma revocabili in corso d’opera a seguito di una valutazione negativa acclarata
con l’intervento di un organismo terzo, con struttura e poteri analoghi a quelli di una vera e propria autorità amministrativa indipendente, che dovrebbe sovrintendere tutto il sistema.
3.3. Inoltre, per quanto si è detto, il potere di scelta dovrebbe essere esercitato previa l’individuazione,
a monte, degli uffici che per posizione e natura delle funzioni esercitate richiedono una maggiore contiguità rispetto all’organo politico, la quale presuppone un più accentuato vincolo fiduciario. In queste ipotesi, in effetti, può avere una qualche ragione l’interesse della politica ad irrobustire
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il legame personale tra autorità di governo e livelli apicali dell’amministrazione,
in funzione di garanzia del circuito
di formazione/attuazione dell’indirizzo politico-amministrativo. Più precisamente, occorrerebbe previamente identificare quelle “zone grigie” in cui l’attività amministrativa condivide i caratteri della politica e con la stessa si intreccia e, conseguentemente, identificare
gli uffici che, per le funzioni esercitate o vicinanza con l’organo politico, sono caratterizzati da un intrinseco tasso
di politicità, in modo da giustificare, entro certi limiti e con gli accennati contrappesi, il parziale sacrificio della continuità e neutralità
della funzione amministrativa13.
3.4. Di una nuova riforma c’è bisogno anche per chiarire la sorte delle due fasce di dirigenza pubblica, giacché occorre domandarsi se tale distinzione sia ancora attuale alla luce del progressivo incremento percentuale degli incarichi di livello generale conferibili a dirigenti di seconda fascia ed alle successive stabilizzazioni che attualmente si verificano in seguito all’espletamento, senza demerito, di un solo incarico triennale14. D’altra parte, la “forbice” retributiva fra prima e seconda fascia, come ha confermato la tornata contrattuale relativa al quadriennio 2002-2005 solo
di recente conclusasi, mostra uno scarto sicuramente eccessivo15 che innesca una sorta di drammatizzazione
della corsa all’incarico di prima fascia, rispetto alla quale l’innalzamento
delle quote di incarichi di livello generale, conferibili a dirigenti di seconda fascia, costituisce una corporativa risposta
che accresce il potere della politica ampliando gli spazi di nomina
e le ambizioni degli aspiranti16.
Rispetto a tale evoluzione potrebbe essere quindi più opportuno recuperare una delle ispirazioni originarie
del Gruppo di lavoro governativo che elaborò il progetto di riforma poi confluito nei dd.lgs. della seconda privatizzazione, che intendeva configurare un’unica qualifica dirigenziale con possibilità
di diverse attribuzioni, nella logica dell’interscambiabilità, mobilità
e rotazione17.
3.5. Di una correzione normativa c’è comunque bisogno con riferimento ad istituti particolari, espressione nuovamente dei poteri della politica sull’amministrazione. La preposizione
ad uffici dirigenziali di “esperti” estranei alla categoria dirigenziale, troppo spesso promuove fedeli e clientes,
con una serie di distorsioni applicative rispetto agli obiettivi della norma che la autorizza, ed analogamente occorre
ripensare ai criteri di nomina ed al ruolo degli uffici di diretta collaborazione, che dovevano divenire delle direzioni strategiche dei Ministeri, con cultura
dell’organizzazione, visione manageriale e capacità di interagire con
la macrostruttura dei ministeri per tradurre gli indirizzi e dare forma amministrativa alla volontà politica, ma che si sono limitati alla consueta disordinata sovrapposizione
con le strutture di line.
La cooptazione agli incarichi dirigenziali di esterni alla pubblica amministrazione (ex art. 19, comma 6, D.Lgs. n. 165/2001) era stata prevista per favorire il transito di eccellenze professionali dal settore pubblico a quello privato, secondo
i modi di un virtuoso pantouflage di tipo francese. L’attuazione della regola è stata, però, distonica rispetto a tale obiettivo. Innanzitutto gli interventi normativi successivi al D.Lgs. n. 80/98
(che ha introdotto la previsione) hanno fortemente innalzato le percentuali
di cooptabili. Inoltre la norma ha ricevuto una discutibile applicazione con riferimento ai destinatari.
Oltre ad assunzioni di personale
di fiducia non portatore di competenze particolari (per cui è assente proprio
la “particolare qualificazione professionale” presupposto del conferimento),
la maggiore applicazione dell’istituto
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ha interessato funzionari appartenenti alla stessa amministrazione conferente, con un’evidente distorsione della ratio dell’istituto e nonostante il diverso parere del Consiglio di Stato18.
Né può tranquillizzare la circostanza che la lettura criticata è ora resa “lecita” dall’“interpretazione autentica
e retroattiva” recata dall’art. 14-sexies del D.L. n. 115/200519. La gestione dell’istituto finisce con il costituire
la modalità di una carriera interna parallela che si configura quale ulteriore strumento per aggirare l’accesso
alla dirigenza tramite pubblico concorso, assecondando aspettative di tipo corporativo (trattasi, invero, di una promozione temporanea
ad personam, ma ripetibile un numero infinito di volte perché l’incarico
è rinnovabile sine die)20.
Considerata l’originaria finalizzazione della norma, ovvero l’acquisizione
di pregiate e specifiche professionalità non altrimenti reperibili all’interno delle pubbliche amministrazioni,
e la sua più diffusa attuazione pratica quasi sempre volta a favorire personale interno all’amministrazione conferente l’incarico, sembra evidente la necessità di intervenire per favorire la corretta interpretazione della mens legis, recuperandone lo spirito e le intenzioni originarie.
Al riguardo, l’intervento potrebbe seguire diverse strade, alternative o concorrenti. Potrebbe innanzitutto essere circoscritta l’applicazione del beneficio ai soli uffici di livello apicale o super apicale, ciò
che servirebbe a riservare l’accesso
alla dirigenza di base al solo reclutamento mediante concorso pubblico.
È fuor di dubbio, infatti, che i “cacciatori di teste” del settore pubblico hanno
un obiettivo interesse a ricoprire posti di particolare rilievo organizzativo
o strategico con professionalità “chiave” selezionate nel mercato privato soprattutto per gli uffici apicali o superapicali
(un po’ come avviene con i city manager
degli enti locali). In secondo luogo, per espressa previsione normativa, dovrebbe essere sempre dimostrata
l’inesistenza di professionalità omologhe nell’ambito della pubblica amministrazione in relazione ai compiti da svolgere, dato il carattere, più volte ribadito dalla stessa Corte dei conti, dell’eccezionalità delle nomine dall’esterno21. In terzo luogo, dovrebbero nuovamente restringersi
le soglie percentuali di nomina esterna, dilatate per effetto degli ultimi interventi operati dalla Legge n. 145/2002.
In ogni caso, per scoraggiare incarichi-
premio o “partigiani” allo scadere dei governi e dato l’indice fiduciario
del conferimento, dovrebbe ipotizzarsi anche in questo caso l’applicazione
di uno spoils system puro,
con interruzione ex lege del rapporto contrattuale alla nomina del Governo entrante22.
Infine, nel caso di attribuzione di incarichi dirigenziali a dipendenti, trattandosi
nei fatti di anomalo conferimento di mansioni superiori, le stesse
dovrebbero essere esercitate nei modi e nei limiti previsti dall’apposita normativa, attualmente contenuta nell’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001
(con carattere transitorio, onere espresso di motivazione, limitazione dell’esercizio delle funzioni dirigenziali per il periodo necessario per l’esperimento
della procedura concorsuale, irripetibilità del conferimento…).
3.6. Gli uffici di gabinetto hanno confermato la vocazione a duplicare
e sovrapporsi, in pericolosa concorrenza, alle attività di gestione burocratica23.
Si impone di conseguenza
un ripensamento anche di questo modello organizzativo con riferimento ai rapporti intercorrenti con la burocrazia professionale, attesa anche l’irrazionalità della dilatazione in termini numerici degli organici di fatto di tali uffici, che
in alcuni casi costituiscono veri e propri Ministeri nei Ministeri ovvero
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un “Ministro collettivo”24. In particolare, pare necessario rendere funzionali
gli sconfinamenti, evitando la duplicazione di apparati e le incursioni, ingerenze
e commistioni nell’attività gestionale, riallocando, infine, tali uffici nell’orbita servente dell’indirizzo politico amministrativo, determinandosi altrimenti un’intollerabile violazione del principio di distinzione25.
3.7. Di una nuova riforma c’è bisogno anche perché regioni ed enti locali hanno smarrito la bussola, esercitando uno spoils system tanto radicale quanto destabilizzante, che confonde personale dei Gabinetti con la dirigenza burocratica, con la consapevolezza, tuttavia, che questa volta l’archetipo statale funzionerà da paradigma persuasivo ma non come modello precettivo.
Pare imprescindibile da questa prospettiva il ripensamento degli assetti in essere
in relazione alle evoluzioni stesse del meccanismo di spoliazione
nel settore delle autonomie locali. Com’è noto un vincolo ed un collegamento fra la normativa sulla dirigenza statale
e le regole riguardanti altre dirigenze pubbliche risulta dal combinato disposto degli artt. 13 e 27 del D.Lgs n.165.
Tale liason, comunque configurata
in modo meno accentuato per regioni ed enti locali, deve essere verificata
a seguito della riforma del titolo V, parte II, Cost., che comporta la potestà di autoregolamentazione delle regioni per ciò che attiene la propria organizzazione amministrativa.
Quest’ultima, rientrando nelle materie a potestà esclusiva residuale, da ora
in poi è soggetta solo ai limiti costituzionali e non anche a quelli derivanti da legge statale26.
Risulta chiaro che il problema ermeneutico principale riguarda allora la collocazione della disciplina
del personale nell’ambito della materia
organizzativa (di competenza regionale) ovvero in quella dell’ordinamento civile, quest’ultimo ascritto alla potestà legislativa esclusiva statale (art.117, lett. l). Solo in questa seconda ipotesi potrebbe essere sostenuta l’abilitazione
della legislazione statale in materia
di lavoro pubblico, vale a dire la capacità della stessa di stabilire regole di azione riferibili ad enti diversi dalle amministrazioni statali o dagli enti pubblici nazionali e, in particolare,
nei confronti del sistema delle autonomie. La posizione della Corte costituzionale, tuttavia, non appare ancora sufficientemente consolidata27.
Xxxx, nonostante alcuni generosi tentativi dottrinari di segno opposto28,
a volte sembra riaffacciarsi la tradizionale ricostruzione che incorpora la disciplina del lavoro pubblico nell’organizzazione amministrativa, con le connesse conseguenze sul piano della ripartizione delle risorse di legislazione (anche se, per la dirigenza, parte della dottrina aveva già identificato il nucleo portante della disciplina nell’ambito pubblicistico ed organizzativo29). Se si ascrivesse l’assetto degli incarichi dirigenziali
alla sfera dell’organizzazione amministrativa, ne discenderebbe l’impossibilità di incidere con legge statale sulle eventuali discipline definite in materia da regioni ed enti locali e, quindi, l’inattualità del percorso
di produzione normativa dell’art. 27, comma 1, del D.Lgs. n. 165. Qui, infatti, verrebbe in rilievo non il rapporto
di lavoro, ma quello di ufficio, vale a dire la componente organizzativa
del rapporto intercorrente fra dirigente ed amministrazione (anche se, secondo la Corte di Cassazione, che si è espressa con la sentenza n. 5659 del 2003, anche in questo caso saremmo in presenza
di una potestà organizzativa di diritto privato). Di tale lettura del testo costituzionale non hanno dubitato alcune regioni e molti enti locali, legiferando ampiamente in materia
e dettando una disciplina molto orientata verso la relazione fiduciaria fra dirigenza e amministratori locali.
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Si è quindi determinato il paradosso che il modello statale in materia di spoils system risulta essere attualmente molto più attenuato e garantista rispetto
a quello affermatosi nel settore delle autonomie.
In enti locali e regioni, infatti, si è affermato il modello dello spoils system puro (incarichi coincidenti con la durata dell’organo politico nominante) e non quello dello spoils system improprio
o all’“italiana” (incarico agganciato alla durata del provvedimento
di conferimento, indifferente al cambio dei governi, ma solo “revocabile” per inefficiente gestione). Lo spoils system previsto dalla Legge n. 127/97 per segretari comunali e provinciali e city manager, è stato infatti esteso, con varie leggi regionali e regolamenti
di organizzazione o statuti di enti locali, a tutti i dirigenti, i quali vengono rimossi dagli uffici al cambio del governo locale30, secondo un assetto giudicato legittimo dal giudice delle leggi31.
3.8. È auspicabile un intervento
di riforma, infine, perché l’esperienza della valutazione, una delle architravi del nuovo sistema, è divenuta
un feticcio da agitare nelle dichiarazioni dei ministri o nelle palestre dei convegni, sotto la quale si nasconde un’abdicazione ed una delle tante sfide perse. Tanto più grave se si riflette sulla circostanza che un apparato efficace e funzionante
di valutazione delle performances non è solo in funzione e a garanzia dell’efficacia, efficienza ed economicità delle pubbliche amministrazioni (secondo uno dei due slogan-obiettivo della privatizzazione; l’altro era - sic! - quello della preclusione dell’ingerenza degli organi politici dalla gestione amministrativa), ma agisce come vero
e proprio freno o controllo sociale
in caso di arbitrarie nomine o mancate conferme32.
3.9. Ritornando un po’ da dove si era iniziato, per il successo dei sistemi di valutazione pare indispensabile ripensare il ruolo della politica nei rapporti con le elités burocratiche, intervenendo sulla linea di faglia
delle relazioni fra politica
ed amministrazione. Secondo quanto già accennato, uno degli strumenti per determinare l’effettività dei sistemi controllo parrebbe quello di ancorare ai risultati della valutazione, in modo
inderogabile, la conferma o la rimozione del dirigente. Ovviamente occorrerebbe anche costruire obiettivi realmente sfidanti ed effettivamente negoziati nonché far sovrintendere
il funzionamento del sistema da organi terzi ed imparziali. Sembra opportuno, in questa prospettiva, completare
il disegno con la definizione
di un ambito operativo di spesa per
il dirigente, con l’attribuzione di budget da gestire autonomamente in rapporto agli obiettivi negoziati, anche attraverso il raccordo con le disposizioni
del D.Lgs. n. 297/97.
3.10. Occorre collegare in modo decisivo valutazione e conferma dell’incarico, ma forse occorre ripensare, più complessivamente, tutto l’impianto
del ciclo di programmazione e controllo ipotizzato dal D.Lgs. n. 286/99 alla luce della sua persistente inattuazione, per assecondare un processo che in questo caso appare più culturale che normativo33. Di una nuova riforma, insomma, c’è bisogno: ma che sia questa volta
una riforma bipartisan, per evitare faide sulle nomenclature dirigenziali
e una continua ridefinizione
degli assetti ad ogni cambio di governo, che produce solo instabilità e nuoce alla continuità amministrativa.
Una riforma bipartisan perché si affermi, nell’ottica di una pax amministrativa,
la cultura della condivisione come strategia di governo della società complessa.
Xxxxxxx Xxxxxx
Direttore Servizio Contrattazione Dipartimento funzione pubblica
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NOTE
1 L’espressione è di M. D’Antona, Lavoro pubblico e diritto del lavoro: la seconda privatizzazione del pubblico impiego nelle “leggi Bassanini”, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 1, 1998, 35. La “prima” privatizzazione è quella recata dal D.Lgs. n. 29/93 e dai decreti “correttivi” nn. 470 e 546 del 1993, emanati sulla base della delega contenuta nell’art. 2, comma 1, della Legge n. 421/2002; la “seconda” è quella normata dai dd.lgs n. 396/97 e nn. 80 e 387 del 1998, in attuazione della delega contenuta nell’art. 11, commi 4-6 della Legge n. 59/97. Tale sequela di decreti legislativi è poi confluita nel D.Lgs. n. 165/2001, norma “base” in materia di lavoro nelle pubbliche amministrazioni.
2 Ma sull’impossibilità dell’applicazione del principio di fiduciarietà - previsto dalla
Costituzione esclusivamente nel contesto dei rapporti intercorrenti fra Governo e Parlamento
- ai rapporti Governo-amministrazione, v. X. Xxxxxxx, Intervento al FORUM della pubblica amministrazione al Convegno su Dirigenza fra globalizzazione e complessità: interazione fra pubblico e privato, del 6 maggio 2003
in xxx.xxxxxxx.xx/xxxxxxx0000/xxxxxxxx; 2003. Sull’inesportabilità dell’analogo criterio privatistico della fiducia fra imprenditore e manager privatistico, mi sia consentito, invece, il rinvio a X. Xxxxxx, La dirigenza di vertice
fra politica ed amministrazione, Intervento
al Forum della pubblica amministrazione 2005, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2005, 6, 1047-1051. Cfr., anche, le considerazioni di C. X’Xxxx, I dirigenti pubblici. Custodi
della legalità o managers? in AA.VV., Miti e paradossi della burocrazia, Panorama, Mondadori, Milano, 2005, 70 ss.
3 X. Xxxxxxx, Il potere di scelta. Le nomine tra politica e amministrazione, Il Mulino, Bologna, 2000, 10 e 68.
4 In realtà lo spoils system in senso proprio, così come derivante dalla nozione tradizionale, ipotizza una cessazione automatica
degli incarichi al cambio dei Governi, tale da determinare un’assoluta coincidenza
fra incarico dirigenziale e durata dell’organo politico nominante. Nel nostro ordinamento questa fattispecie non si determina mai pienamente, essendo consentita nello Stato,
per circa una quarantina di figure (corrispondenti a Capi dipartimento e Segretari generali), una cessazione automatica che
si verifica - dopo le ulteriori modifiche introdotte dalla Legge n. 145/2002 - decorsi trenta giorni dal voto sulla fiducia al Governo (ciò che dovrebbe permettere un tempo per una verifica funzionale all’eventuale conferma).
Negli altri casi (dirigenti di ufficio generale o
di base) viene vincolata la durata degli incarichi ai limiti temporali contenuti nei provvedimenti di conferimento, per cui l’organo nominante ha semmai la facoltà di non confermare alla scadenza dell’incarico il dirigente all’ufficio
in cui era preposto, ma tale vicenda non incide sul rapporto di servizio che continua in altro ufficio dell’amministrazione. Riassuntivamente, si possono distinguere tre diverse ipotesi: uno spoils system “puro” (uffici a durata tendenzialmente contestuale con l’autorità politica), che interessa nel nostro ordinamento solo gli incarichi sovradirigenziali (ma, vedi ora, anche l’art. 2 del D.L. n. 262/2006); uno spoils system improprio o all’“italiana”, che interessa
i dirigenti intermedi (di ufficio generale), in cui il potere di nomina politica non è a durata contestuale (né contiene quello, simmetrico, di revoca se non nei casi di inefficienze gestionali oggettivamente acclarate), essendo agganciato al provvedimento di conferimento dell’incarico, con impossibilità, quindi, sia
del recesso ad nutum, che dell’estinzione del rapporto in caso di mancata conferma; un rapporto fiduciario puro, in cui il potere di nomina ha la stessa latitudine di quello di revoca, che si verifica, essenzialmente,
nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione dell’organo politico (cd. uffici di gabinetto).
La dirigenza di base sta a metà: è sottratta al potere di nomina politica ma come la dirigenza generale subisce la scissione fra rapporto
di ufficio e rapporto di servizio (rimanendo soggetta al provvedimento di incarico).
5 La durata media degli incarichi dirigenziali, di I fascia, successivamente alla Legge n.145,
è attestata su circa 2 anni e mezzo (rilevazione Dipartimento della funzione pubblica).
6 Le conseguenze di tale situazione sono intuibili sia per i dirigenti di livello generale che per quelli di base. Per i primi, tranne i casi rari nell’attuale sistema elettorale, ogni ministro, nell’arco di vigenza del proprio mandato,
ha la possibilità di una doppia nomina sullo stesso posto (attualmente il termine
minimo di durata dell’incarico è di tre anni). Per cui il destino professionale (sotto forma di conferma al posto ricoperto) è saldamente agganciato al volere del ministro nominante che, come avvertito, non ha per legge - nemmeno in caso di gestione non connotata
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da responsabilità - alcun onere di motivare
la mancata conferma. Argomentazioni analoghe valgono per i dirigenti di base. Questi se aspirano, com’è comprensibile, ad una nomina all’incarico apicale, devono “costituirsi nel periodo di durata di un governo le premesse necessarie o utili al loro scopo, comprese quelle che implicano convergenze di opinioni
o comportamenti” X. X’Xxxxx, La tormentata riforma della dirigenza pubblica, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2001, 31, che si riferiva al pregresso regime del D.Lgs. n. 80/98).
7 L’assenza di ogni onere di motivazione appare d’altra parte sintonica con la qualificazione privatistica dell’atto di conferimento dell’incarico affermata, in modo non troppo convincente, dalla Corte di cassazione con
la sentenza della sezione lavoro n. 5659 del 20 marzo 2004. Secondo la S.C. gli incarichi dirigenziali non sarebbero compresi entro
la soglia strutturale degli uffici pubblici, ma nell’area dell’organizzazione del lavoro ex art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001; in specie gli atti di conferimento sarebbero sussumibili nell’area degli atti di microrganizzazione, esercizio di potere unilaterale dell’amministrazione ma di diritto privato.
La natura privatistica dell’atto di conferimento in effetti esclude l’esistenza di un obbligo
di motivazione ai sensi della Legge n. 241/90, mentre rimangono in piedi gli oneri
di motivazione “generici” di diritto privato (correttezza e buona fede), con il limite
della manifesta irragionevolezza ed arbitrarietà, che operano tuttavia solo nella fase di nomina e non in quella di mancata conferma.
