Jobs Act. Revisione forme contrattuali. Decreto legislativo n. 81/2015
Jobs Act. Revisione forme contrattuali. Decreto legislativo n. 81/2015
Sulla Gazzetta Ufficiale del 24 giugno 2015 (serie generale n. 144, supplemento ordinario n. 34), è stato pubblicato il decreto legislativo 15 giugno 2015, n.81, recante la “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”, emanato in attuazione dell’art. 1, c. 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (meglio nota come “Jobs Act”), e si propone di riordinare e rivedere le tipologie contrattuali flessibili con l’obiettivo di sostenere forme di lavoro a tempo indeterminato e rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione. Il decreto in commento – in vigore dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione e, dunque, dal 25 giugno 2015, salvo previsioni specifiche per le quali sono previste particolari decorrenze – è un provvedimento piuttosto complesso che cerca di raccogliere in un solo testo le numerose disposizioni che regolano le forme contrattuali diverse dal rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, detto infatti anche "codice dei contratti".
Prima di entrare nel merito delle singole disposizioni, vale la pena sottolineare come l’art. 1 del decreto legislativo in commento ribadisca, non senza enfasi, che "il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro".
Il Jobs Act si pone infatti l'obiettivo di incentivare l'occupazione dipendente - soprattutto quella giovanile - attraverso una serie di misure volte a rendere più semplice e conveniente il contratto di lavoro a tempo indeterminato rispetto alle altre forme contrattuali. Sono stati infatti introdotti nell’ultimo anno, una serie di incentivi economici o normativi, quali:
sgravi contributivi triennali in favore dei datori di lavoro che assumono nuovi lavoratori a tempo indeterminato nel periodo 1° gennaio – 31 dicembre 2015 (art. 1, c. 118-122, legge n.190/2014);
deduzione integrale, dalla base imponibile IRAP, del costo del lavoro dei dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato (art. 1, c. 20, legge n.190/2014);
alleggerimento delle regole in materia di licenziamento per i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato attraverso il ridimensionamento del campo di applicazione dell’istituto della “reintegra” nel posto di lavoro che, nel nuovo quadro normativo, diviene residuale ed eccezionale rispetto alla regola, rappresentata dall’indennizzo economico (d.lgs. n.23/2015).
Accanto a queste misure incentivanti sono state introdotte alcune altre disposizioni che cercano di limitare la possibilità di ricorrere a forme contrattuali alternative al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ci si riferisce in particolare:
al limite alla possibilità di instaurare contratti di lavoro a tempo determinato (20 per cento della forza lavoro, salvo eccezioni), introdotto dal decreto legge n.34/2015 convertito dalla legge n. 78/2015, e ribadito, come vedremo, dal decreto in commento;
alla revisione, in senso fortemente restrittivo, delle collaborazioni autonome di carattere personale (contratto a progetto, collaborazioni occasionali, associazione in partecipazione con apporto di lavoro), ad opera del decreto legislativo in commento.
Ci preme precisare che, grazie anche all’azione di Confagricoltura, la disciplina del rapporto di lavoro a termine, come modificata dal decreto in commento, non si applica ai rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato, in virtù dell’espressa esclusione contenuta all’art. 29, c. 1, lett. b), del decreto medesimo, che riproduce testualmente l’esclusione già contemplata nell’art. 10, c.2, del d.lgs. n.368/2001. Si tratta di un importante risultato, che consente alle imprese agricole di poter continuare ad occupare gli operai a tempo determinato in modo estremamente flessibile, senza obblighi di forma, né limiti di durata, di proroga e di reiterazione.
Tutto ciò premesso, si forniscono qui di seguito prime indicazioni in merito alle principali disposizioni della riforma delle tipologie contrattuali di maggiore interesse per le imprese agricole e per il nostro sistema associativo.
Collaborazioni coordinate e continuative, a progetto, occasionali (artt.2, 52, 54)
A decorrere dal 25 giugno 2015, non è più possibile instaurare nuovi contratti di collaborazione a progetto o di collaborazione occasionale (nota anche come "mini cococo"). Lo dispone l’art. 52 del decreto in commento, il quale prevede testualmente che "le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n. 276 del 2003 (quelle appunto relative ai contratti a progetto e occasionali n.d.r.) sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto". Le norme abrogate restano transitoriamente in vigore solo per regolare i contratti di collaborazione già in atto alla data di entrata in vigore del decreto in commento (25 giugno 2015).
Pertanto, a decorrere dal 25 giugno 2015:
non è più possibile instaurare nuove collaborazioni a progetto (xx.xx.xxx) o occasionali (mini xx.xx.xx.);
i rapporti di collaborazione in essere alla predetta data continueranno ad essere regolati, fino a scadenza naturale del contratto, dalle norme previgenti.
Dopo aver disposto il superamento (con le eccezioni sopra ricordate) delle collaborazioni a progetto ed occasionali, il decreto in commento, con una disposizione di dubbia coerenza rispetto all’intento di limitare le collaborazioni personali, precisa all’art. 52, c. 2, che "resta salvo quanto già disposto dall’articolo 409 del Codice di Procedura Civile”.
