CAPITOLO 1: Origine ed evoluzione del contratto di franchising
IL CONTRATTO DI FRANCHISING
Di XXXXXXXXX XXXXXXXX
INDICE INTRODUZIONE 3
CAPITOLO 1: Origine ed evoluzione del contratto di franchising
1.1 Aspetti definitori del franchising 10
1.2 Gli anni Settanta 16
1.3 La sentenza “Pronuptia” 24
1.4 Il Regolamento CEE n. 4087/88 sugli accordi di franchising 42
1.5 Il Regolamento CEE n. 2790/99 sulle intese verticali 46
1.6 La nuova legge italiana sul franchising: Legge n. 129 del 2004 58
1.7 Il Decreto ministeriale n. 204 del 2005 66
CAPITOLO 2: Disciplina generale del franchising
2.1 Nozione 78
2.2 I soggetti 97
2.3 Il contenuto: diritti ed obblighi dei contraenti 107
2.4 Le tipologie 144
CAPITOLO 3: La nuova legge italiana
3.1 Premessa 156
3.2 La Legge n. 129 del 2004. 163
3.3 La nuova proposta di Xxxxx del 2007 213
3.4 Abuso di dipendenza economica e pubblicità ingannevole in relazione
al franchising 234
CONCLUSIONI 257
NORMATIVA 270
BIBLIOGRAFIA 291
INTRODUZIONE
La competizione su scala globale ed i rapidi progressi tecnologici verificatesi negli ultimi decenni hanno creato grandi opportunità per le aziende, ma hanno anche causato l’aumento degli investimenti necessari per poter dare inizio ad attività di business rendendo così sempre più difficile per le aziende la possibilità di trarre vantaggi economici in modo autonomo.
In questa nuovo modello di economia, ad emergere sono così le forme di organizzazione “a rete”, nell’ambito delle quali il franchising svolge un ruolo di rilievo, sia per il crescente successo che ha incontrato in molti mercati, sia per i vantaggi che esso comporta. Questa tipologia di contratto permette infatti la cooperazione tra grandi imprese e piccoli imprenditori che si aiutano reciprocamente a svilupparsi in mercati sempre più competitivi creando rapporti di alleanza, accordi e strutture di servizi comuni. Il franchising permette inoltre di integrare i vantaggi della grande organizzazione - quali efficienza, stabilità, affidabilità e controllo - con quelli dei piccoli sistemi - come flessibilità, innovazione, creatività e apprendimento -. I primi permettono di
approfondire le conoscenze e l’esperienza, i secondi consentono di allargare, attraverso lo sviluppo delle capacità di relazione, il campo di attività.
Il franchising è un fenomeno commerciale nato negli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale1, periodo in cui la scarsità di mezzi finanziari ostacolava l’espansione commerciale di piccole e medie imprese, e si affermò proprio in quanto presentava vantaggi sia per il franchisee (o affiliato) che per il franchisor (o affiliante).
Con il passare del tempo, il franchising ha trovato frequente applicazione anche in Europa: in un primo momento si è verificato uno “sfruttamento” del mercato europeo da parte dei franchisor americani, mentre in una seconda fase, anche le imprese europee hanno iniziato a stipulare tali contratti, sia tra imprese di uno stesso Stato, che tra imprese di Stati differenti.
Tuttavia, lo sviluppo del franchising nel mercato europeo è profondamente diverso da quello statunitense: infatti il franchisee americano opera
1 Alcuni ritengono sia nato molto tempo prima, ma mancano le testimonianze per dimostrarlo.
Cfr. X. Xxxxx, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pag.2.
con l’obiettivo finale di diventare imprenditore autonomo, mentre il franchisee europeo è maggiormente attento a limitare il rischio d’impresa2. Questa diversità emerge non soltanto perchè il franchising rappresenta un nuovo istituto nei paesi europei, ma anche per il fatto che sono diverse le esigenze cui è preposto: infatti mentre negli Stati Uniti esso rappresenta un’alternativa alla grossa distribuzione, in Europa accade esattamente il contrario, ossia sono le grosse catene di distribuzione che vi ricorrono al fine di espandersi e penetrare in mercati in cui sarebbe difficile entrare.
Anche in Italia3 lo schema del franchising è sempre più utilizzato: i dati forniti in merito dall’Associazione italiana del franchising (Assofranchising)4 nel 2003 contavano 665
2 Cfr. X. Xxxxxxxx, Factoring, Leasing, Franchising, Venture Capital, Leveraged buy-out, Hardship clause, Countertrade, Cash & Carry, Merchandising, Know-how, Securitization, 6^ ed., Torino, 1996, pagg. 130 ss..
3 In Italia la nascita del franchising risale al settembre 1970, anno nel quale venne creato a Fiorenzuola (Pc) il primo affiliato della azienda Gamma, un’impresa della grande distribuzione, assorbita poi dalla Standa.
4 Assofranchising è, come indicato dall’art. 3 del proprio Statuto, un’associazione senza scopo di lucro che si propone di “rappresentare gli interessi generali del franchising in Italia e all’estero”, nonché di “rappresentare, difendere e
Questa costante crescita ed evoluzione riscontrata nel mercato italiano e la rilevanza economico- sociale acquisita da tale tecnica commerciale rappresentano le principali ragioni che hanno indotto il legislatore all’elaborazione del provvedimento normativo del 20046, finalizzato7 a
promuovere, in Italia e all’estero, gli interessi economici, sociali e professionali dei suoi Soci Franchisors”, oltre che promuovere iniziative e scambi di informazione al fine di qualificare e valorizzare il franchising.
5 Dati reperiti dal sito xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxxxxxxxxx_xxxxxxxxxxx.xxx
6 Per l’analisi di tale provvedimento si rimanda al Capitolo 3
garantire la massima trasparenza nei rapporti contrattuali, sia attraverso l’imposizione di specifici obblighi informativi durante la fase precontrattuale, sia con la previsione di un contenuto essenziale minimo nel contratto, senza però, nel contempo, imporre rigidi schemi contrattuali che porterebbero a compromettere quella elasticità e flessibilità tipica del franchising, capace di adattarsi alle svariate esigenze del sistema economico8.
La presente opera ha lo scopo di studiare approfonditamente il contratto di franchising, anche alla luce della nuova legislazione italiana emanata nel 2004, cui la dottrina, tuttavia, non ha risparmiato pesanti critiche.
In particolare, il primo capitolo è dedicato all’analisi evolutiva del franchising, partendo dal secondo dopoguerra, periodo in cui tale figura iniziò a svilupparsi, con l’esame la storica sentenza “Pronuptia” che dettò le prime basi
8 Cfr. X. Xxxxxxx, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studiami Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.
giurisprudenziali in materia, arrivando successivamente ai Regolamenti emessi in ambito comunitario con lo scopo di regolare il franchising, per poi occuparsi dei primi commenti alla Legge n. 129 del 2004 italiana sul franchising. Il secondo capitolo è riservato allo studio della disciplina del franchising, e al confronto con altri contratti tipici del nostro ordinamento, descrivendo le diverse tipologie esistenti di tale istituto, la struttura, gli elementi caratteristici e i soggetti coinvolti.
Il terzo capitolo, invece, affronta la tematica centrale concernente la Legge n. 129 del 2004, il primo intervento normativo italiano in materia di franchising, molto criticato a causa delle scarse novità apportate, in quanto non regola compiutamente il contenuto di tale contratto, ma si limita a dettare alcune norme in materia di tutela del contraente più debole.
L’intento è, quindi, quello di analizzare a fondo tale Xxxxx, col supporto delle osservazioni provenienti dalla dottrina italiana, cercando anche di valutare se si manifesti la necessità di un nuovo intervento del Legislatore in materia di franchising, seguendo la nuova proposta di legge
presentata lo scorso anno che, se approvata, abrogherebbe la normativa appena entrata in vigore.
CAPITOLO 1: ORIGINE ED EVOLUZIONE DEL CONTRATTO DI FRANCHISING.
1.1 Aspetti definitori del franchising
Il termine “franchising” deriva dal francese “franchise”9 che significa libertà, privilegio, esclusiva, ed è stato poi tradotto “franchising” in inglese. Si tratta di vocaboli che designano, appunto, una situazione di privilegio: il franchisee, infatti, acquista, dietro corrispettivo, il “privilegio” di sfruttare la formula commerciale del franchisor10.
Esso consiste in una tecnica di distribuzione di prodotti effettuata attraverso l’utilizzazione, nei punti di vendita, del marchio e dei segni distintivi del produttore-distributore. Quest’ultimo, anziché effettuare la vendita diretta, attraverso esercizi commerciali e dipendenti organizzati direttamente e a proprio rischio, decide di costruire la sua rete di vendita mediante accordi di franchising con imprenditori locali (i franchisee) i quali si
9 Che a sua volta deriva dalla radice xxxxxx xxxxxx “ xxxxx”.
10 Cfr. X. Xxxxxxx., La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477-1488.
impegnano a vendere, spesso in esclusiva, i prodotti del franchisor, utilizzando anche il marchio di quest’ultimo, simboli e insegne, e spesso seguendo lo stesso allestimento dell’esercizio imposto.
Il franchisor si impegna a fornire i prodotti da rivendere e ad accollarsi servizi di assistenza ed altri eventuali costi, come per esempio le spese di pubblicità, le spese iniziali di allestimento dell’esercizio commerciale ecc.. Il corrispettivo del franchisor è composto da una parte fissa (entry fee o front fee) e da una parte variabile in proporzione alle vendite realizzate (royalty).
Il franchisee si obbliga ad acquistare una quantità minima di prodotti e ad osservare le modalità di vendita imposte dal franchisor11.
Fornire una definizione precisa e univoca di franchising risulta però difficile, in quanto in passato sono state fornite diverse definizioni; si potrebbe, perciò, adottare la descrizione in senso sostanziale dell’Associazione Italiana del Franchising (Assofranchising), che lo considera, “una forma di collaborazione continuativa per la
11 Cfr. X. Xxxxxxx, Lineamenti di diritto privato, 6^ ed., Torino, 2006, pagg. 582-583.
distribuzione di beni o servizi fra un imprenditore (franchisor) e uno o più imprenditori (franchisee) giuridicamente ed economicamente indipendenti uno dall’altro, che stipulano un apposito contratto attraverso il quale l’affiliante concede all’affiliato l’utilizzazione della propria formula commerciale, comprensiva del diritto di sfruttare il suo know- how ed i propri segni distintivi, unitamente ad altre prestazioni e forme di assistenza atte a consentire all’affiliato la gestione della propria attività con la medesima immagine dell’impresa affiliante; l’affiliato si impegna a far proprie politica commerciale e immagine dell’affiliante nell’interesse reciproco delle parti medesime e del consumatore finale, nonché al rispetto delle condizioni contrattuali liberamente pattuite”12. Un’altra definizione è fornita dal Codice Deontologico della Federazione Italiana del Franchising in cui si descrive il franchising come “una forma di collaborazione contrattuale tra parti
12 Cfr. xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx alla voce “Che cos’è il franchising”.
giuridicamente ed economicamente indipendenti, di pari dignità”13.
Il franchising costituisce perciò un “pacchetto di probabilità di successo” che il franchisor mette a disposizione del franchisee; lo scopo principale dell’accordo tra le parti è quello di procurare benefici ad entrambi i soggetti mediante la combinazione delle loro risorse, mantenendo come preciso obiettivo l’interesse del consumatore finale. Lo scopo del franchising rappresenta perciò una collaborazione fiduciaria tra due partners; ciò che essi devono fare è “stabilire chiare regole di gioco” relativamente flessibili, mantenendo però rigidi i principi fondamentali della cooperazione, della collaborazione, del dialogo e dell’equilibrio di diritti e doveri delle parti. La filosofia di base, dettata anche dall’U.E., è quella di evitare il predominio di uno sull’altro.
Il contratto di franchising appartiene ai contratti cosiddetti “di integrazione”14, cioè quei contratti di
13 Cfr. xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx alla voce “Codice deontologico della federazione italiana del franchising”, art. 1.
14 Cfr. X. Xxxxxxxx, Manuale di diritto commerciale, a cura di Xxxxxxxxx V., Torino, 2001, pag. 905, secondo cui, nell’ambito dei contratti di distribuzione, si è venuta a creare una gamma sfumata di modelli organizzativi che permettono di coordinare variamente la fase produttiva con quella
durata in cui un imprenditore affida in tutto o in parte la fase della produzione dei propri beni o della distribuzione degli stessi15 ad un altro imprenditore, il quale effettua investimenti e acquisisce conoscenze per poter eseguire tale attività. Quest’ultimo viene perciò stabilmente inserito nel ciclo economico del primo; viene perciò “integrato” nel processo produttivo o distributivo dell’altro imprenditore, il quale trasmette licenze di know-how, di marchio, di insegna, di brevetto e ne organizza e indirizza il lavoro attraverso precise direttive riguardanti le modalità della distribuzione o della produzione. L’obiettivo principale di tali contratti è, quindi, quello di creare agli occhi del consumatore un’immagine di unità e omogeneità tra i soggetti coinvolti16.
