CLAUSOLE ABUSIVE NEI CONTRATTI TRA IMPRENDITORI
Dipartimento di Giurisprudenza – Cattedra di Diritto privato II
XXXXXXXX ABUSIVE NEI CONTRATTI TRA IMPRENDITORI
RELATORE
Xxxxx.xx Prof. Xxxxxxx Xxxxxxx
CORRELATORE
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxx Xxxxxxxxxxx
CANDIDATO
Xxxxxxxx Xxxxxx matr. 148263
ANNO ACCADEMICO 2017 – 2018
Indice
Introduzione 3
Capitolo I – L'abuso di dipendenza economica
1. Introduzione 10
2. Ambito e presupposti di applicazione del divieto. 13
2.1. Ambito di applicazione: l'art. 9 l.subf. quale clausola generale 14
2.2. Presupposti di applicazione: lo stato di dipendenza economica e il criterio della mancanza di alternative sul mercato. 16
3. Fattispecie tipiche integranti l'abuso di dipendenza economica 20
3.1. Il rifiuto di vendere o di comprare 21
3.2. L'imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie 22
3.3. L'interruzione arbitraria dei rapporti commerciali in atto. 30
4. Principi generali per l'accertamento dell'abuso. 32
5. I rimedi previsti dall'art. 9 l.subf. 34
5.1. Tutela invalidatoria 35
5.1.1. Nullità parziale necessaria 37
5.2. Tutela inibitoria 41
5.3. Tutela risarcitoria: la responsabilità a geometria variabile 44
6. La competenza dell'AGCM in materia di abuso di dipendenza economica 45
7. Tutela degli interessi collettivi 48
Capitolo II – La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
1. Introduzione 49
2. Ambito di applicazione 52
2.1. Ambito oggettivo. 53
2.2. Ambito soggettivo. 54
3. La disciplina del ritardo in generale 56
3.1. I termini di pagamento. 56
3.2. La determinazione del saggio degli interessi moratori 60
3.4. Risarcimento dei costi di recupero dei crediti 61
4. Derogabilità ad opera delle parti contraenti 65
4.1. Derogabilità del termine di pagamento. 65
4.2. Derogabilità del saggio degli interessi moratori 66
4.3. Derogabilità del risarcimento dei costi di recupero dei crediti 69
5. Responsabilità del debitore 70
6. Il regime di invalidità dell'art. 7 del d.lgs. n. 231/2002. 72
6.1. Grave iniquità 73
6.2. Le conseguenze della valutazione di grave iniquità 76
7. Tutela degli interessi collettivi 78
Capitolo III – Il regime dei contratti nel settore agroalimentare
1. Introduzione 82
2. Ambito di applicazione: la doppia anima dell'art. 62. 84
3. Le condotte commerciali sleali 87
3.1. Condizioni contrattuale ingiustificatamente gravose, condizioni extracontrattuali e retroattive 88
(segue) – a) Prestazioni gemellate 92
(segue) – b) Esclusione degli interessi di mora o del risarcimento delle spese per il recupero dei crediti 93
(segue) – c) Determinazione di prezzi sottocosto. 94
3.2. Condizioni diverse per prestazioni equivalenti 95
3.3. Indebite e ingiustificate prestazioni unilaterali 95
4. Conseguenze della violazione del divieto. 96
5. I contratti agro-alimentari 99
5.1. La disciplina dei termini di pagamento e degli interessi moratori nei contratti agro-alimentari 100
Considerazioni conclusive 104
Note bibliografiche 108
Introduzione
Alla base del presente lavoro di tesi vi è l'analisi delle più importanti introduzioni legislative nell'ordinamento giuridico italiano in tema di “clausole abusive” nei contratti business to business. In particolare, si osserveranno gli interessi che queste normative sono volte a preservare, i limiti entro i quali si possa dichiarare il carattere abusivo – altresì detto “vessatorio”, “iniquo” o “ingiustificatamente gravoso” – di una clausola dedotta in tali contratti, nonché i rimedi apprestati dal legislatore per farvi fronte.
Nella trattazione della tematica in discorso, sembra tuttavia necessario effettuare una premessa concernente il principio di autonomia contrattuale, definito come il potere, riconosciuto dall’ordinamento giuridico, attraverso il quale qualsiasi soggetto privato può regolare i propri interessi mediante manifestazioni di volontà.
Tale principio, di matrice francese post-rivoluzionario e già presente all'interno del Xxxxxx Xxxxxxxxx, è stato trasfuso nel codice civile italiano del 1942 all'interno dell'art. 1322 c.c., a tenore del quale “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico”.
La Carta Costituzionale, tuttavia, non tutela direttamente e specificatamente l’autonomia contrattuale in sé; il fondamento costituzionale di tale principio è stato dunque oggetto di una lunga discussione tra gli interpreti, i quali hanno trovato un comune punto d'approdo nell'art. 41 Cost.1, almeno per quanto concerne i contratti d'impresa stipulati tra operatori economici.
Quest'ultima norma, come evidenziato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale2, riconosce il principio dell'autonomia contrattuale in un'ottica di funzionalità e strumentalità rispetto al perseguimento dei valori di cui allo stesso
articolo, che a sua volta incontra dei limiti.
1 Art. 41 Cost.: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
2 Sent. Corte Cost. 30 giugno 1994, n. 268, pubblicata in G.U. 06 luglio 1994, n. 28: “L'autonomia contrattuale dei singoli è tutelata a livello di Costituzione solo indirettamente, in quanto strumento di esercizio di libertà costituzionalmente garantite”.
L'iniziativa economica, infatti, viene tutelata nel limite in cui riesca ad assolvere ad una funzione di “utilità sociale”. Ciò risulta confermato da una nota sentenza della Corte Costituzionale, secondo la quale “l’art. 41 contiene una generica dichiarazione della libertà nella iniziativa economica privata; ma a tale libertà necessariamente corrispondono le limitazioni rese indispensabili dalle superiori esigenze della comunità statale. È lo stesso art. 41, nei commi secondo e terzo, che sancisce le limitazioni alla libertà d’iniziativa dichiarata nel primo comma. L’iniziativa privata, infatti, in virtù del secondo comma, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale né in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana; ma è soprattutto da considerare il terzo comma, il quale affida al legislatore ordinario la determinazione dei programmi e dei controlli opportuni affinché l’iniziativa privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali3”.
L'impostazione seguita dalla Corte Costituzionale negli anni successivi non è mutata. In altre pronunce, il giudice di legittimità ha affermato che, “poiché l'autonomia contrattuale in materia commerciale è strumentale rispetto all'iniziativa economica, ogni limite posto alla prima si risolve in un limite della seconda, ed è legittimo, perciò, solo se preordinato al raggiungimento degli scopi previsti o consentiti dalla Costituzione4”; pertanto si giustifica “l'imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento dell'autonomia contrattuale, mediante la modifica o l'eliminazione di clausole di contratti in corso, quando esse si rivelino contrastanti con l'utilità sociale5”.
Ora, i limiti predisposti dall'ordinamento, funzionali a realizzare gli scopi di utilità sociale cui è preordinato l'art. 41 Cost., sono tracciati dall'art. 1322 c.c., il quale li distingue in due categorie.
Da un lato, infatti, vi sono i c.d. limiti interni, di cui al co. 2 dell'art. 1322, che si sostanziano in un giudizio dell’atto stipulato dalle parti sulla meritevolezza degli interessi che il contratto intende realizzare, valutazione che si configura necessariamente come successiva alla stipulazione dello contratto stesso.
3 Sent. Corte Cost., 13 aprile 1957, n. 50, pubblicata in G.U. 23 aprile 1957, n. 104.
4 Sent. Corte Cost., 8 aprile 1965, n. 30, pubblicata in G.U. 30 aprile 1965, n. 109.
5 Sent. Corte Cost., 27 febbraio 1962, n. 7, pubblicata in G.U. 3 marzo 1962, n. 58.
Dall'altro, invece, vi sono i c.d. limiti esterni, previsti dal co. 1 dell'art. 1322 c.c., ossia limiti imposti dalla legge e che si sostanziano nel rispetto delle norme imperative e dei principi che governano le relazioni contrattuali.
Siffatti limiti, tuttavia, non sono risultati sufficienti a garantire che l'autonomia contrattuale delle parti non sfociasse in sopraffazioni ai danni del contraente più debole, sia sul piano culturale che su quello economico, come del resto si sono rivelati inadeguati i tradizionali rimedi di natura civilistica, quali la rescissione per lesione o la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta, per far fronte a tali abusi. Inoltre, la giurisprudenza della Corte di Cassazione “si ergeva a custode del principio di irrilevanza dello squilibrio tra le prestazioni contrattuali”6 e statuiva come ciascuno fosse “libero di contrattare a condizioni per sé svantaggiose e vantaggiose per la controparte”7.
In virtù di tale impostazione, la Corte di Cassazione, in diverse xxxxxxxx0 ha fatto uso della clausola generale di buona fede “per operare un controllo sulle scelte di autonomia privata espresse dai contraenti sotto forma non soltanto di armonica distribuzione degli interessi, ma anche di allocazione dei rischi contrattuali, con possibile dichiarazione di nullità del contratto o di singole sue clausole”10.
6 X.XXXXX, La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004, p.
12
7 X.XXXXX, op.cit., p. 13, il quale richiama la sent. Cass., 21 gennaio 1986, n. 362, in Giust. Civ. Mass., 1986, I, p. 124.
8 F.XXXXXXXX, Il principio di autonomia privata e contrattuale, p. 11, xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xx-xxxxxxx/xxxxxxx/0000/00/XXXXXXXXX- FRISULLO.pdf
9 A titolo esemplificativo, sent. Cass., n. 10926/1998, su xxxxxx-xxxxx.xxxxxxxxxxxxx.xx
10 X.XXXXX, op. cit., p. 15.
Con il susseguirsi di questi indirizzi giurisprudenziali e in seguito all’emanazione di diversi provvedimenti normativi comunitari in tema, il legislatore italiano è intervenuto in alcuni settori in cui era più volte stata sottolineata la possibilità che si verificasse una sproporzione fra i sacrifici e i vantaggi delle parti, nell'ottica di poter introdurre degli strumenti che rafforzassero la tutela dei soggetti lesi.
Dapprima, dunque, ci si è interessati alla tutela del consumatore, con l’introduzione nel codice di una nuova disciplina delle clausole vessatorie ad opera della l. n. 52 del 1996, la quale ha inserito l’art. 1469-bis, e con la l. n. 281/1998 con cui si riconosce il diritto dei consumatori e degli utenti “alla correttezza, trasparenza, ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi” (art.1, 2° comma, lett. e).
La disciplina è stata poi riformulata con l’introduzione del “codice del consumo” ad opera del D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, da ultimo modificato dal D.lgs. 21 maggio 2018, n. 62 e dal D.lgs. 21 maggio 2018, n. 68.
Successivamente, l’attenzione del legislatore al profilo dello squilibrio contrattuale si spostò su un’altra categoria di contratti, ovverosia quelli riconducibili al modello del “terzo contratto”, caratterizzati da una asimmetria di potere contrattuale ed economico che, al contrario dei contratti dei consumatori, interviene tra due o più operatori del mercato – imprenditori, professionisti e pubblica amministrazione – dotati di pari informazioni e di cui è presunta la diligenza e la professionalità.
Vi furono così diverse innovazioni, seppur in maniera frammentata, che testimoniano la sempre più crescente sensibilità del legislatore per questo fenomeno e che saranno oggetto di specifica trattazione all'interno della presente tesi.
Il primo capitolo, dunque, è dedicato all'istituto dell'abuso di dipendenza economica. Introdotto nell'ordinamento tedesco nel 1973 per integrare il Diskriminierungsverbot e successivamente ripreso dal legislatore francese, esso è stato introdotto e disciplinato nel nostro ordinamento dall'art. 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192 in tema di subfornitura. La mancata previsione di questa disposizione all'interno della disciplina antitrust, differentemente dagli altri Stati europei, ha fatto sì che attirasse per lo più l'attenzione dei civilisti, i quali vi hanno scorto un principio generale di tutela del contraente debole che governa tutto il sistema di diritto dei contratti d'impresa. Tale pensiero, inoltre, si è ulteriormente rafforzato in seguito al riconoscimento dell'applicabilità del divieto in discorso non solo ai rapporti contrattuali di
subfornitura, ma a qualsiasi genere di rapporto che possa far instaurare una situazione di “sudditanza economica”. In tal sede, il divieto di abuso di dipendenza economica rileva in quanto, tramite la previsione di una siffatta clausola generale, il legislatore ha inteso da un lato sanzionare la condotta abusive di imprese economicamente e, di conseguenza, contrattualmente più forti, che si concretizzano in un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi ai danni delle imprese da queste dipendenti; dall'altro ha inteso apprestare a queste ultime, e alle loro associazioni di categoria, una tutela azionabile in via ordinaria innanzi al giudice civile. In seguito alla lamentata insufficienza della tutela ivi prevista da parte delle associazioni di rappresentanza delle piccole imprese, il legislatore è successivamente intervenuto e ha inserito, attraverso l'approvazione del co. 2, art. 11 della l. n. 57/2001, il co. 3-bis, il quale consente all'AGCM di rilevare tali abusi, qualora siano rilevanti per la tutela della concorrenza e del mercato.
Espressione di una ricerca del legislatore nel reprimere abusi contrattuali è anche il D.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento, attuativo della direttiva 2000/35/CE e da ultimo modificato con D.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, che sarà oggetto di trattazione all'interno del secondo capitolo. Quest'ultima normativa in primo luogo appresta un regime legale di determinazione di alcune clausole contenute all'interno dei contratti d'impresa, ossia quelle relative al termine di adempimento della controprestazione pecuniaria, al saggio di interessi moratori da applicare in caso di ritardo da parte del debitore e al risarcimento dei danni derivanti dalle spese di recupero dei crediti vantati, nel caso in cui le parti contraenti non abbiano provveduto autonomamente alla precisazione di queste ultime. Inoltre, si occupa di disciplinare anche le conseguenze derivanti da una valutazione di “grave iniquità” di tali clausole e le tutele concesse alle imprese lese per farvi fronte. Attraverso la disciplina in questione, il legislatore comunitario ha inteso condannare l'abuso della libertà contrattuale, che si concretizza nell'assolvimento della controprestazione pecuniaria in notevole ritardo rispetto alle esigenze del creditore e che costituisce un rilevante ostacolo alla crescita delle imprese, un freno significativo allo sviluppo e all'intensificazione dei rapporti contrattuali transfrontalieri nonché una potenziale fonte di distorsione della concorrenza.
Infine, il terzo capitolo si occuperà di analizzare l'art. 62 del D.L. n. 1/2012, rubricato
“disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari”, il quale, nel dettare un regime speciale per i contratti aventi ad oggetto la cessione di prodotti agro-alimentari, da un lato introduce una disciplina derogatoria rispetto a quella prevista in via generale dal d.lgs. n. 231/2002, dall'altro, al comma 2, elenca una serie di “condotte commerciali sleali” che costituiscono sia una specificazione sia un'integrazione di quelle stesse condotte sanzionate dall'art. 9 l.subf., e che tuttavia risultano apparentemente dettate per il solo settore agro- alimentare.
Il legislatore, in ogni caso, nel ricercare l’equilibrio contrattuale, non è intervenuto solo nel settore privato. Diversi sono infatti i provvedimenti che hanno interessato altri pilastri dell’ordinamento giuridico: occorre qui menzionare la l. n. 108/1996 con il quale è stato riformulato il reato di usura, con una disposizione che sembra maggiormente interessare gli operatori economici e che assumerà rilievo all'interno del secondo capitolo, nonché tutte le regole previste dalla normativa antitrust, in primis quelle riguardanti le intese restrittive della concorrenza e gli abusi di posizione dominante ex artt. 101 e 102 del TFUE ( nonché, nell’ordinamento interno, previste dagli artt. 2 e 3 della l. n. 287/1990), limitative di fenomeni che, pur indirettamente, possono ostacolare la libertà contrattuale degli imprenditori e delle imprese nonché il diritto alla libertà di iniziativa economica garantito dall’art. 41 Cost.
Infine, bisogna ricordare che non solo i parlamenti e i governi dei singoli Stati nazionali si sono interessati all’argomento, ma anche gli enti regolatori di strumenti di soft law, quali i “Principi per i contratti commerciali internazionali” e i “Principi di diritto contrattuale europeo”. A tal rilievo, interessano in maniera particolare la disciplina contenuta all’art. 3.10 dei Principi UNIDROIT, titolato “Gross disparity”11, ai sensi del quale una parte può annullare o chiedere la modifica del contratto o di una
singola clausola che attribuiscano ad una parte un vantaggio eccessivo, quando tale
11 Art. 3.10 Principi UNIDROIT: “1. A party may avoid the contract or an individual term of it if, at the time of the conclusion of the contract, the contract or term unjustifiably gave the other party an excessive advantage. Regard is to be had, among other factors, to: a) the fact that the other party has taken unfair advantage of the first party's dependence, economic distress or urgent needs, or of its improvidence, ignorance, inexperience or lack of bargaining skill; and b) the nature and purpose of the contract. 2. Upon the request of the party entitled to avoidance, a court may adapt the contract or term in order to make it accord with reasonable commercial standards of fair dealing.3. A court may also adapt the contract or term upon the request of the party receiving notice of avoidance, provided that that party informs the other party of its request promptly after receiving such notice and before the other party has reasonably acted in reliance on it. The provisions of Article 3.2.10 apply accordingly”.
vantaggio risulti ingiustificato, e l’art. 4:109 dei Principles of European Contract Law, il quale prevede la figura dell’”excessive benefit or unfair advantage”12.
12 Art. 4:109 Principles of European Contract Law: ““1. A party may avoid a contract if, at the time of the conclusion of the contract: a) it was dependent on or had a relationship of trust with the other party, was in economic distress or had urgent needs, was improvident, ignorant, inexperienced or lacking in bargaining skill, and b) the other party knew or ought to have known of this and, given the circumstances and purpose of the contract, took advantage of the first party's situation in a way which was grossly unfair or took an excessive benefit. 2. Upon the request of the party entitled to avoidance, a court may, if it is appropriate, adapt the contract in order to bring it into accordance with what might have been agreed had the requirements of good faith and fair dealing been followed. 3. A court may similarly adapt the contract upon the request of a party receiving notice of avoidance for excessive benefit or unfair advantage, provided that this party informs the party who gave the notice promptly after receiving it and before that party has acted in reliance on it”.
Capitolo 1
L'abuso di dipendenza economica.
SOMMARIO: 1 Introduzione. - 2 Ambito e presupposti di applicazione del divieto. - 2.1 Ambito di applicazione: l'art. 9 l.subf. quale clausola generale. - 2.2 Presupposti di applicazione: lo stato di dipendenza economica e la mancanza di alternative sul mercato. - 3. Fattispecie tipiche integranti l'abuso. - 3.1 Il rifiuto di vendere o di comprare. - 3.2 L'imposizione di condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie. -3.3 L'interruzione arbitraria dei rapporti commerciali in atto. - 4 Principi generali per l'accertamento dell'abuso. -
5. I rimedi previsti dall'art. 9 l.subf. - 5.1 Tutela invalidatoria. - 5.1.1 Nullità parziale necessaria. - 5.2 Tutela inibitoria. - 5.3 Tutela risarcitoria: la responsabilità a geometria variabile. - 6 La competenza dell'AGCM in materia di abuso di dipendenza economica. - 7 Tutela degli interessi collettivi.
1. Introduzione
L'”abuso di dipendenza economica” è stata la prima disciplina introdotta nel nostro ordinamento, non riguardante la figura del consumatore, che si è proposta di colmare il divario delle posizioni di forza dei soggetti agenti sul mercato e di raggiungere una condizione di uguaglianza sostanziali tra le parti contraenti (co. 2, art. 3 Cost.13), in modo da collocarle su di un piano di tendenziale parità ed agevolare così una contrattazione che fosse reale espressione di una libera manifestazione di volontà e non sintomo di una sopraffazione di una parte in danno dell'altra. Il tentativo di contenere comportamenti vessatori o prevaricatori a protezione del contraente “debole” si pone peraltro in continuità con il principio costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Cost.14) , anche nell'esercizio della propria libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.15).
Tale istituto ha rappresentato un punto di svolta nei dibattiti dottrinari e ha dato il via
13 Art. 3, co. 2 Cost.: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”
14 Art. 2 Cost.: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
15 Art. 41 Cost.: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
alla genesi della categoria del c.d. terzo contratto, caratterizzato da una posizione asimmetrica di forza contrattuale tra contraenti dotati di informazioni simmetriche, nella specie gli imprenditori e, in successive normative, i liberi professionisti.
Non ha inoltre mancato di sollevare diverse problematiche circa la sua stessa portata applicativa nonché circa le conseguenze dell'applicazione dei rimedi ivi contenuti; la causa di questi interrogativi è probabilmente da ricercarsi in una non ottima tecnica legislativa che ha contraddistinto il provvedimento in esame in tutto il suo percorso, a partire dall'elaborazione delle singole prescrizioni, le quali non brillano senz'altro per chiarezza espositiva e lessicale, e a seguire con il suo inopportuno inquadramento sistematico.
L'abuso di dipendenza economica è stato infatti inserito nel nostro ordinamento all'interno della disciplina della subfornitura industriale nelle attività produttive mediante l'art. 9, legge 18 giugno 1998, n.192, ai sensi del quale:
“1.È vietato l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
2. L'abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
3. Il patto attraverso il quale si realizzi l'abuso di dipendenza economica è nullo” Tale articolo è stato successivamente modificato dalla l. 5 marzo 2001, n. 57, la quale ha aggiunto un periodo al co. 3 dell'art. 9 l.subf., nonché un nuovo co. 3-bis. Attualmente, pertanto, il co. 3 risulta così composto:
“Il patto attraverso il quale si realizzi l'abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni"
Ai sensi del co. 3-bis, invece,
“Ferma restando l'eventuale applicazione dell'articolo 3 della legge 10 ottobre 1990,
n. 287, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell'attivazione dei propri poteri di indagine ed esperimento dell'istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall'articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell'impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso”.
Infine, il co. 3-bis è stato da ultimo ritoccato con l. 11 novembre 2011, n. 180, la quale ha aggiunto il seguente periodo:
“In caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l'abuso si configura a prescindere dall'accertamento della dipendenza economica”.
La vicenda dell'inquadramento sistematico di questa disciplina, come si è detto, è stata piuttosto problematica, in quanto non era ben chiaro all'interno di quale corpus normativo dovesse essere inserita; questione del resto dovuta alla non precisa determinazione del fine che tale norma si proponeva di realizzare.
Originariamente, infatti, i disegni di legge proposti nel corso della XII legislatura avanzavano l'idea di inserire l'istituto in esame all'interno della disciplina antitrust di cui alla l. 10 ottobre 1990, n. 287, in modo da estendere l'ambito di applicazione dell'abuso di posizione dominante.
Siffatta proposta fu tuttavia respinta dall'Autorità Garante della concorrenza e del mercato, attraverso un parere negativo16 in cui si evidenziava l'inopportunità di un'estensione dell'art. 3 l. n. 287/1990.
Nell'accogliere tale invito, il disegno di legge presentato nel corso della XIII legislatura individuò così la fattispecie autonoma dell'abuso di dipendenza economica, da inserire all'interno della legge antitrust come art. 3-bis.
Determinante, a questo punto, fu un nuovo parere dell'AGCM17, con il quale, da un lato, si rilevò come il divieto di abuso di dipendenza economica non trovasse riscontro nella disciplina antitrust comunitaria e, dall'altro, si riscontrò una diversità di ratio tra abuso di dipendenza economica e diritto antitrust. Mentre quest'ultimo infatti riguarda
16 Parere AS046 del 20 giugno 1995, in Boll., n. 23, 1995, pp. 37-38.
17 Parere AS121 sulla proposta di legge AC 3509 recante disciplina sulla subfornitura industriale, 11.02.1998, in Boll., n.5/1998.
“disposizioni generali dirette a tutelare il processo concorrenziale in relazione all'assetto del mercato”, il divieto di abuso di dipendenza economica “costituisce una regola specifica inerente alla disciplina dei rapporti contrattuali tra le parti, con finalità che possono prescindere dall'impatto di tali rapporti sull'operare dei meccanismi concorrenziali e che affonda le radici nella tematica dell'equilibrio contrattuale” e pertanto andrebbe “inquadrata nell'ambito delle norme civilistiche relative alle obbligazioni e ai contratti”18.
Il legislatore così, accogliendo con favore l'ultimo parere dell'autorità garante, inserì la disciplina dell'abuso di dipendenza economica all'interno della legge sulla subfornitura.
2.Ambito e presupposti di applicazione del divieto
Nel tentativo di inquadrare i risvolti sistematici del divieto di abuso di dipendenza economica, occorre delineare l'ambito di applicazione della presente normativa, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, nonché analizzare i presupposti al sorgere dei quali i soggetti lesi possono agire in via giudiziaria per la tutela dei propri diritti. Sulle tematiche in questione vi è stato un ampio dibattito che ha coinvolto sia la dottrina che la giurisprudenza, le quali hanno trovato un comune punto d'approdo soltanto in seguito ad un obiter dictum della Corte di Cassazione, pronunciato più di
18 Parere AS121 sulla proposta di legge AC 3509 recante disciplina sulla subfornitura industriale, 11.02.1998, in Boll., n.5/1998, p. 15. Dello stesso avviso X.XXXXX – X. XXXXXXXX, La disciplina della subfornitura nelle attività produttive, Milano, Giuffrè, 2005, pp. 177 ss, secondo i quali, nonostante l'indubbia vicinanza delle disposizioni antitrust alla fattispecie dell'abuso di dipendenza economica prevista dall'art. 9 l. subf., tale ultima disciplina speciale “approda al diritto dei contratti ed alla tematica di tutela del contraente debole quale vero e proprio strumento di riequilibrio, operante indipendentemente e a prescindere dalla circostanza che la condotta sia in contrasto con la libertà di concorrenza sul mercato e con l'interesse dei consumatori. Viene con essa introdotta una regola di comportamento che limita la libertà delle imprese forti nei confronti di quelle più deboli”.
19 Per una analisi approfondita circa la connessione tra abuso di dipendenza economica e disciplina antitrust, X.XXXXXX, L'abuso di dipendenza economica, Xxxxxxx editore, Milano, 2006.
un decennio dopo l'entrata in vigore della presente disciplina.
2.1 Ambito di applicazione: l'art. 9 l.subf. quale clausola generale
Nella definizione dell'ambito di applicazione di questa normativa, sul piano prettamente soggettivo, l'art. 9 l.subf., differentemente dagli altri articoli presenti all'interno della stessa legge, si riferisce alle “imprese”.
Come rilevato in dottrina20, considerata l'intima connessione della normativa in esame con quella antitrust, la definizione di impresa cui far riferimento è quella ricavabile da quest'ultima. Perciò, con “impresa” si dovrà intendere qualsiasi attività organizzata professionalmente per la produzione o la cessione di beni o servizi sul mercato, di natura pubblica o privata, “a prescindere dal suo stato giuridico e dalle sue modalità di finanziamento”21.
Stante il riferimento al concetto di impresa e non di “imprenditore”, è stato inoltre possibile far confluire all'interno di tale categoria, permettendo quindi l'applicazione dell'art. 9 l.subf., anche gli esercenti professioni intellettuali protette22. A conferma di quest'ultima impostazione, il legislatore è intervenuto con l. n.81/2017 e, all'art. 3, co. 423, ha espressamente previsto la possibilità che si applichi il divieto di abuso di dipendenza economica ai rapporti contrattuali tra liberi professionisti o tra liberi professionisti e imprenditori.
Più controverso è invece l'ambito di applicazione oggettivo. Sul punto infatti si è avuto un lungo dibattito coinvolgente sia dottrina sia giurisprudenza, le quali hanno ripetutamente mutato le proprie posizioni nel corso del tempo.
Dapprima, infatti, parte della dottrina24 ha ritenuto che l'art. 9 andasse applicato soltanto ai rapporti sorti da contratti di subfornitura industriale, sulla base, da un lato,
20 X. XXXXXX, op. cit., p. 99-100.
21 Corte di Giustizia CE, 23 aprile 1991, C-41/90, punto 21.
22 A favore dell'estensione agli esercenti professioni intellettuali, v. da ultimo X. XXXXXXXXXX, Regole e mercato nella disciplina convenzionale del contratto di opera professionale, Contratto e Impr., 2016, 2, 520, par. 4. Per un'analisi approfondita sull'estensione dell'art. 9 l.subf. agli esercenti professioni intellettuali, vedi D.DEL BIONDO, L'abuso di dipendenza economica nei confronti dei lavoratori autonomi, in Dall'Impresa a Rete alle Reti d'Impresa (Scelte Organizzative e Diritto del Lavoro), a cura di X.X.Xxxxxxx, Xxxxxxx editore, Milano, 2015, p. 423-436.
23 Art. 3, co. 4, l. n. 81/2017: “Ai rapporti contrattuali di cui al presente capo si applica, in quanto compatibile, l'articolo 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192, in materia di abuso di dipendenza economica”.
24 A. P. XXXXXX, Il contraente “debole”, Torino, Xxxxxxxxxxxx, 2006, cit. pag. 219; X.XXXXXXX – X.XXXXXXX, L'abuso di dipendenza economica, in Aa. Vv., La disciplina del contratto di subfornitura nella legge n.192 del 1998, a cura di P..Sposato e X.Xxxxxx, 1999, pag.125.
della sua collocazione all'interno di una legge rivolta a tale attività, dall'altro, sull'irragionevolezza di un'estensione generalizzata del divieto di abuso di dipendenza economica, che appresta rimedi ben più favorevoli rispetto a quelli dettati per i consumatori, ossia i soggetti che necessitano di maggior tutela.