Detto articolo si riferisce – sia pure ai fini processuali, per definire l’ambito di applicazione del rito del lavoro – ai "rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato". Questa previsione normativa – pur essendo contenuta nel codice di rito – è stato il primo (e per lungo tempo unico) riferimento normativo delle collaborazioni coordinate e continuative, ed ha aperto la strada alla teorizzazione dei cosiddetti rapporti parasubordinati. L’esplicita salvaguardia di tale disposizione contenuta nell’art. 409 c.p.c., sembra dunque comportare la rinascita delle (vecchie) collaborazioni coordinate e continuative, soppiantate nel 2003 dalle collaborazioni a progetto. Come tutto ciò si concili con il dichiarato intento del legislatore di limitare l’utilizzo di tipologie contrattuali – come quelle parasubordinate – potenzialmente elusive del rapporto di lavoro subordinato non è chiaro. Ma la scarsa coerenza della previsione (che fa rivivere le vecchie xx.xx.xx) è sensibilmente stemperata dall’art. 2 del decreto in commento il quale – a decorrere dal 1° gennaio 2016 – riconduce alla disciplina del rapporto di lavoro subordinato le collaborazioni continuative a carattere esclusivamente personale, i cui tempi e modi della prestazione siano determinati dal committente. Ed infatti il citato art. 2 dispone espressamente che, a far data dal 1° gennaio 2016, la disciplina del lavoro subordinato troverà applicazione, in via di principio, "anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro" (art. 2, c. 1). Dall’anno prossimo, quindi, tutte le collaborazioni continuative che si concretizzano in prestazioni esclusivamente personali e che risultano etero-organizzate dal committente (che ne decide tempi e luoghi) saranno assoggettate alla disciplina prevista per i rapporti di lavoro subordinato.
Per l’assoggettamento alla disciplina del lavoro subordinato è necessario che ricorrano congiuntamente tutte e tre le condizioni previste, e cioè che le prestazioni oggetto della collaborazione siano:
1. continuative;
2. esclusivamente personali;
3. organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. L’assoggettamento alla disciplina del lavoro subordinato non scatta quando si tratti:
1. di casistiche disciplinate (anche prima della entrata in vigore del decreto) dalla contrattazione collettiva nazionale in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del settore;
2. di collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
3. di attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
4. di collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. (art. 90, l. n. 289/2002);
5. di collaborazioni nella pubblica amministrazione, in attesa della relativa riforma, fermo restando il divieto di un loro utilizzo a far data dal 1° gennaio 2017.
Da sottolineare che tra le eccezioni non sono più ricomprese – come in precedenza (art. 61, c.3, d.lgs. n.276/2003) – le collaborazioni con soggetti titolari di pensione di vecchiaia. È un’esclusione poco comprensibile se si considera che difficilmente i rapporti di collaborazione con pensionati di vecchiaia sono finalizzati ad eludere le norme sul lavoro dipendente. La “presunzione” di subordinazione può inoltre essere preventivamente neutralizzata ricorrendo alla procedura di certificazione dei contratti di lavoro di cui all’art. 76 del d.lgs. n. 276/2003 (art. 2, c. 3) per attestare l’insussistenza dei parametri sopra ricordati (continuità; personalità della prestazione; etero- organizzazione del lavoro).
Per consentire la sistemazione dei casi dubbi, sempre a far data dal 1° gennaio 2016, i committenti/datori di lavoro privati possono regolarizzare la propria posizione assumendo con contratti di lavoro dipendente a tempo indeterminato, i soggetti già titolari (con i medesimi datori) di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto) o i soggetti titolari di partita IVA. L’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali, connessi all'erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso, fatti salvi gli illeciti già accertati a séguito di accessi ispettivi effettuati in data precedente l’assunzione (art. 54 del d.lgs. n. 81/2015), è subordinata a due condizioni:
a) sottoscrizione da parte dei lavoratori coinvolti di atti conciliativi aventi ad oggetto tutte le pretese pregresse;
b) nessun recesso dalle assunzioni nei 12 mesi successivi da parte del datore di lavoro (salvo giusta causa o giustificato motivo soggettivo).
Da ultimo si chiarisce che non è stato soppresso il contratto d'opera (art. 2222 del c.c.) con il quale "una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente".