Ma le regole civilistiche non possono non essere lette in relazione alla tipicità
dell’interesse pubblico che viene in rilievo nel conferimento dell’incarico dirigenziale,
il quale importa che l’esercizio del potere non possa mai essere privatistico in senso proprio, ma funzionalizzato all’interesse generale, circostanza che restaura pienamente i canoni dell’imparzialità e buon andamento ex art. 97 cost., alla cui stregua devono essere applicati
i principi di correttezza e buona fede (così si esprimono le SS.UU. della Corte di Cassazione nella sentenza del 26 giugno 2002, 9332).
8 G. D’Auria, La tormentata riforma, cit., 31.
9 A seguito del primo spoils system generalizzato (art.8, comma 2, del Dpr n. 150/99) sono stati rimossi 40 dirigenti generali, con attribuzione a 29 di essi di un incarico di studio e la messa a disposizione degli altri 11 presso
il ruolo unico (Relazione al Parlamento dell’Ufficio del Ruolo Unico redatta ai sensi dell’articolo 3, comma 2, lettera l) del dpr n. 150/99, anno 2000, primo e secondo semestre).
A seguito del secondo spoils system (ex art.3, comma 7, Legge n. 145/2002) non è stato confermato all’incarico ben il 25,84%
dei dirigenti di prima fascia (115 unità su
un totale di 445 dirigenti). A 74 dirigenti rimossi è stato conferito un incarico equivalente,
agli altri 41 un incarico di studio (della durata massima di un anno). Gli “spazi” lasciati vuoti dalle rimozioni sono stati colmati da nuovi incarichi conferiti discrezionalmente dall’autorità politica. Tali incarichi hanno interessato professionalità esterne (ex art. 19 comma 6) in 31 casi (7%) ed hanno comportato la “promozione” di 146 dirigenti di seconda fascia, cui è stato conferito un incarico di livello dirigenziale generale (cfr. la risposta del Ministro pro tempore per la funzione pubblica Xxxxx Xxxxxxxx alle interpellanze 2-00557 dell’on.le La Malfa – 2-00560 degli xx.xx Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxx e Xxxxx, nella seduta n. 254,
del 28-1-2003).
10 X. Xxxxxxx, Il nuovo regime dei dirigenti pubblici italiani: una modificazione costituzionale, in Giornale di diritto amministrativo, 2002, 12, 1341.
11 Nel caso della dirigenza pubblica il profilo dell’esercizio del potere conferito non può che prevalere su quello della prestazione d’opera fino ad assorbirla, per cui le garanzie – che nel diritto privato sono indirizzate alla persona – nel pubblico impiego dovrebbero essere riferite alla funzione esercitata (al riguardo
si veda X. Xxxxxxxx, Contro la privatizzazione della dirigenza pubblica, in Diritti, lavori, mercati, 2005, 1, 624).
12 X. Xxxxxxx, Il rapporto fra politica
ed amministrazione, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2, 2003, che provocatoriamente evidenzia come “il dirigente, che vuole mantenere la titolarità della funzione, deve innanzitutto ricordarsi di chi lo ha nominato; deve, in secondo luogo, obbedire a chi
lo confermerà; deve, infine, tenere d’occhio chi potrebbe subentrare al comando dell’amministrazione e avvicendarsi nella titolarità del potere di nomina, per confermarlo nuovamente”.
13 L’individuazione degli incarichi a base fiduciaria potrebbe essere determinata tramite atti di organizzazione di ciascun Ministero,
nel rispetto di alcuni criteri generali di tipo trasversale che ne delimitino la tipologia.
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14 Cfr. l’art. 14 sexies del Decreto legge n. 115/2005.
15 Il trattamento economico medio della dirigenza di seconda fascia è attualmente inferiore a meno della metà di quello corrisposto alla dirigenza di prima (€141.511,07, lorde annue per 13 mensilità contro €66.902,38 della seconda fascia. Dati ARAN). È a partire dall’anno 2000 che la retribuzione media lorda del dirigente generale si incrementa in modo considerevole (in forza dei riconoscimenti retributivi derivanti dalla tornata contrattuale 1997-2001, a seguito degli appositi stanziamenti aggiuntivi, previsti nella legge finanziaria per l’anno 2001), diventando pari a più del doppio di quella di un dirigente di base (mentre
nel 1992 la retribuzione del dirigente superiore
corrispondeva a più di 2/3 di quella del direttore generale. Dati Conto annuale Ministero economia e finanze). Anche letti in forma diacronica i dati marcano il progressivo incremento della forbice retributiva fra le due fasce dirigenziali. Le retribuzioni della I fascia dal 1993 al 2003 sono cresciute del 160%, quelle dei dirigenti di II fascia del 42,7%, un trend, quest’ultimo, quasi analogo a quello relativo agli altri dipendenti pubblici nel medesimo lasso di tempo (40.7%). Ci si muove, evidentemente, quantomeno per i dirigenti
di livello generale, ben al di là dell’adeguamento ai tassi di inflazione programmati.
Tale sperequazione, di tipo “verticale”, fra dirigenza di diverse fasce, si aggiunge
a quella “orizzontale” fra dirigenza della stessa fascia ma appartenente a dicasteri diversi, conseguenza della diversa consistenza
dei fondi unici di amministrazione, che retribuiscono la parte accessoria della retribuzione (posizione variabile e risultato). Per cui, ad esempio, un dirigente di prima fascia del Ministero dell’economia e finanze percepisce 205.175,14 euro contro i 124.385 euro percepiti dal suo pari grado nel Ministero delle infrastrutture (retribuzioni medie annue lorde al 31-12-2004, dati della Corte dei conti).
Più in generale può dirsi che l’affermazione gianniniana per cui “i dirigenti pubblici sono troppi e mal pagati” oggi non è più vera.
Dai dati del Conto annuale del Ministero dell’economia e delle finanze dell’anno 2003, si evince che i dirigenti pubblici costituiscono l’1,11% sul totale dei dipendenti, percentuale che si incrementa lievemente per le amministrazioni statali (3,2%).
Dal 1992 ad oggi, il trend è fortemente decrescente (i dirigenti generali passano da 521 a 336; gli altri dirigenti da 4235 a 3795).
16 Per la copertura di uffici di livello generale si rivela in effetti altissimo il ricorso a dirigenti di seconda fascia, chiamati a coprire quasi
il 46% dei posti a fronte del 36% dei posti ricoperti da dirigenti di prima fascia (!) (mentre l’8% è attribuito ad estranei ex art. 19, comma 6, e poco più del 3% a dirigenti di altre amministrazioni pubbliche ai sensi dell’art. 19, comma 5 bis del D.Lgs. n. 165/2001)
(dati Corte dei conti).
17 Si può ricostruire la vicenda attraverso l’analisi dei lavori preparatori della riforma in
X. X’Xxxxxx, X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxx, Riforma
del lavoro pubblico e riforma della pubblica amministrazione, Xxxxxxx, Milano, 2001.
18 Cfr. Consiglio di Stato, parere Commissione Speciale Pubblico Impiego, sez. II, 27 febbraio 2003, n.514 (cfr., invece, l’“oscillazione”
della Corte dei conti: Sez. contr. legittimità, 23 maggio 2001, n.22 e delib. 13/2004/P, ad. I e II collegio, 25 novembre 2004).
19 È stata, più precisamente, la legge di conversione del D.L. n. 115/2005 (Legge17 agosto 2005, n.168) ad inserire, nel corpo
del comma 6 dell’art. 19 del D.Lgs. n. 165/2001,
il chiarimento interpretativo in grado di superare l’opposto avviso del Consiglio di Stato (allorché si definiscono i “titoli” ritenuti utili per
il conferimento dell’incarico e vi si aggiungono le concrete esperienze di lavoro maturate “anche presso le amministrazioni
che conferiscono gli incarichi”).
20 X. X’Xxxxxxx, Nuove norme sulla dirigenza:
il legislatore miope e le voci amiche, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 3-4, 2005, 452.
21 Xxxxx pronunce del giudice contabile considerano eccezionale il ricorso al meccanismo dell’art. 19, comma 6, e lo condizionano all’accertata inesistenza di professionalità analoghe all’interno dell’amministrazione: ciò appare l’indefettibile presupposto per attivare la procedura e reclutare all’esterno il soggetto idoneo. Ogni amministrazione dovrebbe sempre avere l’obbligo di effettuare un’attività istruttoria volta a verificare la mancanza,
nel ruolo dell’amministrazione, dei dirigenti in possesso dei prescritti requisiti
di professionalità, anche attraverso una fase procedimentale da cui dovrebbe evincersi anche il possesso dei particolari requisiti
nel soggetto prescelto. Cfr. i rilievi della Corte dei conti, nella recente indagine La gestione degli incarichi dirigenziali nello Stato dopo
la legge n. 145/2002, del giugno 2006, nonché,
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in dottrina, X. Xxxxxxx, op. cit., 290, anche per i cospicui richiami di giurisprudenza.
22 In questa direzione si situa l’intervento recentissimo, attuato con l’art.2, comma 159, del Decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262.
23 Duplicazioni e sovrapposizioni possono provocare conflittualità intraorganizzativa, confusione, attribuzione di poteri amministrativi ad un ceto scelto con criteri spesso politici (e, quindi, uno spoils system “sommerso”) nonché demotivazione
nella burocrazia professionale. Tali rilievi sono pressoché in tutti i commenti ed in tutte
le indagini (per esempio X. Xxxxxxxx, Politica ed amministrazione nei processi decisionali,
in G. D’Auria e X. Xxxxxxxx (a cura di), Politici e burocrati al governo dell’amministrazione, Il Mulino, Bologna, 1995, 82; G. D’Auria,
La politica alla (ri)conquista dell’amministrazione, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 6, 2002, X. Xxxxxxx, Il dirigente dello Stato, cit., 170;
X. Xxxxxxx, op cit., 81) ed erano già nelle “preoccupazioni” di C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, I, X ed., Cedam, Padova, 1991, 625.
24 L’efficace espressione è di X. Xxxxxxxx, op cit., 134, che evidenzia come tramite tali uffici
il Ministro si riprende la gestione attiva, perché “gli uomini del Ministro soppiantano quelli
del Ministero”.
25 X. Xxxxxxx, op. cit., 85.
26 Cfr. il combinato disposto degli artt. 117, commi 2, lett g) e 4, e 123 Cost. Analogamente, la competenza di comuni, province e città metropolitane nella materia organizzativa,
in relazione all’autonomia statutaria
e regolamentare loro commessa, è radicabile negli artt. 114, comma 2, e 117, comma 6, Cost.
27 Per una ricostruzione della non sempre coerente giurisprudenza costituzionale sulla materia si possono vedere innanzitutto le sentenze n. 4 e n. 260 del 2004, relative alla possibilità per lo Stato di introdurre
con legge finanziaria dei “tetti” di spesa per la contrattazione collettiva di regioni ed enti locali, nonché di intervenire attraverso disposizioni in materia di rapporto di lavoro, possibilità ritenuta legittima in quanto ascrivibile al dominio della potestà legislativa concorrente sub specie dell’armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento
della finanza pubblica. Ma già con la sentenza 24 luglio 2003, n. 274, la Corte costituzionale sembra abbia voluto ricomprendere lo stato giuridico ed economico del personale nell’ambito della potestà organizzativa residuale delle regioni, con conseguenze sistematiche immediatamente avvertibili.
Successivamente si vedano le sentenze 17 dicembre 2004, n. 390 e 9-14 novembre 2005,
n. 417, che hanno riconosciuto l’indebita invasione, da parte della legge statale, dell’area (organizzazione della propria struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali ed agli enti locali, imponendo precetti specifici e puntuali (fra l’altro in materia di assunzioni ed incarichi di studio e consulenza), esulanti la potestà di coordinamento della finanza pubblica. Infine la sentenza 16 giugno 2006, n. 233 ha espressamente stabilito che
“le norme impugnate concernono, in linea di massima, una materia (l’organizzazione amministrativa della Regione, comprensiva dell’incidenza della stessa sulla disciplina del relativo personale) attribuita alla competenza residuale delle Regioni (art. 117,
quarto comma, Cost.), da esercitare nel rispetto dei principi fondamentali di organizzazione
e funzionamento fissati negli statuti (art. 123 Cost.)”. Molto più problematicamente si è posta la Corte con le sentenze n. 2, 345, 379 e 388 del 2004, che fra l’altro escludono la competenza della regione ad intervenire con legge nelle materie del rapporto di lavoro “nei suoi aspetti di diritto civile”, pur salvaguardando
la competenza delle stesse per quei profili di lavoro pubblico rientranti nell’ambito
pubblicistico dell’organizzazione amministrativa, mentre con la sentenza n. 380 dello stesso anno e la n. 26 dell’anno successivo, la Consulta
ha potuto affermare l’estraneità della materia concorsuale all’“ordinamento civile”,
di competenza statale, pur senza specificare puntualmente quali siano gli altri aspetti riconducibili all’“ordinamento ed organizzazione amministrativa” (e, analogamente, si è espressa
- con riferimento alle dotazioni organiche – attraverso la sentenza n. 37 del 2005).
28 Per tutti si veda X. Xxxxxxx, Riforma costituzionale e diritto del lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, 2003.
29 I profili maggiori dell’assetto del lavoro dirigenziale sono sembrati investire aspetti di tipo organizzativo e pubblicistico,
con riferimento all’assetto dei poteri dirigenziali, al rapporto fra politica ed amministrazione,
agli incarichi, alla responsabilità, ecc.
(cfr. X. Xxxxxxxx, La dirigenza pubblica locale tra vecchie impostazioni e nuove tendenze,
in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 6, 2002, 907-908, per il quale rilevano la posizione
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organizzativa del dirigente e, nel relativo rapporto di lavoro, i profili concernenti l’esercizio del potere pubblico, per cui sfuma il rilievo lavoristico della prestazione e, automaticamente, discende la riconduzione
del rapporto di lavoro dirigenziale all’ordinamento ed all’organizzazione amministrativa ascrivibile alla competenza residuale delle Regioni).
30 L’effetto è paradossale. Alcune stime quantificano il numero di tali incarichi soggetti a cessazione automatica in oltre diecimila posti, fenomeno proporzionalmente ben più ampio rispetto allo spoils system statunitense, che interessa, per ogni mandato presidenziale,
non più di tremila unità di persone, pari a meno dello 0,2 per cento degli impiegati civili dell’esecutivo (cfr. C. Di Xxxxxx, Lo spoils system: noterelle sulla disciplina della dirigenza pubblica in Italia e spunti comparatistici,
in Rassegna parlamentare, 2003, p. 604, il quale segnala come l’obiettivo nel sistema degli Stati Uniti sia quello dell’ulteriore riduzione
del numero, ritenuto ancora troppo elevato).
31 La Corte costituzionale, con la sentenza 16 giugno 2006 n. 233, ha riconosciuto la legittimità della legislazione regionale sullo spoils system, rivendicando solo l’esistenza di una soglia- limite a “carattere orizzontale”, con una valutazione che pare più di quantità che non
di principio. Secondo la prospettiva avvalorata possono essere legittimamente soggetti
ad una nomina secondo intuitus personae (fondata su valutazioni personali coerenti con l’indirizzo politico) ed assoggettabili
a spoils system puro (simul stabunt simul cadent), tutti gli incarichi apicali conferiti direttamente dall’autorità politica. Per identificare l’“apicalità”, e quindi la soglia entro la quale è legittimo lo spoils system, la Corte sembra
fa riferimento alla natura dell’autorità che conferisce l’incarico: rimangono estranei
allo spoils system solo gli incarichi non conferiti direttamente dal vertice politico
(e di conseguenza non legati ad esso
dallo stesso grado di contiguità che connota gli incarichi apicali). Oltre al principio di diritto affermato, che pure determina ricadute sistemiche ed ordinamentali di non poca rilevanza, ancora più importanti, se è possibile, paiono le motivazioni addotte per verificare
la legittimità dell’istituto.
Secondo la ricostruzione della Corte esso
sarebbe preposto a garantire il buon andamento in funzione della “coesione della compagine
di governo”. Tale finalizzazione renderebbe legittima e funzionale in successione:
la nomina discrezionale, la cessazione automatica al cambio dei governi,
la non doverosità della valutazione tecnica della professionalità e competenza dei nominati.
32 La valutazione delle performances dirigenziali, infatti, è (rectius dovrebbe essere) il presupposto, sia dell’assegnazione dell’incarico (cfr. l’art. 19, comma 1, del D.Lgs.
n. 165/2001, che fa riferimento ai risultati conseguiti in precedenza, con riferimento ad obiettivi e programmi assegnati), che della revoca, collegata a risultati negativi
della gestione (cfr. l’art. 21, che fa riferimento al mancato raggiungimento degli obiettivi
o all’inosservanza delle direttive, ma anche l’art. 5 del D.Lgs. n. 286/99, che si riferisce ai “risultati negativi dell’attività amministrativa
e della gestione”).
La legge, evidentemente, non vuole ancorare al solo indice fiduciario la nomina, la revoca e la mancata conferma degli incarichi.
Lo stato dell’arte in materia è tuttavia sconsolante. Cfr. le conclusioni della direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri
15 novembre 2001, che a sua volta riconosce apertis verbis che “ad oggi quasi nessuna amministrazione si è dotata di un sistema
di valutazione validato e funzionante di valutazione dei dirigenti”.
Ma questo rilievo risulta confermato da tutte
le indagini, anche le più recenti. Cfr. il rapporto di legislatura del Comitato tecnico scientifico per il coordinamento in materia di valutazione e controllo strategico nelle amministrazioni dello Stato “Processi di programmazione strategica e controlli interni nei ministeri.
Stato e prospettive”, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, marzo 2006; la relazione della Corte dei conti - Sezione centrale di controllo
sulla gestione delle amministrazioni dello Stato “La gestione degli incarichi dirigenziali
nello Stato dopo la legge n. 145/2002”
(delibera n. 10/2006/G approvata il 9 giugno 2006) e il Rapporto, curato dal Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Xxxxxxxx Xxxxxxxx”, I sistemi di valutazione della dirigenza nelle pubbliche amministrazioni dello Stato, del dicembre 2005.
33 Il processo di programmazione è stato definito una sorta di “rito di iniziazione” per l’adempimento di una norma,
per legittimare la prevista parte di retribuzione, con scarse o nulle ricadute sulle modalità
di operare e sulla cultura della dirigenza”.
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VALUTAZIONE
E GOVERNANCE
DEL SISTEMA SCOLASTICO INGLESE
1. PREMESSA
In questa nota ci occuperemo della valutazione come strumento
di governance1 del sistema scolastico in Inghilterra. Limiteremo la nostra analisi a questa “nazione” del Regno Unito e non ci occuperemo, se non tangenzialmente, di quanto avviene in Galles, Irlanda del Nord e Scozia:
sebbene i sistemi scolastici e le rispettive forme di regolazione dei quattro countries del Regno Unito conservino significative affinità, è pur vero che esistono
tra di essi differenze non banali che richiederebbero un’analisi più approfondita di quella che possiamo condurre in questa sede.
Nella letteratura delle scienze economiche e sociali si discute animatamente sulla path dependence delle soluzioni organizzative rivolte
a indirizzare, coordinare e governare le relazioni e le prestazioni dei diversi
attori che partecipano alla realizzazione delle politiche pubbliche2.
Secondo tale approccio la governance e la valutazione di un sistema complesso come quello scolastico difficilmente possono essere comprese senza tener conto del contesto
storico-istituzionale entro il quale si è sviluppato nel corso del tempo.
Soprattutto dal punto di vista della comparabilità e trasferibilità
da un contesto all’altro delle diverse soluzioni, è necessario dunque accennare al processo evolutivo
dal quale sono scaturite le forme
di regolazione e di valutazione che andremo ad esporre.
2. IL CONTESTO STORICO- ISTITUZIONALE
Va detto in primo luogo che, contrariamente a quanto avvenuto
in molti paesi dell’Europa continentale, le istituzioni scolastiche inglesi hanno goduto fin dall’inizio un amplissimo grado di autonomia. Fu Xxxxxxx Xxxxxxxxx ad affermare, paradossalmente ma in modo del tutto plausibile, che gli headmasters (i presidi) avevano un potere discrezionale all’interno delle loro scuole molto superiore a quello di un primo ministro. In verità, gli interventi del governo inglese sul sistema scolastico, per tutto il XIX secolo e la prima metà del XX secolo, non mancarono, ma furono soprattutto diretti ad assicurare l’ampliamento del diritto allo studio secondo le spinte progressive sia
del welfare state che delle necessità tecnologico-industriali di una nazione economicamente avanzata.
Queste spinte si risolsero principalmente nell’associare al finanziamento locale
e privato del sistema educativo anche
il finanziamento statale e l’obbligatorietà dell’istruzione primaria e secondaria fino ai 14 anni (1918). Tali interventi
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non si tradussero però in un cambiamento sostanziale della governance del sistema che rimase affidato alle comunità locali, tramite le local educational Authorities (XXX) create nel 1902, nei cui consigli (boards) furono inclusi sia politici eletti o designati degli enti locali sia rappresentanti del personale
e delle famiglie. Non ci fu, altresì, alcun processo di standardizzazione
degli sviluppi educativi interni alle scuole dopo la fissazione, con legge risalente
al 1840, del curriculum delle grammar schools, le scuole frequentate
dalle élites e dai ceti medio-alti della società inglese.