La tesi restrittiva ha dovuto però cedere il passo all'opinione estensiva25, assolutamente prevalente, la quale ha intravisto nell'art. 9 una clausola generale applicabile in via estensiva a tutti i rapporti contrattuali tra imprese, a prescindere dalla tipologia contrattuale delineata dalle parti.
La stessa evoluzione si è avuta peraltro nel quadro giurisprudenziale, dove ad un'iniziale anima refrattaria26 all'applicazione generalizzata del divieto si è sostituita una propensione favorevole all'estensione dell'art.9 “a tutti i rapporti di collaborazione tra imprese, nelle fasi della produzione e/o della distribuzione ”27, sostenuta anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione28.
Nel settore degli idrocarburi l’applicazione dell’art. 9 è stata, addirittura, sancita dallo stesso legislatore con il c.d. decreto Cresci Italia (art. 17 co. 3 D.L. 24 gennaio 2012
n. 1 convertito in L. 24 marzo 2012 n. 27).
Occorre tuttavia rammentare che tale divieto non si applica qualora vengano stipulati, tra imprese, contratti che risultano estranei alla dinamica dei rapporti commerciali, in
25 X.XXXXXXXX, ne Il contratto di subfornitura e l'abuso di dipendenza economica, Edizioni Scientifiche italiane, 2002, pag. 274, commenta: se “scopo dell'abuso di dipendenza economica è quello di evitare che un'impresa approfitti del dominio relativo che è in grado di esercitare sul proprio partner commerciale per ottenere condizioni gravemente squilibrate, cioè non conformi a quelle generalmente praticate sul mercato, sembra inevitabile ritenere che la sua operatività debba essere estesa a tutte le ipotesi di sfruttamento abusivo di una situazione di dipendenza economica”
V. anche X. XXXXX, L'abuso di dipendenza economica come fattispecie transtipica, Contratto e Impr., 2013, 2, 370, par. 7.
26 T. Roma 29 luglio 2004, Annali it. dir. autore, 2005, p. 533; T. Taranto 22 dicembre 2003, FI, 2004, 1, p. 262; T. Bari, 2 luglio 2002 (ord.), FI, 2002, 1, p. 3208, nt. A. Xxxxxxxx, Abuso di dipendenza economica: dal caso limite alla (drastica) limitazione dei casi di applicazione del divieto?
27 T. Catania, 5 gennaio 2004 (ord.), FI, 2004, I, 262; Trib. Bari, 22 ottobre 2004 (ord.), FI, 2005, I, 1604; Cass., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106; Cass., sez.III, 21 giugno 2011, n. 13583; Corte d'appello Milano, sez. I, 15 luglio 2015, in Giur. It., 2015, 12, 2665 nota di X.Xxxxxxx
28 Cass., S.U., 25 novembre 2011, n. 24906: “L’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 l. 192 del 1998, configura una fattispecie di applicazione generale, che può prescindere dall’esistenza di uno specifico rapporto di subfornitura (…) considerato anzitutto il dato letterale della norma, ove si parla di imprese clienti o fornitrici, con uso del termine cliente che non è presente altrove nel testo della L. n. 192 del 1998”. La sez.III della Cass. Civile lo ribadisce peraltro in sent. 23 luglio 2014 n. 16787 in De Jure:“il divieto di abuso di dipendenza economica di cui alla legge sulla subfornitura costituisce peculiare applicazione di un principio generale che si vorrebbe caratterizzasse l’intero sistema dei rapporti di mercato ... può quindi venire in considerazione in un ambito più ampio di quello formato dalle parti del singolo contratto, per estendersi al rapporto commerciale più complesso in cui esso si inserisca, qualora proprio tramite un tale rapporto si realizzi l’abuso”.
2.2 Presupposti di applicazione: lo stato di dipendenza economica e il criterio della mancanza di alternative sul mercato
Nell'accertamento di un abuso di dipendenza economica, presupposto fondamentale è la sussistenza, o meno, tra due o più imprese, di una dipendenza economica. La definizione di questa espressione si rinviene nel secondo periodo del co. 1, art. 9 l.subf., ai sensi del quale “si considera dipendenza economica la situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi”.
La formula utilizzata dal legislatore, volutamente generica e di ampio respiro, persino
“al limite dell'ambiguità”30, richiede notevoli approfondimenti.
Da un lato, infatti, è necessario stabilire quando “un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi” e, dall'altro, invece, è doveroso definire in cosa si sostanzi “l'eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi”.
Xxxxxx, nella ricerca di dare preliminarmente risposta al secondo quesito, la dottrina è concorde nell'assegnare allo “squilibrio di diritti e di obblighi” un significato ampio, comprendente l'intero assetto di interessi delle parti contraenti, quindi sia il profilo normativo, sia quello economico31. Su tale questione, ossia l'inclusione delle condizioni economiche sussistente tra le imprese contraenti nella valutazione della presenza di uno squilibrio di diritti ed obblighi, si sono soffermati diversi autori, adducendo numerose argomentazioni a sostegno di tale interpretazione32.
29 A. XXXXXXXXXX, Il contratto di subfornitura, Napoli, Utet, 2000, pp. 179-180.
30 Espressione utilizzata da X.XXXXXXX, Le prime pronunce in “abuso di dipendenza economica”, in
Concorrenza e mercato, le tutele civili delle imprese e dei consumatori, Cedam, 2006.
31 Se infatti il profilo non assume rilevanza nella determinazione del significativo squilibrio nei contratti BtoC, ciò è escluso nei contratti tra imprenditori, poiché in questi la disparità di potere economico ha un ruolo fondamentale. In tal senso, X.XXXXX, Circolazione giuridica e nullità, Xxxxxxx, Milano, 2002, p. 330 ss.
32 G.XX XXXXXXX, Abuso di dipendenza economica e contratto nullo, Cedam, 2009, p. 93: “Subordinare la dipendenza alla impossibilità per l'impresa di reperire sul mercato “alternative soddisfacenti” significa prospettare un controllo avente per oggetto, non soltanto l'esistenza sul mercato di partners commerciali, ma anche il contenuto delle condizioni economiche da questi praticate”. In tal senso, v. X.XXXXXX, Abuso di dipendenza economica, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, Padova, 1998, p. 725. “Anche l'argomento sistematico induce ad accogliere la soluzione appena indicata … significativo pare il richiamo alle condizioni
Lo squilibrio, in ogni caso, può poi essere concretamente desunto in sede di giudizio da numerosi elementi, come “dal contenuto delle clausole contrattuali … dalla corrispondenza, e dal carattere di esclusività del rapporto … dalla composizione del fatturato e dei ricavi”34.
Per dare risposta al primo quesito35, invece, la dottrina, tramite un approccio di Law & Economics al fenomeno, ha individuato le caratteristiche essenziali dello stato di dipendenza economica. Spicca tra queste l'esistenza di c.d switching costs, costi di commutazione che l'impresa dipendente dovrebbe sostenere, o benefici cui dovrebbe rinunciare qualora si rivolgesse ad altro fornitore, per la riconversione dei fattori produttivi specializzati, i c.d. asset specificity, ossia investimenti funzionali all'esecuzione delle prestazioni dedotte in contratto. Infatti l’impresa economicamente dipendente, in tali casi, “per evitare il rischio di una interruzione anticipata del rapporto e la conseguente perdita dei profitti attesi dall'investimento compiuto (c.d. quasi-rents)36”, cui consegue anche il sostenimento di switching costs per riconvertire gli impianti, “è esposta al ricatto (c.d. hold up) dell'impresa committente la quale, sfruttando la propria posizione di dominio relativo, può imporre modifiche più svantaggiose all'assetto d'interessi originariamente concordato”37. La letteratura economica al riguardo è piuttosto ampia38 e le elaborazioni in essa presenti sono state
contrattuali ingiustificatamente gravose, atteso che, si è precisato, quest'ultima ipotesi, sanzionata anche dall'art. 3 della l. 287/90, viene tradizionalmente riferita all'imposizione di prezzi iniqui”. Sul punto, v. anche X. XXXXXXXX, La clausola squilibrata è nulla per abuso di dipendenza economica e il prezzo lo fa il giudice: note a margine di un caso pilota, Nuova Giur. Civ., 2015, 3, p. 10218.
33 Si veda G.VETTORI, Autonomia privata e contratto giusto, in Riv. Dir. priv., 2000, pp. 44-45.
34 Trib. Milano, sent. n.7638/2016.
35 Questo è sostanzialmente un giudizio prognostico. In tal senso X.XXXXXXXX, Art. 9. (Abuso di dipendenza economica), in Disciplina della subfornitura nelle attività produttive, in Nuove leggi civile commentate, a cura di Xxxxxx, 2000, cit., p. 436.
36 L'impresa in tal caso si trova in una posizione definita locked-in, ossia vincolata al rapporto commerciale, poiché una prematura interruzione di quest'ultimo causerebbe ad essa danni economici derivanti dagli investimenti effettuati e da cui non hanno ricavato il guadagno atteso.
37 G.DI XXXXXXX, op. cit., cit. pag. 35.
38 Si veda C.OSTI, Riflessioni sull'abuso di dipendenza economica, in Mercato, concorrenza, regole, 1999, p. 22, il quale, nella tipizzazione degli investimenti specifici a cui si faceva riferimento,
fatte proprie dalle corti giudiziarie in una moltitudine di casi. Come infatti confermato nella più recente giurisprudenza “il primo e il principale sintomo della dipendenza è rappresentato dall’esecuzione da parte dell’imprenditore debole di una serie di investimenti specifici (relational specific investments), nell’ottica di far fronte agli impegni contrattuali assunti con l’imprenditore forte. L’imprenditore debole si trova così esposto al ricatto (hold up) dell’imprenditore forte, giacché la minaccia di interruzione del rapporto lo costringe a proseguirlo accettando condizioni inique, di fronte all’eventualità (laddove sul mercato non siano reperibili dei validi “sostituti”) di non riuscire ad ammortizzare gli investimenti che ha fatto nel tempo, o di dover affrontare dei costi elevati per la loro riconversione (switching costs)39”
Se, dunque, per valutare la presenza di una situazione di dipendenza economica sarà necessario far riferimento a diversi indici e parametri economici, un aiuto nella determinazione della stessa soccorre dall'ultimo periodo del co. 1 dell'art. 9 l.subf., ai sensi del quale “la dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità40 per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti” che le consentano di rimanere competitiva sul mercato stesso41.
Idealmente, la verifica della presenza di alternative soddisfacenti si scompone in due fasi: una prima fase è diretta a verificare la sussistenza di alternative oggettive sul mercato di riferimento; la seconda, invece, è tesa a stabilire se le alternative in astratto disponibili siano anche reali e soddisfacenti.
Il criterio della presenza di alternative soddisfacenti sul mercato42, come si può evincere dalla formulazione, sembrerebbe tuttavia previsto dal legislatore solo in via
distingue tra: specificità fisica (relativa a luoghi di produzione, macchinari, tecniche essenziali per un processo limitato ad un prodotto), specificità transazionale (costi che devono essere affrontati per il reperimento di un nuovo partner commerciale e per la conclusione con quest'ultimo di un nuovo contratto, completo o incompleto), specificità di apprendimento (competenze acquisite dal personale e che possono essere difficilmente riconvertite, a costi comunque elevati), specificità di secondo grado (costi derivanti dalla perdita dei clienti, fidelizzati al marchio di cui si era ottenuta la licenza, tipico del franchising).
39 Testualmente Trib. Bergamo 4 gennaio 2017 nel procedimento rg n.6591/2016, ripresa da Trib. Milano, r.g. 16596/2017.
40 Trib. Bari, ordinanza 6 maggio 2002, in Foro it., 2002, I, c. 2183: “deve trattarsi non di una mera possibilità, astratta ed ipotetica, ma di opportunità che in concreto il mercato offre per un risultato comunque utile per l'impresa”.
41 X.XXXXXXXXXXX, Abuso di dipendenza economica e mercato rilevante. Il caso della delocalizzazione produttiva, in Giurisprudenza commerciale, 2015 fasc. 4 pag. 786-796.
42 Si tratta di un riferimento ispirato dalla normativa tedesca. L'art.20, co. 2, GWB qualifica infatti la dipendenza come la situazione in cui versa un'impresa quando non dispone di “sufficienti e ragionevoli possibilità di rivolgersi ad altre imprese”.
eventuale, in virtù della congiunzione “anche” apposta prima della definizione di tale parametro all'interno del secondo periodo del co. 1 dell'art. 9 l.subf. E ciò, nonostante sia il principale motivo per cui un'impresa può trovarsi ad essere economicamente dipendente da un'altra43. Invero, qualora vi fossero alternative soddisfacenti sul mercato di riferimento per l'impresa dominata, l'impresa che si assume essere dominante non avrebbe il potere di imporre condizioni gravose o discriminatorie nei confronti della controparte, in quanto quest'ultima, ragionevolmente, non vi sottostarebbe, preferendo rivolgersi ad imprese terze.
La giurisprudenza di merito, invece, si è spinta ancora più avanti. In una recente pronuncia, infatti, il Tribunale di Bergamo ha enfatizzato notevolmente il ruolo ricoperto da questo criterio, il quale non solo non rappresenta un parametro eventuale ma, nonostante “per l’accertamento della dipendenza economica” soccorrano “altri criteri ausiliari (le dimensioni dell’impresa, il fatturato, la specializzazione, l’utilizzo di licenze di brevetto marchio o insegna, l’appartenenza a gruppi, la durata del rapporto, l’esistenza di un’esclusiva), quello dell’alternativa di mercato rimane senza dubbio il più importante, tanto da potersi definire il “cuore” della disposizione in scrutinio”45.
Per riassumere quanto finora delineato, perché si configuri un'ipotesi di abuso di dipendenza economica è in primo luogo necessaria una dipendenza economica.
Essa è definita dall'art. 9 l.subf., la situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. Funzionale alla possibilità di un'impresa di determinare siffatto squilibrio contrattuale, oltre al sostenimento di investimenti specifici e altri criteri economici, è inoltre la mancanza di reali alternative soddisfacenti per l'impresa controparte contrattuale.
43 C.OSTI, op. cit., cit., p. 47.
44 In tal senso M.R.XXXXXXX, Abuso di dipendenza economica e autonomia privata, Xxxxxxx editore, Milano, 2003, p. 144.
45 Testualmente Trib. Bergamo 4 gennaio 2017 nel procedimento rg n.6591/2016, ripresa da Trib. Milano, r.g. 16596/2017.
Una volta che si sia così accertata l'eventuale dipendenza economica sussistente tra due o più imprese, l'analisi dovrà vertere sulla presenza o meno di un eventuale abuso della stessa ai danni dell'impresa dipendente.
3. Fattispecie tipiche integranti l'abuso di dipendenza economica
In base al co.2 dell'art.9 l.subf., “l'abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”.
L' elenco qui delineato, pur essendo solo esemplificativo46 e pertanto non esaurendo il novero di condotte sanzionabili, si dimostra particolarmente utile sia per una ricostruzione complessiva di questo istituto, sia per fornire indicazioni di principio.
Inoltre, in virtù dell'art. 3-bis, è da annoverare quale ulteriore tipica manifestazione di abuso di dipendenza economica, che si integra a prescindere dall'accertamento di una situazione di dipendenza economica, la “violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231” - che sarà oggetto di trattazione all'interno del secondo capitolo - “posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie”,
3.1 Rifiuto di vendere e rifiuto di comprare
Tale ipotesi dovrebbe quindi inserirsi nella fase precedente l'instaurazione del
46 Il carattere esemplificativo delle fattispecie nominate da questo comma si evince dalla congiunzione “anche” presente all'interno dello stesso.
47 Di queste ne parla X.XXXXXXXXX, La responsabilità per abuso di dipendenza economica: la fattispecie, Contratto e Impr., 2013, 1, 20.
48 X.XXXXXX, op.cit. p.388.
rapporto tra le imprese, in contrapposizione alla terza ipotesi, quella di “interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”, che appunto presuppone un rapporto già avviato. Tuttavia, la fattispecie in esame, nella gran parte dei casi, tende a sovrapporsi a quest'ultima, in quanto si riscontra più spesso in seguito ad un pregresso rapporto di durata, in cui il rifiuto di vendere o di acquistare da parte di un contraente pone in crisi le legittime aspettative dell’altra parte sull’entità o sulla durata della prestazione ovvero sull’ammortamento d’investimenti specificamente attuati per il pregresso rapporto.
Questa ipotesi di abuso di dipendenza economica è senz'altro riconducibile alle c.d. pratiche escludenti di cui alla lett. b) degli artt. 2 e 3, l. n. 287/1990 (altresì artt. 101 e 102 TFUE), tra cui viene solitamente ricompreso il “rifiuto ingiustificato di contrarre”. Con esso l'impresa in posizione dominante pone in essere un comportamento abusivo, qualora non sia supportato da una giustificazione obiettiva e il proprio prodotto o servizio sia necessario per competere in un mercato a valle. Un tipico esempio è la condotta di un'impresa in posizione dominante sul mercato delle materie prime o dei prodotti intermedi che si rifiuti di vendere suddetti beni, necessari per la produzione di un ulteriore bene, ad un'altra impresa49. Siffatto comportamento non può trovare giustificazione nella volontà dell'impresa dominante di entrare nel mercato del prodotto derivato, riservandosi a tal fine l'intera disponibilità del bene necessario a produrlo, in quanto ciò avrebbe la conseguenza di escludere del tutto dal mercato le imprese che operano nel mercato a valle50.
Un indirizzo minoritario, peraltro, ritiene che il rifiuto di contrarre, potrebbe rilevare ai sensi dell'art.9 l.subf. soltanto quando strumentale all'imposizione di condizioni gravose o discriminatorie51. Sebbene questa tesi appaia priva di fondamento, poiché nulla è dato riscontrarsi dalla lettera del testo, non vi è dubbio che il rifiuto di comprare o vendere possa essere utilizzato come strumento di pressione da parte dell'impresa dominante nei confronti di quella dominata affinché accetti condizioni
49 Esempio tratto da X.XXXXXX - X.XXXXXXXX, Diritto antitrust, G.Giappichelli editore, 2013, p. 236
50 Corte di giustizia, causa 6-7/73, Istituto chemioterapico Italiano e Commercial Solvents, in Racc., 1974, 223.
51 In tal senso, A.XXXXXXXXXX, op.cit, p. 193 ss.; X.XXXXXXXXXX, I contratti di subfornitura – La nuova legge sulla subfornitura nei rapporti interni e internazionale, Cedam, Padova, 1999, cit., p.146; A.XXXXXXXXX DI XXXXX, Art. 9 – Abuso di dipendenza economica, I, in La subfornitura – Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, a cura di Xxxx-Xxxxxxxx, Xxxxxxx, Milano, 1999 cit., p.252.
che, qualora ci fossero alternative soddisfacenti sul mercato, rifiuterebbe52.
E' pertanto legittimo domandarsi se l'art.9, poiché delinea espressamente questa ipotesi come fattispecie tipica di abuso, non preveda conseguentemente un obbligo a contrarre di natura legale. Gli stessi quesiti si sono posti in materia antitrust, dove è stata coniata al riguardo, a livello comunitario, la c.d. essential facilitiy doctrine53.
3.2 Condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie
La seconda fattispecie delineata dal legislatore, nonché quella che più ha attirato l'attenzione da parte della dottrina riguarda “l'imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie”. Nella lettera della legge, è così possibile rilevare come lo squilibrio contrattuale rilevi sia come indice attuale o potenziale della dipendenza economica dell'impresa, sia come manifestazione dell'abuso di quest'ultima da parte dell'impresa dominante.
Scopo cui è preordinata tale parte del divieto è quella di proteggere l'impresa dipendente da abusi c.d. di sfruttamento54, situazioni in cui vi è una notevole sproporzione di potere negoziale causate ed imposte dall'impresa relativamente dominante, che possono peraltro consentirle di ottenere un indebito vantaggio sulla concorrenza.
Vi è da soffermarsi sulle locuzioni “condizioni”, “imposizione” ed “ingiustificatamente”. Se pertanto risulta ormai assodato come con “condizioni” si intenda complessivamente l'intero rapporto sussistente tra le parti e con “imposizione” un comportamento che non necessariamente si accompagni a minacce o pressioni né contro il quale sia richiesta un'opposizione da parte dell'impresa dominata, maggiori difficoltà comporta la terza espressione. L'avverbio “ingiustificatamente” implica
52 Qualora la condotta abusiva non consista in un mero rifiuto di contrarre tout court, ma si sostanzi nella successiva imposizione di condizioni contrattuali di fatto inaccettabili, la condotta dell'impresa dominante è qualificata dalla Commissione come c.d. “rifiuto costruttivo”.
53 In base a questo istituto, si impone l'obbligo, al proprietario di una qualsiasi infrastruttura indispensabile per competere nei mercati a valle, di concederne l'utilizzo a terzi, a condizioni eque e non discriminatorie, qualora sussistano i seguenti requisiti: a) l'accesso all'infrastruttura deve essere essenziale per lo svolgimento di un'attività economica nei mercati a valle da parte del soggetto richiedente; b) l'infrastruttura deve essere insostituibile (non duplicabile) e materialmente accessibile da parte del richiedente; d) non devono sussistere obiettive ragioni economiche o tecniche che giustifichino un diniego, ovvero un consenso subordinato a condizioni inique o discriminatorie, da parte del soggetto titolare della risorsa.
54 X.XXXXXX, op.cit. pag. 402., per il quale gli abusi c.d. di sfruttamento consistono in “quelle condotte con le quali l'impresa dominante costringe la controparte dipendente a trasferire o a rinunciare ad utilità economiche, delle quali essa – in condizioni normali – ragionevolmente non si priverebbe”.
infatti un bilanciamento degli interessi materialmente coinvolti, da svolgersi alla luce dei principi generali che informano l'ordinamento, per cui spetterà al giudice a quo valutare se nel singolo caso concreto sussistano innanzitutto queste condizioni gravose e discriminatorie, e in secondo luogo accertare l'esistenza di eventuali ragioni che giustifichino adeguatamente lo squilibrio.
Quando il sacrificio dell'interesse dell'impresa dipendente possa dirsi giustificato è una questione che infatti non viene trattata dall'art. 9 l.subf. e sulla quale, sia in giurisprudenza che in dottrina, si è lontani dal trovare un punto ampiamente condiviso.
Spunti utili tuttavia sono stati tratti dall'esperienza giurisprudenziale in materia antitrust e di clausole abusive nei contratti dei consumatori.
Dalla prima normativa, infatti, si evince come qualsiasi comportamento, tale da comprimere gli interessi dell'impresa dipendente senz'altra ragione se non quella di rafforzare il potere dell'impresa dominante sul mercato, possa integrare gli estremi di un abuso di posizione dominante. La Corte di Giustizia ha in tema chiarito che “la nozione di sfruttamento abusivo è una nozione oggettiva, che riguarda il comportamento dell'impresa in posizione dominante atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito”55. Perché dunque possa verificarsi l'abuso, non occorrono né pregiudizi al sistema concorrenziale, né una condotta legata alla posizione di dominio, ma è sufficiente che il comportamento dell'impresa dominante sia priva di giustificazione obiettive, in quanto diretta solo a ledere gli interessi degli altri operatori di mercato.
Quanto invece alla giurisprudenza in materia di clausole vessatorie nei contratti tra professionisti e consumatori, le corti, nonostante potessero avvalersi delle presunzioni di vessatorietà delle clausole incluse negli artt. 33 e 36 cod.cons., spesso hanno concluso per l'abusività di altre clausole, non ivi previste, come quella per cui una clausola, seppur trasparente, è abusiva in quanto determina “una alterazione vistosa e unidirezionale” del regolamento contrattuale, così da comportare una “compressione unilaterale dell'interesse” a danno del consumatore “senza vantaggi compensativi e
55 Corte giust. CE, 13 febbraio 1979, causa 85/76, in xxx-xxx.xxxxxx.xx.
56 App. Roma, 24 settembre 2002, in Giur. It., 2003, I, 910
Se pertanto ci si pone nell'ottica che esista una certa convergenza tra la normativa dettata a tutela degli imprenditori ex art. 9 l.subf, quella a favore dei consumatori prevista dal cod.cons. e quella a tutela della concorrenza e del mercato sancita dalla l.
n. 287/1990, allora è inevitabile che nell'interpretazione della prima si debba tener conto delle altre due, anche poiché tali “disposizioni formano ormai un vasto contesto normativo che introduce strumenti di tutela simili per il perseguimento di obiettivi sostanzialmente coincidenti”57.
Pertanto, emerge come non sia l'entità del sacrificio imposto (salvo quando non si tratti di condizioni economiche) a renderlo ingiustificato o meno, quanto il fatto che, all'esito di una valutazione ex post dell'ambito in cui si è verificato, tale sacrificio si riveli imposto ai danni dell'impresa dipendente al solo scopo di consolidare la posizione di dipendenza della singola impresa nei confronti dell'impresa dominante. Considerato ciò, la norma opera una distinzione tra condizioni gravose e condizioni discriminatorie. In entrambi i casi, inoltre, si è soliti diversificarle tra condizioni legate al prezzo del bene o servizio scambiato e le altre condizioni.
Quanto al profilo economico, si ritiene che ingiustificatamente gravoso sia principalmente il prezzo sproporzionato al valore del bene o servizio scambiato. Ciò è confermato, tra le altre, da una recente sentenza del Tribunale di Genova, con la quale è stato dichiarato insussistente il credito vantato da una società nei confronti della controparte, in considerazione dell'imposizione di un impegno finanziario, ad opera della prima, non sostenibile dall'altra impresa. Un corrispettivo sproporzionato, infatti, “ricade pienamente nella previsione legale di un sinallagma contrattuale che genera un eccessivo squilibrio di prestazioni”58. Vi sono tuttavia molteplici manifestazioni del carattere abusivo delle condizioni economiche dedotte in contratto, quali, ad esempio, la mancata preventiva comunicazione dei prezzi praticati dall'impresa relativamente dominante o l'applicazione di c.d. entry fees, nei contratti di franchising, sproporzionate rispetto al profitto atteso dall'investimento, che andranno valutate in corso di giudizio.
Con riferimento alle altre condizioni, invece, queste possono consistere in una serie di pratiche anche molto diverse tra loro, per cui occorre necessariamente una valutazione
57 X.XXXXXXXX, Contratto di concessione di vendita – rilevanza giuridica della disparità tra contraenti e abuso di dipendenza economica, in Giur. It., 2017, 11, p. 2354.
58 Sent. Trib. Genova, 6 marzo 2018, n. 10.
caso per caso. Tra queste, è possibile far confluire alcune clausole di esclusiva, in particolar modo se configurate all'interno di contratti di franchising, nonché la pratica del tie-in. Studiato in relazione al diritto della concorrenza, questa consiste in una clausola che subordina la conclusione del contratto all'accettazione di una serie di obbligazioni accessorie, non necessariamente connesse con l'obbligazione principale. L'imposizione della stessa comporta un duplice vantaggio per l'impresa relativamente dominante, nonché un grave fattore penalizzante per l'impresa che ne subisce gli effetti. Da un lato, infatti, consente all'impresa contrattualmente più forte di ottenere un vantaggio ingiustificato su un altro mercato, distinto da quello relativo all'oggetto principale del contratto e di estendere conseguentemente la propria influenza economica; dall'altro, l'impresa dipendente si trova nella posizione di dover accettare l'acquisto o la fornitura del bene o servizio supplementare e pagare un prezzo complessivamente più elevato rispetto a quello che avrebbe pagato se l'oggetto della prestazione contrattuale fosse stato unico.
Possono poi senz'altro risultare eccessivamente gravose le clausole che coincidono con quelle già espressamente qualificate come vessatorie dal co. 2 dell'art. 1341 c.c.5960.
Peraltro, nel percorso di individuazione dei criteri accertativi del carattere gravoso delle condizioni contrattuali, un indirizzo dottrinario61 ha riconosciuto valore
all'elenco delle clausole vessatorie previste dagli artt. 33, co.2 e 36 cod. cons.62. Del
59 Art. 1341, co. 2, c.c.: “In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l'esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell'altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria”.
60 X.XXXXXXXX, Legge 18 giugno 1998 n. 192. Disciplina della subfornitura nelle attività produttive,
in Le nuove Leggi civile commentate, 2000, fasc. 1-2, pp. 445 ss
61 In questo senso, v. da ultimo X.XXXXXX, Abuso di dipendenza economica dal carattere escludente e concorrenza sleale: competenza, condotta illecita e natura della responsabilità, Nuova Giur. Civ., 2014, 11, 10961. Per tutti, X.XXXXXXXX, op.cit., p. 297, rileva come le due normative abbiano in comune non solo il contenuto di diverse disposizioni, ma anche un'identica ratio, in quanto sussistono “in entrambi i casi limiti penetranti all'autonomia privata della parte contrattualmente forte a protezione di quella debole, che la disciplina in materia di clausole abusive individua istituzionalmente nel consumatore”.
62 Art. 33, co. 2 cod. cons.: “Si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno per oggetto, o per effetto, di: a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista; b) escludere o limitare le azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c)escludere o limitare l'opportunità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei confronti del professionista con un credito vantato nei
resto, lo stesso tenore letterale del co.1 dell'art.9 l.subf. risulta pressoché analogo al testo dettato dal co.1 dell'art.33 cod.cons., ai sensi dei quale sono considerate vessatorie le clausole che determinano “un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Inoltre, entrambe le discipline sono dirette a tutelare i contraenti deboli del rapporto.
