CADUCAZIONE DEL CONTRATTO E RESTITUZIONI
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PALERMO DIPARTIMENTO DI DIRITTO PRIVATO GENERALE DOTTORATO IN DIRITTO PRIVATO GENERALE “IUS 01”
CADUCAZIONE DEL CONTRATTO E RESTITUZIONI
Tesi di dottorato di: Tutor:
dott.ssa Xxxxxxxxx Xxxxxx Sireci Xx.xx Xxxx. Xxxx Xxxxxxx
Coordinatore: Xx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
INDICE
PREMESSA p. III
CAPITOLO I
Sezione I
1. La caducazione del contratto p. 1
2. Il recesso p. 3
3. L’invalidità p. 5
4. La risoluzione p. 12
5. La rescissione p. 19
6. L’inefficacia. La rappresentanza senza potere,
la condizione e la simulazione p. 20
7. Segue. La donazione: riduzione e revocazione p. 23
8. Altre ipotesi di caducazione del contratto p. 26
Sezione II
9. Il pagamento dell’indebito: genesi storica e fondamento
dell’istituto p. 28
10. La natura giuridica del pagamento dell’indebito p. 38
11. Il problema degli effetti traslativi dell’indebiti solutio p. 47
12. Ripetizione dell’indebito e arricchimento senza causa. p. 56
13. Rinvio p. 59
CAPITOLO II
1. La condictio indebiti in materia contrattuale p. 61
2. Gli artt. 1422 e 1463 c.c.: norme eccezionali o
espressione di un principio generale? p. 63
3. La condizione psicologica dell’accipiens p. 69
4. Restituzione degli elementi accessori: frutti,
interessi, addizioni, miglioramenti p. 76
5. Segue. Restituzione del valore di godimento p. 92
6. Restituzione delle prestazioni pecuniarie: debito
di valore o debito di valuta p. 97
7. Impossibilità della restituzione in natura p. 101
8. Alienazione o trasformazione del bene p. 111
9. La possibilità di restituire in natura come presupposto
della risoluzione: l’art. 1492, III comma c.c. p. 120
10. Restituzioni nello scioglimento dei contratti di durata p. 128
CAPITOLO III
1. Condictio indebiti proprietaria e condictio indebiti possessoria p. 134
2. Causa del negozio e causa dell’attribuzione p. 138
3. Condictio indebiti e azione di rivendica p. 141
4. Profili processuali p. 156
5. Restituzioni e risarcimento: il danno da risoluzione p. 157
6. Profili comparatistici p. 164
CONCLUSIONI p. 185
BIBLIOGRAFIA p. 189
PREMESSA
Il presente lavoro si propone di analizzare e offrire una chiave di lettura ad una problematica sicuramente non inedita nel panorama del diritto privato, ma non per questo meno attuale.
Le tutele restitutorie conseguenti alla caducazione del contratto sono da sempre fertile terreno di riflessione per la dottrina forse più che per la giurisprudenza. Se infatti nella concreta applicazione casistica non si esita ad utilizzare tralatiziamente, e spesso in maniera acritica, gli strumenti apprestati dal legislatore per rispondere alle istanze di tutela avanzate dai privati contraenti, meno sicura diventa la risposta nel momento in cui ci si interroga sul reale fondamento dell’azione e sulla sua collocazione sistematica. È lì che emergono incongruenze e più o meno apparenti contraddizioni, per dipanare le quali è necessario uno sforzo di approfondimento ulteriore.
La materia delle restituzioni contrattuali è strettamente legata alla disciplina dell’indebito oggettivo, eppure basata su presupposti diversi che inevitabilmente costringono a ridisegnarne i contorni e a coglierne le relazioni con altri tradizionali strumenti di restituzione, prime fra tutte le azioni possessorie e petitorie.
Nell’analisi della materia si procederà dunque per gradi, partendo dalla ricostruzione dei termini del problema.
Nel primo capitolo si tenterà di definire il concetto di caducazione contrattuale passando in rassegna le varie ipotesi normative di patologia negoziale e individuando all’interno di questa macro-categoria le fattispecie dotate di retroattività reale, sulle quali soltanto, com’è chiaro, si innesta la problematica restitutorio.
Successivamente si ricostruirà la natura giuridica e il fondamento dell’indebito oggettivo, istituto che per scelta legislativa è chiamato a disciplinare le restituzioni contrattuali. Particolare attenzione verrà posta sull’efficacia traslativa del pagamento indebito, nonché sui rapporti con l’azione generale di arricchimento senza causa.
Nel secondo capitolo si entrerà nel vivo della trattazione individuando in che modo e con quali effetti la condictio indebiti si innesti nell’ambito delle restituzioni contrattuali. Prendendo le mosse dal dato positivo offerto dagli artt. 1422 e 1463 c.c. si analizzeranno tutti quegli aspetti in relazione ai quali la disciplina dell’indebito sembra entrare in attrito con la disciplina contrattuale, cercando di individuare in via interpretativa delle possibili soluzioni. Ci si concentrerà in particolare sulla condizione psicologica dell’accipiens, sulla restituzione degli elementi accessori e del valore di godimento delle prestazioni, sulle conseguenze dell’impossibilità di restituzione dovuta a perimento o ad alienazione/trasformazione della res.
Infine nel terzo capitolo dopo avere analizzato il rapporto tra condictio indebiti e rivendica, si cercherà di individuare il fondamento e la natura giuridica dell’azione di restituzione contrattuale, tenendo conto anche delle esperienze maturate in altri ordinamenti europei.
CAPITOLO I
SEZIONE I
1. La caducazione del contratto.
Il contratto è il principale strumento di cui i soggetti privati dispongono per realizzare, secondo la propria volontà e nei limiti che l’ordinamento assegna all’esplicarsi dell’autonomia privata, un determinato assetto di interessi patrimoniali.
Il vincolo che deriva per i contraenti dalla stipula di un contratto ha una rilevanza tale in termini di forza cogente, da essere assimilato dal legislatore alla principale fonte di produzione normativa. Ciò è esplicitamente affermato dal codice civile che all’art. 1372 c.c. dispone: “il contratto ha forza di legge tra le parti”. Detta norma, che riprende l’art. 1123 del c.c. del 1865, il quale a sua volta è erede dell’art. 1134 del code Xxxxxxxx, afferma dunque il principio secondo cui il contratto vincola i contraenti così come la legge vincola i suoi destinatari, e pertanto i contraenti sono soggetti alle modificazioni delle loro posizioni giuridiche così come determinate dal contratto da essi stessi voluto. L’imperatività di questo vincolo, ben espressa dal brocardo latino pacta sunt servanda, trova la sua giustificazione proprio nella volontarietà della sua assunzione. I contraenti sono infatti liberi di non stipulare il contratto, ma se lo concludono sono soggetti ai suoi effetti. E ciò non solo per una ragione di carattere etico, consistente nel non venire meno alla parola data e nell’assumersi la responsabilità delle proprie decisioni, ma anche per una ragione funzionale, in quanto il nostro sistema economico si basa su un principio di certezza dei traffici che sarebbe palesemente posto in pericolo qualora non si potesse fare affidamento sulla tendenziale stabilità dei contratti stipulati. Dalle superiori considerazioni consegue un inevitabile corollario: il singolo contraente, che si penta delle proprie valutazioni non può, in linea di
massima, unilateralmente sciogliere il vincolo, né modificare il regolamento contrattuale.
Tuttavia detto principio non è assoluto, poiché il nostro ordinamento riconosce deroghe e limitazioni all’intensità del vincolo contrattuale. Lo stesso art. 1372 c.c., subito dopo avere enunciato la forza vincolante del contratto, accenna alle ipotesi di scioglimento dello stesso, individuandole nel “mutuo consenso” e nelle “cause ammesse dalla legge”.
In realtà il mutuo consenso (o risoluzione consensuale) non è a ben guardare una vera e propria ipotesi di scioglimento del contratto: esso infatti non è altro che un nuovo contratto con il quale nel rispetto dell’art. 1321 c.c., le parti convengono di estinguere il primo negozio tra loro intercorso. Esse cioè “si vincolano a non essere più vincolate dal contratto precedente”1.
Ma l’art. 1372 c.c., come sopra si accennava, fa riferimento ad altre “cause ammesse dalla legge” che possono determinare la “caducazione” del contratto. Con questo termine, assolutamente atecnico e privo di un letterale riscontro legislativo2, si possono sinteticamente indicare tutte quelle ipotesi in cui il contratto viene meno perché non è possibile o non appare opportuno che il vincolo permanga. Si tratta cioè di circostanze che “legittimano la parte contro cui l’altra rivolga una pretesa fondata sul vincolo contrattuale, a respingerla eccependo la propria liberazione dal vincolo, per fatti che privano il contratto dell’idoneità a produrre o mantenere il vincolo stesso”3.
Ciascuna di queste fattispecie presenta, come è noto, dei caratteri peculiari e una disciplina specifica, che si passerà ora brevemente in rassegna, limitatamente agli aspetti funzionali alla problematica di nostro interesse, ovvero le tutele restitutorie conseguenti alla caducazione del contratto. È bene fin da subito precisare che il rimedio restitutorio entra in gioco esclusivamente nell’ipotesi in cui il contratto sia stato totalmente o parzialmente eseguito e successivamente venga meno con efficacia ex tunc, ovvero retroattivamente. Solo in questo caso, infatti si pone l’esigenza di procedere alle restituzioni delle prestazioni già eseguite e occorre verificare gli effetti della caducazione
1 ROPPO Il contratto, in Trattato di diritto privato IUDICA ZATTI, Milano 2001, p. 536.
2 Vedi però l’uso di tale terminologia nel codice dei contratti pubblici: art. 246 d.lgs. 163/2006.
3 ROPPO op. cit., p. 537
contrattuale nei confronti dei terzi subacquirenti. Laddove invece il contratto si sciolga con efficacia ex nunc, normalmente, le prestazioni già eseguite restano acquisite dalla parti che le hanno legittimante ricevute e dunque non si dà luogo ad alcuna restituzione.
2. Il recesso.
Il primo luogo il contratto può venir meno tramite l’esercizio del recesso (art. 1373 c.c.), che determina lo scioglimento del vincolo a iniziativa di una sola parte, alla quale questo diritto potestativo è attribuito dallo stesso contratto o dalla legge.
Nel primo caso si tratta di recesso convenzionale, il quale, nei contratti ad esecuzione istantanea può essere esercitato, salvo patto contrario, solo finché il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione. Ciò perché l’esecuzione determina un affidamento nella controparte sulla stabilità del contratto, atteggiandosi a rinuncia all’esercizio del recesso.
Tuttavia la clausola di salvezza contenuta nell’art. 1373 c.c. consente di pattuire un diritto di recesso esercitabile anche a esecuzione iniziata4. Ciò è di particolare rilievo soprattutto nei contrati a effetti reali per i quali, in virtù dell’immediata efficacia traslativa del consenso, il recesso sarebbe sempre esercitato a esecuzione iniziata. Se dunque le parti, avendo ben presente l’efficacia traslativa del consenso, convenzionalmente inseriscono una clausola di recesso, si può sostenere che abbiano accettato l’operatività del recesso a esecuzione del contratto iniziata.
L’autonomia delle parti è libera di conformare gli effetti del recesso come retroattivi o non retroattivi. Si tratterà però, in ogni caso di una retroattività inter partes poiché la retroattività reale, con effetto nei confronti dei terzi può essere prevista solo dalla legge. Ha poi normalmente efficacia non retroattiva il recesso nei contratti a esecuzione continuata o periodica. In questi casi, ai sensi del II comma dell’art. 1373 c.c., non solo il recesso è esercitabile anche dopo che il contratto ha avuto esecuzione, ma non avrà effetto per le prestazioni già
4 CARNEVALI in Istituzioni di diritto privato a cura di BESSONE, Torino 2000, p. 680.
eseguite o in corso di esecuzione. Ciò perché il contratto soddisfa un interesse che si protrae nel tempo e che fino al momento del recesso ha comunque trovato attuazione: le prestazioni già eseguite rimangono quindi intangibili. Anche qui tuttavia l’autonomia privata ha spazio, ai sensi del III comma dell’art. 1373 c.c., per stabilire una diversa efficacia temporale.
In alcuni casi il diritto di recesso è previsto direttamente dalla legge. Una parte della dottrina5 classifica le ipotesi di recesso legale in tre categorie.
La prima comprende i cosiddetti recessi di liberazione. Questi sono frequentemente previsti nella disciplina dei contratti di durata a tempo indeterminato, per garantire a una o entrambe le parti la possibilità di liberarsi da un vincolo che altrimenti coarterebbe indefinitamente la loro libertà. Ipotesi esplicite di recesso liberatorio si ravvisano nell’art. 1596, II comma in materia di locazione, nell’art. 1771, I comma in materia di deposito, nell’art. 1810 in materia di comodato, ma si ritiene comunemente che queste norme siano espressione di un principio di carattere generale secondo cui ripugnano all’ordinamento i vincolo perpetui e dunque in tutti contratti a tempo indeterminato il recesso è sempre esercitabile, seppure con un ragionevole preavviso.
La seconda categoria di recessi legali abbraccia i cosiddetti recessi di autotutela. Questi consentono alla parte che vede minacciati i propri interessi contrattuali da eventi sopravvenuti, di reagire liberandosi dal vincolo in presenza di determinati presupposti. Se ad esempio, al momento della conclusione del contratto viene pattuita una caparra confirmatoria (art. 1385 c.c.), “se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra; se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra”.
Infine possono individuarsi alcune ipotesi di recesso cosiddetto “di pentimento”6. In queste ipotesi si avverte in maniera molto forte la deroga al principio della vincolatività del contratto (art. 1372 c.c.), perchè la legge, consente a un contraente di recedere dal contratto per essersi pentito della sua
5 ROPPO op. cit., pp.. 549 e ss.
6 XXXXXXXXXX-MAZZAMUTO Manuale di diritto privato europeo – Proprietà, obbligazioni, contratti, vol. II, Milano 2008, p. 294.
conclusione. È il caso ad esempio dell’art. 1671 c.c. che attribuisce tale potere al committente del contratto di appalto. Ma esempi significativi di recesso di pentimento si rivengono soprattutto nella disciplina consumeristica, dove l’istituto è utilizzato in un’ottica di protezione del contraente debole: si vedano in particolare gli artt. 64 e ss. del codice del consumo (d.lgs. 206/2005) che disciplinano il recesso dai contratti stipulati a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali.
Quanto all’efficacia temporale, normalmente il recesso legale ha efficacia ex nunc, e non dà luogo quindi a problematiche restitutorie. Non così accade però nella disciplina consumeristica: l’art. 67 c.d.c disciplina infatti espressamente le obbligazioni restitutorie conseguenti al recesso del consumatore, ancorando tra l’altro l’esercizio di questo diritto, alla necessità che la merce restituita sia integra, o comunque in normale stato di conservazione.
3. L’invalidità.
Il vincolo contrattuale è soggetto a caducazione soprattutto nel caso in cui esso presenti alcune “patologie”.
Tralasciando l’ipotesi limite della radicale inesistenza del contratto, le patologie contrattuali, si distinguono tradizionalmente in due grandi categorie: la prima comprende i cosiddetti difetti “genetici”, che colpiscono il contratto nel suo momento perfezionativo, e dunque il contratto inteso come atto; la seconda abbraccia invece i difetti funzionali, che incidono sulla fase attuativa del contratto, inteso qui come rapporto tra le parti. I difetti genetici danno luogo all’invalidità, nelle due forme della nullità e dell’annullabilità. Nell’ambito delle patologie funzionali rientra invece la risoluzione, per inadempimento, impossibilità sopravvenuta ed eccessiva onerosità sopravvenuta.
La nullità è la forma più grave di invalidità del contratto. Essa ai sensi dell’art. 1418 c.c. deriva dalla contrarietà del contratto a norme imperative ovvero dalla mancanza di uno dei requisiti essenziali indicati dall’art. 1325 c.c., o ancora dall’illiceità della causa, dall’illiceità del motivo comune alle parti, o dalla
mancanza nell’oggetto dei requisiti di cui all’art. 1346 c.c.. Il contratto è inoltre nullo nei casi testualmente indicati dalla legge.
La legittimazione attiva a far valere la nullità spetta a chiunque vi abbia interesse e non è soggetta a termini di prescrizione. Essa è altresì rilevabile d’ufficio dal giudice.
Caratteri parzialmente diversi presentano le cosiddette “nullità speciale”, fiorite soprattutto nella normativa consumeristica degli ultimi anni, e dotate di specifica disciplina. Ad esempio gli artt. 33 e ss c.d.c., prescrivono la nullità delle clausole vessatorie nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore. Si tratto di una speciale nullità di protezione, che opera solo a vantaggio del consumatore, considerato come parte debole del rapporto: pertanto la legittimazione attiva all’azione spetta solo al consumatore e inoltre la nullità colpisce solo la clausola, mentre il contratto rimane valido per il resto. La nullità opera retroattivamente dato che il contratto, essendo viziato ab origine non ha in realtà mai prodotto i suoi effetti: la sentenza che statuisce la nullità del contratto è dunque meramente dichiarativa7.
Conseguentemente, qualora la nullità sia dichiarata, in un momento in cui il contratto ha già avuto esecuzione, seppure parzialmente, sorge la necessità di procedere alla restituzione delle prestazioni eseguite in base ad esso e che proprio per il venir meno del contratto, risultano effettuate in difetto di causa. La ripetizione delle prestazioni, ai sensi dell’art. 1422 c.c., dovrà essere domandata in base alla disciplina dell’indebito oggettivo (artt. 2033 e ss. )8.
L’azione si prescrive nel termine ordinario di dieci anni, ferma restando l’imprescrittibilità dell’azione volta a dichiarare la nullità, ed è paralizzata nel caso in cui l’accipiens abbia frattanto usucapito il bene. Inoltre, nel caso in cui il contratto sia nullo perché contrario al buon costume, la parte che lo esegue condividendone l’immoralità non potrà agire in ripetizione (art. 2035 c.c.).
La retroattività della nullità determina rilevanti conseguenze anche nei confronti dei terzi aventi causa da una delle due parti del contratto, poiché travolge i diritti da essi acquistati. Vige infatti il principio per cui nemo plus iuris
7 BONILINI in Istituzioni di diritto privato a cura di BESSONE, Torino 2000, pp. 744 e ss.
8 GAZZONI Manuale di diritto privato, Napoli 2004, p. 968.
transferre potest quam ipse habet, e dunque l’acquirente di un contratto nullo, non avendo in realtà acquistato nulla, non può a sua volta trasferire. Questo principio, fortemente penalizzante della sicurezza dei traffici, si spiega considerando che la nullità sanziona un contratto contrario a principi che l’ordinamento reputa di fondamentale importanza: l’esigenza di eliminare il contratto diventa quindi prioritaria rispetto all’esigenza di tutela dei terzi. Anche questo principio tuttavia conosce una parziale attenuazione. Sono infatti salvi gli effetti dell’usucapione e, in materia di beni immobili, anche gli effetti della cosiddetta “trascrizione sanante” di cui all’art. 2652 n.6. In base a questo meccanismo se la domanda volta a far dichiarare la nullità è trascritta dopo cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato non vengono pregiudicati i terzi di buona fede che hanno acquistato diritti in base a un atto trascritto prima della trascrizione della domanda.
A differenza della nullità, l’annullamento del contratto non opera automaticamente ma per effetto di una sentenza costitutiva che ne rimuove gli effetti. Fino a quel momento dunque il contratto è efficace, seppure instabile, poiché appunto può essere impugnato dalla parte che vi è legittimata ai sensi dell’art. 1441 c.c.
Il rimedio dell’annullamento è richiamato dal legislatore anche al di fuori della disciplina generale di cui agli artt. 1425 e ss. Ad esempio in materia di rappresentanza, ai sensi degli artt. 1394 e 1395 c.c., il contratto concluso in conflitto di interessi, o il contratto che il rappresentante conclude con se stesso senza essere autorizzato o senza che il contenuto del contratto sia predeterminato, sono annullabili per iniziativa del rappresentato. E ancora, ai sensi dell’art. 184 c.c., gli atti compiuti da un coniuge in comunione legale dei beni senza il necessario consenso dell’altro sono annullabili se hanno ad oggetto beni immobili o mobili registrati.
Anche l’annullamento ha efficacia retroattiva tra le parti, obbligandole a restituire le prestazioni già eseguite. La ripetibilità è tuttavia limitata nell’ipotesi in cui l’annullamento sia dipeso da incapacità di agire (art. 1443 c.c.), perché in questo caso il contraente incapace non è tenuto a restituire all’altro la prestazione ricevuta se non nei limiti in cui è stata rivolta a suo vantaggio. Una
norma analoga si ritrova anche in materia di indebito (art. 2039 c.c.), e dunque entrambe le disposizioni subordinano la pretesa restitutoria del solvens al fatto che l’accipiens incapace abbia ottenuto effettivamente un vantaggio. La nozione di vantaggio ha una propria autonomia rispetto al concetto di arricchimento, poiché si ritiene che essa faccia riferimento a criteri di amministrazione dei beni: non basta dunque che si verifichi lo spostamento patrimoniale e il conseguente aumento del patrimonio dell’accipiens, ma è necessario verificare l’utilizzo che l’incapace ha fatto dell’oggetto del pagamento. La differenza concreta tra i due criteri si avverte soprattutto con riguardo al risparmio di spesa. Se l’accipiens è un soggetto capace basta verificare se egli avrebbe comunque effettuato quelle spese, al di là della loro necessarietà o utilità effettiva, poiché si presume che se non avesse ricevuto la prestazione se la sarebbe comunque procurata a pagamento. Se invece l’accipiens è un soggetto incapace la sua valutazione soggettiva circa l’utilità della prestazione non ha valore perché proveniente da un soggetto che l’ordinamento reputa psichicamente immaturo. È dunque necessario verificare la ragionevolezza della spesa osservando se la prestazione sia stata rivolta ad un’utilità obiettiva dell’incapace. Il vantaggio non può dunque essere identificato con il valore economico della prestazione. Di sicuro è provato il vantaggio quando il pagamento è effettuato nelle mani del rappresentante legale9
Si è affermato che l’art. 1443 c.c. consentirebbe di ottenere la restituzione da parte del contraente incapace anche laddove la prestazione sia stata ricevuta dopo la cessazione dell’incapacità, ipotesi che sarebbe invece estranea all’art. 2039 c.c., il quale sembra richiedere la sussistenza dell’incapacità al momento dell’acceptio.10 L’art. 2039 c.c. rileverebbe dunque nella fase del pagamento non dovuto, mentre l’art. 1443 c.c. nella fase della stipulazione. L’art. 1443 c.c. rappresenterebbe quindi una speciale deroga all’art. 2039 c.c., perché si riferirebbe a una solutio divenuta indebita per effetto di una decisione retroattiva.
9 ALBANESE Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova 2005, pp. 497 e ss.
10 XXXXXXXX voce Ripetizione dell’indebito, in Novissimo Digesto, vol. XV, Torino 1968, p. 1236.
Secondo una diversa opzione interpretativa, invece, non vi sarebbe differenza alcuna nell’ambito di applicazione delle due norme e dunque l’art. 2039 c.c. si riferirebbe anche al caso di pagamento non dovuto per annullamento di contratto.11 Ciò anche perché se si ritenesse che ai sensi dell’art. 1443 c.c. il soggetto incapace al momento della conclusione del contratto possa essere capace al momento in cui riceve la prestazione, in realtà la sua acceptio integrerebbe gli estremi di una convalida del negozio annullabile12. Quest’ultima ricostruzione consente altresì di evitare disparità di trattamento e disciplina tra il negozio annullabile e il negozio nullo stipulato da un soggetto incapace. Bisognerebbe chiedersi infatti se in questa ipotesi debba applicarsi analogicamente l’art. 1443 c.c., ovvero nel silenzio della legge la norma generale in materia di indebito di cui all’art. 2039 c.c..: per non creare un’ingiustificata diversità di disciplina tra le due ipotesi di invalidità, si sarebbe costretti ad ammettere un’applicazione analogica dell’art. 1443 c.c. Laddove invece si ritenga che non vi è diversità di presupposti e conseguenza tra le due, non vi saranno problemi ad applicare a tale fattispecie la norma generale di cui all’art. 2039 c.c. Appare tuttavia singolare che il legislatore abbia avvertito l’esigenza di ribadire in materia di annullamento quanto espressamente affermato in generale in materia di indebito, soprattutto se si aderisce alla comune convinzione secondo cui la disciplina di cui agli artt. 2033 e ss., troverebbe applicazione seppure, non espressamente richiamata, a tutte le restituzioni da caducazione del contratto, e dunque anche alle restituzioni conseguenti ad annullamento. Ma in ogni caso, anche a voler ammettere una diversità di presupposti tra le due norme, nell’ipotesi di contratto nullo stipulato da incapace, e dunque anche annullabile, la prevalenza della disciplina della nullità appare inevitabile e coerente su un piano logico prima ancora che giuridico. Il contratto infatti sarebbe privo di effetti a prescindere dall’incapacità delle parti e non appare irragionevole o discriminante che le conseguenze restitutorie siano trattate diversamente. Una parte della dottrina13
11 BARASSI Teoria generale delle obbligazioni, vol. II, Milano 1948, p. 371.
12 XXXXX, op. cit., pp. 873-874.
13 BARCELLONA Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione in
Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1965, I, pp. 41 e 42.
individua nell’art. 1443 c.c. un segnale della non perfetta sovrapponibilità tra il piano dell’invalidità negoziale e il piano restitutorio. L’art. 1443 c.c., infatti pone un limite alla ripetizione che non è in pari tempo un limite all’inefficacia del contratto. Gli effetti dell’annullamento sono più ampi dell’ambito della ripetibilità che è limitato al vantaggio dell’accipiens. Questo vuol dire che l’inefficacia non coinvolge automaticamente tutti gli effetti dell’esecuzione.
Sia l’art. 2039 sia l’art. 1443 hanno la stessa finalità che è quella di protezione del soggetto incapace, esigenza recepita anche in altre norme del c.c. quali l’art. 1190 che in materia di pagamento all’incapace prevede che il debitore non sia liberato se non provi che quanto pagato è stato rivolto a vantaggio dell’incapace stesso;l’art. 1769 in materia di responsabilità del depositario incapace il quale è tenuto a rimborsare il depositante nei limiti in cui quanto ricevuto sia stato rivolto a suo vantaggio; e l’art. 1950 in materia di fideiussione che limita il regresso del fideiussore contro il debitore incapace al vantaggio ricevuto da quest’ ultimo. Tutte queste norme sembrano rispondere a un’unica logica: l’incapace, proprio per la sua condizione non è in grado di valutare i suoi interessi e dunque la sua obbligazione restitutoria è limitata al profitto tratto da quanto ricevuto. Esse prescindono dall’acquisto o meno della titolarità della cosa ricevuta da parte del percipiente o meglio contemplano entrambe le ipotesi. Altrimenti, ritenendo che l’art. 1443 c.c. disciplini solo l’acquisto della proprietà da parte dell’accipiens incapace bisognerebbe ritenere che nei casi in cui la prestazione da contratto annullato consista nel trasferimento del possesso la disciplina applicabile sia quella dell’art. 2033 c.c. con evidente frustrazione delle esigenze di protezione dettate dall’art. 1443 c.c.. Del resto ciò è conforme ad altre norme quali gli artt. 590 e 799 c.c. che confermano disposizioni testamentarie e donazioni nulle e ai sensi delle quali ciò che è stato prestato in esecuzione di dette disposizioni è irripetibile indipendentemente dal fatto che il beneficiario o il donatario ne abbiano acquistato la proprietà.14
14 BRUNI Contributo allo studio dei rapporti tra azione di caducazione contrattuale e ripetizione di indebito, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987, pp. 214 -215.