La razionalizzazione del sistema fu realizzata alla fine della seconda guerra mondiale quando i laburisti con
il Xxxxxx Education Act del 1944 alzarono l’età dell’obbligo scolastico a 15 anni (portato nel 1972 a 16 anni) e operarono una tripartizione dei percorsi scolastici medi-superiori. Da una parte, vennero mantenute le grammar schools
alle quali furono affiancate le scuole tecniche (simili per certi versi rispettivamente ai licei classici e ai licei scientifici Italiani) dove destinare
gli allievi con i punteggi più alti nelle prove di capacità cognitive previste per gli allievi undicenni alla fine del percorso di studio “primario”. Dall’altra parte, furono
create le modern schools nelle quali far confluire gli studenti con capacità cognitive e intellettive inferiori,
da educare e istruire per mansioni lavorative meno complesse e più pratiche. Gli stessi laburisti, una volta tornati al potere nel 1964, cambiarono tuttavia completamente registro quando si accorsero che il sistema tripartito favoriva poco o per nulla
la mobilità sociale, rischiando così di ratificare, se non addirittura
di accentuare, il carattere “classista” dell’educazione inglese. Fu proposto
così il modello delle comprehensive schools alle quali far accedere
gli studenti senza alcuna selezione preventiva3. Da notare come questa evoluzione sia immediamente successiva alla introduzione in Italia della “scuola media unica”, che standardizzò l’offerta formativa relativamente alla scuola media inferiore, senza intaccare quella della media superiore che rimane ancora oggi molto più segmentata
di quella inglese.
Tuttavia, contrariamente a quanto avvenuto in Italia, dove il nuovo modello di scuola media inferiore venne imposto in modo uniforme su tutto il territorio nazionale,
in Inghilterra la responsabilità della scelta del modello scolastico
e del tipo di scuola da adottare rimase piena responsabilità delle 133 LEA (anche se i governi laburisti cercarono di influenzare la scelta utilizzando
i finanziamenti per l’edilizia scolastica).
Di conseguenza il processo
di attuazione della nuova policy fu piuttosto lungo e solo nel 1976 venne ufficialmente proibito alle scuole pubbliche di utilizzare test
di ammissione al fine di selezionare i propri studenti come facevano
le grammar schools e le independent schools (scuole finanziate privatamente). Ciononostante ancor oggi esistono,
in alcune contee, 160 grammar schools pubbliche (con 141.000 alunni), mentre sono aumentate le scuole indipendenti finanziate dalle famiglie, che continuano a selezionare i propri allievi
(8% della popolazione scolastica) sulla base delle loro capacità.
La rivoluzione conservatrice iniziata nel 1979 investì in pieno il sistema scolastico con l’Education Reform Act del 1988 con il quale vennero affermati
i principi della concorrenza tra le scuole e quello della libera scelta da parte delle famiglie. L’intento dichiarato
dei conservatori era di creare un quasi- mercato nella istruzione primaria
e secondaria, mediante una formula di finanziamento capitario che privilegiava la capacità di attrazione delle singole scuole e l’introduzione
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di una serie di test (standard assessment tests, SATs) a quattro stadi nel processo scolastico di ciascun allievo (a 7, 11, 14 e 16 anni). Sulla base dei risultati
di questi test, affiancati ai dati sui tassi di abbandono scolastico, si potevano così elaborare statistiche sulle prestazioni di ciascun istituto e di ciascun distretto scolastico (league tables) necessarie per consentire alle famiglie
di effettuare una scelta “informata”. La maggiore responsabilità (accountability) delle singole scuole fu accompagnata dal trasferimento
di molti poteri decisionali sulla gestione delle risorse materiali e umane, interne a ciascuna scuola, dalle LEA ai loro consigli di governo (boards) e da questi ultimi ai presidi.
È importante sottolineare che, accanto alle misure rivolte a utilizzare il “mercato” o la competizione come meccanismo di coordinamento e di regolazione, vennero introdotte, dal governo conservatore, politiche di forte centralizzazione come il curriculum nazionale, tramite il quale si impose alle scuole, per la prima volta,
un notevole grado di standardizzazione nell’insegnamento delle discipline scolastiche. Inoltre, si provvide nel 1993 a ristabilire il ruolo del Capo Ispettore di Sua Maestà (nominato dal privy Council, ma sostanzialmente dal primo Ministro) mettendolo a capo dell’Office for standards in education (OfSTED),
un dipartimento/agenzia non ministeriale con ampia autonomia operativa e di proposta. La principale responsabilità dell’OfSTED è quella di ispezionare ciclicamente
(almeno una volta ogni sette anni) tutte le scuole, fornendo un rapporto, che viene pubblicato sul web, nel quale sono esposti i punti di forza
e di debolezza di ciascuna scuola, evidenziando le situazioni più critiche sulle quali concentrare il monitoraggio anche attraverso la individuazione
di adeguati percorsi di cambiamento. Infine, il governo conservatore cercò di sottrarre al controllo delle LEA
una parte degli istituti scolastici offrendo loro consistenti finanziamenti aggiuntivi.
L’esperimento conservatore si interruppe con l’avvento, nel 1997, dei governi laburisti guidati da Xxxxx i quali avviarono un nuovo ciclo
di riforme, che nel settore educativo come in altre aree, in parte cambiavano, anche sostanzialmente, le direttive ispirate al new public management,
ma in parte ne confermavano alcuni principi di fondo. Le principali direttrici lungo le quali si sono mossi i governi laburisti nell’ultimo decennio
sono state le seguenti:
• potenziamento della capacità di scelta e di azione degli utenti (empowerment) attraverso la diffusione dell’informazione sulle performances delle istituzioni scolastiche, ma anche attraverso la diversificazione dell’offerta educativa (in sostanziale continuità con le riforme precedenti, ma con una attenzione più stringente all’adeguatezza degli strumenti conoscitivi);
• personalizzazione dei processi di insegnamento e dei servizi
educativi rivolti a recuperare i bisogni degli “allievi più difficili
da raggiungere”, senza sacrificare l’esigenza di migliorare costantemente gli standard di apprendimento
(nel tentativo di conciliare l’esigenza dell’efficacia educativa con il valore dell’equità sociale);
• estensione dei processi di valutazione al personale insegnante, in vista
di uno sviluppo crescente dei suoi livelli di motivazione e di professionalità (aspetto sostanzialmente trascurato nelle riforme precedenti);
• maggiore coinvolgimento
e responsabilizzazione degli utenti nei processi di governo delle scuole che consenta il passaggio
ad una versione più partecipativa delle attività di coordinamento
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e di regolazione (sulla scia dei teorizzatori della network governance);
• aumento del numero di studenti che proseguono gli studi oltre i sedici anni con l’adozione di percorsi professionali e pre-universitari
più flessibili (in netto contrasto con l’approccio conservatore);
• riduzione sostanziale del peso burocratico e del costo complessivo dei sistemi di valutazione (in ossequio al principio secondo il quale i servizi pubblici devono rispettare il criterio efficientista del value for money, indubbiamente condiviso con
i precedenti governi conservatori).
Nella sezione successiva descriveremo il sistema attuale di valutazione
e governance del sistema educativo inglese dopo dieci anni di riforme perseguite in un’ottica sia di continuità che di innovazione.
3. IL SISTEMA DI VALUTAZIONE COME STRUMENTO
DI UNA GOVERNANCE A RETE DECENTRATA CON ATTORI MULTIPLI E INTERDIPENDENTI
L’attuale sistema di governance
e valutazione del sistema educativo inglese è il risultato di un lungo processo di riforme e cambiamenti che ha prodotto un insieme complesso
di organismi e meccanismi di regolazione fortemente
interdipendenti tra di loro, ma solo molto parzialmente secondo
le modalità tradizionali dei rapporti di subordinazione gerarchica.
3.1. IL RUOLO DEL DEPARTMENT FOR EDUCATION AND SKILLS (DFES)
La prima constatazione da fare è che il Department for education and skills (DfES) inglese governa il sistema
scolastico, i servizi per i bambini in età prescolastica, l’istruzione terziaria non-universitaria (further education)
e l’istruzione per gli adulti in qualità di “leader strategico” (come lo stesso si definisce). Ciò vuol dire che, da una parte, il DfES è impegnato a rispettare i limiti di spesa stabiliti dal Ministero del tesoro nelle comprehensive spending reviews che ogni tre anni
definiscono, attraverso appositi accordi (public service agreements, PSA), anche i principali miglioramenti attesi
nello svolgimento dei servizi di cui
i diversi ministeri sono responsabili.
Dall’altra parte, le responsabilità del DfES sono raramente di natura
gestionale, in quanto la realizzazione della maggior parte dei compiti, che nei paesi a tradizione amministrativa “napoleonica” o continentale vengono svolti dagli apparati ministeriali,
è devoluta sia agli enti e alle istituzioni più vicine agli utenti sia alle agenzie non ministeriali sulle quali il DfES ha un potere di direzione non gerarchica che si sostanzia nelle seguenti attività:
• nomina diretta del direttore dell’agenzia;
• stesura di note di indirizzo sulle missions delle agenzie,
accompagnate dalla individuazione dell’assetto statutario e dall’assegnazione delle risorse;
• controllo e valutazione attraverso un attento monitoraggio dei risultati
ottenuti (performance management)4.
Ovviamente la responsabilità del DfES si estende al funzionamento di tutto
il sistema, rispetto al quale il DfES opera come facilitatore attivo
della collaborazione tra i vari soggetti coinvolti nei processi di realizzazione delle diverse iniziative e come titolare della funzione di raccolta sistematica dei dati, degli indicatori
e delle informazioni che consentono di verificare in modo costante l’obiettivo di migliorare continuamente le performances del sistema nel suo complesso e delle sue parti rilevanti.
Ad esempio, le statistiche relative
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alle league tables degli istituti scolastici è una responsabilità primaria del DfES.
A testimonianza dell’attenzione
e del rigore analitico con cui quest’ultima funzione viene svolta dal DfES, qui vale ricordare come, in seguito alle critiche avanzate dagli studiosi, da un paio
di anni si misurano in ciascuna scuola (mediante sofisticati contextual value added indicators) le differenze tra
i livelli di apprendimento degli studenti sia al momento dell’entrata che
al momento dell’uscita, in modo
da ottenere quell’indicatore di “valore aggiunto” senza il quale si rischia,
nel valutare i risultati di apprendimento, di non distinguere il contributo effettivo della scuola da quello attribuibile
ai talenti naturali degli allievi e al loro contesto socio-familiare5.
Altrettanto importante è il ruolo che il DfES svolge nell’incentivare
e sostenere la diversificazione dell’offerta formativa a tutti i livelli educativi, con l’intento dichiarato di realizzare l’obiettivo governativo di “assicurare a tutti i ragazzi
di ogni tipo di scuola l’educazione di cui hanno bisogno per sviluppare al massimo il proprio potenziale”.
Per ragioni di spazio qui citeremo soltanto due esempi:
X.Xx possibilità che l’Education and Inspection Act del 2006 ha dato alle scuole mantenute dallo stato
di sottrarsi al controllo delle autorità locali, diventando foundation schools. Tali scuole avrebbero sia
la proprietà dei loro beni mobili
ed immobili che la piena disponibilità di gestire autonomamente il proprio personale (entro i limiti contrattuali) e verrebbero gestite da Consigli
nei quali la maggioranza degli eletti è nominata da una fondazione.
Inoltre, le stesse scuole potrebbero stabilire dei contributi finanziari
a carico delle famiglie con redditi superiori ad una certa soglia.
B.L’esperimento delle academies, scuole “innovative” costituite sulla base anche di finanziamenti di soggetti privati che potrebbero così influenzarne i contenuti
educativi, essendo le stesse scuole esentate dal rispetto del curriculum nazionale e potendo selezionare fino al 10% della popolazione studentesca sulla base di test attitudinali (ma sottoposte ancora agli esami per le league tables)6.
3.2. IL RUOLO DELLE AGENZIE, DEGLI ENTI LOCALI E DEI PRINCIPALI ORGANISMI PRIVATI COINVOLTI NEI PROCESSI DI VALUTAZIONE
La prima Agenzia non ministeriale
da considerare è l’Office for standards in education (OfSTED) diretta dal Capo Ispettore di Sua Maestà e governata
da un Consiglio di Amministrazione strategico con consiglieri non appartenenti al management (tranne il Capo Ispettore) e sono nominati dal governo. Fin dall’inizio il ruolo principale dell’OfSTED è stato quello
di organizzare i servizi ispettivi presso tutte le scuole inglesi (inclusi i centri rivolti all’insegnamento iniziale
degli insegnanti) con lo scopo
di riportare le situazioni lacunose sia alle autorità locali (LEA) responsabili dei processi educativi sia all’opinione pubblica tramite la pubblicazione dei suoi rapporti sul web. Rispetto al DfES, le responsabilità dell’OfSTED includono sia funzioni di consulenza su tutte le politiche educative
(ad eccezione di quelle connesse al settore dell’higher education) sia la pubblicazione di un rapporto
sull’attività ispettiva svolta nel corso dell’anno. Nel corso dei primi mesi del 2007 sono confluite nell’OfSTED anche le attività dell’Ispettorato sull’istruzione agli adulti e quelle relative all’ispezione e regolazione dei servizi sociali ai bambini in età prescolare, per cui la denominazione completa dell’agenzia è diventata
“The Office for standards in education, children’s services and skills”.
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L’agenzia ha così raggiunto dimensioni rilevanti con 2700 addetti dislocati
su tutto il territorio inglese di cui più della metà sono ispettori.
A questi ultimi si aggiungono 1100 ispettori certificati utilizzati dall’OfSTED per i propri compiti, ma dipendenti da enti pubblici
o privati a livello nazionale o locale7. Da notare che gli ispettori dedicano la maggior parte del loro tempo lavorativo alle ispezioni, mentre per il lavoro segretariale e di stesura
dei rapporti utilizzano collegamenti in remoto dalle loro case.
Inoltre, molti ispettori self-employed (non dipendenti) operano come consulenti delle stesse scuole e come formatori per chi opera negli istituti scolastici. Spesso le stesse attività ispettive sono affidate mediante gare competitive, secondo il principio
della contestabilità dei servizi pubblici. Comunque l’ammontare di risorse finanziarie è considerevole.
Il bilancio preventivo complessivo per l’anno fiscale 2007-2008 è di 236 milioni di sterline (circa 350 milioni di euro); sono quindi comprensibili le pressioni costanti del governo alla riduzione
di tale costo. Nel 2003 il costo era di 266 milioni di sterline e l’OfSTED si era impegnato a ridurre le proprie spese
a 186 milioni di sterline per il 2008-20098. La spinta alla riduzione dei costi,
ma anche la necessità di ridurre il peso burocratico delle ispezioni per
le scuole, ha portato ad importanti modifiche nelle modalità procedurali e di contenuto con cui vengono svolte le ispezioni. Se in passato le ispezioni venivano preannunciate con settimane di anticipo e duravano diversi giorni,
oggi vengono effettuate con pochissimi giorni di anticipo e sono in genere molto più brevi, in quanto si incentrano sia sulla capacità di autovalutazione
e di miglioramento della scuola sia
sulla qualità della leadership e del management. A tale scopo le scuole utilizzano una griglia elaborata dallo stesso OfSTED e scaricabile dal suo sito web (self evaluation form, SEF).
I risultati dell’ispezione non hanno effetti immediati né sul finanziamento né sul funzionamento della scuola che dipendono invece dalle autorità locali. Sul piano delle reazioni degli utenti l’informazione negativa sulla performance della scuola, secondo alcune ricerche, non porta
ad un immediato deflusso di studenti, ma anzi induce spesso una risposta
di natura identitaria che spinge la comunità a impegnarsi per
il superamento dei problemi emersi.
Indubbiamente, la consistenza e la frequenza delle ispezioni
aumentano nelle scuole i cui risultati appaiono insoddisfacenti mentre si riducono (ispezioni light touch, ovvero con “tocco leggero”) nelle scuole
più efficaci (nel 2006, tra le circa 6000 scuole ispezionate, l’11% mostrava risultati eccellenti, il 48% risultati buoni, il 34% risultati soddisfacenti, il 12% risultati insoddisfacenti).
Occorre rilevare, inoltre, che nell’ambito del più recente approccio strategico dell’Agenzia, rivolto
a realizzare un’attività ispettiva “con tocco leggero” mediante
il monitoraggio soprattutto, se non in via esclusiva, dei sistemi interni di gestione e di valutazione
della scuola, l’OfSTED promuove intensamente la diffusione
di esperienze di benchmark con
le quali le scuole possono utilmente confrontarsi. Le ispezioni avvengono in gruppi, la cui dimensione può variare dai due/cinque membri
per le scuole primarie più piccole
e per le ispezioni con “tocco leggero”, ai quindici membri nei casi di scuole più grandi o con maggiori problemi. Ogni gruppo ispettivo deve avere almeno un membro layman, privo
di qualsiasi expertise o esperienza all’interno del settore educativo9. Accanto all’OfSTED troviamo un’altra Agenzia non ministeriale avente
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lo stesso tipo di autonomia decisionale ed operativa: la qualification and curriculum Agency (QCA) istituita
nel 1997. Il ruolo della QCA è duplice.
In primo luogo, la QCA è incaricata di sviluppare, monitorare e valutare, anche tramite esperti consulenti,
i curriculum scolastici ai fini di un loro continuo miglioramento.
Entro tale cornice le scuole inglesi hanno comunque un notevole grado di discrezionalità sia nell’assegnazione delle ore di insegnamento tra
le discipline del curriculum
(con l’obbligo di rispettare, soprattutto a livello primario, alcune soglie minime per le discipline di base) sia nella scelta delle metodologie didattiche.
È comunque la QCA che definisce
gli standard qualitativi delle conoscenze e delle competenze che gli allievi devono dimostrare di possedere nell’affrontare le prove e i test elaborati e gestiti dalla stessa agenzia per
i diversi gradi dell’istruzione primaria e secondaria. Più in generale, l’agenzia
deve regolare, sostanzialmente in veste di vera e propria independent Authority attenta agli interessi degli allievi,
sia i criteri mediante i quali valutare la qualità degli esami di certificazione degli apprendimenti ai diversi livelli
scolastici e professionali sia il corretto funzionamento di quello che viene esplicitamente chiamato “il mercato delle qualifiche e delle certificazioni”. In Inghilterra, Xxxxxx e Irlanda del Nord, la creazione di nuove qualifiche erogate dai diversi centri di formazione è infatti un processo estremamente decentrato rispetto al quale la QCA opera come istituzione di accreditamento, con l’obiettivo di mantenere alti
gli standard delle qualifiche; altrettanto decentrato risulta essere il processo
di valutazione e di certificazione realizzato da 113 (nel 2004) awarding bodies, organismi, anche privati, che nei tre paesi del Regno Unito hanno la responsabilità di riconoscere, entro una comune cornice di qualificazioni nazionali (national qualifications
framework), i titoli ottenuti dagli allievi alla fine dei loro percorsi
di apprendimento professionale.
In aggiunta, il ruolo della QCA consiste nello sviluppare ed aggiornare la national qualifications framework, nell’accreditare i diversi awarding bodies, nel monitorarne l’attività
e nel fornire, agli stessi, servizi
di sostegno per assicurare la coerenza delle loro azioni con il quadro complessivo.
La QCA, nell’anno accademico 2005- 2006, ha impiegato 641 dipendenti con una spesa annuale di 134 milioni di sterline10.
Anche le Autorità locali (LA e LEA) svolgono un ruolo di rilievo
nel processo di valutazione delle scuole su cui hanno giurisdizione, non solo perché continuano ad essere lo snodo centrale dei finanziamenti alle scuole, ma anche perché hanno la specifica responsabilità di curare e migliorare
sia la qualità dei servizi che dei livelli di apprendimento scolastico.
Inoltre, devono cercare di assicurare la massima equità sociale possibile negli accessi al sistema scolastico.
Per realizzare tali finalità, le Autorità locali includono nel loro assetto organizzativo servizi ispettivi il cui personale è spesso specializzato per livello scolastico, contenuti disciplinari e aree trasversali quali l’eguaglianza
di opportunità o i servizi ai disabili.
In molte Autorità locali sono presenti, in aggiunta ai precedenti ruoli, figure di collegamento con le singole scuole che provvedono a diffondere,
tra gli operatori dell’istituto scolastico “seguito”, la consapevolezza
delle prestazioni raggiunte e, nel caso, realizzano un’attività di consulenza
su come porre rimedio ai punti di debolezza riscontrati.
Ad un livello di maggiore aggregazione i funzionari delle LEA offrono
al personale degli istituti scolastici occasioni di formazione, coordinano
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programmi e iniziative interscolastiche, identificano e contribuiscono
a diffondere esempi di “buone pratiche”. Va, infine, ricordato che le LEA nominano una parte dei membri
dei Boards responsabili della conduzione strategica di ciascun istituto scolastico (che include, tra l’altro, la nomina
del preside-manager).
Non è però da trascurare la possibilità che in futuro l’impatto delle LEA possa diminuire se avranno successo e si estenderanno gli esperimenti in atto del governo laburista tendenti
a favorire l’indipendenza anche delle scuole pubbliche dal controllo
delle LEA tramite una loro trasformazione in foundation schools o academies
(cfr. supra).
3.3. IL RUOLO DEGLI ISTITUTI SCOLASTICI E DEL PERSONALE NEI PROCESSI
DI VALUTAZIONE
L’intero sistema di governance
e di valutazione sopra descritto non potrebbe probabilmente reggere
se non ci fosse stata una parallela evoluzione nell’organizzazione del lavoro e nei sistemi di gestione
del personale insegnante all’interno delle scuole. Il sistema di relazioni industriali, pur caratterizzato
da momenti di forte conflittualità, ha consentito la diversificazione verticale ed orizzontale dei ruoli lavorativi (d’insegnamento e non) interni alla scuola.
Ad esempio, oltre ai ruoli manageriali di headteacher, deputy headteacher, assistant headteacher, sono state individuate quattro qualifiche
per competenze professionali per gli insegnanti:
• la qualifica di base corrispondente allo status di qualified teacher,
alla quale si può accedere dopo un periodo più o meno lungo di unqualified teacher;
• la qualifica di post-thresold senior teacher (al quale sono associati
gli insegnanti che hanno raggiunto il punto massimo della carriera retributiva);
• la qualifica di advanced skills teacher che consente, dopo aver ottenuto ottimi risultati educativi e aver superato corsi e test xxxxxxxxx,
di avanzare nella propria carriera non dal punto di vista manageriale, ma professionale (come esperto nelle conoscenze disciplinari
e nelle tecniche educative capace di assistere e guidare altri colleghi
anche in scuole diverse dalla propria);
• le recenti qualifiche di fast track teacher e di excellent teacher.