Contratto a tempo parziale (artt.4-12)
Gli articoli da 4 a 12 disciplinano il contratto di lavoro subordinato a tempo parziale, precedentemente regolamentato dal d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61 che viene espressamente abrogato (art. 55, c.1, lettera a). Nel complesso viene sostanzialmente confermata la previgente disciplina, a partire dall’obbligo di dare puntuale indicazione, nel contratto scritto, della durata della prestazione lavorativa e della esatta collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese ed all’anno (obbligo che può essere assolto, in caso di lavoro a turni, col semplice rinvio ai turni programmati di lavoro su fasce orarie prestabilite). La principale novità – oltre quella (più formale che sostanziale) di abbandono, da parte del legislatore, della classica tripartizione tra part- time orizzontale, verticale e misto (che tuttavia resta nella prassi contrattuale) – è rappresentata dalla possibilità di utilizzare le clausole elastiche (variazione in aumento della durata della prestazione) e/o flessibili (variazione della collocazione oraria della prestazione) e di ricorrere al lavoro supplementare, anche in assenza di specifiche regolazioni collettive, ferma restando la necessità del consenso del lavoratore. Si tratta di una novità che ha comunque scarsa incidenza nel
nostro settore produttivo, in quanto come noto sia la contrattazione collettiva per gli operai agricoli e florovivaisti che quella per i quadri e gli impiegati agricoli disciplina puntualmente l’utilizzo della predette forme di flessibilità oraria della prestazione, che restano dunque valide ed applicabili.
Più nello specifico, rispetto alla precedente normativa, emergono le seguenti differenze:
lavoro supplementare. Qualora la contrattazione collettiva non disciplini il lavoro supplementare (quello eseguito oltre l'orario di lavoro stabilito ma entro i limiti dell’orario normale), lo svolgimento di ore supplementari può comunque essere richiesto al lavoratore nei limiti del 25 per cento delle ore di lavoro settimanali; il lavoratore, che dovrà essere retribuito con una maggiorazione del 15 per cento, può rifiutarsi per comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale (art. 6, c.1-2). Si ricorda che nella disciplina precedente era esclusivamente demandata alla contrattazione collettiva la definizione del numero massimo delle ore di lavoro supplementare effettuabili, delle relative causali in relazione alle quali era consentita la richiesta di svolgimento di lavoro supplementare, nonché delle conseguenze del superamento delle ore di lavoro supplementare consentite dai contratti collettivi stessi;
clausole elastiche. Riguardo alle cosiddette clausole flessibili o elastiche (relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione stessa o anche, nei rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto, alla variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa), la nuova disciplina (art. 6, c.4) - pur continuando ad esigere che le medesime siano pattuite per iscritto - non richiede più, come in precedenza, che esse siano oggetto di uno specifico patto scritto (ulteriore rispetto al normale contratto di lavoro). Inoltre viene previsto (art. 6, c. 6) che nell'ipotesi di carenza di regolamentazione collettiva, le clausole flessibili o elastiche sono ammissibili se sottoscritte dalle parti dinanzi ad una delle commissioni di certificazione dei contratti di lavoro. In tal caso la misura massima dell’aumento previsto non può superare il 25 per cento della normale prestazione annua a tempo parziale (si ricorda che una clausola di variazione in aumento è ammessa solo per i rapporti a tempo parziale di tipo verticale o misto). Per le modifiche dell'orario in applicazione delle predette clausole, il lavoratore ha diritto ad una maggiorazione della retribuzione oraria pari al 15 per cento, comprensiva dell'incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti. Viene altresì esteso (art. 6, c.7) il diritto alla revoca del consenso prestato alle suddette clausole flessibili o elastiche ai soggetti affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti;
periodo di comporto. Ferma restando la possibilità per i contratti collettivi di rimodulare la durata del periodo di prova e di preavviso (art. 7, c.2), la rimodulabilità del periodo di conservazione del posto di lavoro viene estesa anche all’ipotesi di infortunio (oltre a quella, già prevista, della malattia);
trasformazione. Il diritto di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale (nonché, in base ad eventuale successiva richiesta, di nuova trasformazione a tempo pieno) è esteso in favore dei soggetti affetti da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti, oltre a quelli affetti da patologie oncologiche (art.8, c.3); il diritto alla priorità nella trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale è esteso alle ipotesi in cui il coniuge o un figlio od un genitore del lavoratore sia affetto da gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti (art. 8, c. 4) ed al lavoratore con figlio convivente minore di età non superiore a 13 anni o portatore di handicap (art. 8, c.5);
part-time in luogo del congedo parentale. Viene introdotto il diritto per il lavoratore di richiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale per un periodo corrispondente, con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento (art. 8, c. 7).
Da ultimo vale la pena sottolineare che è stata anche modificata e semplificata la norma che stabilisce il principio di pari trattamento del lavoratore a tempo parziale rispetto a quello a tempo pieno di pari inquadramento. Ed infatti - in sostituzione dell'art. 4 del d.lgs. n. 61/2000 ("Principio
di non discriminazione") che, come detto, è stato espressamente abrogato - l'art. 7 del decreto in commento ("Trattamento del lavoratore a tempo parziale") - con una formulazione più generica rispetto alla precedente norma citata - prevede che "il lavoratore a tempo parziale ha i medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile ed il suo trattamento economico e normativo è riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa".
Lavoro intermittente (artt. 13-18)
Gli articoli da 13 a 18 riguardano il contratto di lavoro intermittente (o a chiamata). Si ricorda che mediante tale contratto - il quale può essere a tempo indeterminato o a termine - un lavoratore "si pone a disposizione" di un datore di lavoro, per lo svolgimento di prestazioni a carattere discontinuo o intermittente. La disciplina del lavoro intermittente non subisce sostanziali modifiche rispetto alla riforma Fornero (legge n.92/2012), già intervenuta su questo istituto con previsioni che ne hanno di fatto ridotto l’applicazione a seguito di una più complessa burocrazia gestionale.