I costi sopportati per raggiungere l’integrazione nella struttura organizzativa del partner contrattuale comportano che l’eventuale
distributiva, attraverso un fenomeno economico di “integrazione verticale”.
15 La distribuzione può avere ad oggetto non solo beni ma altresì servizi.
16 Ad esempio su come arredare i locali in cui si svolge la vendita; oppure circa quali materiali usare per la fabbricare i beni.
Caratteristica degli “imprenditori integrati” è quindi quella di subire una notevole ingerenza del soggetto al quale sono legati contrattualmente, pur essendo giuridicamente autonomi ed economicamente indipendenti: infatti il soggetto “integrato” si procura da sé i mezzi per lo svolgimento della propria attività e si assume personalmente il rischio d’impresa18.
17 Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, La posizione dominante come presenza di una barriera, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 1999, fasc. 2, pag. 223. 18 Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.
In realtà, spesso accade che l’imprenditore integrato risulti di fatto economicamente dipendente, in quanto spesso “costretto” ad accettare i “suggerimenti” circa i prezzi da praticare o le strategie commerciali da adottare nella consapevolezza che questi consigli permetteranno il buon funzionamento dell’intera catena distributiva o produttiva, attribuendo a se stesso, sia pure di riflesso, dei vantaggi economici. La condizione di debolezza dell’imprenditore integrato è rappresentata anche dal fatto che la sua clientela è a lui legata solo fino a quando disporrà dei segni distintivi dell’imprenditore concedente; dopo la conclusione del rapporto, non potendo più esibirli, perderà inevitabilmente buona parte della clientela.
L’imprenditore integrato pertanto può essere destinatario dell’art. 9 della Legge 192/98 che disciplina l’abuso di dipendenza economica, come si esaminerà nel prossimo capitolo.
1.2 Gli anni Settanta
Il fenomeno commerciale del franchising ebbe inizio negli Stati Uniti nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale e rappresentò una
possibilità di crescita in un periodo caratterizzato da scarsità di risorse e mezzi finanziari.
Il successo si estese negli anni Settanta anche in Europa sull’onda dei buoni risultati raggiunti oltreoceano. Da subito, ci si pose il problema di come poter disciplinare tale contratto e, pertanto, vennero avviate dalla Commissione Europea le prime riflessioni in ordine alla predisposizione di alcune regole guida a fronte della crescita del franchising, con l’obiettivo di fornire qualche elemento di certezza, in assenza di un quadro regolamentare.
Nel 1976, presso la Commissione Europea19 venne istituito un gruppo di lavoro con il compito di valutare l’opportunità di prevedere una disciplina specifica del franchising, ma, dopo due anni, la sua attività venne terminata in quanto si giunse alla conclusione che le problematiche andavano affrontate nel quadro delle regole di concorrenza e che i tempi erano ancora poco maturi perché la Commissione dettasse una regolamentazione a livello europeo.
19 Più precisamente presso la sezione Direzione generale “Mercato interno”.
La mancanza di un adeguato apparato normativo contribuì perciò alla graduale affermazione di una disciplina convenzionale e di meccanismi di autoregolamentazione, che trovarono la loro massima espressione nell’elaborazione di codici deontologici21: nel 1978 l’Assofranchising22
20 Cfr. E.M. Xxxxxxx, La disciplina italiana del franchising; brevi note alla legge 6 maggio 2004, n. 129 in Disciplina del commercio e dei servizi, 2004, fasc. 3, pagg. 511-526.
propose un proprio Codice deontologico che assunse maggiore rilevanza nel 1995 grazie all’adozione di un Regolamento vincolante per i soci dell’associazione23; nel 1981 venne pubblicato il “Codice europeo di deontologia del franchising”24 presentato dalla European Franchising Federation ed elaborato in collaborazione con la Commissione Europea ed i principali esperti in materia25. L’obiettivo di quest’ultimo era quello di regolare in modo uniforme i rapporti di franchising esistenti in tutti i Paesi europei, sia da un punto di vista strettamente commerciale ravvisando in tale contratto “un sistema di commercializzazione di prodotti e/o servizi e/o tecnologie basato su una stretta e continuativa collaborazione tra imprese
22 Associazione italiana del franchising.
23 Tale Regolamento è oggi denominato Codice Deontologico consultabile sul sito internet xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx. Esso tiene conto dell’evoluzione della disciplina legislativa, giurisprudenziale ed autodisciplinare del quadrante europeo.
24 Dopo una prima versione del 1972.
Cfr. X. Xxxxxxxx, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 167-175.
legalmente e finanziariamente separate ed indipendenti”26, sia in una prospettiva di stampo giuridico ponendo l’accento sul contenuto del contratto, in forza del quale l’affiliante concedeva ai suoi affiliati il diritto, ed imponeva loro l’obbligo, di intraprendere un’attività economica in base al sistema elaborato dall’affiliante. Tale diritto legittimava e obbligava l’affiliato, in cambio di un corrispettivo finanziario diretto o indiretto, ad usare il nome commerciale e/o i marchi commerciali e/o i marchi relativi a prestazioni di servizi, il know-how, i metodi commerciali e tecnici, le procedure e altri diritti di proprietà industriale e/o intellettuale dell’affiliante, collegati ad una prestazione continuativa di assistenza commerciale e tecnica, secondo le condizioni di un contratto di affiliazione scritto, concluso tra le parti27.
26 Cfr. art. 1 del Codice Deontologico europeo del franchising. 27 Il testo del codice deontologico è stato ampiamente criticato sia sotto il profilo della struttura che quello della tecnica redazionale. Ad esempio, esaminando il testo il lingua inglese (che risulta essere stata la lingua di lavoro nell’ultima fase preparatoria del codice, il quale invece prima portava lingua e impronta francesi) non risultava chiaro cosa doveva intendersi per “rules concernine the contract”, essendo menzionate sia regole formali che sostanziali. Oltre a ciò, nella versione pubblica distribuita a cura della Commissione CEE, la
Tali codici erano stati elaborati al fine di predisporre un insieme di regole comportamentali, ispirate ai principi di correttezza e professionalità, la cui ottemperanza favoriva l’instaurazione e lo svolgimento di un rapporto di franchising corretto. Oltre a delineare i criteri da osservare ai fini della stipulazione del contratto, i codici deontologici stabilivano in modo preciso e chiaro anche le obbligazioni nascenti a carico di entrambe le parti, nonché gli elementi volti a costituire il contenuto minimo essenziale del contratto.
traduzione italiana risultava non solo infedele rispetto ai testi inglesi e francesi, ma altresì erronea nei termini giuridici utilizzati.
Xxx. X. Xxxxxxxx, Xx xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pagg. 167-175.
28 28 Cfr. X. Xxxxxxx, La tipizzazione del contratto di franchising e i profili problematici della L. 6 maggio 2004, n. 129 (prima parte) in Studium Iuris, 2004, tomo II, pagg. 1477- 1488.
Grazie a tutte queste iniziative, il panorama regolamentare europeo iniziava a trovare una certa stabilità, anche grazie alla sentenza della Corte di Giustizia sul caso “Pronuptia”30, che gettò le basi giuridiche della materia, e al Regolamento della Commissione n. 4087/1988 di esenzione per categoria degli accordi di franchising31.
In mancanza, quindi, di una legge specifica che disciplinasse il franchising, il maggiore problema
29 Per la Francia cfr. la legge Doubin (legge n. 89-1008 del 31 dicembre 1989) che, per quanto riguarda i contenuti informativi da presentare al potenziale affiliato, rinvia ad un décret d’application n. 91-337 del 4 aprile 1991. Per la Spagna cfr. l’art. 62 della legge 15 gennaio 1996, n. 7 che, oltre a prevedere un registro pubblico in cui devono essere iscritti i franchisor, introduce i prospetti informativi assimilabili a quelli delle imprese sottoposte a controlli amministrativi.
30 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986, pag. 353 e ss..
31 Regolamento Cee della Commissione del 30 novembre 1988, n. 4087/1988 concernente l’applicazione dell’art. 85, par. 3 del Trattato a categorie di accordi di franchising.
era quello di fornire una definizione di tale istituto troppo vasta32 nella quale potevano anche rientrare una serie di schemi contrattuali diversi quali l’agenzia, la somministrazione, la concessione a vendere, la licenza ecc.33.
32 Il franchising veniva definito come “un sistema di collaborazione tra un produttore (o rivenditore) di beni od offerente di servizi (franchisor) ed un distributore (franchisee), giuridicamente ed economicamente indipendenti l’uno dall’altro, ma vincolati da un contratto, in virtù del quale il primo concede al secondo la facoltà di entrare a far parte della propria catena di distribuzione, con il diritto di sfruttare, a determinate condizioni e dietro il pagamento di una somma di denaro, brevetti, marchi, nome, insegna o anche una semplice formula o segreto commerciale a lui appartenente; inoltre il primo si obbliga a rifornire bene o servizi, mentre il secondo si obbliga a conformarsi ad una serie di comportamenti prefissati dal primo”. L’elemento essenziale sembrava dunque la trasmissione dal franchisor al franchisee di una facoltà che il secondo non aveva, a fronte di una controprestazione prevalentemente, ma non essenzialmente, monetaria.
Cfr. X. Xxxxxxxx, Factoring, Leasing, Franchising, Concorrenza, 2^ ed., Torino, 1983, pag. 125.
33 Anche negli Stati Uniti esisteva lo stesso problema e la dottrina affermava che “il termine franchising è stato applicato indiscriminatamente a rapporti tra loro molto diversi, da impedire ogni definizione. Ad un estremo esso è la mera concessione, che una pare fa all’altra, di vendere i propri prodotti. All’estremo opposto è un accordo commerciale globale in cui il franchisor conferisce la licenza del suo marchio e del suo trade name; comunica, sotto il vincolo segreto, il suo know-how e, su base continuativa, fornisce guida e dettagli relativi al modo preciso in cui il franchisee deve gestire il suo punto di vendita”. Si è quindi
Da qui ebbe inizio il periodo di maggiore interesse giurisprudenziale per il franchising, di cui ci occuperemo nei paragrafi che seguono.
1.3 La sentenza “Pronuptia”
Come precedentemente affermato, già negli anni Settanta erano state fornite le prime definizioni del contratto di franchising, ma solo nel 1986, con l’intervento della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, si riuscì a migliorare il quadro; la sentenza “Pronuptia”34, infatti fornì le basi giurisprudenziali in materia affermando che, nell’ambito di un sistema di franchising in materia di distribuzione, l’impresa che si sia stabilita su di
concluso che il termine franchising “tende a coprire l’interezza dei contratti di distribuzione”.
Cfr. X. Xxxxxxx, Il commercio, Bologna, 1979, pagg. 53 ss..
34 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986, pag. 353 e ss.. La causa riguarda una grande azienda francese, Pronuptia, che vende abiti da cerimonia. L’azienda aveva stipulato un contratto di franchising con un commerciante tedesco che aveva tre sedi: Amburgo, Oldemburg e Hannover. Nel corso della lite per il pagamento delle royalties arretrate, i giudici tedeschi si rivolsero alla Corte di Giustizia della Comunità Europee per chiedere se le clausole di quel particolare contratto di franchising fossero in contrasto con le norme comunitarie in tema di concorrenza. Si trattava in particolare di clausole che prevedevano l’approvvigionamento esclusivo dei prodotti presso il franchisor e il divieto di pubblicità se non dietro approvazione del franchisor.
un mercato come distributore e abbia così potuto mettere a punto un insieme di metodi commerciali concede, dietro corrispettivo, a dei commercianti indipendenti la possibilità di stabilirsi su altri mercati utilizzando l’insegna ed i metodi commerciali della prima. La Corte però, rilevò che, sebbene il franchising rappresentasse, per l’impresa, un modo di sfruttare economicamente, senza investire i propri capitali, un patrimonio di cognizioni, sotto un altro punto di vista, questo sistema avrebbe consentito ai commercianti sprovvisti dell’esperienza necessaria di avvalersi di metodi che essi avrebbero potuto acquisire solo dopo una lunga e laboriosa ricerca e di giovarsi della reputazione del segno distintivo del concedente.
La Corte evidenziò, inoltre, il fatto che i contratti di franchising in materia di distribuzione si differenziano dai contratti di concessione di vendita o da quelli che vincolavano i rivenditori autorizzati in un sistema di distribuzione selettiva, i quali non contemplavano né l’uso della stessa insegna, né l’applicazione di metodi commerciali uniformi né il pagamento di compensi per i vantaggi concessi.
Come si può notare, la Corte descrisse in maniera molto dettagliata la funzione economica del contratto, facendo espresso riferimento soltanto ai contratti aventi per oggetto la distribuzione di prodotti, caratterizzati dal fatto che il franchisor trasmette al franchisee dei metodi di vendita (know-how commerciale) nonché la possibilità di utilizzare l’avviamento collegato ad un segno distintivo che contraddistingue la rete.