Associato a questa diversificazione professionale verticale è stato introdotto, con forte opposizione sindacale superata solo in sede giurisdizionale, un sistema
di performance pay per quegli insegnanti che superino standard predefiniti di prestazione, tra i quali sono inclusi livelli minimi
di apprendimento (performance thresold) dei rispettivi allievi.
Sarà bene, a questo punto, esaminare alcuni aspetti fondamentali del sistema di valutazione ed incentivazione retributiva del personale insegnante che concorrono in modo sostanziale
al mantenimento, nel sistema scolastico, di una tensione permanente verso il miglioramento dei processi
di insegnamento e di apprendimento.
In primo luogo, va ricordato che una standardizzazione flessibile
delle competenze iniziali di chi aspira alla carriera insegnante è assicurata dalle scuole, istituti specializzati
o università accreditate ad erogare corsi rivolti all’initial teacher training (ITT). Infatti, benché non esistano curriculum nazionali ai quali questi corsi debbano uniformarsi, sono previsti dei requisiti di qualità
e di performance la cui verifica è responsabilità degli organi
di accreditamento. In più, prima
del passaggio da unqualified teacher a
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qualified teacher, ciascun insegnante deve dimostrare, attraverso
il superamento di appositi test,
il possesso sia di sufficienti competenze linguistiche e culturali (literacy), sia
di adeguate capacità nel computo numerico (numeracy) e nell’uso delle tecnologie informatiche (ICT) che vanno al di là delle specifiche
conoscenze disciplinari e pedagogiche. Gli insegnanti assunti sono sottoposti ad un periodo di prova/orientamento (induction) della durata di un anno durante il quale sono seguiti
e monitorati da un insegnante di ruolo.
Pur se i criteri generali dei percorsi di carriera e delle retribuzioni sono stabiliti dagli education Acts
e da apposite regulations, essi vengono annualmente aggiornati mediante
lo school teacher pay and conditions document (STPCD)11 elaborato
dal DfES dopo un’ampia consultazione che prevede l’intervento del reward and incentive group (RIG)12, del quale fa parte lo stesso DfES insieme
ai rappresentanti delle associazioni delle scuole e dei sindacati professionalmente più rilevanti.
A sua volta il DfES si fa assistere nella sua attività di regolazione
e di negoziazione da un consiglio
di nove esperti (school teacher review board, STRB), il cui presidente è nominato dal Primo Ministro e gli altri otto membri dal Ministro del DfES: anche se lo STRB non ha responsabilità decisionali, esso gode della più ampia autonomia di studio, di valutazione
e di proposta. Da notare che lo STPCD è una guida per tutte le scuole maintained che può essere fatta valere in sede giurisdizionale e il cui non rispetto deve essere motivato in modo circostanziato. Infine lo STPCD attua annualmente le linee guida di accordi nazionali con le associazioni
delle scuole e con i sindacati
del personale scolastico tra i quali il più importante è quello firmato nel 2003
e intitolato “national agreement on raising standards and tackling workload”.
Lo sviluppo retributivo, per ciascuna
qualifica, si sviluppa lungo una scala (spine) generalmente su più livelli.
All’insegnante che acquisisce una determinata qualifica viene
assegnato (dal Consiglio scolastico) un livello retributivo all’interno della scala che può essere diverso
da quello iniziale, in funzione della sua esperienza e delle sue competenze.
La scala si sviluppa sugli stessi livelli per le scuole di tutto il territorio nazionale (ad eccezione dell’area londinese e di quella intorno a Londra che presenta livelli superiori dal 3%
al 20%). Qui di seguito sono indicati sia i livelli che l’ampiezza (range) delle scale retributive per ciascuna qualifica professionale del personale insegnante nelle scuole al di fuori dell’area londinese (2007):
• unqualified teacher, 10 livelli, con un range che va dalle 14.571 sterline alle 23.331 sterline di stipendio annuale;
• qualified teacher, 6 livelli, con un range che va dalle 20.133 alle
29.427 sterline di stipendio annuale;
• post-thresold senior teacher, 3 livelli, con un range che va dalle 20.133
a 29.427 sterline di stipendio annuale;
• excellent teacher, un unico livello fissato a 36.771 sterline di stipendio annuale;
• advanced skills teacher, 18 livelli, con un range che va dalle 34.938 alle
53.115 sterline di stipendio annuale.
La qualifica di fast track teacher non prevede una scala retributiva distinta, anche se può comportare scivolamenti all’interno della stessa scala più veloci della prassi normale.
Tuttavia, l’attribuzione della suddetta qualifica è rivolta all’individuazione, in seguito ad un processo selettivo molto rigoroso, di giovani insegnanti
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molto promettenti da inserire in tempi rapidi (generalmente quattro anni) nelle qualifiche manageriali del leadership group oppure nella qualifica professionale più avanzata (advanced skills teacher).
Ciò avviene dopo un periodo
di monitoraggio durante il quale il fast track teacher è seguito attentamente nel suo sviluppo professionale
e nel livello di prestazioni erogate; solo se queste ultime risultano adeguate alle elevate aspettative, il fast track teacher può aspirare a mantenere il proprio status che gli consente
una forte accelerazione della carriera.
Il passaggio da un livello retributivo a quello successivo, entro la scala di una determinata qualifica professionale, è subordinato
ad un esito positivo della valutazione annuale alla quale è sottoposto
ogni insegnante. La valutazione degli insegnanti è effettuata
dall’headteacher o da un suo delegato (reviewer) e si basa su un modello
di performance management ciclico suggerito dal RIG e del quale può essere utilizzato anche un kit scaricabile dal web. La valutazione si basa sull’osservazione strutturata del comportamento in classe
e su eventuali dati e informazioni scritte forniti dall’insegnante dai quali risultino contributi significativi
ai risultati ottenuti dalla classe o dalla scuola. La valutazione, pur essendo rivolta anche
all’individuazione delle strategie che l’insegnante può adottare per migliorare le proprie prestazioni, conduce in ogni caso ad una proposta di passaggio al livello superiore
della scala retributiva.
In caso di prestazioni particolarmente elevate si può prevedere un avanzamento di due livelli. Per tutte le valutazioni
è prevista una procedura di appello
presso l’organo immediatamente superiore a quello che effettua
la valutazione.
Il passaggio da una qualifica professionale all’altra è invece effettuato sempre
da valutatori esterni esperti nominati dal DfES. La valutazione accerta
il possesso da parte del candidato
di standard di eccellenza professionale attraverso interviste, analisi
di esperienze di successo e altra documentazione connessa all’attività di insegnamento o del suo coordinamento.
Da notare inoltre che per poter accedere ad un posto di excellent teacher e di advanced skill teacher questo deve essere previsto all’interno della propria o di un’altra scuola.
Una volta ottenuta la qualifica, essa però rimane “proprietà” dell’insegnante anche nel caso di trasferimento ad altra scuola. È importante rilevare che
gli standard professionali della maggior parte dei ruoli connessi all’insegnamento e al suo supporto sono analizzati, proposti e aggiornati da un’altra agenzia autonoma, la training and development agency for schools (TDAS), la quale organizza anche
le relative attività di sviluppo professionale, formazione
e addestramento.
È importante sottolineare la dimensione della diversificazione orizzontale dell’organizzazione del lavoro: all’interno degli istituti scolastici esistono, infatti, funzioni e ruoli specialistici che vanno dall’assistenza agli studenti con particolari esigenze (da quelli diversamente abili a quelli dotati di capacità superiori) ai ruoli
di coordinamento di parti trasversali dei processi educativi come quelli rivolti al miglioramento della qualità. Tutto ciò si riflette in pratiche educative molto flessibili: anche all’interno
del modello di scuola comprehensive
che non consente la selezione degli studenti basata sull’abilità, è possibile impartire, con diverse metodologie e con diverso grado di approfondimento, parti
del curriculum a segmenti di studenti
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di una stessa classe o di più classi raggruppati in gruppi omogenei per abilità (in sintonia con l’obiettivo dichiarato di una crescente personalizzazione dell’insegnamento). Xxxx insegnanti che ricoprono questi ruoli o svolgono tali funzioni differenziate sono attribuite indennità aggiuntive (teaching and learning responsabilities, TLR) che possono andare dalle 2.364 alle 11.557 sterline annuali.
Anche nel caso della retribuzione dei ruoli manageriali (headteacher, deputy headteacher, assistant headteacher) è prevista una scala che
comprende ben 43 livelli con un range (per le scuole fuori Londra) che dalle 34.938 sterline del livello di base arriva alle 98.022 sterline del livello più alto. All’interno di questa scala esistono poi otto sotto scale consecutive associate alle caratteristiche
della scuola sulla base di parametri quantitativi che rispecchiano indicatori come il numero di studenti, il rapporto studenti-docenti, il grado di diversità socio-etnica e così via.
Ciascun manager scolastico è inserito, dal punto di vista retributivo, all’interno della sottoscala più appropriata e può progredire lungo i cinque livelli superiori (in qualche caso la forte competizione per gli headteachers porta i boards ad offrire compensi aggiuntivi rispetto ai livelli tabellari).
La valutazione dei ruoli manageriali interni sono di responsabilità dell’headteacher che si avvale in genere di valutatori esterni esperti, mentre
la valutazione annuale, finalizzata anche ai miglioramenti retributivi dell’headteacher è di responsabilità
del Consiglio (board locale o scolastico), il quale si avvale solitamente anch’esso di valutatori professionisti esterni.
Dal 2005, in base ad una disposizione normativa statale, le LA hanno incominciato ad assegnare ai boards delle scuole consulenti esterni accreditati (school improvement partners, SIPs) che avranno la responsabilità di monitorare, valutare e offrire suggerimenti su come migliorare
le prestazioni della scuola, sempre
nel pieno rispetto della sua autonomia didattica e gestionale13.
Inoltre, gli stessi partner devono valutare le prestazioni degli headteachers e dei sistemi manageriali all’interno
di ciascuna scuola utilizzando dati, informazioni quantitative e qualitative, effettuando comparazioni, finalizzate a verificare l’efficienza della scuola (value for money) e tenendo conto
dei rapporti generati dagli ispettori dell’OfSTED. L’agenzia che accredita gli school improvement partners
è il national college for school leadership (NCSL) che certifica anche l’idoneità a svolgere il ruolo
degli headteachers.
Più in generale il NCSL e la TDAS hanno la missione di assicurare che all’interno di tutte le scuole inglesi sia le attività d’insegnamento che
il management scolastico risultino adeguati ai più elevati standard qualitativi. I due organismi contribuiscono così ad aumentare
in modo determinante quella capacità di autovalutazione delle singole scuole promossa come priorità strategica negli ultimi anni, per ragioni
di efficienza ed efficacia, dal DfES e dall’OfSTED.
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Il sistema di valutazione del sistema scolastico inglese appare il frutto
di una lunga evoluzione storica che
ha avuto momenti di svolta importanti, ma che ha dovuto affrontare i problemi derivanti da uno specifico contesto istituzionale all’interno del quale
le esigenze di standardizzazione nazionale si sono dovute faticosamente imporre sul ruolo autonomo giocato tradizionalmente dalle LEA
e dagli stessi istituti scolastici. Oggi assistiamo ad una fase in cui
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gli attori strategici nazionali (governo e DfES) riscoprono paradossalmente il valore di una governance più decentrata, centrata sulla capacità
di miglioramento attraverso l’autovalutazione dei singoli istituti scolastici, ma anche guidata
ed accompagnata da una rete di controlli multipli (politici, di mercato, professionali) sempre meno invasivi,
in quanto ispirati al principio di rendere tutti i protagonisti
dei processi educativi nel contempo più capaci e responsabili delle loro azioni (empowerment).
Su tale prospettiva il consenso sembra essere abbastanza ampio e stabile14
se si pensa che l’Education and Inspection Act del 2006 ha rischiato di essere approvato anche con i voti del partito conservatore, il cui leader ha dichiarato esplicitamente
di condividerne gli aspetti principali. Sul piano di una valutazione di merito, il sistema scolastico inglese negli ultimi dieci-quindici anni, durante i quali
si sono consolidati (e affinati) i nuovi apparati e strumenti di valutazione, sembra aver fatto discreti progressi dal punto di vista delle comparazioni diacroniche sugli apprendimenti
e sui tassi di abbandono scolastico fornite dal DfES.
Sul piano della comparazione internazionale, resa possibile dagli esiti del progetto internazionale PISA 2000, gli studenti quindicenni delle scuole inglesi risultavano più “bravi”, sia
nelle capacità linguistiche e matematiche che nelle conoscenze scientifiche, degli studenti appartenenti ai sistemi educativi continentali come la Francia, la Germania e l’Italia. Non è possibile però utilizzare i dati dell’indagine comparativa PISA effettuata nel 2003,
in quanto il numero delle scuole inglesi che hanno volontariamente accettato di partecipare al progetto è stato
inferiore al livello necessario per assicurare la significatività statistica dei risultati.
Tuttavia, una ricerca molto rigorosa condotta da un gruppo di studio della University of Newcastle-upon-
Xxxxx, tesa a rilevare l’impatto che le ispezioni avevano avuto in 3.000 scuole sui risultati ottenuti dai rispettivi studenti agli esami finali (CGSE), riscontrò che esse non avevano prodotto in generale effetti positivi, ma che anzi l’impatto sui risultati era leggermente negativo per le scuole comprehensive e lievemente positivo per quelle più selettive15!
È opportuno ricordare che nella fase iniziale della sua attività (1992-2002 circa), le metodologie ispettive non solo erano svolte in maniera molto più intrusiva e costosa (per l’OfSTED e per le stesse scuole) di quanto non avvenga oggi, ma risultavano spesso ridondanti, in quanto utilizzano come criterio
di valutazione anche i risultati
delle league tables annuali realizzate indipendentemente dal DfES.
Si spiega anche così l’avvio del processo di riflessione critica che portò
ai cambiamenti nei sistemi ispettivi descritti nella sezione 3.2.
Inoltre, poiché i costi, soprattutto del sistema ispettivo, rimangono elevati, nonostante le direttive
del governo rivolte a imporre sostanziali riduzioni triennali, le aspettative sono che i benefici derivanti dalla valutazione debbano essere sostanziali per giustificare le risorse investite
in essa16.
Il sistema di valutazione e governance del settore scolastico inglese non si ispira tanto alla razionalità sinottica
e gerarchica tipica, ad esempio,
del sistema francese, dove ogni organo o attore è supposto avere una sua specifica e distinta funzione prestabilita dall’alto di un’armonica e coerente (almeno nelle intenzioni) pianificazione amministrativa17.
Si tratta piuttosto di un sistema che funziona all’interno di una cornice istituzionale che lascia ampia autonomia decisionale agli attori,
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nel quale il ruolo di guida e di leadership appartiene in varia misura ai diversi soggetti responsabili dei processi educativi e il cui controllo (nel quale rientra l’attività di valutazione) si avvale di “pesi e contrappesi” (check and balances) i cui strumenti includono
la regolamentazione normativa statale, la diffusione delle informazioni
sui rendimenti scolastici, le visite ispettive, l’attività di indirizzo
e di monitoraggio svolto dalle LA,
la distribuzione delle responsabilità decisionali tra i consigli delle scuole (boards), gli headteachers e gli stessi operatori, senza dimenticare il ruolo non indifferente che nella responsabilizzazione del sistema giocano le norme professionali sia degli organi che degli attori
dei processi di accreditamento, certificazione e valutazione.
Sicché, per fare un esempio significativo, quando si è scoperto che l’utilizzazione dei test e degli esami come strumenti periodici di controllo delle prestazioni scolastiche poteva portare
ad un’eccessiva standardizzazione dei processi educativi (in quanto
in alcuni casi gli insegnanti finivano per orientare l’intero processo educativo
al superamento dei test intermedi e finali), si è deciso di affiancare alle prove valutative ima crescente
attenzione verso la differenziazione delle formule organizzative scolastiche e delle stesse pratiche educative (attraverso l’attribuzione di una forte priorità strategica all’obiettivo
di personalizzare sempre di più
i processi di apprendimento utilizzando come criterio di riferimento le esigenze differenziate degli allievi).
L’aggiustamento e l’equilibrio tra tutte queste componenti è mutato e può mutare ancora in futuro sulla spinta dell’evoluzione socio-economica
e delle decisioni politiche, tuttavia sembra possibile individuare alcune costanti strutturali e tendenze di fondo che sembrano ormai consolidate.
Il DfES è senz’altro il regista del sistema nel suo complesso, ma tale ruolo viene svolto senza alcun coinvolgimento
gestionale diretto. In linea con
le indicazioni del segretario di stato definisce gli obiettivi strategici
del sistema educativo; emana le regolamentazioni normative
alle quali i diversi attori sono invitati ad uniformarsi e che spesso
ufficializzano gli accordi e le negoziazioni tra i rappresentanti dei principali stakeholders; raccoglie, elabora, affina e diffonde le informazioni necessarie al governo, agli operatori e alle famiglie per decidere efficacemente; individua le guide generali di azioni per
le diverse agenzie indipendenti
nella lettera che annualmente accompagna l’assegnazione dei rispettivi fondi, infine, è diventato, soprattutto
negli ultimi tempi, il centro propulsore e lo sponsor delle principali sperimentazioni ed innovazioni organizzative del settore.
Le agenzie non ministeriali hanno compiti importanti ma più circoscritti.
L’OfSTED è stato pensato come
il garante della qualità dei processi educativi in tutti gli istituti scolastici attraverso uno strumento “invasivo” come le ispezioni, ma sta sempre più concentrando la sua attenzione
sulle scuole che mostrano le maggiori difficoltà, differenziando in modo marcato le modalità ispettive
e utilizzando sempre più spesso i dati e le informazioni delle autovalutazioni. Sicché si può ipotizzare che da garante delle prestazioni scolastiche l’OfSTED stia diventando sempre più il garante (ed il facilitatore) delle capacità
di autovalutazione e di miglioramento qualitativo delle singole scuole.
Il rapporto tra DfES e OfSTED può essere visto sotto l’ottica della relazione di agenzia dove il principale (il DfES) controlla e verifica l’agente (l’OfSTED) tramite sia un’attività di indirizzo mediante la quale vengono definite,
in termini molto generali, le linee
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strategiche di fondo che l’OfSTED dovrà realizzare, sia un’attività di verifica affidata all’esame dei risultati ottenuti dall’agenzia rispetto al piano strategico annuale da essa elaborato ed in base
ai risultati complessivi ottenuti dagli studenti nei vari test ed esami previsti lungo il percorso educativo.
Se il DfES è lo stakeholder principale dell’OfSTED, i rapporti con gli altri attori hanno una rilevanza non trascurabile. In particolare, va ribadito che gli ispettori dell’OfSTED non sono gli unici valutatori delle scuole; ad essi si affiancano i funzionari delle LA
e gli esperti delle SIP, la cui attività di controllo o monitoraggio è senz’altro interessata alla qualità dei prodotti scolastici, ma concerne anche gli aspetti più economici delle attività scolastiche e la loro compatibilità nei confronti sia
delle esigenze finanziarie di bilancio dell’ente locale dal quale provengono i principali finanziamenti, almeno
nel caso delle scuole non finanziate privatamente, sia dei criteri utilizzati dall’ente locale per effettuare l’assegnazione delle risorse correnti e degli investimenti infrastrutturali. L’attività di valutazione e di controllo ex-post sull’uso delle risorse da parte delle singole scuole è ancor più
importante se si considera che queste ultime normalmente ricevono dalle LA un budget complessivo del quale hanno piena disponibilità.
Sui potenziali “conflitti” di valutazione vale la pena riportare la risposta che viene data dal DfES alla domanda su chi abbia ragione quando la valutazione
di un SIP non coincide con quella dell’OfSTED: “Gli school improvement partners e l’OfSTED hanno differenti finalità e, di conseguenza, i loro rapporti coprono dimensioni diverse
in scopo. Tuttavia, in alcune circostanze, il SIP e l’ispettore dell’OfSTED potranno
raggiungere conclusioni differenti sullo stesso oggetto di valutazione. Dal momento che tali valutazioni implicano sempre qualche elemento di giudizio, non possiamo attenderci che SIP e OfSTED concordino in ogni occasione, più di quanto ci possiamo aspettare che due SIP o due ispettori dell’OfSTED abbiano sempre lo stesso parere su tutto. Le valutazioni
dell’OfSTED devono essere considerate come dei voti di benchmark
nel momento in cui la valutazione viene effettuata. Ma le scuole cambiano: se le scuole sono insoddisfatte con
il lavoro dei SIPs o degli ispettori, esse possono utilizzare le procedure
di reclamo previste rispettivamente dalle LA e dall’OfSTED”18.
In effetti, i dati dicono che complessivamente ogni anno solo
nel 5% dei casi le ispezioni dell’OfSTED sono contestate con un reclamo
della scuola. Di questi reclami circa
la metà viene, in un modo o nell’altro, accolta.
In questo quadro il ruolo dell’headteacher assume un’importanza critica.
Infatti, da una parte, egli gode
di un’amplissima autonomia decisionale e manageriale, poiché su delega
dei boards scolastici definisce
le politiche dell’istituto scolastico
e gestisce il suo personale dalla fase dell’assunzione a quella dell’eventuale licenziamento (pur nei limiti definiti dai contratti di lavoro); dall’altra parte, l’headteacher, con il suo staff manageriale, è inserito in una rete multipla di valutazioni e di controllo che lo rendono responsabile (accountable) su tutte le dimensioni rilevanti della sua attività.
Le league tables elaborate dal DfES esaltano la dimensione della reputation nazionale e locale della sua scuola;
le ispezioni e i rapporti dell’OfSTED sottolineano soprattutto le sue performances professionali e direttive, il monitoraggio ed il controllo operato dai boards include elementi
di controllo su parametri formali ed economico-gestionali, mentre l’intervento valutativo dei SIP è
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finalizzato soprattutto allo sviluppo ed al miglioramento delle prestazioni.