Rispetto all'attuale disciplina dell'istituto, stabilita dagli artt. da 33 a 40 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, che viene espressamente abrogata (art. 55, c.1, lettera d), emergono le seguenti differenze:
stando alla infelice formulazione dell'art. 13, c. 1, del decreto, sembrerebbe che si subordini alle determinazioni dei contratti collettivi anche l'ammissibilità dell'ipotesi di contratto intermittente relativo a periodi predeterminati nell'arco della settimana, del mese o dell'anno, mentre la precedente disciplina consentiva in via diretta quest'ipotesi di contratto intermittente (su questo aspetto occorrerà attendere dunque i chiarimenti delle amministrazioni competenti);
il criterio di computo dei lavoratori intermittenti nell'organico dell'impresa ("in proporzione all'orario di lavoro effettivamente svolto nell'arco di ciascun semestre") è esteso alle ipotesi in cui il computo rilevi per l'applicazione di una disciplina di fonte contrattuale (mentre la corrispondente norma previgente fa riferimento solo all'applicazione delle "normative di legge").
Per quanto riguarda le tipologie di attività per le quali è possibile ricorrere al lavoro intermittente occorre continuare a rifarsi alla contrattazione collettiva o, in assenza, ai casi individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. Al riguardo deve ritenersi che, fino all’emanazione del nuovo decreto ministeriale, restino in vigore i casi individuati nel precedente decreto 23 ottobre 2004 e che quindi sia “ammessa la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al Regio decreto 6 dicembre 1923, n. 2657” (art. 55, c. 3).
Resta sempre ammesso il lavoro intermittente con giovani con meno di 24 anni di età (purché le prestazioni si svolgano entro il 25° anno) e con adulti che abbiano più di 55 anni.
Lavoro a tempo determinato (artt.19-29)
Gli articoli da 19 a 29 riguardano il contratto di lavoro dipendente a tempo determinato che, come si ricorderà, era già stato oggetto di modifiche da parte dell'attuale Governo con il decreto legge n.34/2014 convertito dalla legge n. 78/2014. Il decreto in commento, di fatto, si limita a recepire la previgente disciplina (d.lgs.368/2001), come risultante dalle modifiche apportate dal recente d.l. 34/2014 convertito in legge 78/2014. Vengono solo apportate alcune limitate modifiche.
In particolare rispetto alla precedente disciplina dell'istituto - stabilita dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368 che viene ora espressamente abrogato - emergono le seguenti principali differenze:
in merito all'ipotesi di un ulteriore contratto a termine, in deroga al limite complessivo di durata di 36 mesi, si prevede (art. 19, c.3) che esso abbia una durata non superiore a 12 mesi, mentre la norma previgente demandava ad avvisi comuni delle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale la determinazione della durata massima dell'ulteriore contratto;
riguardo alla disciplina delle proroghe, confermata nel suo impianto originario dall'articolo 21 del decreto legislativo n.81/2015, si specifica che, qualora il numero delle proroghe sia superiore a cinque, il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla data della sesta proroga (tale profilo non era esplicitamente disciplinato dalla normativa precedente);
l'impugnazione giudiziale del contratto di lavoro a tempo determinato deve avvenire entro 120 giorni dalla sua cessazione, a pena di decadenza (art. 28, c.1).
in caso di splafonamento della percentuale di contingentamento del lavoro a termine (20 per cento della forza lavoro a tempo indeterminato) si applica solo una sanzione amministrativa commisurata alla retribuzione dei lavoratori in eccesso e non la trasformazione dei contratti a termine interessati in contratti a tempo indeterminato.
Da sottolineare, come ricordato in premessa, che la nuova disciplina del rapporto di lavoro a termine non incide sui rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato così come definiti dall'articolo 12, c. 2, del d.lgs. n.375/1993.
Grazie anche all'azione di Confagricoltura, è stata infatti mantenuta l'esclusione espressa di tale tipologia di rapporti dalla normativa generale (art. 29, c.1). Pertanto, come già sottolineato, la disciplina applicabile ai rapporti di lavoro a tempo determinato con gli operai agricoli (OTD)
– caratterizzata dalla massima flessibilità – resta invariata.
Somministrazione di lavoro (artt.30-40)
Gli articoli da 30 a 40 rivedono la normativa in materia di somministrazione di lavoro che, secondo la rinnovata definizione dettata dall'art. 30 del d.lgs. n.81/2015, è "il contratto con il quale un'agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi del d.lgs. n.276/2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore".