Ciò significa che i principi della sentenza non sono necessariamente applicabili a situazioni diverse da quelle considerate, come ad esempio il franchising di servizi35 o forme di franchising basate unicamente sull’immagine della rete non implicanti la cessione di know-how commerciale. Inoltre, la sentenza aveva sottolineato la differenza tra franchising di distribuzione e concessione di vendita; questo problema sorgeva esclusivamente nei paesi europei, ma non negli Stati Uniti, poiché, la concessione di vendita non esisteva all’interno dei Paesi di civil law36.
35 Per l’analisi della differenza tra franchising di distribuzione e franchising di servizi si rimanda al Capitolo 2.
36 Cfr. X. Xx Xxxx, voce “Franchising” in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale, volume IV, Torino, 1991, pagg. 296-308.
La sentenza ha sollevato un grande problema: ci si chiedeva, infatti, se il franchising fosse contrario alle regole comunitarie in quanto limitativo della concorrenza.
La Corte, nella sua pronuncia, decise che il franchising non arrecava pregiudizio alla concorrenza e non ricadeva quindi nel divieto dell’art. 8137 del Trattato CE38 nel caso in cui il franchisor “suggerisse” i prezzi di vendita al franchisee, senza quindi imporli. La decisione della
37 Ex art. 85 del Trattato CEE.
38 L’art. 81 del Trattato CE recita: “Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune ed in particolare quelli consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni di transazione,
b) limitare o controllare la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo tecnico o gli investimenti,
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento,
d) applicare, nei rapporti commerciali con gli altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi ultimi uno svantaggio nella concorrenza,
e) subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi.
Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono nulli di pieno diritto.”
Corte di non considerare il franchising contrario all’art. 81 del Trattato CE realizzava due obiettivi considerati fondamentali: da un lato, consentire che il know-how potesse essere trasferito ai franchisee senza che lo stesso andasse a vantaggio dei concorrenti del concedente, dall’altro, permettere che venisse preservata l’uniformità e la reputazione della rete.
In questo modo, la Corte ha fatto ricorso allo strumento della rule of reason39 che consiste in un bilanciamento tra aspetti positivi e negativi di un determinato fenomeno; tale strumento è stato utilizzato valutando una possibile restrizione concorrenziale all’interno dell’art. 81 del Trattato CE ammettendo che il franchising potrebbe essere da un lato lesivo della concorrenza, ma dall’altro, se visto nel suo complesso potrebbe essere in grado di apportare benefici al mercato.
Inoltre, la Corte ha individuato un elenco di clausole potenzialmente restrittive che potevano considerarsi, nel contesto di un contratto di
franchising, non sottoposte al divieto dell’art. 81 del Trattato CE.
Si tratta, in particolare, delle clausole seguenti.
a) Obbligo di non concorrenza: si tratta del divieto imposto al franchisee “di aprire durante la vigenza del contratto o durante un adeguato periodo dopo la scadenza dello stesso, negozi per l’esercizio di attività identiche o simili in zone in cui egli possa trovarsi in concorrenza con commercianti aderenti alla rete di distribuzione”40.
Sembrerebbe quindi che la Corte si preoccupi di impedire la divulgazione del know-how della rete vietando al franchisee di entrare in rapporti contrattuali con eventuali concorrenti del franchisor. Tuttavia, questa interpretazione non si concilia con la limitazione territoriale dell’obbligo di non concorrenza, essendo evidente che per la divulgazione del know-how è irrilevante che il franchisee operi per il concorrente in una zona piuttosto che in un’altra41. Effettuando un’analisi più approfondita è possibile ritenere che la Corte
40 Sentenza Pronuptia, paragrafo 16.
intendesse invece proteggere il franchisor dal pericolo di uno sviamento della clientela a favore dei concorrenti: infatti, quando la Corte afferma che l’obbligo di non concorrenza serve ad evitare che i concorrenti possano giovarsi, anche indirettamente, delle tecniche e dei metodi del concedente, si presume che intenda riferirsi non tanto al know-how in quanto tale, ma all’avviamento costruito grazie a questo.
Questo dovrebbe spiegare il fatto per cui si vieti al franchisee lo svolgimento di un’attività concorrente unicamente nelle zone in cui operano altri affiliati, in cui esiste quindi un avviamento da tutelare, e per quanto riguarda anche il divieto postcontrattuale, solo per un periodo di tempo limitato42.
b) Obbligo di vendere esclusivamente prodotti forniti dal franchisor. Nell’ottica di consentire il controllo sull’omogeneità della rete, la Corte ha ritenuto che debba essere consentito al franchisor di controllare l’assortimento di tipologie merceologiche offerte al franchisee, in modo da
42 Infatti, è soprattutto nel periodo immediatamente successivo al passaggio del franchisee ad un’altra rete che si presenta il rischio di uno sviamento della clientela.
garantire che il cliente possa trovare presso ogni negozio affiliato merce della stessa qualità. In alcuni casi però (ad es. per gli articoli di moda) risulta impossibile stabilire criteri oggettivi, mentre in altri (ad es. quando la rete è composta da un numero molto elevato di franchisee) il controllo può rivelarsi troppo costoso; la Corte ha perciò concluso che “in tali circostanze43 la clausola che impone all’affiliato di vendere solo merci fornite dal franchisor o da fornitori scelti dallo stesso va considerata necessaria alla tutela della reputazione della rete distributiva” e quindi compatibile con l’art. 81 del Trattato CE, purché non si impedisca all’affiliato di procurarsi le merci anche presso altri franchisee44. L’affermazione della Corte consente quindi, almeno nei casi in cui il controllo sulla qualità dei prodotti non appaia possibile, non solo di vietare al franchisee la vendita di prodotti
43 Molti critici hanno osservato che nel testo italiano della sentenza è stato tradotto “di conseguenza” invece di “in tali circostanze” trattandosi perciò di un evidente errore di traduzione delle parole “in such circumstances” del testo inglese e “dans de telles conditions” del testo francese. L’errata traduzione snatura decisamente il senso delle parole della Corte, dando l’erronea impressione che le successive affermazioni abbiano carattere assoluto, mentre in realtà esse sono subordinate alla presenza dei presupposti citati sopra.
44 La Corte afferma il principio di libertà di vendite “incrociate” tra i membri della rete.
concorrenti con quelli del concedente, ma anche di condizionare l’assortimento di prodotti non concorrenti venduti nel negozio affiliato.
c) Divieto di cessione del negozio: la Corte definisce “l’obbligo del concessionario di non cedere il negozio senza il consenso del concedente” riferendosi soprattutto alla cessione a terzi dei locali, cioè del luogo che la clientela ricollega all’immagine della rete di franchising. Detta clausola – ritenuta ammissibile dalla Corte - mira ad evitare che i concorrenti si giovino indirettamente del patrimonio di cognizioni e di tecniche fornito e dell’assistenza prestata al concessionario. Infatti, uno dei rischi maggiori per il franchisor è quello che un concorrente possa creare un punto vendita negli stessi locali in cui operava precedentemente un membro della rete, deviando a proprio vantaggio la clientela del primo titolare del punto di vendita.
d) Obbligo di applicare i metodi commerciali elaborati dal franchisor: si tratta “dell’obbligo del concessionario di applicare i metodi commerciali elaborati dal concedente e di avvalersi del
patrimonio di cognizioni e di tecniche fornitegli”45 che rappresenta la conseguenza logica del carattere unitario della rete. Anche se non è detto espressamente, la pattuizione non consente di coprire l’imposizione di obblighi altrimenti incompatibili con le norme sulla concorrenza (ad es. l’imposizione dei prezzi).
e) Obbligo di vendere esclusivamente dai locali autorizzati: si tratta di una limitazione posta al franchisee al fine di garantire l’uniformità e la reputazione della rete. Il concessionario ha quindi l’obbligo di “vendere le merci oggetto del contratto solo nei locali allestiti e decorati in base alle istruzioni del concedente” e di “non cambiare l’ubicazione del negozio senza il consenso del concedente”46.
La clausola in esame sembrerebbe inoltre implicare che l’affiliato non possa neanche aprire nuovi negozi in franchising senza il consenso del concedente; infatti, se lo spostamento dell’ubicazione del negozio esistente richiede
45 Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 18. Le istruzioni solitamente sono contenute nel manuale operativo che fissa le procedure che il franchisee deve seguire nella gestione del negozio.
46 Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 19.
l’assenso del franchisor, ciò dovrebbe valere anche per l’apertura di un nuovo punto vendita. La norma non chiarisce però se il controllo del franchisor possa spingersi oltre quanto necessario a garantire l’uniformità e la reputazione della rete: questo aspetto costituisce proprio uno dei punti più discussi e controversi della sentenza.
f) Divieto di cedere il contratto e scelta discrezionale dei franchisee: non è contrario all’art. 81 del Trattato CE “il divieto, imposto al concessionario, di trasferire diritti ed obblighi derivanti dal contratto, senza il consenso del concedente”, in quanto ciò serve a salvaguardare “il diritto di quest’ultimo di scegliere liberamente i concessionari”47. Questo punto, oltre a confermare la liceità del divieto di cedere il contratto, chiarisce che nel contesto del franchising anche una selezione dei rivenditori puramente discrezionale, e quindi tipicamente quantitativa48, non ha carattere restrittivo.
47 Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 20.
48 La selezione dei rivenditori è definita “quantitativa” poiché la clausola permette al franchisor di poter decidere un numero massimo di affiliati per la propria rete. In passato questo tipo di selezione è stata molto criticata e considerata elemento negativo dalla giurisprudenza, anche se ora essa risulta essere
g) Controllo sulla pubblicità: la Corte ha considerato compatibile con l’art. 81 del Trattato CE l’eventuale clausola “che subordini qualsiasi pubblicità da parte del concessionario al consenso del concedente”, purché tale controllo si riferisca soltanto “alla natura della pubblicità”49. Il riferimento dovrebbe riguardare soltanto il modo di fare pubblicità, e non il suo contenuto, per evitare che si venga a controllare la politica dei prezzi del franchisee, la quale non può essere sottoposta a limitazioni.
L’apertura mostrata dalla Corte nell’applicazione della rule of reason ad una serie di pattuizioni tipiche del contratto di franchising è stata controbilanciata da un atteggiamento estremamente restrittivo riguardo alla clausola che consente di attribuire al franchisee una zona esclusiva, proteggendolo dalla concorrenza intra- brand degli altri membri della rete. Il testo della sentenza afferma che esistono clausole restrittive della concorrenza tra i componenti della rete di distribuzione che in realtà non sono necessarie per
autorizzata in base al regolamento 2790/99 analizzato successivamente al par. 1.5.
49 Sentenza “Pronuptia”, paragrafo 22.
la protezione del patrimonio di cognizioni e di tecniche fornite o per la preservazione dell’identità e della reputazione della rete. È questo il caso delle clausole che ripartiscono i mercati fra concedente e concessionari o fra concessionari, o che impediscano a questi ultimi di farsi concorrenza tra loro al livello dei prezzi.
A questo proposito, occorre richiamare l’attenzione sulla clausola che fa obbligo al concessionario di vendere le merci oggetto del contratto solo nel locale di quest’ultimo e che vieta allo stesso di aprire un altro negozio. La sua reale portata emerge se essa viene esaminata in relazione all’impegno del concedente di garantire al concessionario l’uso esclusivo del segno distintivo concessogli in una determinata zona. Per “onorare” questo impegno assunto nei confronti del concessionario, il concedente non solo deve obbligarsi a non stabilirsi nella zona considerata, ma deve inoltre esigere che gli altri
concessionari si impegnino a non aprire altri negozi.
La combinazione di clausole di questo tipo si risolve in una ripartizione di mercati fra il concedente e i concessionari o fra concessionari e
quindi restringe la concorrenza nell’ambito della rete di distribuzione.
In sostanza, la Corte precisa una clausola che obbliga il franchisee a vendere la merce solo nel negozio menzionato nel contratto e gli impedisce di aprire altri negozi senza il consenso del franchisor, ma quest’ultimo deve impegnarsi a garantire l’uso esclusivo dei segni distintivi all’interno di una determinata zona. Anche questa affermazione della Corte però è molto criticata
50 Cfr. sentenza “Pronuptia”, paragrafi 23 e 24.
dalla dottrina, in quanto si afferma che bisognerebbe fornire un’interpretazione più estensiva di quest’ultima: quindi il fatto di vincolare il franchisee ad operare in un certo ambito territoriale, non permettendogli di espandersi attraverso l’apertura di nuovi punti vendita, sarebbe contrario all’art. 81 del Trattato CE in quanto porterebbe ad una ripartizione di zone tra franchisee51.