I rapporti tra DfES e QCA sono regolati da un rapporto di agenzia simile
a quello esistente tra DfES e OfSTED, in quanto entro tale rapporto
la funzione di indirizzo strategico e di controllo performance-based
del primo si accompagna ad un’ampia autonomia professionale ed operativa della QCA nello svolgimento
delle sue finalità istituzionali (sviluppo e aggiornamento del curriculum, sviluppo ed erogazione dei test
e degli esami di valutazione scolastica, elaborazione della national qualification framework per le qualifiche professionali, regolazione delle attività di attribuzione delle stesse qualifiche e accreditamento degli awarding bodies).
Tuttavia, nei documenti ufficiali si riconosce apertamente che
la definizione delle competenze specifiche non esclude la possibilità di sovrapposizione delle attività:
di conseguenza, nel memorandum
di understanding, all’interno del quale sono elencate con grande dettaglio
le rispettive competenze, si prevede anche la possibilità di ricorrere
ad alcuni più stringenti strumenti di coordinamento quali riunioni
di lavoro tra rappresentanti dei due organismi, la presenza di funzionari dell’uno in comitati o gruppi di lavoro dell’altro e la costituzione di gruppi
di lavoro congiunti su problemi comuni.
Non c’è dubbio che il sistema
di valutazione scolastico inglese presenti delle peculiarità che ne rendono improponibile un trasferimento automatico in altri contesti istituzionali e nazionali. È anche vero però che dalle sue esperienze è forse possibile trarre alcune “lezioni” di “tecnologia organizzativa” che potrebbero avere significato e valore in contesti anche differenti dal punto di vista storico
e istituzionale19.
In primo luogo, la soluzione di utilizzare, nella gestione e nella valutazione
delle scuole, agenzie non ministeriali, contribuisce non poco a depoliticizzare e rendere più stabili i percorsi
di cambiamento del sistema educativo, in modo che lo stesso processo
di valutazione diventi occasione di apprendimento professionale sempre più condiviso20.
Naturalmente, al fine di evitare il rischio che un’agenzia dotata di forte autonomia monopolizzi una determinata area di policy o di amministrazione, con conseguenze negative sulla sua capacità di autocorrezione, si rende necessario che su di essa ci sia
una costante pressione finanziaria volta a ridurne i costi.
Nello stesso tempo occorre garantire un certo grado di pluralismo
degli attori coinvolti nei processi
di valutazione sia a livello di analisi che a livello decisionale21.
In secondo luogo, la scelta degli ultimi anni di ridurre il peso della valutazione esterna diretta a favore di una sempre maggiore responsabilizzazione
dei singoli istituti scolastici
e il conseguente avvento di una valutazione “di sviluppo” orientata a verificare i punti deboli e i punti di forza della singola scuola rispetto
alla sua capacità di automiglioramento, sono coerenti con una governance
a rete decentrata del sistema scolastico, ma potrebbero essere adottati anche nell’ambito di sistemi amministrativi differenti, purché tali sistemi siano sufficientemente flessibili22.
Infatti, in presenza di elevata incertezza su quali siano gli input necessari
e sufficienti per ottenere determinati risultati nei diversi contesti
di apprendimento, non sembra che una valutazione affidata a strutture decisionali accentrate e rigide possa in ogni caso dare buoni frutti.
Inoltre, per tenere sotto controllo l’impatto che la disponibilità di input e risorse ha molto spesso sui risultati educativi, soprattutto nei sistemi decentrati che favoriscono
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la differenziazione delle scuole, sarebbe opportuno approntare e rendere disponibili strumenti di valutazione infrascolastici e interscolastici basati non sulla mera misurazione dei valori assoluti di rendimento ma sulla rilevazione attenta della differenza tra questi ultimi e le effettive risorse messe a disposizione di ciascuna unità scolastica (prestazioni in termini di valore aggiunto). Infine, l’esperienza inglese fa emergere con forza il ruolo insostituibile che l’organizzazione del lavoro e i sistemi di gestione del personale hanno
sulla possibilità di realizzare sistemi di valutazione dinamici, autocorrettivi e sostenibili in quanto ancorati alle
pratiche di base dei processi educativi.
Xxxxxxx Xxxxxxx
Associato di Organizzazione aziendale Università della Calabria
NOTE
1 Casciotti, C.A.T., La valutazione: un indispensabile strumento di garanzia e governance, CRUI, 2003.
2 X. Xxxxxx-Xxxxxx, “Evaluation and Public Management,” in X. Xxxxxx, L.E. Xxxx Xx., X. Xxxxxxx, The Oxford Handbook of Public Management, Oxford University Press, 2005.
3 Eurybase (The information database on education systems in Europe), The Education System in the United Kingdom (England, Wales and Northern Ireland) - 2004/05, xxxx://000.00.000.000/Xxxxxxxx/Xxxxxxxxxxx/xxxx eset.asp?country=UK&language=VO.
4 Department for education and skills, Departmental Report 2006, xxxx://xxx.xxxx.xxx.xx/xxxxxxxxxxxx/xxxxxxxxx t2006/.
5 X. Xxxxxx, “Which Ranking? The Impact of a ‘Value-Added’ Measure of Secondary School Performance”, Public Money and Management, January 2004.
6 Department for education and skills, Short Guide to the Education and Inspection Xxx 0000.
7 The Office for standards in education, The Annual Report of Her Majesty’s Chief Inspector of Schools 2005-2006.
8 The Office for standards in education, Children’s Services and Skills, Raising standards, improving lives. Strategic Plan 2007- 2010.
9 X. Xxxxxxxx, “Responsabilità, valutazione e miglioramento in Inghilterra: qual è
il contributo delle ispezioni?” in X. Xxxxxxx, X. Xxxxxx (a cura di), Scuola e creazione di valore pubblico. Problemi di governance, accountability e management, Xxxxxxx, 2006.
10 Qualifications and curriculum Agency, Memorandum of Understanding between the DfES and the QCA, 2007.
11 Department for education and skills, School Teachers’ Pay and Conditions, 2007.
12 Rewards and Incentive Group, RIG, Teacher’s and Head teacher’s Performance Management, DfES, 2006.
13 Department for education and skills, A New Relations with Schools. The School Improvement Partner’s Brief, 2006.
14 D. Andalo, “Brown to expand school academies scheme”, The Guardian, 19.3.2007.
15 I. Xxxx et al., “Do OfSTED Inspections of secondary Schools Make a Difference to GCSE Results?”, British Educational Research Journal, February 2003, 29, 1, 63-75.
16 X. Xxxxxx, “Who watches the watchodog?”,
The Guardian, 24.4.2007.
17 Associazione TREELLE, L’Europa valuta la scuola. E l’Italia?, Xxxxxx, 0000.
18 Department for education and skills, A New Relations with Schools, op. cit., p. 35.
19 X. Xxxxxxx, X. Xxxxxx (a cura di), op. cit.
20 Associazione TREELLE, Il governo della scuola autonoma: responsabilità e accountability, Xxxxxx, 0000.
21 X. Xxxxxx, La valutazione dei risultati nelle amministrazioni pubbliche, Guerini e Associati, 1999.
22 X. Xxxxxxxxx, “Managing Government, Governing Management”, Harvard Business Review, May-June 1996.
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TRATTATIVE SINDACALI: LA RICHIESTA
DI TAVOLI SEPARATI
La legittimità delle trattative su “tavoli separati” è uno dei nodi classici
delle problematiche afferenti
alla contrattazione negoziale e, per sua natura, è tale da coinvolgere l’intero universo del lavoro subordinato, pubblico e privato.
Nel nostro ordinamento, la partecipazione al processo negoziale si conquista direttamente sul “campo” attraverso
la capacità di accreditarsi come controparte1, in un sistema di relazioni collettive ampiamente informale, stante la mancata attuazione dell’art. 39, comma 2 e ss. Cost. Dottrina e giurisprudenza, inoltre, appaiono concordi nel ritenere che il principio della libertà sindacale non includa,
al suo interno, una norma che consacri la parità tra le diverse organizzazioni dei lavoratori.
Ne deriva che non sussiste fungibilità tra organizzazioni sindacali e che queste vengano a “pesare”, quindi,
in modo dissimile in virtù del possesso di caratteri tipici, fissati ex lege.
La Cassazione2, secondo quanto sopra, riferendosi al carattere della “nazionalità”, ad esempio, ha più volte escluso che esso possa essere attribuito in base
a un rilievo meramente topografico. Infatti, la “nazionalità” dell’associazione sindacale è un dato correlato non solo alla mera territorialità, ma anche
e soprattutto all’attività in concreto svolta dalla stessa che deve avere
un orizzonte “nazionale” e non già “locale”. “L’art. 28 della Legge n. 300/70 – inoltre
– non riconosce la legittimazione ad agire a tutte le associazione sindacali,
ma la limita agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, dettando così
una disciplina distinta che opera una differenziazione tra associazioni sindacali che hanno accesso (anche) a questo strumento processuale
di rafforzata ed incisiva tutela dell’attività sindacale (tutela peraltro presidiata anche da una sanzione penale) ed altre associazioni sindacali che hanno l’accesso (solo) alla tutela ordinaria
di un giudizio promosso ex art. 414 cod. proc. civ.”.
Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale3 emerge che la ragione giustificatrice sottesa alla limitazione della legittimazione dell’art. 28 è
di natura anche sostanziale (legata all’attività del sindacato e agli interessi collettivi tutelati) e non già solo formale (discendente dalla mera dislocazione del sindacato sul territorio); ed anzi è soprattutto la ragione della sostanziale differenziazione che rende la stessa compatibile sia con il principio
di eguaglianza (art. 3, xxxxx xxxxx,
Cost.) sia con quello della libertà di azione sindacale (art. 39, primo comma, Cost.).
Come è stato messo in luce dalla Corte Cost4., lo Statuto del lavoratori accorda alle organizzazioni sindacali due livelli di protezione. Con il primo, comune
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a tutte, è assicurata, come testualmente affermato dal giudice delle leggi,
“la libertà di associazione e di azione sindacale che comprende altre importanti garanzie, quali la tutela contro atti discriminatori anche sotto forma di trattamenti economici collettivi, la libertà di proselitismo
e collettaggio (artt. 15, 16, 26 L. 300/70), l’accesso ad altri importanti diritti
di esercizio collettivo, come quelli sanciti dagli artt. 9 e 11”.
Il quadro del primo livello è completato dal “divieto di sindacati di comodo
(art. 17) e dalla tutela -
per le organizzazioni a dimensione nazionale - contro la condotta antisindacale del datore di lavoro (art. 28)”. Nel secondo livello di protezione trova invece espressione, sempre secondo
la sentenza costituzionale di cui in nota, “la politica promozionale perseguita dal legislatore al fine di favorire l’ordinato svolgimento del conflitto sociale e comporta
una selezione dei soggetti collettivi protetti, fondata sul principio della loro effettiva rappresentatività”.
Qui, come la Corte ha messo in rilievo, richiamando anche la propria precedente sentenza n. 334/88, accanto al principale criterio selettivo
della maggior rappresentatività a livello pluricategoriale (art. 19 lett. a) “la tutela rafforzata è stata conferita (lett. b) anche al sindacalismo autonomo, sempre che esso si dimostri capace
di esprimere - attraverso la firma di contratti collettivi nazionali
o provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva - un grado
di rappresentatività idoneo a tradursi in effettivo potere contrattuale a livello extra-aziendale”5.
Ciò premesso, la Corte si è interrogata in primo luogo sul carattere inderogabile di tale secondo criterio riconoscendo, peraltro, tale inderogabilità.
Per quanto attiene all’argomento
in oggetto, va evidenziato, in primis, che la prassi dei tavoli separati è
di regola puro riflesso di dinamiche intersindacali.
La giurisprudenza, ormai consolidata, ritiene che le organizzazioni sindacali possano chiedere tavoli separati, non trascurando le peculiarità del settore pubblico, dove la contrattazione collettiva si muove in una logica maggiormente istituzionalizzata, con il riconoscimento della legittimazione
a trattare, attribuita ex lege al sindacato rappresentativo. I giudici, inoltre,
non hanno esitato a dichiarare l’illegittimità del rifiuto di aprire
le trattative con tutti o solo con taluni soggetti collettivi, attuato in violazione di specifiche clausole negoziali, mentre l’orientamento si fa meno netto quando specifiche norme di legge individuino, nel sindacato maggiormente rappresentativo,
il soggetto legittimato a partecipare alle trattative, o comunque tale legittimazione emerga in qualche modo alla luce di una interpretazione sistematica tra legge e contrattazione. Ci si è chiesti se ogni sindacato vanti un diritto alla partecipazione
delle trattative, una volta che l’imprenditore, per esempio,
si sia determinato a porle in essere, se l’esclusione dalle trattative o la
costituzione di tavoli separati sia lecita nel ristretto ambito dei sindacati maggiormente rappresentativi.
Nell’attuale sistema delle relazioni sindacali, tale possibilità riguarderebbe, esclusivamente, il livello di trattativa nazionale ove la delegazione trattante
è formata solo dalle organizzazioni sindacali. Nella sede decentrata, invece, la delegazione trattante di parte sindacale è costituita da due distinti soggetti entrambi necessari, le RSU
e le organizzazioni sindacali di categoria, il che porterebbe
ad escludere la circostanza che
le trattative si svolgano a tavoli separati tra queste due componenti.
“Si rammenta, inoltre, che la RSU, organismo unitario di rappresentanza
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dei lavoratori, assume le proprie decisioni a maggioranza dei componenti. Tale materia non è stata, tuttavia, affrontata dai CC.CC.NN.LL. e, pertanto, costituisce una modalità
di rapporto interno delle due componenti sindacali tra le quali l’Amministrazione non può assumere il ruolo di arbitro.
La gestione dei conflitti al tavolo negoziale va, dunque, affrontata nell’ambito dei principi stabiliti dagli stessi contratti per le relazioni sindacali, al fine di prevenire
al massimo i conflitti”6.
Una recente sentenza di Cassazione7 ha, altresì, stabilito che le rappresentanze sindacali aziendali non possano chiedere tavoli separati di trattativa se le Segreterie nazionali hanno deciso che il negoziato deve essere condotto unitariamente secondo gli indirizzi
di politica generale.
Nel marzo del 2000 i sindacati
dei lavoratori del settore del credito Fabi, Falcri, Federdirigenti, Fiba-Cisl, Fisac-Cgil, Sinfub, Ulica-Uil espressero, formalmente, la volontà di trattare congiuntamente con le aziende
di credito. Aderendo a questa richiesta, la S.p.A. Cassa Risparmio San Miniato ha convocato, per una trattativa a livello locale, le rappresentanze sindacali aziendali di tutte le organizzazioni firmatarie della dichiarazione.
Le r.s.a. della Fabi e della Fisac-Cgil chiesero all’azienda di essere convocate separatamente dalle altre organizzazioni, sostenendo di non essere più vincolate alla dichiarazione emessa nel marzo del 2000 dalle segreterie nazionali.
Dal momento che la banca ha rifiutato il tavolo separato, le segreterie provinciali della Fabi e della Fisac-Cgil hanno promosso, davanti al Tribunale di Pisa, un procedimento per repressione del comportamento antisindacale in base all’art. 28 St. Lav. Il ricorso è stato rigettato sia nella fase cautelare che nel successivo giudizio di opposizione.
Decisione confermata dalla Corte d’Appello di Firenze che non ha ravvisato, nella condotta della Cassa, alcun profilo di antisindacalità,
rilevando che essa si era attenuta alla richiesta espressa dai sindacati a livello nazionale.
Le segreterie provinciali della Fabi e della Fisac-Cgil hanno proposto
ricorso per cassazione sostenendo che la Corte di Firenze aveva errato
nel ritenere che la dichiarazione del marzo 2000 vincolasse le singole rappresentanze sindacali aziendali e fosse idonea a limitare la loro
autonomia; le r.s.a., secondo le ricorrenti, non potevano essere considerate organi periferici delle organizzazioni nazionali, essendo dotate di una propria soggettività giuridica e di propria rappresentatività.
La Suprema Corte (Sezione lavoro
n. 2857 del 14/02/2004, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso.
Non è comportamento antisindacale, quello del datore di lavoro che sceglie di condurre la trattativa finalizzata
alla contrattazione aziendale congiuntamente, evitando i tavoli separati.
Al massimo il suo comportamento può essere annoverato tra quelli antagonisti. La ratio dell’art. 28 Stat. Lav. –
ha osservato la Corte – si colloca
nei rapporti conflittuali (o potenzialmente tali) tra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali in ogni caso in cui tale conflittualità finisce per interferire negativamente sulle prerogative costituzionali del sindacato;
non sembra, pertanto, consentito
il ricorso all’art. 28 Stat. Lav. da parte delle organizzazioni sindacali
nelle ipotesi in cui si versi, come
nel caso in esame, in una (denunziata) conflittualità non voluta e non originata dal datore di lavoro, ma scaturente
da altra forma di conflittualità, quella sorta – in ragione di una divaricazione delle politiche del lavoro e delle correlate rivendicazioni – fra le stesse organizzazioni sindacali ed a causa
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della quale si rivendichi nei riguardi dell’imprenditore l’adempimento di comportamenti non imposti né in alcun modo autorizzati da alcuna norma o principio giuridico.
Le r.s.a. godono di una propria soggettività giuridica, relativamente alla quale appare appropriato
il riferimento alle norme in materia di associazione non riconosciuta
e conseguentemente di una specifica legittimazione all’esercizio di diritti
e delle facoltà previsti nello stesso Statuto dei lavoratori (artt. 9, 20, 21, 22, 25 e 27). Per esse tuttavia – ha osservato la Corte – pur non configurandosi
un rapporto di immedesimazione organica, è tuttavia configurabile “una responsabilità politica”
in relazione “ai programmi ed alle linee del sindacato” nella sua dimensione verticale, cui esse aderiscono.
In ragione della “responsabilità politica”, che indubbiamente lega la r.s.a. al sindacato nazionale
per il perseguimento di comuni obiettivi – ha affermato la Corte – essa non può agire ex art. 28 Stat. Lav.
nei confronti del datore di lavoro che mostra di volere attenersi – con riferimento a materie estranee a quelle in cui si configura un diritto soggettivo esclusivo di detta r.s.a. (ad esempio, diritto di convocare assemblee
o di indire referendum) – a disposizioni di carattere generale adottate
(in sede contrattuale o unilateralmente) dal sindacato nazionale; ed invero, l’autonomia di cui dette rappresentanze sindacali aziendali godono non
le abilita di certo a rinnegare le direttive generali delle segreterie nazionali, mettendo in atto scelte operative suscettibili di disarticolare le generali linee di politica sindacale con ricadute pregiudizievoli per la stessa collettività dei lavoratori.
A tali conclusioni inducono sia il tenore
letterale che la ratio dell’art. 28 Stat. Lav. che, sorto a garanzia del sindacato
ed a tutela delle sue prerogative, finirebbe per legittimare opposte finalità se incentivasse divaricazioni all’interno dell’organizzazione sindacale.
Xxxx concludersi – ha affermato la Corte
– che non concretizza un comportamento antisindacale, sanzionabile ex art. 28 Stat. Lav., la condotta dell’imprenditore che – in adesione ai “desiderata”
delle maggiori organizzazioni sindacali di settore (comprese quelle
di appartenenza delle r.s.a.) – intenda condurre le trattative su questioni attinenti alla contrattazione collettiva con i sindacati in forma congiunta, rifiutando la richiesta di alcune
delle r.s.a. operanti in azienda di essere, invece, sentite a tavoli separati; tale condotta deve, infatti, annoverarsi
non tra quelle antisindacali ma tra quelle meramente antagonistiche che, come tali, non sono denunziabili
ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. in quanto trova la sua regolamentazione non nell’intervento giudiziario ma nell’esito del libero confronto tra parti sociali
e nella normale (anche se accesa) dialettica sindacale.
La condotta antisindacale si può, allora, configurare solo quando l’esclusione può essere ricondotta ad una volontà discriminatoria dell’imprenditore: quando per esempio preferisca
la trattativa con un solo sindacato con l’obiettivo di avvantaggiarlo a danno di tutti gli altri.
Tralasciamo, in questa sede, tuttavia, di approfondire ulteriormente
le numerose problematiche afferenti alla trattazione su tavoli separati
in sede decentrata.
Veniamo alla contrattazione del pubblico impiego. La Cassazione, con sentenza
n. 8518 del 30/07/93, ha riconosciuto la legittimità della trattativa su tavoli separati, condotta dall’Inps.
La Suprema Corte ha ritenuto che,
in punto di fatto, l’Inps pose in essere il “censurato comportamento”
(la separazione dei tavoli)
in dipendenza della minaccia delle altre
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organizzazioni sindacali di allontanarsi dal tavolo della trattativa, dal momento che non intendevano dividerlo con
la Cisnal. Ciò consente di escludere l’illegittimità di tale condotta, conformemente a quanto già rilevato dalla stessa Corte in analoga controversia (Cass. n. 742/92), dove si è negato che il comportamento dell’Istituto fosse frutto di intento discriminatorio, né esso poteva dirsi assunto in violazione del principio della inscindibilità delle posizioni delle diverse componenti
della delegazione sindacale.
La trattativa separata, pertanto, è consentita ed è conforme alla previsione della norma, di cui all’art. 14 della Legge n. 93/838, una volta
che sia stata accertata l’assenza
di discriminazioni e nel momento prodromico della convocazione
e nella successiva conduzione della stessa.
Il negoziato si svolge tra le parti legittimate a porre in essere la contrattazione, ossia le delegazioni dell’Amministrazione e quelle sindacali, chiamate a dar corso all’espletamento dell’attività propedeutica all’accordo.