Malgrado ciò, si deve ritenere che le due disposizioni ruotino intorno ad una diversa ratio. Da un lato, infatti, vi è il consumatore, soggetto tutelato in quanto non dotato
confronti di quest'ultimo; d) prevedere un impegno definitivo del consumatore mentre l'esecuzione
della prestazione del professionista è subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà; e) consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere; f) imporre al consumatore, in caso di inadempimento o di ritardo nell'adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale o altro titolo equivalente d'importo manifestamente eccessivo; g) riconoscere al solo professionista e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto; h) consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole preavviso, tranne nel caso di giusta causa; i) stabilire un termine eccessivamente anticipato rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o rinnovazione; l) prevedere l'estensione dell'adesione del consumatore a clausole che non ha avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto; m) consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso; n) stabilire che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della prestazione; o) consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello originariamente convenuto; p) riservare al professionista il potere di accertare la conformità del bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel contratto o conferirgli il diritto esclusivo d'interpretare una clausola qualsiasi del contratto; q) limitare la responsabilità del professionista rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare l'adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità; r) limitare o escludere l'opponibilità dell'eccezione d'inadempimento da parte del consumatore; s) consentire al professionista di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest'ultimo; t)sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni, deroghe alla competenza dell'autorità giudiziaria, limitazioni all'adduzione di prove, inversioni o modificazioni dell'onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi; u) stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore; e vedere l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo come subordinati ad una condizione sospensiva dipendente dalla mera volontà del professionista a fronte di un'obbligazione immediatamente efficace del consumatore. È fatto salvo il disposto dell'articolo 1335 del codice civile; v-bis) imporre al consumatore che voglia accedere ad una procedura di risoluzione extragiudiziale delle controversie prevista dal titolo II-bis della parte V, di rivolgersi esclusivamente ad un'unica tipologia di organismi ADR o ad un unico organismo ADR; v-ter) rendere eccessivamente difficile per il consumatore l'esperimento della procedura di risoluzione extragiudiziale delle controversie prevista dal titolo II-bis della parte V.”
Art.36 cod.cons.: “Sono nulle le clausole che, quantunque oggetto di trattativa, abbiano per oggetto o per effetto di: a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista;
della necessaria esperienza e che non agisce professionalmente, dall'altro l'imprenditore, soggetto che “esercita professionalmente”63 un'attività d'impresa e al quale, ex. art. 1176, co. 264, è richiesta una maggior diligenza. Le differenti finalità rendono perciò non applicabili in via analogica alle imprese “deboli” le tutele previste per il consumatore, impostazione peraltro confermata dalla Corte Costituzionale65.
Tuttavia, ciò non ha impedito di riconoscere agli elenchi ex artt. 33 e 36 cod.cons. valore indiziario nei rapporti tra impresa dominante e dipendente66. Infine, ulteriore valore indiziario si potrebbe riconoscere alle clausole abusive previste dall'art. 3, co.167, della l. n. 81/2017 le quali, nonostante siano espressamente vietate nei contratti in cui almeno una delle parti contraenti sia un libero professionista , presuppongono sia una disparità di forza economica e contrattuale, sia un egual grado di professionalità, e pertanto non si presta alle considerazioni svolte per le clausole vessatorie nei confronti dei consumatori.
Quanto invece alle condizioni discriminatorie, è possibile trarre la definizione di questa espressione da numerosi provvedimenti normativi che la richiamano, in base ai quali esse sono composte di due requisiti.
In primo luogo, vi deve essere l'applicazione di “condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti”, o di condizioni equivalenti per prestazioni oggettivamente differenti68, come testualmente previsto dall'art. 3 della l. n. 287/1990.
b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;
c) prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.”
63 Art. 2082 c.c.: “È imprenditore chi esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
64 Art. 1176, co. 2: “Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata”.
65 Corte Cost., sent. n.469/2002: “La preferenza nell’accordare particolare protezione a coloro che agiscono in modo occasionale, saltuario e non professionale (consumatori) si dimostra non irragionevole allorché si consideri che la finalità della norma è proprio quella di tutelare i soggetti che secondo l’id quod plerumque accidit sono presumibilmente privi della necessaria competenza per negoziare; onde la logica conseguenza dell’esclusione dalla disciplina in esame di categorie di soggetti – quali quelle dei professionisti, dei piccoli imprenditori, degli artigiani – che proprio per l’attività abitualmente svolta hanno cognizioni idonee per contrattare su un piano di parità”.
66 X.XXXXXX, op.cit., cit., p.413
67 Art. 3, co. 1, l. n. 81/2017: “Si considerano abusive e prive di effetto le clausole che attribuiscono al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto o, nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso nonché le clausole mediante le quali le parti concordano termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento da parte del committente della fattura o della richiesta di pagamento”.
68 Dell'idea che l'abuso di dipendenza economica sia integrato dall'applicazione di condizioni
Pertanto, a contrariis, qualora vi siano ragioni obiettive, tecniche o economiche, che giustifichino una disparità di trattamento, quest'ultimo non potrà essere sindacato dall'impresa discriminata; un esempio al riguardo potrebbe essere la concessione ad alcune imprese clienti di sconti significativi, sulla base di parametri oggettivi, quali la mole di prodotti acquistati o il costo sostenuto per l'acquisto di questi ultimi. La giurisprudenza di merito ha peraltro avuto modo di pronunciarsi su una siffatta ipotesi, tramite un provvedimento nel quale, dopo aver dichiarato l'insussistenza di una giustificazione per “l'imposizione al ricorrente di un prezzo di cessione più elevato”, nell'operare una riduzione di tale cifra, l'ha calcolata “al netto degli sconti praticati per il servizio di self service … e degli sconti di sostegno alle vendite, in cui vi è una compartecipazione della compagnia e del gestore alla riduzione del prezzo del carburante al pubblico, relativi a iniziative alle quali parte ricorrente non abbia aderito”70.
Infine, non si deve dimenticare che il legislatore, nel tentativo di dettare una disciplina più precisa ed efficace nel settore agroalimentare, è intervenuto nel 2012, con una norma – l'art. 62, co. 2 del D.L. n. 1/2012, convertito con modificazioni con l. 24 marzo 2012, n. 27 – riferita apparentemente all' ambito agroalimentare, ma di tendenziale “vocazione generalista”72, e ha ulteriormente specificato la nozione di clausola eccessivamente gravosa, per il tramite di un nuovo elenco di fattispecie
equivalenti per prestazioni differenti, v. X.XXXXXX, op.cit, p. 414.
69 G.DI XXXXXXX, Xxxxxxxxx e divieto di discriminazione, Nuova Giur. Civ., 2014, 12, 20567, opera un richiamo all'art. 16 dello statuto dei lavoratori, in base al quale si vieta “la concessione di trattamenti economici di maggior favore” nel caso in cui hanno “carattere discriminatorio a mente dell'art. 15”, come, ad esempio, nel caso in cui derivino dalla mancata adesione del lavoratore ad uno sciopero.
70 Trib. Massa, ord. 15 maggio 2014.
71 Esempio tratto da X.XXXXXX, op. cit., p. 419.
72 Espressione utilizzata da X.X.XXXXXXXXX e X.XXXXXXXXX, La nuova disciplina dei contratti di cessione dei prodotti agricoli ed agroalimentari, Riv. Dir. Civ., 2013, 3, 10641.
tipiche integranti una condotta abusiva73 che saranno analizzate nel terzo capitolo.
3.3 Interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto
Terza ed ultima fattispecie tipica prevista dall'art.9 l.subf., essa deve essere interpretata, in accordo alle disposizioni antitrust, come “cessazione di fatto”74 delle relazioni commerciali in atto. Come evidenziato precedentemente, tale ipotesi di abuso si ha in una fase successiva all'instaurazione di un rapporto tra le imprese, ma non necessariamente presuppone il perfezionamento di un contratto, giacché ben può essere che un'interruzione arbitraria si verifichi durante le trattative, nella fase precontrattuale.
Anche tale ipotesi ha suscitato molta attenzione. Da un lato, infatti, la maggior parte delle decisioni giurisprudenziali in tema si sono fondate su questa fattispecie di abuso di dipendenza economica; dall'altro in quanto, nonostante l'interruzione delle relazioni possa assumere diverse forme (recesso da un contratto a tempo indeterminato, disdetta di un contratto a termine rinnovabile, clausola risolutiva espressa ecc.) essa, di regola,
73 Art. 62, co. 2 D.L. n. 1/2012: “Nelle relazioni commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1, è vietato: a) imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive; b) applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti; c) subordinare la conclusione, l'esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto degli uni e delle altre; d) conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali; e) adottare ogni ulteriore condotta commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento”. In realtà, appare più consono richiamare in tal sede l'elenco formulato in sede di attuazione di tale disposizione dal decreto n. 199/2012, stante il coincidente tenore letterale con l'art. 9 l.subf. Infatti, ai sensi dell'art. 4, commi 2 e 3, reg. 199/2012: “Le disposizioni di cui all'articolo 62, comma 2, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27, vietano qualsiasi comportamento del contraente che, abusando della propria maggior forza commerciale, imponga condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, ivi comprese quelle che: a) prevedano a carico di una parte l'inclusione di servizi e/o prestazioni accessorie rispetto all'oggetto principale della fornitura, anche qualora queste siano fornite da soggetti terzi, senza alcuna connessione oggettiva, diretta e logica con la cessione del prodotto oggetto del contratto; b) escludano l'applicazione di interessi di mora a danno del creditore o escludano il risarcimento delle spese di recupero dei crediti; c) determinino, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, prezzi palesemente al di sotto dei costi di produzione medi dei prodotti oggetto delle relazioni commerciali e delle cessioni da parte degli imprenditori agricoli. 3. Configura, altresì, una pratica commerciale sleale la previsione nel contratto di una clausola che obbligatoriamente imponga al venditore, successivamente alla consegna dei prodotti, un termine minimo prima di poter emettere la fattura, fatto salvo il caso di consegna dei prodotti in più quote nello stesso mese, nel qual caso la fattura potrà essere emessa solo successivamente all'ultima consegna del mese”.
74 X.XXXXXX, op.cit., p.389
qualora sia svolta nei modi e nei termini previsti dalla legge, dal contratto o dagli usi, non dovrebbe essere sindacabile.
In base a questa impostazione, il Tribunale di Taranto75 sancì l'inapplicabilità dell'art.9 ad un contratto di franchising, sulla considerazione che:
“Qualora un contratto preveda una determinata durata e la facoltà delle parti di non proseguirlo inviando all'altra una disdetta nel termine all'uopo concordato, è evidente che l'esercizio di tale facoltà nel rispetto della corrispondente previsione negoziale non potrà giammai configurare una situazione di arbitrio”.
Tuttavia, se da un lato, nel momento in cui è prevista la facoltà di un recesso ad nutum all'interno di un contratto, si deve garantire all'impresa dominante di esercitare i propri diritti, d'altro lato è necessario che quest'ultima, nel farli valere, tenga conto anche delle esigenze della controparte, in virtù dei principi generali di buona fede e del legittimo affidamento. L'impresa dominata, infatti, potrebbe aver investito in c.d. assets specificity o avere una relazione commerciale esclusiva con l'impresa dominante76 e pertanto appare ragionevole riconoscerle un periodo di transizione che le consenta di recuperare l'esposizione finanziaria cui è stata indotta dalla prospettiva di durata dell'accordo ovvero di trovare nuovi partners commerciali77.
Pertanto, nella gran parte dei casi, la determinazione in merito all'abusività dell'interruzione dei rapporti commerciali sarà assorbita dalla valutazione in ordine alla congruità e alla modalità di comunicazione del preavviso concretamente adottato. Sulla scorta di tali considerazioni, il Tribunale di Milano78 ha recentemente dichiarato un abuso di dipendenza economica perpetrato dalla società Google Ireland Ltd., la quale, pur esercitando un diritto di recesso, contrattualmente previsto, nei termini prescritti, lo ha fatto in violazione del principio di buona fede:
“E’ ben vero che nei contratti a tempo indeterminato il recesso è consentito, rispondendo all’esigenza di evitare la perpetuità del vincolo obbligatorio, ma ciò non è determinante per escludere l’illiceità della condotta, quando il recesso non sia
75 Trib. Taranto, ord. 22 dicembre 2003.
76 Sent. Trib. Bari, ordinanza 6 maggio 2002, in Xxxx.xx, 2002, I, c. 0000, Xxxxxx Xxxxxxxx x. Xxxxxx Xxxxxx.
77 Trib. Milano sent. 17 giugno 2016 in Foro it. 2016, 11, I, 3636: “il recesso ad nutum, esercitato in difetto di specifica contestazione, senza un congruo termine che consente di ricercare nuovi partner commerciali sul mercato e trattenendo una rilevante somma nell’esercizio di una forma di autotutela privata non contemplata dall’ordinamento, integra abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, sotto forma di interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in corso”.
78 Sent.Trib. Milano n.7638/2016, Attrakt s.r.l. c. Google Ireland Ltd.
conforme a buona fede, per le modalità con cui sia posto in essere … giacché la buona fede deve presiedere ogni fase del contratto, accompagnandolo nel suo intero svolgimento, dalla formazione all'esecuzione allo scioglimento”.
Il riconoscimento della conformità della condotta dell'impresa dominante al canone della buona fede non è del resto particolarmente innovativo; sul tema vi era infatti già stata una pronuncia della Corte di Cassazione79, la quale, nell'annullare una decisione della Corte d'appello di Messina80 aveva sostenuto che:
“la corrispondenza a buona fede dell'esercizio del diritto di recesso, contrattualmente previsto … deve essere valutata nel complessivo contesto dei rapporti intercorrenti tra le parti, onde accertare se il recesso sia stato esercitato o meno secondo modalità e tempi che non rispondono ad un interesse del titolare del diritto meritevole di tutela, ma soltanto allo scopo di recare danno all'altra parte, incidendo sulla condotta sostanziale che le parti sono obbligate a tenere per preservare il reciproco interesse all'esatto adempimento delle rispettive prestazioni”.
In ogni caso, nella valutazione circa l'arbitrarietà dell'interruzione dei rapporti commerciali, il giudizio dovrà vertere anche sulle condizioni oggettive che sono state invocate per giustificare l'interruzione stessa. Infatti, come detto, essa può essere stata posta in essere sulla base di molteplici cause (risolutive ed estintive, diverse dal recesso). In particolare, potranno essere considerate abusive, e permettere così un giudizio positivo sull'arbitrarietà dell'interruzione, le fattispecie d'inadempimento nelle clausole risolutive espresse laddove esse non abbiano un carattere oggettivo ma risultino sostanzialmente preordinate per consentire l'interruzione del rapporto a discrezione del contraente più forte.
E' opportuno rilevare, infine, che talvolta un'interruzione arbitraria dei rapporti commerciali può essere messa in atto in funzione della successiva imposizione di clausole gravose o discriminatorie nel regolamento contrattuale con l'impresa economicamente dipendente. Un'ipotesi del genere la si evince del resto da una recente sentenza della Cassazione81, nella quale, in seguito al recesso arbitrario e privo di congruo preavviso tra un rivenditore e le concessionarie da lui
79 Cassazione, 18 ottobre 2003, n. 15482.
80 La Corte d'appello di Xxxxxxx aveva ritenuto non sussistente la violazione dell'obbligo di buona fede in quanto la disdetta era stata esercitata legittimamente in virtù di un'apposita clausola prevista nel contratto.
81 Sent. Cassazione, sez. III civile, 23 luglio 2014 n. 16787
economicamente dipendenti, un'altra impresa ha cercato di subentrare nei contratti di concessione già facenti capo al primo, imponendo alle concessionarie condizioni molto più onerose.
4. Principi generali per l'accertamento dell'abuso
Come si evince dalla analisi delle ultime due fattispecie tipiche previste dall'art.9, co.2, i parametri alla stregua del quale verificare se l'imposizione di condizioni gravose o discriminatorie siano ingiustificate e se l'interruzione delle relazioni commerciali in atto siano arbitrarie sono sostanzialmente criteri extralegali, quali il legittimo affidamento, la correttezza (art. 117582 c.c.) e la buona fede (art. 137583c.c.), nonché una loro specificazione consistente nell'abuso del diritto. Quest'ultima figura ricorre “quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando un sacrificio sproporzionato della controparte contrattuale, al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti”84.
Quanto alla giurisprudenza, ormai si sprecano le sentenze che, in tema di abuso di dipendenza economica, operano un richiamo a questi criteri86, al punto che ci si potrebbe persino chiedere se la previsione dell'art.9 l.subf. non sia superflua a fronte del principio generale della buona fede87. Come infatti rilevato, in vari procedimenti concernenti “abusi di dipendenza economica, in cui si trattava di valutare se un dato
82 Art.1175 c.c.: “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”
83 Art.1375 c.c.: “Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”.
84 Definizione estrapolata dalla sent. Cass. n. 20106/2009.
85 Su tutti, vedi L.DELLI PRISCOLI xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx.xx/xxxxx/00000/xxxxx_xxxxxxxx.xxx
86 Cass. Civile, sez.1, sent. n.15482/2003; Trib.Milano, sent. n.1344/2016; Cass. Civile, sez. III, sent. n. 20106/2009;
87 Così F.DELLI PRISCOLI, op.cit.
comportamento di una parte potesse integrare o meno un’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in corso, si è seguito un ragionamento giuridico che rispecchia quello proprio della buona fede e della correlata tutela del legittimo affidamento … emerge pertanto la tendenza ad un bilanciamento di interessi tra la parte che effettua e quella che subisce il recesso, seguendo un ragionamento del tutto analogo a quello compiuto dalla giurisprudenza relativa alla valutazione dell’arbitrarietà o meno del recesso – e dunque alla valutazione della contrarietà o meno a buona fede – nei contratti xxxxxxx00 e a quello seguito dalla sentenza n.
20106 del 2009 in tema di recesso dal contratto di concessione di xxxxxxx00”. Secondo la suprema Corte, infatti, l’obbligo di buona fede oggettiva e di correttezza prescrive un autonomo dovere giuridico, espressione del generale principio di solidarietà sociale ex art. 2 della Costituzione, e che costituisce per il giudice uno strumento finalizzato al controllo dello statuto negoziale al fine di garantire il bilanciamento degli opposti interessi.
Diverse critiche sono state peraltro mosse nei confronti di un'operazione del genere. A parer di molti, infatti, non appare conveniente, per calare nella concretezza una norma che assume i caratteri di una clausola generale (il divieto di abuso di dipendenza economica), operare un rinvio ad un'altra clausola generale (la buona fede) connotata da un grado di indeterminatezza ancor più elevato90. Anche chi sostiene questa tesi, tuttavia, riconosce un valore al principio di buona fede nel momento in cui, invocandolo, si fa riferimento alle regole giurisprudenziali che trovano il loro fondamento in tale clausola91.
5. I rimedi previsti dall'art.9 l.subf.
A fronte di una lesione conseguente ad un abuso di dipendenza economica, l'unico
88 Il riferimento è alle sentt. Cass. 14 luglio 2000, n. 9321, Foro it., 2000, I, 3495; Cass. 21 maggio 1997, n. 4538, Foro it., 1997, I, 2479. Entrambe sanzionano l'esercizio del diritto di recesso da parte di banche da contratti di apertura di credito.
89 Cit. L.DELLI PRISCOLI, op.cit.
90 Così X.XXXXXXXX, Subfornitura industriale, abuso di dipendenza economica e tutela del contraente debole: i nuovi orizzonti della buona fede contrattuale, in Rass.dir.civ., 1999, p.639 ss., che tuttavia ne parla in riferimento al rapporto tra la clausola di buona fede e l'art. 33, co.1, cod.cons. Al contrario, altri autori sottolineano invece l'utilità di questa operazione. Tra questi, C.OSTI, op.cit., p.52, che trova utile richiamare la nozione della buona fede ai fini della concretizzazione del divieto, soprattutto perché, nelle sue applicazioni giurisprudenziali più recenti, la buona fede consentirebbe al giudice di intervenire per sanare situazioni di squilibrio contrattuale.
91 Di tale possibilità ne parlano C.OSTI, op.cit., cit. p.49 e X.XXXXX, L'abuso di dipendenza economica “fuori dal contratto” tra diritto civile e diritto antitrust, in Riv. Dir. Civ., 2000, II, cit., p.411.
rimedio azionabile dall'impresa lesa era, in origine, quello previsto dall'art. 9 l.sub.f. al co. 3, ai sensi del quale “il patto attraverso il quale si realizzi l'abuso di dipendenza economica è nullo”.
In seguito alla modifica del 2001, adottata in conseguenza della palese insufficienza dello strumento invalidatorio, la disciplina è stata dotata di un apparato rimediale più ricco, con l'espresso riconoscimento in capo al giudice ordinario della competenza a conoscere “delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni".
Tuttavia, anche in seguito alla riforma, la norma si presenta in gran parte lacunosa. In particolare, non dispone chi sia legittimato a far valere in giudizio la nullità, se sia rilevabile d'ufficio dall'autorità giudiziaria e neanche quali siano le conseguenze dell'eventuale nullità parziale.
Molto approfondita è stata perciò la trattazione in materia, che ha cercato di coordinare la nullità derivante da abuso di dipendenza economica con gli altri rimedi rinvenibili sia all'interno del tessuto codicistico, sia all'interno di numerose leggi speciali.
5.1. Tutela invalidatoria
Nel tentativo di individuare il modello all'interno del quale far confluire la nullità prevista dall'art. 9 l.subf., la dottrina ha convenuto sul metodo da dover seguire: “il regime della nullità può essere ricostruito alla luce dell'esigenza politico-economica posta a fondamento della specifica previsione normativa”93. Pertanto, nonostante l'orientamento maggioritario94 concordasse sul fatto che la nullità posta a tutela dell'abuso di dipendenza economica fosse a tutti gli effetti una invalidità di
92 Tale tesi è portata avanti da X.XXXXXXX, Diritto europeo dei rimedi: invalidità ed inefficacia, in Riv. Dir. Civ., 2007, I, p. 843; A.DI MAJO, La nullità, in Il contratto in generale, a cura di A.Di Majo, X.X.Xxxxx, X.Xxxxxxxx, nel Tratt. Dir. Priv., diretto da X.Xxxxxxx, vol. XIII, t. VII, Torino, 2002, p.127;
93 G.DI XXXXXXX, op.cit., cit., p.111.
94 Per tutti, X.XXXXXX, Nullità anomale e conformazione del contratto (note minime in tema di “abuso dell'autonomia contrattuale”), in Riv. Dir. priv., 2005, pp. 285 ss.
protezione, diversi, tuttavia, sono stati i punti d'approdo di diversi interpreti.
I) Un primo orientamento dottrinario95 ha tentato di ricondurre questa nullità a quella prevista in favore dei consumatori, c.d. nullità di protezione, prevista dall'art. 36 cod. cons.
A favore di questa impostazione sono stati avallati diversi argomenti, quali la comune ratio delle due normative, tese a tutelare in entrambi i casi i contraenti “deboli” all'interno di un rapporto contrattuale, o il fatto che entrambe, nella parte in cui sanzionano la nullità della clausola iniqua, esprimano un principio generale in forza del quale “non può essere consentito alla parte dotata di maggior forza contrattuale di imporre all'altra un regolamento iniquo”96.
Ciononostante, diverse critiche97 sono state mosse nei confronti di questa operazione, la quale risulta persino incompatibile con la sentenza precedentemente citata della Corte Costituzionale n. 469/2002, la quale ha espressamente negato un'identità di ratio tra la disciplina a favore del consumatore e quella dell'abuso di dipendenza economica a tutela delle imprese dominate, rendendo perciò impossibile attuare, in via analogica, le tutele previste da una normativa nel campo di applicazione dell'altra.
II) In base ad un secondo orientamento98, sostenuto da una parte minoritaria della dottrina, cercare di ricostruire un sistema ad hoc per le nullità da abuso di dipendenza economica sarebbe più che superfluo.
Per realizzare la funzione di protezione cui è preordinata la norma basterebbe infatti l'ordinario regime di nullità, integrato dall'attribuzione al giudice di un potere di sostituzione d'ufficio delle clausole ritenute abusive. A rendere ancora più incisiva la tutela offerta alle imprese dominate, soccorrerebbero infine regole che prevedano una legittimazione assoluta a far valere l'abuso in giudizio e la sua rilevabilità d'ufficio.
95 Tale soluzione è per lo più argomentata in X.XXXXXXXX, op. cit., p.319-320.
96 X.XXXXXXXX, ult. op. cit., p. 645.
97 Su tutti, M.R.XXXXXXX, op. cit., pp. 168 ss..
98 Tale modello è sostenuto da X.XXXXXXX, op.cit., 200 ss..
99 Critiche mosse da X.XXXXXX, op. cit., cit., pp. 488-489.
III) Infine, vi è un terzo orientamento100, secondo il quale la soluzione più opportuna per le nullità da abuso di dipendenza economica ed in genere per le invalidità da abuso dell'autonomia d'impresa consiste nel richiamo alla disciplina dell'annullabilità, rimedio posto “a tutela della responsabile esplicazione dell'autonomia privata”101. Secondo il principale fautore di tale modello, a ciò inoltre non osta che il nomen iuris dell'invalidità sia, all'interno dell'art. 9 l.subf., quello della nullità, stante la povertà tecnica che affligge il sistema legislativo e le indicazioni che provengono dal sistema. Ovviamente, anche quest'ultima tendenza dottrinaria è stata ampiamente criticata, sebbene solo sulla scorta di considerazioni marginali.
5.1.1. Nullità parziale necessaria
Come si ricava immediatamente dal testo della legge, la valutazione di abusività può essere riferita sia all'intero negozio, sia a singole clausole (che nel co. 3 art. 9 l.subf. sono nominate “patti”103), del regolamento contrattuale.
La dottrina sul punto si è divisa in maniera netta, formulando soluzioni in linea con le teorie generali precedentemente esposte.
100 Tesi sostenuta da X.XXXXXX, op.cit , cit. pp. 488-489.
101 X.XXXXXXX, La patologia discreta del contratto annullabile, in Riv. Dir. civ., 2003, I, p.329 ss.
102 G.DI XXXXXXX, op.cit., cit., pp. 138-139.
103 In tal senso depongono A.XXXXXXXXXX, op.cit., p. 196; A.XXXXXXXXX DI XXXXX, op.cit., p. 256.
104 Art. 1419 c.c.: “La nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità. La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”
In una prima categoria, pertanto, è possibile raggruppare coloro105 che hanno operato una distinzione tra clausole che determinano uno squilibrio normativo e clausole che producono uno squilibrio economico.
Nel caso in cui si dovesse comminare la nullità delle prime, pertanto, non vi sarebbe applicazione del co. 1 art. 1419 c.c. e conseguentemente non si travolgerebbe l'intero contratto, qualora “l'estensione della invalidità all'intero contratto” si ponga “in contrasto con le finalità di tutela che hanno indotto il legislatore a stabilire la nullità della clausola”106.
Quanto invece alle clausole che provocano uno squilibrio economico, l'applicazione del co.1 art. 1419 c.c. è conseguente “all'oggettiva impossibilità di realizzare effetti corrispondenti al contenuto ridotto del contratto, a prescindere dall'accertamento di una ipotetica volontà contraria al mantenimento dello stesso”107. Pertanto, l'unica forma di riequilibrio che si potrebbe avere in tal caso consisterebbe nell'azione risarcitoria proposta ai sensi del co. 3 dell'art. 9 l.subf.
In una seconda categoria, invece, è possibile ricondurre tutti coloro che hanno optato per l'inapplicabilità generalizzata dell'art. 1419 c.c., prospettando la conservazione del contratto in ogni ipotesi di nullità di una clausola ingiustificatamente gravosa108, sulla premessa che l'effetto di tale norma sia contrastante con la finalità protettiva dell'art. 9 l.subf. Apparirebbe infatti illogico “ammettere che l'invalidità di una parte (del regolamento contrattuale) possa travolgere il negozio nella sua interezza, perché quella parte è – nella considerazione del soggetto che abusa – essenziale”109.
Sull'onda di questo pensiero, diversi autori hanno prospettato la possibilità che la violazione dell'art. 9 l.subf., oltre a comminare la nullità della/e clausola/e invalida/e, “possa dar luogo ad una sostituzione di clausole ex art. 1339110 c.c.”111. In base a tale interpretazione estensiva dell'art. 1339 c.c., che si basa sostanzialmente sul co. 2 dell'art. 1419 c.c., vi è la possibilità di un intervento sostitutivo ope iudicis, tramite il
105 G.XXXXX, Invalidità e contratto tra imprenditori in situazione asimmetrica, in Il terzo contratto, a cura di G.Villa, G. Xxxxx, il Mulino, 2009, cit., p. 131.
106 A.ALBANESE, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in
Europa e diritto privato, 1999, p. 1191.
107 A.ALBANESE, op.cit., p. 1195.
108 Favorevole a tale interpretazione, M.R.XXXXXXX, op.cit., p. 181.
109 Cit. tratta da X.XXXXXX, op.cit., p. 491.
110 Art. 1339 c.c.: “Le clausole, i prezzi di beni o di servizi, imposti dalla legge sono di diritto inseriti nel contratto, anche in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti”.
111 M.R.XXXXXXX, op.cit., p. 187.
quale venga sostituita “la clausola nulla, perché la misura selezionata dalle parti risulta diversa da quella di mercato, con una clausola che tale misura rispetti”112. Una tesi del genere, tuttavia, se da un lato permette che l'invalidità della clausola abusiva non si estenda all'intero contratto, dall'altro attribuisce al giudice un potere sostitutivo senza che all'interno dell'art. 9 l.subf. vi sia una disposizione che determini, in via generale, preliminare ed astratta, una specifica misura del rapporto.