Seguendo tale interpretazione, tutti i contratti di franchising che prevedano il divieto per il franchisee di aprire nuovi punti vendita senza il consenso del franchisor52, necessiterebbero di un’autorizzazione e potrebbero essere considerati legittimi solo se conformi al Regolamento di esenzione 2790/9953. Esiste, però, anche un’altra
51 Cfr. X. Xxxxxxxxxx, Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, 2^ volume, Padova, 2007, pagg. 251-260.
52 Rientrerebbe quindi quasi la totalità dei contratti di franchising.
53 Nei casi in cui il regolamento 2790/99 non venga applicato, dovrebbero essere allora conformi ai requisiti previsti dall’art. 81, 3° comma il quale recita “Tuttavia, le disposizioni del paragrafo 1 possono essere dichiarate inapplicabili:
- a qualsiasi accordo o categoria di accordi fra imprese;
- a qualsiasi decisione o categoria di decisioni di associazioni di imprese e
interpretazione fornita dalla dottrina, secondo cui il divieto di aprire nuovi negozi sarebbe contrario all’art. 81 del Trattato CE, soltanto nel caso in cui sia riconosciuta ai franchisee una zona esclusiva; perciò solo i contratti di franchising senza esclusiva di zona che non contengano ulteriori clausole restrittive, potrebbero essere considerati legittimi.
Per completare il quadro giurisprudenziale degli Xxxx Xxxxxxx è possibile citare altri due casi riguardanti il franchising: il primo riguarda la vicenda della G. Coll. del 198654 nella quale i giudici hanno riscontrato nel presunto franchising un uso illegittimo. La X. Xxxx. aveva stipulato con undicimila soggetti un contratto denominato franchising, chiedendo ad ognuno di essi il versamento di una somma in parte destinata per
- a qualsiasi pratica concordata o categoria di pratiche concordate che contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva, ed evitando di:
a) imporre alle imprese interessate restrizioni che non siano indispensabili per raggiungere tali obiettivi;
b) dare a tali imprese la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi”.
54 Tribunale di Firenze, 30 maggio 1986, in Impresa
commerciale industriale, 1988, n. 21, 2980.
poter usufruire di un campionario di prodotti di scarso valore e in parte a titolo di entry fee. L’impegno per ogni franchisee consisteva non solo nella vendita dei pochi prodotti che avevano potuto acquistare, ma anche nel reclutamento di nuovi aderenti da inserire nell’organizzazione.
I giudici valutarono perciò che tale attività non poteva rientrare nella categoria del franchising ma consisteva in una vendita piramidale giuridicamente inammissibile55.
L’altro caso riguarda invece l’azienda Benetton56 in cui si è discusso57 se fosse ammissibile un rapporto
55 Infatti, la legge stabilisce che, mentre la vendita diretta ha lo scopo di avvicinare il produttore al consumatore finale, le vendite piramidali tendono, al contrario, a moltiplicare i livelli di vendita. Ciò che si compra non è infatti un prodotto od un servizio ma semplicemente l’accesso alla “catena”, ovvero la posizione di venditore in sé e per sé. Mentre una società che opera attraverso forme di vendita diretta retribuisce i propri agenti o venditori riconoscendo loro delle provvigioni direttamente proporzionali alla quantità o al valore del prodotto venduto, in un organismo piramidale il prodotto è solo il pretesto per reclutare altri venditori che pagheranno all'agente esclusivamente la posizione di rivenditore all'interno della piramide.
Cfr. X. Xxxxxxx, Il franchising nella giurisprudenza prima della Legge 129/2004, in Guida al diritto (allegato a Sole 24ore), 5 giugno 2004, n. 22. Il testo può essere visualizzato anche al sito internet xxx.xxxxxxx.xxxxxx00xxx.xxx.
56 Caso Pantaleo/Benetton, Pretura di Lecce 24/10/1989 in
Giurisprudenza italiana, 1991 e Tribunale di Lecce 9/2/1990
contrattuale che prevedeva l’esclusiva territoriale a favore di un solo contraente e non dell’altro:il franchisee non poteva cioè vendere nella città di Lecce prodotti diversi da quelli del franchisor, ma quest’ultimo poteva aprire nella stessa città altri punti vendita in concorrenza con il primo. Il Tribunale di Lecce è stato quindi chiamato a giudicare il caso del franchisor che, sia in prima persona che mediante società collegate operi a pochi metri di distanza dall’esercizio commerciale già esistente di un altro franchisee.
I giudici hanno stabilito in questo caso che l’esclusiva reciproca non è un effetto naturale del contratto di franchising, ma deve, di volta in volta, essere prevista dalle parti58.
1.4 Il Regolamento CEE n. 4087/88 sugli accordi di franchising
in Il Foro italiano, 1990, 2987 con nota di X. Xxxxx,
Interpretazione ed integrazione dei contratti di franchising.
57 Se n’è occupata anche la stampa italiana: cfr. F. Paggio, Tutti contro Xxxxxxx. I negozi associati contestano Benetton “Non rispetta le norme del franchising ed i punti vendita spuntano come funghi” in La Repubblica, 19 agosto 1993.
58 Questa situazione oggi è regolata dall’art. 3, comma 4, lettera c della legge 129/2004.
Il passo successivo rispetto al caso “Pronuptia” è stato il Regolamento n. 4087/8859, entrato in vigore nel 1989, dedicato specificamente al franchising; esso forniva una definizione di tale figura basata sull’applicazione delle norme sulla concorrenza piuttosto che una definizione civilistica del contratto60; e lasciava perciò ampio spazio all’autonomia negoziale in sede di determinazione delle regole contrattuali61.
Tale regolamento, infatti, non nasceva con l’intento di fornire una disciplina organica al fenomeno contrattuale, ma con l’obiettivo di stabilire quali obbligazioni all’interno di un accordo di
60 Cfr. X. Xxxxxxxx, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 38-39.
61 Proprio per questo il Regolamento ha ricevuto molte critiche in quanto non prevedeva né obblighi di informazione, né regole specifiche riguardo al regime dello scioglimento del contratto. Tra i critici che negano il fatto che il Regolamento abbia legalmente tipizzato il franchising possiamo indicare Xxxxxxxx il quale precisa che la definizione dettata dal Regolamento all’art. 1 “è priva anche dell’intenzione di precisare i contorni della figura contrattuale in quanto tale, ma solo come intesa potenzialmente restrittiva della concorrenza”.
Cfr. X. Xxxxxxxx, Il contratto di franchising, Milano, 1999, pag. 5.
franchising fossero da considerarsi lesive della concorrenza, e dunque vietate. L’art. 1.3 del Regolamento definiva il franchising come un “accordo per mezzo del quale un’impresa, il franchisor, accorda ad un’altra, il franchisee, in cambio di diretta o indiretta compensazione finanziaria, il diritto di utilizzare un franchise allo scopo di commercializzare specifici tipi di beni e/o servizi”.
Pertanto, tale figura contrattuale comprende gli obblighi per l’affiliato di utilizzare una denominazione o un’insegna commerciale comune al franchisor e di effettuare una presentazione uniforme della sede e, per l’affiliante, gli obblighi di comunicazione del know-how e di prestare un’assistenza continua in campo commerciale o tecnico per l’intera durata dell’accordo.
Lo stesso articolo forniva una definizione di franchising descrivendolo come “un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know-how o brevetti da utilizzare per la rivendita di beni o per la prestazione di servizi ad utilizzatori finali” e proprio tale nozione ha poi
portato i singoli Paesi Europei a cercare di uniformarsi adattando le proprie legislazioni nazionali.
È da osservare che la Commissione considerava il franchising come un sistema per sfruttare finanziariamente un insieme di conoscenze62, piuttosto che come sistema di produzione.
Il Regolamento individuava tre gruppi di clausole contrattuali ricorrenti nei contratti di franchising, in base al grado di interferenza rispetto alle regole comunitarie di concorrenza.
Il primo gruppo, indicato come “white list”63, era costituito da un elenco non tassativo di clausole ricorrenti che, di regola, non costituivano restrizioni della concorrenza e che comunque erano essenziali per tutelare la reputazione e l’identità comune della rete o per impedire che il know-how e l’assistenza andassero a creare un vantaggio per i concorrenti.
Il secondo gruppo, la “grey list”64, era costituito da un elenco di clausole che prevedevano obblighi
62 Cfr. X. Xx Xxxx, voce “Franchising” in Digesto delle discipline privatistiche, Sezione Commerciale, volume IV, Torino, 1991, pagg. 296-308.
restrittivi della concorrenza, ma che rendevano possibile l’instaurarsi di una rete coerente e, quindi, godevano dell’esenzione, purché fossero rispettate certe condizioni volte a salvaguardare l’autonomia del franchisee.
Il terzo gruppo, denominato “black list”65, era costituito da una serie di clausole la cui previsione escludeva il contratto di franchising in questione dall’esenzione automatica, perché comportavano restrizioni che rientravano nel disposto dell’art. 81 del Trattato CE e, al tempo stesso, comportavano effetti negativi per la produzione, la distribuzione, il progresso tecnico ed economico.
Dette clausole comprendevano la fissazione del prezzo da parte del franchisor, il divieto per il franchisee di rifornirsi presso altri produttori di prodotti equivalenti a quelli del franchisor, di contestare la validità dei diritti di proprietà intellettuale o industriale trasmessigli o di utilizzare il know-how alla scadenza del contratto, ove fosse divenuto, non per fatto del franchisee, noto o di facile accesso66.
66 Cfr. X. Xxxxx, Il contratto di franchising, Padova, 2006, pagg. 46 ss..
Il Regolamento, inoltre, distingueva tre tipologie di franchising, riprendendo comunque la tradizionale ripartizione utilizzata nella prassi commerciale: il franchising “industriale”, che riguardava la produzione di beni, il franchising “in materia di distribuzione”, che riguardava la vendita di merci e il franchising “in materia di servizi”, che si riferiva alla “prestazione di servizi in conformità con le istruzioni del concedente e sussidiariamente alla fornitura di beni direttamente connessa con la prestazione di servizi”67.
Il Regolamento in esame è scaduto il 31 dicembre 199968.
1.5 Il Regolamento CEE n. 2790/99 sulle intese verticali
È noto che, nel caso in cui due o più imprese definiscano in modo interdipendente le loro strategie ed il loro comportamento all’interno di un mercato, si viene a creare un danno per la concorrenza; per questo motivo esistono alcune
67 Definizione fornita nel “Progetto di Regolamento” n. 5, GUCE n. C 229/3 del 27-8-1987.
68 Dopo la scadenza è stato prorogato fino al 31 maggio 2000.
norme che vietano l’esistenza di tali intese, tra i quali il Regolamento CEE n. 2790/99.
Prima dell’emanazione dei Regolamenti n. 4087/88 e n. 2790/99 ci si basava sulle regole di concorrenza comunitarie stabilite dall’art. 81 del Trattato CE70 nel quale, però, non era chiaro se il divieto di intese restrittive in esso contenuto riguardasse anche le intese verticali. Si sosteneva
69 La dottrina ha sottolineato il fatto che non rientrano in tale definizione la concorrenza intrabrand (tra prodotti della stessa marca) e la concorrenza interbrand (tra prodotti dello stesso settore merceologico ma di marche diverse). Infatti, un’intesa tra distributori di prodotti della stessa marca, pur restringendo la concorrenza intrabrand, ha carattere orizzontale, non verticale, poiché le parti si trovano su uno stesso livello. Queste intese, talvolta, possono risultare sia orizzontali che verticali contemporaneamente: è questo il caso degli accordi di esclusiva collettiva stipulati tra più produttori concorrenti con un gruppo di intermediari o di utilizzatori, e degli accordi collettivi di prezzi imposti aventi per oggetto la rivendita dei prodotti di più fabbricanti.
Cfr. X. Xxxxxxxx e X. Xxxxxxxxxx, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996, pag. 220.
che tali accordi, non essendo stipulati tra imprese in competizione tra loro, non restringessero realmente la concorrenza; non era dello stesso parere la Corte di Giustizia che, con la sentenza Grundig-Consten71, chiarì che non doveva essere effettuata nessuna distinzione tra imprese concorrenti allo stesso stadio economico e imprese non concorrenti.
Dopo l’abrogazione del Regolamento n. 4087/88 sugli accordi di franchising, già esaminato nel paragrafo precedente, il 22 dicembre 1999 è stato approvato in sua sostituzione il Regolamento CEE
n. 2790/9972, relativo all’applicazione dell’art. 81 par. 3 del Trattato CE, a categorie di accordi verticali e pratiche concordate efficace fino al 31 maggio 2010.
Va, comunque, osservato che tale Regolamento non disciplina specificamente il franchising, ma ha portata generale e regolamenta tutto il mercato della distribuzione all’interno del territorio europeo.
71 Sentenza della Corte di Giustizia del 13 luglio 1966, Consten e Grundig c/Commissione, cause riunite 56 e 58/64, in Racc. 1966, pag. 458.