Per quanto concerne la delegazione sindacale, è da escludere che la stessa possa essere considerata come
un organo avente natura autonoma, diversa dalla somma delle singole componenti, dotato di una distinta soggettività nel senso di struttura indipendente in cui le varie componenti confluirebbero, perdendo la propria individualità.
A tale configurazione osta il sistema pluralistico sindacale quale risulta dall’attuale ordinamento, non intaccato dalla tendenza al coinvolgimento
di tutte le rappresentanze dei lavoratori nell’elaborazione di accordi di generale portata; ma ciò non può in alcun modo consentire che possa accogliersi, sotto il profilo giuridico, un modello
di organo di rappresentanza unitaria tale da esprimere una volontà comune risultante da una decisione unica
nella quale le diverse voci devono necessariamente confluire.
Si tratta, invece, di un’entità plurisoggettiva cui rimane estranea ogni idea di collegamento interno, anche se ciascuna componente deve essere posta in condizione
di partecipare alla trattative insieme e contestualmente alle altre, salva ovviamente la facoltà di non parteciparvi affatto ed anche
di chiedere di negoziare in sedi separate, essendo ciò espressione della reciproca autonomia dei sindacati. Al di fuori di tali particolari ipotesi,
a ciascuna di dette componenti deve essere assicurata, a prescindere dalla mancanza di una specifica
disciplina delle modalità del negoziato, la possibilità di esprimere la propria posizione in condizioni di parità
con gli altri sindacati chiamati a far parte della delegazione: ciò discende dalla natura di organismo plurisoggettivo della delegazione, cui è attribuito
il ruolo di parte trattante, che comprende nel suo interno, come si è rilevato, più rappresentanze
di lavoratori, aventi ciascuna i requisiti richiesti per esservi ammessa.
Xx è ovvio che la garanzia dell’effettiva partecipazione al momento
di formazione del contenuto dell’accordo in fieri può essere assicurata solo attribuendo ad esse una posizione
di parità che si traduca nella facoltà di interloquire nella fase di ricerca dell’accordo e di manifestare efficacemente la propria posizione al riguardo, cui va riconosciuto
il carattere di diritto soggettivo. Oltre all’obbligo della p.a. di trattare con tutti i sindacati che superano
la soglia della rappresentatività minima stabilita, può, altresì, ravvisarsi
il conseguente obbligo di trattare
con la contemporanea presenza di tutti i sindacati solo quando vi sia
il consenso di tutte le controparti; ma se qualcuna si rifiuti di sedere
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allo stesso tavolo con le altre, la parte pubblica non può che subire una tale presa di posizione e continuare
le trattative a tavoli separati9. Tirando le somme, la trattativa unica con tutte le organizzazioni sindacali appare, di gran lunga, preferibile, consentendo il simultaneo
e contestuale confronto tra le parti ma, se ciò non fosse possibile, è legittima la trattativa a “tavoli separati”, potendo l’organizzazione esclusa esprimere
il proprio dissenso, nei modi e termini previsti, sull’oggetto della trattativa10. La nostra indagine, prettamente giurisprudenziale, sulla legittimità della contrattazione su tavoli separati,
mostra l’imprescindibilità della richiesta di separazione della trattativa da parte di un’organizzazione sindacale o il suo rifiuto di sedere allo stesso tavolo
con altra organizzazione.
In tali ipotesi, non può essere tacciato di antisindacalità il comportamento tenuto dal datore di lavoro il quale predispone la trattativa su tavoli separati, ad eccezione, ovviamente, dei casi in cui il predetto comportamento non costituisca
uno strumento per discriminare
un sindacato. L’intento discriminante deve essere dimostrato in presenza di fatti che manifestino che
la negoziazione su tavoli separati era soggetta ad escludere una parte dalle trattative11.
Di contro, non esistendo, nel nostro ordinamento, un generale principio di parità tra le diverse associazioni sindacali, sono irrilevanti quelle disparità di trattamento
nel comportamento del datore di lavoro che non si traducano in una obiettiva coartazione della libertà di azione sindacale; di conseguenza non costituisce comportamento antisindacale
il raggiungimento di un accordo
separato con alcuni soltanto dei sindacati che partecipano alle trattative a “tavoli separati”, quando non sia rilevabile alcun
comportamento scorretto da parte del datore di lavoro nello svolgimento del negoziato12.
Non può essere catalogata tra le condotte discriminanti, anche perché prevista legislativamente, la verifica da parte dell’ARAN, prima della sottoscrizione dell’ipotesi di accordo collettivo, che
le organizzazioni sindacali aderenti all’ipotesi di accordo rappresentino, nel loro complesso, almeno il 51% delle deleghe espresse nel comparto
o nell’area di contrattazione, atteso che dalla disposizione non può che ricavarsi la possibilità di pervenire
alla stipulazione del contratto collettivo anche in difetto del consenso
dei sindacati “minoritari”13.
La non discriminazione nella trattativa separata, inoltre, rende opportuno che ai diversi tavoli sia garantita
la possibilità di dibattere con una delegazione di parte datoriale con poteri ampi, tali da garantire a ciascun sindacato il diritto di far sentire e valere le proprie ragioni, senza intaccare di fatto la propria capacità negoziale14.
Questo aspetto pone, per esempio, il problema dell’opportunità o meno della contestualità delle trattative
sui diversi tavoli, dal momento che, mentre la contemporanea contrattazione accelera l’iter negoziale, impedendo, altresì, l’eventuale “fuga
di notizie”, dall’altro, implica che, presumibilmente, un tavolo si svolga in presenza di una delegazione dotata di margini meno ampi del datore – delegante e, in ogni modo,
in una condizione deteriore rispetto al libero svolgersi della trattazione
al cospetto del tavolo più autorevole. Ulteriori problemi si pongono, infine, relativamente alla possibilità che
il negoziato si frammenti in tre o più tavoli, su richiesta, disgiuntamente, di diverse associazioni sindacali
con il correlato, inevitabile pregiudizio, per la parte datoriale, di addivenire
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in tempi rapidi all’accordo.
Anche in questo caso l’amministrazione si trova di fronte a precise richieste sindacali: l’unica raccomandazione utile è di cercare di “limitare i danni” ed evitare, per quanto possibile, l’eccessiva frantumazione dei tavoli
di contrattazione ponendo con forza l’obiettivo di procedere con celerità e senza eccessivi aggravi
per l’operatività della parte datoriale.
a cura di Xxxxx Xxxxxx
U.O. Affari Giuridici ARAN
NOTE
1 Cfr. Tribunale civile di Roma, Sezione IV Lavoro, 9 gennaio 2002, Xxxxxxx Xxxx. Visonà. La S.-C. promuoveva opposizione al decreto con il quale il Giudice del lavoro di Roma aveva respinto la domanda ex art. 28 Stat. Lav. e chiedeva, quindi, la declaratoria di antisindacalità della condotta della Società A. La ricorrente deduceva, infatti, che la A. S.p.A., durante le trattative per i call center, aveva leso il suo diritto ad un’informazione e consultazione sindacale secondo correttezza e buona fede, raggiungendo nel frattempo un’intesa sullo stesso tema con la CGIL, CISL e UIL. La Società A., costituitasi in giudizio, sosteneva di aver ritualmente convocato i rappresentanti della S.-C. per la consultazione in merito ai call center e di aver trattato anche con loro in buona fede, fintantoché aveva raggiunto un’intesa con le organizzazioni sindacali che rappresentavano il maggior numero dei dipendenti in forza all’impresa. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 9 gennaio 2002, Xxxxxxx Xxxx. Visonà, rigettava il ricorso
della S.-C. Precisa, infatti, il Tribunale che l’obbligo di informare e consultare le XX.XX. sui temi previsti non significa ancora obbligo di raggiungere un’intesa con tutte o con alcune delle XX.XX., ma solo di dar corso ad un confronto serio e leale al cui esito l’impresa possa assumere determinazioni che tengano conto del punto di vista e delle necessità delle XX.XX. e dei dipendenti che esse rappresentano. È dunque normale e legittimo che le previe consultazioni possano portare ad un accordo solo con alcune delle XX.XX. consultate o addirittura a nessun accordo, soprattutto se le trattative avvengono a tavoli separati, così come è avvenuto nel caso in esame. La Società A., prosegue il Tribunale, aveva convocato tutte le XX.XX. per la trattativa in merito ai call center ed in seguito, raggiunto un accordo soddisfacente con CGIL, CISL. e UIL., l’aveva comunicato alla ricorrente, non avendo più interesse a proseguire nelle trattative. La Società A., quindi, ha formalmente rispettato gli obblighi di informazione e consultazione posti a suo carico nei confronti della O.S. ricorrente; senza considerare, inoltre, che l’impresa ha così raggiunto un accordo con le organizzazioni che rappresentano la maggioranza dei suoi dipendenti.
2 Cnf. Cassazione Sezione Lavoro n. 1307 del 24 gennaio 2006, Pres. Xxxxx, Rel. Amoroso.
3 Sentenze n. 54/74, n. 334/88 e n. 89/95.
4 Cfr Sentenza n. 30/90.
5 Cfr. Cassazione Civile Sent. n. 26239 del 02.12.2005.
6 Vedi nota ARAN in materia di relazioni sindacali del 15 febbraio 2002 - Prot. 1702.
7 Cassazione Sezione Lavoro, sentenza n. 2857/2004, Pres. Sciarelli, Rel. Vidiri.
8 Abrogato dall’art. 72 del D.Lgs. n. 165/2001.
9 Pretura di Roma, ordinanza del 22 settembre 1998 – Est. Sordi, in XXX, 0000, n. 6 pagg. 1351 e ss.
10 Tribunale di Milano, 6 ottobre 1989.
11 Cfr. Pretura di Benevento, 17 maggio 1999.
12 Cfr. Pretura di Potenza, 17 febbraio 1997.
13 Cfr. Pretura di Roma, 22 settembre 1998.
14 Cfr. Pretura di Palermo, 10 gennaio 1991.
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IL LIBRO VERDE
SULLA MODERNIZZAZIONE DEL DIRITTO DEL LAVORO
INTRODUZIONE
A Lisbona, nel marzo 2000, i Capi di stato e di governo dell’Unione europea hanno varato gli obiettivi, per il decennio 2000–2010, che l’Unione si propone
di raggiungere, dando luogo a quella che è la cosiddetta Strategia di Lisbona.
Nel corso di successivi consigli europei sono stati fissati gli obiettivi quantitativi da conseguire entro il 2010: un tasso
di crescita economica pari al 3%, un tasso di occupazione del 70%, un tasso
di partecipazione della forza femminile al lavoro pari al 60%. La Strategia si fonda su tre punti fondamentali: economico
(economia competitiva, dinamica, fondata sulla conoscenza, capace di corrispondere alla necessità di adattarsi continuamente all’evoluzione della società); sociale (modernizzare il modello sociale europeo investendo nell’istruzione, nella formazione, nella lotta contro l’esclusione sociale attuando politiche attive per l’occupazione); ambientale (crescita economica dissociata dall’utilizzazione delle risorse naturali in favore di uno sviluppo sostenibile).
Successivamente, nel 2005 si è deciso di rilanciare la strategia di Lisbona, centrandola su due obiettivi cardine: crescita economica e occupazione
e si sono approvati gli “Orientamenti
integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008”. Sulla base dei quali ciascuno Stato membro ha redatto un piano triennale (2005-2008) indicando le riforme e le altre misure di competenza nazionale, necessarie ad avvicinarsi agli obiettivi della Strategia; senza, per questo, pienamente conseguire quell’unità
di interventi a livello dell’Unione europea. Si ricorda che, nel contempo, si è registrata l’esigenza di un coordinamento tra gli Stati membri dell’Unione
e di un dibattito pubblico sul ruolo e sui valori del diritto del lavoro
in una Unione europea più estesa, per conoscere meglio le singole situazioni nazionali ed individuare così gli obiettivi da perseguire congiuntamente.
A tale scopo la Commissione europea ha pubblicato, il 22 novembre 2006, un libro verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro e per rispondere alle sfide del XXI secolo, “lanciare
un dibattito pubblico nell’Unione europea e far evolvere il diritto del lavoro in modo da reggere gli obiettivi della strategia
di Lisbona” perseguendo una crescita più sostenibile, con più posti di lavoro
e di migliore qualità.
Aperto ai contributi di tutti gli Stati membri, delle Parti sociali, degli Istituti di ricerca economica, il Libro verde è stato concepito per conoscere la situazione attuale del mercato del lavoro, tramite
il dibattito pubblico che si è sviluppato per un periodo di quattro mesi, fino alla fine di marzo 2007, fornendo
un orientamento normativo più marcatamente unitario nell’Europa a 27.
Il documento si articola in una serie di 14 domande sul ruolo del diritto
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del lavoro e sul concetto di “flexicurity”, neologismo che tende a rappresentare l’integrazione tra flessibilità e sicurezza “nell’ottica di un mercato del lavoro più equo, più reattivo e più inclusivo”.
Vi vengono, fra l’altro, presi
in considerazione le transizioni professionali, l’insicurezza giuridica, i rapporti di lavoro triangolari, l’organizzazione dell’orario di lavoro, la mobilità dei lavoratori, il controllo dell’applicazione della legislazione negli Stati membri ed il lavoro non
dichiarato. La risposta del governo italiano al Libro verde, elaborata tenendo conto del dialogo con le parti sociali, è stata presentata alla Commissione europea
lo scorso aprile dal ministero del lavoro. Il testo valuta gli aspetti positivi (incremento dell’occupazione) e negativi (precarietà dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani e le donne) determinati dalla flessicurezza nei rapporti di lavoro
e ribadisce come la direzione da seguire sia quella della stabilizzazione: “per evitare che la flessibilità si traduca in precarietà - si legge nel documento - occorre che
i lavori non standard vengano resi sostenibili sia attraverso un’adeguata regolazione legislativa e contrattuale che con lo sviluppo delle protezioni
sul mercato del lavoro e di incentivi finalizzati alla loro trasformazione in rapporti a tempo indeterminato”.
La posizione italiana sottolinea come nel Libro verde sia assente ogni riferimento esplicito alla Carta dei diritti fondamentali di Nizza, che rappresenta “un presidio e un vincolo politico
e giuridico anche per i diritti sociali” da cui non si può assolutamente prescindere, criticandone l’approccio prevalentemente, se non proprio
esclusivamente, ricognitivo della realtà in atto. Ha, inoltre, riaffermato l’importanza della contrattazione collettiva
e delle politiche pubbliche per incrementare le tutele nel mercato del lavoro ed assicurare alle imprese la flessibilità di cui hanno bisogno nel nuovo e più ampio contesto
internazionale, dovendo nel contempo garantire la sicurezza dei lavoratori.
Posizione che ancora recentemente, il 5 luglio scorso, è stata ribadita
dal governo portoghese all’inizio del proprio semestre di presidenza dell’Unione: nel primo incontro con le parti sociali europee esso ha, infatti, riaffermato l’importanza
di implementare effettive politiche d’inserimento dei lavoratori anziani, sostenere la capacità dei datori di lavoro e dei lavoratori ad adattarsi ai cambiamenti per mezzo della flessicurezza, perseguire una completa integrazione di tutti
i settori della società, compresi i gruppi svantaggiati, attraverso una effettiva politica di alta qualità dei servizi pubblici. Del tutto d’accordo si è detto Xxxxxx Xxxxxxxxx, segretario generale
del Ceep, il partner sociale europeo a cui aderisce anche l’ARAN.
Premesso tutto ciò, pubblichiamo qui
di seguito un intervento, sull’argomento, della Professoressa Xxxxxx Xxxxxxxx che, presso il Parlamento europeo, si occupa in modo specifico della materia.
Xxxxxxx Xxxxxxxx
Ufficio informazione e comunicazione ARAN
BREVI NOTE SUL LIBRO VERDE
1. Il tema del lavoro e delle politiche occupazionali è sotto i riflettori
in Europa. Mai come in questi ultimi anni, nelle istituzioni comunitarie,
il Diritto del lavoro è diventato un autentico protagonista.
Il primo atto ha visto coinvolta la direttiva sulla liberalizzazione
dei servizi. Nella volontà del commissario proponente (Xxxxxxxxxx), il principio
del paese d’origine avrebbe dovuto essere uno degli strumenti che avrebbe consentito questa liberalizzazione e che
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avrebbe incentivato la mobilità tra le frontiere nazionali dei prestatori
dei servizi così come dell’insediamento di attività. In questo modo, i prestatori di servizi sarebbero stati retribuiti
e avrebbero visto applicate le condizioni di lavoro (appunto) del paese d’origine e non del paese sede della prestazione o attività. Dopo un lungo braccio
di ferro tra Commissione, Consiglio
e Parlamento europeo, è stata approvata la relativa direttiva, emendata sul punto, con il principio del paese d’origine sostituito da quello dell’applicazione delle regole del diritto del lavoro della nazione ospitante.
2. Dopo la difesa della legislazione nazionale condotta nella direttiva
sulla liberalizzazione dei servizi, archiviata sostanzialmente nel 2006, questo è l’anno centrale della consultazione, aperta dalla Commissione europea,
sul Libro verde dedicato alla “Modernizzazione del Diritto del lavoro per affrontare le sfide del XXI secolo”.
La consultazione su 14 domande è stata aperta a novembre del 2006 e chiusa alla fine di marzo 2007.
Numerose sono state le risposte inviate, anche da parte del nostro Ministero
del lavoro, oltre che da un foltissimo gruppo di giuslavoristi.
Il Libro verde presenta aspetti di segno diverso. Tra quelli positivi possiamo mettere la richiesta di un approccio innovatore alla flessibilità, di trovare strumenti e garanzie di sicurezza
per le lavoratrici e i lavoratori, di ridurre la frammentazione delle tipologie
di lavoro. Quanto sta cercando di fare l’attuale governo e il ministro del lavoro, dentro a un disegno complessivo
ed equilibrato.
Ben più numerosi sono gli aspetti negativi. Possiamo indicare i principali. Nel collegare flessibilità e sicurezza, suggerisce di ridurre la protezione del lavoro stabile come metodo per ridurre
(la convenienza al) la frammentazione tipologica dei lavori atipici; cioè propone lo scambio tra la riduzione della flessibilità in entrata e l’aumento
della flessibilità in uscita.
Non solo l’analisi, ma anche le domande sembrano molto povere o riduttive.
Manca lo slancio e la volontà di cogliere, con uno sguardo rivolto al futuro, le innovazioni da apportare per fronteggiare le tre principali sfide, solo le prime due ricordate dal documento della Commissione: la globalizzazione,
i cambiamenti demografici, i cambiamenti climatici.
3. Il Parlamento europeo è stato impegnato in questi mesi in una riflessione approfondita su quello che è uno
degli obiettivi cruciali della Strategia
di Lisbona: la piena e buona occupazione, considerata motore dello sviluppo
del sistema europeo e dei singoli sistemi nazionali, non concorrenti tra di loro
ma impegnati assieme nel raggiungere l’obiettivo dell’economia della conoscenza più innovativa del mondo.
Come ci ricordano numerosi documenti europei, non ci sono margini
per la solidarietà se non c’è sviluppo economico, ma non c’è sviluppo economico se non c’è coesione sociale.
Il Parlamento ha scelto la strada del rapporto di iniziativa.
Stiamo arrivando alle fasi conclusive. La parola finale spetta alla prossima sessione plenaria del Parlamento
a Strasburgo nella seconda metà
di luglio, quando verrà votato il rapporto di iniziativa. Xxxxx lascia ritenere che non ci si discosterà dal testo approvato in Commissione occupazione e affari sociali nel corso del mese di giugno.
Un ottimo risultato per il Parlamento europeo, frutto del lavoro di compromesso realizzato nelle commissioni competenti tra i diversi gruppi politici.
Sono felice di aver potuto contribuire come relatrice socialista con l’opinione espressa dalla Commissione economica e monetaria.
Il testo votato in questa commissione ha consentito di uscire dalla contrapposizione
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ideologica e di schieramento, puntando a mettere soprattutto in evidenza
il segno e la direzione degli adattamenti necessari nelle politiche occupazionali e nell’organizzazione del lavoro.
È risultata positiva la strategia adottata, incardinata su alcuni assi prioritari condivisi. La fine tessitura del compromesso si è poi realizzata in seno alla Commissione occupazione, che è riuscita a capovolgere l’impostazione del testo originariamente proposto
dal relatore popolare polacco (Xxxxxxxxxxxx), riportandolo nel solco europeo, che punta a migliorare e non a distruggere il suo modello sociale.
4. Quanto ai contenuti, l’area più rilevante riguarda la flexicurity, parola ormai entrata nella discussione
sulle riforme del lavoro anche del nostro Paese, ma che non ha ancora salda nozione a livello europeo. Il Libro verde proponeva 14 domande, che vanno dalle politiche attive del lavoro alla lotta al lavoro nero, al lavoro autonomo
e all’area grigia che sta al confine tra lavoro subordinato e autonomo. Le riflessioni che verranno proposte alla Commissione dal Parlamento europeo, come ho ricordato sopra,
costituiscono un buon risultato, che spinge a guardare in avanti e a non riproporre ricette vecchie, come quelle che collegano l’aumento della occupazione alla libertà di licenziamento.
Pensiamo che la flessibilità e la sicurezza siano esigenze di entrambe le parti
del rapporto di lavoro, superando l’idea che la flessibilità sia esigenza solo
della impresa e la sicurezza solo della persona che lavora.
Siamo convinti che i cambiamenti debbano riguardare soprattutto l’organizzazione del lavoro e la cultura del lavoro, collegando diritti
a responsabilità, garanzie individuali a relazioni collettive contrattuali
e partecipative, per ottenere quei more and better jobs della Strategia di Lisbona. Intendiamo occuparci di tutti i lavori, mantenendo saldo il principio della stabilità del lavoro, che non significa
garanzia del posto fisso per tutta la vita, e insieme progettando specifiche garanzie, partendo dalla formazione per tutto l’arco della vita e dall’incremento della professionalità.