Un'altra parte della dottrina113, pertanto, per colmare quest'ultima lacuna, si è ispirato al rimedio equitativo e ha rinvenuto un fondamento, per la sua applicazione analogica in tal sede, nell'art. 7 d.lgs. 231/2002, il quale, nella sua precedente formulazione, prevedeva che il giudice, dopo aver sanzionato la nullità delle clausole “gravemente inique” riguardanti termini di pagamento o conseguenze del ritardato pagamento, applicasse “i termini legali” ovvero riconducesse “ad equità il contenuto dell'accordo medesimo”. D'altronde, l’estensione analogica potrebbe giustificarsi sulla base della comune ratio delle due discipline, entrambe dirette ad evitare che le imprese economicamente e contrattualmente più forti possano conseguire vantaggi ingiusti attraverso l'imposizione di clausole abusive a clienti e fornitori.
Tuttavia, se da un lato la riconduzione ad equità presenta l'indubbio vantaggio di poter garantire la conservazione del contratto, essa, oltre ad ampliare i poteri del giudice in maniera notevole, non è suscettibile di poter essere operata all'interno della disciplina dell'abuso di dipendenza economica, in quanto “la riduzione ad equità dell'art. 7 … si giova di indici di riferimento precostituiti, quali gli interessi legali speciali ed i termini previsti dal d.lgs. n. 231/2002, che rendono più rigoroso il compito del giudice e comunque più agevolmente controllabile il suo operato114”.
Di conseguenza, un ultimo filone dottrinario115, dopo aver mosso dall'inapplicabilità dell'art. 1419 c.c. e al fine di garantire la conservazione del regolamento contrattuale, ha propeso per un'integrazione, con norme suppletive, qualora il regime “del tipo contrattuale … contenga criteri per la determinazione aliunde dell'oggetto”116.
Quest'ultima interpretazione si fonda sul presupposto che la determinazione
112 M.R.XXXXXXX, op.cit., p. 196.
113 Favorevole in tal senso, G.DI XXXXXXX, op. cit., p. 129-136
114 G.VILLA, op.cit., p. 120.
115 G.XXXXX, L'oggetto del contratto e le fonti di determinazione dell'oggetto dei contratti d'impresa, Riv. Dir. civ., vol. CI, I, 2005, p. 27.
116 G.GITTI, La determinazione del contenuto, ne Il terzo contratto, a cura di G.Villa, G. Xxxxx, il Mulino, 2009, cit., p. 94.
dell'oggetto “è normalmente estranea al contratto d'impresa”, dove “la fisiologica incompletezza del contratto” può essere integrata mediante il ricorso ad elementi esterni rispetto allo stesso.
A conferma di ciò si possono rinvenire numerose disposizioni presenti all'interno del codice civile stesso, a partire dall'art. 1474117 c.c. per arrivare fino all'art. 2233118 c.c., ma anche in convenzioni internazionali, quale l'art. 55119 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci del 1980, il quale àncora il prezzo di un bene o servizio a livello internazionale a quello solitamente praticato al momento della conclusione del contratto.
Sebbene quest'ultima tesi possa risultare particolarmente interessante, c'è da obiettare su due aspetti. Da un lato, infatti, tali norme sono finalizzate a colmare le lacune che le parti hanno lasciato nel regolamento del loro rapporto; dall'altro, le stesse disposizioni citate a sostegno della teoria riconducono l'applicazione dei “criteri extracontrattuali” ad una presunzione di volontà delle parti. Questa presunzione, però, non è data riscontrarsi nel caso in cui le parti abbiano volontariamente precisato il quantum del prezzo, nonostante si dimostri l'ingiustificata gravosità dello stesso.
Sebbene quest'ultima eccezione possa risultare fondata, parte della dottrina120 si è dimostrata favorevole ad una sostituzione ex iudiciis della clausola dichiarata nulla
117 Art. 1474 c.c. “Se il contratto ha per oggetto cose che il venditore vende abitualmente e le parti non hanno determinato il prezzo, né hanno convenuto il modo di determinarlo, né esso è stabilito per atto della pubblica autorità, si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente praticato dal venditore. Se si tratta di cose aventi un prezzo di borsa o di mercato, il prezzo si desume dai listini o dalle mercuriali del luogo in cui deve essere eseguita la consegna, o da quelli della piazza più vicina. Qualora le parti abbiano inteso riferirsi al giusto prezzo, si applicano le disposizioni dei commi precedenti; e, quando non ricorrono i casi da essi previsti, il prezzo, in mancanza di accordo, è determinato da un terzo, nominato a norma del secondo comma dell’articolo precedente”.
118 Art. 2233 c.c. “Il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell'associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione. Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati e i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali”.
119 Art. 55 Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci: “Se la vendita è validamente conclusa senza che il prezzo delle merci vendute sia stato espressamente o implicitamente fissato nel contratto, o da una disposizione che permetta di determinarlo, si reputa che le parti si siano, salvo disposizioni contrarie, tacitamente riferite al prezzo solitamente praticato al momento della conclusione del contratto, nel ramo commerciale considerato, per le stesse merci vendute in circostanze analoghe”.
120 Per la determinazione aliunde del corrispettivo nell'ambito del contratto d'opera professionale, vedi X.XXXXXXXXXX, Regole e mercato nella disciplina convenzionale del contratto d'opera professionale, Contratto e Impr., 2016, 2, p. 520.
con una elaborata in base a criteri certi determinati aliunde. Inoltre, sulla base di tale impostazione, in una recente sentenza del Tribunale di Massa121, il giudice monocratico dopo aver dichiarato la nullità della clausola che consentiva al fornitore di stabilire unilateralmente il prezzo del prodotto, ha individuato “come prezzo di cessione per le future somministrazioni” – così confermando la possibilità di un'integrazione ope iudicis – “quello stesso praticato da parte resistente all'impianto più vicino a quello gestito dal ricorrente, al netto degli sconti praticati per il servizio di self-service … e degli sconti di sostegno alle vendite, in cui vi è una compartecipazione della compagnia e del gestore alla riduzione del prezzo del carburante al pubblico, relativi ad iniziative alle quali parte ricorrente non abbia aderito”.
5.2. La tutela inibitoria
Mosso dall'esigenza di assicurare una tutela più effettiva all'impresa economicamente dipendente, il legislatore, come detto, è intervenuto nel 2001 tramite una modifica all'art. 9 l.subf., con la quale ha previsto espressamente la possibilità, per l'impresa lesa, di agire in via inibitoria nei confronti della controparte dominante.
Siffatto strumento ha infatti una portata operativa decisamente più ampia rispetto all'azione di nullità, poiché può trovare applicazione non sono in ambito contrattuale, ma anche al di fuori o a prescindere dallo stesso.
Così l'imprenditore, che accusa di essere vittima di un abuso di dipendenza economica, si potrà rivolgere al giudice per l'adozione di un ordine che imponga all'impresa dominante di astenersi dal porre in essere una determinata condotta abusiva o di porvi fine nel caso si stia ancora verificando.
Nonostante l'ampiezza dei poteri riconosciuti al giudice, alcuni autori123, in passato,
121 Trib. Massa, ordinanza del 25 maggio 2014.
122 X.XXXXXXX, Le prime pronunce in tema di “abuso di dipendenza economica”, in Concorrenza e mercato, Le tutele civili delle imprese e dei consumatori, a cura di G.Xxxxxxx, Cedam, 2005, cit., p.506.
123 X.XXXXXXX, op.cit. pp. 506-508.
hanno ritenuto che questo rimedio fosse teso a proteggere il solo interesse negativo dell'impresa dominata a che la dominante non mettesse in atto o non continuasse a mettere in atto condotte abusive; ciò avrebbe comportato dunque dei problemi nel caso in cui l'abuso si fosse sostanziato in una condotta omissiva. In altre parole, poiché il provvedimento inibitorio “per definizione comporta l'imposizione di un obbligo di non fare”, esso non si sarebbe dimostrato d'utilità nell'ipotesi in cui l'abuso di dipendenza economia si fosse realizzato attraverso una condotta omissiva, dal momento che il provvedimento giudiziale non può costituire “un rapporto giuridico al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge124” ovvero imporre “un obbligo di fare, quale è quello di prestare il proprio consenso per la conclusione di un contratto che, per il suo carattere di infungibilità, non è peraltro coercibile e quindi suscettibile di esecuzione forzata” e anzi, un'azione del genere avrebbe potuto assumere “addirittura connotati di contrarietà alla libertà di iniziativa economica, garantito dall'art. 41 Cost.”125.
Le stesse considerazioni si sarebbero dovute inoltre effettuare qualora il rimedio inibitorio fosse stato richiesto in via cautelare, posto che quest'ultima tutela è funzionale al giudizio a cognizione piena, del quale tende ad anticiparne gli effetti. Se pertanto la sentenza di merito non può realizzare determinati effetti, nel caso di specie la condanna ad un facere infungibile, tanto meno può farlo l'ordinanza cautelare126.
Una pronuncia del genere, inoltre, avrebbe potuto costituire il presupposto per
124 Il riferimento è agli artt. 2932 e 2597 c.c.
125 Trib. Bari, 11 ottobre 2004, in Giur. Locale, 2004.
126 Si veda Cass., 24 agosto 1994, n. 7500, secondo cui la domanda proposta per ottenere la condanna ad un facere infungibile non può essere accolta per mancanza di interesse ad agire, posto che questa condanna non è suscettibile di esecuzione coatta in forma specifica. Sulla stessa scia, il Trib. Roma, ord. 5 novembre 2003, che peraltro contesta l'ammissibilità di un siffatto provvedimento solo in sede cautelare, mentre gli riconosce valenza di accertamento in sede di giudizio a cognizione piena.
127 Cass., sez. III, 13 ottobre 1997, n. 9957 secondo la quale “è ammissibile la pronuncia di condanna resa dal giudice nella ipotesi di infungibilità … del facere dell'obbligato, in quanto la relativa decisione … è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della (eventuale) esecuzione volontaria da parte del debitore”
ulteriori conseguenze giuridiche derivanti dall'inosservanza del provvedimento del giudice128, in particolare quelli previsti dall'art. 388 c.p.129
5.3. La tutela risarcitoria
Infine, il co. 3 dell'art. 9, come novellato dalla l. n. 57/2001, consente all'impresa vittima dell'abuso di dipendenza economica di agire innanzi al giudice ordinario per ottenere un risarcimento dei danni subìti.
128 Cass., 1 dicembre 2000, n. 15349, a tenore della quale “anche relativamente a rapporti contrattuali che comportino per una delle parti, o per entrambe, obblighi di fare non suscettibili, per loro intrinseca natura, di esecuzione forzata … è ammissibile un'azione di condanna del contraente inadempiente alla prestazione promessa, non potendosi … negare che la sua inosservanza sia sufficiente a giustificare una successiva domanda di risarcimento del danno che abbia nella condotta ad un facere il suo presupposto, alla stregua di una sentenza di accertamento”.
129 Art. 388 c.p. “Chiunque, per sottrarsi all'adempimento degli obblighi nascenti da un provvedimento dell'autorità giudiziaria, o dei quali è in corso l'accertamento dinanzi all'autorità giudiziaria stessa, compie, sui propri o sugli altrui beni, atti simulati o fraudolenti, o commette allo stesso scopo altri fatti fraudolenti, è punito, qualora non ottemperi all'ingiunzione di eseguire il provvedimento, con la reclusione fino a tre anni o con la multa da euro 103 a euro 1.032. La stessa pena si applica a chi elude l’ordine di protezione previsto dall’articolo 342-ter del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero ancora l'esecuzione di un provvedimento del giudice civile, ovvero amministrativo o contabile, che concerna l'affidamento di minori o di altre persone incapaci, ovvero prescriva misure cautelari a difesa della proprietà, del possesso o del credito. La stessa pena si applica a chi elude l’esecuzione di un provvedimento del giudice che prescriva misure inibitorie o correttive a tutela dei diritti di proprietà industriale. È altresì punito con la pena prevista al primo comma chiunque, essendo obbligato alla riservatezza per espresso provvedimento adottato dal giudice nei procedimenti che riguardino diritti di proprietà industriale, viola il relativo ordine. Chiunque sottrae, sopprime, distrugge, disperde o deteriora una cosa di sua proprietà sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo è punito con la reclusione fino a un anno e con la multa fino a euro 309. Si applicano la reclusione da due mesi a due anni e la multa da euro 30 a euro 309 se il fatto è commesso dal proprietario su una cosa affidata alla sua custodia, e la reclusione da quattro mesi a tre anni e la multa da euro 51 a euro 516 se il fatto è commesso dal custode al solo scopo di favorire il proprietario della cosa. Il custode di una cosa
sottoposta a pignoramento ovvero a sequestro giudiziario o conservativo che indebitamente rifiuta, omette o ritarda un atto dell'ufficio è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 516. La pena di cui al settimo comma si applica al debitore o all'amministratore, direttore generale o liquidatore della società debitrice che, invitato dall'ufficiale giudiziario a indicare le cose o i crediti pignorabili, omette di rispondere nel termine di quindici giorni o effettua una falsa dichiarazione. Il colpevole è punito a querela della persona offesa”.
130 Da ultimo, vedi Trib. Milano, ord. n. 16596/2017, in cui, pur negando la concessione della misura cautelare nel caso di specie e pur avendo escluso che si ricadesse nell'ambito di applicazione dell'art. 9 l.subf., il giudice non ha escluso che la tutela cautelare potesse essere concessa.
Xxxxx è stato il dibattito dottrinario in merito, il quale non ha investito tanto la possibilità di esperire tale azione, già ammessa ancor prima della riforma legislativa131, quanto la natura della responsabilità, se contrattuale132, extracontrattuale133 o precontrattuale. Le conseguenze di questa scelta, del resto, avrebbero inciso in ordine sia all'eventuale danno oggetto del risarcimento, sia alle prove che le parti avrebbero dovuto allegare per ottenerlo, onde si comprende l'importanza di una corretta interpretazione della questione.
Il risultato cui è pervenuta la prevalente dottrina è stato così quello di classificarla come responsabilità aquiliana, istituto generale che consente di reagire “a comportamenti illeciti che, pur non assumendo natura negoziale, ledono la situazione sostanziale di cui è titolare l'imprenditore vittima dell'abuso”134. Peraltro, il rimedio risarcitorio ex art. 2043 c.c. è stato da più parti attribuito al Tribunale di Bari in virtù del ricorso al termine “illecito”135.
Un'altra soluzione formulata in dottrina136 è stata quella della c.d. responsabilità “a geometria variabile”, in considerazione della concreta manifestazione dell'abuso e a seconda della “vicinanza” della condotta abusiva ad un regolamento contrattuale tra le imprese contraenti.
Quest'ultima, in effetti, potrebbe essere la ricostruzione da preferire; a dimostrazione di ciò, la Corte di Cassazione, in numerose decisioni, ha variamente impostato la questione. Talvolta, infatti, si è pronunciata nel senso di ritenere che la responsabilità scaturente da un abuso di dipendenza economica fosse di natura contrattuale, in quanto, “poiché l'abuso in questione si concretizza nell'eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi tra le parti nell'ambito di rapporti commerciali, esso presuppone che tali rapporti siano regolati da un contratto, tant'è che il terzo comma dell'art. 9 cit. statuisce la nullità del patto che realizza l'abuso di dipendenza economica”137.
131 Già prima della riforma la dottrina era concorde sul fatto che sull'impresa dominante gravasse una responsabilità risarcitoria, in applicazione dei principi generali dell'ordinamento. Tra gli altri, si veda A.ALBANESE, op.cit., p. 1197 ss.
132 A sostegno di questa impostazione, X.XXXXXX, L'abuso di dipendenza economica. Il contratto e il mercato, Jovene, Napoli, 2004, p. 155.
133Lo sostiene X.XXXXXX, op. cit., p. 502 ss.
134 X.XXXXXXX, op. cit., cit. p. 509.
135 Lo afferma C.OSTI, Primo affondo dell'abuso di dipendenza economica (Nota a Trib. Bari, ord. 6 maggio 2002), in Foro it., 2002, p. 2188.
136 M.S.SPOLIDORO, Riflessioni critiche sul rapporto fra abuso di posizione dominante e abuso dell’altrui dipendenza economica, in Riv. dir. ind. 1999, 4, p. 202 ss.
137 Sent. Cass. Civile sez. III, 23 luglio 2014 n. 16787
In un'altra occasione, invece, la Corte ha confermato la condanna al risarcimento disposta in corte d'appello138, condividendo la ricostruzione operata in sede di gravame, che aveva classificato la responsabilità derivante da abuso di dipendenza economica come precontrattuale per un ricorrente, extracontrattuale per l'altro.
Pertanto, su questo profilo, ancora lontani si è, sia in dottrina che in giurisprudenza, dall'approdo ad un punto comune e condiviso.
Quanto ai rapporti tra la tutela invalidatoria e quella risarcitoria, è invalsa l'idea per cui, a fronte di un patto dichiarato abusivo e successivamente annullato, la vittima può agire anche per il risarcimento dei danni. Ciò è confermato dalla decisione, contemporanea alla riforma del 2001, della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in Courage139.
6. La competenza dell'AGCM in materia di abuso di dipendenza economica Fino alla riforma del 2001, le controversie che avevano ad oggetto un abuso di dipendenza economica erano demandate alla competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria, a nulla rilevando che tale abuso fosse posto in essere da un'impresa che al contempo godeva di una posizione di dominanza assoluta sul mercato di riferimento.
Così, con la l. n. 57/2001, per ovviare ad una ripartizione di competenze non particolarmente chiara, è stato assegnato un rilievo all'abuso di dipendenza economica quale autonomo illecito convenzionale, demandato ai poteri istruttori e sanzionatori dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, tramite l'introduzione all'interno della l.subf. di un nuovo co. 3-bis, ai sensi del quale: “ferma restando l'eventuale applicazione dell'articolo 3 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato può, qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, anche su segnalazione di terzi ed a seguito dell'attivazione dei propri poteri di indagine ed
esperimento dell'istruttoria, procedere alle diffide e sanzioni previste dall'articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, nei confronti dell'impresa o delle imprese che abbiano commesso detto abuso".
Tale disposizione, la quale “palesa la contaminazione tra diritto dei contratti e
138S.U. Corte di Cassazione, ord. 25 novembre 2011, n. 24906
139 Corte di Giustizia UE, Sent. 20 settembre 2001, causa C-453/99.
disciplina della concorrenza”140, riconosce espressamente che talvolta un abuso di dipendenza economica possa avere dirette implicazioni sulla concorrenza e sul mercato, o che addirittura possa contemporaneamente costituire violazione delle disposizioni antitrust, in particolare dell'art. 3141 della l. n. 187/1990.
Nel caso in cui dovessero pertanto esservi i presupposti per l'applicazione di quest'ultima norma, il legislatore ne fa salva l'operatività.
Con riferimento invece alla prima ipotesi, ossia quando un abuso di dipendenza economica, pur non sovrapponendosi ad un abuso di posizione dominante, ha comunque rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato, la vittima dell'abuso, oltre alle tutele offerte dall'art. 9 l.subf., può segnalare la violazione all'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Quest'ultima, la quale può anche agire d'ufficio o essere sollecitata in tal senso da terzi, ha così a disposizione gli strumenti previsti dall'art. 15142 l. n. 287/1990 da azionare nei confronti della o delle imprese che stiano abusando della dipendenza di altra impresa.
Anche tale norma, ad onore del vero, pone dei problemi di coordinamento tra la competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria e la competenza dell'autorità antitrust,
140 X.XXXXXXX, op.cit. p. 511.
141 Art. 3 l. n. 287/1990: “E' vietato l'abuso da parte di una o più imprese di una posizione dominante all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, ed inoltre è vietato: a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose; b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico, a danno dei consumatori; c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza; d) subordinare la conclusione dei contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto dei contratti stessi”.
142 In particolare l'articolo 15 della l. n. 287 del 1990 dispone che “se a seguito dell'istruttoria di cui all'art. 14, l'Autorità ravvisa infrazioni di cui agli artt. 2 o 3, fissa alle imprese e agli enti interessati il termine per l'eliminazione delle infrazioni stesse. Nei casi di infrazioni gravi, tenuto conto della gravità e della durata dell'infrazione, dispone inoltre l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato realizzato in ciascuna impresa o ente nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida […], determinando i termini entro i quali l'impresa deve procedere al pagamento della sanzione. In caso di inottemperanza alla diffida di cui al comma 1, l'Autorità applica la sanzione amministrativa pecuniaria fino al 10% del fatturato ovvero, nei casi in cui sia stata applicata la sanzione di cui al comma 1, di importo minimo non inferiore al doppio della sanzione già applicata con un limite massimo del 10% del fatturato come individuato al comma 1, determinando altresì il termine entro il quale il pagamento della sanzione deve essere effettuato. Nei casi di reiterata inottemperanza, l'Autorità può disporre la sospensione dell'attività d'impresa fino a trenta giorni. L'autorità, in conformità all'ordinamento comunitario, definisce con proprio provvedimento generale i casi in cui, in virtù della qualificata collaborazione prestata dalle imprese nell'accertamento d'infrazioni alle regole di concorrenza, la sanzione amministrativa pecuniaria può essere non applicata ovvero ridota nelle fattispecie previste dal diritto comunitario”.
in quanto ogni condotta integrante abuso di dipendenza economica produce inevitabilmente delle ripercussioni sul mercato e sulla concorrenza.
Di conseguenza, è necessario individuare caso per caso il limite di effetti anticoncorrenziali oltre i quali la condotta abusiva è suscettibile di rientrare nella competenza dell'autorità garante. Viceversa, qualora questi effetti dovessero esaurirsi sul piano del singolo imprenditore, si potrà invocare la relativa tutela innanzi al giudice ordinario.
L'art. 3-bis è stato infine da ultimo modificato a mezzo del co. 2, art. 10, l. n.180/2011, il quale ha aggiunto un ulteriore periodo ai sensi del quale “In caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie, l’abuso si configura a prescindere dall’accertamento della dipendenza economica”
Tramite questa modifica, il legislatore ha così istituito una presunzione di abusività della condotta di un'impresa nel caso in cui compia una “violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo n.231 del 2002” concernente i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali “posta in essere ai danni delle imprese, in particolare quelle piccole e medie”. La volontà del legislatore di introdurre un ulteriore strumento di tutela a favore delle piccole e medie imprese è dovuta agli stessi motivi che hanno comportato l'introduzione nel nostro ordinamento della disciplina di cui al d.lgs. n. 231/2002. Questa normativa, di diretta ispirazione comunitaria, infatti è stata posta per rimuovere nei rapporti commerciali tra le imprese abusive dilazioni temporali che “influiscono negativamente sulla liquidità e complicano la gestione finanziaria delle imprese … compromettono anche la loro competitività e redditività quando il creditore deve ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di ritardi nei pagamenti … costituiscono un abuso della libertà contrattuale in danno del creditore”143.
L’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha così effettuato un primo intervento sulla base del co. 3-bis adottando il provvedimento del 26 novembre 2016
n. 26251, con il quale ha irrogato una sanzione pecuniaria amministrativa, pari ad euro 800.000, in capo ad una società distributrice di gas. Ai fini della quantificazione
143 Considerando n. 3 e 28 direttiva 2011/7/UE
della sanzione da irrogare, l'Autorità garante ha peraltro tenuto conto del carattere di novità della fattispecie applicata e a tal fine “ha accordato una significativa riduzione dell'importo in ragione del fatto che si trattava della prima applicazione in assoluto dei propri poteri in relazione alla fattispecie contestata144”.
7. Tutela degli interessi collettivi e individuali
A conclusione del rapido excursus sulla disciplina dell'abuso di dipendenza economica, merita infine un cenno la recente estensione, introdotta dall'art. 10, co. 3 della legge n. 180/2012 sulla falsariga dell'art. 8 d.lgs. n. 231/2002, della legittimazione ad agire in caso di abuso di dipendenza economica, alle associazioni di categoria di categoria degli imprenditori.
In particolare, stante il rinvio operato dall'art. 10, co. 3 all'art. 4, co. 1 della suddetta legge, legittimate a proporre azioni in giudizio, sia a tutela di interessi relativi alla generalità dei soggetti appartenenti alla categoria professionale, sia a tutela di interessi omogenei relativi solo ad alcuni soggetti, sono “le associazioni di categoria rappresentate in almeno cinque camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura … ovvero nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e le loro articolazioni territoriale e di categoria”.
Capitolo 2
Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali
SOMMARIO: 1 Introduzione. - 2 Ambito di applicazione. - 2.1 Ambito oggettivo. - 2.2 Ambito soggettivo. - 3 La disciplina del ritardo in generale. - 3.1 I termini di pagamento. - 3.2 La determinazione del saggio degli interessi moratori. - 3.3 Risarcimento dei costi di recupero dei crediti. - 4 Derogabilità ad opera delle parti contraenti. - 4.1 Derogabilità del termine di pagamento – 4.2 Derogabilità del saggio degli interessi moratori. - 4.3 Derogabilità del risarcimento dei costi di recupero dei crediti. - 5 Responsabilità del debitore. - 6 Il regime di
144 Autorità garante per la concorrenza, 23/11/2016, in Danno e Resp., 2017, 3, 380 nota di Xxxxxx.
invalidità delineato dall'art. 7. - 6.1 Grave iniquità. – 6.2 Le conseguenze dell'accertamento di grave iniquità. - 7 Tutela degli interessi collettivi.
1. Introduzione
In seguito all'emanazione da parte della Commissione, nel 1995, di una raccomandazione con la quale invitava gli Stati membri ad adottare “i provvedimenti giuridici e pratici necessari per far rispettare i termini di pagamento contrattuali nelle transazioni commerciali e per assicurare migliori termini di pagamento negli appalti pubblici”146 e che non aveva condotto a nessun concreto risultato, il 29 giugno 2000 si giungeva all'approvazione, da parte del Parlamento europeo e del Consiglio, della direttiva 2000/35/CE, relativa alla “lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.
Essa ha rappresentato un provvedimento di particolare significato, poiché da un lato "la Comunità europea è per la prima volta intervenuta su un punto centrale del diritto delle obbligazioni senza trincerarsi dietro il paravento della necessità di tutelare il consumatore"147, dall'altro, per la prima volta, ha anche ritenuto di doversi occupare dei problemi legati all'attività contrattuale delle imprese, e più precisamente delle piccole e medie imprese148.
Le ragioni che hanno spinto la CE alla sua adozione sono sostanzialmente rinvenibili all'interno dei “considerando” che accompagnano la direttiva stessa, in particolare quelli nn. 7, 9, 10, 19, che si possono riassumere in quanto segue:
145 V. Parere del Comitato economico e sociale alla Commissione europea sui termini di pagamento nelle transazioni commerciali, in G.U.C.E. n. C. 49 del 13 settembre 1993.
146 Raccomandazione del 12 maggio 1995, in G.U.C.E. n. L. 127, 10 giugno 1995, p. 3.
147 A.XXXXXXXX, La direttiva 2000/35/CE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Studium Juris, 2001, III, p. 259
148 Ciò emerge in maniera ancora più chiara in seguito all'emanazione della direttiva 2011/7/UE, in cui l'art. 1 della direttiva 2000/35/CE viene sostituito con la presente disposizione: “Lo scopo della presente direttiva è di lottare contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato interno, favorendo in tal modo la competitività delle imprese e in particolare delle PMI”
a) I termini contrattuali eccessivi e i ritardi di pagamento costituiscono un ostacolo al buon funzionamento del mercato interno, impongono pesanti oneri amministrativi e finanziari alle imprese creditrici, costituiscono una tra le principali cause di insolvenza e determinano la perdita di numerosi posti di lavoro;
b) Ciò limita notevolmente le transazioni commerciali tra gli Stati membri e di conseguenza contrasta con l'articolo 14 del Trattato;
c) Si vuol prevenire l'abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, nonché evitare che le notevoli differenze tra le norme e le prassi degli Stati membri generino distorsioni della concorrenza.
La direttiva 2000/35/CE è stata così recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. 9 ottobre 2002, n.231, il quale, di fatto, si presentava come una “fotocopia149” della stessa normativa comunitaria.
Una parziale modificazione all'ambito di applicazione della disciplina di cui si tratta è stata successivamente apportata dall'art. 62 del D.L. n. 1/2012, con il quale è stata introdotta una deroga per i contratti commerciali aventi ad oggetto la cessione di prodotti agro-alimentari. Il regolamento ministeriale di attuazione della presente decreto, inoltre, ha espressamente qualificato come abusive le clausole che escludano l'applicazione degli interessi di mora a danno del creditore o escludano il risarcimento dei costi di recupero dei crediti (che saranno successivamente oggetto di trattazione).
149 X.XXXXX, La direttiva 2000/35 sui ritardati pagamenti e la legge comunitaria 2001 di delega al Governo per la sua attuazione, in CorrG, 802 ss. Dello stesso parere, X.FINESSI, in Contratti tra imprese e disciplina del tempus solutionis dei corrispettivi pecuniari, Riv. Dir. Civ., 2015, 4, 10803, nel quale “non solo si denuncia una acritica riproduzione delle disposizioni del provvedimento europeo — nei contenuti e nella terminologia —, ma si segnala altresì la grave assenza di coordinamento della novellata disciplina con le regole già in vigore nel nostro sistema giuridico sia in materia di termini legali di pagamento delle obbligazioni pecuniarie, sia sotto il profilo delle conseguenze del ritardo”.
150 X.XXXXX, "Accordo gravemente iniquo” e “riconduzione ad equità” nell'art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, Contratto e Impr., 2006, 1, p. 166
In data 31 ottobre 2012, il Consiglio dei Ministri ha seguitamente approvato un decreto legislativo151 recante modifiche152 al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, per l'integrale recepimento della direttiva 2011/7/UE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
Anche in questo caso, gli obiettivi della direttiva possono essere desunti dall'analisi dei ancor più numerosi “considerando” che la accompagnano, i quali sono per lo più specificazioni degli stessi “considerando” presenti all'interno della direttiva 2000/35/CE. L'adozione di quest'ultimo decreto legislativo ha inoltre posto diversi problemi interpretativi nella dottrina, in particolare in merito al coordinamento con la deroga apportata al settore agro-alimentare di cui sopra.