Il c.c. del 1942, a differenza del codice previgente, nell’art. 2039 c.c. non enuncia dettagliatamente i soggetti destinatari della norma, adottando invece un’espressione generica che sembra idonea a ricomprendere sia l’incapace legale, sia l’incapace naturale. Secondo alcuni tuttavia sussisterebbe un’importante differenza tra i due casi perché per l’incapace legale è il solvens a dover provare che la prestazione è stata rivolta a vantaggio dell’incapace mentre l’incapace naturale deve provare la sua incapacità al momento dell’acceptio, la conoscenza che il solvens aveva dell’incapacità stessa, il cattivo uso da parte propria della prestazione indebita a causa dello stato di incapacità. A questa distribuzione dell’onere probatorio si oppone però l’art. 1190 c.c. che pone in generale sempre a carico del solvens l’onere di dimostrare le superiori circostanze15.
Per quanto concerne gli effetti della pronuncia di annullamento nei confronti dei terzi, invece, il legislatore ha previsto conseguenze meno gravi rispetto a quelle dettate per la nullità. Ciò perché l’annullamento scaturisce da vicende, per così dire, interne alle parti contraenti (stati di incapacità, vizi della volontà), che spesso non sono conoscibili all’esterno, ma che soprattutto non coinvolgono interessi superiori tutelati dall’ordinamento e necessitanti di un rimedio radicale. Tant’è vero che la legittimazione attiva all’esercizio dell’annullamento spetta non a chiunque vi abbia interesse, come previsto dall’art. 1421 c.c. in materia di nullità, ma solo alla parte nel cui interesse il rimedio è predisposto (e dunque l’incapace o la parte la cui volontà fosse viziata al momento della stipula). Ciò spiega altresì la possibilità di convalidare (art. 1444 c.c.) o rettificare (art. 1432 c.c.) il contratto annullabile, a fronte dell’inammissibilità di convalida del contrato nullo ex art. 1423 c.c.
Ed è ancora per questo motivo che l’annullamento tendenzialmente non pregiudica i diritti dei terzi subacquirenti. La regola si pone come eccezionale rispetto al principio generale, che governa, come visto, le conseguenze della nullità, ed è per questo che il legislatore ha avvertito l’esigenza di enunciarla espressamente.
15 ALBANESE op. cit., pp. 493 e ss.
Tuttavia perché gli acquisti dei terzi siano salvi è necessario che sussistano alcuni specifici requisiti. È infatti necessario che l’annullamento sia pronunciato per causa diversa dall’incapacità legale, ed inoltre che il terzo sia in buona fede e abbia acquistato a titolo oneroso. Ciò che infatti la norma intende tutelare è l’affidamento del terzo, affidamento che è per definizione escluso da uno stato di mala fede, e che richiede una maggiore tutela nell’ipotesi di un acquisto che ha comportato un sacrificio economico per la parte. Non merita tutela invece l’affidamento di chi ha contrattato con l’incapace legale, poiché tale status è soggetto a forme di pubblicità tali che qualunque contraente di media diligenza è in condizione, oltre che nel dovere, di avvedersene.
Inoltre l’art. 1445 c.c. fa salvi gli effetti della trascrizione della domanda di annullamento ai sensi dell’art. 2652 n.6. Anche in questa ipotesi dunque si verifica un meccanismo di pubblicità sanante analogo a quello previsto in materia di nullità. In più, a differenza di quanto accade in materia di nullità, se la domanda è diretta all’annullamento per causa diversa dall’incapacità legale, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede che hanno acquistato a titolo oneroso e che hanno trascritto il loro acquisto prima della trascrizione della domanda, anche se questa è stata trascritta prima di cinque anni dalla trascrizione dell’atto impugnato16.
Anche in questo caso, per i motivi sopra accennati, la disciplina dell’annullamento per incapacità legale viene differenziata e accostata a quella più rigida prevista in materia di nullità.
4. La risoluzione.
Accanto ai vizi genetici che colpiscono il contratto come atto e ne determinano la nullità o l’annullamento, l’ordinamento disciplina i vizi funzionali che invece colpiscono il contratto come rapporto, ovvero i suoi effetti.
16 XXXXXXX Impossibilità della restituito in integrum e risolubilità, rescindibilità, annullabilità del contratto in Rivista di diritto civile, II, 1977, pp. 92-93.
La risoluzione determina lo scioglimento del vincolo contrattuale per il verificarsi di eventi successivi alla stipulazione che incidono sul vincolo sinallagmatico rendendo necessaria o quanto meno opportuna la sua rimozione. Questa forma di risoluzione, cosiddetta rimediale, ha dunque lo scopo di reagire a un malfunzionamento del contratto e si distingue dalle risoluzioni non rimediali che rispondono alla diversa logica di consentire a una delle parti di liberarsi dal vincolo in forza di una pattuizione prevista dallo stesso contratto, come ad esempio nelle ipotesi in cui sia prevista una condizione risolutiva.
La risoluzione rimediale ha invece sempre fonte legale e può operare o automaticamente, come nell’ipotesi di scadenza del termina essenziale ex art. 1457 c.c., e di risoluzione per impossibilità sopravvenuta ex art. 1463 c.c., o per sentenza come la risoluzione per inadempimento ex art. 1453 c.c. e per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 c.c., o ancora tramite manifestazione di volontà negoziale, come nell’ipotesi di diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c..
Sembra invece avere una collocazione ibrida la clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c, che da un lato assume una funzione rimediale reagendo a un malfunzionamento del contratto, dall’altro poiché dà risalto alla volontà della parti di considerare determinante l’inadempimento di una determinata obbligazione, sembra colorarsi anche di una funzione non rimediale17.
La risoluzione rimediale è un rimedio sinallagmatico, poiché si applica ai contratti a prestazioni corrispettive. Le sue conseguenza sono espressamente disciplinata dal legislatore solo in materia di risoluzione per inadempimento. L’art. 1458 c.c. infatti dispone che la risoluzione ha effetto retroattivo tra le parti. La risoluzione opera però retroattivamente tra le parti fino al momento della conclusione del contratto ex tunc e la retroattività ha luogo quando almeno una delle parti ha adempiuto. Infatti se nessuna delle obbligazioni corrispettive è stata eseguita gli effetti della risoluzione consistono solo nello scioglimento del vincolo e nell’eventuale sorgere di un’obbligazione risarcitoria. In tutti gli altri casi di adempimento, invece la risoluzione non si
17 XXXXX op. cit., pp. 940 e ss.
limita a sciogliere il vincolo contrattuale ma tende a ripristinare la situazione economica e giuridica esistente prima del contratto18.
Invece, nell’ipotesi di contratti a esecuzione continuata o periodica essa interviene solo per il futuro, lasciando inalterate le prestazioni già eseguite. Si ritiene infatti che in questo tipo di contratto il sinallagma si articoli in coppie di prestazioni, in qualche modo autonome le une dalle altre e dunque in grado ognuna di soddisfare gli interessi delle parti: le prestazioni già adempiute quindi avendo realizzato la loro funzione non meritano di essere travolte dall’effetto retroattivo della risoluzione. La norma in questione è esplicitamente richiamata anche in materia di risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta dall’art. 1467 c.c. Anche in materia di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, l’art. 1463 c.c. imponendo l’obbligo di restituire la prestazione già eseguita secondo le norme che disciplinano la ripetizione dell’indebito oggettivo, implicitamente riconosce la retroattività degli effetti risolutivi. La retroattività della risoluzione incontra un limite anche nel caso in cui l’inadempiente abbia offerto un adempimento parziale che l’altra parte ha accettato: in questo caso la risoluzione verrà pronunziata solo per la residua prestazione, sempre che essa sia divisibile e sia possibile determinare la parte per cui l’adempimento vi è stato.19
Quando il contratto aveva ad oggetto una prestazione di dare e la restituzione non può aver luogo perché la cosa è stata alienata o trasformata, dovrà essere corrisposto il suo controvalore, mentre se è deteriorata o gravata da diritti reali o personali che siano opponibili, la parte che ha diritto alla restituzione della cosa potrà pretendere anche il risarcimento del danno derivante dalla diminuzione di valore. Se invece col contratto sono state trasferite cose di genere che non è più possibile individuare nel patrimonio dell’acquirente, questi dovrà restituirne altrettante della stessa specie e qualità. Se ancora il contratto ha ad oggetto una prestazione di fare, il solvens avrà diritto a ricevere l’equivalente in denaro della prestazione eseguita. 20
18 XXXXXXX op. cit, p. 85
19 CARRESI Il contratto, in Trattato CICU – XXXXXXXX, XXX, 0, Xxxxxx 1987, pp. 912-913.
20 CARRESI op. cit. , pp. 910-911.
L’efficacia retroattiva della risoluzione sembrerebbe astrattamente assimilerebbe quoad effectum alla nullità. Tuttavia nei confronti dei terzi, la risoluzione non è dotata di retroattività reale, perché opera non sul contratto ma sui suoi effetti, e dunque non incide sui diritti dei terzi. Infatti ai sensi del II comma dell’art. 1458 c.c., anche nell’ipotesi in cui la risoluzione sia stata espressamente pattuita tra le parti, e sia dunque conoscibile, essa è inopponibile al terzo subacquirente, il quale quindi fa salvo il suo acquisto indipendentemente dallo stato soggettivo di buona o mala fede, e dalla natura onerosa o gratuita del suo acquisto. Questa retroattività solo inter partes segna la distanza dallo schema della nullità. Nella risoluzione il legislatore intende negare tra le parti la stipula del contratto ma rifiuta di adottare la stessa idea quando gli effetti siano trascorsi nella sfera dei terzi21.
In merito all’art. 1458 I comma, c.c., infatti, una parte della dottrina22 parla di retroattività in senso debole. Altra dottrina23 invece, individua nella risoluzione un tertium genus di retroattività, diverso da quella reale e da quella obbligatoria, perché essa da un lato incide sugli effetti reali prodottisi e dall’altro fa salvi gli effetti nei confronti dei terzi. O ancora si parla di retroattività reale relativa per cui le parti riacquistano i diritti loro spettanti in base al titolo esistente prima della conclusione del contratto, ma tali diritti non sono opponibili ai terzi che vantano diritti acquistati anteriormente alla risoluzione, salvi gli effetti della trascrizione24.
La retroattività della risoluzione è dunque limitata, e non solo con riguardo ai suoi destinatari, ma anche con riguardo agli effetti, visto che solo l’effetto restitutorio ha efficacia ex tunc mentre l’effetto liberatorio rispetto alle prestazioni da eseguire e l’effetto risarcitorio, hanno efficacia ex nunc, perché la sentenza di risoluzione ha natura costitutiva.
Tuttavia anche in questo caso è dato registrare delle eccezioni alla regola generale, in particolare in materia di beni immobili: sono infatti salvi gli effetti
21 XXXXXXXXXX La risoluzione del contratto nella prospettiva del diritto italiano, in Europa e diritto privato 1999, p. 799.
22 BELFIORE Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, in Scritti in onore di X. Xxxxxxx, II, Milano 1988, pp. 246 e xx. x xx. 000 x xx.
00 XXXXXXXX La risoluzione per inadempimento, Padova 2004, p. 193.
24 MIRABELLI Dei contratti in generale, Torino 1958, pp. 496 e ss.
della trascrizione della domanda di risoluzione, per cui essa diventa opponibile al terzo che abbia trascritto il suo acquisto dopo la trascrizione della domanda di risoluzione trascritta ex art. 2652 n.1.
Inoltre, ai sensi dell’art. 111 c.p.c. che disciplina la successione a titolo particolare nel diritto controverso, l’inopponibilità della risoluzione (come anche dell’annullamento e della rescissione) vale solo nei confronti di quei terzi che abbiano acquistato prima dell’avvio del giudizio che l’ha avviata. Chi invece ha acquistato in pendenza di giudizio subisce gli effetti della sentenza che, tra l’altro, una volta passata in giudicato ai sensi dell’art. 2909 c.c. fa stato tra le parti, i loro eredi e aventi causa. Poiché l’art. 111 c.p.c. deve coordinarsi con l’art. 2652 n.1, la retroattività del giudicato non è opponibile agli aventi causa in corso di giudizio che hanno trascritto prima della pubblicità della domanda mentre è opponibile ai terzi acquirenti anteriori alla proposizione della domanda che però non hanno trascritto il proprio acquisto prima della trascrizione della domanda. In questo l’art. 2652 differisce dall’art. 1511 del c.c. del 1865 il quale spostava la retroattività del giudicato dal momento della proposizione al momento della trascrizione della domanda , lasciando però quale elemento decisivo per il terzo subacquirente sempre l’acquisto indipendentemente dalla trascrizione. Il terzo cioè rimaneva salvo se aveva acquistato prima della trascrizione della domanda senza bisogno di trascrivere il suo acquisto prima, come invece è richiesto dall’attuale art. 2652 c.c. In definitiva l’opponibilità ai terzi subacquirenti della sentenza di risoluzione esprime non tanto la mancanza del presupposto di efficacia dell’acquisto, quanto la mancanza del presupposto di conservazione dello stesso, consistente nella sua trascrizione prima della trascrizione della domanda25. Al contrario secondo altra parte della dottrina, l’art. 2652 n. 1 sarebbe un’applicazione dell’art. 2644 poiché risolverebbe un conflitto tra più acquirenti da un comune autore visto che la risoluzione di un contratto ad effetti reali non farebbe altro che determinare il ritrasferimento coattivo del diritto dal convenuto all’attore in modo che quest’ultimo diventi avente causa del primo. Si ritiene che un
25 MENGONI Risoluzione per inadempimento e terzi subacquirenti, in Rivista di diritto commerciale, I, 1948, p. 301.
analogo principio valga in materia di beni mobili dove l’art. 1155 c.c. rappresenterebbe un criterio di preferenza analogo a quello esercitato dalla trascrizione per l’art. 2644 c.c.. Ragionando in questi termini si deve ritenere che se l’attore è un avente causa del convenuto, se quest’ultimo ha alienato il bene mobile a un terzo che ha acquistato dopo la proposizione della domanda di risoluzione, primo avente causa è l’attore, in forza della retroattività del giudicato e il subacquirente sarà preferito solo se ha conseguito in buona fede il possesso. Se invece il terzo ha acquistato il bene mobile prima della domanda, l’avente causa successivo è l’attore e quindi il terzo verrà pregiudicato solo se l’attore ha comunque ottenuto il possesso di buona fede. 26A questa ricostruzione però si obietta27che è errato il suo presupposto: l’attore in risoluzione, infatti, non è un avente causa del convenuto ma ritorna titolare in forza del suo originario titolo in forza di una revoca del rapporto traslativo che però non è opponibile ai subacquirenti. L’art. 2652 c.c. non regola affatto il conflitto tra più acquirenti da un comune xxxxx causa bensì gli effetti del giudicato, in collegamento con l’art. 111 c.p.c. Cade quindi anche il parallelismo tra l’art. 2644 e l’art. 1155 c.c. e la pretesa necessità di una trasmissione del possesso al terzo.
La dottrina28 ha tentato di limitare la regola dell’inopponibilità della risoluzione nei confronti dei terzi, osservando che essi sono pregiudicati solo se l’alienante su domande del quale viene pronunciata ha conservato la detenzione del bene. Infatti se l’acquirente non paga il prezzo ma trasferisce il bene a terzi l’alienante che ha conservato la detenzione può rifiutare la consegna sollevando eccezione di inadempimento29. Essa è opponibile anche al terzo subacquirente poiché il titolo di cui gode quest’ultimo, in quanto fondato sul titolo dell’inadempiente soggiace a tutte le limitazioni relative ad esso. L’eccezione non nega il diritto del terzo visto che la risoluzione non è dotata di retroattività reale, ma lo rende inattuabile.
26 AULETTA La risoluzione per inadempimento, Milano 1942, p. 289.
27 MENGONI op. cit., pp. 306 e ss.
28 BELFIORE Risoluzione del contratto in Enciclopedia del diritto, XL, Milano 1989, p. 1331.
29 MENGONI op. cit., p. 308.
Tuttavia l’art. 1458, non dà rilevanza al fatto che il contraente fedele non abbia consegnato il bene. Inoltre lascia perplessi la possibilità di opporre al terzo l’eccezione di inadempimento che nasce come rimedio sinallagmatico e la cui funzione risulta vanificata se la prestazione inadempiuta non è dovuta da colui a cui è opposta l’eccezione ma da un altro soggetto: egli non ha interesse a por termine al suo inadempimento avendo alienato il bene a un terzo il quale a sua volta, pur essendo proprietario del bene è privato xxxxxxxxxxxxx del suo potere di godimento su di esso. La circostanza che la mancata consegna possa pregiudicare l’acquisto sembra porsi in contrasto con il principio consensualistico di cui all’art. 1376 c.c. e con l’esigenza di sicurezza dei traffici che esso sottende30.
Anche l’art. 111 c.p.c., all’ultimo comma, fa salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione. Il riferimento alla trascrizione è da intendersi relativo alla trascrizione delle domande giudiziali di cui all’art. 2652 c.c..: la domanda dunque non può considerarsi proposta nei confronti di eventuali subacquirenti in corso di giudizio finché essa non è trascritta. Ovviamente ciò vale solo per le sentenze non munite di retroattività assoluta, perché quelle travolgono anche gli acquisti anteriori all’instaurazione del giudizio, indipendentemente dalla trascrizione. Le norme sulla trascrizione, a differenza di quelle sull’acquisto in buona fede di mobili, possono però operare anche a danno dei subacquirenti. È infatti considerato successore a titolo particolare in corso di giudizio anche chi abbia acquistato prima dell’instaurazione di questo se il suo titolo viene trascritto dopo la trascrizione della domanda giudiziale.
Il coordinamento con la disciplina della trascrizione appare problematico nelle ipotesi di risoluzione stragiudiziale. Infatti secondo una parte della dottrina31 la diffida ad adempiere e la dichiarazione con cui l’interessato si avvale della clausola risolutiva espressa potrebbero essere trascritte. Tale tesi tuttavia non trova riscontro in giurisprudenza forse perché effettivamente tali atti non risultano nell’elenco di cui all’art. 2643 c.c. e difficilmente possono farsi
30 ROPPO Trattato del contratto, Rimedi, tomo II, Milano 2006, pp. 402 e ss.
31 DALMARTELLO voce Risoluzione del contratto, in Novissimo Digesto, XVI, Torino 1969, p.148.
rientrare nell’ambito dell’art. 2645 c.c. E’ vero infatti che determinano il ritrasferimento della proprietà in capo all’alienante, ma solo se effettivamente poi si verifica l’inadempimento risolutorio e tale circostanza non risulta dall’atto che però una volta trascritto ostacola la circolazione, anche se poi il destinatario non sia inadempiente. Il controinteressato dovrebbe a quel punto provocare una pronuncia giudiziale di accertamento della titolarità del diritto da trascrivere.
5. La rescissione.
La distinzione tra vizi genetici e vizi funzionali del contratto, apparentemente chiara, lascia in realtà alcuni margini di incertezza, e si rivela a un’analisi più attenta tutt’altro che esaustiva.
Innanzitutto perché accanto alle cause generale di risoluzione, di cui agli artt. 1453 e ss., la legge disciplina ipotesi specifiche, che presentano caratteristiche peculiari. È il caso della risoluzione della vendita quale rimedio redibitorio per l’ipotesi di vizi rilevanti ex art. 1492 c.c. In questo caso siamo in presenza di un difetto non sopravvenuto, ma già presente al momento della conclusione contratto e al quale tuttavia si reagisce con rimedi specifici, diversi dall’invalidità.
Su un piano più generale poi risulta di difficile collocazione sistematica la rescissione, che determina la caducazione del contratto per via di un difetto esistente sin dal momento del suo perfezionamento, quale lo stato di pericolo (art. 1447 c.c.) o lo stato di bisogno (art. 1448 c.c.).
Si discute infatti32 se si tratti di un rimedio autonomo, capace di incidere esclusivamente sull’efficacia del contratto o se piuttosto essa vada ascritta all’area dell’invalidità, come sembra ammettere chi intravede nello stato di pericolo o di bisogno un vizio della volontà, il quarto accanto al dolo, l’errore e la violenza, o anche chi puntando l’attenzione soprattutto sul piano oggettivo dell’ingiustizia dello scambio, lo riconduce nell’area del difetto di causa.
32 XXXXX, Il contratto, op. cit., pp. 734 e 884.
Il contratto rescindibile è un contratto con effetti precari, che potranno essere rimossi laddove la parte lesa, unica legittimata ad agire in giudizio ottenga una sentenza costitutiva che li rimuove con efficacia ex tunc33. Conseguentemente le parti risultano obbligate a procedere alle restituzioni delle prestazioni già eseguite, e inoltre, ai sensi dell’art. 1447 c.c., nel caso di contratto concluso in stato di pericolo il giudice può secondo le circostanze assegnare un equo compenso per l’opera prestata alla parte che ha “subito” la rescissione.
Nei confronti dei terzi, invece la rescissione non rileva: ai sensi dell’art. 1452
c.c. essa infatti non pregiudica i diritti dei subacquirenti, salvi però gli effetti della trascrizione. Infatti l’art. 2652 n. 1 dispone che la domanda di rescissione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi che hanno trascritto il proprio acquisto anteriormente alla trascrizione della domanda.
6. L’inefficacia. La rappresentanza senza potere, la condizione e la simulazione.
Rimangono fuori dalla ricostruzione sistematica che distingue tra vizi genetici e vizi funzionali, tutte quelle ipotesi in cui il vincolo contrattuale è comunque caducato anche senza essere affetto da alcuna patologia, come nel caso dell’inefficacia o dell’inopponibilità del contratto.
L’inefficacia è una categoria ampia che comprende tutte quelle fattispecie in cui il contratto non è produttivo di effetti. Essa può avere una funzione rimediale: esiste infatti una connessione funzionale tra invalidità e inefficacia perché è attraverso l’inefficacia che l’invalidità può concretamente svolgere la sua funzione ablativa. L’inefficacia ha una funzione rimediale anche quando è la conseguenza di risoluzioni o recessi, o nel caso del contratto concluso dal falsus procurator. In particolare, riguardo a quest’ultima fattispecie, sebbene non manchino ricostruzioni in termini di invalidità34 o di mancato perfezionamento
33 CARNEVALI in Istituzioni di diritto privato a cura di BESSONE, Torino 2000, pp. 764 e ss.
34 BETTI Teoria generale del negozio giuridico, Camerino 1994, p. 598 il quale parla di nullità relativa; MIRABELLI Dei contratti in generale, Torino 1958, p. 394. Di annullabilità parla il XXXXXXXXX in Foro Italiano 1947, I, 380, con riferimento all’ipotesi dell’atto eccedente la procura: il rappresentante riferirebbe inesattamente la dichiarazione di procura, applicandosi dunque la normativa sull’errore nella trasmissione.
del negozio35, si ritiene che il contratto concluso dal falso rappresentante sia inefficace poiché non vincola né questi né il falso rappresentato, ma solo il terzo contraente36. Quest’ultimo, ai sensi dell’art. 1399, comma 3 c.c., può anche accordarsi con il falsus procurator per sciogliere il contratto prima che intervenga la ratifica, la quale opera alla stregua di una condicio iuris in grado di assegnare definitiva efficacia al negozio. L’inefficacia tutela il falso rappresentato e dunque può farsi valere solo da lui, e tuttavia essa conosce alcune eccezioni volte a tutelare l’affidamento del terzo contraente, come nell’ipotesi in cui la modificazione o l’estinzione della procura non sia opponibile ai terzi ex art. 1396 c.c.
L’inefficacia può anche avere una funzione non rimediale37, quando il contratto rimane privo di effetti pur non presentando alcun difetto. In questa sottocategoria possono farsi rientrare il contratto sottoposto a condizione, il contratto simulato e, si ritiene, anche la donazione oggetto di azione di riduzione o di revocazione.
La condizione, sia essa sospensiva o risolutiva, opera con efficacia ex tunc: ai sensi dell’art. 1460 c.c. gli effetti del suo avveramento retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto.
Ciò ha ovviamente delle pesanti ricadute soprattutto in materia di contratti traslativi. Infatti in caso di avveramento della condizione sospensiva la proprietà appartiene all’acquirente fin dalla conclusione del contratto. Simmetricamente, in caso di avveramento della condizione risolutiva la proprietà torna all’alienante, o meglio si considera spettante all’alienante fin dalla stipula del contratto. Questa regola è solo parzialmente attenuata dalle norme di cui agli artt. 1360 e 1361 c.c. Innanzitutto, infatti, è possibile che la volontà delle parti o la natura stessa del rapporto spingano nel senso di ricondurre gli effetti del contratto o della sua risoluzione a un momento diverso (art. 1360, comma 1). Inoltre, nel caso di contratti a esecuzione
35 Di negozio incompleto, o in via di formazione parla XXXXXXXX Xx rappresentanza senza procura, in Annali della facoltà di giurisprudenza -Università di Perugia, XXXVII, 1925, p. 43.
36 In senso contrario però BIANCA Diritto civile- vol III, Il contratto Milano 1987, p. 111, il quale ritiene che in capo al terzo non si producano né effetti obbligatori né reali, poiché essi presuppongono l’operatività del contratto nei confronti del rappresentato.
37 XXXXX, op. cit., p.736.
continuata o periodica, rimangono ferme, salvo patto contrario, le prestazioni già eseguite (art. 1360, comma 2). L’avveramento della condizione poi, non pregiudica gli atti di amministrazione compiuti dalla parte cui in pendenza della condizione spettava l’esercizio del diritto (art. 1361, comma 1)38. E infine, salvo patto contrario, i frutti percepiti sono dovuti non dalla stipula del contratto ma solo dal giorno dell’avveramento (art. 1361, comma 2).
La condizione è dotata di retroattività reale, ovvero rilevante anche nei confronti dei terzi. Infatti l’art. 1357 c.c. dispone che “chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può disporne in pendenza di questa ma gli effetti di ogni atto di disposizione sono subordinati alla stessa condizione”. Il terzo che acquista da un venditore sotto condizione risolutiva acquista non un diritto, ma una semplice aspettativa all’avveramento della condizione. Chi invece acquista dal compratore sotto condizione risolutiva, che in pendenza della condizione è effettivo titolare, riceverà un “diritto precario”, perché suscettibile di essere travolto dall’avveramento della condizione. Nel caso in cui si crei un conflitto tra terzi acquirenti dello stesso diritto, il terzo che ha acquistato l’aspettativa, in caso di avveramento prevale sugli aventi causa dal titolare del diritto precario, proprio in forza della retroattività reale della condizione, che travolge i loro acquisti. Il terzo che ha acquistato il diritto precario invece, lo consolida se la condizione manca, e lo perde se essa si avvera.
In ogni caso il terzo deluso nel suo acquisto potrà agire con il rimedio risolutorio di cui all’art. 1479 c.c. previsto per il caso di vendita di cosa altrui a un acquirente di buona fede, ovvero con l’azione di annullamento per errore o dolo. Sono inoltre fatti salvi gli effetti dell’usucapione nonché quelli della trascrizione, che per la condizione è espressamente regolata dall’art. 2655 c.c.. Anche in questi casi, la caducazione retroattiva del negozio, determina la necessità di procedere alle restituzioni delle prestazione effettuate.
Per quanto concerne la simulazione, l’art. 1414 c.c. esordisce affermando che “il contratto simulato non produce effetti tra le parti”. Tra i contraenti dunque non si produrrà alcun effetto (nelle ipotesi di simulazione assoluta) o si
38 GAZZONI Manuale di diritto privato, Napoli 2004, p. 909.
produrranno gli effetti del diverso contratto dissimulato, realmente voluto qualora ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma (simulazione relativa). Si può dunque affermare che tra le parti la realtà prevale sull’apparenza, e tuttavia l’apparenza creata con il contratto simulato può pregiudicare i diritti dei terzi acquirenti e dei creditori: la risoluzione del conflitto tra le varie classi di terzi è disciplinato dagli artt. 1415 e 1416 c.c.