Rispetto all'attuale disciplina dell'istituto - stabilita dall'art. 18, commi 3 e 3-bis, e dagli artt. da 20 a 28 del d.lgs. n. 276/2003 (che viene espressamente abrogata dall'art. 55, c.1, lettera d) - emergono le seguenti differenze principali:
analogamente a quanto già previsto per la somministrazione a tempo determinato, vengono eliminate le ipotesi di ammissibilità del contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato che diventa dunque "a-causale"; viene però introdotto un limite quantitativo al suo impiego, pari al 20 per cento del numero dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato in forza presso l'utilizzatore al primo gennaio di stipula (salvo diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall'utilizzatore);
al contratto a tempo determinato tra somministratore e lavoratore non si applica il limite generale di durata per i contratti di lavoro a termine, pari a 36 mesi (mentre il limite si applica alle missioni a tempo determinato presso l'utilizzatore); allo stesso modo, al contratto a tempo determinato tra somministratore e lavoratore non si applicano i limiti numerici (20 per cento della forza lavoro) previsti in via generale per i contratti di lavoro a termine (articolo 34, comma 2).
Apprendistato (artt.41-47)
Gli articoli da 41 a 47 disciplinano i contratti di apprendistato che erano peraltro già contenuti in un testo unico (d.lgs. 14 settembre 2011, n. 167) ed erano già stati oggetto di modifica ad opera dell'attuale Governo (decreto legge n.34/2014 convertito dalla legge n. 78/2014).
Qui vengono adottati ulteriori correttivi rispetto ad alcuni vincoli che hanno causato lo scarso utilizzo di tale forma contrattuale, soprattutto con riferimento all'apprendistato per il conseguimento del diploma professionale, che si vorrebbe ora configurare come vero e proprio strumento dell'offerta educativa scolastica.
Rispetto all'attuale disciplina, stabilita dal citato T.U. che viene espressamente abrogato (art. 55, c.1, lettera g), si segnalano le seguenti differenze:
in merito alle tre tipologie di contratto di apprendistato - per la qualifica e per il diploma professionale, professionalizzante o contratto di mestiere, di alta formazione e di ricerca - il decreto legislativo modifica la denominazione della prima, che viene ora individuata come "apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione di specializzazione tecnica superiore", mentre la seconda tipologia viene indicata esclusivamente come "apprendistato professionalizzante" (e non più "contratto di mestiere"); si specifica, inoltre, che la prima e la terza tipologia fanno riferimento ai titoli di istruzione e formazione ed alle qualificazioni professionali contenuti nel relativo Repertorio nazionale, di cui all’art. 8 del d.lgs. 16 gennaio 2013, n. 13, definito nell’ambito del Quadro europeo delle qualificazioni (art. 41);
si specifica che il requisito della forma scritta del contratto di apprendistato è posto a fini probatori (articolo 42, comma 1);
si prevede che, nell’apprendistato della prima e della terza tipologia, il piano formativo individuale sia predisposto dall'istituzione formativa di provenienza dello studente con il coinvolgimento dell’impresa (articolo 42, comma 1);
si specifica che, nell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale, costituisce giustificato motivo di licenziamento anche il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi, attestato dall’istituzione formativa di provenienza (articolo 42, comma 3);
rispetto alla norma che subordina, per i datori di lavoro che occupino almeno 50 dipendenti, l'ammissibilità del contratto di apprendistato alla prosecuzione (a tempo indeterminato) del rapporto di lavoro (al termine del periodo di apprendistato), nei trentasei mesi precedenti la nuova assunzione, di almeno il 20 per cento degli apprendisti (esclusi dal computo i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa), il d.lgs. n.81/2015 (articolo 42, c. 8) limita tale condizione all'assunzione di lavoratori con l'apprendistato professionalizzante (e non anche con le altre due tipologie);
riguardo al solo apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione di specializzazione tecnica superiore:
la regolamentazione dei profili formativi è rimessa alle regioni o, in carenza di normativa regionale, al Ministero del lavoro e delle politiche sociali (prima: la competenza era esclusivamente delle regioni, previo accordo con lo Stato e sentite le organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori (art. 43, c. 3);
il datore di lavoro sottoscrive un protocollo con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto, secondo lo schema, i contenuti degli obblighi formativi a carico del datore di lavoro e la durata degli stessi, definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali (art. 43, c. 6). Il medesimo decreto definisce i criteri generali per lo svolgimento dei percorsi di apprendistato negli istituti tecnici e professionali, e, in particolare, il monte orario massimo del percorso scolastico che possa essere svolto in apprendistato ed i requisiti delle relative imprese. In ogni caso, la formazione esterna all’azienda si svolge nell’istituzione formativa cui è iscritto lo studente e non può essere superiore al 60 per cento dell’orario ordinamentale per il secondo anno e al 50 per cento per gli anni successivi;
per le ore di formazione svolte nell'istituzione formativa, il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo, salva diversa previsione dei contratti collettivi, mentre per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta (art. 43, c. 7). La norma precedente riconosceva invece il 35 per cento della retribuzione per le ore di formazione;
