Decreto sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti Scheda di lettura e commento
Decreto sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti
Scheda di lettura e commento
a cura di Xxxxx Xxx
Ambito di applicazione
Le disposizioni in materia di licenziamento concernenti il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si applicano esclusivamente ai lavoratori del settore privato assunti dopo l’entrata in vigore del decreto in esame.
Si precisa peraltro che la nuova disciplina si applica anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
Se a seguito di nuove assunzioni a tempo indeterminato si supera la soglia dei 15 dipendenti il nuovo regime si estende anche ai lavoratori assunti in precedenza.
Per i lavoratori delle piccole imprese (fino a 15 dipendenti) il diritto alla reintegrazione è disposto, secondo la normativa preesistente, solo nel caso di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale, mentre l’importo delle indennità connesse al licenziamento, nonché alla conciliazione agevolata è dimezzato, non potendo in alcun caso superare il limite di 6 mensilità.
Il nuovo regime si applica anche alle organizzazioni di tendenza (partiti, sindacati, ecc..).
E’ da valutare con favore la previsione, proposta dalle Commissioni Parlamentari, di applicare la nuova disciplina anche nel caso di conversione di contratto a termine in contratto a tempo indeterminato (in armonia con quanto stabilito dalla “Legge di Stabilità 2015”) nonché di trasformazione in rapporto ordinario del rapporto di apprendistato (che già tuttavia è un contratto a tempo indeterminato).
E’ da sottolineare criticamente come per i lavoratori delle imprese fino a 15 dipendenti non solo non si estenda il più limitato regime della reintegrazione nel caso di licenziamento per ragioni disciplinari, ma si stabiliscano importi minimi indennitari mediamente inferiori a quelli preesistenti.
Il regime di tutela del licenziamento illegittimo
Resta ferma l’applicazione dell’art. 18, St. lav., con tutela economica piena, per i licenziamenti discriminatori ai sensi dell’art. 15, St. lav. e successive modificazioni, ovvero riconducibili ad altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.
La disciplina della reintegra, con tutela economica piena, trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
Se non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (per ragioni economiche) o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (per ragioni disciplinari), il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità, non assoggettata a contributo previdenziale, di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.
Rimane una ristretta area di “tutela reale” (reintegra più pagamento di un’indennità risarcitoria, comunque non superiore a 12 mensilità) nelle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa “in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.
Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione o della procedura disciplinare, di cui all’art. 7, dello Stat. lav., il lavoratore ha diritto ad una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità. Se tuttavia il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi sia anche un difetto di giustificazione del licenziamento si applicano le tutele previste per le diverse fattispecie.
Il testo definitivo riconduce il licenziamento illegittimo per disabilità (anche sopravvenuta) fisica o psichica del lavoratore tra le fattispecie a cui si applica la disciplina dei licenziamenti discriminatori.
Molti peraltro sono gli spunti interpretativi rispetto alla residua area della reintegra.
Un primo profilo concerne la definizione di “fatto materiale”, che qualora sia provato insussistente darà luogo alla reintegrazione del lavoratore. A ben vedere la distinzione tra fatto materiale e fatto giuridico, operata da dottrina e giurisprudenza, è assai opinabile: dovrà infatti in ogni caso trattarsi di un fatto “imputabile” al lavoratore, tale da qualificarsi come inadempimento contrattuale.
Un secondo aspetto problematico riguarda il riparto dell’onere della prova. Fermo restando l’onere della prova a carico del datore di lavoro in riferimento alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento, non essendo sul punto superato il
principio posto dall’art. 5, della legge n. 604/1966, l’onere della prova rispetto alla insussistenza del fatto materiale contestato (unica fattispecie di tutela reintegratoria, configurabile ancor più che nella “legge Fornero” come eccezione rispetto alla regola generale dell’indennizzo) è in capo al lavoratore, che peraltro potrà farlo solo mediante prova “diretta”.
Il tentativo poi di sottrarre all’accertamento giudiziale l’eventuale sproporzione della sanzione del licenziamento rispetto all’ “insussistenza” (più propriamente alla “sussistenza”) del fatto materiale contestato al lavoratore contrasta con principi fondamentali del nostro ordinamento, quale il principio di proporzionalità tra mancanze e sanzioni, espressamente riconosciuto dall’art. 2106 del cod. civ., con riferimenti nella Costituzione e nel diritto internazionale e comunitario, difficilmente superabili, pena il dar luogo a situazioni paradossali, per cui una mancanza lieve (ad esempio il ritardo al lavoro) sarebbe punita con la sanzione massima (licenziamento con indennizzo).
Non è stata infine richiamata l’ipotesi della reintegrazione, prevista dalla “legge Fornero”, per le condotte punibili da parte dei contratti collettivi o dei codici disciplinari applicabili con sanzioni di tipo conservativo, alternative al licenziamento. Sul punto è da sottolineare che stante i principi generali che regolano il rapporto tra legge e contrattazione collettiva, le previsioni contrattuali in materia di sanzioni disciplinari continueranno a valere, per quanto applicabili, anche in presenza del nuovo regime, potendosi considerare come “norme di miglior favore” per il lavoratore. Da invocare peraltro anche il principio di libertà di contrattazione collettiva, stabilito dall’art. 39, Cost., per cui non si potrebbe impedire il libero esplicarsi della disciplina collettiva in materia. La ripetuta violazione della normativa collettiva in tema di sanzioni disciplinari potrebbe inoltre configurare comportamento antisindacale.
Da segnalare che ai fini dell’indennità economica il testo definitivo prende come parametro “l’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto”, che potrebbe risultare tuttavia meno ampio di quello della “ultima retribuzione globale di fatto”, considerato invece in precedenza.