Sembra plausibile ricondurre la simulazione tra le ipotesi di inefficacia non rimediale, nonostante una parte della dottrina39 sostenga la sua equiparazione alla nullità. Questa ricostruzione sembra infatti smentita sia dal dato letterale offerto dall’art. 1414 c.c., sia dal dato sistematico dato che la simulazione non sembra riconducibile a nessuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 1418 c.c.. Anche sul piano degli effetti è dato ravvisare delle notevoli differenze di disciplina, soprattutto perché la simulazione è per lo più inopponibile nei confronti dei terzi, anche in virtù della rilevanza delle norme in materia di trascrizione: infatti, ai sensi dell’art. 2652 n.4 c.c., il terzo di buona fede che ha trascritto il suo acquisto prima della trascrizione della domanda di simulazione, non viene pregiudicato dal suo accertamento.
7. Segue. La donazione: riduzione e revocazione.
L’inefficacia del contratto può essere, assoluta o relativa. In particolare l’inefficacia è relativa in tutti i casi in cui essa può farsi valere non da entrambe le parti, non da tutti i terzi o non contro tutti i terzi. Quando l’inefficacia opera solo verso determinati terzi, determina l’inopponibilità del contratto nei loro confronti. E questo è ciò che si verifica nel caso del contratto oggetto di azione revocatoria (artt. 2901 e ss. c.c.); ma anche nel caso del contratto non trascritto tempestivamente che, ai sensi dell’art. 2644 c.c., è inopponibile al secondo acquirente che abbia acquistato gli stessi diritti trascrivendo per primo.
39 COSTANZA Vendita simulata e donazione dissimulata fra inefficacia e nullità, in Corr. Trib.,
1992, p.2035.
Può ricondursi nell’ambito dell’inefficacia relativa anche l’ipotesi del contratto di donazione soggetto ad azione di riduzione. Infatti ai sensi dell’art. 555 c.c., “le donazioni, il cui valore eccede la quota della quale il defunto poteva disporre, sono soggette a riduzione fino alla quota medesima”.
La riduzione non è un’azione volta a dichiarare la nullità del contratto, e ciò non tanto perché essa può essere esperita solo dal legittimario leso (esistono infatti, come visto, nel nostro ordinamento anche ipotesi di nullità c.d. “relativa”), quanto perché essa non dipende da un vizio del negozio, che è invece perfettamente valido. Tant’è che se i legittimari non agiscono in riduzione la donazione resta perfettamente efficace erga omnes. Anzi la validità della donazione è addirittura un presupposto per l’esercizio della riduzione, perché diversamente il negozio non sarebbe effettivamente lesivo della legittima40.
La riduzione non sembra neanche accostabile alle azioni di rescissione o di risoluzione del contratto. Queste infatti colpiscono il negozio caducandolo retroattivamente per la sussistenza di un vizio originario o sopravvenuto dello stesso. La riduzione invece non tocca la disposizione lesiva eliminandone direttamente l’efficacia attributiva, ma la rende soltanto inoperante nei confronti del legittimario. Si tratta dunque di inefficacia sopravvenuta e relativa, ovvero di inopponibilità della disposizione ridotta nei confronti del legittimario che ha agito vittoriosamente in riduzione41. Nei suoi confronti quindi la donazione si considera come non avvenuta e il legittimario acquista il bene non in forza della sentenza ma in virtù della sua vocazione necessaria: egli domanda la legittima in veste di terzo e ottenuta la riduzione la prende come erede42. La riduzione è un’azione personale, di accertamento-costitutivo, perché dall’accertamento della lesione di legittima consegue automaticamente la modificazione giuridica del diritto del legittimario. Essa ha effetti retroattivi reali, che risalgono, salvo eccezioni, al momento dell’apertura della
40 XXXXXXX XXXXXXXXXX, Dei legittimari, in Commentario D'Xxxxxx-Xxxxx - Libro delle successioni per causa di morte e delle donazioni, Firenze, 1941, p. 330.
41 MENGONI Successioni per causa di morte – Successione necessaria in Trattato di diritto civile e commerciale CICU MESSINEO, Milano 2000, p. 232.
42 MENGONI Successioni, op. cit., p. 237.
successione, non solo fra le parti ma anche nei confronti dei terzi, seppure nei limiti di cui ai novellati artt. 561 e 563 c.c. che disciplinano gli effetti dell’azione di restituzione nei confronti del donatario e degli eventuali terzi acquirenti da quest’ultimo. L’azione di riduzione infatti si limita a rendere inefficace la donazione, ma successivamente il legittimario, a meno che non si trovi già nel materiale possesso dei beni, dovrà agire per ottenerne la materiale restituzione. L’azione di restituzione si ritiene abbia natura personale se promossa nei confronti del donatario e natura reale quando legittimati passivi sono i terzi subacquirenti, perché in quest’ultimo caso persegue il bene nei successivi passaggi di proprietà, ed è dunque indipendente dal soggetto passivo. Né può sostenersi il contrario argomentando dalla facoltà riconosciuta al terzo di liberarsi dall’obbligo pagando un equivalente in denaro: questa prestazione infatti opera in funzione di riscatto del bene, ponendo in essere un fatto estintivo dell’azione. Non si tratta quindi di un’obbligazione con facoltà alternativa ma di corrispettivo dell’esercizio di un diritto potestativo di riscatto43. La retroattività comporta anche come conseguenza che gli immobili restituiti tornino al legittimario liberi da ogni peso o ipoteca di cui il donatario possa averli gravato.
I terzi però, non sono esposti sine die al pericolo della domanda di restituzione: infatti fanno salvo il loro acquisto, nonché i diritti frattanto costituiti sul bene col decorso di venti anni dalla trascrizione della donazione. Inoltre, ai sensi dell’art. 2652 n. 8, se la trascrizione della domanda di riduzione è eseguita dopo dieci anni dall’apertura della successione, la sentenza che la accoglie non pregiudica i terzi che hanno acquistato a titolo oneroso diritti in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Sono infine fatti salvi, per i beni mobili oggetto di donazione, gli effetti del possesso di buona fede (art. 1153 c.c.).
La donazione, può essere soggetta anche a un’altra causa specifica di caducazione, ovvero la revocazione, che ai sensi dell’art. 800 c.c. può avere per presupposti l’ingratitudine o la sopravvenienza di figli. Il fondamento dell’istituto è stato individuato in una sorta di presupposizione legale, per cui la
43 MENGONI Successioni, op. cit., pp. 307-308.
legge con una valutazione tipica considera il negozio subordinato a una determinata situazione di fatto, e ne dispone l’inefficacia quando quella situazione viene meno44. Si tratti di un’ipotesi di inefficacia sopravvenuta che esige una sentenza costitutiva: il donante esercita un diritto potestativo di revoca dell’atto di liberalità compiuto, in presenza dei presupposti tassativamente previsti dalla legge e sotto il controllo del giudice. La revocazione non può essere assimilata alla risoluzione, poiché non è dato ravvisare in nessuno dei suoi presupposti la presenza di un vizio funzionale del contratto. Né può ritenersi che sia viziata la causa di liberalità, poiché essa si è definitivamente realizzata con l’esecuzione della donazione che ha determinato l’arricchimento del donatario a fronte dell’impoverimento del donante, e pertanto non può più essere messa in discussione.
La revocazione ha effetto parzialmente retroattivo nei confronti del donatario. Questi, infatti, ai sensi dell’art. 807 c.c. deve restituire i beni in natura, se esistono ancora, e i frutti relativi a partire dal giorno della domanda. Se invece nel frattempo ha alienato i beni a terzi, deve restituirne il valore, avuto riguardo al tempo della domanda e sempre i frutti relativi a partire dal giorno della domanda. Se invece ha costituito sui beni donati diritti reali che ne diminuiscono il valore, prima della trascrizione della domanda di revocazione, ai sensi dell’art. 808, comma 2 c.c. deve indennizzare il donante della diminuzione di valore sofferta dai beni.
Nei confronti dei terzi, invece, la revocazione è irretroattiva, poiché non pregiudica coloro che hanno acquistato diritti anteriormente alla domanda, salvi anche qui gli effetti della trascrizione ex art. 2652 n.1 c.c45.
8. Altre ipotesi di caducazione del contratto.
Sul vincolo contrattuale possono incidere anche altre fattispecie, introdotte praeter legem dalla dottrina e dalla giurisprudenza, per rispondere all’inadeguatezza del sistema dei rimedi codificati. In particolar modo viene in
44 CAPOZZI Successioni e donazioni, tomo II, Milano 2002, pp. 846 e ss.
45 BONILINI in Istituzioni di diritto privato, op. cit, pp. 332 e ss.
rilievo la presupposizione, il cui fondamento è pacificamente ravvisato nel principio di buona fede oggettiva (art. 1375 c.c.). Essa è quella situazione di fatto o di diritto, presente o futura, esterna al contratto, condivisa o quanto meno nota a entrambe le parti e alla quale esse assegnano valore determinante per la costituzione o la permanenza del vincolo contrattuale.
Le conseguenze della presupposizione sul contratto sono oggetto di dibattito in dottrina e giurisprudenza. Si oscilla46 tra la tesi dell’invalidità e quella della risoluzione, ma talvolta essa viene definita anche come condizione implicita non sviluppata. Di recente la giurisprudenza (Cass. 12235/2007) ha ritenuto che la mancanza dell’evento oggetto di presupposizione legittimi l’esercizio del diritto di recesso.
L’intervento della giurisprudenza è sempre più determinante nello scardinare le categorie codificate, come sopra ricostruite. Essa infatti sembra mostrare apertura anche verso ipotesi di scioglimento del vincolo contrattuale, dovute a sopravvenienze non facilmente inquadrabili negli schemi dogmatici tradizionali. Così Xxxx. 15315/2007, ha dichiarato “l’estinzione” di un contratto di “package” per sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta dello stesso. E sebbene la Suprema Corte non si sia in quella sede sbilanciata nel qualificare la natura giuridica di una tale forma di“estinzione”, non si può sfuggire alla tentazione di intravedere in questa pronuncia qualche riflesso della suggestiva e dibattuta tesi che ammette la cosiddetta “nullità sopravvenuta” del contratto47. In base a questo fenomeno il contratto, valido alla luce della situazione fattuale e normativa esistente al tempo della sua conclusione, è reso successivamente nullo da fatti o norme sopraggiunti. In realtà laddove la sopravvenienza consista in una nuova norma dotata di efficacia retroattiva, non si pone un problema di invalidità sopravvenuta, ma di semplice deroga all’art. 11 delle preleggi al c.c., che disciplina l’efficacia della legge nel tempo. Invece nei casi in cui la sopravvenienza consista in un fatto, la nullità andrebbe ad incidere non sull’atto ma sul rapporto, e dunque sarebbe in realtà una forma di risoluzione, sebbene il regime dell’azione (imprescrittibilità, legittimazione
46 ROPPO Il contratto, op. cit., pp. 1039-1040.
47 GAZZONI Manuale di diritto privato, op. cit., p. 966. Negano l’esistenza di una tale categoria, considerata una contraddizione in termini Cass. 13339/1999, Cass. 5052/2001, Cass. 831/1998.
assoluta, rilevabilità d’ufficio), determini interferenze con il regime della nullità. Il problema si ripropone oggi con maggiore insistenza in relazione alle particolari ipotesi di nullità disciplinate nella legislazione speciale. In ogni caso è evidente che qualunque sia la ricostruzione dogmatica della nullità sopravvenuta, essa determina la caducazione retroattiva del contratto, dando luogo a pretese restitutorie tra le parti. La preferenza per una o l’altra opzione interpretativa tornerà ad avere rilievo laddove si debbano valutare gli effetti della nullità sopravvenuta nei confronti dei terzi.
In dottrina si è talvolta fatto cenno a una particolare categoria di nullità cosiddetta “sospesa”, con la quale si indicherebbe l’ipotesi in cui il contratto attualmente valido, risulterà nullo se in futuro si verificherà un evento successivo alla sua conclusione. Si fa l’esempio del contratto nel quale la determinazione dell’oggetto, ai sensi dell’at. 1349 c.c. è affidata a un terzo arbitratore che non vi provvede, o l’ipotesi della vendita di cosa futura che poi non viene ad esistenza (art. 1472 c.c.). Tuttavia si dubita della reale utilità pratica di tale categoria dogmatica ben potendo queste ipotesi correttamente ricondursi all’area del’inefficacia48.
SEZIONE II
9. Il pagamento dell’indebito: genesi storica e fondamento dell’ istituto.
La comprensione delle dinamiche che governano le tutele restitutorie da caducazione del contratto non può prescindere da una preliminare ricostruzione delle norme che disciplinano il pagamento dell’indebito, istituto che il legislatore ha posto a perno del sistema in oggetto, non senza le contraddizioni che illustreremo nel corso del presente lavoro.
L’istituto dell’indebito, com’è noto, affonda le sue origini nel diritto romano e il suo fondamento giuridico va ricercato nell’esigenza, avvertita oggi come allora, di individuare una giustificazione giuridica che presieda agli spostamenti patrimoniali.
48 ROPPO Il contratto, op. cit., pp. 749-750.
Una prima legis actio per condictionem fu introdotta da una lex Silia del III secolo a.
C. per perseguire crediti aventi ad oggetto certa pecunia, e fu estesa poco dopo da una lex Calpurnia ai crediti aventi ad oggetto certae res49. Nel processo formulare la legis actio per condictionem si trasformò in condictio, conservandone però le caratteristiche essenziali, tra le quali l’astrattezza, e dunque la possibilità di agire senza indicare la fonte del credito perseguito.
Com’è noto nel diritto romano esisteva una netta distinzione tra negozi causali e astratti. Nei primi (ad esempio vendita o mutuo), la causa doveva essere espressa, e il suo difetto comportava la nullità del negozio, risolvendosi nella mancanza di un elemento costitutivo dello stesso. Invece i negozi astratti, come ad esempio la mancipatio, potevano essere compiuti per una molteplicità di cause, che però non comparivano nel negozio, rimanendo ad esso esterne. I negozi astratti, rimanevano quindi iure civili validi anche nel caso in cui la causa mancasse o fosse illecita, e tuttavia si concedeva l’esperimento della condictio per la restituzione di quanto prestato in esecuzione del negozio. La condictio tuttavia aveva anche una portata più ampia potendosi esperire in ogni ipotesi di solutio indebiti, ovvero di esecuzione di una prestazione non dovuta. Significative applicazioni della condictio indebiti si registrarono anche in materia di mutuo. Con questo contratto, infatti, veniva trasferita dal mutuante al mutuatario la proprietà di pecunia o di res con l’obbligo per il mutuatario di restituirne il tantundem. La condictio veniva a sanzionare l’inadempimento di quest’obbligo di restituzione.
Nel sistema formulare dunque la condictio era un’azione civile astratta, in personam “quibus dari fierive oportere intendimus”, per il cui esercizio era necessaria solo l’assoluta certezza dell’oggetto della ripetizione.
Sul finire dell’era repubblicana si cominciò ad utilizzare una terminologia differente per indicare le varie ipotesi di condictio, anche se a ciò non corrispondeva un diversificazione effettiva sotto il profilo tecnico-causale. Si definiva così condictio indebiti l’azione che interveniva per recuperare un pagamento non dovuto ma effettuato nella convinzione di adempiere un’obbligazione; condictio ex iniusta causa la ripetizione di quanto si era ottenuto
49 MARRONE Istituzioni di diritto romano, Palermo 1994, p. 69.
29
contrariamente al diritto; condictio ex causa furtiva, quella esperita nei confronti del ladro: in quest’ultimo caso si riteneva che la condictio avesse un’applicazione eccezionale perché esperita nei confronti di un soggetto (il ladro) che non era diventato proprietario della cosa, proprio perché rubata¸ mentre in tutte le altre ipotesi, l’azione presupponeva essere avvenuto il trasferimento della proprietà.
La giurisprudenza romana in età classica definì con sempre maggiore precisione il campo di applicazione dell’azione stabilendo che essa si fondava su due presupposti, uno di segno positivo e uno di segno negativo. Il primo consisteva nell’effettuazione di una datio, intesa non nel senso di mera consegna, ma appunto di trasferimento della proprietà della res, che l’attore effettuava a favore del convenuto. Il secondo invece presupponeva che non esistesse una ragione valida per cui il convenuto dovesse trattenere la cosa ricevuta. Era poi necessario che il solvens avesse effettuato il trasferimento nell’erronea convinzione che esso fosse dovuto, perché diversamente si sarebbe potuta presumere l’esistenza di una causa donandi. Allo stesso modo si richiedeva che l’accipiens fosse in buona fede, e dunque non fosse consapevole che la cosa non gli era dovuta, perché diversamente avrebbe commesso furto e dunque non avrebbe acquistato la proprietà.
All’esito del vittorioso esperimento dell’azione, il convenuto xxxxxxxxxxx avrebbe dovuto ritrasferire all’attore la proprietà della res determinata, o il tantundem se si trattava di denaro o altre cose fungibili50.
In epoca post-classica, si cominciarono a catalogare le varie ipotesi di condictiones alla stregua di azioni distinte, dotate ognuna di propria autonomia causale e si ammise infine anche l’esperibilità di una condictio incerti, priva quindi del requisito della certezza dell’oggetto da ripetere. Ad essa si contrapponevano la condictio certi diretta al recupero di una determinata somma di denaro e la condictio triticaria diretta al recupero di una certa res.
Sicuramente però la più importante classificazione delle condictiones risale all’epoca giustinianea e fu analiticamente riportata nel Digesto nel quale si distinguevano le seguenti fattispecie:
50 MARRONE op. cit. , pp. 162 e ss e pp. 516-517.
30
1) condictio causa data causa non secuta, che veniva concessa laddove era stata effettuata una prestazione in vista di una causa futura che poi non si era realizzata;
2) condictio ob turpem causam, che interveniva per ripetere quanto era stata trasferito contrariamente al buon costume;
3) condictio ob iniustam causam, volta alle restituzione di quanto ottenuto contrariamente al diritto; 4) condictio sine causa, utilizzata per ripetere quelle prestazioni che fossero senza causa fin dall’inizio o per eventi sopravvenuti, ovvero sorrette da una causa sulla quale non vi fosse in realtà l’accordo delle parti, ovvero realizzate da persona che fosse incapace di alienare;
5) condictio indebiti, volta a tutelare chi avesse pagato nell’erronea convinzione di adempiere un debito in realtà inesistente. Per i motivi sopra esposti in questo caso si richiedeva la buona fede dell’accipiens. La condictio indebiti poteva essere a sua volta certi, incerti o triticaria a seconda dell’oggetto del pagamento;
6) condictio ex poenitentia, utile per ripetere la proprietà della cosa laddove si esercitasse recesso unilaterale dal contratto;
7) condictio possessionis, per la restituzione del possesso;
8) infine condictio ex lege, volta a sanzionare le obbligazioni restitutorie poste da nuove leggi quando non fosse indicata altra azione.51
La solutio indebiti così come sopra ricostruita, presentava tuttavia delle difficoltà di inquadramento dogmatico. Essa era infatti senza dubbio fonte di obbligazioni e tuttavia non poteva in alcun modo essere ricondotta né al contractus né al delictum cioè a nessuna delle tipiche causae obligationum.
Per questo motivo in epoca classica Xxxx, pur affermando nell’esordio delle sue Institutiones che ogni obligatio deriva da contractus o da delictum, si rese conto che questa bipartizione delle fonti non poteva considerarsi appagante. La solutio indebiti, infatti pur dando origine a un obbligazione di restituire, non poteva essere ricondotta al contratto, perché in essa non era ravvisabile nessun accordo tra le parti volto alla nascita di un obbligazione. Al contrario l’intento del solvens era proprio quello di estinguere un pregresso debito, per errore ritenuto esistente. Per questo in un’opera successiva, Res cottidianae o Aurea
proponendo una nuova teoria delle obbligazioni, Xxxx individuò una tripartizione delle fonti dell’obbligazione aggiungendo al contratto e al delitto anche le variae causarum figurae. In questa categoria si annoveravano non solo quegli atti leciti fonti di obbligazione che non potevano essere classificati come contratti per difetto di conventio (oltre alla solutio indebiti anche ad esempio la negotiorum gestio) ma anche quegli illeciti pretori che non erano così gravi da essere sanzionati tra i delitti, perché non dolosi.
In epoca postclassica, i compilatori delle Institutiones del Corpus iuris civilis giustinianeo, modificarono parzialmente l’impostazione di Xxxx e la sua tripartizione delle fonti dell’obbligazione, per adottare invece una concezione quadripartita. In base ad essa le obbligazione nascevano aut ex contractu aut quasi ex contractu aut ex maleficio aut quasi ex maleficio. In realtà fu soprattutto nelle successive parafrasi di epoca bizantina che si cominciò a parlare di quasi contratti e quasi delitti come di due distinte e autonome categorie, e questa impostazione è stata successivamente recepita dal codice napoleonico e da lì è confluita nel codice italiano del 1865.
Il legislatore del ’42, invece nel disciplinare le fonti dell’obbligazione preferì abbandonare il solco della tradizione giustinianea tornando così alla concezione tripartita di epoca classica e dunque alla dottrina di Xxxx. L’attuale articolo 1173 c.c. dispone infatti che “le obbligazione nascono da contratto, da fatto illecito e da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico52.Tra gli altri atti o fatti fonti di obbligazione viene tradizionalmente annoverato il pagamento dell’indebito la cui disciplina si rinviene nel titolo VII del libro IV codice civile, che comprende gli articoli da 2033 a 2040.
L’istituto presenta quindi nel nostro codice una trattazione unitaria, a differenza di quanto accadeva sotto il codice del 1865 nel quale la disciplina dell’indebito era divisa tra la sezione dedicata al pagamento in genere (in particolare art. 1237), e la sezione dedicata ai quasi contratti (artt. 1145-1150) la quale invece è completamente scomparsa nel codice attuale.
Il I comma dell’art. 1237, disponeva: “Ogni pagamento presuppone un debito: ciò che è pagato senza essere dovuto è ripetibile”. Il II comma, invece escludeva la ripetizione nell’ipotesi di volontaria esecuzione di obbligazioni naturali.
In dottrina si è sostenuto che il fenomeno regolato dall’art. 1237 c.c. fosse essenzialmente diverso da quello regolato dagli artt. 1145 e ss.: nell’art. 1237
c.c. si riteneva contemplata la pretesa di restituzione sorgente in generale dalla nullità di una datione sine causa; invece gli artt. 1145 e ss, avrebbero disciplinato il pagamento dell’indebito come fattispecie particolare di quasi contratto nella quale rilevava il requisito dell’errore53.
In realtà questa diversificazione appariva già ad altra dottrina dell’epoca54 un po’ artificiosa, perché in entrambi i casi le norme disciplinavano un’attribuzione patrimoniale solvendi causa che non si realizzava per l’inesistenza dell’obbligazione da adempiere. E non si riteneva neanche sostenibile l’affermazione secondo cui l’art. 1237 c.c. avrebbe avuto una portata più ampia degli artt. 1145 e ss., comprendendo il primo tutte le attribuzioni patrimoniali solvendi causa, mentre i secondi solo la dazione di cose corporali. In realtà dall’interpretazione letterale delle due norme non emergeva questa differenza e si poteva affermare che entrambe avessero ad oggetto qualsiasi attribuzione patrimoniale effettuata solvendi causa. Più probabilmente nell’art. 1237 c.c. era semplicemente enunciato un principio generale che trovava la sua applicazione negli artt. 1145 e ss55.
La categoria dei quasi contratti, disciplinata nelle norme da ultimo citate rispondeva all’esigenza di ricondurre alla volontà privata ogni vincolo obbligatorio previsto dalla legge, affermando altresì un principio generale di equivalenza dei sacrifici delle sfere patrimoniali implicate nello spostamento di beni.
Nello stesso ordine di idee si collocava il frequente accostamento delle obbligazioni nascenti da pagamento indebito a quelle nascenti da contratto di mutuo (così come quelle derivanti dalla negotiorum gestio venivano assimilate a
53 DE XXXX X quasi contratti, Catania 1929, p. 121.
54 XXXXXXXX La ripetizione dell’indebito, Padova 1940, p. 7.
quelle ex mandato). Si riteneva infatti che l’obbligo di restituzione ex indebito si fondasse su un presunto accordo tra solvens e accipiens avente per contenuto l’obbligazione dell’accipiens di restituire quanto ricevuto qualora il debito non fosse esistito.56 L’analogia tra il pagamento dell’indebito e il mutuo, falsamente intesa ed esasperata diede luogo alla teoria del promutuo57. Il promutuo era assimilabile al mutuo, perchè in entrambi i casi l’azione concessa era la condictio, sebbene nell’un caso si fosse di fronte a un contratto e nell’altro a un quasi contratto. Il promutuo si differenziava dal mutuo e si accostava alla indebiti solutio per il fatto che la restituzione aveva ad oggetto non il tantundem eiusdem generis, ma le stesse cose indebitamente pagate. La figura del promutuo non fu accolta nel codice civile poichè non connotata da caratteri propri, tali da conferirle autonomo rilievo nella più vasta categoria della ripetizione dell’indebito, e tuttavia essa esercitò una certa influenza circa l’inquadramento dell’indebito nella categoria dei quasi contratti.
In realtà però occorre precisare che secondo il sistema del c.c. del 1865, il fondamento del quasi contratto non era una vera e propria convenzione, seppure implicitamente presupposta, poiché ciò che si riteneva decisivo era semplicemente un fatto volontario dal quale doveva sorgere l’obbligazione. Ai sensi dell’art. 1140 c.c. 1865, infatti “ il quasi contratto è un fatto volontario e lecito, dal quale risulta un’obbligazione verso un terzo od un’obbligazione reciproca fra le parti”.
E in ogni caso il richiamo all’elemento volontaristico più che una presunzione rappresentava una finzione: si fingeva cioè voluta dal soggetto contro il quale era diretta, la reazione che la norma ricollegava a un certo fatto. Col che però si cadeva in contraddizione, perché sostenere il rilievo di una finzione implicitamente conduceva a negare che l’obbligazione di restituzione avesse effettivamente come fatto costitutivo la volontà dell’obbligato. Per questo si obiettava58 da parte di attenta dottrina, che non era tanto il fatto volontario a risultare decisivo quanto le conseguenze di questo. Nella ripetizione
56 DE XXXX, op. cit, p. 109.
57 SCUTO Natura giuridica e fondamento della ripetizione dell’indebito nel diritto civile italiano,
in Rivista di diritto civile, 1917, pp. 28 e ss.
dell’indebito, infatti non rilevava tanto il volontario pagamento, quanto l’incremento patrimoniale a favore dell’accipiens, privo di una causa giustificativa. Il quasi contratto non poteva rappresentare un valido fondamento giuridico essendo una categoria puramente formale dotata di mero valore descrittivo. Tanto che coloro che fondavano l’obbligazione di restituzione dell’accipiens sul quasi contratto avvertivano poi l’esigenza di fondare a sua volta il quasi contratto sul generale principio dell’ingiustificato arricchimento, il che dimostrava ancor di più l’inutilità di quella nozione per spiegare il fondamento dell’obbligazione di restituzione dell’accipiens59.