72 Il Regolamento è entrato in vigore il 1° giugno 2000.
Esso, infatti, ha sostituito non solo il precedente Regolamento n. 4087/88 sugli accordi di franchising, ma ne ha sostituiti contemporaneamente altri riguardanti differenti tematiche73; gli operatori del franchising non trovano più, quindi, un precisa definizione delle parti così come accadeva in precedenza, poiché nel nuovo testo s’impiegano i termini “acquirente” e “fornitore” di portata generale
Inoltre, il Regolamento n. 2790/99 presenta un’impostazione totalmente atipica, sia rispetto al Regolamento precedente che ad altre normative comunitarie: si presenta in forma di breve articolato con soltanto tredici articoli, da integrare con le “Linee direttrici sulle restrizioni verticali”74 pubblicate il 13 ottobre 2000 sulla G.U.C.E., che si occupano specificamente del franchising in alcuni punti75 e che stabiliscono le obbligazioni necessarie per la realizzazione di tali accordi; tali
74 Chiamate anche Guidelines. Esse non hanno valore normativo ma offrono un grande supporto per la corretta applicazione del Regolamento n. 2790/99.
75 Punti 30, 35, 42, 43, 44, 95, 199, 200 e 201.
obblighi sono considerati necessari per la protezione dei diritti di proprietà intellettuale contenuti in un istituto come il franchising.
Gli accordi verticali di cui si occupa il Regolamento n. 2790/99 sono quelli che la Commissione considera relativi all’acquisto o la vendita di beni o servizi, nei casi in cui tali accordi siano conclusi tra imprese non concorrenti, fra talune imprese concorrenti o da talune associazioni di dettaglianti di beni. Si includono in questa categoria di accordi anche quelli che contengono disposizioni accessorie relative alla cessione o all’uso di diritti di proprietà intellettuale, mentre sono esclusi gli accordi verticali contenenti restrizioni gravemente concorrenziali, come l’imposizione di un prezzo di rivendita minimo (o prefissato) per beni e servizi o la presenza di zone di protezione territoriale non comprese nelle quote di mercato delle imprese interessate.
È comunque da rilevare che, rispetto ai regolamenti sostituiti, il Regolamento n. 2790/99, ha ridotto il numero delle clausole ritenute lesive della concorrenza non esentabili a prescindere dalla quota di mercato.
Il franchising rientra nell’ambito di applicazione di questo Regolamento in quanto accordo di restrizione verticale che contempla obblighi di non concorrenza in relazione ai prodotti oggetto dell’accordo e contiene precise indicazioni relativamente alle località di insediamento o alle zone di competenza esclusiva. Gli accordi di franchising, secondo la Linee direttrici76 consistono nella concessione di una licenza relativa ad un insieme di diritti di proprietà immateriale che riguardano in particolare marchi o insegne e know-how, per l’uso e la distribuzione di beni o servizi. Oltre alla licenza sui diritti di proprietà immateriale, il franchisor fornisce al franchisee un’assistenza tecnica o commerciale durante tutto il periodo di vigenza del contratto e quest’ultimo paga un corrispettivo per l’utilizzazione della specifica formula commerciale del franchisor.
Le licenze nell’ambito degli accordi di franchising rientrano nell’esenzione per categoria, nella misura in cui l’accordo o le clausole contenute in esso siano necessarie e direttamente connesse alla vendita di beni o servizi.
Il Regolamento, all’art. 3, descrive l’esenzione generale in base alla “quota di mercato detenuta”; per quanto riguarda il franchising, l’esenzione per tale accordo si applica se, considerando il volume di vendita dei franchisee ove sussiste l’obbligo di fornitura esclusiva, il franchisor o fornitore esclusivo per la rete, detiene una quota di mercato non superiore al 30% del mercato rilevante in cui opera.
Nel caso in cui la quota superi tale limite77, l’esenzione automatica del Regolamento non sarà applicabile e gli accordi di franchising interessati dovranno chiedere un’autorizzazione specifica alla Commissione.
La quota di mercato in questione si calcola sulla base delle vendite di beni o sulla fornitura di servizi oggetti del contratto, in relazione ai volumi delle vendite sul mercato. Qualora non siano disponibili dati relativi al valore delle vendite, la quota di mercato dell’impresa interessata può
essere stabilita utilizzando stime basate su altre affidabili informazioni di mercato78.
Secondo le Linee direttrici, però, esistono accordi verticali di importanza minore che non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 81 del Trattato CE79; pertanto, il Regolamento non riguarda gli accordi di franchising relativi ad una quota di mercato inferiore al 10% che possono non avere un effetto significativo sul commercio tra gli Stati dell’Unione Europea o non costituiscono una limitazione sensibile alla concorrenza80.
Il Regolamento, inoltre, vieta al franchisor di imporre all’affiliato un prezzo di rivendita dei beni81, ma ammette soltanto la facoltà del primo di imporre un prezzo massimo o di suggerire un prezzo di vendita82. Inoltre, il Regolamento permette ai franchisee di poter realizzare delle vendite “passive”, definite dalle Linee direttrici come le operazioni effettuate tramite Internet per
79 Definiti accordi verticali de minimis.
80 Va, a tale proposito, osservato che al di sotto di tale soglia si trova la maggioranza delle reti di franchising operanti in Italia. 81 Tale clausole è definita “hard core restriction”.
la pubblicità e la vendita dei prodotti83, anche se il franchisor ha la possibilità di limitare tale attività per ragioni obiettive84.
Il nuovo Regolamento, così come il precedente, mantiene il divieto delle clausole che vietano al franchisee di vendere o di approvvigionarsi, attraverso altri affiliati, dei prodotti commercializzati dalla rete; inoltre, esso mantiene la possibilità di concedere dei territori in esclusiva o clientela esclusiva ai franchisee in origine riservate al franchisor.
È anche possibile inserire nel contratto la proibizione di realizzare delle vendite attive85 al di fuori del locale del franchisee86.
83 Mentre non sono compresi i messaggi di posta elettronica inviati a singoli clienti.
84 Tramite le vendite passive un franchisee facente parte di una rete di franchising riesce a vendere i prodotti a consumatori proveniente da territori soggetti all’esclusiva di un altro franchisee. Per questo motivo il franchisor può limitare tale attività.
86 Le clausole possono essere diverse a seconda della tipologia di accordo: nell’ipotesi di franchising “selettivo” sarà vietato al franchisee di vendere prodotti a rivenditori non facenti parte della rete e può essere obbligato a vendere i prodotti unicamente in quello specifico negozio; nel caso invece di
Gli accordi possono prevedere l’obbligo imposto agli affiliati di approvvigionamento in esclusiva presso il franchisor, ma solo se è necessario per mantenere l’identità della rete di franchising e comunque quelli che prevedono una quota maggiore dell’80% non possono avere una durata superiore a cinque anni; trascorso tale periodo, il franchisee potrà comunque includere nella gamma di prodotti un 20% di articoli estranei alla rete.
L’art. 5 consente di inserire nei contratti di franchising un obbligo che imponga al franchisee, una volta giunta la scadenza del contratto, di non produrre, acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi nell’anno successivo; quest’obbligo post-contrattuale, indispensabile per proteggere il know-how87, deve però essere limitato ai locali dove ha operato il soggetto durante il periodo contrattuale e solo nella misura
franchising “non selettivo” il franchisee è libero di vendere a rivenditori non facenti parte della rete i beni, ma può essere a loro vietato di effettuare vendite attive nei territori di altri affiliati o essere obbligati a rifornirsi esclusivamente presso il franchisor.
87 L’obbligo di non concorrenza postcontrattuale potrà essere ammesso solo in presenza del trasferimento di un know-how segreto, sostanziale ed individuato.
in cui esso sia indispensabile per proteggere il
know-how trasferito88.
Inoltre, le Linee direttrici forniscono un ampio elenco di comportamenti che il franchisee dovrebbe rispettare allo scopo di tutelare i diritti di proprietà immateriale89 del franchisor90, egli, infatti, sarà tenuto a non intraprendere, direttamente o indirettamente, attività simili, a non rivelare a terzi tali informazioni finché il know- how non sia divenuto di dominio pubblico, a comunicare al franchisor qualsiasi esperienza acquisita sfruttando il franchising, a segnalare le
riguardare anche situazioni che non implichino il trasferimento di know-how e quindi riguardano anche
contratti basati unicamente sull’immagine (marchio, insegna ecc.).
90 Punto 44 delle Linee direttrici.
violazioni dei diritti di proprietà intellettuale sotto licenza e intraprendere azioni legali contro i trasgressori, a non utilizzare il know-how concesso in licenza a fini diversi dallo sfruttamento del franchising e, infine, a non cedere i diritti e gli obblighi derivanti dall’accordo senza il consenso del franchisor.
L’applicazione del Regolamento in esame può essere revocato dalla Commissione91 qualora constati la presenza di pratiche anticoncorrenziali; lo stesso potere spetta ad autorità competenti degli Stati membri (in Italia all’Antitrust, qualora ravvisi tali effetti nel proprio territorio)92.
La nuova impostazione adottata per il Regolamento
n. 2790/99 è il frutto dell’intenzione della Commissione di utilizzare un approccio maggiormente attento agli aspetti economici rispetto ai precedenti regolamenti. Il regime delle
Cfr. X. Xxxxxxxxx, Analisi della normativa europea in materia di franchising, dal sito internet xxx.xxxxxxxxxx.xx/xxxxxxxxxxx/xxxxx.
Cfr. anche X. Xxxxxxxxxx, Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, 2^ volume, Padova, 2007, pagg. 261-270. Parte della dottrina sostiene che se ogni Stato detiene questo potere, si potrebbe dare luogo a interpretazioni e trattamenti differenziati relativamente ad una stessa intesa.
intese verticali presenta il vantaggio di assicurare una maggiore certezza giuridica per quanto riguarda il contenuto dell’accordo, nonché una maggiore flessibilità ed adattabilità alle esigenze emergenti nel settore della distribuzione.
1.6 La nuova legge italiana sul franchising: Legge n. 129 del 2004
Decorsi più di trent’anni dall’ingresso del franchising sulla scena economica italiana, e nonostante la sua diffusione soprattutto a partire dagli anni Novanta, gli operatori del settore sembravano condividere la scelta di non regolare tale fattispecie93.
Questo perché il franchising si sviluppò molto velocemente raggiungendo un notevole grado di espansione e si temeva che, con l’introduzione di una disciplina unitaria e rigida, si sbloccasse lo sviluppo e l’adattabilità alle diverse esigenze.
93 In assenza di una normativa specifica sul franchising, ci si basava sul principio di autonomia negoziale privata prevista dall’art. 1322 c.c. che recita: “Le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e dalle norme corporative. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
La normativa comunitaria appena esaminata, invece, fornì una grande spinta verso la volontà di redigere una vera e propria legge che regolasse in modo specifico ed uniforme il franchising in tutti i Paesi europei.
Per quanto riguarda l’Italia, molti progetti di legge sono stati presentati nel corso delle precedenti legislature al Parlamento italiano; tra i più importanti è opportuno ricordare il progetto di legge n. 2093 presentato al Senato nel 199795 che pone l’accento sul pagamento di una fee d’ingresso e di royalties da parte dell’affiliato con l’obbligo di assistenza gravante sull’affiliante, nonché quello di concedere vari diritti di proprietà industriale e di trasmettere il proprio know-how.
Ulteriore intervento legislativo si è avuto nel 2000 con il decreto legislativo approvato il 4 luglio 2000
94 Cfr. X. Xxxxxxxx, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 2-3.
95 Il disegno di legge è disponibile sul sito del Senato all’indirizzo xxx.xxxxxx.xx/xxx/00/XXX/Xxxxx/Xxxxxxx/00000000.
dalla Commissione industria, commercio e turismo, che ha introdotto alcune novità importanti in tema di strumenti di incentivazione all’auto-impiego e conseguentemente ai fruitori del contratto di franchising96.
Successivamente, furono presentati altri quattro disegni legge che vennero unificati e diedero vita alla nuova legge italiana sul franchising del 6 maggio 200497 denominata “Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale”98, entrata successivamente in vigore il 25 maggio 2004.
Si tratta di un testo legislativo composto da un numero ridotto di articoli99, ma che, secondo le intenzioni del legislatore, dovrebbe apportare correttezza e trasparenza nei rapporti di
97 Legge pubblicata sulla G.U. del 24 maggio 2004, n. 120, entrata in vigore il giorno successivo.
98 Si può notare come il legislatore abbia tradotto il termine franchising in “affiliazione commerciale”.
franchising100 e bilanciare il maggiore potere contrattuale del franchisor cercando di tutelare l’affiliato mediante una serie di prescrizioni e formalità da osservare nel momento della stipula del contratto e nei suoi contenuti101.
La legge concerne quindi determinati obblighi precontrattuali di disclosure103 da parte dell’affiliante e dell’aspirante affiliato, vale a dire la necessità che ciascuna parte fornisca all’altra informazioni ritenute indispensabili104, o
comunque dati “necessari o utili ai fini della stipulazione del contratto”105 in questione106.