Computo dell’anzianità negli appalti
Nei cambi di appalto, per il calcolo dell’indennizzo economico in caso di licenziamento, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendo conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.
Sarebbe stato opportuno, come chiesto dalla Cisl, trovare soluzioni che escludessero l’applicazione del nuovo regime delle tutele crescenti in caso di cambio di appalto, anche tramite un rinvio alla contrattazione collettiva, stante che la
materia della successione negli appalti, ivi compresa la stabilità dei rapporti di lavoro, trova la propria disciplina in tale sede.
Va peraltro rilevato che in base all’art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003, “l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte di azienda”. Richiamando tuttavia la normativa comunitaria, in special modo la direttiva n. 77/187/CEE, alla luce dell’interpretazione fattane dalla Corte di Giustizia UE, sono da considerare trasferimento d’azienda, con continuità dunque dei rapporti di lavoro, quei cambi di appalto in cui l’attività si basi essenzialmente sull’utilizzo di mano d’opera, come ad esempio nel settore delle pulizie, e pertanto sussista coincidenza dell’ attività economica esercitata.
L’applicazione del nuovo regime delle tutele crescenti non dovrebbe peraltro estendersi, ma sul punto sarebbe opportuno un chiarimento con circolare, all’ipotesi di rapporti di lavoro cessati ed instaurati nell’ambito di società controllate o collegate ai sensi dell’art. 2359 del cod. civ. – cd. “mobilità infragruppo” -, particolarmente rilevante nei processi di riorganizzazione di gruppo disciplinati dai contratti collettivi, specie nel settore dei servizi (ad esempio nel comparto bancario ed assicurativo), e ciò per la sostanziale identità del datore di lavoro.
Licenziamento collettivo
In caso di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, il diritto alla reintegrazione sussiste solo se il licenziamento è intimato senza l’osservanza della forma scritta, mentre in caso di violazione delle procedure, compresa quella sindacale, a cui si aggiunge ora la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, si applica solo l’indennizzo monetario (tra un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità) al pari di quanto previsto per i licenziamenti individuali di carattere economico.
E’ questa tra le norme più discusse e discutibili, come accennato, stante anche il parere in senso contrario espresso dalle Commissioni Parlamentari.
L’estensione del nuovo regime ai licenziamenti collettivi pare una forzatura non richiesta dalla legge delega, che non contiene alcun riferimento alla revisione della normativa in materia. I criteri di scelta dei lavoratori da licenziare sono in genere definiti dalla contrattazione collettiva e solo in mancanza dalla legge; per cui le soluzioni sono trovate a monte, in sede di accordo sindacale, la cui tenuta sarebbe stato opportuno non indebolire. La previsione peraltro, trovando applicazione solo ai neo assunti a tutele crescenti, rischia, più che su altri aspetti, di generare confusione, stante la differenza di regimi sanzionatori tra rapporti vecchi e nuovi. D’altro lato si potrà sempre sostenere il carattere discriminatorio delle scelte effettuate.
La conciliazione “agevolata”
Al fine di evitare il ricorso in giudizio, e ferma restando la possibilità di utilizzare le procedure di conciliazione esistenti, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni) in una delle sedi “protette”, di cui all’art. 2113, comma 4, del codice civile e all’art. 76, del d.lgs. n. 276/2003 (Direzione territoriale del lavoro, sede sindacale o giudiziale, commissioni di certificazione), un importo non assoggettato a tassazione né a contributo previdenziale pari ad una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’offerta da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario. Dell’avvenuta (o non avvenuta) conciliazione va data obbligatoria comunicazione al Centro per l’impiego.
Il decreto rafforza, come opportuno, le procedure volte a scoraggiare il ricorso giudiziario, tramite l’introduzione di una nuova forma di conciliazione “agevolata”, utilizzabile da tutte le aziende, a prescindere dal numero dei dipendenti, e per tutte le tipologie di licenziamento. Positivo è anche il riferimento, accanto alla sede sindacale, alle commissioni di certificazione, tra cui gli enti bilaterali, quali sedi presso le quali il datore di lavoro può presentare la sua offerta di carattere economico.
D’altro lato la conciliazione torna ad essere pienamente facoltativa e non più obbligatoria, secondo quanto previsto dalla “legge Fornero”, seppur limitatamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo davanti alla DTL (è da segnalare che la conciliazione preventiva presso la DTL ha dato buoni risultati applicativi, risolvendosi positivamente nel 47% dei casi).
E’ da ritenere, ma sarebbe utile un chiarimento con circolare interpretativa, che l’accettazione dell’offerta economica da parte del lavoratore non pregiudichi il suo diritto all’ASPI, dal momento che tale accettazione non può configurarsi come risoluzione consensuale del rapporto di lavoro; si tratta infatti pur sempre di disoccupazione involontaria verificatasi per atto del datore di lavoro.
Anche in materia di conciliazione si dà tuttavia luogo a due regimi paralleli, con regole diverse, dal momento che per i lavoratori a tempo indeterminato già in organico prima dell’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs Act continuerà ad applicarsi la procedura obbligatoria presso la DTL, mentre non sarà utilizzabile la conciliazione agevolata. In una prospettiva di semplificazione ed
omogeneizzazione delle procedure conciliative sarebbe stato invece auspicabile rendere l’utilizzo della conciliazione agevolata di generale applicazione.
Rito applicabile
Ai licenziamenti concernenti i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti non si estende, sul piano delle regole processuali, il rito speciale previsto dalla “Legge Fornero” (art.1, commi 48 e seguenti, della legge
n. 92/2012), trovando invece applicazione il rito ordinario.
Si tratta di un’ulteriore differenza (non richiesta) di discipline, anche sul piano del processo del lavoro, che necessita di una più meditata rivisitazione complessiva.