L’impostazione contrattualistica (o quasi contrattualistica) della condictio indebiti era strettamente collegata alla concezione contrattualistica del pagamento, che veniva classificato come contratto ad effetti reali60. Per questo, avvertita l’insufficienza della categoria del quasi contratto a spiegare il fondamento dell’indebito, una parte della dottrina sotto il vigore del vecchio codice, tentò di identificarne il fondamento nella nullità del pagamento. La ripetizione dell’indebito veniva concepita quindi quale azione recuperatoria spettante al solvens che, per la nullità dell’atto traslativo, era rimasto proprietario.61 Si affermava infatti che il pagamento dovesse avere come causa giuridica una corrispondente obbligazione valida, e laddove essa non fosse esistita, il primo sarebbe stato nullo per mancanza di causa e dunque il solvens rimasto proprietario avrebbe potuto agire in rivendica contro l’accipiens e contro tutti i terzi, acquirenti a non domino. E se la rivendica nei confronti dei terzi non fosse stata più possibile, l’accipiens avrebbe risposto del tantundem o dell’intero valore della cosa.
Secondo l’opposta tesi62, invece, il fondamento della ripetizione dell’indebito era da individuarsi, come visto sopra, nel principio generale dell’ingiustificato arricchimento. Sebbene la datio solvendi causa fosse da ritenersi nulla perché non esisteva l’obbligazione da adempiere, tuttavia la pretesa non spettava al solvens
59 XXXXXXXX, op. cit., p. 2.
60 SCUTO op. cit., pp. 1 e ss. e p. 14.
61 XXXXXXXX Delle obbligazioni e dei contratti in genere, Torino 1924-1925, vol. IV, nota 176 p. 215.
62 XXXXXXXX op. cit., p. 5.
in quanto proprietario. Infatti, anche disconoscendo l’effetto traslativo della dazione, e dunque concludendo che il solvens fosse rimasto proprietario, non era in quanto tale che la norma gli accordava una pretesa restitutoria, che non sarebbe stata altrimenti distinguibile dalla rivendicazione63.
Nel codice civile del 1942, si è abbandonato definitivamente lo schema dei quasi contratti, e la norma di cui al I comma dell’art. 1237 c.c. del 1865 è scomparsa, in quanto priva di un autonomo valore pratico, come già sostenuto da più parti all’epoca della sua vigenza. Il pagamento dell’indebito viene disciplinato in un autonomo titolo e le obbligazioni naturali sono oggi disciplinate all’art. 2034 c.c. come testuali eccezioni al principio di ripetibilità dell’indebito oggettivo. Tra le altre novità introdotte dal c.c.1942 vanno indicate la norma di cui all’art. 2035 che in relazione alle prestazioni contrarie al buon costume afferma la regola “in pari causa turpitudinis melior est condicio possidentis”, e l’art. 2039 che in materia di indebito soggettivo ricevuto da un incapace, limita la restituzione a quanto è stato effettivamente rivolto a vantaggio dello stesso, in analogia, come visto sopra, con quanto disposto dall’art. 1443 c.c. per l’ipotesi di annullamento del contratto per incapacità di una delle parti.64
La disciplina dell’indebito si articola diversamente a seconda che si tratti di indebito oggettivo o soggettivo. Nel primo caso i presupposti della ripetizione, a differenza di quanto accadeva nel diritto romano e nel c.c. del 1865 sono solo due: l’effettuazione di un pagamento e la mancanza del corrispondente obbligo. È invece scomparso il requisito soggettivo dell’ignoranza da parte del solvens dell’inesistenza dell’obbligo. L’art. 2033 c.c. esordisce infatti affermando semplicemente che “chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”.
L’irrilevanza dell’errore del solvens ex art. 2033 c.c., costituisce una significativa inversione di tendenza rispetto all’opinione dominante sotto il codice napoleonico e sotto il c.c. del 1865, secondo la quale, come visto sopra, un pagamento effettuato da un solvens consapevole dell’inesistenza del debito
63 Come invece sostenuto da FERRARA Sul concetto dei negozi astratti e sul loro giuridico riconoscimento, in Rivista di diritto commerciale 1904, I, p. 268.
64 XXXXXXXX voce Ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 1225.
integrava gli estremi di una donazione65, seppure in presenza dei necessari requisiti formali. Il c.c. del 1942 sembra invece avere sposato l’idea che sia arbitrario dedurre da un mero stato intellettivo la sussistenza di uno stato volitivo. La scientia indebiti dunque non consente di presumere l’animus donandi, e può senza dubbio coesistere con la decisione di assumere, seppure provvisoriamente e con l’implicita riserva di ripetere la solutio, la posizione di debitore adempiente. Spetterà semmai all’accipiens fornire la prova che il pagamento è stato effettuato per spirito di liberalità o in adempimento di un’obbligazione naturale o in base a un vincolo contrattuale. L’ordinamento d’altra parte non consente che il mero stato intellettivo del solvens costituisca una valida giustificazione per non adempiere.
Un’eventuale giustificazione dell’irripetibilità non consisterà nella causa tipica dell’atto (donazione), ma in elementi esterni da ricostruire caso per caso e che sanzionano in forma specifica il contegno del solvens. Ci si potrà ad esempio riferire al canone della correttezza nell’ipotesi in cui il venire contra factum proprium del solvens sia accompagnato anche da un intento fraudolento. 66 Affinchè l’autore del pagamento possa esercitare il suo diritto alla restituzione è sufficiente che fornisca la prova del difetto dell’obbligo perché l’indebito oggettivo si fonda sulla sola constatazione della mancanza di fondamento dello spostamento patrimoniale in quanto tale.
L’elemento psicologico torna invece ad avere rilievo nella disciplina dell’indebito soggettivo ex art. 2036 c.c. che ricorre nell’ipotesi in cui un soggetto paghi erroneamente un debito altrui. In questo caso, affinché il solvens possa ripetere quanto pagato, è necessario che al momento del pagamento versasse in una condizione di errore scusabile.
In entrambi i casi l’azione concessa al solvens è personale, restitutoria e sottoposta al termine ordinario di prescrizione
65 Xxxxx X. 50, 17, 53: cuius per errorem dati repetitio est, eius consulti dati xxxxxxx est, in BRECCIA La ripetizione dell’indebito, Milano 1974, p. 30 nota 57. Un residuo di questa concezione è presente negli ordinamenti francese e tedesco nei quali è ritenuto valido un pagamento eseguito consapevolmente in assenza di un debito. È ciò in base al principio del venire contra factum proprium che rende il solvens immeritevole di tutela. (ALBANESE Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, op. cit., p. 460)
66 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit., pp. 28 e ss.
In questa sede ci si concentrerà essenzialmente sulle problematiche inerenti all’indebito oggettivo, essendo la disciplina dello stesso funzionale alla trattazione dell’oggetto precipuo di questa trattazione, ovvero le tutele restitutorie da caducazione del contratto.
10. La natura giuridica del pagamento dell’indebito.
Dall’analisi delle origini storiche del pagamento dell’indebito emerge come siano stati frequenti i tentativi di avvicinare in qualche modo l’istituto al contratto, anche tramite il ricorso alla categoria dei quasi contratti. Sebbene questa sia scomparsa nell’attuale formulazione del codice civile, rimane da chiarire quale sia la natura giuridica dell’indebito, e in particolare se ad esso possa comunque riconoscersi un fondamento negoziale.
Innanzitutto è necessario comprendere il significato e la portata del termine pagamento. Xxxxxxx chiedersi infatti se con tale nozione il legislatore abbia voluto designare una figura distinta e più ristretta rispetto alla categoria dell’adempimento dato che, nella concezione comune, con tale termine si è soliti fare riferimento alla consegna di una somma di denaro, in esecuzione di un’obbligazione pecuniaria. In realtà nel linguaggio legislativo, la nozione di pagamento, inserita nel più ampio contesta dell’adempimento dell’obbligazione di dare, assume il significato generale di esecuzione della prestazione dovuta, e dunque comprende anche la consegna di una res certa e determinata.
In materia di indebito, però, sembra apparentemente contraddittorio ricorrere al nome pagamento inteso come attuazione di un rapporto obbligatorio visto che in quel caso tale rapporto non esiste e il pagamento è espressamente considerato come non dovuto. Infatti, nel caso di pagamento dovuto l’identificazione della fattispecie deriva dall’accertamento della corrispondenza del comportamento posto in essere dai soggetti col contenuto del rapporto sotteso, mentre nel caso dell’indebito, non esiste un rapporto giuridico vincolante alla cui stregua valutare il contegno tenuto dalle parti. In questo caso, dunque, o si ritiene che il pagamento si identifichi con qualsiasi spostamento patrimoniale, anche se nel nostro caso sine causa, ovvero bisogna
ricercare nella legge gli elementi che consentono di identificare la categoria di contegni assoggettabili agli artt. 2033 e ss..
Analizzando le norme del titolo VII libro IV c.c., ci si accorge che il legislatore non ha adoperato una terminologia univoca, facendo riferimento a volte alla nozione di pagamento e altre alla nozione più generale di prestazione. Con questo termine si intende ogni comportamento congruente col contenuto di un comando giuridico, quindi anche un contegno astensivo corrispondente al contenuto di un obbligo negativo. L’uso promiscuo dei termini pagamento e prestazione negli artt. 2033 e ss. induce a ritenere che la ripetizione si riferisca a tutte le prestazioni, qualunque sia il loro oggetto, che abbiano scopo solutorio anche se non sono sorrette da una valida ragione giustificativa.
Precisamente, in materia di indebito deve essere presa in considerazione una nozione di prestazione coincidente con l’attribuzione patrimoniale in senso tecnico, ovvero quell’attività mediante la quale si ha uno spostamento di ricchezza dalla sfera patrimoniale di un soggetto a quella di un altro. 67
Il pagamento di un debito viene tradizionalmente considerato non un negozio ma un atto giuridico e in particolare un atto dovuto che ha l’effetto di estinguere l’obbligazione. Ciò è dimostrato anche dalla circostanza che, ai sensi dell’art. 1191 c.c. il debitore incapace può eseguire comunque il pagamento, e una volta eseguito non potrà impugnarlo a causa della propria incapacità.
In materia di pagamento dell’indebito, invece, si contendono il campo teorie negoziali e non negoziali.
La tesi che individua nel pagamento dell’indebito un negozio giuridico parte dalla considerazione secondo cui la locuzione causa del pagamento può avere un’accezione oggettiva, con cui si intende la situazione che giustifica l’adempimento dell’obbligo, e un’accezione soggettiva, che fa riferimento all’intento solutorio. Quanto al primo significato, il difetto di causa solvendi può derivare dalla mancanza di una delle fonti dell’obbligazione, o dalla sua inidoneità, anche solo pro tempore, alla produzione dell’effetto (es. debito sottoposto a condizione sospensiva). Nel caso in cui manchi la causa solvendi oggettivamente intesa, occorre chiedersi se il concorrente scopo solutorio
67 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit., pp. 19 e ss.
manifestato dal solvens lasci ancora un margine per affermare la provvisoria efficacia dell’atto. Si afferma a tal proposito68 che per integrare la figura del pagamento indebito non basta il compimento di una prestazione e la mancanza di una sottesa obbligazione, perché è necessario che sia riconoscibile nell’atto la destinazione a una certa funzione solutoria intesa come animus solvendi. E’ dunque necessario un comportamento cosciente e volontario, e non basta la destinazione oggettiva impressa dall’ordinamento per il solo fatto che il comportamento è congruente col contenuto di un’obbligazione, dato che tra l’altro nel nostro caso manca l’obbligazione da adempiere.
All’obiezione che in questo caso l’effetto che l’ordinamento riconduce al negozio non corrisponde all’intento originario del solvens si risponde che in realtà “in nessun negozio è decisivo l’intento diretto alla produzione di effetti giuridici (chè questi soltanto la legge può predisporre), ma solo l’intento pratico perseguito dal privato”. La legge dunque opererebbe una conversione interpretativa dell’animus del solvens che, originariamente volto al trasferimento oneroso in vista di un adempimento, viene invece reinterpretato in modo tale da giustificare la ripetizione di quanto prestato69. La rilevanza di un comportamento cosciente e volontario del solvens in materia di indebito emergerebbe anche da un confronto con la norma di cui all’art. 1191 c.c. che in materia di pagamento dovuto impedisce al debitore incapace di impugnare il pagamento eseguito a causa della propria incapacità. In quel caso infatti ciò che giustifica la ritenzione da parte del creditore di quanto pagato non è l’irrilevanza del volere del solvens, ma la oggettiva congruenza tra l’attività solutoria e la prestazione dovuta.
Secondo questa ricostruzione, la fonte dell’obbligo restitutorio non andrebbe dunque cercata nel generale divieto di arricchimento ingiustificato, ma sarebbe l’esito pratico di un comportamento negoziale così come reinterpretato dall’ordinamento. In realtà a questa ricostruzione è facile obiettare che essa si basa su una fictio, quale quella della conversione interpretativa legale
68 XXXXXXXX Riflessioni sull’atto solutorio non dovuto, in Studi in onore di X. XXXXXXXX, I, Milano 1959, pp. 3 e ss.
69 BETTI Teoria generale delle obbligazioni. Fonti e vicende delle obbligazioni, III, Milano 1954, pp.13 e ss.
dell’intento, con cui si tenta di mascherare l’assenza di un nesso tra l’atto di autonomia e gli effetti che la legge vi collega.70
Il perno attorno al quale ruota la tesi negoziale è dunque la rilevanza attribuita, all’intento solutorio del solvens, il quale sopperisce in qualche modo alla carenza del presupposto oggettivo della doverosità del pagamento: la causa soggettiva sarebbe dunque requisito sufficiente di validità del negozio pur in mancanza della causa oggettiva. In questo modo si individuerebbe una peculiare categoria di negozi che pongono in essere una prestazione isolata, caratterizzata dall’indicazione dello scopo a prescindere dalla sua effettiva esistenza. Se dunque per imprimere all’atto una destinazione alla funzione solutoria è necessaria la coscienza e la volontà del solvens, il difetto della volontà di quest’ultimo dovrebbe impedire di qualificare la fattispecie come indebiti solutio, salvo voler affermare che la funzione solutoria possa ricavarsi in via residuale per mancanza di uno specifico e diverso intento del solvens. Ma a ciò potrebbe obiettarsi che queste fattispecie non altrimenti qualificabili sono in realtà da ricondurre alla clausola generale di cui all’art. 2041 c.c. che reagisce agli spostamenti patrimoniali in cui non siano in concreto ravvisabili gli estremi di una specifica destinazione alla funzione solutoria.
Tuttavia lascia perplessi che l’intento del solvens, così come sopra individuato, sia da solo sufficiente ad ascrivere la fattispecie nell’ambito dei negozi giuridici, ben potendo l’indebiti solutio essere ricondotta alla categoria dei meri atti giuridici. Com’è noto la differenza tra le due categorie dogmatiche risiede nella circostanza che mentre nel negozio la volontà privata si esplica sull’atto e sui suoi effetti, nel mero atto giuridico la volontà copre solo l’atto mente gli effetti sono predisposti dalla legge.
L’intento solutorio del solvens in quest’ottica potrebbe quindi anche mancare, senza per questo interferire con la possibilità di ripetere quanto indebitamente pagato. Infatti il solvens potrebbe avere interesse a eseguire il pagamento anche nel dubbio circa la doverosità o meno della sua prestazione o addirittura se convinto della sua non doverosità, e ciò ad esempio per evitare il rischio di una
70 CAMPAGNA I “negozi di attuazione” e la manifestazione dell’intento negoziale, Milano 1958, pp. 206-208.
diversa e sfavorevole decisione giudiziale a suo carico. Questo perché comunque il solvens è consapevole che l’ordinamento gli offrirà tutela garantendogli in seguito la ripetizione di quanto risulti essere stato indebitamente prestato.
Questa conclusione sembrerebbe avvalorata dalla circostanza che nell’art. 2033 c.c., innovando, come visto sopra, rispetto alla tradizione giuridica romana, è scomparso il requisito dell’errore del solvens. Il che consente di considerare irrilevante la conoscenza del carattere indebito della prestazione eseguita. L’intento del solvens non dovrebbe quindi essere elemento costitutivo della solutio che sarebbe un “atto meramente esteriore”71. Il semplice compimento dell’atto del pagamento non dovuto da parte del solvens, indipendentemente dal suo intento, gli consente di individuarlo come legittimato attivo nell’esercizio della condictio, escludendo nel contempo che la stessa azione possa essere esercitata da un soggetto diverso alla cui disponibilità sono state sottratte le res oggetto di pagamento72.
Secondo la tesi negoziale, invece, solo l’intento del solvens può imprimere all’atto la necessaria destinazione funzionale all’esecuzione di un obbligo che in realtà è inesistente e a sostegno di questa ricostruzione si pone l’esempio73 di un atto che abbia contemporaneamente funzione solutoria e funzione traslativa, come nel caso dell’art. 1706, comma 2 che obbliga il mandatario senza rappresentanza a trasferire al mandante la cosa acquistata per conto di quest’ultimo. A questo atto non può certo negarsi natura negoziale e ciò a prescindere dalla sua doverosità o dal fatto che ex post risulti effettivamente non dovuto. In relazione a quest’atto, la mancanza o il vizio della volontà assumono rilievo preminente anche in termini di rimedio (invalidità) rispetto alla mera mancanza di funzione solutoria, che comporterebbe la semplice ripetibilità.
Tuttavia questa argomentazione sembra smentirsi da sola perché conduce a concludere che in effetti in questi casi non si verte in tema di pagamento di indebito in senso tecnico, proprio poiché non vi è una considerazione dell’atto
71 MIRABELLI L’atto non negoziale nel diritto privato, Milano 1998, p. 245.
72 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit., , pp. 366 e ss.
73 XXXXXXXX Riflessioni, op. cit., pp. 10 e ss.
sotto il profilo della non realizzazione della funzione solutoria, essendo invece assorbente il profilo volontaristico74. Infatti se si ragiona nel senso che il profilo volontaristico assume preminenza rispetto alla causa oggettiva, il pagamento indebito eseguito, ad esempio, da un incapace o da un soggetto la cui volontà è viziata, andrebbe restituito non in base alle norme di cui agli artt. 2033 e ss., bensì in base alle regole che governano l’invalidità dei contratti, e in particolare l’art. 1442, II comma c.c. La valutazione dell’atto sotto il profilo della deficienza della volontà risulterebbe assorbente rispetto alla deficienza del presupposto di realizzazione della funzione solutoria, e dunque le azioni contrattuali dovrebbero prevalere sulla condictio indebiti. E certamente ciò può risultare favorevole per il solvens incapace dato che la disciplina dell’annullamento gli consente di tutelarsi più efficacemente, soprattutto per via del più favorevole regime della prescrizione. Infatti in materia di indebito la prescrizione è decennale ma decorre dalla solutio, mentre in materia di annullamento il termine di prescrizione, seppure quinquennale decorre dal riacquisto della capacità o dalla cessazione del vizio della volontà.
In realtà si può rilevare come il fatto stesso che le norme in materia di indebito non diano nessun rilievo, ai fini della prescrizione, alla persistenza o meno dell’alterazione di capacità del solvens, dimostra l’irrilevanza di tale circostanza75. E del resto una diversa soluzione risulterebbe iniqua rispetto all’ipotesi del solvens che seppure capace sia incorso in un errore scusabile. Così come iniquo sarebbe pretendere di applicare soltanto al solvens incapace la disciplina di cui all’art. 428 c.c. che richiede requisiti più rigidi rispetto all’art. 2033 c.c., quali ad esempio il grave pregiudizio. Senza dimenticare che nei confronti del terzo subacquirente, la disciplina di cui all’art. 1445 c.c. è maggiormente pregiudizievole rispetto a quanto disposto dall’art. 2038 c.c.
Né si può ipotizzare che per il solvens incapace l’unica tutela possibile sia l’azione di arricchimento ingiustificato ex art. 2041 c.c. Infatti non esiste
74 XXXXXXXX Riflessioni, op. cit., p. 17.
75 Seppure una parziale eccezione a questo principio si ravvisi negli artt. 2034 e 2035 c.c. dove la capacità del solvens è elemento essenziale perché si realizzi la soluti retentio, e ciò sembrerebbe attribuire all’atto del pagamento natura negoziale: x. XXXXXXXX voce Ripetizione dell’indebito op. cit., p. 1229.
un’incompatibilità logica tra un’attività che si atteggi apparentemente come pagamento e l’imputazione della stessa a un incapace, il quale ben potrebbe agire in un momento di lucido intervallo, o comunque potrebbe imputare l’atto a pagamento di un’obbligazione ritenuta esistente proprio a causa della sua infermità. Ciò dimostrerebbe ancora una volta che l’incapacità del solvens, in caso di pagamento indebito è irrilevante. E del resto, la legge, ammettendo la ripetibilità dell’adempimento di obbligazione naturale da parte dell’incapace (art. 2034 c.c.) legittima l’idea secondo cui anche un incapace può imprimere all’atto la veste esteriore di un pagamento che, essendo non dovuto è ripetibile secondo le regole di cui agli artt. 2033 e ss. Applicare solo all’incapace le regole relative all’ingiustificato arricchimento creerebbe una disparità di trattamento tra solvens capace e solvens incapace: quest’ultimo si troverebbe in una posizione deteriore data la sussidiarietà dell’azione ex art. 2041 c.c. che tra l’altro impone di accertare il nesso tra l’arricchimento dell’accipiens e il depauperamento del solvens.
Secondo autorevole dottrina76 è possibile assegnare un diverso rilievo alla funzione solutoria dell’atto, ricostruendola sulla base del rapporto di corrispondenza con una precedente situazione materiale di cui dovrebbe costituire l’attuazione. La volontà di adempiere non deve cioè emergere necessariamente da un intento concretamente orientato in tal senso: “è sufficiente che possa desumersi anche per fatti concludenti dall’operazione considerata nella sua globalità e secondo il significato che essa assume socialmente in base ai comportamenti anteriori e collaterali delle parti”. L’elemento soggettivo che caratterizza la fattispecie non si identifica per forza con un particolare atteggiamento della volontà del solvens ma può consistere nell’attribuzione di un determinato significato giuridico all’operazione complessiva posta in essere. L’animus solvendi potrebbe essere in concreto escluso o perché il solvens non è in grado all’atto del pagamento di rendersi conto del significato che obiettivamente assume il suo contegno o perché incorre in un errore, anche solo ostativo. In questi casi, anche se la dichiarazione non corrisponde alla volontà, un’oggettiva destinazione alla
76 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 381.
funzione solutoria potrebbe essere sufficiente a non confondere l’attribuzione solvendi causa con gli spostamenti patrimoniali privi di causa e dunque sottoposti alla disciplina di cui all’art. 2041 c.c.
Non è dunque l’animus solvendi ciò che consente di scegliere tra l’applicazione della disciplina sull’indebito e quella relativa all’arricchimento ingiustificato. La disciplina dell’indebito reagisce all’obiettivo difetto di una ragione giustificativa dell’attribuzione e questo presupposto non viene influenzato da una qualsiasi alterazione della coscienza e della volontà del solvens. Se dunque il contegno del solvens ha i requisiti oggettivi di una destinazione alla funzione solutoria, e non sussiste una manifestazione di volontà diversamente orientata, non v’è ragione per escludere l’applicazione della disciplina di cui agli artt. 2033 e ss.
Un pagamento non dovuto deve quindi presentare, analogamente alla prestazione dovuta, i requisiti dell’apprezzabilità da un punto di vista patrimoniale dell’attività posta in essere dal solvens e dell’incidenza di tale attività nella sfera patrimoniale dell’accipiens, tale da soddisfare un interesse anche non patrimoniale dello stesso. A ciò si accompagna l’inesistenza del rapporto obbligatorio che giustifica il pagamento e la sua oggettiva destinazione a una funzione esecutiva. La fattispecie non può ritenersi non perfezionata solo perché per incapacità di intendere e volere o per errore è esclusa la volontarietà della fattispecie e dunque l’intento solutorio del solvens. Secondo questa ricostruzione, dunque, nel nostro sistema non ha senso chiedersi se la traditio sia o meno un negozio giuridico o se abbia natura causale o astratta, perché essa è in sé un fenomeno neutro77.
In realtà però in questo modo si tenta in parte di aggirare il problema della qualificazione giuridica dell’indebito. È infatti difficile immaginare una fattispecie descrivibile solo come fenomeno neutro caratterizzato dalla sua oggettiva funzione esecutiva. Se infatti sembra condivisibile l’idea di negare il carattere negoziale della fattispecie, ridimensionando il ruolo assegnato allo specifico intento solutorio del solvens, non può negarsi del tutto il rilievo della volontà nell’esecuzione della prestazione a favore dell’accipiens. Non si tratta
77 XXXXXX’ L’adempimento dell’obbligo altrui, in Raccolta di scritti, II, Milano 1980, p. 130 nota 5.
infatti di uno spostamento patrimoniale avvenuto inconsapevolmente, per puro caso, senza un comportamento attivo e cosciente del solvens. La volontà di quest’ultimo può essere viziata o falsata circa lo scopo da perseguire, ma ciò, come visto non rileva in alcun modo, non richiedendo l’art. 2033 c.c. neanche il requisito dell’errore, originariamente previsto. Si tratta però pur sempre di un atto giuridico nel quale la volontà dell’agente è determinante seppure si arresta al solo momento attuativo del contegno, senza coprirne gli effetti che sono disciplinati direttamente dalla legge. E del resto ciò è coerente con la comune convinzione secondo cui anche il pagamento dovuto è considerato un atto giuridico. Il carattere indebito della prestazione è infatti circostanza esterna all’atto del pagamento, incidendo soltanto sui suoi effetti giuridici, e non consente per ciò solo di qualificare diversamente la fattispecie rispetto alla normale ipotesi di pagamento dovuto.
Ciò posto, per avere una corretta percezione dell’istituto occorre porsi anche dal punto di vista dell’accipiens, poiché un’analisi condotta dalla solo prospettiva del solvens, appare necessariamente monca. La non doverosità della solutio è infatti valutabile concretamente solo al momento dell’acceptio della prestazione. La nozione di pagamento identifica infatti un fenomeno complesso richiedente un contegno attivo sia da parte del solvens, sia da parte dell’accipiens: il primo deve eseguire la prestazione, il secondo deve riceverla.
La rilevanza del momento recettivo della prestazione ai fini della condictio
indebiti, si apprezza in primo luogo in relazione alla capacità dell’accipiens.
Se infatti è vero, come visto sopra che la condictio indebiti prescinde dalla capacità del solvens, è altrettanto vero che essa presuppone la capacità dell’accipiens. Per il perfezionamento del pagamento non dovuto concorre dunque in maniera decisiva, la capacità legale del preteso creditore nel momento dell’acceptio, ovvero, se la giustificazione del pagamento viene a perdersi in un momento successivo, all’atto della retentio divenuta ormai priva di fondamento78.
È determinante quindi l’individuazione del momento in cui una prestazione può ritenersi ricevuta o trattenuta senza fondamento giustificativo. Non basta
78 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 396.
in questo senso un criterio di tipo oggettivo ed esteriore quale l’incremento economico realmente conseguito, ma occorre anche una conoscenza o conoscibilità da parte dell’accipiens del ricevimento della prestazione. Conoscenza alla quale difficilmente possono ritenersi applicabili le presunzioni di cui agli artt. 1326 e 1334 c.c. dettate in materia di conclusione del contratto. Anche ai fini del decorso del termine di prescrizione rileva il momento dell’acceptio. Se infatti si ritiene che in difetto di essa non si perfezioni la fonte dell’obbligazione restitutoria ex art. 2033 c.c., non è consentito prendere in considerazione l’inerzia del solvens se non a partire dal momento in cui la prestazione è ricevuta dall’accipiens. E se il titolo che sorregge l’attribuzione viene meno dopo l’effettuazione del pagamento, il termine di prescrizione decorre da quando è accertato il difetto di causa della retentio.