il datore di lavoro ha la facoltà di prorogare fino ad un anno il contratto di apprendistato dei giovani qualificati e diplomati (che abbiano concluso
positivamente i percorsi in oggetto), ai fini del consolidamento e dell’acquisizione di ulteriori competenze tecnico-professionali e specialistiche, rilevanti anche ai fini del conseguimento di certificati di specializzazione tecnica superiore. Il contratto può anche essere prorogato di un anno qualora, al termine del periodo contemplato, l’apprendista non abbia conseguito il titolo di qualifica, diploma o specializzazione professionale (art. 43, c.4);
tale tipologia contrattuale può essere utilizzata per assumere giovani iscritti al quarto e quinto anno degli istituti tecnici e professionali (di istruzione secondaria superiore), per il conseguimento del diploma e per l’acquisizione di ulteriori competenze tecnico-professionali rispetto a quelle previste dai vigenti regolamenti scolastici, utili anche ai fini del conseguimento di un certificato di specializzazione tecnica superiore; in tale fattispecie, il contratto non può avere durata superiore a 4 anni;
riguardo al solo apprendistato professionalizzante:
viene precisato che la qualificazione professionale al cui conseguimento è inteso il contratto è determinata dalle parti contraenti sulla base dei profili o qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento dai sistemi di inquadramento del personale, stabiliti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni dei datori e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (articolo 44, c.1);
viene soppressa l'ipotesi (di cui all'art. 4, c.2, del d.lgs. n.167/2011) che gli accordi interconfederali o i contratti collettivi contemplino una modulazione della durata e delle modalità di erogazione della formazione anche in ragione dell'età dell'apprendista; analogamente, si sopprime la norma (di cui all'art. 4, c. 3, del citato decreto legislativo) in base alla quale l'offerta formativa pubblica sia disciplinata dalle regioni anche in relazione all'età dell'apprendista;
riguardo al solo apprendistato di alta formazione e di ricerca:
viene rivisto l'ambito di applicazione della norma rispetto alla disciplina previgente (art. 45, c.1): limitato ai soli lavoratori in possesso di un diploma di istruzione secondaria superiore o di un diploma professionale conseguito nei percorsi di istruzione e formazione professionale, integrato da un certificato di istruzione e formazione tecnica superiore; unificato a 18 anni il limite minimo di età per l'apprendista (la norma previgente poneva un limite inferiore, a 17 anni, per l'ipotesi in cui il soggetto sia già in possesso di una qualifica professionale); soppressa l'ipotesi di utilizzo per il conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore o per lo svolgimento di un praticantato per "esperienze professionali";
il datore di lavoro sottoscrive un protocollo con l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto, secondo lo schema, i contenuti degli obblighi formativi a carico del datore di lavoro e la durata degli stessi, definiti con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali (art. 45, c. 2). La formazione esterna all’azienda si svolge nell’istituzione formativa cui è iscritto lo studente e nei percorsi di istruzione tecnica superiore e non può essere superiore al 60 per cento dell’orario ordinamentale;
per le ore di formazione a carico del datore di lavoro è riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10 per cento di quella che gli sarebbe dovuta (mentre nella disciplina vigente non erano previste riduzioni); per le ore di formazione svolte nell'istituzione formativa, il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo, salva diversa previsione dei contratti collettivi.
Da ultimo, il comma 10 dell'art. 47 rinvia ad una norma successiva la revisione degli incentivi per i datori di lavoro che intendano assumere apprendisti per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e la specializzazione professionale (prima tipologia) ed
all'apprendistato di alta formazione e di ricerca (seconda tipologia), nell'ambito dell'esercizio della delega sulla razionalizzazione degli incentivi all'assunzione di cui all'art.1, commi 3 e 4, della citata legge n. 183/2014.
Lavoro accessorio - Voucher (artt.48-50)
Gli articoli da 48 a 50 operano una revisione dell'istituto del lavoro accessorio (cd. voucher) che, come noto, consiste in prestazioni retribuite mediante buoni orari dal valore unitario prefissato. Rispetto alla disciplina previgente - artt. 70, 72 e 73 del d.lgs. n. 276 del 2003 che vengono contestualmente ed espressamente abrogati (art. 55, c.1, lettera d) - il nuovo decreto legislativo apporta, in via generale, le seguenti modifiche:
viene elevato a 7.000 euro (netti) il limite annuo relativo all'importo complessivo del valore dei buoni lavoro che ciascun prestatore può percepire (il predente limite era pari, per l'anno 2015, a 5.060 euro netti);
resta fissato a 2.000 euro annui il limite che il prestatore di lavoro può ricevere da un singolo committente qualora quest’ultimo sia un imprenditore o un professionista. La nuova formulazione, che abbandona l’aggettivo “commerciali” (prima infatti si parlava di imprenditori commerciali), potrebbe lasciare intendere la volontà del legislatore di estendere l’ambito di applicazione del limite ristretto dei 2.000 euro a tutti gli imprenditori, anche non commerciali, compresi quelli agricoli. A nostro avviso una lettura del genere non è corretta. Per l’agricoltura, nel bene e nel male, ci sono regole speciali e queste debbono comunque prevalere, compresa quella che fissa nel limite generale (7.000 euro, già 5.060) quello applicabile alle imprese agricole. Sul punto occorrerà comunque attendere chiarimenti da parte della amministrazioni competenti;