Crediamo nell’importanza di un livello europeo di coordinamento di normative e di politiche, anche nella lotta al lavoro nero e sommerso così come al falso lavoro autonomo, con nuovi strumenti
e strategie, compresi specifici diritti di sicurezza sociale nel rapporto
di lavoro e nel mercato del lavoro.
5. E’ da segnalare, però, che, se solo sullo sfondo restano le visioni differenti dei gruppi politici parlamentari, emerge con sempre maggiore evidenza la rilevanza delle situazioni e delle normative diverse esistenti tra Paesi, soprattutto tra quelli della “vecchia”
e quelli della “nuova” Europa.
Anche per questo, appare ancora incerto il destino di una vera e propria normativa comunitaria di diritto
del lavoro. Molto è stato prodotto. Le aree coperte da direttiva sono numerose, benché collocate ancora ai margini e non al cuore
della disciplina.
Significative sono le titubanze
ad arrivare ad una nozione omogenea di lavoratore. Eppur tuttavia, il percorso appare segnato. E non può essere considerata limitata la scelta
della Commissione di proseguire ancora prima di dar conto degli esiti
delle risposte alla consultazione
sul Libro verde, con una comunicazione sulla flexicurity.
Prima ancora di essere chiusi, i giochi così si riaprono, anche a livello
di Parlamento europeo.
Il diritto del lavoro e molti dei suoi contenuti cruciali resteranno a lungo sotto i riflettori.
Xxxxxx Xxxxxxxx
Parlamentare europea
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PUBBLICI DIPENDENTI: UNA NUOVA RIFORMA?
Nel panorama non sempre entusiasmante della saggistica in materia di lavoro pubblico, il libro curato da Xxxx’Xxxxxx e Xxxxx Xxxxx invita alla lettura non tanto per il titolo, un po’ rischioso (Pubblici dipendenti: una nuova riforma? può suscitare nel lettore uno spontaneo e sconsolato: ancora?!), quanto per la personalità dei curatori
e degli autori dei vari saggi.
Essi uniscono infatti, caso abbastanza insolito, la qualità di studiosi con quella di persone che, in diverso modo
e con diversi ruoli, hanno attraversato, o almeno sfiorato, i luoghi e le attività su cui si soffermano nei loro scritti:
il che evita, a chi legge, ben conoscendo, xxxxxx, le difficoltà e la fatica del “fare”, la poco gradevole sensazione
di scorrere analisi e diagnosi tanto “politicamente (o accademicamente) corrette” quanto lontane dalla realtà.
Il libro percorre tutti i problemi
del lavoro pubblico, con particolare attenzione verso l’attività contrattuale, ma non solo. In particolare, si sofferma su quelli che possono a buon titolo essere considerati oggi i problemi cruciali della riforma, non solo
del lavoro pubblico, ma della stessa pubblica amministrazione, quella della dirigenza, e quella
della contrattazione integrativa.
I saggi di Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxxxxx
Xxxxxxxx e Xxxxxx Xxxxxxxxx costituiscono così il “cuore” della trattazione, completata dagli scritti di Xxxx’Xxxxxx, Xxxxx Xxxxx e Xxxxx.
Le conclusioni per dir così “operative” sono peraltro indicate in un saggio introduttivo. E qui vale la pena
di notare subito che, essendo
le posizioni degli autori piuttosto diverse, com’è ovvio, e non sempre convergenti tra loro, il compito
di tentare una sintesi propositiva appare particolarmente arduo.
Ma su questo torneremo in conclusione. Partiamo, com’ è doveroso fare, essendo questo a nostro avviso
il “nocciolo duro” della questione, dal saggio di Xxxxxx sulla dirigenza.
Un saggio ben argomentato, nel quale l’Autore esprime una tesi decisamente critica circa le direzioni finora tenute su questa materia, almeno a partire dalle riforme dei secondi anni novanta.
Secondo Xxxxxx, a dieci anni
dalla riforma, il disegno di rafforzare
la dirigenza, rendendola più autonoma dalla politica e più consapevole
del proprio ruolo, può dirsi in buona parte mancato. In realtà, la politica non solo mantiene il primato
negli ambiti di sua spettanza, ma invade il campo, mantenendo la dirigenza
in una condizione di marcata debolezza. Se questa diagnosi appare a grandi linee condivisibile, bisogna poi esaminare le ragioni che l’A. indica come cause di tale situazione, cause che sono direttamente propedeutiche alle terapie ivi indicate.
Xxxxxx ripercorre sinteticamente tutta
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la vicenda della formazione della dirigenza pubblica italiana, soffermandosi
in particolare sugli avvenimenti dell’ultimo decennio: e sembra di capire che all’origine delle insufficienze attuali egli collochi, più che le complesse vicende dipanatesi dagli anni settanta
ai novanta, soprattutto la “precarizzazione” avvenuta alla metà degli anni novanta con la scissione tra status e incarico, che egli vede, si direbbe, come punto di snodo al quale avrebbero fatto seguito, senza sostanziali soluzioni
di continuità, le “riforme della riforma successive”, fino ad oggi.
Da questa analisi discende naturalmente, per dir così, l’indicazione della terapia.
Che è, detta in breve, quella
di ricondurre lo stato giuridico
della dirigenza pubblica ad una sostanziale ricomposizione tra status e incarico, riportando quest’ultimo nella dimensione “tempo indeterminato”, con almeno due corollari: una più decisa distinzione tra compiti di natura “politicamente” fiduciaria, su cui innervare qualche forma di spoils system, e quelli (la maggioranza) aventi natura più prettamente burocratica,
e la creazione di un’authority
“con compiti di xxxxxxxx e presidio
del corretto funzionamento del sistema (…) posta al centro di un vero e proprio network di controllo”.
Il ragionamento è coerente, le conclusioni (piuttosto) radicali. Viene da chiedersi se le premesse siano condivisibili.
C’è da chiedersi, innanzitutto, se
la ragione dell’attuale situazione stia (non solo, ma prevalentemente) nella “precarizzazione” indotta
dalla riforma Xxxxxxxxx, o se, come chi scrive ha cercato di argomentare
in altre sedi, quella degli anni novanta non sia stata affatto una precarizzazione, mentre lo sono state, in modo confuso e contraddittorio, le misure successive, a partire dalla Legge n. 145/2001.
Da ciò discende - e l‘argomento meriterebbe ben altro approfondimento di quello possibile in questa sede -
il dubbio che la terapia del ritorno ad una stabilità assoluta (che non ha dato buona prova in passato, e che
appare difficile temperare attraverso la creazione di un’ulteriore authority) sia quella giusta, e che sia piuttosto opportuno cercar di dare finalmente ed effettivamente respiro allo spirito
e alla lettera di una riforma che non ha mai davvero visto la luce.
Il saggio di Xxxxxx, che ruota intorno alla tesi sommariamente esposta, contiene poi numerosi spunti
di notevole interesse, circa l’accesso alla qualifica dirigenziale, alla distinzione tra le varie funzioni dirigenziali,
alla permeabilità tra dirigenza pubblica e privata, e altro ancora, in un saggio di notevole interesse e certamente adatto a ravvivare la discussione.
Dell’altro fronte “caldo” della discussione sul lavoro pubblico, quello
della contrattazione integrativa
e delle relazioni sindacali plant level, si occupano i due interessanti contributi di Xxxxxxxx e Vignocchi, l’uno prevalentemente sugli aspetti normativi, l’altro su quelli finanziari. Xxxxxxxx ripercorre sinteticamente i problemi che la contrattazione
a livello di amministrazione ha fatto segnare in questi anni, e la cui constatazione rappresenta ormai
una sorta di communis opinio diffusa tra gli osservatori.
La scarsa rispondenza dei comportamenti contrattuali alla “filosofia” della riforma e alle stesse linee guida tracciate
dai contratti nazionali in materia di progressioni, di produttività,
di utilizzo dei fondi contrattuali, è un dato giustamente messo in rilievo dall’A. il quale curò, ricordiamo, per conto dell’ARAN, all’inizio di questo decennio, una delle più complete
ricerche empiriche svolte sull’argomento. Interessanti sono anche le osservazioni sulle cause, che l’autore attribuisce non meno sia a generali ragioni strutturali (“la responsabilità del datore di lavoro è ancora assai sfumata
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nel settore pubblico”, e le sanzioni
di nullità delle clausole difformi sono inefficaci), che a ragioni d’ordine politico contingente, come i continui e contraddittori stop and go introdotti dalle leggi (in particolare dalle leggi finanziarie) circa la portata
e l’autonomia della contrattazione integrativa nell’ultimo decennio. Passando ai suggerimenti “terapeutici”, l’A. sembra sfuggire, giustamente,
alle suggestioni iper centralizzatrici che circolano abbondantemente, suggerendo invece soluzioni tendenti
a mantenere un opportuno equilibrio nella struttura contrattuale, stimolando comportamenti virtuosi dei soggetti contrattuali, comportamenti che proprio il mancato ricorso alla clausola di nullità si dimostrano difficilmente raggiungibili con strumenti “autoritari”.
Il federalismo fiscale, l’aumento
delle opzioni di exit e di voice da parte dei cittadini utenti, ma anche cambiamenti di comportamento tendenti a semplificare ed alleggerire una contrattazione decentrata diventata anch’essa iper regolativa, sono alcuni dei suggerimenti di un autore che appare propenso, come si vede,
non tanto a una “nuova riforma”, quanto ad aggiustamenti, anche profondi, complessivamente ottenibili dentro il quadro delle regole attuali. Xxxxxx Xxxxxxxxx esamina, con occhio attento soprattutto ai contenuti salariali, l’evoluzione della contrattazione integrativa negli enti locali, e la sua analisi ricostruisce
le dinamiche del passaggio
dalla contrattazione “decentrata”
a quella “integrativa” mettendo in luce le principali criticità del compito
al quale la riforma ha chiamato
le amministrazioni, a partire soprattutto dalla metà degli anni novanta.
Criticità sintetizzabili, in fondo, soprattutto nella difficoltà di coniugare
l’esigenza di rispettare gli equilibri finanziari, e di impiegare risorse per assecondare e finanziare, anche attraverso la contrattazione integrativa, operazioni di rinnovamento e crescita organizzativa degli enti.
Le tensioni tra il tentativo di impiegare le risorse in funzione incentivante,
e le ovvie spinte (presenti anche nel settore privato, come opportunamente sottolinea l’A.,
e come troppo spesso i commentatori dimenticano, e non a caso)
a stabilizzare le somme così corrisposte, i dilemmi sulle architetture finanziarie dei Fondi, e le ricadute
sulla gestione quotidiana del personale, ed altro ancora, sono aspetti che l’A. ricostruisce con la competenza di chi conosce la materia, non solo per averla studiata.
Le dinamiche delle relazioni contrattuali a livello nazionale sono ricostruite
da Xxxxx Xxxx’Xxxxxx, in un saggio che non si occupa, in realtà, solo di costo del lavoro, come da titolo,
ma comprende una più generale riflessione che l’A. viene sviluppando da tempo. E chi scrive ricorda ancora le vivaci chiacchierate serali sull’argomento con l’allora Presidente dell’ARAN (chiacchierate cui partecipava, all’inizio, anche Xxxxxxx Xxxxxxxxx) svolte alla fine degli anni novanta, dopo intense giornate
di trattative. Il saggio ripercorre
la “storia” della contrattualizzazione, mettendo giustamente in luce
i problemi e i forti limiti dell’esperienza precedente (ciò che dovrebbe quanto meno sconsigliare di tornare ad assetti che la ricordino da vicino).
L’A. si sofferma poi molto analiticamente, e con sottolineature tra la parodia e lo scoraggiamento,
sui problemi che hanno fatto seguito alla contrattualizzazione,
dalle contraddizioni tra gli intenti
e la realtà, alle sovrapposizioni di ruoli tra i vari soggetti in campo,
alle lungaggini contrattuali, eccetera. Questioni abbastanza note,
per la verità, e a proposito delle quali bisognerebbe pur sempre ricordare
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che stiamo parlando del settore pubblico, cioè di un settore nel quale sono inevitabilmente in gioco
la politica, le norme di vario rango che disciplinano le precauzioni e i controlli riguardanti soldi della collettività,
la tradizione e la storia dell’amministrazione e dei sindacati del settore pubblico.
Che insomma, pur con tantissimi limiti, la riforma degli anni novanta ha pur cambiato qualcosa, e che il problema non sta tanto nelle “procedure” quanto nella difficoltà di smuovere il troppo lento mutare di una storia e di una cultura. A ciò si potrebbe aggiungere che per fare questo non aiuta certamente la diffusa tendenza
a trattare i problemi del pubblico impiego come se fossero esclusivamente problemi d’ordine finanziario.
Si potrebbe dire molto su alcune sottolineature forse eccessivamente calcate sui paradossi cui, secondo Xxxx’Xxxxxx, dà luogo la molteplicità di protagonisti.
Chi scrive ritiene, a differenza dell’A., che i limiti accennati, siano in qualche misura strutturali (e quindi forse bisognosi di qualche ritocco anche normativo), ma in buona,
e maggioritaria, parte, siano dovuti a comportamenti non corretti
delle parti, e soprattutto alla troppo debole, e spesso disattenta
e contraddittoria, regia che per molti anni dopo la riforma è stata attuata sia da parte politico/amministrativa che sindacale. Così che il problema principale non sembra essere tanto quello di cercare nuovi aggiustamenti di regole, come ormai accade quasi ogni anno, ma di trovare l’attenzione, la capacità e la forza per portare finalmente a termine una riforma incompiuta. Su questo, peraltro, anche Xxxx’Xxxxxx sembra essere molto prudente, e le pennellate finali per tracciare possibili nuove regole sono piuttosto leggere.
Xxx scrive non può non concordare,
e non solo ratione officii naturalmente, sulla raccomandazione finale di rafforzare quel piccolo, ma fondamentale ingrediente della riforma, che è l’ARAN. Nei saggi restanti, Xxxxx Xxxxx si occupa anch’egli della contrattazione
a livello di amministrazione, e Xxxxx ricostruisce la storia delle riforma,
a partire dai suoi albori, nell’ottica sindacale. Xxxxx Xxxxx,
con un orientamento già abbastanza consolidato nei suoi numerosi scritti sull’argomento, distribuisce in modo più o meno equo, tra i vari protagonisti, le responsabilità dei problemi
e delle criticità della gestione del personale nella pubblica amministrazione, descritta con un approccio metodologico proprio delle scienze organizzative,
e con utili riferimenti ad altre realtà europee.
La proposta, finale, di non ridurre la gestione del personale alla sola
attività contrattuale, potenziando forme di partecipazione “autonoma”
del personale, è certamente interessante, anche se meriterebbero di essere approfondite le modalità
di attuazione alle condizioni attuali,
e la natura dei cambiamenti di contesto molto profondi che si renderebbero necessari.
Rispetto alla ricchezza di argomenti e di suggestioni racchiuse nei saggi appena commentati. l’introduzione
appare singolarmente sbrigativa, forse nell’intento di cercare una difficile sintesi, o di elaborare semplici ricette per una realtà molto complessa.
Non si può che chiudere, dunque, con un suggerimento per il lettore: non si fermi all’introduzione, ma vada oltre, se vuole cogliere il senso
di una realtà importante, e di un libro davvero interessante.
Xxxxx Xxxxxxxxx
Componente Comitato Direttivo ARAN
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EVENTO | CONTENUTO/NOTE |
14 maggio 2007 | Il contratto regola gli aumenti stipendiali in |
Dirigenza Area II | coerenza con gli accordi Governo e Organizzazioni |
(Regioni ed Autonomie | sindacali del maggio 2005 che prevedono, per il |
locali) | secondo biennio economico, aumenti pari al 5,01% |
CCNL dell’area della | del monte salari del 2003. Il 18% di queste risorse |
dirigenza del Comparto | finanziarie è stato finalizzato ad incrementare la |
Regioni ed Autonomie | parte variabile della retribuzione di posizione e la |
locali per il secondo | retribuzione di risultato. |
biennio economico 2004 | |
- 2005 | |
14 maggio 2007 | È stato firmato definitivamente l’ accordo istitutivo |
Comparto Regioni ed | del Fondo di previdenza complementare per i |
Autonomie locali | dipendenti delle Regioni e delle Autonomie locali e |
Personale dei livelli | per i dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale. |
Accordo per l’istituzione | Come è già stato detto, l’importanza di questo |
del Fondo nazionale di | fondo risiede anche nella potenziale capacità delle |
pensione | adesioni che potrebbe interessare oltre un milione |
complementare per i | di dipendenti. |
lavoratori dei Comparti | |
delle Regioni ed | |
Autonomie locali e del | |
Servizio Sanitario | |
Nazionale | |
30 maggio 2007 Enti art. 70 D.Lgs. n. 165/2001 Personale dei livelli CCNL successivo al CCNL per il personale non dirigente dell'Ente Nazionale per l'Aviazione Civile (ENAC) quadriennio normativo 2002-2005 e primo biennio economico 2002-2003 | L’accordo riguarda in particolare i professionisti della seconda qualifica professionale (diplomati) dell’Ente che nella stagione contrattuale 1996-2001 erano disciplinati unitamente ai professionisti laureati. Le due componenti sono state scisse: i professionisti laureati sono confluiti nel contratto del personale dirigente e i diplomati in quello del personale dei livelli. In conseguenza di ciò, in sede di stipula del contratto del personale non dirigente, del 19 febbraio scorso, le parti negoziali si erano assunte l’impegno di definire in un apposito contratto i contenuti normativi e gli eventuali istituti economici, senza oneri contrattuali aggiuntivi. Il contratto, oltre a disciplinare le relazioni sindacali, il sistema di classificazione, il rapporto di lavoro, il trattamento economico, sottolinea che queste figure professionali, cui sono attribuite le attività professionali in conformità alle disposizioni di legge e nel rigoroso rispetto delle norme dei rispettivi ordini professionali, costituiscono una risorsa fondamentale per la missione istituzionale dell’Ente. |
30 maggio 2007 Enti art. 70 D.Lgs. n. | L’articolato realizza il testo unico delle disposizioni contrattuali vigenti per la dirigenza. Una apposita separata sezione è dedicata ai professionisti di |
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EVENTO | CONTENUTO/NOTE |
165/2001 | prima qualifica professionale (laureati). |
Dirigenza | Gli aumenti stipendiali per i dirigenti sono definiti |
CCNL per il quadriennio | per il biennio 2002–2003 in 246 euro e per il biennio |
normativo 2002-2005 e | 2004-2005 in 228 euro. Le restanti risorse finanziarie |
per il primo biennio | sono dedicate all'aumento dei fondi per la |
economico 2002-2003 | retribuzione di posizione (parte fissa e parte |
relativo all’area | variabile) e di risultato in misura pari al 4,78%. |
dirigenziale dell’ENAC. | Tali miglioramenti retributivi saranno attribuiti in |
CCNL per il secondo | quattro tranche, coincidenti con i mesi di gennaio |
biennio economico 2004- | del quadriennio, a partire dal gennaio 2002. |
2005 relativo all’area | Per i professionisti gli incrementi stipendiali sono |
dirigenziale dell’ENAC | definiti per il biennio 2002–2003 in 191 euro e per il |
biennio 2004–2005 in 189 euro. Sono inoltre previsti | |
aumenti sulla parte variabile della retribuzione pari | |
al 4,25%. | |
11 giugno 2007 | La presente richiesta di interpretazione autentica è |
Accordo quadro | stata presentata dal Giudice del lavoro di Crotone e |
Personale dei livelli | concerne la seguente questione: "se in caso di |
Contratto | decadenza dalla carica di componente della RSU |
d’interpretazione | per accertata incompatibilità ai sensi dell'art. 9 |
autentica dell’art. 7, | dell'Accordo collettivo quadro per la costituzione |
comma 2 della parte I | delle rappresentanze sindacali unitarie per il |
dell’ACQ del 7 agosto | personale dei comparti delle p.a. e per la |
1998 per la costituzione | definizione del relativo regolamento elettorale si |
delle RSU per il | applichi o meno il disposto dell'art. 7 comma 2 del |
personale dei comparti | ACQ citato (sostituzione con il primo dei non eletti |
delle pubbliche | della medesima lista)". |
amministrazioni e per la | Considerato che con il termine "dimissioni", in |
definizione del relativo | considerazione della logica che ha ispirato la |
regolamento elettorale. | clausola sopracitata, si sia inteso comprendere tutti i casi di cessazione dalla funzione di eletto nella |
RSU per motivi soggettivi e oggettivi e, quindi, a | |
prescindere dalla causa che la determina, dimissioni | |
o decadenza, fermo restando quanto previsto dal | |
comma 3 dell'art. 7. | |
Premesso questo le parti firmatarie del relativo | |
CCNL si sono espresse nel senso che con il termine | |
"dimissioni" si intende la cessazione dalla funzione | |
di componente della RSU per tutte le cause | |
soggettive ed oggettive che la determinano. | |
11 giugno 2007 | Il momento propedeutico per il rinnovo dei contratti di lavoro del pubblico impiego e per la definizione della rappresentatività delle Organizzazioni sindacali è costituito dall’individuazione dei comparti. Con la sottoscrizione definitiva dell’accordo si è avviato, per il quadriennio 2006–2009, il processo negoziale di attuazione dell’Intesa sul lavoro pubblico firmata il 6 aprile scorso, che consentirà di dare concreta realizzazione alle direttive ed agli atti di indirizzo che Governo e Comitati di settore invieranno all’ARAN. |
Accordo quadro | |
Personale dei livelli | |
Contratto Collettivo | |
Quadro per la | |
definizione dei comparti | |
di contrattazione per il | |
quadriennio 2006-2009 |
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EVENTO | CONTENUTO/NOTE |
15 giugno 2007 | Il contratto determina i seguenti incrementi per: |
Enti art. 70 D.Lgs. | - gli stipendi tabellari, circa 93 euro a regime per 13 |
165/2001 | mensilità di cui 42 euro dal 1° gennaio 2004 e 51 |
Personale dei livelli | euro dal 1° febbraio 2005; |
CCNL relativo al | - l’indennità di amministrazione, circa 8,50 euro a |
personale non dirigente | regime in due tranche, dal 1° febbraio 2005 e dal 1° |
del CNEL per il biennio | gennaio 2006; |
economico 2004-2005 | - il fondo unico di amministrazione, circa 11,50 |
euro, pari allo 0,51% del monte salari del 2003, a | |
decorrere dal 31 dicembre 2005 e a valere dal 1° | |
gennaio 2006. | |
21 giugno 2007 Comparto Regioni ed Autonomie locali Personale dei livelli CCNL di interpretazione autentica dell’art. 23 del CCNL del personale del Comparto Regioni - Autonomie locali del 14.9.2000 | La presente richiesta di interpretazione autentica è stata presentata dal giudice del lavoro di Xxxxxxx per accertare se la reperibilità effettuata in giorno festivo, nel caso in cui non sia resa alcuna prestazione lavorativa, determini con il riconoscimento del riposo compensativo una mera redistribuzione dell’orario di lavoro settimanale nei restanti giorni ovvero sia da considerare a tutti gli effetti compresa nell’orario di lavoro settimanale (sicché l’orario di lavoro effettivo risulti minore). Premesso questo le parti firmatarie del relativo CCNL si sono espresse nel senso che con la previsione dell’art. 23, comma 4, ultimo periodo, del CCNL del 14.9.2000, secondo la quale “La fruizione del riposo compensativo non comporta alcuna riduzione dell’orario di lavoro settimanale”, deve essere interpretata nel senso che il lavoratore che abbia prestato servizio di reperibilità di domenica o comunque in giorno di riposo settimanale, secondo il turno assegnato, e che fruisce del riposo compensativo, è tenuto, comunque, a rendere completamente l'orario ordinario di lavoro di 36 ore nella settimana in cui gode del riposo. |
26 giugno 2007 | Le parti si sono riunite per dare attuazione all’art. 43, |
Accordi quadro | comma 8, del D.Lgs. n. 165/2001, relativo alla |
Tutto il personale | istituzione del Comitato paritetico per la |
Protocollo di intesa per la | certificazione dei dati elettorali ed associativi delle |
costituzione ed il | organizzazioni sindacali ai fini dell’accertamento |
funzionamento del | della rappresentatività. |
comitato paritetico di cui | Nel protocollo si è definita la natura e la composizione |
all'art. 43 del D.lgs. n. | del Comitato paritetico, i relativi compiti, il suo |
165/2001 | funzionamento e la durata in carica. |
28 giugno 2007 | Il protocollo, ai sensi dell’ Accordo quadro del 7 |
Accordo quadro | agosto 1998, stabilisce la tempistica delle procedure |
Protocollo per la | elettorali delle rappresentanze unitarie del |
definizione del | personale che scadranno a novembre prossimo, |
calendario delle | escluse quelle del Comparto Scuola che ha eletto i |
votazioni per il rinnovo | propri rappresentanti a dicembre 2006. |
delle rappresentanze | Le votazioni riguardano circa un milione e mezzo di |
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EVENTO CONTENUTO/NOTE |
unitarie del personale dei lavoratori in oltre 14.000 luoghi di lavoro e si comparti svolgeranno dal 19 al 22 novembre secondo il seguente calendario: - 3 ottobre 2007 annuncio delle elezioni e contestuale inizio della procedura elettorale - 4 ottobre 2007 le amministrazioni rendono disponibile l'elenco generale alfabetico degli elettori e ne consegnano copia a tutte le organizzazioni sindacali che ne fanno richiesta. Contestualmente, inizia la raccolta delle firme per la presentazione delle liste: - 15 ottobre 2007 termine per l'insediamento della Commissione elettorale - 18 ottobre 2007 termine per la costituzione formale della Commissione elettorale - 23 ottobre 2007 termine per la presentazione delle liste elettorali - 12 novembre 2007 affissione delle liste elettorali all'albo - 19–22 novembre 2007 votazioni - 22 novembre 2007 scrutinio - 23–27 novembre 2007 affissione risultati elettorali all’albo dell’amministrazione per 5 giorni - 28 novembre – 3 dicembre 2007 le amministrazioni inviano il verbale elettorale finale all’ARAN per la rilevazione. All’ARAN compete, per legge, la raccolta e il conteggio dei voti; terminata tale procedura i dati dovranno essere certificati da parte dell’apposito Comitato paritetico (ARAN – Sindacati), anch’esso previsto dalla legge. |
28 giugno 2007 È stata firmata l’ipotesi di contratto collettivo CCNQ nazionale quadro per la ripartizione dei distacchi e intercompartimentale permessi alle organizzazioni sindacali Ipotesi di accordo rappresentative nei comparti nel biennio 2006-2007. nazionale quadro per le Nell’ipotesi le parti procedono a distribuire, sulla prerogative sindacali base dei nuovi dati della rappresentanza, le agibilità sindacali, nelle misure già storicamente determinate. |
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PRESCRIZIONE DEI CREDITI RETRIBUTIVI
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza
n. 1486 del 3 aprile 2007.