La prova del pagamento non potrà dunque consistere solo nell’aver diretto all’accipiens una certa attività ma è necessario che si dimostri che il ricevente ha consapevolmente cooperato nell’imputarla a sé. Il solvens deve cioè provare che l’accipiens ha imputato a sé uno spostamento patrimoniale a titolo solutorio proveniente dallo stesso solvens senza fondamento giustificativo perché in esecuzione di un obbligo non esistente o non più esistente. Non rileva invece alcuna presunzione di errore del solvens, perché la scientia indebiti, come visto, non è di per sé decisiva al fine di escludere la condictio.
11. Il problema degli effetti traslativi dell’indebiti solutio.
Come visto nel paragrafo 9 del presente capitolo, secondo una consolidata interpretazione delle fonti storiche, nel diritto romano il pagamento eseguito indebitamente produceva efficacia traslativa, determinando dunque l’acquisto della proprietà della res da parte dell’accipiens.
Questa ricostruzione è in realtà contestata da una parte della dottrina79, che sotto il vigore del codice civile previgente sosteneva essere storicamente priva di fondamento la ricostruzione secondo la quale la condictio nel diritto romano era sorta per reagire al trasferimento astratto della proprietà della res. Infatti si è
79 XXXXXXXX La ripetizione dell’indebito, op. cit., pp. 37-40.
47
sempre affermato tralatiziamente che una volta compiuta una traditio per adempiere un debito che non esiste, se il solvens può agire in restituzione contro l’accipiens è perché si presuppone avvenuto in ogni caso il passaggio della proprietà, indipendentemente dalla mancanza o dalla non realizzazione della causa della tradizione. E per giustificare la superiore conclusione nei confronti di chi sosteneva la necessità di una causa perché la tradizione fosse produttiva dell’effetto traslativo, si affermava che effettivamente una causa vi era, seppure solo putativa, ritenuta tale dalle parti. Ciò però appare in contrasto con quanto esplicitamente affermato da Xxxxx (l. 31 D. 41.1) secondo il quale, per realizzare il trasferimento della proprietà non era sufficiente la presenza di una causa putativa occorrendo invece una causa reale. Anche in alcune passi dei Basilici (B. XXIII, I, 4, not.4) si trova chiaramente affermato che la condictio sine causa compete al dominus contro il non dominus. E ancora nella Glossa (ad 1.3 D. Pro suo 41.10), si dice che la traditio per causa putativa non trasferisce la proprietà ma solo il possesso ad usucapionem.
Questa contraddizione, secondo Xxxxxxxx, dovrebbe spingere a rivedere la premessa del ragionamento, secondo la quale la condictio nel diritto romano avrebbe sempre avuto efficacia traslativa. Secondo l’autore, infatti è stato erroneamente interpretato dai glossatori il par.5 di Gaio, IV, nel senso che il proprietario non possa agire in condictio, poiché, secondo l’autore, da questo passo emerge solo che il proprietario non ha un’azione personale diretta al recupero della cosa che è già sua.
Ma anche dando per corretta la comune interpretazione secondo la quale nel diritto romano il pagamento dell’indebito avrebbe avuto efficacia traslativa, non così esso, secondo Xxxxxxxx, era stato inteso dai compilatori del codice napoleonico dai cui lavori preparatori emerge che la dazione solvendi causa è considerata un negozio causale e che il solvens è considerato permanere proprietario mentre l’accipiens è non proprietario e semplice possessore.
Non si nega che, secondo una parte della dottrina80, l’efficacia traslativa del pagamento dell’indebito troverebbe conferma nella circostanza che la condictio ha il suo fondamento nel principio dell’ingiusto arricchimento il quale non può
80 SCUTO op. cit., pp.7, 13, 63, 146.
effettivamente verificarsi se non vi è a monte l’effetto traslativo, ma solo la perdita del possesso. Ma anche a questa argomentazione si è obiettato81 che sarebbe una mera petizione di principio ritenere che l’azione di ingiustificato arricchimento resti indifferente rispetto agli spostamenti patrimoniali meramente possessori, dato che anche il possesso è una situazione di fatto economicamente rilevante. Tanto è vero che nel diritto romano e nel diritto comune venne prevista una condictio possessionis.
Se dunque la rivendicazione era la conseguenza che la norma ricollegava al fatto in quanto lesivo del diritto di proprietà, la condictio possessionis era la conseguenza della lesione del possesso e tra le due pretese non vi era un necessario rapporto di pregiudizialità, ma anzi spesso un concorso alternativo. Del resto la responsabilità attenuata in cui incorre l’accipiens di buon fede secondo la disciplina dell’indebito, è analoga alla responsabilità del possessore di buona fede, e dunque non trova fondamento nell’efficacia traslativa del pagamento.
La dottrina che sosteneva l’astrattezza della solutio indebiti e la sua efficacia traslativa82, trovava poi argomentazioni nella circostanza che l’ipotesi contraria, ipotizzando la permanenza del diritto di proprietà in capo al solvens avrebbe reso inutile la previsione di un’azione personale quale quella ex indebito, dato che il solvens ben avrebbe potuto agire in rivendica. E in effetti, sotto il vigore del codice civile del 1865 alcuni autori parlavano di “rivendicazione dell’indebito”83, o attribuivano alla ripetizione dell’indebito una funzione sussidiaria rispetto alla rivendica, ammettendo il ricorso alla condictio nelle sole ipotesi di impossibilità dell’azione reale. Anche la mancanza di un’azione diretta per il recupero della cosa nei confronti del terzo acquirente sembrava legittimare l’idea dell’efficacia traslativa dell’indebito.
Ma in realtà, secondo Xxxxxxxx00 la condictio non sarebbe stata comunque inutile in quanto presentava l’enorme vantaggio di prescindere dalla difficile prova del
81 XXXXXXXX La ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 56.
82 SCUTO op. cit., pp. 9 e 13.
83 FERRARA sr. Sul concetto dei negozi astratti e sul loro riconoscimento, in Rivista di diritto commerciale, I, 1904, pp. 281 e ss.
84 La ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 67.
diritto di proprietà in capo al soggetto che intendesse esercitarla. E del resto la circostanza che il solvens sia e rimanga proprietario e che l’accipiens sia un mero possessore secondo l’autore85, sarebbe confermata anche dalla lettera della norma che parlava di ripetizione, termine che nel linguaggio legislativo del c.c.1865 (artt. 708, 1552) faceva riferimento alla restituzione del possesso.
Per Xxxxxxxx quindi la solutio sarebbe un negozio causale e non un negozio astratto. La non realizzazione della causa solvendi comporterebbe quindi la nullità della dazione, ma nonostante la nullità si realizzerebbe comunque uno spostamento patrimoniale non giustificato dal solvens all’accipiens, avente ad oggetto il possesso. Ci sarebbe una stretta relazione tra l’attribuzione patrimoniale effettuata e la sua causa: la volontà di effettuare l’attribuzione è infatti subordinata al realizzarsi di un quid la cui rappresentazione è determinante per l’agente. La mancanza di quel quid rende ingiustificato lo spostamento patrimoniale e a ciò l’ordinamento reagisce con la ripetizione.
Nell’attuale sistema codicistico, in mancanza di un’espressa indicazione normativa, occorre interrogarsi sul problema dell’efficacia traslativa dell’indebiti solutio.
Innanzitutto non si può asserire aprioristicamente che il pagamento (anche quello dovuto) realizzi sempre efficacia traslativa. Questa considerazione, infatti dà per presupposta l’efficacia negoziale del pagamento in genere, quando invece, come visto sopra, ciò che si può affermare con certezza è solo che il pagamento produce sempre un’attribuzione patrimoniale, senza che da ciò possa dedursi automaticamente la sua natura negoziale.
D’altra parte non è neanche possibile sostenere che soltanto il pagamento “causale”, ovvero giustificato da una sottostante obbligazione, possa avere effetto traslativo per la sola circostanza che nel nostro ordinamento non è ammesso un negozio astratto di trasferimento. Infatti, la proprietà può essere acquistata sia tramite negozi, sia attraverso atti o fatti giuridici di natura non negoziale. L’art. 922 c.c. nell’elencare i modi di acquisto della proprietà rinvia genericamente agli “altri modi stabiliti dalla legge” e nulla esclude che uno di questi modi possa essere il pagamento dell’indebito.
85 XXXXXXXX La ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 76.
Occorre dunque verificare se la posizione dell’accipiens nei confronti della res
possa assimilarsi a quella del dominus o piuttosto a quella del possessore.
Ciò non può dedursi automaticamente dai pochi indici normativi, quali ad esempio l’art. 2037 c.c. nella parte in cui pone sull’accipiens (di mala fede) il rischio del perimento del bene oggetto della solutio. Infatti una tale distribuzione del rischio potrebbe anche essere giustificata non dal principio res perit domino, ma da una sorta di “titolarità formale” dell’accipiens. Sicuramente quest’ultimo, in quanto obbligato alla restituzione di una res indebitamente ricevuta è un debitore particolare, sul quale grava il rischio del perimento della res se in mala fede, ma su cui di contro non incombe la responsabilità per l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, anche se a lui imputabile, quando è in buona fede (art. 2037 c.c.). D’altra parte la titolarità del diritto di proprietà da parte dell’accipiens non potrebbe farsi dipendere dallo stato soggettivo con il quale questi ha ricevuto la prestazione. La norma in questione dunque non appare decisiva per l’attribuzione della qualità di dominus all’accipiens.
Non è indicativo in tal senso neanche il regime degli acquisti dei terzi aventi causa dall’accipiens, di cui al’art. 2038 c.c. Si dice infatti che o bisogna ammettere che detta disciplina si fondi sulla circostanza che l’accipiens in quanto proprietario è legittimato a disporre del bene, salva la sua responsabilità nei confronti del solvens per inadempimento dell’obbligo di restituzione, oppure si deve ritenere che l’art. 2038 c.c. codifichi una fattispecie di acquisto a non domino diversa da quelle disciplinate agli artt. 1153 e ss. c.c.
Tuttavia è anche vero che regole simili a quella di cui all’art. 2038 c.c. sono contenute anche nell’art. 535, II comma relativamente all’alienazione di beni da parte del possessore di beni ereditari, e nell’art. 1776 c.c che disciplina gli obblighi restitutori che gravano sull’erede del depositario che abbia alienato la res depositata. E in entrambi i casi l’alienante non è un dominus, sebbene gli esiti della sua alienazione non siano diversi da quelli disciplinati ex art. 2038 c.c.. Non è dunque possibile dedurre neanche da questa norma un indice sicuro circa l’acquisto della proprietà da parte dell’accipiens.
Se dunque è vero che non sempre vi è incompatibilità tra acceptio sine causa e acquisto del dominium, è altrettanto vero che questo non si può nemmeno considerare una conseguenza automatica del pagamento. In più, se nella maggior parte delle ipotesi l’acceptio implica quanto meno il sorgere in capo all’accipiens del possesso in senso tecnico, ciò non è scontato, ben potendo in alcuni casi la traditio essere idonea esclusivamente al sorgere di una detenzione. In definitiva la normativa sul pagamento dell’indebito lascia adito a perplessità circa la definizione della situazione giuridica dell’accipiens nei confronti della res e induce a ritenere che alla solutio indebiti non si ricolleghino effetti costanti e omogenei, ad eccezione della necessaria modificazione, seppure provvisoria della sfera patrimoniale dell’accipiens.
Inoltre la disciplina di cui agli artt. 2033 e ss. c.c. non fa distinzioni tra il pagamento non dovuto eseguito dal proprietario e quello eseguito dal non è proprietario delle res consegnate. Ed è evidente come in quest’ultimo caso difficilmente potrà riconoscersi efficacia traslativa alla solutio, mancando la titolarità del diritto di proprietà in capo allo stesso solvens: qui l’accipiens acquisterà la proprietà solo in presenza dei requisiti di cui all’art. 1153 c.c., perché non si può sostenere che in questa materia l’ordinamento abbia inteso derogare alle disposizioni circa gli acquisti a non domino. La disciplina dell’indebito sembra da questo punto di vista ispirata a una ratio unitaria che non autorizza discriminazioni tra solvens dominus e solvens non dominus. Tuttavia in quest’ultimo caso sembra difficile pensare di poter paralizzare un’azione di rivendica del vero proprietario non solvens nei confronti di un accipiens indebiti di mala fede che abbia ricevuto in pagamento una res determinata da parte di un solvens non proprietario. Un’esclusione della rivendica da parte del solvens si potrà prospettare esclusivamente nell’ipotesi in cui l’accipiens sia diventato proprietario ex art. 1153 c.c. Infatti solo chi ha ricevuto in buona fede un pagamento non dovuto a non domino potrà validamente opporsi alla pretesa del precedente proprietario, ma sarà sempre tenuto alla restituzione nei confronti del solvens, in base alle regole dell’indebito.
La questione si complica ulteriormente se consideriamo che un accipiens indebiti
può essere in buona fede circa la propria legittimazione a ricevere e in mala
fede circa la provenienza a non domino dell’oggetto del pagamento, e viceversa. Nel primo caso l’accipiens dovrà restituire al solvens i frutti e gli interessi dal momento della domanda perché in buona fede nei suoi confronti ai sensi dell’art. 2036, II comma c.c., mentre nei confronti del dominus lo stesso soggetto in quanto possessore di mala fede dovrà restituire i frutti percepiti e percipiendi dal momento in cui ha acquistato il possesso ai sensi dell’art. 1148 c.c.
La spiegazione delle incertezze interpretative circa l’efficacia traslativa del pagamento indebito va probabilmente ricercata proprio nell’origine storica dell’istituto. Infatti la solutio indebiti romanistica, alla quale seguiva normalmente il trasferimento del dominium, inserita nel contesto del sistema napoleonico basato sul principio consensualistico ma anche sulla necessaria causalità dei negozi traslativi, comportò l’insorgere di inevitabili contraddizioni86.
I giuristi romani distinguevano la traditio come fonte di un effetto traslativo e come fonte di un effetto restitutorio. Il fondamento del “dare per riottenere” poteva essere rinvenuto o in un elemento soggettivo (la volontà) o in un elemento oggettivo (la mancanza di causa). Se si seguiva la prima tesi però, bisognava postulare l’esistenza di un tacito accordo volto alla restituzione della res nell’ipotesi in cui quest’ultima risultasse non dovuta (su questo assunto si fondava come visto la tesi del promutuo e la categoria dei quasi contratti). Ma poiché tale tacito accordo era da considerarsi una mera fictio ed era escluso ogni volta che il solvens versasse in errore, risultava più sicuro il fondamento oggettivo della condictio indebiti, basato sulla mancanza di causa del pagamento. Tuttavia, poiché si riteneva che la mera traditio, quale negozio astratto fosse da sola sufficiente a produrre l’effetto traslativo, risultava difficile affermare che il difetto di causa del pagamento di per sé giustificasse il sorgere dell’obbligazione restitutoria. Si concludeva dunque nel senso che ciò che rilevava non era la mancanza di causa del trasferimento, bensì della retentio. L’obligatio ex indebito aveva dunque come presupposto l’acquisto del domimium da parte dell’accipiens e postulava il difetto di una causa retentionis.
86 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit. pp. 49 e ss.
Ciò che appare singolare di questa ricostruzione è però la duplicazione del concetto di causa. Infatti normalmente la causa di un acquisto dovrebbe essere idonea a giustificarne anche la permanenza. Questo a meno di non volere aderire alla ricostruzione di Xxxxxxxx secondo cui nel diritto romano il pagamento indebito non aveva in realtà efficacia traslativa e dunque non sorgeva alcun conflitto tra una acceptio giustificata e una retentio ingiustificata.
Successivamente, nel diritto comune si affermò l’idea secondo la quale il debitum doveva essere giustificato sia sotto il profilo della causa civilis, sia sotto il profilo della causa naturalis. Quest’ultima racchiudeva le istanza etiche sottese allo spostamento patrimoniale e consentiva di far affiorare quelle esigenze equitative che non trovavano tutela nello strictum jus. Se mancavano entrambe le cause, si concretizzava un pagamento indebito per definizione e dunque il ricorso alla condictio era in re ipsa. Si ricorreva alla condictio anche nell’ipotesi in cui facesse difetto la sola causa naturalis. Nel caso in cui invece facesse difetto la sola causa civilis, sussistendo però la causa naturalis, non si applicava l’istituto della condictio indebiti, ma al contrario si realizzava la soluti retentio e dunque era possibile trattenere ciò che fosse stato spontaneamente adempiuto. Secondo questa impostazione, quindi, la stabilità dell’effetto solutorio era ricollegabile alla presenza della causa naturalis. Il conseguimento dei risultati pratici previsti e racchiusi nel concetto di causa naturalis era dunque decisivo, ma non per la validità della fattispecie, che dipendeva dall’esistenza della causa civilis, ma per la salvezza degli effetti prodotti.
La codificazione napoleonica e l’affermazione del principio consensualistico conducono, com’è noto, al tramonto della distinzione tra modus e titulus adquirendi. La traditio degrada da datio con efficacia traslativa a mera consegna. Ciò avrebbe dovuto condurre coerentemente ad escludere l’efficacia traslativa della prestazione isolata priva di causa. Infatti, la semplice circostanza che in alcune ipotesi sia comunque giustificata la retentio a prescindere dal fondamento giustificativo del pagamento non è detto che trovi spiegazione nella traslatività della traditio sine causa, ben potendo trovare motivazione altrove, ad esempio nell’esigenza di protezione anche dei terzi subacquirenti.
Secondo autorevole dottrina87, anche oggi, nel nostro ordinamento il problema va impostato e risolto tenendo presente che il concetto di causa dell’acquisto non può essere confuso con quello di giusta causa dell’attribuzione patrimoniale. Col primo si intende il mero meccanismo produttivo dell’effetto, col secondo la giustificazione sostanziale di un effetto attributivo. Il difetto di giustificazione teleologica dell’effetto, non incide direttamente sull’esistenza di quest’ultimo, ma determina il sorgere di un rapporto obbligatorio diretto alla restituzione. L’acquisto e la retentio hanno una duplice e distinta giustificazione causale: la prima consiste nella regolarità dei mezzi di movimento della ricchezza; la seconda viene a giustificare in maniera definitiva l’acquisto avvenuto nel patrimonio dell’accipiens. Il titulus adquirendi è dunque idoneo a produrre l’acquisto ma non a renderlo inattaccabile da ogni pretesa restitutoria. L’istituto dell’indebito si caratterizza quindi per un peculiare meccanismo interno che impone di tenere distinto il momento dell’acceptio dalla giustificazione dell’acquisto medesimo, e dunque l’obbligazione ex art. 2033
c.c. è ammessa o esclusa in base a una valutazione dei requisiti legali che valgono a rendere stabile l’attribuzione.
È vero che può forse apparire un po’ artificiosa l’idea di sdoppiare la nozione di causa, poiché essa è giustificazione dello spostamento patrimoniale nel suo complesso, e dunque distinguendo tra causa dell’attribuzione e causa della ritenzione non si fa altro che guardare allo stesso fenomeno da due diversi punti di vista: quello del solvens e quello dell’accipiens. Tuttavia una tale distinzione può essere utile, come vedremo (v. cap. III par. 2) per giustificare il ricorso alla condictio indebiti in ipotesi in cui, pur non mancando una causa del trasferimento, il solvens abbia titolo per pretendere la restituzione della res.
Invero la rivoluzione copernicana realizzata con l’introduzione del principio consensualistico, ha sulla fattispecie in questione effetti più significativi di quanto non appaia a una prima lettura. E’ infatti il consenso che realizza l’effetto traslativo, e che deve essere sorretto da una valida causa. Il pagamento si atteggia a mero atto esecutivo, privo di valenza negoziale, e dunque privo anche di autonoma efficacia traslativa. La circostanza che esso si riveli non
87 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit., pp. 95 e ss. e pp.136 e ss.
dovuto è fatto esterno che si apprezzerà sul piano delle conseguenze normative come disciplinate dagli artt. 2033 e ss. ma ciò non vuol dire che l’accipiens indebiti non possa acquistare la proprietà. Anzi sembra proprio il contrario dato che l’art. 2038 c.c. gli consente di alienarla con gli effetti di un comune trasferimento a domino. Ma la proprietà non viene acquistata in forza del pagamento in sé, che non ha e non può avere gli effetti della romanistica traditio, bensì in forza della causa sottesa al pagamento e ad esso esterna. La mancanza di una giustificata retentio legittima la ripetizione.
12. Ripetizione dell’indebito e arricchimento senza causa.
Il rapporto tra la ripetizione dell’indebito e l’arricchimento senza causa merita attenta considerazione. È diffusa, come si diceva, l’opinione secondo la quale il fondamento dell’istituto dell’indebito sia da cercare nella reazione dell’ordinamento verso gli spostamenti patrimoniali ingiustificati. Questo principio, di cui la normativa in materia di indebito sarebbe concreta applicazione, è chiaramente esplicitato nell’art. 2041 c.c., norma che quindi avrebbe dovuto, a rigore, precedere nella sistematica del codice, la disciplina dell’ indebito.
Tuttavia il legislatore ha optato per una diversa collocazione degli articoli in questione e ciò perché in realtà, il generale principio del divieto di arricchimento ingiustificato non è l’origine, bensì l’approdo di una complessa elaborazione che affonda le sue origini nella giurisprudenza romana e che ha, come visto sopra, progressivamente generalizzato e ricondotto a unità le singole ipotesi di condictiones. Pertanto l’art. 2041 c.c. assume nel nostro codice non tanto la funzione di norma enunciativa di un principio generale, a cui seguono le concrete applicazioni dello stesso, quanto quella di norma di chiusura, che garantisce una tutela di tipo residuale88.
La disciplina dell’indebito, storicamente si è modellata su una concezione reale, volta alla restituzione di prestazioni di dare; al contrario la disciplina dell’arricchimento si ispira a una concezione patrimoniale della restituzione e
88 XXXXXXXX voce Ripetizione dell’indebito, op. cit., p. 1225.
mira a far ottenere all’impoverito un indennizzo monetario. In realtà secondo una parte della dottrina89 questa rigida bipartizione è smentita dal dato normativo di cui agli artt. 2037-2038 c.c., dai quali sembra emergere come il legislatore in materia di indebito abbia adottato un sistema di tipo “misto”. Infatti, dette norme sembrano ispirarsi a una concezione patrimoniale, quando prevedono che in caso di perimento della cosa, l’accipiens di buona fede, pur essendo liberato da qualsiasi responsabilità nei confronti del solvens per il perimento o il deterioramento della cosa, sia chiamato a rispondere nei limiti del suo arricchimento. Dunque l’esonero del percipiente di buona fede per il perimento o deterioramento della cosa è da ricondurre alla concezione reale dell’arricchimento poiché il venir meno della cosa da restituire comporta l’estinzione della pretesa del solvens. Invece l’obbligo di restituire l’arricchimento si ispira a una concezione patrimoniale per cui si deve tener conto delle ripercussioni della prestazione sul patrimonio del percipiente. Se il legislatore avesse seguito una concezione reale pura, il rischio del perimento sarebbe gravato integralmente sul solvens.
Alla concezione patrimoniale poi sembra fare riferimento anche l’art. 2039 c.c., laddove fa riferimento al vantaggio dell’incapace come limite alla ripetibilità della prestazione effettuata nei suoi confronti.
Tuttavia la circostanza che l’azione di arricchimento sia stata tradizionalmente interpretata come l’unico rimedio improntato a una concezione patrimoniale della restituzione, ha spinto una parte della dottrina a considerarla lo strumento più idoneo per il recupero delle prestazioni di fare90. Secondo questa impostazione, anche quando l’arricchimento ha per oggetto una cosa determinata che in quanto tale viene restituita (art. 2041, II comma c.c.), ciò dipenderebbe dal fatto che la realità della pretesa coincide con la valutazione dei reciproci vantaggi e svantaggi: se non vi fosse tale coincidenza residuerebbe anche qui il carattere meramente indennitario dell’azione.91
89 MOSCATI Del pagamento dell’indebito in Commentario del codice civile SCIALOJA – BRANCA, artt. 2028-2042, Bologna – Roma 1981, pp. 477 e ss.
90 BARASSI, Teoria generale delle obbligazioni, op. cit., pp. 363 e ss. In giurisprudenza tra le tante Xxxx. 359/1966 in Giustizia civile, I, 1966, pp. 869 e ss.
91 BRECCIA voce Ripetizione dell’indebito in Enciclopedia giuridica, vol. XVI, Roma 1989, p. 3.
Nell’ottica dell’indebito si dovrà restituire per equivalente la prestazione effettivamente eseguita, invece nella prospettiva dell’azione di arricchimento l’indennità è commisurata al’incremento patrimoniale del creditore che corrisponderà al valore reale della prestazione eseguita. Il creditore della prestazione di fare, per compensazione conseguirà una restituzione in denaro pari alla differenza tra l’ammontare del corrispettivo pagato e il valore effettivo della prestazione ricevuta.92
Il problema dello strumento utilizzabile per la restituzione delle prestazioni di fare, perse gran parte della sua rilevanza pratica con l’introduzione dell’art. 2126 c.c. che esclude la ripetizione della prestazione lavorativa effettuata sulla base di un contratto invalido.93 In questa ipotesi si è affermato94 che si può comunque postulare un adempimento sorretto da una giusta causa, consistente nella prestazione di fatto, accompagnata dalla conoscenza del datore di lavoro e dalla non opposizione del medesimo.
Tuttavia la questione rimase aperta per le prestazioni di fare diverse da quelle lavorative. Seguendo l’impostazione tradizionale, infatti, il solvens che esegue una prestazione indebita di fare si trova in una posizione deteriore rispetto a chi esegue una prestazione di dare. Egli infatti otterrà ristoro solo nei limiti dell’arricchimento e solo dimostrando il nesso tra arricchimento e impoverimento. Per ovviare a questo inconveniente la giurisprudenza95 ha accolto un’interpretazione estensiva idonea ad assoggettare alla disciplina di cui agli artt. 2033 e ss. c.c. ogni tipo di prestazione non dovuta: basta dimostrare l’avvenuta esecuzione della prestazione e la mancanza del titolo in virtù del quale tale esecuzione ha avuto luogo96. Si è posto però il problema, se fosse più corretto applicare alle prestazioni di fare la norma generale di cui all’art. 2033 x.x. xxxxxx x’xxx. 0000 x.x., xxxxxxxxxxx xx un’ipotesi in cui è effettivamente impossibile una restituzione in natura. Tuttavia si è osservato che l’art. 2037
c.c. si applica alle ipotesi di impossibilità sopravvenuta attribuibile a eventi
92 ROPPO, Trattato, op. cit. p. 392.
93 XXXXXXXX op. cit., p. 1226.
94 SPADAFORA Profili dell’atto solutorio non dovuto, Milano 1996, pp. 118-119.
95 E multis Cass. 2029/1982, in Mass. Giust. Civ. 1982, fasc.4.
esterni, mentre nel nostro caso l’impossibilità di restituzione in natura è originaria e strutturalmente insita nella natura stessa della prestazione che è suscettibile di restituzione solo per equivalente. Per questo si ritiene più coerente l’applicazione anche a questa ipotesi dell’art. 2033 c.c., che peraltro non costringe a distinguere a seconda dello stato di buona o mala fede dell’accipiens97. (v. anche par. 9 cap. II).
Posto che le prestazioni di fare possono restituirsi solo per equivalente, si pone il problema della loro quantificazione. L’alternativa che si pone è quella o di determinare la somma da restituire in base all’importo stabilito nel contratto, oppure stimarne l’effettivo valore in base a parametri oggettivi. La prima soluzione si presenta molto agevole sul piano pratico data l’automaticità del calcolo, e tuttavia attribuendo rilievo alla valutazione operata dalle parti nel contratto si determina una sorta di reviviscenza del sinallagma, il che equivale a vanificare sostanzialmente gli effetti della caducazione 98. Pertanto la seconda soluzione appare preferibile, nonostante comporti la possibilità per il percipiente di restituire una somma superiore rispetto a quanto pattuito in contratto. A ciò si potrebbe ovviare con alcuni correttivi, ad esempio imponendo una restituzione nella minor somma tra il corrispettivo pattuito e il valore oggettivo.