viene messa a regime la norma, già operante in via sperimentale per gli anni 2013 e 2014 (e prorogata di volta in volta dalle cosiddette leggi milleproroghe), che consente ai percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito (integrazioni salariali, indennità di disoccupazione, etc.) di effettuare prestazioni di lavoro accessorio (anche in agricoltura) nel limite unico di 3.000 euro annui;
viene introdotto il divieto di ricorso a prestazioni di lavoro accessorio nell'esecuzione di appalti di opere o di servizi, salve specifiche ipotesi, individuate entro sei mesi con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, sentite le parti sociali;
viene reso obbligatorio l'acquisto telematico dei carnet di buoni-lavoro per gli imprenditori e i professionisti. A tal proposito si segnala che, con nota del 26 giugno, la Federazione Italiana Tabaccai ha precisato che - stando alla vigente convenzione con INPS - l’emissione dei voucher in tabaccheria equivale all’acquisto “con modalità telematica”. Sul punto occorrerà tuttavia attendere i chiarimenti da parte del Ministero del Lavoro o dell’INPS;
viene modificata la disciplina della comunicazione obbligatoria che precede l'inizio della prestazione:
deve essere effettuata, alla direzione territoriale del lavoro competente (prima: all'INPS). A tal proposito si segnala che - al fine di consentire i necessari adeguamenti informatici - l'obbligo di comunicazione, nelle more, dovrà continuare ad essere assolto con le modalità attuali (Ministero del lavoro, nota del 25 giugno u.s. che si allega alla presente);
deve indicare anche il luogo della prestazione (prima: solo dati anagrafici e codice fiscale del lavoratore);
riguarda prestazioni rese in un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi (prima non era specificato dalla norma).
Particolare rilievo assume, nel nuovo sistema dei voucher, la disciplina del valore del buono sul quale, come si ricorderà, molto si è dibattuto in passato. In via transitoria il valore del buono resta fissato in 10 euro, in attesa del decreto ministeriale che dovrà fissare il valore tenendo conto della media delle retribuzioni rilevate per le diverse attività lavorative, oltre che del parere delle parti
sociali. Il decreto legislativo inoltre conferma che i buoni sono orari e che quindi per una prestazione accessoria della durata di un’ora non può essere corrisposto meno di un voucher (attualmente, come detto, del valore di 10 euro). Per il settore agricolo viene invece precisato che tale valore è pari all'importo della retribuzione oraria fissata della contrattazione collettiva, stipulata dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In sostanza viene codificata la previsione (prima solo amministrativa contenuta nella nota ministeriale 18.02.2013) secondo la quale in agricoltura si può anche non rispettare il criterio di equivalenza (un voucher = un’ora di lavoro), purché le ore di lavoro del prestatore accessorio siano retribuite con un numero di voucher che garantisca il rispetto della retribuzione oraria prevista dalla contrattazione collettiva di riferimento.Vale la pena sottolineare che per il lavoro accessorio in agricoltura vengono mantenute le particolari caratteristiche relative alle tipologie di prestatori e di mansioni:
o attività stagionali effettuate da pensionati e giovani studenti under 25 per la generalità delle aziende;
o nessuna limitazione relativa alla stagionalità e alle categorie soggettive (studenti e pensionati) per le aziende con fatturato inferiore a 7.000 euro che, però, non possono avvalersi di soggetti iscritti negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli nel precedente anno solare.
Da ultimo si segnala che l'art. 49, c.8, contiene una disciplina transitoria per i buoni già richiesti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo (25 giugno 2015) che saranno regolati dalla previgente disciplina fino al 31 dicembre 2015.
Associazione in partecipazione con apporto di lavoro (art. 53)
L'articolo 53 del decreto legislativo modifica radicalmente la disciplina del contratto di associazione in partecipazione (contenuta nell'articolo 2549 del codice civile) il cui impiego, come si ricorderà, era già stato notevolmente circoscritto dalla riforma Fornero (legge n. 92 del 2012), al fine di limitare il più possibile il rischio di associazioni non genuine (che mascheravano cioè rapporti di lavoro subordinato). Più in particolare il nuovo secondo comma dell'art. 2549 c.c. (come modificato dalla normativa in commento) prescrive che "nel caso in cui l'associato sia una persona fisica l'apporto di cui al primo comma non può consistere , nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro". Viene dunque vietata tout court l'associazione in partecipazione con apporto di lavoro da parte di un associato persona fisica. Si tratta di una novità negativa per il settore primario che, per le sue caratteristiche intrinseche, faceva un significativo impiego di tale forma contrattuale soprattutto per la gestione dei punti vendita aziendali e delle attività agrituristiche.
Il comma 2 del citato articolo 53 fa salvi gli effetti dei contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro già stipulati, che dunque proseguono regolarmente fino alla loro cessazione naturale.