Pressoché contemporaneamente, il Parlamento nazionale ha inoltre introdotto, con l. 11 novembre 2012, n.180 recante “Norme per la tutela della libertà d'impresa.
Statuto delle imprese”, una disposizione, di cui all'art. 10, co. 2, con la quale ha modificato l'art. 3-bis della l. n. 192/1998 sulla subfornitura nella parte in cui ha previsto un'ulteriore fattispecie tipica integrante abuso di dipendenza economica. A tenore di tale norma, infatti, l'AGCM è dotata della competenza a procedere alle sanzioni e alle diffide di cui all'art. 15 l. n. 287/1990 qualora ravvisi che un abuso di dipendenza economica abbia rilevanza per la tutela della concorrenza e del mercato; e tale abuso si configura a prescindere dall'accertamento della dipendenza economica, “in caso di violazione diffusa e reiterata della disciplina di cui al decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231, posta in essere ai danni delle imprese, con particolare riferimento a quelle piccole e medie”.
Il tenore letterale di questa disposizione conferma inoltre l'espressa volontà non solo del legislatore comunitario, ma anche di quello nazionale, di tutelare primariamente piccole e medie imprese.
Infine, è doveroso da ultimo ricordare che ulteriori precisazioni e mutamenti sono stati apportati alla normativa in esame da parte della legge europea 2013 bis, l. 30 ottobre 2014, n. 161, art. 24.
151 D.lgs. 9 novembre 2012, n. 192.
152 Le modifiche introdotte consistono in: sostituzione integrale degli artt. 1, 2, 4, 5, 6, 7. L'art. 3 subisce una parziale modifica, prevedendo che dopo le parole “interessi moratori” siano inserite le seguenti “sull'importo dovuto”. L'art. 8 subisce una parziale modifica, disponendo che la lettera a) sia sostituita dalla seguente: “a) di accertare la grave iniquità, ai sensi dell'art. 7, delle condizioni generali concernenti il termine di pagamento, il saggio degli interessi moratori o il risarcimento per i costi di recupero e di inibirne l'uso”
2. Ambito di applicazione
Il campo di applicazione della normativa di cui al d.lgs. n. 231/2002 è delineato dal co. 1, art.1, riformulato dall'art. 1 del d.lgs. n. 192/2012, ai sensi del quale:
“Le disposizioni contenute nel presente decreto si applicano ad ogni pagamento effettuato a titolo di corrispettivo in una transazione commerciale”.
La disposizione in esame ha suscitato notevoli perplessità in dottrina a causa delle varie possibili interpretazioni che si prestavano al riguardo. Tuttavia, soccorre in aiuto dell'interprete l'art. 2, rubricato “definizioni”, il quale formula una serie di precisazioni volte alla miglior opera ermeneutica della disciplina in questione, a partire dalla definizione di “transazione commerciale”.
In tale nozione, pertanto, ai sensi dell'art. 2, lett. a), vi rientrano tutti quei “contratti, comunque denominati tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo”.
La norma in questione, dunque, nel delineare l'ambito soggettivo, si riferisce a imprese e pubbliche amministrazioni. In tal sede, tuttavia, si prenderà in considerazione solo la disciplina dettata per i primi.
Infine, un'ulteriore delimitazione del campo di applicazione è introdotta dall'art. 11, co. 2 del decreto legislativo, il quale fa “salve le vigenti disposizioni del codice civile e delle leggi speciali che contengono una disciplina più favorevole per il creditore”.
2.1. Ambito oggettivo di applicazione
Nel delineare l'ambito di applicazione oggettivo della disciplina in esame, il legislatore nazionale si è riferito, come visto, alle “transazioni commerciali”, definite dall'art. 2, lett. a) come i “contratti, comunque denominati … che comportano, in via esclusiva o prevalente, la consegna di merci o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo”.
Una larga parte della dottrina ha rilevato come il legislatore non si sia preoccupato di individuare nella transazione commerciale un nuovo “tipo” contrattuale, in quanto ha invece preferito attestare la sua attenzione sul profilo funzionale dell'operazione contrattuale; da qui, l'utilizzo dell'espressione “transazione commerciale”, con la
volontà di includervi tutti quegli accordi da cui nascano obbligazioni pecuniarie a fronte della consegna di merci o della fornitura di servizi.
Carattere essenziale di una transazione commerciale è dunque la presenza di un pagamento a titolo di corrispettivo. Ciò, oltre a richiamare direttamente l'adempimento di un'obbligazione pecuniaria, circoscrive il campo applicativo della normativa ai contratti con prestazione sinallagmatiche.
A conferma di ciò, si può richiamare l'inciso “in via esclusiva o prevalente”, il quale parrebbe giustificare una interpretazione volta a permettere un ampliamento della tipologia di figure contrattuali da far rientrare all'interno del concetto di “transazione commerciale”. Parte della dottrina153 ritiene infatti che con il criterio della prevalenza il legislatore italiano abbia voluto facilitare il compito dell'interprete, consentendo allo stesso, di fronte alla fattispecie negoziale in cui sia presente il contenuto minimo di uno scambio tra merci o servizi contro il corrispettivo in denaro, di ricondurre la fattispecie alla disciplina speciale di cui trattasi. Altro indirizzo dottrinario, meno recente, a contrario, sostiene che l'utilizzo di tale espressione sia invece volta a limitare l'efficacia della disciplina comunitaria, sottraendo ad essa i contratti nei quali non figurano come prevalenti la funzione di scambio di merce o la prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo (c.d. contratti misti)154.
Assunto che il dato qualificante di una transazione commerciale si rinvenga nel nesso di corrispettività tra due prestazioni, è pertanto possibile ritenere che siano esclusi dall'ambito di operatività della presente disciplina:
“a) i contratti non aventi per oggetto la prestazione di cose o il compimento di un'opera o di un servizio, in particolare i contratti di credito;
b) le obbligazioni derivanti dai contratti previsti nell'art. 2 non a titolo di corrispettivo;
153 X.XXXXXXXX, Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Commentario del codice civile, Delle obbligazioni, a cura di Xxxxxxxx Xxxxxxx, 2013, p. 638.
154 X.XXXXX, Xx x.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della Direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, in Corriere giur., 2003, 1, p. 102.
155 X.XXXXXXX, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in
Un cenno merita infine il termine “merci”. Al riguardo, la dottrina rileva come, nel darne una definizione appropriata, ci si debba riferire all'uso che di esso ne fa il diritto comunitario nei Trattati e alla nozione che di esso ha dato la Corte di Giustizia156, per la quale devono ritenersi rientrare in tale concetto “tutti quei prodotti pecuniariamente valutabili, come tali idonei a costituire l'oggetto di negozi commerciali … registrati e non, materiali e immateriali, già prodotti, o ancora da produrre, indirizzati al mercato … al contrario, non rientrerebbero nella nozione comunitaria di merci, rimanendo conseguentemente esclusi anche dall'ambito di applicazione della nuova normativa … i beni immobili”.
2.2. Ambito soggettivo di applicazione
Per poter qualificare come “transazione commerciale” un rapporto vincolante tra imprese, è necessario analizzare due profili: quello relativo al contenuto della prestazione dovuta, in quanto deve appunto trattarsi di obbligazioni pecuniarie che siano corrispettivo di scambio a fronte della consegna di beni o della prestazione di servizi; quello poi relativo alla qualità delle parti contrattuali.
A tal proposito, l'art. 2 lett. c) del d.lgs. n. 231/2002 chiarisce il significato del concetto di impresa utilizzato in tal contesto, definendo essa comprensiva di “ogni soggetto esercente un'attività economica organizzata od una libera professione”. La nozione di imprenditore adoperata in questa sede riflette così quella formulata in sede comunitaria, e conferma le intenzioni del legislatore comunitario di estendere l'ambito di applicazione soggettiva di tale disciplina, in modo da ricomprendervi
“soggetti svolgenti un'attività imprenditoriale, individuale e collettiva, inclusi piccoli imprenditori e imprenditori agricoli” nonché “lavoratori autonomi e soggetti esercenti una libera professione, sia in forma individuale che collettiva, ed a prescindere dal fatto che l'esercizio dell'attività di libero professionista sia subordinato o meno all'iscrizione in albi od elenchi”. Vi rientrerebbero, inoltre, “anche gli enti collettivi a scopo non economico, associazioni, dotate o meno di personalità giuridica, fondazioni o comitati quando esercitino attività d'impresa”157.
EurDP, pp. 73 ss.
156 X. Xxxxx, CEE, 10 dicembre 1968, causa n. 7/68, in Racc., 1968, 561 ss.
157 X.XXXXX, L'attuazione della direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: introduzione al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (prima parte), in Responsabilità civile e previdenziale, 2003, p. 251. Xxxxx stesso xxxxxxxxx, X.XXXXXXX, La direttiva
A conferma di questa impostazione, è possibile d'altronde richiamare in tal sede la l. 22 maggio 2017, n. 81, il quale, all'art. 2, co. 1, impone che le disposizioni del d.lgs.
n. 231/2002 si debbano applicare, in quanto compatibili “anche alle transazioni commerciali tra lavoratori autonomi e imprese … o tra lavoratori autonomi, fatta salva l'applicazione di disposizioni più favorevoli”.
Restano tuttavia esclusi dall'ambito soggettivo di applicazione di tale disciplina i consumatori, in virtù del “considerando n. 19”158 della direttiva 2011/7/UE. Questa esclusione si spiega a motivo della ratio della norma, introdotta per risolvere ed ovviare alle conseguenze a carico dei creditori derivanti dai ritardi nei pagamenti e consistenti in adempimenti e in oneri finanziari che ricadono sulle piccole e medie imprese e sui liberi professionisti.
3. La disciplina legale del ritardo in generale
I motivi per i quali si è dovuto provvedere in sede comunitaria alla determinazione di criteri legali del termine di pagamento nelle transazioni commerciali risultano chiaramente dai “considerando” della direttiva 2000/35/CE, dove era stato rilevato come le diverse disposizioni degli Stati membri in materia costituivano un “ostacolo al buon funzionamento del mercato interno” e che ciò “limita notevolmente le transazioni commerciali tra gli Stati membri”, in contrasto con l'art. 14 del Trattato, “secondo il quale gli operatori economici dovrebbero essere in grado di svolgere le proprie attività in tutto il mercato interno in condizioni che garantiscano che le operazioni transfrontaliere non comportino rischi maggiori di quelle interne”.
Si è perciò provveduto a formulare una disciplina esauriente, destinata tuttavia a trovare applicazione solo in via residuale, qualora le parti nulla abbiano determinato al riguardo ovvero nel caso in cui le previsioni delle parti subiscano un giudizio di abusività e vengano perciò dichiarate nulle ad opera del giudice.
2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Europa e diritto privato, 2001, p. 74.
158 v. anche considerando n. 8 direttiva 7/2011/CE, ai sensi del quale: “L’ambito di applicazione della presente direttiva dovrebbe essere limitato ai pagamenti effettuati a titolo di corrispettivo per una transazione commerciale. La presente direttiva non dovrebbe disciplinare le transazioni con i consumatori, gli interessi relativi ad altri pagamenti, ad esempio pagamenti a norma di legge per assegni o titoli di credito o pagamenti effettuati a titolo risarcimento danni, ivi compresi i pagamenti effettuati da un assicuratore.”
3.1. Termini di pagamento
La disciplina degli termini legali di adempimento della prestazione pecuniaria è contenuta all'interno dell'art. 4 d.lgs. 231/2002, ai sensi del quale, anche nella formulazione precedente alla riforma del 2012, era necessario distinguere a seconda che il termine dell'obbligazione fosse dedotto in contratto o meno. Nel primo caso, infatti, gli interessi moratori sarebbero decorsi, senza necessità di costituzione in mora, perciò automaticamente, dal giorno dopo la scadenza del termine convenzionalmente stabilito dalle parti, per la definizione del quale operava come unico limite all'autonomia negoziale delle parti contraenti la previsione del co.1 dell'art. 7 del d.lgs. 231/2002, il quale sanciva la nullità dell'accordo sulla data di pagamento qualora fosse risultata gravemente iniqua nei confronti del creditore, “avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza”. Viceversa, qualora non fosse stato pattuito un termine per l'adempimento della prestazione, ai sensi dell'art. 4 gli interessi moratori sarebbero iniziati a decorrere, sempre automaticamente, da un preciso termine legale (generalmente di 30 giorni), derogando la previsione generale di cui al co. 1 dell'art. 1183 c.c., che in caso di omessa indicazione del termine consente al creditore di esigere immediatamente la prestazione159.
159 Dell'opinione che l'art. 4, d.lgs. n. 231/2002 abbia posto una deroga al principio dell'immediata esigibilità della prestazione, quando non sia previsto alcun termine, di cui all'art. 1183 c.c., X.XXXXXXXXXX, La nuova normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, Xxxxxxx, Milano, 2003, p. 34; X.XXXXX, Xx x.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della Direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, in Corriere giur., 2003, 1, p. 107.
160 Art. 4, co. 3 e 4 nella formulazione originaria del d.lgs. n. 231/2002: “Per i contratti aventi ad oggetto la cessione di prodotti alimentari deteriorabili, il pagamento del corrispettivo deve essere effettuato entro il termine legale di sessanta giorni dalla consegna o dal ritiro dei prodotti medesimi e gli interessi decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine. In questi casi il saggio degli interessi di cui all'articolo 5, comma 1, è maggiorato di ulteriori due punti percentuali ed è inderogabile. Le parti, nella propria libertà contrattuale, possono stabilire un termine superiore rispetto a quello legale di cui al comma 3 a condizione che le diverse pattuizioni siano stabilite per iscritto e rispettino i limiti concordati nell'ambito di accordi sottoscritti, presso il Ministero delle attività produttive, dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della produzione, della trasformazione e della distribuzione per categorie di prodotti deteriorabili specifici.”
il termine legale era pari a 60 giorni e il tasso di interesse moratorio era maggiorato in via inderogabile di due punti percentuali, si assiste all'aggiunta di diversi nuovi commi, che tuttavia non mutano in maniera incisiva la disciplina sostanziale. Infatti, le ipotesi tassative di termini legali rimangono praticamente inalterate.
Pertanto, ai sensi dell'art. 4, co. 2, “salvo quanto previsto dai commi 3, 4 e 5, ai fini della decorrenza degli interessi moratori si applicano i seguenti termini:
a) trenta giorni dalla data di ricevimento da parte del debitore della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente. Non hanno effetto sulla decorrenza del termine le richieste di integrazione o modifica formali della fattura o di altra richiesta equivalente di pagamento”, e ciò al fine di dissuadere il debitore da comportamenti del tutto pretestuosi per poter ritardare il pagamento;
“b) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla data di prestazione dei servizi, quando non è certa la data di ricevimento della fattura o della richiesta equivalente di pagamento;
c) trenta giorni dalla data di ricevimento delle merci o dalla prestazione dei servizi, quando la data in cui il debitore riceve la fattura o la richiesta equivalente di pagamento è anteriore a quella del ricevimento delle merci o della prestazione dei servizi;
d) trenta giorni dalla data dell'accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell'accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data”.
Affinché possa pertanto decorrere il termine ed i conseguenti interessi moratori, è necessario che si realizzino entrambi i presupposti previsti dall'art. 4, precisamente: in primo luogo, dal lato del debitore, il ricevimento di una fattura o in alternativa di una
richiesta di pagamento dal contenuto equivalente161, momento dal quale potranno
161 Quanto al termine “fattura”, vedi A.FINESSI, op. cit., secondo la quale “può confermarsi la validità di una interpretazione estensiva del termine, e ritenere ad esso riconducibile ogni documento che certifica fiscalmente l'operazione da cui sorge l'obbligo di pagare il corrispettivo, comprensivo quindi della ricevuta e dello scontrino fiscale”, ed in quanto atto recettizio il termine legale decorre dal giorno in cui il documento giunge all'indirizzo del destinatario/acquirente. “Alla fattura è poi equiparata, per l'individuazione del dies a quo, una “richiesta di pagamento di contenuto equivalente”, ossia contenente gli estremi essenziali del documento fiscale, quali, a titolo esemplificativo, i dati identificativi del debitore e quelli relativi alla prestazione … l'equivalenza non va pertanto intesa sotto il profilo della sua idoneità a costituire in mora il debitore – efficacia che non può riconoscersi alla fattura – bensì sotto il profilo contenutistico, per cui la decorrenza degli interessi moratori è collegata al ricevimento di una richiesta contenente gli estremi essenziali
decorrere i termini; in secondo luogo, l'esecuzione della prestazione, ossia la consegna del bene o la prestazione del servizio dedotto in contratto. Qualora poi non fosse certa la data di ricevimento della fattura da parte del debitore, il termine inizierebbe a decorrere dal momento in cui si sono ricevute le merci o prestati i servizi.
Oltre a non incidere sulle fattispecie di termini legali previsti dall'art. 4, l'intervento legislativo del 2012 non ha escluso la possibilità che le imprese possano convenzionalmente pattuire per le loro transazioni dei termini per l'adempimento più elevati rispetto a quelli previsti dal co. 2.
Ai sensi del co. 3, art. 4, è infatti previsto che le parti contraenti, in una transazione commerciale tra imprese “possano pattuire un termine per il pagamento superiore rispetto a quelli previsti dal comma 2”, ma che tuttavia, qualora siano stabiliti “termini superiori a sessanta giorni, purché non siano gravemente iniqui per il creditore ai sensi dell'art. 7” questi ultimi “devono essere pattuiti espressamente” e, in particolar modo, “la clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto”. Pertanto, alla stregua della precedente formulazione dell'art. 7, l'unica modifica da segnalare è che, in conseguenza dell'intervento legislativo del 2012, le norme relative al termine hanno mutato natura, passando dall'avere carattere suppletivo ad assumerne uno dispositivo162. Infatti, anche nella formulazione dettata dal d.lgs. n. 192/2012, si salvaguardia l'ampia autonomia contrattuale riconosciuta ai contraenti, che si sostanzia nella conferma della derogabilità ad opera delle parti del contenuto contrattuale, in particolare con la possibilità di stabilire un termine per l'adempimento superiore a quelli legali, con la limitazione, qualora sia superiore a sessanta giorni, che non debba risultare gravemente iniquo nei confronti del creditore, che debba essere pattuito espressamente e che debba essere stipulato in forma scritta, richiesta ad probationem.
Inoltre, si mantiene l'ordine gerarchico di applicazione dei criteri per la determinazione del termine dell'adempimento, in cui si pone al vertice la volontà delle parti; infatti, la disciplina legale dei termini previsti per l'adempimento delle
della fattura, e idonea ad assolvere alla funzione documentale fiscale propria di quest'ultima”.
162 A.FINESSI, op. cit., esprime questo cambiamento di natura della previsione in conseguenza del mutato tenore letterale del testo; infatti, nel previgente “art. 4 d.lgs. n.231/2002 si leggeva “se il termine di pagamento non è stabilito nel contratto gli interessi decorrono (…) dalla scadenza del seguente termine legale”, mentre quello attuale inizia con “salvo quanto previsto dai commi 3°, 4° e 5° (...)””
prestazioni aventi ad oggetto corrispettivi pecuniari trova applicazione solo qualora le parti di una transazione commerciale non abbiano pattuito espressamente tale termine, o qualora questo risulti gravemente iniquo in danno del creditore.
Occorre, infine, rilevare che il criterio legale della “scadenza del termine” di cui al co. 1 dell'art. 4 risulta sufficientemente generico al punto da poter essere applicato ad ogni tipo di transazione commerciale, sia ad esecuzione istantanea che ad esecuzione differita163. Del resto, i successivi commi 6 e 7 dell'art. 4, prevedono, il primo, l'ipotesi in cui sia prevista una procedura diretta ad accertare la conformità al contratto della merce o del servizio, la quale non può durare più di trenta giorni, salvo diverso accordo delle parti nei limiti sopracitati; il secondo, invece, l'ipotesi in cui sia pattuito un pagamento del prezzo a rate, per cui si precisa che nel caso in cui una delle rate non sia pagata alla sua scadenza, gli interessi ed il risarcimento sono computati sulla base dei soli importi scaduti.
Quest'ultima previsione, peraltro, deve necessariamente essere coordinata con la disciplina contenuta nel codice civile.
In particolare, qualora il debitore non dovesse adempiere al pagamento di una rata e avesse diminuito le garanzie prestate, in base all'art 1186164 c.c. il creditore potrebbe immediatamente esigere l'intera prestazione; di conseguenza, il debitore si troverebbe costretto a dover pagare l'intera somma dedotta in contratto, e su quest'ultima si dovranno necessariamente calcolare sia gli interessi moratori, sia l'eventuale ulteriore danno da risarcire165.
3.2. La determinazione del saggio degli interessi moratori
La riforma del 2012, dopo aver toccato e riformulato gli articoli precedenti, non poteva lasciare intaccato l'art. 5 d.lgs. 231/2002.
In base all'originario art. 5, infatti, si prevedeva che, salvo diversa pattuizione contrattuale, il saggio degli interessi legali di mora dovesse essere determinato in
163 X.XXXXXXXX, op. cit., cit. p. 668
164 Art. 1186 c.c.: “Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva dato o non ha dato le garanzie che aveva promesso”.
165 X.XXXXXXXXXXX, I ritardi di pagamento nel prisma (novellato) delle fonti: (nuovi) profili generali, a cura di X. Xxxxxxxxxxx e X.X.Xxxxxxxxx, Xxxxxxx, 2015, p. 821, suggerisce in alternativa una lettura restrittiva dell'art. 1186, per renderlo azionabile soltanto qualora il mancato adempimento della prestazione prevista dalla rata costituisca inadempimento di non scarsa importanza.
misura pari al saggio di interesse del principale strumento di rifinanziamento della Banca Centrale Europea applicato alla più recente operazione di rifinanziamento principale166 effettuata il primo giorno di calendario di ciascun semestre solare, maggiorato di sette punti percentuali.
In tal modo, stante la previsione di un tasso di mora di gran lunga superiore a quello previsto in via generale dall'art. 1284 c.c., si tentava di introdurre, oltre che una migliore compensazione per il creditore, un deterrente nei confronti del debitore a tenere condotte procrastinatrici nell'adempimento della prestazione pecuniaria.
Nella prospettiva del legislatore comunitario167, infatti, la presenza di bassi livelli di tassi di interesse di mora nella maggior parte degli Stati membri, o addirittura la loro assenza, costituiva, insieme alla lentezza del sistema di recupero degli stessi, uno dei fattori che rendevano finanziariamente attraente per i debitori il ritardato adempimento della prestazione pecuniaria.
Pertanto, l'art. 5, oltre ad assolvere in primo luogo ad una funzione compensativa, a favore del creditore, assurgeva secondariamente ad una funzione punitiva, nei confronti del debitore, “di un contegno produttivo di danni che si propagano all'intero sistema dei traffici commerciali168”.
Nella sua nuova formulazione, l'art. 5 non muta il precedente assetto, per cui la determinazione degli interessi legali di mora continua ad ancorarsi al “tasso di interesse applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali”.
Tale tasso di riferimento, in base al co. 3 dell'art. 5, si determina:
a) per il primo semestre dell'anno cui si riferisce il ritardo, dal tasso in vigore il 1° gennaio di quell'anno;
b) per il secondo semestre, dal tasso in vigore il 1° luglio dello stesso anno. Tuttavia, in virtù della maggiorazione apportata all'interno dell'art. 6, co. 6 direttiva
2011/7/UE, al tasso di interesse applicato dalla BCE dovranno aggiungersi otto punti percentuali, diversamente dalla precedente disposizione.
166 Definito dal precedente art. 2, lett. e) d.lgs. n. 231/2002: “Il saggio di interesse applicato a simili operazioni nei casi di appalti a saggio fisso. Nel caso in cui un'operazione di rifinanziamento principale sia stata effettuata secondo una procedura di appalto a saggio variabile, il saggio di interesse si riferisce al saggio di interesse marginale che risulta da tale appalto. Esso riguarda anche le aggiudicazioni a saggio unico e le aggiudicazioni a saggio variabile”
167 Considerando n. 16 direttiva 2000/35/CE; Considerando n. 12 direttiva 2011/7/UE.
168 X.XXXXX, op. cit., cit. p. 111.
Il saggio legale degli interessi moratori così ottenuto deve essere successivamente sottoposto ad un regime di pubblicità legale in virtù del co. 3 dell'art. 5, ai sensi del quale “Il Ministero dell'economia e delle finanze dà notizia del saggio di cui al comma 1, al netto della maggiorazione ivi prevista, curandone la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana nel quinto giorno lavorativo di ciascun semestre solare”.
3.3. Risarcimento dei costi di recupero dei crediti
La questione del risarcimento dei costi sostenuti dal creditore a causa del ritardo di pagamento è stato oggetto di particolare attenzione sia da parte della direttiva 2000/35/CE sia da quella 2011/7/UE.
In entrambe, infatti, vi sono numerosi considerando e articoli che ne trattano e dai quali risulta evidente come, nella prospettiva del legislatore comunitario, un risarcimento equo dei creditori possa servire a disincentivare i ritardi di pagamento. Tale risarcimento dovrebbe coprire varie spese effettuate dal creditore, quali i costi amministrativi e i costi interni causati dal ritardo di pagamento, per i quali dovrebbe determinarsi un importo minimo forfettario, nonché, in particolare, i costi sostenuti dal creditore per aver affidato un incarico a un avvocato o a un’agenzia di recupero crediti.
Nel delineare questi rimedi risarcitori, inoltre, le direttive fanno salve le eventuali disposizioni nazionali sulla base delle quali l’autorità giurisdizionale nazionale può concedere al creditore un risarcimento per eventuali danni aggiuntivi connessi al ritardo di pagamento del debitore.
In attuazione della direttiva 2011/7/UE, l'attuale art. 6, co. 1, del d.lgs. n. 231/2002 dispone così che “nei casi previsti dall'art. 3, il creditore ha diritto anche al rimborso
169 Diritto che, come conferma l'inserimento da parte del legislatore nel 2012 della congiunzione “anche”, si aggiunge al diritto del creditore di percepire gli interessi moratori, non risultando pertanto ricompreso in esso.
dei costi sostenuti per il recupero delle somme non tempestivamente corrisposte”. Inoltre, al co. 2, è previsto che “al creditore spetti, senza che sia necessaria la costituzione in mora, un importo forfettario di 40 euro a titolo di risarcimento del danno” ed è inoltre “fatta salva la prova del maggior danno, che può comprendere i costi di assistenza per il recupero del credito”.
Nel procedere ad un'analisi di tale disposizione, si conferma l'ipotesi avanzata all'inizio secondo la quale la disciplina nazionale ricalca fedelmente quella formulata a livello europeo.
In primo luogo, in effetti, la previsione di un importo forfettario di 40 euro a titolo di risarcimento del danno è prevista puntualmente dall'art. 6, co. 1, della direttiva 2011/7/UE e vi si riferisce anche il “considerando” n. 19, il quale appunto intende ristorare il creditore dei costi c.d. interni che lo stesso deve sopportare per ottenere la prestazione pecuniaria da parte del debitore, comprensive di costi per l'utilizzo di risorse interne quali personale e mezzi, nonché le c.d. spese vive, quale ad esempio le spese sostenuto per la spedizione via posta. Si ha diritto a tale importo a prescindere dal costo effettivamente sostenuto, pertanto anche nell'inverosimile ipotesi in cui non siano state sostenute spese di alcun genere.
In secondo luogo, anche la possibilità prevista per il creditore di dimostrare il maggior danno subito è espressamente dettata dal co. 3 dell'art. 6 della stessa direttiva 2011/7/UE, la quale ascrive tra i possibili costi che si intende ristorare in tal modo i costi c.d. esterni di assistenza per il recupero del credito, quali quelli derivanti da eventuali incarichi conferiti a professionisti e, in maniera più generica, il ristoro di tutte le conseguenze pregiudizievoli che il ritardato pagamento determina sul patrimonio e sull'attività del creditore, in particolare il danno da svalutazione monetaria. Con quest'ultima tutela si vuol accordare “ai suddetti creditori un risarcimento il più completo possibile delle spese di recupero che hanno sostenuto, al fine di disincentivare siffatti ritardi di pagamento170”.
Tale facoltà, peraltro, conferma il diritto del creditore di esigere il pieno risarcimento del pregiudizio sofferto così come stabilito, in via generale, dall'art. 1224, co. 2, c.c., il quale attribuisce un ulteriore risarcimento al creditore che dimostri di aver subito un
danno maggiore rispetto all'ammontare degli interessi171.
170 Corte di Giustizia UE, Sez. IX, Sent., 13 settembre 2018, n. 287/17.
171 A.XXXXXXXX, op.cit, p. 268.
In ordine invece alla quantificazione del danno da risarcire, la versione precedente dello stesso art. 6 del d.lgs. n. 231/2002 disponeva che “i costi, comunque rispondenti a principi di trasparenza e di proporzionalità, potessero essere determinati anche in base ad elementi presuntivi e tenuto conto delle tariffe forensi in materia stragiudiziale”. Si lasciava così ampia discrezionalità al giudice, non fissando alcun massimale e legando la determinazione dei costi di recupero del pagamento tardivo a criteri di valutazione elastici nonché ad elementi presuntivi173.
L'attuale art. 6, invece, non àncora la stima dei costi a dei criteri definiti, lasciandola al libero apprezzamento del giudice, supportato dalle prove introdotte in giudizio dal creditore. Peraltro, parametri che possano orientare la scelta del giudice sono rinvenibili all'interno della citata direttiva, la quale compie dei riferimenti all'”equo”174 e “ragionevole”175 risarcimento dei creditori.