Anche se non sembra immediatamente evidente, un’altra parte della dottrina sostiene che la legge tutela anche il franchisor poiché gli consente di operare in un contesto chiaro e di poter ragionare compiutamente sui notevoli investimenti che comporta la decisione di costituire e gestire una rete di distribuzione in franchising107.
Tuttavia, molte critiche sono state rivolte a questa legge da parte della dottrina108, poiché questa sarebbe meramente “definitoria” rispetto al franchising e proprio per questo motivo apparentemente inutile109: i caratteri del contratto
riguardo se stesso, la storia ed i risultati della sua catena di franchising e l’oggetto della formula commerciale proposta.
105 Art. 6, 1° comma, Legge n. 129/2004.
106 Cfr. X. Xxxxxxxx, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pag. 2-3.
107 Cfr. INDIS (Istituto Nazionale Distribuzione e Servizi - Unioncamere), Il franchising: le prospettive dopo la legge n. 129/2004, Xxxxxx, 0000, pag. 2.
109 Una parte della dottrina invece ha accolto favorevolmente questo intervento legislativo.
Cfr. X. Xxxxxxxxx, Franchising: la legge quadro. Finalmente? in Il foro italiano, 2004, parte IV e V, pagg. 41-43.
infatti erano già stati ampiamente definiti dagli interventi legislativi precedenti e soprattutto dalla prassi del mercato. I critici sostengono che questa legge ordina e regola in modo organico il franchising, ma non aggiunge nessun tipo di novità rispetto a ciò che era stato affermato in passato, precisando che la Legge n. 129/2004 non rappresenta la vera legge sul franchising110, ma vuole soltanto evitare che aspiranti imprenditori vengano indotti a corrispondere somme ai franchisor senza ottenere nulla in cambio.
La legge si sofferma soltanto sulla fase di formazione del contratto e non contiene disposizioni che regolino veramente il contratto, come, per esempio, lo scioglimento dello stesso, l’obbligo del franchisee di utilizzare marchi ed insegne del franchisor ecc..
Inoltre, la legge si occupa di una parte ristretta delle problematiche operative legate a questa figura e si concentra soltanto sulla disciplina del
110 Cfr. anche G. De Nova, La nuova legge sul franchising in I
contenuto e delle formalità di conclusione del contratto111.
Sebbene le norme che compongono la legge abbiano natura imperativa112, parte della dottrina dichiara che le sanzioni per la loro violazione sono differenziate; infatti, se vengono violate le norme che pongono obblighi di informazione, sorgerà una responsabilità per danni, salvo che siano fornite informazioni false113; se non viene rispettata la prescrizione di forma, il contratto risulterà nullo; se il franchisor violasse la norma che impone di aver sperimentato sul mercato la propria formula commerciale, o la norma che implicitamente impone di fornire un know-how, il contratto sarebbe parimenti nullo114.
Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, Franchising, contratti di integrazione e obblighi precontrattuali di informazione in
Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 2004, fasc. 10-12, pagg. 1163- 1185.
112 Cfr. G. De Nova, La nuova legge sul franchising in I contratti, 2004, fasc. 8-9, pagg. 761-764.
113 In questo caso il contratto risulterà annullabile.
000 Xxx. X. Xx Xxxx, Xx nuova legge sul franchising in I
L’intenzione generale del legislatore è quella di consentire ai contraenti di essere informati con congruo anticipo circa i termini e le condizioni del contratto a loro proposto, così da permettergli di disporre del tempo necessario per valutare lo stesso. È sentita, quindi, l’esigenza di garantire un’informazione il più possibile completa ed esauriente soprattutto nei casi in cui, come nel franchising, i rapporti prenegoziali fra le parti sono viziati da “asimmetrie informative” in favore dell’una ed a svantaggio dell’altra, tali da provocare il rischio che l’esito delle trattative si
115 Cfr. X. Xxxxxxxxxx, Gli obblighi informativi nella nuova legge sul franchising in I contratti, 2005, fasc.
1, pagg. 71-89.
riveli oneroso o insoddisfacente a discapito del soggetto meno informato116.
1.7 Il Decreto ministeriale n. 204 del 2005
Il Decreto Ministeriale 2 settembre 2005, n. 204117, anche se in ritardo rispetto al termine di 90 giorni118 dall’entrata in vigore della Legge n. 129/2004, ha completato il quadro normativo dedicato agli obblighi di informazione precontrattuali gravanti sul franchisor.
Tali obblighi di informazione costituiscono, unitamente alla fase precontrattuale, l’elemento centrale della legge italiana sul franchising, nella quale tre119 dei nove articoli complessivi sono dedicati proprio alla fase precedente alla conclusione del contratto120.
116 Cfr. X. Xxxxx, Xx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pagg. 421-424.
118 Termine previsto dall’art. 4, comma 2, della Legge n. 129/2004.
119 Art. 4, 6 e 8. Per l’analisi si rimanda al Capitolo 3.
Nel Decreto Ministeriale n. 204/2005 sono stati precisati i contenuti di alcuni degli obblighi di informazione121 per quei franchisor che abbiano svolto in precedenza la propria attività all’estero; è stata quindi effettuata una differenziazione tra coloro che siano già operanti in Italia al momento della sottoscrizione del contratto e coloro che avessero invece sino a quel momento operato esclusivamente all’estero122.
Per capire meglio questa scelta del legislatore, appare opportuno analizzare il contenuto dell’art. 4 della legge sul franchising in alcuni suoi punti concernenti gli obblighi in capo al franchisor e che sono descritti, in particolare ai punti d), e), f).
Per quanto riguarda il punto d), esso concerne l’obbligo di presentazione di una lista dei franchisee attivi appartenenti alla rete123, così
121 Tali obblighi devono essere adempiuti almeno 30 giorni prima della sottoscrizione del contratto.
122 La differenziazione non è stata effettuata in base a contratti nazionali e contratti internazionali di
franchising.
123 La lista può essere trasmessa in via informatica o resa reperibile sul sito internet del franchisor. Nel caso in cui si tratti di un soggetto che opera anche all’estero dovrà quindi presentare la propria intera rete internazionale. Se il potenziale franchisee ne faccia richiesta, il franchisor dovrà inoltre presentare una lista con i dati relativi all’ubicazione e alla
come la sua esatta composizione, comprensiva dei punti vendita di proprietà del franchisor, suddivisa per singoli Stati124.
Il punto e) prevede, invece, la descrizione della variazione, anno per anno, del numero dei franchisee e del loro posizionamento in termini di ubicazione nell’ultimo triennio, con suddivisione per singoli Stati, mentre il punto f) descrive i procedimenti giudiziari o arbitrali, se esistenti, da chiunque promossi125 nei confronti del franchisor in relazione al sistema di franchising e che siano conclusi negli ultimi tre anni126.
La maggiore preoccupazione del legislatore era, infatti, quella di evitare che, con l’imposizione di un obbligo di informazione troppo ampio, il
reperibilità di almeno venti affiliati operanti (o di tutti quelli esistenti, qualora inferiore a venti).
125 Sia da franchisees, sia da terzi privati o da pubbliche autorità.
126 La descrizione può essere sintetica, ma deve almeno indicare il nominativo delle parti, dell’organo giudicante, le domande e il dispositivo. E’ da sottolineare che esso include anche i procedimenti iniziati dal franchisor nei confronti degli affiliati, che sembrerebbero invece esclusi dall’art. 4 che cita soltanto i procedimenti promossi nei confronti del franchisor.
potenziale affiliato di un franchisor che fino a quel momento avesse operato esclusivamente all’estero, fosse sommerso da una grande quantità di informazioni non selezionate e relative a tutti i mercati esteri nei quali il soggetto aveva esteso la propria rete127.
Ulteriore problematica, sollevata in dottrina128, era quella di indicare un termine oltre il quale l’attività del franchisor in Italia poteva ritenersi sufficientemente consolidata, con la conseguente omissione dei dati relativi ai Paesi esteri; questione non risolta dal Decreto n. 204/2005 che non ha disciplinato questo aspetto.
Nel silenzio legislativo perciò, secondo alcuni giuristi129, le soluzioni interpretative potrebbero essere due.
Tra queste, la prima è basata sul contenuto del decreto secondo il quale il franchisor cesserebbe di essere considerato come “operante esclusivamente
128 Cfr. X. Xxxxxxxx, Il regolamento che definisce gli obblighi dei franchisors esteri in I contratti, 2005, fasc. 12, pagg. 1161- 1165.
129 Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.
all’estero” e come tale soggetto al Decreto n. 204/2005, dal momento in cui abbia concluso ed eseguito un primo contratto di franchising in Italia; da quel momento, infatti, la sua attività verrebbe svolta anche in Italia e dunque non più “esclusivamente” all’estero.
Interpretazione, questa, che non appare, a parere di alcuni130, convincente, in quanto suscettibile di eliminare di fatto qualunque distinzione tra franchisor e di porre, quindi, il potenziale franchisee del soggetto che abbia sino a quel momento operato prevalentemente all’estero nella condizione di non avere informazioni precontrattuali sufficientemente complete.
La seconda possibilità è quella di dedurre dal contenuto degli obblighi di cui all’art. 4 della Legge n. 129/2004 una durata minima che possa considerarsi in linea con il completo adempimento degli stessi: in pratica un franchisor che abbia operato solo all’estero potrà considerarsi consolidato in Italia, e come tale non più soggetto agli obblighi informativi precisati dal Decreto n.
204/2005, qualora la sua permanenza nel nostro Paese gli consenta di soddisfare correttamente tutti gli obblighi informativi di cui ai punti d), e) ed f) dell’art. 4 della Legge n. 129/2004 sopra esplicitati.
Il punto d) non crea particolari problemi in quanto riferito genericamente ai punti vendita diretti e agli affiliati presenti nella rete al momento della consegna del contratto.
Il punto e) prevede l’obbligo di indicare, anno per anno, la variazione del numero degli affiliati con relativa ubicazione negli ultimi tre anni; per fornire queste informazioni la presenza del franchisor in Italia dovrebbe essere non inferiore a due anni, posto che il termine di tre anni sia espressamente indicato come riconducibile in funzione dell’effettivo inizio dell’attività.
131 Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising
in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.
In conclusione, seguendo la seconda tesi interpretativa, la durata minima per poter considerare consolidata in Italia la presenza di un franchisor che abbia in precedenza operato esclusivamente all’estero può individuarsi in un triennio132.
Un altro problema che sorge mettendo in relazione il Decreto n. 204/2005 con la Legge n. 129/2004 è legato al contenuto dell’art. 9 di quest’ultima che dispone la sua applicazione “a tutti i contratti di affiliazione commerciale in corso nel territorio dello Stato alla data di entrata in vigore della legge stessa”. Tale disposizione implicherebbe la mancata applicazione di tale legge ai contratti internazionali di franchising nei quali il franchisee svolga la sua attività in Italia e la conseguente violazione del principio generale di libertà nella scelta ad opera delle parti, così come previsto dalla Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali133. L’art.
Cfr. X. Xxxxx, A. Venezia, Il contratto di agenzia, la concessione di vendita, il franchising, Milano, 2008, pagg. 173-176.
3 di tale Convenzione precisa che la scelta delle parti è il criterio principale di regolamentazione dei contratti internazionali e consente alle stesse di individuare la legge applicabile ad una parte soltanto del contratto. Applicando questa normativa, laddove in un contratto internazionale le parti abbiano scelto una determinata legge, le relative disposizioni saranno applicabili, a meno che non risultino contrarie all’ordine pubblico134 o in contrasto con norme nazionali di applicazione necessaria135.
Attribuire questa regola alle disposizioni della Legge n. 129/2004 significherebbe quindi imporne l’applicazione anche a tutti i contratti internazionali di franchising nei quali sia stata legittimamente effettuata una scelta sul diritto applicabile.
della legge di riforma del diritto internazionale privato Legge 31 maggio 1995, n. 218.
134 Inteso come ordine pubblico internazionale, cioè l’insieme di quei principi che debbono considerarsi di importanza fondamentale per l’ordinamento nazionale, alla luce delle caratteristiche economiche, sociali, morali e politiche dell’ordinamento stesso.
135 Si intendono per “norme nazionali di applicazione necessaria” quelle che risultano comunque applicabili, indipendentemente dalla legge regolatrice del contratto.
Parte della dottrina136 sostiene che tale legge in apparenza potrebbe essere ritenuta di scarsa rilevanza in relazione ai problemi di validità ed efficacia dei contratti internazionali di franchising, in quanto essa si occupa soltanto di obblighi di informazione precontrattuali tralasciando le disposizioni dedicate alla vera e propria disciplina del contratto.
In realtà, secondo questa parte di dottrina, alla legge deve affiancarsi una complessa attività interpretativa che possa individuare anche le parti mancanti collegando le sue diverse disposizioni.