13. Rinvio
Ricostruiti come sopra i termini della nostra indagine, occorre ora entrare nel vivo della trattazione verificando se e con quali conseguenze la disciplina dell’indebito possa trovare applicazione in materia di restituzioni conseguenti alla caducazione del contratto.
Infatti l’art. 2033 c.c. fa genericamente riferimento a un pagamento non dovuto, ma occorre chiedersi se rimanga priva di rilievo la circostanza che la mancanza della causa solvendi piuttosto che essere originaria sia sopravvenuta99.
97 ALBANESE Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, op. cit., pp. 467 e ss. BRUNI op. cit. pp. 230, 231 Così suggerisce Cass. 865/1964 in Giustizia civile 1964, I, pp. 1605-1608.
98 BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit. p. 459, nota 107
99 In senso affermativo Xxxx. 14084/2005; Cass. 2814/1995; Cass. 5472/1983; Cass. 1622/1979.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale100 infatti, non è necessario per adire la tutela ex indebito, che le parti fossero del tutto estranee tra loro, ben potendo l’inefficacia o la caducazione del titolo giuridico che giustifica la ritenzione della res derivare da impugnativa di un contratto tra le stesse intercorso. Questa posizione è recepita anche da una parte della dottrina101. Tuttavia è dato ritrovare anche una tesi più restrittiva102, secondo la quale per poter applicare la disciplina in materia di pagamento dell’indebito è necessario che le parti non siano mai state in rapporto tra loro, nonché una tesi intermedia103 secondo la quale la tutela de qua è esperibile per le restituzioni conseguenti all’invalidità del contratto per nullità e annullamento, ma non per le impugnative che comportano lo scioglimento del rapporto quali la risoluzione e la rescissione.
Queste ipotesi dovranno ora essere attentamente vagliate tenendo presenti le conseguenti ricadute applicative.
100 E multis Cass. 1622/1979 in Mass. Giust.. Civ. . 1979, p. 734.
101 XXXXXXXX Ripetizione dell’indebito, op. cit. pp. 1223 e ss.
102 XXXXXX Teoria del negozio giuridico, Padova 1961, pp. 70 e 71; ARGIROFFI Sul concorso delle azioni di rivendicazione e di ripetizione in Rivista di diritto civile, 1976, II, pp. 608 e ss; ID. Ripetizione di cosa determinata e acquisto a domino della proprietà, Milano 1980, pp. 147 e 194.
103 BENATTI Il pagamento con cose altrui, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
1976, pp. 476 e ss.
CAPITOLO II
1. La condictio indebiti in materia contrattuale.
La tutela restitutoria consiste nel ristabilire le condizioni di fatto e di diritto che caratterizzavano un determinato assetto giuridico, prima che intervenisse un’alterazione dello stesso contra ius o comunque sine causa. Anche la tutela risarcitoria assolve a una funzione in qualche modo ripristinatoria dello stato di fatto precedente. Ma essa reagisce a un danno prodotto assicurandogli una compensazione pecuniaria, che non lo elimina materialmente, bensì lo neutralizza in senso economico. La restituzione invece, prescinde dal danno e dalla sussistenza di un’altrui condotta dolosa o colposa104: essa è strumento di reazione verso la violazione di un diritto, l’appropriazione di utilità che sono di spettanza altrui o ancora verso spostamenti patrimoniali ingiustificati. La tutela restitutoria dunque, a differenza di quella risarcitoria, sfugge a una qualificazione unitaria, poiché assume carattere reale o personale a seconda del fatto cui intende reagire: ad esempio si atteggerà a tutela reale laddove reagisca alla lesione di un diritto reale; avrà invece carattere personale qualora abbia riguardo a spostamenti patrimoniale ingiustificati105.
In ambito contrattuale, l’obbligo restitutorio può sorgere innanzitutto in ipotesi fisiologiche, che costituiscono una conseguenza diretta e immediata del contratto: è il caso, ad esempio dell’obbligo di restituzione di somma di danaro o di cose fungibili ricevute a mutuo (art. 1813 c.c.) ovvero all’obbligazione restitutoria del depositario irregolare (art. 1782, 1° comma, c.c.), del comodatario (art. 1803, 1° comma, c.c.) o del conduttore (art. 1590 c.c.). In tutte queste ipotesi, che esulano dalla presente trattazione, la restituzione costituisce una delle obbligazioni fondamentali del contraente-accipiens ed è la conseguenza non di una mancanza successiva della causa solvendi, ma del fatto
104 SCOGNAMIGLIO Il risarcimento del danno in forma specifica in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1957, p. 209.
105 DI MAJO La tutela civile dei diritti, Milano 2003, pp. 319 e ss.
che il rapporto ha esaurito la sua efficacia. Ma la tutela restitutoria sorge anche nelle ipotesi patologiche in cui il vincolo viene caducato con efficacia retroattiva tra le parti, e dunque, come visto nel capitolo precedente, nel caso in cui il contratto sia nullo, annullato, rescisso o risolto, o ancora nel caso di avveramento di una condizione risolutiva.106 Venendo meno il titolo con efficacia ex tunc, infatti, è come se i trasferimenti e le prestazioni effettuate sulla base di esso fossero state eseguite fin dall’origine sine causa: esse dunque saranno ripetibili secondo la disciplina dell’indebito di cui agli artt. 2033 e ss., disciplina peraltro espressamente richiamata dagli artt. 1422 x.x., xx xxxx xx xxxxxxx, x 0000 x.x. xx xxxx di risoluzione.
Tuttavia la scelta di regolamentare la tutela restitutoria in ambito contrattuale, mediante un rinvio alla disciplina della condictio indebiti, se apparentemente risulta lineare e coerente con il sistema, presenta a un’analisi più attenta molteplici profili problematici, che si passeranno analiticamente in rassegna nei prossimi paragrafi.
In proposito si può subito anticipare che una parte della dottrina esclude una generale applicabilità della disciplina dell’indebito in materia di caducazione contrattuale107, osservando tra l’altro che le norme sulla condictio sono effettivamente richiamate solo negli artt. 1422 e 1463 c.c. e non nelle altre ipotesi di caducazione del contratto108, e che la ripetizione dell’indebito sembra pensata solo per le restituzioni tra persone che non furono mai in rapporto fra loro109. Altri autori, invece aderiscono alla tesi tradizionale per cui le restituzioni contrattuali sono governate dagli artt. 2033 e ss110. Pertanto essi colgono negli artt. 1422 e 1463 c.c. non un rinvio parziale, bensì l’espressione di un principio generale, valido per tutte le ipotesi di caducazione, ed
106 Disciplinano il regime delle restituzioni conseguenti alla caducazione del contratto anche la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose mobili (art. 81, comma 2), i Principi Unidroit (art. 7.3.6.) e i Principi di diritto europeo dei contratti che dedicano ben tre articoli (9.307
– 9.308 – 9.309) alla disciplina delle restituzioni. I Principi Lando, peraltro, sembrano ispirarsi all’idea dell’irretroattività della risoluzione.
107 DI MAJO Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo in Europa e diritto privato 2001 pp. 546 e ss.
108 BARCELLONA Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione
in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1965, I, pp.11 e ss.
109 XXXXXX Teoria del negozio giuridico, Padova, 1961, p. 71
110 ROPPO Il contratto, in Trattato di diritto privato IUDICA ZATTI, Milano 2001, p. 949.
esplicitato solo laddove il legislatore ha fatto espresso riferimento agli obblighi restitutori111. Anche una parte della giurisprudenza112 afferma che la disciplina di cui all’art. 2033 c.c. vada estesa a tutte le ipotesi di mancanza originaria o sopravvenuta di causa solvendi, indipendentemente dalla preesistenza o meno di un rapporto tra le parti.
Una tesi intermedia113 sostiene poi che debba essere accertato di volta in volta rispetto ad ogni azione di restituzione se essa rientri nell’ambito di applicazione degli artt. 2033 e ss. c.c. La disciplina dell’indebito sarà dunque applicabile laddove l’effetto caducatorio travolga, seppure entro determinati limiti, anche i diritti dei terzi e quindi nelle ipotesi di invalidità del contratto. Non lo sarà invece nelle ipotesi di rescissione e di risoluzione, che non sono dotate di retroattività reale.
2. Gli artt. 1422 e 1463 c.c.: norme eccezionali o espressione di un principio generale?
Il richiamo alla disciplina dell’indebito in materia di azioni di impugnativa contrattuale è contenuto solo in due norme del codice civile: l’art. 1422 in materia di nullità e l’art. 1463 in materia di risoluzione per impossibilità sopravvenuta114. Come si accennava nel precedente paragrafo, la parzialità del rinvio ha suscitato perplessità tra gli interpreti.
111 MOSCATI Del pagamento dell’indebito in Commentario al codice civile SCIALOJA - BRANCA, artt.2028-2042, Bologna – Roma 1981, p.146.
112 Cass. 1558/1971; Cass. 2459/1966, in Giurisprudenza italiana, I, 1968, 208 e ss.; Cass. 1190/1963 in Giurisprudenza italiana, I, 1964, 812 e ss.; Cass. 235/1962 in Foro italiano, I, 1962, 676 e ss.; Cass. 131/1957 in Giurisprudenza italiana, I 1957, 979 e ss. : in queste pronunce si afferma il principio per cui la disciplina dell’indebito oggettivo si applica sia quando manca la causa contrattuale originaria sia quando essa, originariamente esistente, sia venuta meno (condictio ob causam finitam).
113 BENATTI Il pagamento con cose altrui, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile,
1976, pp. 476 e ss.
114 Secondo NICOLUSSI, (Lesione del potere di disposizione e arricchimento, Milano 1998, p. 140), si potrebbe forse adombrare un implicito rinvio anche in tema di annullamento in forza del combinato disposto degli artt. 1443 e 2039 c.c.
Coloro115 che negano la generale applicabilità delle norme in materia di indebito alle restituzioni contrattuali, tendono a svalutare la portata di questi rinvii. In quest’ottica, si osserva, argomentando anche dalla Relazione al Codice n. 650, che nell’art. 1422 c.c. l’intento del legislatore è stato solo quello di determinare il consolidamento della nuova situazione giuridica creata dal contratto nullo, attraverso il decorso di un dato tempo dall’adempimento. È significativo, infatti che la norma si riferisca contemporaneamente, facendoli salvi, agli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione. In questo modo, senza contraddire all’imprescrittibilità dell’azione caducatoria, essa viene di fatto svuotata di rilevanza sul piano degli effetti. Se ciò appare coerente per quanto riguarda l’usucapione, realizzando essa un acquisto della proprietà a titolo originario per sua natura destinato a “doppiare” e a sanare i vizi degli acquisti a titolo derivativo, più problematica è la scelta legislativa per quanto concerne la prescrizione delle azioni di ripetizione. Considerando infatti che il negozio nullo è totalmente improduttivo di effetti fin dall’origine occorre chiedersi quali siano gli effetti salvati dalla prescrizione. In proposito si deve partire dall’assunto che gli effetti della prescrizione abbiano una rilevanza autonoma rispetto all’usucapione. Ciò non tanto per la mancata coincidenza dei termini temporali dei due istituti, (venti anni per l’usucapione, dieci per la prescrizione), quanto piuttosto per il dato letterale dell’art. 1422 c.c. che distingue usucapione e prescrizione e che costringe a valutare separatamente le due ipotesi di salvezza previste dalla norma. La prima concerne un acquisto a titolo originario da parte dell’avente causa. La seconda opera sul piano strettamente processuale e solo forzatamente può considerasi come una fattispecie acquisitiva, perché interviene su situazioni giuridiche già perfettamente realizzate nei loro presupposti.
Pertanto si può ipotizzare che la solutio come fattispecie acquisitiva autonoma rispetto al negozio invalido, sia di per sé idonea a produrre effetti che si consolidano con la prescrizione dell’azione. La pretesa diretta a ottenere la restituzione di quanto si è pagato in base a un contratto nullo non sarebbe
115 DI MAJO Il regime delle restituzioni contrattuali nel diritto comparato ed europeo, op. cit. pp.
546 e ss. BARCELLONA Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, op. cit., pp.11 e ss.
allora un mero riflesso materiale della pretesa volta a far dichiarare la nullità, ma avrebbe una specifica rilevanza ricollegandosi al fatto del pagamento come fonte di effetti distinti. Il decorso del tempo in quest’ottica inciderebbe sull’azione di nullità in due modi diversi: con l’usucapione, determinando l’insorgenza di un nuovo diritto; con la prescrizione rendendo definitivo l’acquisto già verificatosi in conseguenza dalla solutio, ma qualificato indebito e dunque suscettibile di essere rimosso con la condictio. 116
Laddove invece si ritenga che non sia possibile assegnare efficacia autonoma al mero atto della solutio, e dunque individuare una fattispecie acquisitiva diversa dall’usucapione e dallo stesso negozio nullo, se ne deve dedurre che sia quest’ultimo, a prescindere da qualsiasi forma di conversione o eccezionale sanatoria, ad assumere il ruolo di fatto acquisitivo117. Il negozio nullo, infatti, per quanto improduttivo di effetti ab origine, non è inesistente: è comunque un “simulacro di contratto” in grado di produrre uno spostamento patrimoniale, seppure precario, o meglio in attesa di essere consolidato.
Il richiamo all’azione di ripetizione contenuto nell’art. 1422 c.c. non può dunque considerarsi come regola eccezionale, insuscettibile di applicazione alle altre ipotesi di caducazione del contratto per vizi originari (annullamento e rescissione). L’argomento utilizzato dalla dottrina per svalutare la portata dell’art. 1422 c.c. può infatti essere utilizzato a contrario per dimostrare che il rinvio alla disciplina dell’indebito è dato per presupposto dal legislatore. A ben vedere infatti la norma non si preoccupa di affermare espressamente che le restituzioni conseguenti alla nullità del negozio sono regolate ai sensi degli artt. 2033 c.c., previsione che avrebbe legittimato il dubbio circa l’estensione del rinvio a fattispecie diverse nelle quali esso non è espressamente previsto. Essa si limita a far salvi gli effetti della prescrizione dell’azione di ripetizione, dando per assodato che le restituzioni siano disciplinate secondo la disciplina dell’indebito. Lo scopo della norma sembra quindi essere quello di precisare che anche attraverso un negozio nullo è possibile realizzare uno spostamento patrimoniale suscettibile di consolidarsi con il decorso del tempo. Precisazione
116 SPADAFORA Profili del’atto solutorio non dovuto, Milano 1996, pp. 98-99.
117 BARCELLONA op. cit. pp.37 e ss. , p. 95.
che in relazione al contratto annullabile o rescindibile, i quali sono dotati di efficacia, seppure precaria, non si rendeva necessario effettuare.
Nell’ambito delle norme relative all’inefficacia sopravvenuta del rapporto contrattuale, il richiamo alla disciplina dell’indebito compare invece solo nell’art. 1463 c.c.. Ciò ha avvalorato la convinzione di coloro che negano una generalizzata applicabilità dell’indebito alle azioni di caducazione contrattuale.118 Si afferma infatti che in questo caso la restituzione ha un fondamento diverso rispetto alle altre ipotesi di risoluzione, perché la sopravvenuta impossibilità della prestazione determina il difetto di causa dell’attribuzione e questo a sua volta fonda la risolubilità del contratto. In realtà nel nostro sistema in cui il contratto è insieme titulus e modus adquirendi, non è dato ravvisare questo doppio passaggio, perché la ripetibilità è direttamente collegata alla rimozione del xxxxxx000. Inoltre, anche ammettendo che tale ragionamento sia corretto, non si spiega perché esso dovrebbe valere solo per il caso dell’impossibilità sopravvenuta e non per le altre ipotesi di risoluzione. Anche in questi casi infatti si determina un difetto (sopravvenuto) di causa dell’attribuzione in grado a sua volta di fondare la risolubilità del contratto.
Altra dottrina120 ritiene che il richiamo contenuto nell’art. 1463 c.c., si spiega perché nella disciplina della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, manca una norma di protezione dei terzi acquirenti, a differenza di quanto accade per le altre ipotesi di risoluzione dove gli artt. 1458 e 1467 c.c. riconoscono all’accipiens un pieno potere di disposizione: l’attore in risoluzione in questi casi non può più aggredire il terzo, che ha acquistato a domino, ma al massimo può agire per l’equivalente verso la sua controparte. Nell’ambito della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, dunque il richiamo espresso alla disciplina dell’indebito colmerebbe questa lacuna, rinviando alla disciplina di cui all’art. 2038 c.c., che prevede un trattamento del terzo acquirente articolato diversamente a seconda della buona o mala fede e della gratuità o onerosità del
118 BARCELLONA op. cit. pp. 43 e ss. e 73 e ss.
119 BRUNI Contributo allo studio dei rapporti tra azione di caducazione contrattuale e ripetizione di indebito in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987, p. 221.
120 NICOLUSSI Lesione del potere di disposizione e arricchimento, Milano 1998, pp. 147 e ss.
suo acquisto. Ciò spiegherebbe anche il perché di un’analoga previsione nell’art. 1422 c.c.: anche lì, infatti, il terzo acquista a non domino e dunque il suo acquisto può essere sacrificato. La distinzione tra acquisti a domino e a non domino giustificherebbe così la diversa disciplina restitutoria, perché mentre i primi sono tendenzialmente inattaccabili, verso i secondi sarebbe ammesso il correttivo dell’azione ex indebito.
Un tale interpretazione tuttavia dà per presupposta la circostanza che l’accipiens di un contratto risolvibile per impossibilità sopravvenuta, non diventi proprietario e dunque il terzo acquisti a non domino. Il che è in realtà indimostrato, perché si tratta comunque di una causa sopravvenuta di caducazione del contratto il quale ha già esplicato i suoi effetti traslativi al momento del perfezionamento. La diversa causa della risoluzione non giustifica una diversa efficacia sul piano traslativo.
L’apparente asimmetria che si verifica all’interno della disciplina della risoluzione, si potrebbe spiegare osservando come nella risoluzione per impossibilità non sia previsto espressamente, a differenza che nelle altre due ipotesi di risoluzione, il principio dell’efficacia retroattiva inter partes, la quale implicherebbe automaticamente la necessità di procedere alle restituzioni: se il rapporto contrattuale tra le parti viene meno retroattivamente, si può sostenere che tra di esse si instauri ex lege un nuovo rapporto volto alla liquidazione e al ripristino dell’equilibrio incrinatosi e costituito dagli obblighi restitutori e dal risarcimento del danno121. L’impossibilità sopravvenuta è invece solo un modo di estinzione dell’obbligazione che non incide di per sé sulla necessità di restituire la controprestazione già eseguita. Non essendo espressamente prevista la sua efficacia retroattiva era dunque necessario disciplinare in modo espresso gli obblighi restitutori.
In realtà considerare l’obbligo restitutorio come mero corollario della retroattività, è un’idea forse troppo semplicistica, che risente ancora di quella tesi, sostenuto sotto il vigore del codice civile del 1865, secondo cui la
121 Come in Germania dove il rapporto contrattuale originario sopravvive trasformato però per quanto riguarda le prestazioni originarie.
risoluzione è l’effetto del verificarsi di una condizione risolutiva di inadempimento implicitamente apposta a tutti i contratti sinallagmatici122.
Tra l’altro se fosse vero quanto appena detto, sarebbe stato forse più semplice inserire nella disciplina della risoluzione per impossibilità sopravvenuta un rinvio all’art. 1458 c.c. che disciplina l’efficacia retroattiva, così come del resto è stato fatto nell’art. 1467 c.c. Risulta infatti difficile comprendere perché il legislatore abbia adoperato due diversi enunciati nell’art. 1458 e nell’art. 1463
c.c. per indicare sostanzialmente la stessa regola, ovvero la retroattività come varco d’accesso alla disciplina dell’indebito, e perché allora in materia di eccessiva onerosità sopravvenuta venga richiamato solo l’art. 1458 c.c. e non il più esplicito art. 1463 c.c..
Tra l’altro, impostando così il problema, si potrebbe arrivare a sostenere che le restituzioni in materia di risoluzione siano regolate in base a due discipline autonome: la retroattività (artt. 1458-1467 c.c.) sarebbe tecnica restitutoria rispetto alla quale resta irrilevante la buona o mala fede dell’accipiens al momento del pagamento, che invece caratterizza l’istituto dell’indebito. Di conseguenza, il difetto di causa del trasferimento non potrebbe che condurre ad uno spostamento patrimoniale uguale e contrario a quello già realizzatosi e non tollererebbe limitazioni agli obblighi restitutori conseguenti ad una valutazione in termini di buona fede della condotta dell’accipiens.123 Quest’ultima invece troverebbe spazio in materia di impossibilità sopravvenuta, dove la disciplina dell’indebito è espressamente richiamata. La buona fede avrebbe anzi in questo caso una funzione di riequilibrio della sopportazione del rischio da sopravvenuta impossibilità della prestazione, perché limiterebbe la restituzione del debitore al suo arricchimento (art. 2037, III comma c.c.), evitando così di gravarlo di ambedue le prestazioni dedotte in contratto, cioè quella a cui era tenuto e quella ricevuta che non può più restituire in natura.
122 DALMARTELLO Risoluzione del contratto in Novissimo digesto, XVI, Torino 1969, p. 130 nota 1.
123 D’ADDA, Gli obblighi conseguenti alla pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento tra restituzioni e risarcimento, in Rivista di diritto civile 2001, II, p. 541.
In questo modo però si spezza l’unità del meccanismo risolutorio, e sembra quasi che rinvio alla disciplina dell’indebito e principio di retroattività, come tecniche che legittimano il meccanismo restitutorio, viaggino su binari paralleli, che si escludono a vicenda, quando è invece pacifico che il principio di retroattività informa anche la risoluzione per impossibilità sopravvenuta.
E’ dunque prima di tutto da un’analisi generale del sistema che emerge la necessità di non assegnare all’art. 1463 c.c. una valenza eccezionale: non si spiega infatti il motivo per cui andrebbe differenziata la disciplina della risoluzione in base alla sua causa. Essa è un fenomeno unitario con il quale l’ordinamento reagisce ad un vizio funzionale del sinallagma e il richiamo contenuto nell’art. 1463 c.c., va esteso ad ogni ipotesi di condictio ob causam finitam. 124 Sembra quindi che nelle ipotesi di inadempimento ed eccessiva onerosità sopravvenuta il legislatore abbia adoperato una formula ellittica. Del resto l’espressa indicazione di un’irripetibilità delle prestazioni già eseguite per i contratti ad esecuzione continuata o periodica (art. 1458, richiamato dall’art. 1467 c.c.), induce a ritenere a contrario che in tutti gli altri casi sia implicito il ricorso all’azione di ripetizione 125
Sembra quindi preferibile sposare la tesi126 secondo cui il richiamo alla disciplina dell’indebito contenuto negli artt. 1422 e 1463 c.c. non avrebbe natura eccezionale, ma sarebbe espressivo di un principio generale: i rinvii espliciti, infatti sono stati inseriti solo laddove il legislatore ha fatto riferimento espressamente agli obblighi di restituzione, mentre sono rimasti impliciti dove si tace in merito ad essi. Anzi la presenza di questo riferimento in una norma relativa all’invalidità del contratto e in un’altra relativa alla risoluzione sembra dare coerenza e omogeneità al sistema, avvalorando l’idea che in materia contrattuale il richiamo alla disciplina dell’indebito prescinde dal fatto che ci si trovi in presenza di vizi originari o sopravvenuti del contratto.
124 ALBANESE Le obbligazioni restitutorie in Le obbligazioni – Fatti e atti fonti di obbligazioni, in Trattato a cura di XXXXXXXX, vol. III, p. 322
125 MOSCATI Del pagamento dell’indebito, op. cit., p. 145.
126 V. in particolare BRECCIA La ripetizione dell’indebito, Milano 1974, pp. 777 e ss.
La disciplina dell’indebito quindi si applica a tutte le restituzioni da caducazione contrattuale, seppure con le difficoltà di coordinamento che si procede ad illustrare.
3. La condizione psicologica dell’accipiens.
Il primo profilo della disciplina dell’indebito che presenta elementi di incompatibilità con la caducazione contrattuale, concerne la condizione psicologica dell’accipiens.
In materia di indebito, infatti la condizione psicologica di buona o mala fede di quest’ultimo, condiziona enormemente il quantum della restituzione, in particolare con riguardo a frutti e interessi (art. 2033 c.c.) nonché per le ipotesi di alienazione (art. 2038 c.c.) e di perimento/deterioramento della res (art. 2037 c.c.).
Xxxxxxx dunque chiedersi in cosa consista la buona fede dell’accipiens indebiti. Viene immediatamente alla mente la nozione di buona fede soggettiva di cui all’art. 1147, I comma c.c., consistente nell’“ignoranza di ledere l’altrui diritto”. Essa nel nostro caso dovrebbe tradursi in incoscienza circa il carattere indebito della prestazione, che deriva dalla sopravvenuta caducazione del contratto127. Una tale ricostruzione presenta però alcune incongruenze. Infatti l’oggetto della conoscenza dell’accipiens non può consistere nel carattere doveroso o meno della prestazione dato che essa, nel momento in cui viene effettuata è effettivamente dovuta proprio in forza del contratto. In questa prospettiva, l’indagine sullo stato psicologico dell’accipiens avrebbe ad oggetto non già la conoscenza all’atto della solutio della natura indebita della prestazione ricevuta, ma la consapevolezza di un’eventuale, futura restitutio128. Ciò appare incongruo soprattutto nel caso di risoluzione, dato che al tempo della solutio essa non può
127 La presunzione di buona fede di cui all’art. 1147 c.c. accolla all’attore l’onere di provare la mala fede del possessore. Per far ciò egli dovrà dimostrare che l’acquisto del possesso non si fondava su circostanza tali da giustificare l’ignoranza di ledere l’altrui diritto e dunque il titolo finisce con l’essere presupposto logico della buona fede. Non sembra possibile configurare un possessore di buona fede che sappia di non avere alcun titolo. (BARASSI Diritti reali e possesso, vol. II, Il possesso, Milano 1952, pp. 225 e ss.)
128 BRECCIA La buona fede nel pagamento dell’indebito in Rivista di diritto civile, I, 1974, p. 165.
essere prevista e dunque l’accipiens dovrebbe considerarsi sempre di buona fede, qualunque sia la causa della sopravvenuta caducazione, dato che ha legittimamente ricevuto una prestazione dovuta in forza del contratto129.
Solleva, apparentemente minori difficoltà l’ipotesi di nullità del titolo, dove il vizio preesiste al pagamento e la consapevolezza di esso comporta consapevolezza della non doverosità della prestazione. Si afferma130 infatti che un atto di trasferimento invalido non può mai fondare nella controparte un possesso di buona fede perché è implicito nella disciplina dell’invalidità il carattere inescusabile dell’eventuale ignoranza che le parti possono avere dei motivi di nullità. Di conseguenza il titolo invalido non può essere considerato come iusta causa possessionis perché l’accipiens non può ignorare senza colpa la causa di nullità del trasferimento.
In realtà però non sembra possibile equiparare tout court la buona fede colpevole alla mala fede: lo stesso art. 1147 c.c., infatti, al II comma priva di rilievo la buona fede solo quando l’ignoranza di ledere l’altrui diritto dipende da colpa grave, ma tale non può considerasi automaticamente l’ignoranza dei vizi del negozio. Tra l’altro, i vizi che determinano la nullità del contratto non necessariamente presuppongono la consapevolezza degli stessi da parte dei contraenti: entrambi, potrebbero essere in buona fede rispetto, ad esempio, alla mancata osservanza di un onere di forma ad substantiam.