Pubblico impiego, prescrizione dei crediti retributivi.
Il termine di prescrizione dei crediti retributivi relativi ad un rapporto
di lavoro con la P.A., per tutte le pretese riconosciute ai pubblici dipendenti che hanno natura retributiva, è quinquennale e decorre in costanza del rapporto stesso, anche se questo abbia carattere provvisorio
o temporaneo, in quanto non è sostenibile, per la natura del rapporto, che il dipendente pubblico possa essere esposto a “possibili ritorsioni
e rappresaglie” quando egli tuteli in via giudiziale i propri diritti ed interessi.
Al riguardo deve, preliminarmente, osservarsi che avendo l’art. 45, comma 17, del D.Lgs. n. 80/98 (ora art. 69, comma 7, del D.Lgs. n. 165/2001) disposto il passaggio dal giudice amministrativo al giudice ordinario delle controversie relative ai rapporti di pubblico impiego privatizzati, relativamente al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30.6.1998,
nel caso in cui il pubblico dipendente, come nel caso in esame, riferisca
le proprie pretese retributive
ad un periodo in parte antecedente
e in parte successivo alla suddetta data, la competenza giurisdizionale è ripartita tra giudice amministrativo
e giudice ordinario in relazione alle due fasi temporali (cfr. Cons. SS.UU, n. 1204/2000; id., n. 1323/2000).
Il Consiglio di Stato, sezione V, per quanto attinente alla sua giurisdizione, richiamando un costante indirizzo
giurisprudenziale1, ha affermato che “la prescrizione dei crediti retributivi relativi ad un rapporto di lavoro
con la pubblica amministrazione decorre in costanza del rapporto stesso sebbene questo abbia carattere provvisorio o temporaneo”,
in numerose sentenze depositate il 3 aprile 2007 (nn. 1486, 1487, 1488, 1489,
1490, 1491, 1492, 1493, 1494, 1495, 1496,
1497, 1498, 1499, 1500, 1501, 1502, 1503,
1504) tra cui quella in esame, la n. 1486, che ha visto coinvolte delle insegnanti supplenti di una scuola materna comunale, le quali hanno impugnato
la decisione del giudice di primo grado, che aveva riconosciuto i crediti maturati a titolo di indennità sostitutiva per ferie maturate e non fruite, indennità di tempo potenziato, tredicesima mensilità, trattamento
di fine rapporto, astensione obbligatoria e/o facoltativa dal lavoro, ma ne aveva fatto decorrere la prescrizione
in costanza di rapporto di lavoro, dichiarando la sussistenza
della prescrizione quinquennale dei crediti maturati per l’indennità sostitutiva per ferie maturate e non
fruite e indennità di tempo potenziato. Inoltre, secondo un altro indirizzo2,
“il datore di lavoro pubblico, in quanto istituzionalmente vincolato alle regole sulla discrezionalità amministrativa
ed ai principi costituzionali di buon andamento e imparzialità, è
in condizione di operare una pressione ridotta rispetto ai propri dipendenti, anche su quelli a tempo”.
I giudici di Palazzo Spada ricordano, a sostegno della loro tesi, che anche la Corte costituzionale dichiarando, con sentenza 10 giugno 1966, n. 63, l’incostituzionalità del comma primo, punto 4, dell’art. 2948 cod. civ.
nella parte in cui consente che
la prescrizione decorra in costanza
di rapporto di lavoro, ha poi specificato, con sentenza 21 maggio 1975, n. 115, che l’illegittimità riguarda i soli rapporti di lavoro privato non stabili e non anche quelli di pubblico impiego.
La carenza di una peculiare regolamentazione della prescrizione,
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nell’ambito del sistema normativo disciplinante la materia del lavoro, impone, di fatto, all’interprete,
di individuare preliminarmente
il regime o i regimi di prescrizione applicabili ai vari diritti nascenti dal rapporto di lavoro subordinato.
Nello specifico, il Consiglio di Stato
ha stabilito che il regime prescrizionale quinquennale, di cui all’art. 2948
cod. civ., ad esempio, è riferibile altresì all’indennità per ferie non godute
e l’indennità di tempo potenziato.
La prima, in quanto trovando ragione nella violazione dell’art. 36 Cost., per il quale il lavoratore ha “diritto
ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”,
il relativo compenso ha natura retributiva perché nel rapporto sinallagmatico
è il corrispettivo di una prestazione lavorativa aggiuntiva (rispetto a quella ordinariamente dovuta).
La seconda, indennità c.d. di tempo potenziato, riconosciuta ai docenti delle scuole materne comunali dall’art. 45, sesto comma, del D.P.R. n. 333/90,
a compensazione della prestazione lavorativa aggiuntiva di cinque ore settimanali dell’orario di lavoro introdotta dall’art. 41, primo comma, del medesimo decreto, in quanto nel rapporto sinallagmatico
“è il corrispettivo, di natura retributiva, della richiesta contrattuale di una maggiore prestazione lavorativa oraria”. Secondo l’opinione ormai nettamente dominante tutto ciò che viene corrisposto dal datore al prestatore
di lavoro con periodicità annuale
o infra-annuale si prescrive nel termine di cinque anni secondo il disposto dell’art. 2948, n. 4, cod. civ.
Allo stesso termine quinquennale di prescrizione sono sottoposte,
quindi, in virtù dell’art. 2948, n. 5, cod. civ., le competenze spettanti
alla cessazione del rapporto di lavoro (il trattamento di fine rapporto, l’indennità di mancato preavviso
e l’indennità per causa di morte).
La prescrizione ordinaria decennale, di cui all’art. 2946 cod. civ., assume invece, nella materia del lavoro,
una rilevanza applicativa secondaria, svolgendo un ruolo residuale invero assai limitato. Il connotato caratterizzante i diritti del prestatore, riconducibili nella previsione dell’art. 2948, n. 4, cod. civ., non è tanto
la natura retributiva, quanto piuttosto la particolare modalità di soddisfazione del credito del lavoratore, nel senso che soltanto ove l’adempimento
della prestazione da parte del datore si realizzi, per imposizione legale
o contrattuale, o più semplicemente per consuetudine con continuità
a scadenze periodiche, potrà trovare applicazione la prescrizione breve quinquennale.
Viceversa si troverà ad operare
la prescrizione ordinaria decennale. Ancora, tuttavia, diffusa tra i lavoratori è la radicata quanto erronea convinzione secondo cui i propri diritti, afferenti
ai crediti retributivi, non si prescriverebbero per tutto il periodo di spiegamento del rapporto di lavoro
ma sarebbero, all’opposto, rivendicabili dopo la risoluzione del rapporto stesso. La regola del differimento a fine rapporto dell’inizio della prescrizione per il lavoratore - enunciata in assenza della legislazione garantistica (di cui alle Leggi n. 604/96 e n. 300/70) - subì successive correzioni ad opera
della stessa Corte costituzionale, una volta che la sopravvenuta legislazione, protettiva del lavoratore ed al tempo stesso sanzionatoria
del licenziamento arbitrario, stemperò il timore del recesso datoriale immotivato e ridusse il grado di minor resistenza del rapporto di lavoro privato rispetto a quello di pubblico impiego.
La Corte costituzionale - attraverso posteriori decisioni (n. 143/69; n. 86/71 ed infine n. 174/72) - si pose apertis verbis il quesito se, per effetto
delle introdotte innovazioni legislative
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(legge sulla “giusta causa e giustificato motivo”) non fosse venuto meno anche il fondamento giuridico su cui poggiava la parziale invalidazione delle disposizioni civilistiche sulla prescrizione, stabilita nella precitata sentenza n. 63 del 1966.
Si pervenne così alla conclusione che il principio del differimento, all’epoca dell’estinzione del rapporto,
della decorrenza della prescrizione, non era affatto applicabile “tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da una particolare forza di resistenza la quale deriva
da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto
e fornisca la garanzia di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione”.
All’orientamento correttivo di Corte cost.3 si adeguarono, all’epoca,
le Sezioni Unite della Cassazione
(n. 1268 del 12.4.1976) asserendo con tutta chiarezza che la decorrenza della prescrizione ordinaria “non è unica per qualsiasi rapporto di lavoro ma dipende...dal grado di stabilità del rapporto stesso”, dovendosi “ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere
pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale sul piano sostanziale subordini
la legittimità e l’efficacia
della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive
e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze
e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo”.
Affermò la Cassazione che, agli effetti della dilazione del decorso
della prescrizione a fine rapporto, tale situazione di stabilità, “per la generalità dei casi, coincide oggi con l’ambito
di operatività della Legge n. 300/70 (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18
all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dall’art. 8 della Legge n. 604/66 sui licenziamenti individuali)”, potendo, tuttavia, “anche realizzarsi ogniqualvolta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che danno al prestatore d’opera una tutela di pari intensità”.
Conseguenza, ai fini pratici, di quanto sopra riportato è che - nella generalità dei settori - mentre per tutto il restante personale la prescrizione è pienamente operativa in corso di rapporto
(nelle medie e grandi aziende,
in organico nelle unità produttive
al di sopra dei 15 dipendenti), gli unici beneficiari del differimento del decorso della prescrizione a fine rapporto risultano essere i “dirigenti”, e cioè coloro la cui risoluzione ad iniziativa discrezionale aziendale, quantunque condizionata pattiziamente a “giusta causa o a giustificato motivo”, non è accompagnata, in caso di ingiustificatezza, dalla tutela della reintegrazione nel rapporto ex art. 18
Stat. Lav. 4, ma eventualmente solo a penali a contenuto risarcitorio di natura retributiva (cd. indennità supplementare per i dirigenti
d’industria), soggette ad imposizione Irpef, secondo la consolidata giurisprudenza della Cassazione.
Soltanto, quindi, nelle piccole imprese al di sotto dei 15 dipendenti - ove per tutti i dipendenti vige la sola stabilità “obbligatoria”, da intendersi quale libertà di licenziamento con monetizzazione – vale per tutti
i prestatori d’opera la regola dell’operatività della prescrizione a rapporto di lavoro estinto.
MOBBING NEL PUBBLICO IMPIEGO
TAR Abruzzo-Pescara, sez. I, sentenza 23.03.2007 n 339
Pubblico impiego non privatizzato, mobbing, presupposti e riparto
di giurisdizione
Il reiterarsi di una serie di episodi qualificabili come vessatori e prolungatisi
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nel tempo da parte di un superiore gerarchico, con conseguenze pregiudizievoli sul dipendente,
in presenza di un comportamento omissivo della pubblica Amministrazione, tale da comportare un lassismo e un’assoluta mancanza di controllo, concretizzano
un fenomeno di mobbing, dando diritto al risarcimento biologico, professionale o esistenziale subito.
La vicenda ha visto coinvolto
un Assistente di polizia penitenziaria, rappresentante sindacale all’interno di un carcere, che si è ritenuto vittima di una serie di vessazioni – costituenti nel loro insieme mobbing – da parte di alcuni dipendenti che rivestivano ruoli superiori, essendo Ispettori
o addirittura Direttori, esponenti di altri sindacati.
Nel caso di specie, vi erano state
una serie di contestazioni nei confronti del ricorrente, alcune di carattere disciplinare, concluse con successiva archiviazione.
L’interessato, in una profonda depressione a causa del clima lavorativo avverso, che aveva nei suoi confronti prodotto un grave isolamento, aveva dovuto far ricorso anche
a delle cure psichiatriche e,
di conseguenza, avanzava richiesta di danno all’Amministrazione, proponendo, dopo il respingimento della stessa, ricorso al TAR.
Investito della questione, il Collegio affronta dapprima la problematica
del riparto di giurisdizione, atteso che la questione riguarda la polizia penitenziaria siamo nell’ambito
del pubblico impiego non privatizzato. Il TAR, richiamando un indirizzo giurisprudenziale maggioritario (Cass. civ. SS.UU., 22.5.2002, n. 7470; 27.2.2002,
n. 2882; 29.1.2002, n. 1147; TAR Liguria,
Genova, sez.I, 12.3.2003; TAR Lazio, sez.
III bis, 25.6.2004, n. 6254), ritiene che al fine di individuare il giudice competente è determinante
la qualificazione giuridica, contrattuale
o extracontrattuale, dell’azione
di responsabilità fatta valere in giudizio. Pertanto, secondo questo
orientamento, è competente il giudice ordinario, quando l’azione
del risarcimento del danno al dipendente è fondata sulla
responsabilità extracontrattuale
della Pubblica Amministrazione, come nella richiesta del danno biologico
per lesione attinente all’integrità psico- fisica che derivi dalla situazione
di disagio e dal comportamento di superiori (Corte cost. 14.7.1986,
n. 184); è competente, invece, il giudice amministrativo, quando la domanda risarcitoria scaturisce da una violazione del rapporto contrattuale, essendo fondata sull’inadempimento da parte del datore di lavoro pubblico
di obblighi relativi al rapporto
di impiego, tra cui anche la violazione dei doveri di imparzialità e buona amministrazione, posti in essere
con un comportamento omissivo o commissivo, venendo meno
all’obbligo specifico, di cui all’art. 2087 cod. civ., che vincola il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica
e morale del lavoratore.
Il giudice amministrativo è competente, altresì, in alcuni casi particolari, quando sussiste il cumulo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale,
e in tema di mobbing, possono ricorrere particolari condizioni “ove il rapporto di lavoro non ha costituito la mera occasione per la condotta vessatoria ed ostile di colleghi
o superiori gerarchici, ma ha visto anche la configurazione di una culpa
in vigilando da parte dell’amministrazione che, consapevole di tale condotta, nulla ha posto in essere perché cessasse il lamentato atteggiamento
di ostilità”.
Premessa questa differenziazione processuale, il TAR, tenuto conto delle varie pronunce giurisprudenziali,
ha sostenuto che sussiste il mobbing –
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definito quel “complesso di atteggiamenti illeciti posti in essere nell’ambiente
di lavoro nei confronti
di un dipendente e che si risolvono
in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di violenza morale o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire l’isolamento e la emarginazione
del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità” –
in presenza delle suddette condizioni:
a) la molteplicità dei comportamenti
a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente,
che siano stati posti in essere in modo miratamene sistematico e prolungato contro il dipendente, in guisa tale
da disvelare un intento vessatorio;
b) l’evento lesivo alla salute
e alla personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del mobber e il pregiudizio
alla integrità psico-fisica;
d) la dimostrazione dell’elemento soggettivo.
Nel caso di specie, provata
la sussistenza del primo elemento, ammesso in parte dalla stessa Amministrazione, che ha affermato di conoscere la situazione
di conflittualità tra ispettori e agente interessato, provato l’evento lesivo della depressione e il nesso eziologico, in quanto prima di subire tali atteggiamenti vessatori non accusava tali disturbi, rimaneva la dimostrazione dell’elemento soggettivo.
Al riguardo, il Collegio ha fatto rilevare che concorrendo la responsabilità contrattuale con quella extracontrattuale, “sul piano processuale si rende applicabile la disciplina dell’onere probatorio più agevole per il ricorrente, ossia quello contrattuale, e quindi
ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., che è la norma più confacente alle ipotesi
di mobbing, in quanto trasferisce
in ambito contrattuale il più generale principio del neminem laedere, ripartendo l’onere della prova, grava sul datore di lavoro l’onere di aver ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del lavoratore, che, esentato dall’onere di provare
il dolo o la colpa del datore di lavoro, è tenuto solo a provare la lesione dell’integrità psicofisica ed il rapporto causale tra il comportamento datoriale
e il pregiudizio alla salute (Trib. Tempio Pausania, 10.7.2003, n. 157)”.
Atteso che l’Amministrazione non ha fornito alcuna prova di aver posto
in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità pisico-fisica del lavoratore, ma anzi, il Direttore del carcere non richiamando
gli Ispettori ad un senso di maggiore imparzialità e obiettività nell’esercizio del potere gerarchico e ad una visione più serena del rapporto con
il ricorrente, ha omesso un intervento doveroso, in violazione dei principi
di buona fede e correttezza
nella gestione dei rapporti di lavoro, nonché violazione dei doveri
di imparzialità e buona amministrazione (siffatto comportamento omissivo,
che rileva ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo in testa all’Amministrazione di appartenenza, va considerato tenuto conto
del disposto combinato di cui agli artt. 2087, 1218 e 1228 cod. civ. e di cui all’art. 2049 cod. civ. per quanto concerne
la responsabilità extracontrattuale), sulla base delle predette argomentazioni il TAR ha deciso
di accogliere il ricorso.
a cura di Xxxxx Xxxxxx
U. O. Affari Giuridici ARAN
NOTE
1 C.d.S. sez. V, 17 febbraio 2004 n. 601; C.d.S. sez. V, 10 novembre 1992 n. 1243; C.d.S. sez. VI, 31 luglio 2003 4417; C.d.S. sez. VI, 16 novembre
2000 n. 6140.
2 C.d.S. sez. VI, n. 8 del 2001.