Il Decreto n. 204/2005 precisa che il proprio ambito di applicazione è limitato nei casi in cui il contratto sia sottoposto al diritto italiano chiarendo che, in riferimento ai contratti internazionali, può essere applicato solo nei casi in cui il contratto sia regolato dal diritto italiano in applicazione dei principi di cui alle norme di diritto internazionale privato.
Non sarà quindi sufficiente che il franchisee svolga
la propria attività in Italia in favore di un
136 Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.
franchisor che sino a quel momento abbia operato all’estero, ma il relativo contratto di franchising dovrà essere regolato dal diritto italiano.
Questa disposizione esclude, quindi, un’implicita qualificazione delle norme di cui alla Legge n. 129/2004 in termini di disposizioni di applicazione necessaria; l’ambito di applicazione del decreto sarebbe quindi relativo a tutti i contratti da eseguirsi sul territorio italiano, indipendentemente da quale sia la legge regolatrice scelta dalle parti.
Il legislatore italiano ha deciso invece di non considerare la Legge n. 129/2004 di applicazione necessaria, con la conseguenza che il Decreto n. 204/2005 è invocabile soltanto nei casi in cui il contratto possa considerarsi sottoposto al diritto italiano sulla base dell’operatività delle norme di diritto internazionale privato italiane.
Per tutte queste ragioni, interpretando l’art. 9 della legge sul franchising, è possibile dedurre che essa appare applicabile soltanto ai contratti in corso nel territorio italiano al momento della sua entrata in vigore, a condizione inoltre che gli stessi siano sottoposti al diritto italiano.
Per quanto riguarda i contratti internazionali di franchising, l’applicazione del diritto italiano non deriva dalla qualificazione alla stregua di norme di applicazione necessaria delle disposizioni della Legge n. 129/2004, ma dall’operatività degli ordinari principi di diritto internazionale privato137.
Anche in tali contratti internazionali svolti in Italia è così affermata la normale operatività dei principi generali in tema di diritto internazionale, senza che debba attribuirsi una particolare valenza alle disposizioni di cui alla Legge n. 129/2004, con la conseguenza che il franchisor straniero può indicare l’applicazione del suo diritto nazionale per la regolamentazione del rapporto disapplicando le disposizioni di diritto italiano138. Ciò presuppone quindi che il rapporto sia effettivamente qualificabile come contratto internazionale, al contrario del Decreto n. 204/2005 il quale non è riferito necessariamente
137 Cfr. A. Venezia, Il completamento della normativa italiana ed i contratti internazionali di franchising in I contratti, 2006, fasc. 11, pagg. 995-999.
138 Conforme su tale punto è il Consiglio di Stato con il proprio parere dell’ 11 luglio 2005.
ai contratti internazionali, ma alla semplice operatività del franchisor all’estero.
Una parte della dottrina è, invece, contraria a tale deduzione, affermando che ci si trova di fronte ad una lacuna legislativa e proponendo una diversa soluzione interpretativa: i franchisees stranieri avrebbero la possibilità di limitarsi ad osservare le disposizioni legislative del proprio Paese, a condizione, però, che gli obblighi di informazione precontrattuali vigenti siano in grado di assicurare agli stessi un livello di tutela almeno paritario a quello fornito dalla Legge n. 129/2004139.
In conclusione, anche se vi sono contrasti in dottrina, il contributo più significativo del Decreto
n. 204/2005 è quello relativo all’implicita esclusione della qualificazione in termini di norme di applicazione necessaria delle disposizioni della legge italiana sul franchising.
139 Cfr. X. Xxxxxxxx, Il regolamento che definisce gli obblighi dei franchisors esteri in I contratti, 2005, fasc. 12, pagg. 1161- 1165.
CAPITOLO 2: Disciplina generale del franchising
2.1 Nozione
Il rapporto di franchising è inquadrato all’interno della categoria dei “contratti di distribuzione”, che riunisce tutti quei rapporti in cui sono presenti imprenditori operanti a diversi stadi del processo economico di produzione e distribuzione140.
Caratteristica distintiva di tali contratti è la promozione, da parte del distributore, delle vendite dei beni del produttore, attività che può consistere nel contattare i potenziali acquirenti proponendogli l’acquisto, o nel porre in essere una campagna pubblicitaria predeterminata, almeno nelle sue linee essenziali, dal produttore, o nell’attrezzare le vetrine e l’arredamento del locale secondo le direttive di quest’ultimo. Si tratta di contratti di durata caratterizzati da una certa stabilità e continuità del rapporto, in cui si realizza un’integrazione fra produttore e distributore e fra
140 I “contratti di distribuzione” comprendono l’agenzia, la somministrazione per la rivendita (art. 1568 comma 2 c.c.), la concessione di vendita, il franchising di distribuzione (di beni o di servizi, escluso il franchising di produzione, ove l’affiliato non ha il compito di distribuire beni o servizi ai consumatori, ma di produrre beni seguendo le istruzioni tecniche trasmessegli dall’affiliante).
tutti i distributori facenti capo allo stesso produttore141.
La figura centrale di questa categoria è la concessione di vendita, che sarà messa in relazione con il franchising in questo paragrafo.
I contratti di distribuzione possono essere distinti in base al grado di integrazione economica che favoriscono tra le parti, che è tanto più elevato nei rapporti caratterizzati, oltre che dalla continuità e dall’esclusiva, dall’ulteriore elemento della condivisione tra le parti dei segni distintivi e, talvolta, delle metodologie commerciali: in questa categoria rientrano perciò la concessione di vendita e le sue varianti.
Al massimo grado di integrazione economica si colloca il franchising cui si affianca, oltre agli elementi indicati precedentemente, il coordinamento continuativo tra i componenti della rete.
Per quanto, più in particolare, riguarda la concessione di vendita, essa è definita come un contratto a prestazioni corrispettive di durata
141 Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.
intercorrente tra imprenditori, fondato su un nesso indissolubile di scambio e collaborazione, in base al quale il concessionario, agendo in veste di acquirente-rivenditore, assume stabilmente l’incarico di seguire la commercializzazione dei prodotti del concedente, in cambio di una posizione privilegiata nella rivendita142. In base a tale convenzione, si realizza la cosiddetta “distribuzione integrata verticale”, secondo la quale il produttore non rivende direttamente alla clientela (distribuzione diretta)143, né si affida ad agenti ed intermediari (distribuzione indiretta)144, ma vende al distributore, con il quale instaura uno stretto rapporto di collaborazione145.
Cfr. X. Xxxxxxxxxx, Concessione di vendita, franchising e altri contratti di distribuzione, normativa antitrust, contratti internazionali di distribuzione, 2^ volume, Padova, 2007, pagg. 54 ss..
145 Cfr. F. Di Xxxxxxx, La natura giuridica del contratto di concessione di vendita, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx .
Il concessionario si assume l’obbligo di promozione delle vendite organizzando campagne pubblicitarie, svolgendo attività di assistenza e garanzia post-vendita nei confronti della clientela146, allestendo il locale adibito per la rivendita secondo gli standards impartiti dal concedente e mantenendo il magazzino sempre rifornito.
Tale rapporto dà luogo ad una pluralità di atti di scambio tra i due soggetti, che si succedono nel tempo; per questo motivo, nella prassi vengono regolati le modalità degli ordini del concessionario, i termini di consegna, i prezzi, gli sconti, le modalità di spedizione e di assicurazione ecc.. Talvolta, vengono concordati quantitativi massimi
e minimi per ogni singolo acquisto, e può essere imposto al concessionario l’obbligo di garantire un minimo di acquisti periodici.
Nel nostro ordinamento giuridico la concessione di vendita è un contratto atipico e, proprio per questo motivo, si riscontrano molte difficoltà nello stabilire a quali disposizioni deve essere sottoposta; in un primo momento, si è inquadrata la concessione di vendita nella somministrazione148, considerata, quest’ultima, la tipica figura di scambio di durata. Questa tesi è stata progressivamente abbandonata, dato che nei contratti di distribuzione rileva non solo il momento dello scambio, ma anche quello della collaborazione, che non trova riscontro nella struttura della somministrazione149.
148 F. Di Xxxxxxx, La natura giuridica del contratto di concessione di vendita, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx
Si è poi cercato di affiancare la concessione di vendita al contratto di mandato, ma è stato osservato che il concessionario è tenuto a svolgere
150Su questo punto sono stati approfonditi gli studi giuridici: i giuristi si sono chiesti se, nell’ambito della disciplina codicistica relativa alla durata del contratto di agenzia, la quale prevede un’indennità in caso dello scioglimento del contratto, se questa fosse applicabile analogicamente anche alla concessione di vendita. La risposta prevalente in dottrina è negativa in quanto la clientela dell’agente è, in primo luogo, clientela del preponente, mentre il concessionario rivende in nome e per proprio conto.
un’attività non giuridica, diretta alla promozione delle vendite e alla rivendita dei prodotti acquistati dal concedente, in nome e per proprio conto, differenziandosi dal mandato in cui tale attività può essere svolta per conto di altri soggetti.
La concessione di vendita rimane, comunque, una figura atipica che pone il problema della determinazione della struttura di tale contratto: in mancanza di uno schema tipico, la questione si risolve soltanto attraverso l’interpretazione della volontà delle parti nel caso concreto.
Ulteriore questione riguarda l’applicabilità a tale schema contrattuale della normativa
151 Cfr. F. Di Xxxxxxx, La natura giuridica del contratto di concessione di vendita, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx
antimonopolistica della CEE, rivolta alla categoria di intese di cui all’art. 81 del Trattato CE, che individua “gli accordi tra imprese” vietati in relazione al fatto che “possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune”.
Proprio in base a tale affermazione, ci si chiede se il contratto di concessione di vendita con esclusiva sia valido a livello europeo, visto che, oltre all’obbligo di esclusiva, il Trattato CE, stabilisce che non possono essere imposte altre restrizioni alla concorrenza. La Commissione Europea, inoltre, ha affermato152 che “la clausola di esclusiva può comportare una riduzione dell’offerta e/o della domanda di mercato sul quale i rappresentanti di commercio offrono i loro servizi per la negoziazione o la conclusione di affari”.
Nella stessa comunicazione la Commissione traccia anche una rigida contrapposizione tra agenzia e concessione di vendita e raccomanda che sia sempre esercitato un attento controllo al fine di
152 Comunicazione del 24/12/1962.
“smascherare” eventuali concessioni “camuffate” da contratto di agenzia.
La questione delle relazioni e differenze intercorrenti tra concessione di vendita e franchising, si è posta soprattutto in quei Paesi di civil law153 nei quali la prima è diventata una figura contrattuale tipica, come in Belgio, o comunque entrata da tempo nella prassi contrattuale ottenendo una tipicizzazione sociale, come in Italia, Francia e Germania: in questi ordinamenti il franchising si è sovrapposto o affiancato alla concessione di vendita, ritagliandosi un proprio spazio di autonomia154.
La prassi oggi considera il franchising155 adottato nei Paesi europei come un’evoluzione della concessione di vendita; è utile, però, sottolineare che tra le due figure sussistono evidenti differenze tra cui, in particolare, l’obbligo di espressione di insegna ed altri segni distintivi, essenziale nel
153 Il problema è invece sconosciuto nelle trattazioni americane poiché l’espressione “franchising” indica tutta la gamma degli accordi di distribuzione.
154 Cfr. X. Xxxxxxxx, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 51-53.
155 Ci si riferisce soprattutto al franchising di distribuzione.
franchising156, e non necessario, invece, nella concessione di vendita157.
Ulteriore differenza è riscontrabile nel fatto che il franchising prevede il trasferimento di un know- how commerciale a fronte del quale è corrisposta una royalty, mentre tale elemento è spesso mancante nella concessione di vendita.
Inoltre, mentre il concessionario solitamente non è tenuto a rispettare regole di comportamento imposte dal concedente, il franchisee è strettamente vincolato alle prescrizioni contenute nel cosiddetto “manuale operativo”, così da uniformarsi completamente agli standards praticati dal franchisor, che devono contraddistinguere l’intera rete158. L’azienda del franchisee perde, quindi, di individualità, per
156 Eccetto il caso di franchising di servizi svolto al di fuori di un punto vendita.
157 Eccetto l’esposizione del marchio che deve sempre avvenire.
158 Parte della dottrina critica questa differenza e sottolinea il fatto che anche nella concessione di vendita il concessionario deve adeguarsi ad alcune caratteristiche standards imposte dal concedente (anche se i vincoli sono più attenuati rispetto al franchising).
presentarsi agli occhi del pubblico secondo i canoni di un’immagine unitaria159.
Il concessionario può utilizzare marchi propri ed esporre un’insegna personale, mentre nel franchising è sempre obbligatorio l’utilizzo del marchio e dei segni distintivi del franchisor da parte del franchisee160.
Inoltre, il concessionario non è tenuto, di regola, a versare né un diritto di entrata, né le royalties, obbligatori invece per il franchisee.