Sulla base di tale presupposto, il risarcimento non può così “comprendere né la parte di tali costi già coperta dall'importo forfettario di euro quaranta di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo, né costi che appaiano eccessivi tenuto conto di tutte le circostanze del caso di specie176”.
172 A. FINESSI, op. cit., ha prospettato problemi di coordinamento del co. 2 art. 6 d.lgs. 231/2002 con il co. 2 dell'art. 1224 c.c., ai sensi del quale il creditore non ha diritto al risarcimento del maggior danno se è stata convenuta la misura degli interessi moratori. Tuttavia, dal momento che “la pattuizione con cui si convengono interessi moratori in misura superiore a quella legale è giuridicamente qualificabile in termini di clausola penale, conformemente a quanto statuito dall’art. 1382, comma 1°, c.c., deve ammettersi la risarcibilità del danno ulteriore qualora i contraenti lo abbiano espressamente convenuto”. Su quest'ultimo punto, si veda altresì Xxxx. 7 aprile 1992, n. 4251.
173 A.VENCHIARUTTI, La normativa in tema di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, profili generali, in I ritardi nei pagamenti, la tutela dei creditori nelle “transazioni commerciali”, aspetti civili, processuali, fiscali, contabili, a cura di X. Xxxxxxxxx e A. Xxxxxxxxxxxx, 2004, Xxxxxxx editore, p. 28.
174 Considerando n. 19 direttiva 2011/7/UE.
175 Art. 6, co. 3 direttiva 2011/7/UE.
176 Corte di Giustizia UE, Sez. IX, Sent., 13 settembre 2018, n. 287/17.
Si ricorda, a conclusione di questo aspetto, che, ai sensi dell'art. 7, co. 4, d.lgs. n. 231/2002, “si presume che sia gravemente iniqua la clausola che esclude il risarcimento per i costi di recupero di cui all'art. 6”. Pertanto, qualora non sia possibile supportare l'esclusione del risarcimento per i costi di recupero con ragioni oggettive che la possano giustificare, essa sarà considerata abusiva e dichiarata nulla dal giudice.
4. Derogabilità della disciplina ad opera dei contraenti
Come si è visto, la disciplina legale di cui al d.lgs. n. 231/2002, nel dettare i termini legali di adempimento della prestazione pecuniaria, il saggio legale di interessi moratori e il risarcimento dei costi sostenuti per le spese di recupero dei crediti, fa salve eventuali pattuizioni differenti delle imprese contraenti.
Converrà pertanto procedere nella trattazione di tale materia con una analisi delle possibili deroghe al regime legale che le parti possono apportare nella regolazione dei loro rapporti commerciali, tenuto conto che la loro libertà di determinazione del contenuto contrattuale non risulta incondizionata, bensì soggiace a penetranti ed incisivi limiti.
4.1. Deroga relativa al termine della prestazione pecuniaria
Per quanto concerne innanzitutto la determinazione convenzionale dei termini, come è stato già evidenziato, l'ordinamento appresta dei limiti sia formali che sostanziali.
Da un lato, infatti, per quanto attiene ai profili sostanziali, si vieta ex art. 7 d.lgs. n. 231/2002 che possano essere stipulate clausole contrattuali gravemente inique in danno del creditore, come, ad esempio una clausola con un termine di pagamento eccessivamente differito.
E' inoltre previsto, in virtù dell'art. 7-bis, introdotto dall'art. 24, co. 3, lett. b) della l. n. 161/2014, che l'eventuale prassi relativa al termine, quando risulti gravemente iniqua in danno del creditore, dia diritto ad un risarcimento del danno.
Quanto, invece, ai profili formali, il co. 3 dell'art. 4 impone una forma scritta ad probationem177, qualora il termine concordato dalle parti sia superiore a quelli legali; qualora, invece, il termine pattuito dai contraenti sia addirittura superiore a sessanta giorni, occorrerà altresì un'espressa pattuizione.
Ciò non comporta una determinata forma, ma è sufficiente che le parti, anche solo verbalmente, abbiano manifestato, in modo chiaro ed inequivocabile, la volontà di posticipare i termini di pagamento, “senza che residui alcun margine per una manifestazione di volontà implicita178”.
E' da notare che la normativa in commento non pone alcuna sanzione in caso di violazione del requisito della pattuizione espressa.
Tuttavia, è da ritenere che una clausola non espressa di determinazione del termine di pagamento non possa produrre effetti; essa infatti non si rivelerebbe sufficiente a tutelare la posizione del creditore quando il termine pattuito dalle imprese contraenti venga più che raddoppiato179. In una siffatta ipotesi, pertanto, si dovranno rispettare i termini legali sanciti dall'art. 4, co. 2.
E' infine necessario ribadire in tal sede l'espressa possibilità prevista per le parti di concordare un pagamento a rate sancito dall'art. 4, co. 7, nonché è da ritenere, pur nel silenzio della norma, che le parti abbiano la possibilità di concordare un termine inferiore a quelli previsti dal d.lgs. n. 231/2002.
4.2. Deroga al saggio di interesse legale
Per quanto attiene, invece, al regime legale di determinazione del saggio degli interessi moratori, anche questo è contenuto in una norma dispositiva, derogabile dalle imprese contraenti che, nel libero esercizio della loro autonomia privata, possono pattuire un tasso d'interesse superiore o inferiore alla misura legale.
177 X.XXXXXXXXXXX, I ritardi di pagamento al tempo della crisi. Note sparse, in Persona e mercato, 2013, 3, p. 198, ritiene che a tal fine possa reputarsi sufficiente un ordine, una conferma d'ordine o una fattura riportante la causale di pagamento posteriore a trenta giorni, e precisa correttamente che la prova per iscritto può essere fornita anche via fax o per posta elettronica, come previsto dagli artt. 20 e 21 cod. amm. Dig.
178 A.FINESSI, op. cit.
179 Così X.XXXXXXXXXXX, op. cit., p. 199.
La dottrina180 si è a lungo interrogata sulla natura giuridica delle clausole con cui le parti determinano la misura degli interessi moratori, con riguardo alla fattispecie prevista dall'art. 1224, co. 2, c.c., e ha concluso nel senso di qualificarla come clausola penale per il ritardo nell'adempimento, con conseguente applicabilità ad essa della disciplina ex artt. 1382 ss. c.c. e di convenire tra le parti anche la risarcibilità del danno ulteriore. Tuttavia, “nel caso in cui le parti abbiano determinato convenzionalmente un tasso diverso rispetto a quello di cui all'art. 5 d.lgs. n.
231/2002”, ciò potrebbe risultare superfluo, posto che “il successivo art. 6, infatti, prevede il diritto del creditore al risarcimento del maggior danno, effettivamente subito, come autonoma pretesa risarcibile qualora l'interesse e il risarcimento dei costi sostenuti per il recupero non siano di per sé sufficienti per risarcire pienamente il creditore che riceve un pagamento tardivo”181.
Premesso ciò, l'autonomia privata delle parti contraenti non risulta tuttavia del tutto libera ed incondizionata, stante la sussistenza di numerosi limiti imposti non solo dallo stesso decreto legislativo, ma anche dal sistema in generale.
In primo luogo è così possibile riscontrare un limite formale, previsto dall'art. 1284, co. 3 c.c., in base al quale gli interessi superiori alla misura legale devono essere determinati per iscritto ad substantiam, a pena di nullità con conseguente fissazione di questi ultimi nella misura legale di cui all'art. 5, in base al meccanismo di sostituzione automatica ex lege con la norma imperativa previsto ex art. 1419, co.2, c.c.
Sotto il profilo contenutistico, invece, operano ulteriormente due limiti.
Infatti, l'eventuale determinazione di un tasso di interesse inferiore a quello stabilito dal decreto in questione è senza dubbio valutabile dal giudice alla luce dell'art. 7 e del
180 Ne tratta compiutamente A.FINESSI, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali: commento agli artt. 3, 4, 5 d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, in Le nuove leggi civili commentate, 2004, 3, p. 559, secondo il quale la questione può essere riproposta anche con riferimento all'art. 5 del decreto legislativo in esame.
181 Testualmente, A.FINESSI, ult. op. cit., cit. p. 560
182 Così X.XXXXXXXXXX, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 5 D.lgs. n. 231/02), in Giur. it., 2003, p. 2420; A. FINESSI, ult. op. cit, p. 554.
criterio della grave iniquità ivi inserito, con possibile conseguente dichiarazione di nullità da parte dello stesso e applicazione del tasso legale di interesse.
E' qui inoltre opportuno rilevare che, ai sensi del co. 4, art. 7 del d.lgs. n. 231/2002, “si considera gravemente iniqua la clausola che esclude l'applicazione di interessi di mora” e “non è ammessa prova contraria”183. Di conseguenza, qualora una clausola del genere dovesse essere inserita nel contratto, essa sarà automaticamente considerata abusiva con conseguente dichiarazione di nullità della stessa ad opera del giudice.
Accanto a siffatta previsione, è prevista anche una presunzione assoluta di grave iniquità per la prassi che esclude l'applicazione di interessi moratori, in virtù dell'art. 7-bis, introdotto dall'art. 24, co. 3, lett. b) della l. n. 161/2014.
Infine, un secondo limite sul contenuto opera qualora le parti contraenti decidessero di fissare il tasso di interesse in misura superiore a quello legale. In tal caso, infatti, si pone un problema di compatibilità con le previsioni dell'art. 2 l. 28 febbraio 1996, n. 108, il quale fissa delle soglie oltre le quali si profilerebbe il rischio di incorrere nelle conseguenze sanzionate dalla normativa sull'usura184. Secondo la dottrina maggioritaria, peraltro, la problematica in esame potrebbe porsi soltanto in caso di usura c.d. “soggettiva” – altresì detta “concreta” – che ricorre, in base all'art. 644 c.p., co. 3, quando “gli interessi … e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano … sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità” e “chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria”. Nell'ipotesi in cui le parti, pertanto, dovessero pattuire un saggio di interessi soggettivamente usuraio, si è discusso in dottrina di quali sarebbero potute essere le conseguenze e le specifiche tutele.
183 Già prima che tale presunzione assoluta di abusività venisse prevista a livello legislativo, ne lamentavano la sicura iniquità A.FINESSI, ult. op.cit., p. 554; X. XXXXXXXXXX, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art.5 D.lgs. n. 231/2002), in Giur. it., 2003, p. 2420.
184 Sull'applicabilità della normativa sull'usura anche agli interessi di mora, v. Corte Cost. 25 febbraio 2002, n. 29, in CorrG, 2002, p. 609, in cui si afferma che “il riferimento contenuto nell'art. 1, comma 1, del decreto legge n. 394 del 2000, agli interessi “a qualunque titolo convenuti”, rende plausibile, senza necessità di specifica motivazione, l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori”. Vedi anche Xxxx. 9 gennaio 2013, n. 350; Cass. 11 gennaio 2013, n. 602.
Si ha di conseguenza operato un rinvio al combinato disposto degli artt. 1418 e 1419, co. 2 c.c., con l'effetto prima di dichiarare la nullità della clausola che dispone il tasso usuraio per contrarietà a norma imperativa, ed in seguito applicare il tasso legale sancito ex lege per la fattispecie concreta, quindi quello determinato dall'art. 5 d.lgs. n. 231/2002186.
Peraltro, stante la riconosciuta natura giuridica della clausola con cui si pattuiscono interessi moratori e la sua riconducibilità alla disciplina di cui agli artt. 1382 ss., come prima evidenziato, qualora le parti pattuiscano un termine usurario, il giudice può altresì usare lo strumento previsto ex art. 1384187 c.c. e ridurne l'ammontare secondo equità, ma ragionevolmente non al di sotto del tasso stabilito dall'art. 5 del d.lgs. n.
231/2002.
4.3. Deroga sulla clausola concernente il risarcimento del danno
La questione relativa all'eventuale derogabilità della disposizione concernente il risarcimento dei costi sostenuti per le spese di recupero dei crediti è stata molto dibattuta in dottrina, almeno fino alla riforma del 2012. Da un lato, infatti, vi era chi ha sostenuto il carattere imperativo dell'art. 6 d.lgs. n. 231/2002, inderogabile ad opera delle parti188; dall'altro invece, chi ne riconosceva il carattere sostanzialmente
185 In senso favorevole ad una esclusione dell'applicazione dell'art. 1815, co. 2, v. X.XXXXXXXX, Le obbligazioni pecuniarie: inflazione e maggior danno, in Trattato della responsabilità contrattuale, diretto da X. Xxxxxxxxx, Vol. I, Inadempimenti e rimedi, Padova, CEDAM, 2009 , p. 513, il quale aggancia la sanzione di nullità di cui al comma 2 dell'art. 1815 c.c. ad una specifica logica del contratto di mutuo; v. altresì X.X.XXXXXXXX, Carte di credito revolving: inadempimento di singole rate, “oneri economici” ed usura civilistica, in Contratti, 2010, p. 1061 ss, il quale sostiene che tramite l'applicazione dell'art. 1815, co. 2 si premierebbe il debitore inadempiente, diversamente dalla ratio di tutela del creditore di cui al d.lgs. n. 231/2002.
186 v. A.FINESSI, op. cit., secondo la quale può ottenere lo stesso risultato anche attraverso un differente percorso argomentativo “anche chi (…) ritiene che il suddetto patto, accompagnato da un termine eccessivamente ridotto per il pagamento, possa essere colpito da una declaratoria di nullità ex art. 1344 c.c. se posto in essere al solo scopo di eludere le norme anti-usura”.
187 Art. 1384 c.c.: “La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l'obbligazione principale è stata eseguita in parte ovvero se l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all'interesse che il creditore aveva all'adempimento”.
188 A favore dell'inderogabilità dell'art. 6 d.lgs. n. 231/2002: X.XXXXX, op. cit., p. 111 s.
dispositivo189 in virtù della generale derogabilità dell'intera disciplina relativa alle conseguenze del ritardato pagamento nelle transazioni commerciali, salvo il limite sancito dall'art. 7.
Questo contrasto di opinioni ha tuttavia perso di rilevanza in seguito all'introduzione ad opera del legislatore del co. 3 dell'art. 7, il quale, come si è visto, introduce una presunzione relativa di grave iniquità per la clausola pattuita convenzionalmente che esclude i costi di recupero.
Pertanto è da considerare legittima una previsione che deroghi al regime legale, nei limiti previsti dall'art. 7; con la conseguenza che qualora questa venga dichiarata nulla per essere la stessa gravemente iniqua, in base all'art. 7 co. 1 e alla conseguente applicazione degli artt. 1339 e 1419 c.c., si applicherà la disciplina legale di cui all'art. 6 d.lgs. n. 231.
Occorre infine notare che, in virtù dell'art. 7-bis, anche l'eventuale prassi relativa al risarcimento delle spese di recupero dei crediti dia diritto ad un risarcimento del danno, quando questa risulti gravemente iniqua in danno del creditore.
5. Responsabilità del debitore
Non tutti i pagamenti tardivi hanno come conseguenza la corresponsione da parte del debitore degli interessi moratori. Infatti, ai sensi dell'art. 3 d.lgs. n. 231/2002, “il creditore ha diritto alla corresponsione degli interessi moratori sugli importi dovuti ai sensi degli articoli 4 e 5” – quindi, come previsto dall'art. 2, lett. g), la somma che avrebbe dovuto essere pagata entro il termine contrattuale o legale di pagamento, comprese le imposte, i dazi, le tasse o gli oneri applicabili indicati nella fattura o nella richiesta equivalente di pagamento – “ salvo che il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.
189 A favore, invece, della derogabilità, v. X.XX XXXXXXXXXX, Obbligazioni pecuniarie e contratti d'impresa: i nuovi strumenti di “lotta” contro i ritardi di pagamento nei corrispettivi di beni e servizi, in Studium iuris, 2003, p. 11; X.XXXXXXXX, Responsabilità del debitore e risarcimento del danno, in I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Profili sostanziali e processuali, a cura di X.X.Xxxxxxxxx, Torino, 2003, cit., p. 107.
La dottrina190 ha sul punto rilevato come il testo presente all'interno del d.lgs. n. 231/2002 si sia discostato da quello contenuto nella direttiva 2011/7/UE in diversi aspetti.
Sotto un primo profilo, infatti, la direttiva poneva un ulteriore presupposto per l'insorgenza della responsabilità del debitore, ossia che il creditore avesse adempiuto agli obblighi contrattuali e di legge. Nel decreto tale secondo presupposto non è stato formulato, del resto sulla base del fatto che si debba ritenere, stante la conformità della disciplina in esame ai principi generali dell'ordinamento in materia di obbligazioni, che il debitore possa sempre opporre l'eccezione prevista dall'art.
1460191 c.c. nei confronti del creditore inadempiente; con la conseguenza che potrà legittimamente rifiutare il pagamento in tutti i casi in cui il corrispettivo debba essere prestato contestualmente o dopo l'esecuzione della controprestazione, senza che gli si possa imputare una responsabilità per inadempimento e la conseguente imposizione di interessi moratori, la cui decorrenza viene pertanto sospesa192.
Tuttavia, dal momento che la fattispecie in esame costituisce un'ipotesi di mora ex re, il mancato adempimento da parte del creditore è insufficiente ad escludere l'imputabilità del ritardo, per cui il debitore dovrà necessariamente sollevare “l'exceptio inadimpleti e l'exceptio non rite adimplenti contractus anche solo implicitamente, purché la volontà di non pagare fino all'adempimento della controparte sia desumibile in modo inequivocabile; diversamente, alla scadenza del termine di pagamento, sorge automaticamente in capo al creditore il diritto agli interessi moratori”193.
Una seconda differenza tra la direttiva ed il decreto in questione consiste invece nel modo in cui viene regolato l'esonero del debitore dall'obbligo di corrispondere, oltre il pagamento dovuto, anche gli interessi di mora.
190 V. X.XX NOVA, in I ritardi di pagamento nei contratti commerciali, a cura di X.Xx Xxxx, X.Xx Nova, Milano, 2003, p. 11; X.XXXXXXXX, op.cit., p. 96 ss.
191 Art. 1460 c.c.: “Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l'altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l'adempimento siano stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede”
192 Non si può ritenere che l'art. 11, co. 2 d.lgs. n. 231/2002 escluda l'applicazione dell'art. 1460, “in quanto tale disposizione non impedisce l'operatività della disciplina generale dei contratti laddove compatibile con le norme del decreto”, sul punto v. A.FINESSI, op. cit.
193 A. FINESSI, op. cit.
Infatti, nel testo della direttiva, al creditore era negato il diritto agli interessi di mora nel caso in cui il ritardo non fosse imputabile al debitore; invece, nell'art. 3 del decreto, tale diritto è negato al creditore solo nel caso in cui il debitore “dimostri che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato dall'impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”, con una formula che riproduce sostanzialmente l'art. 1218 c.c. e che consente di attestare che il ritardo nel pagamento del corrispettivo nelle transazioni commerciali soggiace alla disciplina generale prevista dall'ordinamento in tema di illecito c.d. contrattuale, al punto che parte della dottrina ne ha evidenziato la sostanziale inutilità194.
Questa differente formulazione, è stato notato in dottrina, risponde all'esigenza di evitare incertezze che avrebbe potuto causare l'adozione della formula più sintetica, utilizzata in sede comunitaria, riguardo il contenuto della prova liberatoria cui sarebbe stato tenuto il debitore, nella quale sarebbe stato possibile far rifluire anche cause soggettive, esclusivamente riguardanti la persona del soggetto passivo del vincolo obbligatorio, “ingenerando così notevole incertezza sol che si pensi alla varietà della cause di giustificazione che il debitore avrebbe potuto far valere a suo vantaggio195”. Infine, è da notare che, qualora per il pagamento del corrispettivo venga effettuato un bonifico bancario, che rappresenta senza dubbio lo strumento maggiormente utilizzato dalle imprese per assolvere le loro prestazioni, solo nel momento in cui l'importo venga materialmente accreditato sul conto del creditore è possibile che cessi o che non scatti comunque la mora, a prescindere da eventuali problemi in cui possa essere incorso l'istituto bancario; ciò, in virtù del significato riconosciuto all'inciso “salvo che il ritardo non sia a lui imputabile” nell'art. 3 direttiva 2000/35/CE, idoneo ad escludere che si ponga sul debitore il rischio relativo al lasso di tempo necessario per l'effettuazione delle transazione196.
6. Il regime di invalidità dell'art. 7, d.lgs. n. 231/2002
Nell'individuazione di un mezzo di tutela efficace per evitare che l'impresa debitrice potesse approfittare del ritardato pagamento a danno dell'impresa creditrice, il legislatore comunitario poneva come obiettivo della direttiva 2000/35/CE di “proibire
194 A. FINESSI, op. cit.
195 X.XXXXXXXX, op. cit., cit. p. 652
196 X.Xxxx. CE 3 aprile 2008, causa C-306/06, pubblicata in G.U.C.E., C 128 del 24 maggio 2008, p. 7.
l'abuso della libertà contrattuale in danno del creditore. Nel caso in cui un accordo abbia principalmente l'obiettivo di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, o nel caso in cui l'appaltatore principale imponga ai propri fornitori o subappaltatori termini di pagamento ingiustificati rispetto ai termini di pagamento ad essi concessi, si può ritenere che questi elementi configurino un siffatto abuso”.
Per attuare tale obiettivo, il legislatore comunitario ha previsto una serie di rimedi posti specificatamente a tutela dell'impresa creditrice. Tali rimedi, come vedremo, sono stati successivamente modificati con il d.lgs. n. 192/2012, al quale si può tuttavia riconoscere il pregio di aver operato questa scelta nell'interesse della certezza del diritto.
6.1. Grave iniquità
A mezzo dell'originario art. 7 d.lgs. n. 231/2002, si sanciva la nullità dell'accordo sulla data di pagamento o sulle conseguenze dovute al ritardato adempimento, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza, qualora questo fosse risultato gravemente iniquo in danno del creditore.
L'espressione “gravemente iniquo” richiama alla mente l'art. 33 del cod.cons., laddove, trattando delle clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, si parla di “significativo squilibrio”, o anche l'art. 9 l.subf., nel quale si parla, come visto, di “eccessivo squilibrio” e “condizioni ingiustificatamente gravose”, o ancora l'art.
3.10197 dei Principi Unidroit (c.d. Xxxxx disparity), il quale consente di invocare l'annullamento del contratto o anche di singole clausole se esse, al momento della conclusione, “attribuivano ingiustificatamente all'altra parte un vantaggio
eccessivo”.
197 Art. 3.10 Principi Unidroit: “A party may avoid the contract or an individual term of it if, at the time of the conclusion of the contract, the contract or term unjustifiably gave the other party an excessive advantage. Regard is to be had, among other factors, to: a) the fact that the other party has taken unfair advantage of the first party's dependence, economic distress or urgent needs, or of its improvidence, ignorance, inexperience or lack of bargaining skill; b) the nature and purpose of the contract. Upon the request of the party entitled to avoidance, a court may adapt the contract or term in order to make it accord with reasonable commercial standards of fair dealing. A court may also adapt the contract or term upon the request of the party receiving notice of avoidance, provided that that party informs the other party of its request promptly after receiving such notice and before the other party has reasonably acted in reliance on it. The provisions of Article 3.2.10(2) apply accordingly”.
Secondo la dottrina maggioritaria, la disposizione in esame si configurava come una clausola generale, al pari dell'art. 9 della l. subf., ed in quanto tale andava interpretata caso per caso, in base alle specifiche peculiarità del caso concreto.
Stante questa premessa, la dottrina si è di conseguenza a lungo interrogata sul rapporto intercorrente tra il co. 1 dell'originario art. 7 e il relativo co. 2, nel quale veniva formulata una presunzione relativa di grave iniquità dell'accordo che, senza essere giustificato da ragioni oggettive, avesse come obiettivo principale quello di procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore, ovvero l'accordo con il quale l'appaltatore o il subfornitore principale imponesse ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto ai termini di pagamento ad esso concessi.
Da un lato, infatti, si sottolineava il fatto che, stante la previsione legale di una forma di iniquità sancita dal co. 2, per le stesse ipotesi non si potessero valorizzare quegli elementi previsti al co. 1 che potessero giustificare “oggettivamente” la situazione di grave iniquità a danno del debitore198. Un altro orientamento199, invece, riteneva che gli elementi indicati dal co. 1 assumessero rilievo in vista di una valutazione della grave iniquità anche qualora si riversasse nelle ipotesi previste dal co. 2. In questa seconda accezione, le fattispecie previste al co. 2 assumevano pertanto una veste essenzialmente esemplificativa degli accordi gravemente iniqui previsti al co. 1.
Il dibattito dottrinario in merito ha tuttavia perso rilievo in seguito alla revisione legislativa intervenuta nel 2012.
In base all'attuale art. 7, infatti, “le clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore” e, di conseguenza, “si applicano gli artt. 1339 e 1419, co. 2, del codice civile”. Prosegue poi la norma, in cui al co. 2 si prevede che “il giudice dichiara, anche d'ufficio, la nullità della clausola avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del
servizio oggetto del contratto, l'esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio
198 X.XXXXX, Xx x.lgs. n. 231/2002 di trasposizione della direttiva sui ritardati pagamenti nelle transazioni commerciali, in CorrG, 2003, p. 113
199 X.XX MARZO, Xxxxxxx di pagamento nei contratti tra le imprese: l'attuazione della direttiva comunitaria, in Contr., 2002, p. 1162.
degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all'importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero”.
Si è pertanto cercato di rendere meno ambigua la formula utilizzata dal legislatore nella versione precedente, con l'espressa previsione che il giudice, nell'apprezzamento della grave iniquità delle clausole dedotte in contratto, debba prendere in considerazione tutti gli elementi previsti dal co. 2 dell'art. 7.
Ulteriore questione da analizzare a questo punto concerne il carattere di grave iniquità; in altre parole, è necessario definire quando una certa clausola possa risultare gravemente iniqua.
Posto che, come ha espressamente ribadito la dottrina, la ratio sottostante alla disciplina in esame è la repressione dell'abuso dell'autonomia contrattuale200, si deve conseguentemente ritenere che la grave iniquità non attenga ad un semplice squilibrio economico della clausole dedotte, bensì ad una regolazione contrattuale priva di giustificazione sostanziali ed oggettive201. Occorrerà perciò valutare sulla base di questo più ampio criterio la situazione intercorrente tra le parti contraenti, al fine di esaminare se singole clausole, inserite nel determinato contesto di un regolamento convenzionale globalmente considerato, siano passibili di una dichiarazione di grave iniquità202.
Come precedentemente esaminato, infatti, le parti possono pattuire diverse clausole in deroga alla disciplina legale, ad esempio per subordinare il pagamento del corrispettivo all'avvenimento di un certo evento (clausole “if and when”203 o “pay when paid”), che nel determinato contesto di un certo assetto di interessi può non risultare gravemente iniquo a danno del creditore; è dunque “alla singola fattispecie concreta che si deve fare riferimento per valutare l'iniquità dell'accordo, perché i peculiari rapporti esistenti tra le parti ben potrebbero giustificare anche una
200 v. X.XXXXXXX, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Europa e dir. priv. 1, 2001, p. 81.
201 v. X.X.XXXXXXXXX, Contratto asimmetrico, Enc. dir., Xxxxxx, V, 2012, p. 381, in cui sostiene che un accordo che non si fondi su giustificazioni obiettive, pertanto irragionevole, debba essere dichiarato nullo. A sostegno di ciò, lo stesso considerando n. 28 della direttiva 2011/7/UE compie un riferimento al criterio della ragionevolezza.
202 X.XX XXXX, Le rinnovate logiche di conservazione del contratto nell'evoluzione del sistema, Contratto e Impr., 2014, 4-5, 942
203 Per una trattazione più approfondita in merito, x. XXXXX, La clausola if and when tra condizione e termine di adempimento, in Nuova giur. civ. comm., 2004.
dilatazione temporale nei pagamenti che si discosti dalla corrente prassi commerciale”204.
Spetterà pertanto al giudice compiere una valutazione approfondita del contesto in cui si inserisce tale clausola, al fine di accertarne il carattere abusivo qualora quest'ultima non sia supportata da ragioni obiettive e pertanto “non si inserisca coerentemente nella generale articolazione delle clausole contrattuali”. Nell'assolvere a tal compito, peraltro, egli dovrà inoltre utilizzare i canoni interpretativi previsti dagli artt. 1362 ss.
A tale generale parametro cui deve informarsi la valutazione del giudice vengono tuttavia espressamente sottratte ex lege due clausole, di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 7 d.lgs. n. 231/2002.
Innanzitutto, ai sensi dell'art. 7, co. 3 si ha una presunzione assoluta di grave iniquità, per cui “non è ammessa prova contraria”, per “la clausola che esclude l'applicazione dell'interesse di mora”. La previsione espressa di questa disposizione implica che il giudice non possa valutare la clausola di cui tratta il co. 3, dovendone ex lege sancire la grave iniquità, con conseguente dichiarazione di nullità. Viceversa, il co. 4 non esclude che il giudice possa procedere ad una valutazione di grave iniquità della clausola ivi prevista, stante la previsione di una presunzione semplice di iniquità per “la clausola che escluda il risarcimento per i costi di recupero di cui all'art. 6”.
6.2. Conseguenze della valutazione di grave iniquità
Nel vigore del testo precedente, in virtù dell'art. 7 d.lgs. n. 231/2002, era previsto che in seguito alla dichiarazione di nullità parziale ad opera del giudice vi potessero essere
204 R.CLARIZIA, Il decreto legislativo sui ritardati pagamenti e l'impatto sul sistema, Nuova Giur. Civ., 2003, 1, 20057
205 R.CLARIZIA, op.cit., il quale aggiunge che è “determinante, infatti, ai fini di una corretta valutazione da parte del giudice … il comportamento tenuto dalle parti, proprio ex art. 1362 c.c. … se, infatti, valutato isolatamente, il suddetto accordo potrebbe apparire svantaggioso per il creditore, apprezzato secondo i canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362, 1363 e 1366 c.c., potrebbe ampliamente giustificare il proprio contenuto maggiormente favorevole al debitore”. A tal fine è pertanto “necessario procedere ad una lettura dell'accordo che tenga conto non soltanto del comportamento tenuto dalle parti (art. 1362 c.c.), ma anche delle clausole contrattuali nel loro
complesso (art. 1363 c.c.), il tutto opportunamente ispirato ai canoni di buona fede (art. 1366 c.c.)”
due conseguenze, entrambe giustificate dalla natura protettiva della nullità-rimedio in questione.