Rimane incerta poi la rilevanza del dubbio dell’accipiens. Infatti se si parte dall’assunto che la buona fede deve essere immune da vizi, è da considerarsi in mala fede il soggetto che versando in dubbio sul suo diritto di ricevere la prestazione non si sia poi curato di verificare la situazione. Ciò anche perché il dubbio è una situazione per sua natura transitoria che non può protrarsi nel tempo senza trasformarsi in mala fede. Al contrario se si ritiene che buona fede e colpa (lieve) siano compatibili, il dubbio non ha alcuna incidenza sulla buona fede131.
129 D’ADDA op. cit. p. 548.
130 BARCELLONA op. cit. pp. 30 e ss.
131 MOSCATI Tutela della buona fede e mala fede sopravveniente nella disciplina dell’indebito in
Rivista di diritto commerciale, I, 1983, pp. 206-207.
Diversamente si potrebbe ragionare per l’annullabilità e la rescindibilità del contratto132 dove la consapevolezza del vizio può darsi per implicita e dunque è effettivamente individuabile un contraente di mala fede. E tuttavia anche una tale ricostruzione non appare del tutto convincente perché l’art. 2033 c.c. richiamando la buona e mala fede dell’accipiens, intende riferirsi esclusivamente a chi riceve la prestazione sapendo che essa non gli è dovuta ed è quindi cosciente che i frutti percepiti dal tempo dell’esecuzione non gli spettano. È invece diversa la condizione di chi con dolo o approfittamento dello stato di bisogno induce la controparte alla conclusione di un contratto, perché esso una volta concluso è efficace, seppure in modo precario, e dunque la prestazione ricevuta in forza di quel contratto non è indebita finché esso non viene caducato, eventualità che potrebbe anche non verificarsi mai se il contraente legittimato all’impugnativa, per qualsiasi motivo, decidesse di non esperirla.
Se si sostiene che lo stato psicologico dell’accipiens possa costituire oggetto di valutazione solo se è a lui imputabile il fatto che ha successivamente caducato il negozio, si rischia di appiattire il giudizio sulla buona o mala fede dell’accipiens sul giudizio circa l’imputabilità all’accipiens del fatto che dà luogo alla caducazione del contratto. Non bisogna invece dimenticare che mala fede e colpa contrattuale stanno su piani distinti: l’una è una condizione soggettiva, l’altra allude a uno standard oggettivo di comportamento. La valutazione dello stato intellettivo di un soggetto è cosa radicalmente diversa dalla verifica dell’imputabilità al medesimo di un fatto. La prima indagine ha ad oggetto la rappresentazione della realtà da parte dell’accipiens e riguarda un elemento prettamente gnoseologico; la seconda attiene alla formulazione di un giudizio di responsabilità. L’obbligo restitutorio trova la sua fonte nella caducazione del contratto a prescindere dalla sua causa e dall’imputabilità all’accipiens della medesima, a differenza invece dell’obbligo risarcitorio133.
Anche a voler considerare in mala fede l’accipiens che conosce il carattere astrattamente risolubile del rapporto (ad esempio l’inadempiente che riceve
132 NICOLUSSI op. cit. pp. 138-139.
133 D’ADDA, op. cit. p. 546.
l’adempimento il quale non può non conoscere il carattere astrattamente risolubile del rapporto), bisogna coerentemente ammettere che anche la parte non inadempiente, nel momento in cui riceve l’adempimento, non può mai del tutto escludere una possibile risolubilità del contratto. Per questo motivo, al contraente che pur conoscendo l’astratta risolubilità del rapporto coopera all’adempimento del debitore, non può imputarsi la violazione di una regola di condotta. E del resto l’inadempimento è un fatto successivo e dunque, se può caducare il contratto con efficacia retroattiva, non può però rendere retroattivamente in mala fede l’accipiens.134
Il problema è dunque di individuare in cosa consista “la lesione dell’altrui diritto” che se ignorata pone l’agente in uno status di buona fede. Ciò ha tentato di fare una dottrina135, sulla quale ci si soffermerà diffusamente più avanti, che ha identificato la buona fede non nell’ignoranza circa il carattere indebito della prestazione ricevuta, bensì circa il sorgere dell’obbligo di restituzione. E’ vero che in questo modo si deroga al disposto dell’art. 1147, III comma c.c., per il quale basta che la buona fede “vi sia stata al tempo dell’acquisto”: infatti si dà rilievo a un momento successivo all’acceptio, ovvero al sorgere dell’obbligo di restituzione. Tuttavia si è osservato che l’art. 2040 c.c., che chiude il Titolo VII dedicato all’indebito, pur utilizzando espressamente il termine “possessore”, contiene un rinvio soltanto parziale alla disciplina del possesso. Ad esempio non è espressamente richiamato l’art. 1148
c.c. che disciplina l’acquisto dei frutti da parte del possessore, e anzi gli artt. 2033 e 2036 c.c., ne riproducono il contenuto solo parzialmente. Il primo, inoltre, fa specifico riferimento alla domanda giudiziale e non come gli altri due, genericamente a una domanda del solvens, e si osserva che l’art. 2033 a differenza dell’art. 1148 c.c. non accenna alla restituzione dei frutti percipiendi136.
134 LIBERTINI voce Interessi in Enciclopedia del diritto, vol. XII, Milano 1962, p. 115
135 XXXXXXXXXX La risoluzione del contratto nella prospettiva del diritto italiano in Europa e diritto privato, 1999, p. 810.
136 Quest’ultima, ignota al diritto romano classico e propria invece della codificazione giustinianea136, è stata introdotta nel codice civile del 1942 sull’esempio del codice germanico. In materia di indebito il legislatore è rimasto legato alla lunga tradizione che esonera l’accipiens dalla responsabilità per i frutti percipiendi. Anche il richiamo dell’art. 1152 c.c. nella disciplina dell’indebito dimostra che l’acceptio di buona fede quando la solutio ha per oggetto una cosa di specie, è considerato come un caso particolare di possesso di buona fede ex art. 1148 c.c. e dunque l’acquisto dei frutti è considerato effetto del possesso. Alla stessa conclusione invece non si può
Ma soprattutto non è richiamato l’art. 1147 c.c.. Anzi l’art. 2038 c.c. deroga all’art. 1147, III comma c.c. dando espressamente rilievo alla mala fede sopravvenuta: infatti, ai sensi dell’art. 2038 c.c., non basta la buona fede iniziale, ma è necessaria la sua persistenza fino al momento dell’alienazione della cosa. Il principio mala fides superveniens non nocet sembra invece trovare applicazione nell’art. 2037 c.c. dove si fa riferimento solo alla buona fede o mala fede iniziali, al momento in cui la prestazione è ricevuta. Ma a ben vedere sembra che la formulazione dell’art. 2037 c.c. sia da considerarsi ellittica, anche perché nei lavori preparatori al codice civile non emerge nessuna motivazione che giustifichi la diversità di formulazione degli artt. 2037-2038 c.c.. E del resto, l’alienazione fatta dopo che l’accipiens è venuto a conoscenza dell’obbligo di restituzione equivale ad atto di disposizione del diritto altrui o comunque indebita ingerenza nella sfera del solvens, allo stesso modo del perimento o deterioramento del bene137.
Ciò dimostra come il legislatore del ‘42 abbia pensato all’indebito come a una disciplina neutra, per la quale è irrilevante la qualificazione della situazione giuridica in cui versa l’accipiens. Come già visto nel capitolo I, non sempre l’accipiens indebiti è un possessore in senso tecnico, poiché può anche essere un semplice detentore. Nell’art. 2040 c.c. il rinvio alla disciplina del possesso non può fungere da generale modello di disciplina.
Se non si ritiene automaticamente applicabile in materia di indebito la disciplina del possesso, non crea difficoltà la circostanza che l’art. 2038 c.c. deroghi all’art. 1147, III comma; così come dovrà ritenersi inapplicabile all’indebito il disposto dell’art. 1147, II comma c.c., che equipara la colpa grava
pervenire se oggetto del pagamento non dovuto è una somma di denaro, perché la spettanza degli interessi all’accipiens di buona fede non si qualifica come effetto del possesso. Infatti sebbene l’art. 2033 c.c. lasci trasparire una regola unitaria che esclude la responsabilità dell’accipiens sia per i frutti sia per gli interessi, in realtà le due vicende hanno avuto un autonomo sviluppo storico visto che nel diritto romano l’accipiens di buona fede era tenuto a restituire i frutti percepiti mentre per gli interessi valeva la regola opposta. A questa impostazione aveva reagito la dottrina francese136 (DOMAT Le leggi civili disposte nel loro naturale ordine, Parigi 1926, libro II, titolo VII, sez . III n. 1), rivendicando la palese ingiustizia derivante dal diseguale trattamento di frutti e interessi.136 (ARANGIO-XXXX Istituzioni di diritto romano, Napoli 1957, p. 218 - BENATTI Possesso di buona fede e acquisto dei frutti in Rivista di diritto commerciale, II, 1958, pp. 330- 331.)
137 MOSCATI Tutela della buona fede e mala fede, op. cit., pp. 209 e ss.
alla mala fede. Conseguentemente, in mancanza di un’espressa indicazione normativa di segno contrario, le norme di favore previste per l’accipiens indebiti di buona fede dovranno ritenersi operanti anche in presenza della grave negligenza di tale soggetto. Ciò non appare incongruo se si considera che il comportamento dell’accipiens indebiti concorre con il comportamento del solvens, il quale esegue un pagamento non dovuto concorrendo nel fatto a lui pregiudizievole. Questo sembra giustificare il minore rigore con cui viene valutata la condotta del percipiente138.
In realtà, la circostanza che il rinvio espresso alla disciplina del possesso sia soltanto parziale, può spiegarsi osservando che l’art. 2040 c.c. disciplina esclusivamente il rimborso di spese e miglioramenti: esso dunque rinvia solo a quelle norme in materia di possesso che regolano tale fenomeno. Da ciò non può dedursi una presunta impossibilità di rinvio ad altre norme, se compatibili con la disciplina dell’indebito. L’incompatibilità ad esempio emerge, come già visto, tra l’art. 2038 c.c. e il II e III comma dell’art. 1147 c.c. Non appare invece incompatibile il disposto di cui all’art. 1147, I comma c.c., che definendo la nozione di buona fede in senso soggettivo, sembra avere un ambito di applicazione generale.
Se dunque la nozione di buona fede in materia di indebito si ricava dall’art. 1147, I comma, in materia di restituzioni contrattuali tale nozione deve essere riempita del giusto significato: l’altrui diritto che viene leso non consisterà in questo caso nel carattere indebito della prestazione che, come visto, tale non è al momento in cui viene percepita, ma coinciderà con la conoscenza dell’obbligo restitutorio. E pur vero che ciò forza in parte il dato normativo, perché l’art. 2038 c.c. sembra distinguere la buona o mala fede dalla coscienza o incoscienza dell’obbligo restituzione. Il I comma infatti recita: “chi avendo ricevuto la cosa in buona fede l’ha alienata prima di conoscere l’obbligo di restituirla”; allo stesso modo il II comma dispone “chi ha alienato la cosa ricevuta in mala fede, o dopo aver conosciuto l’obbligo di restituirla”. In entrambi i casi le due nozioni sono tenute distinte. Ma applicando tale norma
138 BRUNI Contributo allo studio dei rapporti tra azione di caducezione contrattuale e ripetizione dell’indebito in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1987, pp. 183 e ss.
in materia di contratti, poiché non rileva lo stato psicologico delle parti al momento del ricevimento della prestazione, dato che entrambe stanno esercitando un loro diritto, la prima parte di ciascuno dei sopra citati periodi non troverà applicazione, residuando l’efficacia della seconda.
Il problema a questo punto è quello di individuare quando possa dirsi maturata tale consapevolezza dell’obbligo restitutorio. Si può sostenere che per la parte inadempiente essa coincida con l’inadempimento, mentre per la parte fedele con la proposizione della domanda. Prima del verificarsi di una di queste due situazioni, invece, entrambe le parti sarebbero equiparate all’accipiens di buona fede.139
Una tale soluzione, pensata in origine con riguardo alla risoluzione per inadempimento può essere astrattamente applicata anche alle altre azioni di impugnativa contrattuale, identificando il contraente che è a conoscenza dell’obbligo di restituzione con l’artefice del dolo o della violenza nel contratto annullabile o con colui che ha approfittato dello stato di pericolo o di bisogno nel contratto rescindibile140 e al limite anche con colui che fosse a conoscenza con una causa di nullità del contratto. In questo modo però il piano delle restituzioni sconfina sul piano della responsabilità precontrattuale: la consapevolezza della causa di invalidità del contratto può far scattare il risarcimento del danno per l’interesse negativo ma non influenzare il quantum della restituzione. Per questo sembra forse più coerente identificare la conoscenza dell’obbligo di restituzione, per entrambe le parti con la proposizione della domanda giudiziale di caducazione, se non addirittura con la relativa pronuncia giudiziale141.
4. Restituzione degli elementi accessori: frutti, interessi, addizioni, miglioramenti.
139 In senso contrario LUMINOSO Obbligazioni restitutorie e risarcimento del danno nella risoluzione per inadempimento, in Giur. comm. 1990, I pp. 28 e ss., che differenzia tra la fase che precede e quella che segue la domanda di risoluzione, ipotizzando per la prima la restituzione del valore di godimento e per la seconda l’applicazione della disciplina dei frutti. Secondo XXXXXXXXXX, op. cit., invece, la scriminate non può essere la domanda di risoluzione ma i presupposti di essa, e dalla conoscenza del loro verificarsi deriva la buona o mala fede dell’accipiens.
140 LEONE Impugnative negoziali, tutela restitutoria e indebito oggettivo, nota a Cass. 6891/2009 in I contratti n. 11/2009 p. 1006.
141 BARCELLONA op. cit.,. pp. 30 e ss.
Uno degli aspetti più problematici del dibattito circa l’applicabilità della disciplina dell’indebito alla materia contrattuale, riguarda l’individuazione del momento a decorrere dal quale sono dovuti i frutti e gli interessi sulla prestazione oggetto di restituzione.
Sotto il vigore del codice previgente, l’art. 1147 prevedeva l’obbligo di corresponsione dei frutti esclusivamente a carico dell’accipiens di mala fede, con norma analoga a quella prevista in materia di possesso dall’art. 703. Si sosteneva inoltre che non valesse in materia di indebito il principio mala fides superveniens non nocet e dunque l’accipiens inizialmente di buona fede era dispensato dall’obbligo di restituire i frutti conseguiti mentre era in buona fede, ma non dalla restituzione dei frutti conseguiti dopo essere divenuto in mala fede. Il suo trattamento era comunque migliore rispetto all’accipiens che fosse stato fin dall’inizio in mala fede, perché quest’ultimo era tenuto a restituire tutti i frutti di cui era stato privato il solvens dal momento della percezione dell’indebito e quindi anche quelli percipiendi; invece nel caso di mala fede sopravvenuta, occorreva restituire solo i frutti percepiti o il loro equivalente pecuniario. E ancora, mentre l’accipiens in mala fede fin dall’origine era responsabile del perimento che non si sarebbe prodotto senza il pagamento indebito, l’accipiens che incorreva in mala fede sopravvenuta non ne rispondeva.142
Sempre sotto il vigore del codice previgente, con riferimento agli interessi, la dottrina143 sosteneva che quelli dovuti dall’accipiens sciens indebiti al solvens non fossero da qualificare moratori in quanto non equiparabili al risarcimento del danno sorgente dal non tempestivo adempimento dell’obbligo restitutorio. Essi risarcivano piuttosto il danno derivante dalla perdita della cosa fruttifera. E del resto considerando come moratori gli interessi dovuto dall’accipiens sciens indebiti, questi sarebbe stato equiparato al fur. Infatti la condictio furtiva non garantiva di per sé l’integrale risarcimento del danno ma solo la restituzione della cosa, e proprio considerando il fur come automaticamente in mora
142 XXXXXXXX La ripetizione dell’indebito, Padova 1940, p. 188.
143 XXXXXXXX op. cit., pp. 204 e ss.
nell’adempimento dell’obbligazione di restituzione si riusciva a riconoscere al leso il risarcimento della perduta utilitas temporis.
Nell’attuale ordinamento la disciplina dell’indebito (art.2033 c.c.) individua il momento a partire dal quale sono dovuti i frutti e gli interessi nel giorno del pagamento o nel giorno della domanda, a seconda dello stato psicologico di mala o buona fede dell’accipiens. La disposizione relativa all’accipiens di mala fede riproduce la regola di cui all’art. 1282, I comma c.c. in materia di interessi nelle obbligazioni pecuniarie: il credito del solvens infatti si presenta liquido ed esigibile dal giorno stesso del pagamento dell’indebito e gli interessi decorrono da quella data144. Diversamente accade per l’accipiens di buona fede, per il quale il dies a quo coincide con la domanda, che viene normalmente intesa come domanda giudiziale, anche se una parte della dottrina145 tende a identificarla con qualsiasi richiesta o meglio con l’intimazione stragiudiziale di messa in mora (art. 1219 c.c.). Una parte della giurisprudenza146 però osserva che se in materia di indebito fosse possibile la messa in mora con qualsiasi richiesta, anche stragiudiziale, il debitore si troverebbe nella duplice veste di accipiens di buona fede per quanto riguarda l’obbligo restitutorio, dato che non può essere considerato in mala fede prima della domanda giudiziale, e di debitore moroso per quanto riguarda il risarcimento del danno. Pertanto è più logico far coincidere momento della mora e momento della debenza degli interessi ex art. 2033 c.c. con decorrenza dalla domanda giudiziale. Ciò, nonostante il fatto che l’art. 2033 c.c. facendo generico riferimento a una “domanda” sembri dimostrare che l’alleggerimento del quantum di restituzione di frutti e interessi in relazione allo stato psicologico dell’accipiens non ha ragion d’essere nel momento in cui l’accipiens si è reso conto che la prestazione non gli è dovuta, a nulla rilevando lo strumento giuridico attraverso il quale ha raggiunto tale consapevolezza.
Sembra che il legislatore con l’art. 2033 c.c. abbia voluto proteggere colui che utilizza denaro altrui nella convinzione incolpevole di poterne giuridicamente
144 MOSCATI Tutela della buona fede e mala fede op. cit. p. 201
145 GIORGIANNI L’inadempimento. Xxxxx xx xxxxxxx xxxxxx, Xxxxxx 0000, pp.151 e ss.; ALBANESE Le obbligazioni, op. cit. pp. 328 e ss.
146 Cass. 11969/1992 in MGC, 1992, p. 11.
disporre. La disciplina dell’indebito, dando rilievo alla condizione psicologica dell’accipiens risulta nell’insieme ispirata a valutazioni diverse rispetto a quelle che animano l’art. 1282 c.c. e dunque si atteggia come eccezione a tale norma147. Ciò salvo voler considerare la discrasia che si registra tra l’art. 1282
c.c. e l’art. 2033 c.c. circa l’acceptio di buona fede come un mero difetto di coordinamento occorso in sede di riunificazione del codice civile e del codice del commercio.
La disciplina di cui all’art. 2033 c.c. in materia di frutti e interessi, così come ricostruita appare di difficile applicazione alle restituzioni contrattuali, per le quali vige il principio di retroattività e appare difficile inquadrare gli stati psicologici.
La retroattività comporta per il contraente legittimato ad agire per la caducazione, il diritto di sostituire all’assetto quantitativo e qualitativo del patrimonio programmato in contratto, il diverso assetto patrimoniale che egli avrebbe avuto se il contratto non fosse mai stato concluso. In questo senso non appare incongruo che l’accipiens sia tenuto a restituire i frutti che avrebbe potuto percepire con l’ordinaria diligenza. Se ciò è vero però, al fine di non divaricare la dialettica rischi-profitti, sul solvens dovrebbero gravare i rischi della gestione del bene effettuata con diligenza dall’accipiens. Inoltre l’accipiens tenuto alla restituzione avrebbe diritto a un rimborso per le spese di produzione e raccolta dei frutti e sarebbe esonerato dall’obbligo di corrispondere il valore della res che non può restituire in natura perché perita per caso fortuito.
Tutto ciò vale però solo se si parte dal presupposto indimostrato per cui il contraente fedele, in mancanza della stipula del contratto, sarebbe rimasto nel godimento del bene, senza impegnarsi con terzi in un’operazione identica.
E d’altra parte, una tale impostazione tende a disincentivare la condotta del contraente che in quanto titolare di una posizione giuridica non ancora consolidata, perché a rischio di caducazione insieme al contratto, intraprende iniziative migliorative su un bene che potrebbe poi essere obbligato a restituire. Se è vero infatti che in un sistema fondato sul principio di proprietà, è da scoraggiare la condotta di chi aspiri a incrementare il suo patrimonio attraverso
147 LIBERTINI voce Interessi, op. cit., p. 114.
l’utilizzazione di un bene altrui, è altrettanto vero però che risulta molto diversa la posizione del contraente di un contratto eventualmente caducabile.148
Occorre quindi dare un senso alla retroattività della caducazione contrattuale che sia compatibile con l’assetto di interessi dei contraenti per come legittimamente maturato nella fase di costanza del rapporto. Il problema è stato studiato in dottrina soprattutto con riferimento alla risoluzione, ma le conclusioni a cui si perviene sono applicabili anche alle altre ipotesi in cui il contratto viene meno retroattivamente.
La cosiddetta149 “dottrina della retroattività in senso debole”150 ritenendo che vada comunque applicata alle restituzioni la disciplina dell’indebito, afferma che l’accipiens di mala fede debba essere identificato con il contraente inadempiente. Le obbligazioni restitutorie nascenti dalla risoluzione per inadempimento sarebbero dunque disciplinate dal combinato disposto degli artt. 1458, I comma e 2033 c.c.: la prima esprimendo il principio di retroattività renderebbe le prestazioni già ab initio prive di causa, dando ingresso alla seconda. I frutti e gli interessi andranno quindi restituiti dal giorno del pagamento se l’accipiens è in mala fede, altrimenti spetteranno solo dal giorno della domanda (art. 2033 c.c.)151.
In questo modo però si ritorna al problema affrontato nel paragrafo precedente, perché occorre individuare in cosa consista lo stato psicologico di buona o mala fede, tenendo presente che l’inadempimento è un comportamento, non equiparabile di per sé a uno stato soggettivo se non in forza di una finzione, e considerando che la prestazione è contrattualmente dovuta e dunque chi la riceve non fa altro che esercitare i diritti che gli spettano in base al contratto.
148 BELFIORE Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie in Scritti in onore di X. XXXXXXX, Milano 1988, pp. 390 e ss.
149 La classificazione e la denominazione delle teorie a cui si fa riferimento nel testo sono opera di BELFIORE Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, op. cit., 1988, pp. 245 e ss.
150 MOSCATI Del pagamento dell’indebito, op. cit., pp.145 e ss. BRECCIA La ripetizione dell’indebito, op. cit. p. 267.
151 Cass. 10002/1991 in MGC, 1991, fasc. 9. Cass. 1190/1963 in Giurisprudenza italiana, I, 1964, 812 e ss.
Inoltre, il contraente fedele otterrebbe un arricchimento ingiustificato, venendosi a trovare in una situazione più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato con la corretta esecuzione del contratto: egli infatti trattiene i frutti della prestazione ricevuta fino alla data della domanda ma esige quelli della prestazione eseguita sin dal momento del pagamento, cumulando una voce di danno positivo (il valore di godimento della prestazione ricevuta), e una voce di danno negativo, (i frutti perduti per avere eseguito la prestazione a suo carico). In questo modo, si trasferiscono nel regime delle restituzioni finalità risarcitorie che sono ad esso estranee dato che la restituzione è volta a neutralizzare gli spostamenti patrimoniali realizzati in esecuzione del contratto e dunque il loro regime deve risultare uniforme per entrambi i contraenti, senza che rilevi chi ha causato la risoluzione152. Un correttivo a tale inconveniente è stato individuato applicando il principio di cui all’art. 1499 c.c. che nel dettare la disciplina degli interessi compensativi fa intendere come lo stesso contraente non possa godere per lo stesso periodo di tempo dei frutti di entrambe le prestazioni. E dunque nel caso in cui ambedue i contraenti abbiano goduto della prestazione pattuita, entrambe le obbligazioni restitutorie dovrebbero avere la stessa decorrenza153.
Una variante di questa dottrina 154, come si accennava alla fine del precedente paragrafo sostiene che il criterio della buona o mala fede, e dunque il quantum della restituzione di frutti e interessi, vada reinterpretato alla luce dell’art. 2038
c.c. e dunque come conoscenza o mancata conoscenza della causa di risolubilità del rapporto e del conseguente obbligo di restituzione. Una tale impostazione ha il pregio, rispetto alla precedente, di presentare un carattere dinamico che meglio si adatta alla fisionomia del rimedio risolutorio, il quale interviene in presenza di circostanze sopravvenute alla stipula.
152 LUMINOSO Della risoluzione per inadempimento in Commentario del codice civile SCIALOJA – BRANCA, artt. 1453-1454, tomo I, 1, pp. 409-410. LUMINOSO Obbligazioni restitutorie e risarcimento del danno nella risoluzione per inadempimento, in Giur. Comm. 1990, I
, pp. 35 e 36.
153 BELFIORE Risoluzione per inadempimento e obbligazioni restitutorie, op. cit., pp. 250-251.
154 XXXXXXXXXX La risoluzione del contratto nella prospettiva del diritto italiano, in Europa e diritto privato, 1999, p. 803 e ss..
Analoghi criteri possono essere applicati anche in materia di addizioni e miglioramenti.
Infatti, se il contratto viene meno retroattivamente, le opere costruite dall’acquirente sul suolo di cui l’alienante riacquista la proprietà si considerano effettuate su fondo altrui, e dunque opera il principio di accessione. In questo caso, ai sensi dell’art. 936 c.c., il proprietario del fondo può scegliere se obbligare controparte a rimuoverle a spese sue o trattenerle corrispondendo però all’acquirente la minor somma tra le spese da lui sostenute e l’aumento di valore del fondo. Tuttavia non potrà essere chiesta la rimozione dell’opera quando chi l’ha compiuta era in buona fede, nonché quando sono trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario del fondo ha avuto notizia dell’incorporazione. Anche in questa ipotesi, dunque assume rilevanza decisiva la condizione psicologica dell’accipiens e dunque se si aderisce all’orientamento per cui la mala fede si identifica con la conoscenza dell’obbligo di provvedere alla restituzione, questi potrà essere obbligato alla rimozione dell’opera laddove l’abbia costruita in un momento in cui aveva già questa consapevolezza.
Per quanto concerne le spese e i miglioramenti effettuati dall’accipiens soccorre la disciplina del possesso, richiamata in materia di indebito dall’art. 2040, e in particolare occorre far riferimento all’art. 1150 c.c. Questa norma obbliga il solvens a rimborsare all’accipiens le spese fatte per le riparazioni straordinarie e a conferirgli un’indennità per i miglioramenti. Anche in questo caso rileva lo stato soggettivo dell’accipiens poiché se questi è in buona fede l’indennità sarà pari all’aumento di valore della cosa, se è in mala fede alla minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore155.