Infine, ulteriore differenza, è riscontrabile nell’oggetto contrattuale, poiché mentre la concessione opera prevalentemente nel campo della vendita dei beni materiali161, ed in particolare di beni recanti il marchio del
159 Cfr. X. Xxxxxxxxx, I contratti di distribuzione, Napoli, 1979, pag. 265.
Cfr. F. Di Xxxxxxx, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx .
Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, I contratti di distribuzione come categoria unitaria in Giurisprudenza Commerciale, 1994, fasc. 2, pag. 801.
Xxx. X. Xx Xxxx, Xxxxx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pag. 247 ss.. 161 La concessione non può avere per oggetto beni immateriali poiché non è possibile ricevere in fornitura un servizio e poi rivenderlo.
concedente, il franchising ha una portata più ampia potendosi sviluppare sia nella distribuzione di beni sia nella prestazione di servizi.
Rispetto alla concessione di vendita il franchising rappresenta quindi un modello caratterizzato da una maggiore completezza di elementi, con un’area di maggiore applicabilità.
In giurisprudenza è stato affermato che, quando la concessione di vendita viene “portata ad estreme conseguenze, per quanto riguarda il grado di integrazione fra due imprese”162, il rapporto di concessione di vendita si trasforma in franchising. Il franchising, infatti, realizza una maggiore integrazione tra le parti e il franchisor detiene un largo potere di controllo sull’affiliato, la cui posizione in tema di iniziativa imprenditoriale è molto ridotta163. Il grado di integrazione reciproca spesso è così stretto da creare agli occhi della clientela la convinzione che ci si trovi di fronte ad un’unica realtà d’impresa164 e sarebbe proprio la forte integrazione che porta a definire il
162 Tribunale di Crema, 23 novembre 1994, Ford Italiana
S.p.a. contro Xxxxxxxxxx, in Contratti, 1996, 52.
163 Xxx. X. Xx Xxxx, Xxxxx xxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pag. 247 ss..
164 Pretura di Lecce, 24 ottobre 1989, in Giurisprudenza Italiana, 1991, 732.
franchising come evoluzione della concessione di vendita165.
Le distinzioni tra franchising e concessione di vendita sono inoltre state individuate dalla dottrina italiana fin dai primi anni Settanta e un significativo contributo è stato fornito anche dalla Corte di Giustizia CE, nel caso “Pronuptia”166.
Nonostante la sussistenza di obiettive differenze, però, parte della dottrina167 sostiene tuttavia che un gran numero degli attuali contratti di concessione di vendita (soprattutto quelli che prevedono l’esclusiva di prodotto) possono ricadere sotto l’ambito di applicazione della Legge
n. 129/2004 in tema di franchising, tutte le volte in cui sia possibile riscontrare una licenza di know-how ed una presentazione interna ed esterna uniforme in tutta la rete168.
165 Cfr. X. Xxxxxxxx, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 79-83.
166 Xxxxx xx Xxxxxxxxx, 00 gennaio 1986, causa 161/84, in Raccolta di giurisprudenza della Corte, 1986, pag. 353 e ss.. 167 Cfr. X. Xxxxxxxx, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 51-53.
168 Per esempio, il caso dei contratti per i distributori di benzina.
Un’altra parte169, invece, sostiene che le differenze tra franchising e concessione di vendita non sono rilevanti e andrebbero trascurate170, mettendo in rilievo, al contrario, il fatto che ambedue le figure sono riconducibili ai contratti di distribuzione e conservano, perciò, la medesima ragione economico-sociale che consiste nel disciplinare i rapporti di integrazione tra imprese. In entrambi i contratti l’affiliato si assume i rischi imprenditoriali della distribuzione, sollevando dagli stessi il produttore e, per mezzo della concessione delle licenze, si realizza una distribuzione integrata171. Si sostiene, inoltre, che è inutile effettuare studi per individuare le
169 Cfr. F. Di Xxxxxxx, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx
170 Spesso succede che le due diverse denominazioni vengano utilizzate in modo promiscuo e anzi, sempre più spesso, nella prassi commerciale viene preferito il termine “franchising” perché più “accattivante” e come tale in grado di offrire, ad un affiliante che si voglia diffondere sul mercato, maggiori possibilità di raccogliere adesioni da parte di potenziali affiliati.
Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.
171 Cfr. X. Xxxxx Xxxxxxxx, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato in Giurisprudenza di merito, 2006, tomo 2, pagg. 2153-2163.
In particolare, sotto il regime del Regolamento n. 4087/88, era importante distinguere la concessione di vendita dal franchising poiché solo per quest’ultimo, ricorrendo alcuni requisiti minimi, si disponeva l’esenzione dall’applicazione dell’art. 81 del Trattato CE sul divieto di intese
anticoncorrenziali. | A fronte di | questa |
“discriminazione” | vennero sollevate | molte |
critiche, in quanto la scelta appariva ingiustificata a chi considerava i contratti di distribuzione come categoria unitaria. Infatti, chi sosteneva che tra le due figure non erano riscontrabili tratti distintivi, non accettava il fatto che vi fosse un trattamento giuridico così diverso; con riferimento all’art. 3 della Costituzione, che impone di disciplinare giuridicamente in modo analogo situazioni analoghe, si contestavano le profonde differenze di trattamento a livello comunitario.
172 Cfr. F. Di Xxxxxxx, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx.
Con il Regolamento n. 2790/99, che ha sostituito il precedente, il legislatore comunitario ha cambiato completamente atteggiamento nei confronti delle intese restrittive sulla concorrenza. Prima di tale riforma, infatti, a fronte del divieto generale imposto dall’art. 81 del Trattato CE, era stata emanata una serie di regolamenti di esenzione per categoria, che poneva l’operatore giuridico di fronte ad un intricato complesso di disposizioni normative, anche a causa della non facile distinguibilità delle singole intese.
Con il nuovo Regolamento, invece, è stato scelto un meccanismo di esenzione generalizzata per tutte le intese che abbiano determinati requisiti173, senza più distinguere tra i diversi contratti.
E’ utile, a tale proposito, richiamare il contenuto dell’art. 2, par. 1, il quale recita “conformemente all’art. 81 paragrafo del 3 del Trattato […] il paragrafo 1 di detto articolo è dichiarato inapplicabile agli accordi o alla pratiche concordate conclusi tra due o più imprese, operanti ciascuna, ai fini dell’accordo, ad un livello differente della catena di produzione o di
173 Per un’analisi più approfondita si rimanda al Capitolo 1 par. 5.
distribuzione, e che si riferiscono alle condizioni in base alle quali le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o servizi”. Si tratta di un’ampia definizione all’interno della quale rientrano i contratti di distribuzione in genere, senza distinzione tra concessione di vendita e franchising.
È possibile concludere, quindi, che, in passato, a livello comunitario, esisteva una distinzione tra franchising e concessione di vendita, ma grazie all’introduzione del Regolamento n. 2790/99 la diversificazione tra le due figure non ha più utilità pratica neppure alla luce del diritto comunitario174.
Ulteriore problematica sorta in giurisprudenza è stata quella di capire se il contratto di franchising, in alcuni casi, possa essere utilizzato al fine di simulare un rapporto di vera e propria subordinazione.
La dottrina è concorde sul fatto che l’affiliato non può essere assimilato ad un lavoratore subordinato, anche se alcuni sostengono che tale
174 Cfr. F. Di Xxxxxxx, Franchising e concessione di vendita a raffronto, dal sito internet xxx.xxxxxxx.xx.
possibilità non è del tutto priva di fondamento175. Infatti, analizzando le molteplici obbligazioni che gravano sul franchisee, è possibile osservare che quest’ultimo risulta essere sottoposto alle direttive ed al controllo del franchisor, trovando così ridotta la propria autonomia imprenditoriale.
Ci si chiede, quindi, se tale riduzione di autonomia, che in misura maggiore o minore, si trova in ogni contratto di franchising, sia sufficiente per poter considerare il franchisee paragonabile ad un lavoratore subordinato.
Il pensiero prevalente è negativo rispetto a tale ipotesi176 poiché la presenza di un potere di direzione e di controllo esercitato dal franchisor è indispensabile in un rapporto di franchising, potendo essere esercitato in modo legittimo se finalizzato al mantenimento di un interesse comune d’impresa dei due soggetti coinvolti.
La direzione e il controllo, in altre parole, possono risultare in alcuni casi estremamente pregnanti, ma entro i limiti in cui sono diretti al mantenimento e ad un maggiore funzionamento
175 Cfr. X. Xxxxxxx, Impresa, lavoro ed innovazione tecnologica, Milano, 1985, pagg. 171 ss..
176 Cfr. X. Xxxxxxxx, Il franchising, Torino, 1990, pagg. 62-66.
dell’organizzazione comune, non snaturano il franchising fino al punto da renderlo assimilabile ad un rapporto di lavoro subordinato177.
Il franchisee, pur trovandosi ad operare nell’ambito di un’organizzazione predisposta e controllata dal franchisor, conserva comunque un proprio spazio, più o meno esteso, nel quale è libero di esercitare la propria autonomia imprenditoriale178 sostenendo, quindi, parzialmente il rischio d’impresa179.
Xxxxxx affermato sino ad ora non esclude però che, al fine di evitare l’applicazione della legislazione gravante sul rapporto di lavoro subordinato, maggiormente “onerosa” per il datore
177 Cfr. X. Xxxxxxxx, Il franchising, Torino, 1990, pag. 63.
178 Ad esempio il franchisee è libero di determinare il proprio margine di profitto attraverso opportune scelte gestionali organizzando i fattori della produzione in modo tale da ottenere la maggiore produttività possibile. Rappresentano, inoltre, estrinsecazioni dell’autonomia imprenditoriale del franchisee, la possibilità, pur nel rispetto delle aree territoriali di attività contrattualmente stabilite, di organizzarsi in modo tale da incidere favorevolmente sul volume delle vendite, sia la possibilità di porre in essere una politica volta alla minimizzazione dei costi di gestione.
Xxx. X. Xxxxxxxx, Xx xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pagg. 62-66.
179 Il rischio d’impresa è comunque ridotto poiché l’affiliato, entrando a far parte della catena del franchisor, può godere di un mercato sicuro, di vantaggi connessi alla pubblicità e al marchio già affermato sul mercato.
di lavoro, possano essere stipulati contratti di franchising, che in realtà mascherano un rapporto di lavoro subordinato.
In tale ipotesi sarà il giudice a decidere a quale delle due tipologie possa essere ricondotto il contratto in questione, considerando il reale assetto di interessi contrattuali.
2.2 I soggetti
All’interno delle varie definizioni di franchising fornite in campo comunitario e nazionale, si è spesso utilizzato l’espressione “soggetti giuridici” per definire chi può partecipare ad un contratto di franchising, ma è opportuno precisare che con tale espressione non si allude alle persone giuridiche in senso “tecnico” e che, pertanto, le parti possono essere anche persone fisiche.
Inoltre, si deduce che debba trattarsi necessariamente di imprenditori180, poiché chi commercializza beni o servizi (franchisee) non può non avere lo status di imprenditore,
esattamente come chi offre una pluralità di licenze di beni di proprietà intellettuale (franchisor)181.
In linea generale, possiamo definire il franchisor (o affiliante) come il soggetto che propone il progetto, cioè il produttore di un certo bene, il quale concede ad altri soggetti, i franchisee, di commercializzare i prodotti, in cambio di una percentuale sulle vendite.
Il franchisor, dopo aver sperimentato la sua formula attraverso uno o più punti vendita “pilota”, predispone il piano di sviluppo sul mercato182 e ne impone ai franchisees il rispetto assoluto.
Requisiti fondamentali per tale ruolo sono, quindi, l’esperienza, la competenza, un’immagine ben definita e, quando possibile un marchio ben noto e apprezzato dal pubblico.
Il franchisor deve essere in grado, inoltre, di mettere a disposizione risorse economiche, strutture organizzative e competenze manageriali adeguate, allo scopo di costituire una rete di franchising.
181 Cfr. X. Xxxxxxxx, Franchising la nuova legge, Torino, 2004, pagg. 47-49.
182 Denominato anche business plan.
La principale motivazione che spinge un soggetto a costituire una rete di franchising è costituita dalla spinta verso una maggiore crescita ed espansione della propria attività, sfruttando anche economie di scala183; inoltre, pur dando luogo ad un grande impresa, è possibile, grazie alla presenza dei franchisee, operare a livello locale rafforzando la propria presenza in ogni parte del territorio.
Il franchisee (o affiliato), è il soggetto che riconosce nel progetto proposto dal franchisor alcune qualità in relazione ai prodotti, ai servizi, al know-how, all’insegna, all’immagine di marca, all’assistenza fornita, e decide di aderirvi.
Il potenziale franchisee deve avere, tra i suoi primi requisiti, un forte spirito di gruppo e la convinzione che, per ottenere successo nei mercati attuali, è preferibile il gioco di squadra a quello individuale.
Per poter partecipare a tale progetto, il franchisee deve disporre di un negozio con determinate caratteristiche dimensionali e di ubicazione, arredandolo e facendo pubblicità in modo da