In prima istanza, infatti, era previsto che il giudice potesse sostituire la clausola dichiarata nulla con la disciplina formulata dal decreto stesso.
In secondo luogo, si prevedeva che il giudice potesse eseguire la reductio ad equitatem, avuto riguardo alle circostanze indicate nel co. 1 dello stesso articolo, mediante un'opera di ricostruzione del regolamento contrattuale che poteva avvenire anche a prescindere dalla domanda di parte206 e che consentiva di conformare il contenuto del contratto in modo da salvaguardare l'interesse sotteso alla norma di protezione.
La possibilità di una conformazione del contratto su base equitativa in seguito alla declaratoria di nullità parziale è tuttavia scomparsa con la riformulazione dell'art. 7 ad opera del d.lgs. n. 192/2012, che ha dato esclusiva valenza al meccanismo di sostituzione automatica delle clausole in virtù dell'espresso rinvio agli artt. 1339 e 1419 c.c.207 Tale scelta potrebbe dunque “ritenersi significativa della volontà del legislatore di porre un contrappeso alla discrezionalità del giudice a tutto vantaggio della operatività del meccanismo della inserzione automatica dei dati normativi di volta in volta richiamabili”208.
Come è stato efficacemente rilevato209, l'inserzione automatica rafforza peraltro il duplice obiettivo cui è preposta la nullità ex art. 7.
Poiché infatti essa opera da un lato quale nullità-rimedio posto a protezione dell'impresa lesa, mentre dall'altro quale strumento sanzionatorio – nullità sanzione – posto a presidio di norme inderogabili, la possibilità che in seguito ad una declaratoria di nullità di una clausola abusiva vi sia un'automatica sostituzione di quest'ultima con
206 Sul punto, v. X.XXXXXXXXXX, op. cit., p. 512 ss.
207 Non tutti sono d'accordo per una scelta del genere. In particolare, v. X.XXXXXXXXXXX, L'integrazione del contratto tra Corte di Giustizia e nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il segmentarsi dei rimedi, in Contratti, 2013, 4, p. 406, il quale si chiede se non vi continui a residuare il margine per una riduzione equitativa nell'area dei contratti b2b, qualora la pattuizioni contrattuale si mostri, nella singola fattispecie concreta, troppo favorevole al creditore. Gran parte della dottrina ritiene inoltre maggiormente favorevole al contraente debole la correzione ope iudicis, in virtù della sua miglior capacità di adattamento alla singola fattispecie concreta rispetto all'integrazione normativa. In senso contrario, X.XX XXXXXXXXXX, Obbligazioni pecuniarie e contratti d'impresa: i nuovi strumenti di “lotta” contro i ritardi di pagamento nei corrispettivi di beni e servizi, in Studium iuris, 2003, p. 13, secondo il quale la reductio ad equitatem è naturalmente più favorevole per l'impresa debitrice rispetto alle previsioni legali.
208T.PASQUINO, op. cit., cit. p. 691.
209 E. LA ROSA, op. cit.
quella prevista dalla disciplina legale ne amplifica notevolmente il carattere dissuasivo e punitivo.
Il meccanismo che si viene così a ricostruire “si colora di propulsive funzioni di coercizione indiretta … e trova legittimo affidamento nel principio di funzionalità dei rimedi, in virtù del quale la diversa natura della norma violata si riverbera sulla nullità colorandola di funzioni sanzionatorie”210.
7. Tutela degli interessi collettivi
Per poter assolvere all'esigenza di assicurare una tutela più incisiva ai rapporti regolati dal d.lgs. n. 231/2002, l'art. 8 ha introdotto nel nostro ordinamento una figura di class action a tutela degli imprenditori, in caso di contratti contenenti clausole generali “gravemente inique” a danno del creditore, relative al termine di pagamento o alle conseguenze del ritardo nel pagamento.
Tale norma intende attuare le indicazioni dell'art. 3, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2000/35/CE211, per cui “gli Stati membri assicurano che, nell'interesse dei creditori e dei concorrenti, esistano mezzi efficaci e idonei per impedire il continuo ricorso a condizioni gravemente inique”; perciò è necessario che si adottino “disposizioni che consentano a organizzazioni titolari di un riconoscimento ufficiale di legittimo interesse a rappresentare piccole e medie imprese, di agire a norma della legislazione nazionale dinanzi ai tribunali o ad organi amministrativi competenti per decidere se le condizioni contrattuali stabilite per uso generale sono gravemente inique ai sensi del paragrafo 3”.
Più precisamente, legittimate ad agire per la tutela giurisdizionale in via ordinaria e cautelare degli interessi collettivi sono “le associazioni di categoria degli imprenditori presenti nel Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (CNEL),
210 E. LA ROSA, op. cit., cit.
211 O altresì quelle dell'art. 7, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2011/7/UE
prevalentemente212 in rappresentanza delle piccole e medie imprese di tutti i settori produttivi e degli artigiani”213.
Si è perciò cercato di introdurre in tal modo un'ulteriore tutela all'interno dell'ordinamento, che assume i caratteri di un rimedio generale e preventivo “contro l'utilizzazione di condizioni inique, accanto, a monte e a livello collettivo, rispetto alla tutela individuale e successiva del singolo imprenditore che abbia già stipulato un contratto contenente clausole inique”214.
Le associazioni di categoria legittimate ad agire per questa via possono pertanto convenire in giudizio gli imprenditori che concludono contratti con imprenditori appartenenti alla categoria che esse rappresentano, in via ordinaria, affinché il giudice possa adottare uno o più dei provvedimenti indicati dal co. 1.
A tenore di quest'ultimo, egli perciò potrà: “a) accertare la grave iniquità, ai sensi dell'articolo 7, delle condizioni generali concernenti il termine di pagamento, il saggio degli interessi moratori o il risarcimento per i costi di recupero e di inibirne l'uso; b) adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento possa contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”.
Allo stesso modo dell'art. 9, co. 3 l. n. 192/1998 sull'abuso di dipendenza economica, anche l'art. 8, co. 1 d.lgs. n. 231/2002 stabilisce dunque che, qualora il giudice
212 Secondo E.XXXXX, Le disposizioni processuali del d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in I ritardi nei pagamenti, la tutela dei creditori nelle “transazioni commerciali” aspetti civili, processuali, fiscali, contabili, a cura di X. Xxxxxxxxx e A. Xxxxxxxxxxxx, p. 76, la dottrina si è ampiamente soffermata sull'utilizzo dell'avverbio “prevalentemente”, presente all'interno del co. 1 sopracitato. Così, in base ad una prima impostazione, si riteneva che il legislatore intendesse in tal modo conferire la legittimazione ad agire a quelle associazioni che rappresentano in particolare le imprese di medio-piccole dimensioni e gli artigiani. Altri, invece, hanno sostenuto che tale espressione evidenziasse come l'obiettivo principale della norma fosse quello di tutelare le imprese medio-piccole, senza tuttavia escludere le associazioni di categoria di imprenditori di grandi dimensioni presenti nel CNEL, le quali possono comunque avvalersi di questo rimedio giurisdizionale; a favore di quest'ultima impostazione, v. X.XXXXXXXX, op.cit., p. 144.
213 La scelta di legittimare soggetti qualificati per la tutela di interessi collettivi non costituiva una novità per il nostro ordinamento, stante la previsione dell'art del cod.cons. (all'epoca art. 1469-
sexies c.c.) che attribuisce alle associazioni rappresentative dei consumatori e alle camere di commercio la legittimazione all'azione inibitoria collettiva in materia di clausole vessatorie.
214 Cons. Stato Sez. IV, Sent. 2 febbraio 2010, n. 469
dovesse riconoscere la grave iniquità di una o più clausole delle condizioni generali di contratto215 di cui si chiede l'accertamento, ne dovrebbe inibire l'uso216.
L'inibitoria, peraltro, può richiesta e disposta sia in via ordinaria, con la sentenza definitiva di merito, sia in virtù di un provvedimento cautelare emanato ai sensi del co. 2 art. 8217, ottenuto prima del giudizio stesso ovvero durante il suo corso, qualora vi siano “giusti motivi d'urgenza”.
Quanto alle “misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate”, parte della dottrina ritiene possa consistere in un risarcimento in forma specifica o per equivalente218, in via complementare all'inibitoria, oppure nell'imposizione di obblighi informativi diretti a tutti i membri delle associazioni di categoria219.
Quanto alla previsione di cui alla lett. c), la previsione dello rimedio della pubblicazione a mezzo stampa, o equivalenti, risulta superflua, a fronte della generale disposizione ex art. 120 c.p.c.220
Infine, l'ultimo comma dell'art. 8 stabilisce che “In caso di inadempimento degli obblighi stabiliti dal provvedimento reso nel giudizio di cui ai commi 1 e 2, il giudice, anche su domanda dell'associazione che ha agito, dispone il pagamento di una
215 Dalla relazione del Guardasigilli al progetto ministeriale – Libro delle obbligazioni 1941: Le condizioni generali di contratto, disciplinate ex art. 1341 c.c., consistono in moduli o “formulari predisposti da una delle parti per regolare in modo uniforme i propri rapporti contrattuali con terzi relativamente a determinati oggetti … esso consente uniformità fra le operazioni dello stesso tipo, e così risponde ai bisogni di una ordinata organizzazione tecnica e finanziaria, rende possibili le previsioni dei rischi, la riduzione dei medesimi e una disciplinata formazione dei prezzi”. Tuttavia, “Si sono elevate delle voci contro un sistema del genere perché si è denunciato il pericolo di sopraffazione o di oppressione dei legittimi interessi dell'aderente; ed è vero che, in alcuni casi, il sistema dell'adesione ha dato luogo a gravissimi inconvenienti. Da ciò la necessità di considerare cautele specifiche per evitare abusi”.
216 Alcuni autori ritengono che basti “una mera predisposizione di clausole non ancora inserite in contratti conclusi” a far sorgere la possibilità che se ne possa inibire l'uso; al riguardo, v. E. XXXXX, op. cit., cit. p. 82.
217 Art. 8, co. 3 d.lgs. n. 231/2002: “L'inibitoria è concessa, quando ricorrono giusti motivi di urgenza, ai sensi degli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile”.
218 X.XXXXXXXXXX, op. cit., p. 95.
219 Tale ipotesi è sostenuta da E.XXXXX, op. cit., p. 86
220 Art. 120, c.p.c.: “Nei casi in cui la pubblicità della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, compreso quello derivante per effetto di quanto previsto all'articolo 96, il giudice, su istanza di parte, può ordinarla a cura e spese del soccombente, mediante inserzione per estratto, ovvero mediante comunicazione, nelle forme specificamente indicate, in una o più testate giornalistiche, radiofoniche e in siti internet da lui designati. Se l'inserzione non avviene nel termine stabilito dal giudice, può procedervi la parte a favore della quale è stata disposta, con diritto a ripetere le spese dall'obbligato”.
somma di denaro, da Euro 500 a Euro 1.100, per ogni giorno di ritardo, tenuto conto della gravità del fatto”.
La dottrina prevalente ritiene che, con quest'ultima misura coercitiva di carattere patrimoniale, il legislatore abbia voluto rafforzare l'efficacia esecutiva dei provvedimenti giudiziari, in particolare a causa dell'oggetto di condanna dell'eventuale inibitoria, ossia l'obbligo di astenersi da un facere. Tuttavia, la stessa dottrina evidenzia l'assoluta lacunosità della disciplina processuale di tale strumento coercitivo, il quale non dispone altresì a favore di chi debbano essere corrisposte le somme oggetto della sanzione221.
221 v. E. XXXXX, op. cit., pp. 87-89; il quale si interroga se la misura coercitiva debba essere pronunciata con l'inibitoria o con un provvedimento successivo e su quale giudice debba provvedere a liquidare la misura coercitiva una volta che si sia verificato il mancato adempimento. Inoltre, a tenore dell'autore “la maggioranza dei commentatori ritiene … che le somme di cui si tratta (l'oggetto della sanzione) dovranno essere versate allo Stato o a un soggetto pubblico che ne rappresenti un'emanazione diretta o indiretta”.
Capitolo III
Il regime dei contratti nel settore agroalimentare
SOMMARIO: 1 Introduzione. - 2 L'ambito di applicazione: la doppia anima dell'art. 62. - 3 Le condotte commerciali sleali. 3.1 Condizioni contrattuale ingiustificatamente gravose, condizioni extracontrattuali e retroattive. - (Segue) a) Prestazioni gemellate. - (Segue) b) Esclusione degli interessi di mora o del risarcimento delle spese per il recupero dei crediti. - (Segue) c) La determinazione di prezzi sottocosto. - 3.2 Condizioni diverse per prestazioni equivalenti. - 3.3 Indebite e ingiustificate prestazioni unilaterali. - 4 Conseguenze della violazione del divieto. - 5 I contratti agro-alimentari. - 5.1 La disciplina dei termini di pagamento e degli interessi moratori nei contratti agro-alimentari.
1. Introduzione
Una recente normativa che ha suscitato le attenzioni di una folta parte della dottrina è quella dettata dall'art. 62 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, recante “Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività”, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 2012, n. 27 e successive disposizioni di attuazione emanate con decreto del Ministero per le Politiche agricole, alimentari e forestali del 19 ottobre 2012, n. 199, le quali recano una disciplina speciale in materia di cessione di prodotti agro-alimentari e di relazioni commerciali.
Si tratta di un complesso normativo di grande rilevanza, poiché volta a dettare, a sua volta, una disciplina specifica concernente le relazioni commerciali “tra operatori economici”, così da entrare a far parte di quel corpus normativo approntato per regolare il c.d. terzo contratto222, ossia il contratto tra imprese caratterizzato da asimmetria di potere negoziale e contrattuale.
Innovativa è inoltre, rispetto alle precedenti normative esaminate al riguardo, la previsione, accanto ai tradizionali strumenti di tutela di stampo civilistico, di un sistema pubblicistico di enforcement affidato all'AGCM223, che vigila
222 X.X.XXXXXXXXX, X.XXXXXXXXX, La nuova disciplina dei contratti di cessione dei prodotti agricoli ed agroalimentari, in Riv. Dir. civ., 2013, 3, p. 641
223 Art. 62, co. 8 D.L. n. 1/2012: “L'Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato è incaricata della vigilanza sull'applicazione delle presenti disposizioni e all'irrogazione delle sanzioni ivi previste, ai sensi della legge 24 novembre 1981, n. 689. A tal fine, l'Autorità può avvalersi del supporto operativo della Guardia di Finanza, fermo restando quanto previsto in ordine ai poteri di accertamento degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria dall'articolo 13 della predetta legge 24 novembre 1981, n. 689. All'accertamento delle violazioni delle disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 del presente articolo l'Autorità provvede d'ufficio o su segnalazione dell'Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione delle frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali o di qualunque soggetto interessato. Le attività di cui al presente comma sono svolte con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili a legislazione vigente”.
sull'applicazione dell'art. 62 e irroga sanzioni pecuniarie in caso di violazioni, a prescindere da eventuali malfunzionamenti o ripercussioni sulla concorrenza e sul mercato.
In virtù del suo possibile rilievo sistematico, l'articolo in esame ha sollevato numerosi interrogativi tra gli interpreti in relazione a diversi aspetti della stessa, tra i quali, in particolare, l'ambito di applicazione dei divieti sanciti dal co. 2 della disposizione in esame e le modifiche dettate per i termini di pagamento dei contratti agroalimentari in rapporto alla disciplina, intervenuta successivamente, posta dal d.lgs. n. 231/2002, modificata con d.lgs. n. 192/2012.
Quanto al primo aspetto, la questione prende le mosse dal lessico utilizzato dal legislatore all'interno del co. 2 dell'art. 62 D.L. n. 1/2012, il quale, nel dettare una serie di divieti inerenti il contenuto contrattuale delle relazioni commerciali, “ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1”, si riferisce espressamente agli “operatori commerciali”. Pertanto, sulla scia della questione interpretativa sorta relativamente al divieto di abuso di dipendenza economica sancito dall'art. 9 l. n. 192/1998, la quale partiva dagli stessi presupposti – ossia il tenore letterale utilizzato dal legislatore, in particolare l'uso dell'espressione “impresa cliente o fornitrice”, diversamente da tutti gli altri articoli della menzionata disciplina – parte della dottrina224 ha interpretato la volontà del legislatore nel senso di estendere l'ambito applicativo della normativa in esame a tutti i rapporti commerciali tra imprese, a prescindere dal loro operare nel settore agro-alimentare, nella stessa maniera in cui è stata sancita un'applicazione generalizzata, anche al di fuori dei rapporti di subfornitura, del divieto di cui all'art. 9 della l.subf.
Quanto, invece, al secondo aspetto, in seguito all'abrogazione dei commi 3 e 4 del d.lgs. n. 231/2002 ad opera del co. 11225, art. 62 del D.L. n. 1/2012, in virtù della possibilità per gli Stati membri, prevista dall'art. 6, co. 2226 della direttiva 2000/35/CE, di “emanare norme che siano più favorevoli al creditore”, si è posto un problema di coordinamento con le previsioni introdotte dal d.lgs. n. 192/2012, di recepimento
224 Sul tema, v. in particolare M.TAMPONI, Liberalizzazioni, “terzo contratto” e tecnica legislativa, Contratto e impr., 2013, I, 91; X.XX XXXX, Le rinnovate logiche di conservazione del contratto nell'evoluzione del sistema, Contratto e Impr., 2014, 4-5, 942.
225 Art. 62, co. 11 D.L. n. 1/2012: “Sono abrogati i commi 3 e 4 dell'art 4 del decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 e il decreto del Ministro delle attività produttive del 13 maggio 2003”.
226 Art. 6, co. 2 Direttiva 2000/35/CE: “Gli Stati membri possono lasciare in vigore od emanare norme che siano più favorevoli al creditore di quelle necessarie per conformarsi alla presente direttiva”.
della direttiva 2011/7/UE, la quale ha riformato la disciplina inerente i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Quest'ultimo decreto, infatti, oltre a concedere alle parti la possibilità di derogare ai termini legali stabiliti dallo stesso, nel dettare un termine legale generale di trenta giorni oltre i quali far scattare gli interessi moratori, pone una disciplina più favorevole per il creditore di quella posta nel settore agro-alimentare dal D.L. n. 1/2012 per quanto concerne gli alimenti non deteriorabili, per i quali è previsto un termine di 60 giorni.
E' necessario infine ricordare che la normativa prevista dal decreto legge è stata prima lievemente modificata dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con l. 17 dicembre 2012, n. 221, il quale ha eliminato il richiamo alla sanzione della nullità prevista dal co. 1, e successivamente corretta ad opera del D.L. 5 maggio 2015, n. 51, convertito con l. 2 luglio 2015, n. 91, il quale ha essenzialmente mutato l'importo minimo e massimo delle sanzioni pecuniarie previste in caso di violazione della presente disciplina, elevandoli in entrambi i casi.
2. Ambito applicativo: la doppia anima dell'art. 62
L'art. 62, infatti, comprende innanzitutto una serie di commi disciplinanti il contenuto, la forma, i termini di pagamento, gli interessi moratori e le altre condizioni relative ai contratti aventi ad “oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari”229, nonché
227 Nota MISE del 23 marzo 2013, ad oggetto l'applicazione articolo 62 del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1;
Nota MIPAAF del 2 aprile 2013, avente stesso oggetto.
228 La stessa distinzione è operata da X.X.XXXXXXXXX, X.XXXXXXXXX, op. cit., p. 643, nonché da R.TORINO, La nuova disciplina dei contratti e delle relazioni commerciali di cessione dei prodotti agricoli e alimentari, in Contratto e Impr., 2013, 6, 1425, il quale ritiene che l'art. 62 D.L. n. 1/2012 ricompra un duplice ambito di applicazione.
229 Art. 1, co. 3, reg. 199/2012: “Non costituiscono cessioni ai sensi dell'articolo 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27: a) i conferimenti di prodotti agricoli e alimentari operati dagli imprenditori, alle cooperative di cui
le conseguenti sanzioni in caso di accertata violazione di questi ultimi.
Pertanto, per quanto attiene a queste disposizioni, l'ambito di applicazione oggettivo sarà necessariamente quello sancito dal co. 1, ossia “i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari”. Tuttavia, in sede di attuazione del decreto legge, il regolamento ministeriale ha previsto, all'art. 1, co. 4, una deroga all'applicazione della normativa in esame;
è infatti espressamente disposto che non rientrino in tale campo di applicazione “le cessioni di prodotti agricoli e alimentari istantanee, con contestuale consegna e pagamento del prezzo pattuito”.
Quanto invece al campo soggettivo di applicazione, tali previsioni sono espressamente sottratte alla contrattazione con i consumatori, come si può ricavare dall'inciso “ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale”, e invece direttamente rivolte alle imprese, con l'importante esclusione degli imprenditori agricoli230, qualora i contratti disciplinati fossero conclusi esclusivamente tra tali soggetti.
Vi è poi un altro gruppo di disposizioni inerenti le “pratiche commerciali sleali” dettate per le “relazioni commerciali tra operatori economici”, come testualmente disposto dal co. 2 del precitato art. 62. Tale espressione, come anzidetto, ha suscitato notevoli perplessità in dottrina.
Quest'ultima norma infatti non contiene una espressa limitazione ad uno specifico settore o ad un determinato tipo di contratto, ma, al contrario, si rivolge ai non meglio specificati “operatori economici” a tutela dei quali vengono, dallo stesso xxxxx, posti divieti ed obblighi, e perciò parrebbe assumere una portata generale; ciò, tuttavia, a dispetto dell'articolo in cui si colloca, il quale è rubricato “disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessioni di prodotti agricoli e agroalimentari”.
Una questione simile, come evidenziato nel primo capitolo, si era posta in merito all'art. 9 della l.subf., di cui è stata successivamente accertata la portata estensiva, con
all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 18 maggio 2001 n. 228, se gli imprenditori risultano
soci delle cooperative stesse; b) i conferimenti di prodotti agricoli e alimentari operati dagli imprenditori alle organizzazioni di produttori di cui al decreto legislativo 27 maggio 2005 n. 102, se gli imprenditori risultano soci delle organizzazioni di produttori stesse; c) i conferimenti di prodotti ittici operati tra imprenditori ittici di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 gennaio 2012, n. 4””.
230 Art. 6-bis, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179: “I contratti conclusi fra imprenditori agricoli con costituiscono cessioni ai sensi dell'art. 62 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27”.
conseguente applicazione di quest'ultimo a tutti i rapporti commerciali intercorrenti tra imprese. Di conseguenza, a supporto della interpretazione estensiva dell'art. 62
D.L. n. 1/2012, si è anche cercato di raffrontare le analogie e le similitudini presenti con le disposizioni di cui all'art. 9 l.subf.
D'altronde, oltre alla presenza, in entrambe le discipline, di riferimenti generici per inquadrane i destinatari – imprese clienti e fornitrici” nella l.subf., “operatori economici” nel D.L. n. 1/2012 e l'utilizzo del termine “contraente” all'interno dell'art. 4 reg. attuativo della legge di conversione – le due normative risultano parzialmente coincidenti anche sotto un altro aspetto, ossia quello delle condotte vietate alle imprese nelle loro relazioni commerciali. Esemplificativa è infatti la lett. a) del co. 2 dell'art. 62, laddove si opera un riferimento alla “imposizione” di “clausole contrattuali ingiustificatamente gravose”, la quale non può non richiamare alla mente la seconda fattispecie tipica di abuso di dipendenza economica, consistente nella “imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie”. Non vi sarebbe necessità, peraltro, di focalizzarsi sui singoli termini od espressioni utilizzati dal legislatore per cogliere coincidenze tra le due discipline, in quanto, già dall'osservazione dell'elenco delle condotte vietate – ancor di più quelle specificate all'interno del reg. di attuazione – “si ha subito la sensazione di veder oggi tipizzati comportamenti che l’esperienza giurisprudenziale ha dimostrato realizzare il divieto di abuso di dipendenza economica, come se oggi il legislatore volesse arricchire quell’elenco nel quale si menzionavano le condotte tipiche dell’abuso di dipendenza economica231”.
Un ulteriore elemento che propende a favore dell'estensione del co. 2 art. 62 a tutti i rapporti commerciali tra gli operatori economici proviene inoltre dalla presenza, all'interno dello stesso comma in esame, dell'inciso “ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto le cessioni dei beni di cui al comma 1” inserito tra le parole “nelle relazioni commerciali tra operatori economici” e “è vietato”, che non lascerebbe dubbi in merito al fatto che ci si trovi dinanzi ad una regola generale, concernente il rapporto contrattuale tra gli imprenditori, a prescindere dal settore in cui operano o dall'oggetto dedotto all'interno del loro accordo232.
A sostegno di questo filone interpretativo, infine, vi è chi sostiene che potrebbe essere
231 X.X.XXXXXXXXX, X.XXXXXXXXX, op. cit.
232 M.TAMPONI, op. cit.
addotto il principio di ragionevolezza233, in quanto non sarebbe logico, dal punto di vista dell'ordinamento nel suo complesso, che una normativa volta a reprimere e sanzionare condotte commerciali sleali e, più in particolare, condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, potenzialmente integranti sia abuso di dipendenza economica che abuso di posizione dominante, debba essere limitata al campo agro- alimentare.
3. Le condotte commerciali sleali
Nonostante non si possano in tal sede dirimere le perplessità circa l'ambito di applicazione del co. 2 art. 62 D.L. n. 1/2012, si può procedere ad un esame dei singoli divieti introdotti nella regolazione delle “relazioni commerciali tra operatori economici”.
Pertanto, ai sensi della menzionata disposizione, costituisce condotta abusiva quella posta in essere da un'impresa che, in una relazione commerciale tra operatori economici, “ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1”:
a) imponga “direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattiva”;
b) applichi “condizioni oggettive diverse per prestazioni equivalenti”;
c) subordini “la conclusione, l'esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto degli uni e delle altre”;
d) consegua “indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali”;
e) adotti “ogni ulteriore condotta commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento”.
Come precedentemente evidenziato, le fattispecie qui evocate corrispondono in larga parte a quelle previste dall'art. 9 l. n. 192/1998, la cui maggior trattazione consente di
233 M.TAMPONI, op. cit.
analizzare più efficacemente le singole ipotesi qui previste. Per procedere ad una analisi delle singole fattispecie sarà inoltre necessario esaminare anche il regolamento di attuazione interministeriale, il quale, a sua volta, dedica l'art. 4 a fornire indicazioni più dettagliate. Tale analisi, tuttavia, prescinderà dall'ipotesi dettata dalla lett. e), con la quale è stata introdotta una clausola generale con applicazione residuale che consente di colpire le clausole contrattuali sleali atipiche. Del resto, stante la doverosa genericità della formulazione della norma, “un esame esaustivo è logicamente impossibile da svolgere in via preventiva234”.
3.1. Condizioni contrattuale ingiustificatamente gravose, condizioni extracontrattuali e retroattive
Nel silenzio della legge un'espressione ha destato l'attenzione degli interpreti, ossia quella prevista dalla lett. a), allorché si riferisce all'imposizione, oltre che di clausole contrattuali ingiustificatamente gravose, di “condizioni extracontrattuali e retroattive”. Un primo dubbio che si è posto nella mente degli interpreti ha avuto così ad oggetto il significato dell'espressione condizioni “extracontrattuali”, dal momento che è parsa una contraddizione in termini235. Posto tuttavia che dovesse considerarsi un'espressione “atecnica”236, frutto di una pessima tecnica legislativa, diversi autori si
234 Delibera AGCM n. 24465 del 24 luglio 2013 “IC43 – Settore della grande distribuzione organizzata”, Boll. 31/2013
235 M.TAMPONI, op. cit., sostiene infatti che “le condizioni – vuoi dettate all'interno di un rapporto commerciale, vuoi nell'ambito di un qualsiasi altro contatto intersoggettivo di ordine patrimoniale
– non possono che essere intrinsecamente contrattuali”. Un utile spunto, peraltro, potrebbe derivare dal provvedimento n. 25797/2015 dell'AGCM all'interno del quale una delle condotte di cui si chiede la valutazione consiste “nell’applicazione, nel corso del rapporto, di ulteriori sconti cd. “extracontrattuali”, aggiuntivi rispetto agli sconti contrattuali e legati alla realizzazione del piano promozionale nazionale, definiti e concordati da Coop Italia e Centrale Adriatica e successivamente comunicati a Celox Trade”.