La dottrina della “retroattività in senso debole” deduce automaticamente dall’enunciato sulla retroattività della risoluzione la volontà del legislatore di dare ingresso alla disciplina dell’indebito. Ha il limite però di trascurare che i problemi relativi alla restituzione hanno connotati diversi a seconda che attengano alla fase di costanza del rapporto o a quella successiva alla risoluzione. È infatti problematica l’applicabilità dell’indebito alla fase di
155 ROPPO Trattato del contratto- I rimedi, tomo II, Milano 2006 p. 390.
costanza del rapporto, dove la perceptio non si configura come un atto contra ius e lesivo della proprietà perché l’accipiens esercita dei diritti che gli spettano contrattualmente. La disciplina dell’indebito viene invece più facilmente in gioco nella seconda fase, disciplinando le vicende successive al momento in cui sorge il diritto del solvens alla ripetizione. Infatti, venuto meno il contratto e tornata la proprietà dei beni al solvens la perceptio si configura come appropriazione non più giustificata dei frutti di cosa altrui.. Durante la pendenza del giudizio, astrattamente dovrebbe applicarsi il regime proprio della fase di costanza del rapporto. Tuttavia, argomentando anche dall’art. 1453, II comma c.c., sembra che la domanda di risoluzione segni il definitivo arresto nell’attuazione del rapporto contrattuale e dunque il momento dal quale decorre l’obbligazione restitutoria, anche in base al principio per cui la durata del processo non deve andare a danno dell’attore (principio di retroattività del giudicato).
Altra parte della dottrina156, cosiddetta “della retroattività in senso forte”, sostiene invece che la regola di retroattività avrebbe la forza di autonomamente imporre gli obblighi restitutori di frutti e interessi a far data dal momento in cui è stato effettuato il pagamento, e ciò a prescindere dallo stato soggettivo dell’accipiens, perché questi sarebbe considerato in mora fin dal momento in cui ha ricevuto la prestazione da restituire. Sebbene infatti lo scioglimento del contratto renda prive di causa le attribuzioni rese, la loro restituzione va regolata secondo le regole specifiche della risoluzione che prevalgono rispetto a quelle generali dell’indebito, soprattutto nelle ipotesi di risoluzione per inadempimento e per eccessiva onerosità sopravvenuta, dove non vi è a differenza che nell’art. 1463 c.c. in materia di impossibilità sopravvenuta, un espresso richiamo alla disciplina di cui agli artt. 2033 e ss.
156 D’ADDA Gli obblighi conseguenti alla pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento tra restituzioni e risarcimento, op. cit., pp. 559 e ss. ENRIETTI Della risoluzione del contratto in Codice Civile. Libro delle obbligazioni, I, in Comm. X’Xxxxxx-Xxxxx, Firenze 1948, pp.835-837. BORRIONE La risoluzione per inadempimento, Padova 2004, p. 196. In giurisprudenza v. Tribunale di Milano 4 gennaio 1999, in Responsabilità civile e previdenza 1999, pp. 1349 e ss.
Tra queste regole specifiche vi è quella della retroattività (art. 1458 c.c.) che riguarda entrambi i contraenti ed è aliena da qualsiasi intento sanzionatorio.
I frutti e gli interessi andrebbero calcolati dunque per entrambi i contraenti a far data dal pagamento, senza tener conto di quanto previsto dall’art. 2033 c.c.. La giurisprudenza sembra però assumere delle posizioni oscillanti circa la natura di tali interessi. Secondo Xxxx. SU 12942/1992, essi avrebbero natura compensativa. In altre pronunce157, invece, si è sostenuto che gli interessi hanno natura moratoria e decorrono non dal pagamento bensì dalla costituzione in mora che, nel nostro caso, coinciderebbe con la domanda di ripetizione. Una giurisprudenza di merito158 afferma invece che gli interessi hanno natura compensativa se gravano sulla parte adempiente e natura moratoria se gravano sull’inadempiente. Da ultimo Xxxx. 6891/2009, in materia di rescissione, ha affermato che gli interessi devono conteggiarsi non dalla domanda giudiziale, ma dalla solutio, “disapplicando” la disciplina dell’indebito. Non ha tenuto conto però che, nel caso specifico della rescissione per lesione, ciò rischia di danneggiare lo stesso contraente che l’ha richiesta. Questo dimostra come le soluzioni adottate dalla giurisprudenza in materia siano spesso frammentarie e modellate sul caso di specie più che ispirate a principi uniformi. La Suprema Corte non esita ed estendere la disciplina dell’indebito alle restituzioni contrattuali, spesso trascurando i profili di attrito tra le due discipline; ma non appena il caso di specie evidenzia delle difficoltà di coordinamento, le norme in materia di indebito vengono “disapplicate” e considerate non compatibili con la materia in oggetto159.
Secondo la tesi della retroattività in senso forte, nel gioco delle restituzioni devono essere coinvolte tutte le situazioni giuridiche che sono state oggetto di scambio, indipendentemente dal fatto che l’accipiens sia l’inadempiente o il contraente fedele, e indipendentemente dal suo status di buona o mala fede. E l’irrilevanza dello status soggettivo deriva dalla circostanza che detto obbligo non deriva dalla violazione di un principio proprietario, bensì dall’alterazione
157 Cass. 18518/2004 in Massimario giurisprudenza italiana, 2004.
158 Tribunale di Milano, sez. IV civile, 6 ottobre 1998 in Rivista di diritto civile 2001, II, pp. 529 e ss. con nota di D’ADDA.
159 LEONE Impugnative negoziali op. cit., pp. 1007-1008.
dell’equivalenza delle prestazioni fissate in contratto. In questo senso si orienta anche una parte della giurisprudenza (tra le tante Xxxx. 4465/1995), la quale afferma che la rigorosa applicazione del principio di retroattività del fatto risolutivo rende prive di giustificazione le prestazioni eseguite e i frutti incamerati con effetti recuperatori ex tunc, a prescindere dall’inadempienza delle parti.
Al contrario, una dottrina160 sostiene che l’obbligo di restituire l’intera attribuzione patrimoniale, e quindi sia il valore capitale sia il valore d’uso del bene goduto ovvero i frutti e gli interessi frattanto maturati con decorrenza dal giorno del pagamento, potrebbe trovare spiegazione non nella circostanza che la prestazione di cui si è goduto fosse sin dall’inizio priva di causa, ma in ragioni diverse quali ad esempio l’esigenza di sanzionare adeguatamente la violazione della lex contractus da parte dell’inadempiente. La distinzione tra fase di costanza del rapporto contrattuale e fase successiva alla pronuncia di caducazione rileverebbe così solo sotto il profilo del risarcimento del danno conseguente al ritardo nella restituzione, e dunque solo da quel momento saranno dovuti gli interessi moratori sul ritardo, la rivalutazione, il versamento dei frutti percipiendi.161
In ogni caso, sposando una tale ricostruzione, si dà piena realizzazione all’efficacia retroattiva della risoluzione e gli effetti del contratto vengono completamente neutralizzati in maniera uniforme per entrambi i contraenti, rimettendoli nella situazione in cui si sarebbero trovati se il contratto non fosse stato concluso e dunque ristabilendo l’equilibrio economico anteriore al sinallagma.
Presupposto di questa impostazione è però, come visto che la disciplina in materia di indebito, la quale accorda invece rilevanza allo stato soggettivo dell’accipiens, sia “disapplicata” a favore della regola di retroattività di cui all’art. 1458 c.c., che in quanto norma speciale è destinata a prevalere162.
Tuttavia la dottrina della retroattività in senso forte sembra trascurare l’espresso rinvio alla disciplina dell’indebito contenuto nell’art. 1463 c.c., che
160 BELFIORE, Risoluzione per inadempimento op. cit. pp. 256 e ss. e pp. 264 e ss.
161 D’ADDA op. cit. p. 559
162 ROPPO Trattato, op. cit, p. 385
non consente di elidere la rilevanza dell’elemento psicologico dell’accipiens. Si dubita che l’art. 1458 c.c. applicato da solo quale norma speciale sia in grado di disciplinare l’intero campo dei problemi attinenti alla fase di costanza del rapporto successivamente risolto.
La dottrina della retroattività in senso forte, nell’imporre la restituzione di frutti e interessi sin dal giorno del pagamento, a prescindere dalla regole dell’indebito in materia di stati soggettivi, è condizionata dall’idea che operando diversamente si creerebbe un ingiustificabile impoverimento del contraente fedele, che ha comunque ricevuto una prestazione inesatta o parziale, a fronte di un arricchimento senza giusta causa dell’inadempiente. Ma nel presupporre ciò non tiene conto che all’attore in risoluzione spetta anche il risarcimento del danno per l’interesse positivo e ciò proprio perché, a fronte dell’inadempimento non si può supporre un’equivalenza del godimento delle prestazioni eseguite163.
Abbinando al principio di retroattività in senso forte che prevede la restituzione di frutti e interessi fin dal giorno del pagamento, la pretesa al risarcimento del danno di cui all’art. 1453 c.c., con cui l’attore in risoluzione soddisfa per equivalente il diritto a conservare l’incremento patrimoniale acquisito con il contratto, si rischia però di disincentivare il creditore dall’attendere l’adempimento, spingendolo verso il meccanismo risolutorio, per lui più conveniente, e amplificando così i costi dell’inadempimento. In questo modo la risoluzione, da tecnica di tutela del contraente insoddisfatto diventa surrettizio strumento di rimeditazione sulla convenienza dell’affare concluso Ciò non appare consentito dall’ordinamento dato che il legislatore in più occasioni ha previsto norme (artt. 1480, 1525, 1668 c.c.) che circondano di particolari cautele la risolubilità del contratto proprio per evitare un uso deviato del meccanismo risolutorio. Analoga funzione ha anche l’art. 1445 c.c. che individua quale presupposto della risoluzione l’importanza dell’inadempimento.
163 BELFIORE Risoluzione per inadempimento op. cit. pp. 326 e ss.
Secondo una diversa teoria, cosiddetta “dottrina dell’irretroattività”, 164, i frutti e gli interessi devono essere corrisposti dal momento in cui si perfeziona la fattispecie risolutoria e dunque da quando viene emessa la sentenza costitutiva, perché fino a quel momento le parti esercitano i diritti che spettano loro per contratto.
In questo modo, il diritto del contraente fedele di conservare l’incremento patrimoniale ottenuto con il contratto risulta soddisfatto in parte in forma specifica, con l’assenza di restituzione a suo carico di frutti e interessi, e in parte per equivalente con la possibilità di richiedere il risarcimento del danno. All’interno di questa dottrina si rinvengono due diverse linee di pensiero. Secondo la prima165 poiché la sentenza di risoluzione ha natura costitutiva, essa non può che avere efficacia ex nunc e per questo motivo l’obbligo di restituire la prestazione, così come i frutti e gli interessi che sono obbligazione accessoria rispetto alla prestazione principale, decorre dalla stessa sentenza. Tuttavia a questa ricostruzione si può obiettare che la natura costitutiva di una sentenza non implica automaticamente la sua efficacia ex nunc: e del resto anche la sentenza di annullamento ha efficacia costitutiva ex tunc. Non c’è incompatibilità tra efficacia costitutiva e retroattività, poiché esse assolvono funzioni distinte: la prima fonda gli obblighi restitutori, e libera dalle prestazioni ancora non eseguite; la seconda toglie giustificazione alle prestazioni già effettuate166.
Sembra avvicinarsi alla tesi dell’irretroattività anche quella dottrina167 che sostiene come la restituzione di frutti e interessi con decorrenza dal giorno del pagamento sarebbe in contrasto con il diritto al risarcimento del danno per l’interesse positivo. Ad esempio in materia di vendita, gli interessi sul prezzo restituito all’acquirente, corrisponderebbero a una voce di danno contrattuale
164 CARRESI Il contratto in Trattato CICU – XXXXXXXX, XXX, 0, Xxxxxx 1987, p. 911. Così anche in giurisprudenza Cass. 1745/1969 in Giurisprudenza italiana, 1970, I, 1, p. 302. Cass. 1986/1964; Cass. 3073/1980; Cass. 2962/1982. AULETTA La risoluzione per inadempimento, Milano 1942, pp. 140, 272, 292 e ss.; BIGIAVI Irretroattività della risoluzione per inadempimento, in Rivista di diritto commerciale, 1934, I, pp. 701 e ss.
165 Tra le tante Xxxx. 1964/1986 in Giust. Civ. 1965, I, 1, pp. 132 e ss.
166 DI MAJO Risoluzione del contratto ed effetti restitutori: debito di valore o di valuta?, nota a Cass. 12942/1992 in Il corriere giuridico n.3/1993, p. 326.
167 XXXXXX Xx vendita e la permuta in Trattato di diritto civile a cura di VASSALLI, Torino 1972, pp. 518, 678 e ss., 870.
negativo, perché pari al danno che il compratore avrebbe evitato se non avesse stipulato il contratto. Esso non potrebbe essere cumulato con il danno contrattuale positivo, equivalente al guadagno che si sarebbe ottenuto con la vendita, e spettante ex art. 1453, I comma c.c. Ciò perché le due voci sono logicamente incompatibili tra loro: una tende a rimuovere gli effetti di un contratto che non ha soddisfatto pienamente le ragioni per le quali è sorto; l’altra tende a conseguire per equivalente i risultati che il contratto non ha raggiunto. Invece se gli interessi decorressero non dal giorno del pagamento, ma dal giorno della sentenza, essi avrebbero una mera funzione corrispettiva, e non risarcitoria, evitando che si determini l’incompatibilità di cui sopra.
Tuttavia una tale impostazione nel dare rilievo al dato normativo di cui all’art. 1453, I comma, c.c. sembra trascurare il dettato dell’art. 1458 c.c. circa l’efficacia retroattiva della risoluzione.
In effetti l’art. 1453 c.c. sembra indice dell’interesse alla permanenza in vita del contratto quale fonte di uno scambio di valori (e dunque sembra sostenere la tesi dell’irretroattività), mentre l’art. 1458 c.c. sembra esprimere l’interesse ad eliminare il contratto sia dal punto di vista qualitativa sia dal punto di vista quantitativo. Ciò forse si spiega pensando che il legislatore ha voluto lasciare la parte che agisce in risoluzione arbitra di decidere sulla sorte del contratto in quanto fonte di una peculiare composizione quantitativa del patrimonio.
Bisogna dunque comprendere l’effettiva portata della prevista retroattività della risoluzione. Essa, infatti è deputata sì a privare ab origine di rilevanza il regolamento contrattuale, ma solo nella misura in cui ciò sia necessario per consentire al contraente fedele il recupero di quella diminuzione che il suo patrimonio ha subito. Il regolamento contrattuale infatti ha una triplice veste: è modello di organizzazione dell’attività e dunque fonte di una specifica conformazione qualitativa del patrimonio; è meccanismo che attua uno scambio di valori e dunque fonte di una conformazione quantitativa del patrimonio; è infine meccanismo che legittima la reintegrazione del valore dei predetti interessi per il caso in cui essi risultino insoddisfatti a causa dell’infedele comportamento della controparte. Verificatosi l’inadempimento, l’attore in risoluzione ha interesse a eliminare il contratto quale fonte di una
peculiare composizione qualitativa del patrimonio, ma non è detto che abbia interesse ad eliminare anche la specifica composizione quantitativa creata con il contratto impugnato. Xxxx laddove intenda mantenere in vita il contratto da quest’ultimo punto di vista, poiché tale pretesa non può logicamente trovare attuazione in forma specifica (il contratto in quanto tale non può contemporaneamente essere eliminato eppure restare in vita), il contraente fedele accoppierà all’azione di risoluzione una domanda di risarcimento del danno. Quindi la risoluzione eliminerà l’assetto programmato in contratto e darà vita a un diritto di credito.
La parte che subisce la risoluzione in questo modo, da un lato vede mantenuto in vita il carattere svantaggioso dell’operazione economica progettata e dall’altro vede precluso il conseguimento dei risultati cui ambiva: ciò perché sono lasciati impregiudicati gli aspetti del contratto vantaggiosi per l’attore e sono soppressi quelli a lui svantaggiosi.168
La dottrina dell’irretroattività trova appiglio in alcuni riferimenti normativi, alla luce dei quali il principio di retroattività dettato in materia di risoluzione sembrerebbe tollerare alcune eccezioni.
Infatti, ai sensi dell’art. 1483, II comma c.c. in materia di evizione, il venditore ha l’obbligo di corrispondere al compratore il valore dei frutti da quest’ultimo restituiti all’evincente. Ciò lascia presupporre che nei rapporti tra compratore e venditore, il primo può considerare definitivamente acquisiti al suo patrimonio i frutti percepiti in costanza di rapporto. Se si ritiene dunque che l’evizione rientri nel sistema generale della risoluzione per inadempimento, bisogna concludere che l’art. 1483, II comma c.c. segue una logica diversa da quella di cui all’art. 1458 c.c.. Ciò a maggior ragione se si pensa che l’art. 1483, II comma riproduce l’art. 1486, n. 2 del c.c. del 1865, disposizione che la dottrina dell’epoca interpretava proprio come una deroga al principio di retroattività.
Allo stesso modo una parte della dottrina169, in merito all’art. 1493 c.c., che disciplina gli effetti della vendita di cosa affetta da vizi, osserva come in sede di progetto ministeriale (art. 332) la norma contenesse un inciso secondo cui “il
168 BELFIORE Risoluzione per inadempimento op. cit. pp. 314 e ss.
169 XXXXXX, op. cit. p. 863 nota 1, p. 870, nota 1.
compratore deve restituire la cosa con gli utili ricavati nel frattempo e il venditore deve restituire il prezzo con gli interessi legali dal pagamento”. Il fatto che tale inciso non sia stato riprodotto nella formulazione definitiva della norma sembra un indice della volontà di escludere la retroattività della risoluzione per vizi. Tuttavia, non va trascurato che l’art. 1493 c.c. si inserisce in un sistema che riconosce pur sempre alla risoluzione in generale efficacia retroattiva, e che proprio per questo il legislatore potrebbe aver ritenuto superfluo ribadire tale principio nell’enunciato della norma. Tra l’altro l’art. 1493 c.c. riproduce il dettato degli artt. 1501-1503 del codice civile previgente, che pacificamente la dottrina dell’epoca riconduceva al principio di retroattività della condizione risolutiva sottintesa nei contratti bilaterali.
Il motivo per cui l’art. 332 del progetto ministeriale non è stato trasposto nell’art. 1493 c.c. del ’42 potrebbe dunque derivare da un’altra circostanza. L’obbligazione restitutoria a cui è tenuto il compratore che risolve la vendita per vizi può essere astrattamente quantificata rapportandola o al valore oggettivo della facoltà di godimento della res ricevuta, o all’effettiva messa a profitto del bene da parte del compratore. Nel secondo caso si trasferisce sul venditore-contraente infedele il costo dell’eventuale inattività del compratore nel mettere a frutto la res. Se però il compratore non è tenuto a giustificare i costi della sua inattività, risulta incoerente la previsione di cui all’art. 1492, III comma c.c. che gli addossa il rischio del perimento della res non imputabile ai vizi. Sembra allora preferibile la prima opzione, per cui l’obbligazione restitutoria è rapportata al valore oggettivo del godimento della res. Ciò però sarebbe stato in contrasto in contrasto con la formulazione dell’art. 332 del progetto ministeriale, che fa riferimento agli utili ricavati dal compratore e che probabilmente per questo motivo non è stata riprodotta170.
La dottrina dell’irretroattività, oltre a trascurare il dato testuale di cui all’art. 1458 c.c. in materia di risoluzione, diventa di problematica applicazione laddove si vogliano estendere i risultati a cui essa approda, anche alle altre fattispecie di caducazione contrattuale. Sembra infatti paradossale ritenere che
170 BELFIORE Risoluzione per inadempimento op. cit. pp. 332 e ss.
i frutti e gli interessi dovuti in forza di un contratto nullo debbano decorrere dalla sentenza di nullità, che peraltro ha natura puramente dichiarativa, sebbene il contratto sia privo di effetti ab origine. Ma analoghe considerazioni valgono anche nel caso di contratto annullabile o rescindibile, sebbene la relativa pronuncia giudiziale abbia efficacia costitutiva. Non sarebbe equo per il contraente che ha subito il dolo, o la violenza o l’approfittamento della controparte, dover rinunciare agli interessi e ai frutti maturati prima della pronuncia giudiziale.
A sua volta la dottrina della retroattività in senso forte, pur scongiurando le contraddizioni di cui sopra, trascura l’espresso rinvio legislativo alla disciplina dell’indebito, con il quale il legislatore ha sicuramente voluto riferirsi anche a un’articolazione degli obblighi restitutori basata sulla condizione psicologica dell’accipiens, seppure riempita di un significato compatibile con la disciplina contrattuale. Per queste ragioni, seppure con i limiti e i correttivi sopra evidenziati, sembra ragionevole sposare la cosiddetta tesi della retroattività in senso debole, che si sforza di conciliare la retroattività dell’impugnativa contrattuale con la disciplina dell’indebito. Le difficoltà di coordinamento tra le due discipline, non solo quelle già illustrate, ma anche quelle cui si farà riferimento nei prossimi paragrafi, possono appianarsi se si considera il rinvio contenuto negli artt. 1422 e 1463 c.c., alla stregua di un semplice modello di disciplina cui il legislatore ha voluto ispirarsi per disciplinare le restituzioni, senza per questo voler ritenere che il fondamento delle due azioni sia il medesimo. In altre parole, è probabile che il legislatore non abbia mai considerato le prestazioni eseguite in base a un contratto caducato come “indebite”, essendo ben conscio invece che esse sono giustificate e anzi dovute in forza di un contratto efficace almeno temporaneamente (risoluzione, annullamento, rescissione) o anche solo apparentemente (nullità). Per di più le prestazioni contrattuali sono avvinte dal nesso sinallagmatico e dunque si atteggiano l’una come causa e corrispettivo dell’altra. Al contrario la disciplina dell’indebito, come sostenuto da autorevole dottrina171, sembra pensata per prestazioni “isolate” e mancanti fin dall’origine di una causa. Il fondamento
171 XXXXXX Teoria del negozio giuridico, Milano 1950, pp. 71 e ss.
della restituzione contrattuale, come vedremo più dettagliatamente nel III capitolo, non sembra quindi essere la mancanza di causa della prestazione, bensì il diritto di proprietà di cui il solvens è tornato ad essere (o non ha mai smesso di essere) titolare in forza della retroattività dell’impugnativa contrattuale. E tuttavia il legislatore, dovendo predisporre un modello normativo per le restituzioni contrattuali ha rinviato all’indebito, dando per implicita questa diversità di presupposti che di per sé giustifica i necessari adattamenti interpretativi e di coordinamento tra le due discipline. Anche per questo non sembra condivisibile quella giurisprudenza che estende tout court alla caducazione del contratto la disciplina dell’indebito, definendola come azione di nullità per mancanza di causa172. In questo modo tra l’altro, l’obbligazione restitutoria sembra trovare la sua fonte nello stesso contratto e ciò non sembra condivisibile se si osserva173 come il solvens in realtà non chieda la restituzione della cosa in virtù ed in conformità del rapporto giuridico sottostante, ma anzi in opposizione ad esso.
5. Segue. Restituzione del valore di godimento.
Nello studio circa le componenti dell’obbligo restitutorio da caducazione contrattuale si è posta grande attenzione al problema della restituzione del valore di godimento di un bene di cui un contraente ha goduto, senza però trarne frutti, nel periodo intercorrente tra la consegna e la restituzione del bene stesso.
Un caso particolare è quello della locazione invalida e tuttavia eseguita. In quest’ipotesi, poiché il godimento si è già realizzato di fatto, non sarebbe equo consentire a entrambe le parti la ripetizione: infatti se il conduttore potesse ottenere la restituzione dei canoni versati pur avendo goduto della cosa si arricchirebbe senza causa a danno del locatore.
172 Tra le tante Xxxx. 1250 e 12547 del 1987; Cass. 4089/1968.
173 SPADAFORA op. cit. pp. 100 e ss.
La giurisprudenza pertanto 174 nega che chi ha usufruito del godimento della cosa possa pretendere la restituzione del corrispettivo versato: la ripetibilità della prestazione non opera quando non è possibile la retroattività della prestazione, così che rimane ferma anche la controprestazione a questa collegata.
Una tale affermazione sembra elevare a principio generale la regola di cui all’art. 2126 x.x. xx xxxxxxx xx xxxxxxxxxx xxx xxxxxxxxx xx xxxxxx che risulterebbe applicabile in astratto a tutte le ipotesi in cui una delle due prestazioni non sia materialmente ripetibile175. Ciò tuttavia è criticato da quanti176 negano che l’art. 2126 c.c. possa interpretarsi come regola generale di sanatoria di un contratto invalido.
Ad ogni modo, anche ritenendo che sia possibile procedere alle restituzioni nel caso della locazione, la non perfetta coincidenza tra l’attività del solvens locatore e quella dell’accipens conduttore, rende difficile la determinazione del quantum della restituzione. Ancorarla infatti al corrispettivo pattuito rischierebbe di far rivivere il contratto invalido rendendo inoperante la relativa pronuncia giudiziale. Ciò a meno di non sostenere177 che anche la restituzione di un ammontare pari al corrispettivo costituisca ripetizione dell’indebito: in quest’ottica, la norma da applicare sarà sempre l’art. 2033 c.c. e saremo in presenza di una restituzione per equivalente, che non ha ad oggetto il valore pattuito dalle parti nel contratto viziato, ma l’oggettivo valore della prestazione di godimento. Il corrispettivo pattuito sarà un parametro per il calcolo della restituzione, fermo restando però che qualora l’incremento patrimoniale dell’accipiens sia di entità superiore, il solvens potrà ottenere l’intero arricchimento.
In alternativa si può configurare la domanda come ingiusto arricchimento e dunque il conduttore dovrà essere condannato a pagare il valore obiettivo del godimento fruito e l’attore a restituire i canoni percepiti. L’ammontare dovuto
174 Cass. 4849/1991 con nota critica di CHIODI Irripetibilità dei canoni versati in esecuzione di una locazione nulla: un caso di “estoppel” all’italiana. in Giurisprudenza italiana 1991, I, 1313 e ss.
175 MOSCATI Del pagamento dell’indebito op. cit. pp. 174 e ss.
176 ALBANESE Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova 2005, p. 484.
177 SPADAFORA op. cit. .p. 121.
a titolo di xxxxxxxx arricchimento potrà essere diverso da quello pattuito come corrispettivo della locazione. I crediti reciproci potrebbero essere oggetto di compensazione, se questa è eccepita dalle parti.
Analogamente, in materia di contratto preliminare di vendita di immobili con effetti anticipati, l’obbligo di restituzione del promissario acquirente viene nella prassi quantificato ancorandolo alla quotazione dell’immobile sul mercato locatizio, ovvero moltiplicando il canone medio per il numero delle mensilità durante le quali si è protratto il godimento.
Se la soluzione sembra appagante da un punto di vista empirico, dubbio ne è invece il fondamento giuridico. Secondo una parte della giurisprudenza178 nell’ipotesi in cui il preliminare sia venuto meno per inadempimento dell’acquirente, questo valore di godimento così quantificato sarebbe in sostanza riconducibile al risarcimento del danno da lucro cessante subito dal promittente venditore e dunque ancora una volta colorerebbe la tutela restitutoria di sfumature risarcitorie. Inoltre il danno verrebbe liquidato senza che il solvens ne abbia fornito la prova, neanche per presunzioni, il che è incompatibile anche con la struttura della tutela risarcitoria.
A questa ricostruzione si oppone quella giurisprudenza che afferma come il valore di godimento sia oggetto di un obbligo restitutorio e non invece di una voce di danno179.
Ancora diversamente si orienta quella giurisprudenza (Cass. 550/2002) che interpreta la nozione di frutti in senso ampio, ricomprendendo non solo quelli effettivamente percepiti dall’accipiens, ma anche quelli che il solvens avrebbe potuto percepire se non si fosse privato della detenzione del bene e che dunque fonda la restituzione del valore di godimento sulla disciplina dell’indebito, in analogia con la restituzione dei frutti. Questa ricostruzione ha il pregio di superare le obiezione di cui sopra, ma rimanda alle problematiche relative alla compatibilità tra la disciplina dell’indebito e le restituzioni contrattuali di frutti e interessi che si sono analizzate nel precedente paragrafo.
178 Cass. 1307/2003.
179 Cass. 2802/1990 in MGC, 1990 fasc. 4.