Lavoro ripartito (art. 55, c.1, lettera d)
Viene espressamente abrogato il contratto di lavoro ripartito (noto anche come Job Sharing) precedentemente disciplinato dagli articoli 41-45 del d.lgs. n.276/2003. Si tratta di una forma contrattuale tradizionalmente utilizzata solo per alcune mansioni (es. servizi di portierato) e di nessun rilievo per il settore agricolo.
Disciplina delle mansioni (art. 3)
L'articolo 3 opera una revisione della disciplina sull'attribuzione di mansioni e sulle variazioni delle stesse, in ossequio ai principi della legge delega (art. 1, c.7, lett. e), legge n. 183/2014), attraverso la modifica dell'articolo 2103 del codice civile rubricato "Prestazione del lavoro".
La nuova normativa mira a superare le rigidità che caratterizzavano quella precedente (che vietava ogni forma di “demansionamento”), cercando di contemperare le esigenze di riorganizzazione/ristrutturazione aziendale, con l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita, anche attraverso la modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione. Vale la pena di ricordare che la previgente disciplina - che risale allo Statuto
dei lavoratori - stabiliva che il lavoratore dipendente fosse adibito alle mansioni per le quali era stato assunto ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione (ogni patto contrario era considerato nullo). L'eventuale assegnazione a mansioni di livello superiore comportava il diritto al trattamento economico corrispondente e diventava definitiva dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e, in ogni caso, non superiore a tre mesi (sempre che la medesima non avesse avuto luogo per sostituzione di un lavoratore assente e con diritto alla conservazione del posto). La giurisprudenza – non senza incertezze e ripensamenti – aveva comunque ammesso alcune limitate ipotesi di demansionamento (cioè, di attribuzione a mansioni inferiori): situazioni temporanee di necessità, determinate da forza maggiore; esigenza di evitare il licenziamento per motivi oggettivi o il collocamento in cassa integrazione. Rispetto a tale disciplina, contenuta nel citato articolo 2103 del codice civile, il decreto legislativo in commento apporta significative innovazioni. Innanzitutto viene ampliata la possibilità di variazione unilaterale delle mansioni da parte del datore di lavoro (cosiddetto jus variandi). Ed infatti il lavoratore può essere assegnato a mansioni "riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte". Non viene dunque più richiesta l'equivalenza delle mansioni (come nel previgente testo dell'art.2103 c.c.), essendo ritenuta sufficiente l'appartenenza allo stesso livello contrattuale di inquadramento. Ma la novità più significativa è costituita dal riconoscimento al datore di lavoro della facoltà di assegnare il lavoratore, unilateralmente, a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore.
Tale facoltà di demansionamento del prestatore di lavoro viene infatti espressamente consentita nelle seguenti fattispecie:
1) modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidano sulla posizione del lavoratore;
2) altre ipotesi contemplate dai contratti collettivi.
Il mutamento delle mansioni è comunicato per iscritto (a pena di nullità) e il lavoratore ha diritto alla conservazione del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa (ad esempio indennità di cassa se le nuove mansioni non contemplano più il “maneggio” di denaro). In ogni caso, la dequalificazione unilaterale non può comportare la modifica di categoria legale (ad esempio da impiegato a operaio) del lavoratore interessato. In sostanza si può abbassare il livello di inquadramento contrattuale (ad esempio da impiegato di prima ad impiegato di seconda) ma non la categoria legale (da impiegato ad operaio). E' inoltre previsto che il mutamento di mansioni si accompagni ad un obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina, in ogni caso, la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni, né alcuna sanzione. Qualora la modifica, anziché essere unilaterale (cioè disposta dal solo datore di lavoro), è concordata col lavoratore interessato, il demansionamento può essere decisamente più incisivo, in quanto può incidere sia sulla categoria legale, con passaggio, ad esempio, da impiegato ad operaio, e sia sulla retribuzione percepita, con passaggio alla retribuzione inferiore prevista per il nuovo livello di inquadramento contrattuale. Eventuali patti di demansionamento debbono essere sottoscritti nelle sedi di cui all’art. 2113 c.c. (commissioni di conciliazione, etc.) ovvero dinanzi alle commissioni di certificazione. Il lavoratore può farsi assistere da un sindacato, un avvocato o un consulente del lavoro.
L’accordo deve inoltre essere effettuato nell’interesse del lavoratore “alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”. Novità vengono introdotte anche in merito alle ipotesi di assegnazione a mansioni di livello superiore. Viene infatti elevato (settimo capoverso) da tre mesi a sei mesi il periodo di svolgimento oltre il quale l'assegnazione diventa definitiva e si dispone che tale termine si applichi solo in mancanza di determinazione di un diverso termine da parte dei contratti collettivi (mentre la norma previgente prevedeva che il termine contemplato da questi ultimi non potesse essere superiore a tre mesi). La novella specifica, inoltre, che i sei mesi devono essere continuativi (in merito, con riferimento al termine di tre mesi, la giurisprudenza si era espressa in modo discordante). Naturalmente laddove la contrattazione collettiva preveda un termine diverso, questo resta applicabile.
Considerata la complessità e la corposità del d.lgs. 81/2015 torneremo sull’argomento per opportuni approfondimenti.