236 Come afferma R.TORINO, il quale tuttavia concorda anche con quanto rilevato da ALBISINNI, Cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (o alimentari?): ancora un indefinito movimento, in Riv. dir. alim., 2012, 2, p. 10, secondo il quale con l’espressione “condizioni extracontrattuali”, “il legislatore intende probabilmente riferirsi a condizioni, il cui contenuto non è materialmente contenuto nel documento che regola la vendita o fornitura, ed è piuttosto contenuto in altra documentazione accessoria ed integrativa (quali, ad es., scambio di corrispondenza commerciale, standards di posizionamento e di offerta, partecipazioni ad iniziative di marketing, e simili). Dal punto di vista giuridico anche condizioni siffatte andrebbero qualificate propriamente “contrattuali”, siccome rientranti nell’insieme delle pattuizioni che complessivamente regolano il rapporto e che trovano la loro fonte in accordi comunque accettati (o subiti) dalle parti. L’espressione utilizzata dal legislatore sembra pertanto rispondere, più che a profili tecnici e sistematici, ad esigenze comunicative e di messaggio, nel senso di rendere evidente – anche sul piano del linguaggio – che pratiche e comportamenti qualificati ex lege come illeciti non potranno sfuggire a tale qualificazione soltanto in ragione della sede formale in cui sono state collocate”. Un altro possibile significato, invece, è riportato da X.X.XXXXXXXXX, X.XXXXXXXXX, op. cit., secondo i
sono successivamente chiesti se fossero vietate le condizioni extracontrattuali che fossero al contempo retroattive o se fossero due ipotesi di clausole abusive alternative. Sulla scorta di considerazione inerenti la ratio dell'art. 62, anche questo dubbio è stato tuttavia sciolto nel senso dell'alternatività tra le due clausole, in quanto “entrambe, anche singolarmente, si prestano al possibile abuso della posizione di forza contrattuale di una parte nei confronti dell'altra”237.
Per quanto invece attiene alle condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, il lavoro ermeneutico si presenta smisuratamente facilitato.
Da un lato, infatti, è possibile ricostruirne il significato sulla base delle considerazioni svolte nel capitolo 1 per l'art. 9 l. subf., sia a motivo del richiamo all'imposizione238, per cui “deve necessariamente presupporsi che ci si trovi al cospetto di un operatore in grado di dettare le condizioni, appunto in ragione dello squilibrio in proprio favore di diritti ed obblighi … nessuna imposizione sarebbe concepibile, se la parte astrattamente espostavi avesse la concreta e reale possibilità di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”239; sia sulla base dell'utilizzo della stessa espressione – clausole ingiustificatamente gravose – che consente di effettuare una comparazione non solo con la disciplina dell'abuso di dipendenza economica, ma anche con quella dell'art. 3 della l. n. 287/1990, ove tali imposizioni costituiscono un abuso di posizione dominante.
Dall'altro, ad apportare un ulteriore elemento semplificativo per l'interprete è l'art. 4, co. 2 del regolamento ministeriale di attuazione del decreto, il quale, tramite una valutazione ex ante del carattere ingiustificatamente gravoso di una clausola, compie una tipizzazione di queste utile240. Ai sensi di questa norma, infatti, si pone alle
quali tale termine “potrebbe essere riferito a tutte quelle condizioni che la parte forte tende a imporre senza menzionarle espressamente nel regolamento contrattuale, ma pattuendole fuori dal contratto”.
237 R.TORINO, op. cit., cit.
238 Art. 4 reg.: “Le disposizioni di cui all'art. 62, co. 2 … vietano qualsiasi comportamento del contraente che, abusando della maggior forza commerciale, imponga condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose”
239 M.TAMPONI, op. cit., cit.
240 Una tipizzazione di clausole ingiustificatamente gravose, extracontrattuali e retroattive è svolta peraltro dall'AGCM, nella delibera n. 24465 del 24 luglio 2013, IC43 – Settore della grande distribuzione organizzata”, Boll. 31/2013, ai sensi della quale rientrano in tali definizioni quelle clausole che prevedano “i)sconti, premi, contributi, storni o remunerazione di accordi di cooperazione commerciale da liquidarsi in via anticipata o in forma retroattiva; ii)contributi a carico del fornitore per le spese di marketing dell’insegna sostenuta dal distributore e/o contributi a carico del fornitore per spese di adeguamento del software del distributore e/o semplificazione contabile telematica (spese per razionalizzazione della fatturazione); iii)contributi a carico del
imprese il divieto di abusare della propria maggior forza commerciale per poter imporre “condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, ivi comprese quelle che:
a) prevedano a carico di una parte l'inclusione di servizi e/o prestazioni accessorie rispetto all'oggetto principale della fornitura, anche qualora queste siano fornite da soggetti terzi, senza alcuna connessione oggettiva, diretta e logica con la cessione del prodotto oggetto del contratto;
b) escludano l'applicazione di interessi di mora a danno del creditore o escludano il risarcimento delle spese di recupero dei crediti;
c) determinino, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, prezzi palesemente al di sotto dei costi di produzione medi dei prodotti oggetto delle relazioni commerciali e delle cessioni da parte degli imprenditori agricoli.”. Un'ulteriore ipotesi di condotta abusiva è poi sancita dal co. 3 dell'art. 4 reg. 199/2012, laddove si prevede che “configura, altresì, una pratica commerciale sleale la previsione nel contratto di una clausola che obbligatoriamente imponga al venditore, successivamente alla consegna dei prodotti, un termine minimo prima di poter emettere la fattura”; questo infatti si risolverebbe in una semplice elusione della normativa dettata dalla disciplina in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali di cui al d.lgs. n. 231/2002, in particolare laddove stabilisce il decorso automatico degli interessi moratori dal giorno dopo la scadenza del termine, il quale decorre a sua volta dalla data di ricevimento della fattura da parte del debitore o, se avviene in epoca successiva, dalla data di ricevimento delle merci o dei servizi. L'unica ipotesi fatta salva dalla disposizione in esame è quella in cui vi sia la “consegna dei prodotti in più quote nello stesso mese, nel qual caso la fattura potrà essere emessa solo successivamente all'ultima consegna del mese.”
Infine, è prevista un'ultima figura di condotta commerciale sleale dal co. 1 dell'art. 4, secondo il quale rientra appunto in tale definizione anche “il mancato rispetto dei
fornitore per i minori profitti derivanti dalla rivendita dei suoi prodotti; iv)pagamento di una somma forfetaria da parte del fornitore, cui è subordinata la tenuta in magazzino o altre attività logistiche, o per l’inclusione nel listino del distributore dei prodotti del fornitore, o per il mantenimento degli assortimenti nei punti vendita; v)sconti, premi, contributi per il solo rispetto dei termini di pagamento previsti dal contratto di fornitura; vi)facoltà per il distributore di respingere e/o restituire i prodotti o dedurre penali contrattualmente previste in assenza di preventiva contestazione e/o reclamo al fornitore nei termini previsti dal contratto di fornitura o in mancanza da quelli previsti dall’art. 1495 c.c”.
principi di buona prassi e le pratiche sleali identificate dalla Commissione europea e dai rappresentanti della filiera-agroalimentare a livello comunitario nell'ambito del Forum di Alto livello per un migliore funzionamento della filiera alimentare approvate in data 29.11.2011241”. Questa disposizione, tuttavia, in virtù del richiamo funzionale ai principi e alle prassi identificate nell'ambito del Forum di Alto livello per un migliore funzionamento della filiera alimentare, è destinata ad operare esclusivamente in tal settore, senza pertanto essere suscettibile di una interpretazione estensiva.
Da un rapido esame delle singole ipotesi di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose previste dal regolamento, si può osservare come le previsioni sub a) e b) siano essenzialmente ripetitive di quelle previste rispettivamente dalla lett. c) dell'art. 62, co. 2 D.L. 1/2012 e dai commi 3 e 4 dell'art. 7 d.lgs. n. 231/2002, mentre l'ultima ipotesi, di cui alla lett. c), sia di difficile osservazione da parte dei partner commerciali dell'impresa242. Nondimeno, anche tali ipotesi saranno necessariamente oggetto di trattazione.
(Segue) – a) Prestazioni gemellate
Tra la fattispecie classificate come condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose,
241 L'elenco di tali principi è piuttosto vasto e ricopre vari temi. -In tema di accordi: gli accordi devono essere in forma scritta, salvo casi nei quali ciò sia impraticabile o l'accordo a voce sia consentito da entrambe le parti, e devono essere chiari e trasparenti e includere il maggior numero possibile di elementi rilevanti e prevedibili, inclusi i diritti e le procedure di fine rapporto;-In tema di prevedibilità: modifiche unilaterali ai termini contrattuali non devono essere fatte a meno che le circostanze e le condizioni per queste non siano già state stabilite precedentemente. Gli accordi devono delineare il processo attraverso il quale ognuna delle parti possa discutere con l'altra le modifiche necessarie per l'implementazione dell'accordo o per risolvere circostanze imprevedibili, entrambi situazioni che devono essere contemplate nell'accordo stesso; -In tema di conformità: gli accordi devono essere rispettati; -In tema di informazione: qualora ci fosse uno scambio di informazioni, questo deve avvenire in conformità con la legislazione sulla concorrenza e le altre legislazioni applicabili, e le parti devono assicurarsi che le informazioni fornite siano corrette e non fuorvianti; -In tema di riservatezza: la confidenzialità delle informazioni deve essere rispettata a meno che le informazioni non siano già pubbliche o indipendentemente e legittimamente note alla parte che riceve l'informazione. Le informazioni devono essere usate dal destinatario solo per scopi legittimi per i quali sono state comunicate; -In tema di responsabilità: tutte le parti nella filiera devono prendersi i propri rischi imprenditoriali; -In tema di giustificazione: una parte non può esercitare minacce per ottenere un vantaggio ingiustificato o per trasferire un costo ingiustificato.
242 A sostegno di tale affermazione, v. R.TORINO, op. cit., secondo il quale i clienti di un'impresa “non possono essere evidentemente tenuti a conoscere i costi di produzioni medi dei prodotti, sia per la non univoca definizione di costi di produzione, sia perché si tratta di un dato oggettivamente per essi non disponibile” e pertanto “in tali ipotesi agli acquirenti di prodotti agricoli o alimentari non resterà che affidarsi alla veridicità delle dichiarazioni che in tal senso potranno essere rilasciate dai venditori dei prodotti medesimi”.
la lett. a) dell'art. 4 include tutte quelle clausole che “prevedano a carico di una parte l'inclusione di servizi e/o prestazioni accessorie rispetto all'oggetto principale della fornitura, anche qualora queste siano fornite da soggetti terzi, senza alcuna connessione oggettiva, diretta e logica con la cessione del prodotto oggetto del contratto”. Tali condizioni contrattuali costituiscono le c.d. prestazioni gemellate – o
c.d. tying contracts – e sono state ampiamente studiate dalla dottrina in materia antitrust in virtù delle potenziali ripercussioni che possono comportare sul mercato. La formula, d'altronde, riflette la disposizione dettata dalla l. n. 287/1990, all'art. 2, co.2, ove si sancisce il divieto di intese restrittive della concorrenza, “anche attraverso attività consistenti nel … subordinare la conclusione dei contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi”243.
(Segue) – b) Esclusione degli interessi di mora o del risarcimento delle spese per il recupero dei crediti
La seconda fattispecie di condizione contrattuale ingiustificatamente gravosa resa in via esemplificativa dall'art. 4 reg. 199/2012 è quella che esclude “l'applicazione degli interessi di mora a danno del creditore” o “il risarcimento delle spese di recupero dei crediti”.
Come è agevole notare anche in quest'altra ipotesi, la disposizione in esame ricalca
243 La somiglianza delle disposizioni era ancor più accentuata nella formulazione del decreto legge n.1/2012 e conseguente legge di attuazione, dove, all'art. 62. co. 2, lett c) si disponeva il divieto di “subordinare la conclusione, l'esecuzione di contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l'oggetto degli uni e delle altre”.
244 M.TAMPONI, op.cit.
quelle previste dall'art. 7, co. 3 e 4, a tenore dei quali “si considera gravemente
iniqua la clausola che esclude l'applicazione di interessi di mora”, senza possibilità di “prova contraria” e “si presume che sia gravemente iniqua la clausola che esclude il risarcimento per i costi di recupero di cui all'articolo 6”.
L'inserimento di tale ipotesi di clausola contrattuale tra le condotte commerciali qualificate come sleali dal D.L. n.1/2012 si spiega con le stesse considerazioni che hanno portato all'adozione di una specifica regolamentazione in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ad opera del d.lgs. n. 231/2002, modificato con d.lgs. n. 192/2012. Come infatti evidenziato nei numerosi “considerando” che hanno accompagnato le direttive europee in merito245, i termini contrattuali eccessivi e i ritardi di pagamento costituiscono un ostacolo al buon funzionamento del mercato interno europeo, impongono pesanti oneri amministrativi e finanziari alle imprese creditrici, costituiscono una tra le principali cause di insolvenza e determinano la perdita di numerosi posti di lavoro. Pertanto, per disincentivare tali condotte e prevenire l'abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, accanto alla previsione di un sistema di termini legali parallelo a quello convenzionale, sono stati previsti degli strumenti sanzionatori nei confronti dei debitori che dovessero violare tali termini e ledere gli interessi dell'impresa creditrice.
In primo luogo, infatti, è stato introdotto un saggio di interessi moratori più elevato rispetto alla disciplina codicistica, i quali scattano automaticamente, senza necessità di costituzione in mora, dal giorno successivo al termine pattuito dalle parti o stabilito ex lege.
In secondo luogo, nel caso in cui l'impresa debitrice non dovesse adempiere alla prestazione pecuniaria dedotta in contratto, è stata prevista una tutela risarcitoria a beneficio del creditore con la quale potrà rivalersi dei costi sostenuti per il recupero delle somme a lui dovute.
Rilevato perciò il carattere dissuasivo esercitato dagli interessi moratori o dal risarcimento dei costi di recupero dei crediti, non appare sorprendente che il legislatore abbia incluso anche le clausole che li escludano tra quelle aventi carattere “ingiustificatamente gravoso”, se dedotte in contratto dalla parte che abusa della propria maggior forza commerciale.
245 Direttiva 2000/35/CE e Direttiva 2011/7/UE.
(Segue) – c) Determinazione di prezzi sottocosto
L'esperienza acquisita in materia antitrust sembrerebbe risultare utile anche per effettuare una miglior ricostruzione della terza fattispecie prevista dall'art. 4 decreto ministeriale, la quale potrebbe riferirsi, seppur senza nominarla espressamente, alla pratica dei c.d. prezzi predatori. Ai sensi della lett. c) art. 4, infatti, è vietata l'imposizione di clausole ingiustificatamente gravose, ivi comprese quelle che “determinino, in contrasto con il principio della buona fede e della correttezza, prezzi palesemente al di sotto dei costi di produzione medi dei prodotti oggetto delle relazioni commerciali e delle cessioni da parte degli imprenditori agricoli”. Tuttavia, mentre la prima consiste in una strategia d'impresa che ha il fine di difendere la propria quota di mercato dall'ingresso di nuove imprese concorrenti e si concretizza nella riduzione del prezzo sostenuto dal consumatore finale246, la disposizione in esame è invece volta ad evitare che l'impresa cessionaria, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, possa imporre dei prezzi squilibrati, appunto al di sotto dei costi di produzione medi dei prodotti oggetto di cessione, tali da comprimere notevolmente il profitto dell'impresa cedente o perfino annullarlo del tutto. Con tale previsione si è pertanto voluto concedere al giudice la possibilità di sindacare anche il profilo economico del regolamento di interessi delle parti contraenti, come del resto era già stato riconosciuto per la disciplina dell'abuso di dipendenza economica.
3.2. Condizioni diverse per prestazioni equivalenti
Ulteriori fattispecie contrattuali rilevanti ai fini dell'applicazione del divieto di cui al co. 2 art. 62 D.L. 1/2012, nonostante la mancata trasposizione di queste ultime all'interno del decreto attuativo, si rinvengono all'interno dello stesso comma in esame, in virtù della loro accertata rilevanza e abusività sul piano contrattualistico nella contrattazione d'impresa. In particolare, ci si riferisce alle lett. b) e d) del co. 2
246 La strategia dei prezzi predatori crea una barriera all'entrata sul mercato. Ad esempio, in un mercato con pochi operatori (oligopolio), tali imprese, per scongiurare il rischio che un'altra impresa esterna al mercato di riferimento vi possa entrare, possono ridurre il prezzo di vendita del bene o servizio al di sotto del costo marginale di produzione, in modo da ridurre il proprio profitto o anche generare una temporanea perdita. Tale prezzo di mercato ribassato ovviamente mette in difficoltà la nuova impresa, la quale è costretta ad uscire dal mercato per non subire ingenti perdite. Una volta ottenuto tale risultato, le imprese oligopolistiche possono tornare ad applicare i prezzi precedenti e compensare così i minori profitti o le perdite subite.
art. 62.
Ai sensi della lett. b), pertanto, è vietato “applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti”. La disposizione in esame, come anche per le altre ipotesi, richiama alla mente le previsioni formulate sia all'interno della l.subf., nella parte in cui l'art. 9, co. 2, nel tipizzare le fattispecie tipiche dell'abuso di dipendenza economica, compie un riferimento all'imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente discriminatorie; sia le prescrizioni formulate dall'art. 3 della l. antitrust, laddove, nel vietare alle imprese intese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza, include, tra le attività idonee a causare tale conseguenza, anche l'applicazione, nei rapporti commerciali con altri contraenti, “condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza”.
Una volta che si sia accertata così la sostanziale coincidenza delle disposizioni in esame, per una esemplificazione di clausole ingiustificatamente discriminatorie nei contratti d'impresa è possibile rinviare a quanto si è già detto in proposito all'interno del par. 3.3 capitolo 1 del presente testo.
3.3. Indebite e ingiustificate prestazioni unilaterali
L'ultima fattispecie di cui si tratta è quella che si rivela più oscura agli occhi dell'interprete, in virtù di un tenore letterale che potrebbe apparire una mera reiterazione di quanto già previsto precedentemente.
A tenore della lett. d), co. 2 dell'art. 62, decreto legge 1/2012, infatti, si vieta di “conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali”.
Netta è la somiglianza della disposizione in esame a quella di cui alla lett. c) dello stesso co. 2 art. 62, laddove si compie un riferimento al fatto che entrambe le condotte/clausole “non abbiano alcuna connessione” o “non siano giustificate” dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali.
Ciò che tuttavia risulta meno chiaro, aspetto sul quale gran parte della dottrina si è interrogata, è quando si possa affermare la sicura illiceità, quindi quando si possa riconoscere la natura indebita, di una prestazione unilaterale. Poiché, infatti, non si
può qualificare come indebita prestazione unilaterale una eventuale gratificazione concessa da un operatore economico ad un’altra impresa o imprenditore, sembrerebbe che il legislatore, nel prevedere siffatta ipotesi di condotta sleale, abbia voluto riferirsi alla c.d. “tangente”247, mediante la quale un operatore economico può convincere un'altra impresa o, meglio, gli organi direttivi ed amministrativi della stessa, ad intraprendere azioni non conformi agli interessi dell'impresa governata. Una definizione di quest'ultima fattispecie è peraltro stata data dall'AGCM, la quale ha ritenuto che tale ipotesi miri “a colpire l'imposizione di pagamenti per servizi non richiesti e, comunque, non necessari alla conclusione del rapporto commerciali di compravendita dei prodotti, quali ad esempio … l'imposizione del pagamento di una somma forfettaria … per l'inclusione nel listino del distributore dei prodotti del fornitore”248.
4. Conseguenze della violazione dei divieti
Una volta esaminate le fattispecie tipiche integranti la condotta abusiva di un'impresa dotata di maggior forza commerciale249, è necessario spostare l'attenzione sui rimedi apprestati dal legislatore. Se, infatti, l'art. 9 l.subf., sulla scia dei rimedi apprestati dalla l.antitrust, dispone la nullità del patto attraverso il quale si realizza l'abuso di dipendenza economica e la possibilità, per l'impresa lesa, di agire in giudizio per ottenere l'inibitoria il risarcimento del danno, l'art. 62 D.L. n. 1/2012 appresta rimedi parzialmente differenti.
Innanzitutto, infatti, in virtù del co. 6, art. 62, “salvo che il fatto costituisca reato, il contraente, ad eccezione del consumatore finale, che contravviene gli obblighi di cui al comma 2 è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2.000,00 a euro 50.000,00. La misura della sanzione è determinata facendo riferimento al beneficio ricevuto dal soggetto che non ha rispettato i divieti di cui al comma 2”.
Tali sanzioni, in virtù del co. 8 del decreto in esame, sono comminate dall'AGCM, il quale, dall'entrata in vigore della presente disciplina, ha emanato diversi
247 Di questa opinione, M.TAMPONI, op. cit.
248 Delibera AGCM n. 24465 del 24 luglio 2013 “IC43 – Settore della grande distribuzione organizzata”, Boll. 31/2013
249 La maggior forza commerciale di una parte può essere desunta da molteplici fattori. V. ad esempio Provvedimento AGCM, n. 25797/2015, in cui l'autorità
In secondo luogo, il co. 10 dell'art. 62 fa salva la possibilità per l'impresa danneggiata di agire “in giudizio per il risarcimento del danno derivante dalle violazioni della presente disposizione, anche ove promosse dalle associazioni dei consumatori aderenti al CNCU e delle categorie imprenditoriali presenti nel CNEL o comunque rappresentative a livello nazionale251”. L'ultimo periodo del comma 10 attribuisce inoltre alle stesse associazioni la legittimazione ad agire, a tutela degli interessi collettivi, in via d'urgenza ai sensi degli artt. 669 bis ss. del c.p.c. affinché l'autorità giudiziaria ordinaria conceda un'inibitoria contro l'impresa che violi i divieti posti dall'art. 62, co. 2.
Da un lato, pertanto, la tutela risarcitoria si conferma quale strumento fondamentale per ripristinare gli interessi dell'impresa lesa dalla condotta sleale altrui; dall'altro sorprende la mancata previsione di una sanzione di nullità per le pattuizioni contrattuali abusive, che invece qui lascia il posto ad un rimedio di carattere sanzionatorio pecuniario.
La dottrina su questo punto non è unanime, in realtà; in base ad un altro filone, infatti, il risarcimento del danno non si presenta come strumento atto a garantire l'integrale riparazione dell'interesse leso, che può essere solo soddisfatto da una previsione di nullità, ancorché virtuale, tesa a garantire una sorta di riparazione in forma specifica. Ciò perché, se lo scopo del divieto è “quello di impedire che, nel regolamento contrattuale, vengano introdotte clausole troppo penalizzanti per la parte
250 Il primo provvedimento emanato sulla base della disciplina introdotta dal'art. 62 è stato il n. 25551,
AL12 – Eurospin/modifica condizioni contrattuali con fornitori, conclusosi con archiviazione. Un altro provvedimento rilevante è stato quello emanato in data 22 dicembre 2015, n. 25797, con il quale l'AGCM ha irrogato una serie di sanzioni amministrative a carico di Coop Italia e di Centrale Adriatica.
251 Il secondo periodo del co. 10 riconosce inoltre alle stesse associazioni la legittimazione “ad agire, a tutela degli interessi collettivi, richiedendo l'inibitoria ai comportamenti in violazione della presente disposizione ai sensi degli articoli 669-bis e seguenti del codice di procedura civile”.
252 M.TAMPONI, op. cit.
commercialmente debole”, tali da configurare un abuso, “non sembra irragionevole far conseguire dalla violazione del divieto la nullità virtuale delle clausole che ne costituiscono la pratica concretizzazione”253.
Nel momento in cui si tuttavia propende per l'impossibilità di una nullità virtuale della disciplina sanzionatoria in questione, si pongono due problemi di coordinamento con le altre discipline già esaminate.
In primo luogo, infatti, per quanto concerne le sanzioni amministrative pecuniarie, problematica si rivela la prospettiva del coordinamento nei casi in cui queste conseguano a delle violazioni che ricadano anche nel campo di applicazione della disciplina di cui all'art. 9 l.subf., il che avviene, come si è visto, per l'imposizione di clausole ingiustificatamente gravose. Peraltro, qualora queste dovessero consistere in clausole escludenti interessi moratori o risarcimento dei costi di recupero dei crediti, problemi si porrebbero anche con la regolamentazione dettata dal d.lgs. n. 231/2002. In secondo luogo, esigenze di coordinamento si prospettano nei casi in cui altre disposizioni contemplino, per le stesse clausole contrattuali, la sanzione della nullità, come avviene per le stesse clausole ingiustificatamente gravose nell'ambito dell'abuso di dipendenza economica e per le clausole escludenti interessi moratori o risarcimento dei costi di recupero dei crediti nella disciplina ex art. 7 d.lgs. n. 231/2002.
5. I contratti agro-alimentari
Come si è visto, l'art. 62 D.L. n. 1/2012 ricopre un duplice ambito di applicazione. Da un lato, infatti, i commi 2 e 6 sono destinati specificatamente a regolare le relazioni commerciali tra gli “operatori economici”; dall'altro, invece, gli altri commi regolano gli aspetti strutturali e contenutistici dei contratti agro-alimentari, conclusi da parti in posizione indifferentemente di parità o disparità.
Ai sensi del co. 1 del decreto in esame, si definiscono tali “i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale254”. Relativamente a questi contratti, la norma in esame si occupa di disciplinarne la forma e il contenuto e impone che gli stessi debbano essere “stipulati obbligatoriamente in forma scritta” ed indicare “a pena di nullità, la
253 X.X.XXXXXXXXX, X.XXXXXXXXX, op.cit.
254 Ed eccetto quelli conclusi tra imprenditori agricoli, come disposto dall'art. 36, co. 6-bis D.L. 18 ottobre 2012, n. 179
durata, le quantità e le caratteristiche del prodotto venduto, il prezzo, le modalità di consegna e di pagamento”. Inoltre, la stessa disposizione si occupa di fornire dei criteri cui devono ispirarsi le parti nella stesura del regolamento contrattuale, quali i “principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti”.
Quale strumento di enforcement pubblico per garantire il rispetto della normativa in esame, il co. 5 dell'art. 62 prevede che, “salvo che il fatto costituisca reato, il contraente, ad eccezione del consumatore finale, che contravviene agli obblighi di cui al comma 1, è sottoposto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 1.000,00 a euro 40.000,00”. L'entità della sanzione, peraltro, ai sensi del secondo periodo, “è determinata facendo riferimento al valore dei beni oggetto di cessione”.
Tuttavia, ciò che maggiormente rileva in tal sede è la deroga alla disciplina del d.lgs.
n. 231/2002 e successive modificazioni, introdotta dal D.L. n. 1/2012 per quanto riguarda i contratti di cui al comma 1 e le clausole ivi inserite riguardanti il termine di pagamento e il saggio di interessi moratori.
5.1. La disciplina dei termini di pagamento e degli interessi moratori nei contratti agro-alimentari
Il decreto legislativo n. 231/2002, come visto all'interno del secondo capitolo, detta una disciplina uniforme che informa tutti i contratti commerciali a prestazioni sinallagmatiche per quanto riguarda le clausole inerenti i termini di pagamento, il saggio degli interessi moratori e il risarcimento dei danni per il costo di recupero dei crediti.
Ai sensi del vecchio art. 4 d.lgs. sulla lotta per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, inoltre, erano previste delle deroghe al regime generale concernenti i prodotti alimentari.
Si prevedeva infatti che, da un lato, “per i contratti aventi ad oggetto la cessione di
prodotti alimentari deteriorabili255, il pagamento del corrispettivo deve essere
255 Definiti dall'art. 2, lett. f) d.lgs. n. 231/2002: “quelli definiti tali da apposito decreto del Ministro delle attività produttive. In sede di prima applicazione delle disposizioni di cui al presente comma, e comunque fino alla data di entrata in vigore del citato decreto del Ministro delle attività produttive, per prodotti alimentari deteriorabili si intendono quelli come tali definibili ai sensi
effettuato entro il termine legale di sessanta giorni dalla consegna o dal ritiro dei prodotti medesimi e gli interessi decorrono automaticamente dal giorno successivo alla scadenza del termine”. In queste ipotesi “il saggio degli interessi di cui all'art. 5, comma 1, è maggiorato di ulteriori due punti percentuali ed è inderogabile”.
Dall'altro lato, al co. 4 dell'art. 4, si prevedeva che “le parti, nella propria libertà contrattuale” potessero “stabilire un termine superiore rispetto a quello legale di cui al comma 3 a condizione che le diverse pattuizioni” fossero “stabilite per iscritto” e rispettassero “i limiti concordati nell'ambito di accordi sottoscritti, presso il Ministero delle attività produttive, dalle organizzazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale della produzione, della trasformazione e della distribuzione per categorie di prodotti deteriorabili specifici”.
In seguito all'abrogazione di queste disposizioni ad opera dell'art. 11 del decreto legge 1/2012, la deroga concernente i prodotti agro-alimentari è stata trasfusa all'interno dello stesso decreto, con modificazioni. Innanzitutto, si prevede infatti all'interno del co. 3, art. 62 che, “per i contratti di cui al comma 1, il pagamento del corrispettivo deve essere effettuato per le merci deteriorabili entro il termine legale di trenta giorni e per tutte le altre merci entro il termine di sessanta giorni”. Per quanto riguarda la definizione di prodotto alimentare deteriorabile, questa è rinvenibile all'interno del comma 4 dell'art. 62, in base al quale con quest'espressione “si intendono i prodotti che rientrano” nelle categorie dei:
a) “prodotti agricoli, ittici e alimentari preconfezionati che riportano una data di scadenza o un termine minimo di conservazione non superiore a sessanta giorni”;
b) “prodotti agricoli, ittici e alimentari sfusi, comprese erbe e piante aromatiche, anche se posti in involucro protettivo o refrigerati, non sottoposti a trattamenti atti a prolungare la durabilità degli stessi per un periodo superiore a sessanta giorni”;
c) “prodotti a base di carne che presentino le seguenti caratteristiche fisico-chimiche: aW superiore a 0,95 e pH superiore a 5,2 oppure aW superiore a 0,91 oppure pH uguale o superiore a 4,5”;
Infine, vi rientrano d) “tutti i tipi di latte”.
Inoltre, è scomparso il riferimento alla diversa volontà delle parti presente all'interno dell'art. 4 del d.lgs. n. 231/2002, per cui si deve ritenere che il suddetto termine di
dell'articolo 1 del decreto del Ministro della sanità in data 16 dicembre 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 303 del 28 dicembre 1993”.