Edizione di martedì 23 marzo 2021
Edizione di martedì 23 marzo 2021
Obbligazioni e contratti
Il pagamento dell’indennità per il patto di non concorrenza postcontrattuale nel rapporto di agenzia
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Procedimenti di cognizione e ADR
La rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Esecuzione forzata
La caducazione del titolo esecutivo per obblighi di fare travolge anche il decreto ingiuntivo emesso per le spese dell’esecuzione in forma specifica, ai sensi dell’art. 614 c.p.c.
di Xxxxx Xxxxxxxx
Obbligazioni e contratti
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul contratto di assicurazione con clausola claims mad
di Xxxxxxx Xxxxxx
Proprietà e diritti reali
Frazionamento di lotti di terreno a scopo edificatorio e limitazioni a carico dei successivi aventi causa
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Diritto e procedimento di famiglia
Non ha diritto al mantenimento il coniuge separato che rifiuta lavori non consoni al suo titolo
di studio
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Diritto e reati societari
La legittimazione dell’associazione professionale all’insinuazione al passivo
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Accesso alla procedura di piano del consumatore del socio illimitatamente responsabile dopo la riforma del 2020 della Legge n. 3/2012
di Xxxxx Xxxxxxxx
Diritto Bancario
Accordi a "saldo e tralcio" e segnalazione in Centrale dei rischi
di Xxxxx Xxxxxxxx
Soft Skills
La selezione dei collaboratori: dalla ricerca all'inserimento in studio
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Business Coach e Formatore
Obbligazioni e contratti
Il pagamento dell’indennità per il patto di non concorrenza postcontrattuale nel rapporto di agenzia
di Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx
Tribunale di Venezia, 19 gennaio 2021
Parole chiave
Contratto di agenzia – Patto di non concorrenza postcontrattuale – Pagamento dell’indennità
Massima
Nell’ambito del contratto di agenzia, in presenza di un patto di non concorrenza postcontrattuale il preponente è obbligato a corrispondere all’agente un’indennità, il cui ammontare va calcolato in base all’accordo economico collettivo applicabile al caso di specie.
Disposizioni applicate
Art. 1751 bis c.c. (patto di non concorrenza)
CASO
Fra le parti venne originariamente concluso, nel 1991, un contratto di agenzia. Nel 2003 il contratto di agenzia venne integrato con un patto di non concorrenza postcontrattuale della durata di due anni. Infine, nel 2017, il preponente invia disdetta dal contratto di agenzia. Cessato il rapporto di agenzia, l’agente chiede al preponente il pagamento di una somma per il periodo di due anni previsto dal patto di non concorrenza. Poiché il preponente non effettua il pagamento, l’agente cita il preponente davanti al Tribunale di Venezia.
SOLUZIONE
Il Tribunale di Venezia ritiene fondata la richiesta dell’agente e condanna dunque il preponente a pagare l’importo di € 44.763 a titolo di indennità per il divieto di concorrenza postcontrattuale.
QUESTIONI
L’art. 1751 bis c.c., rubricato “patto di non concorrenza” prevede che “il patto che limita la
concorrenza da parte dell’agente dopo lo scioglimento del contratto deve farsi per iscritto. Esso deve riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso il contratto di agenzia e la sua durata non può eccedere i due anni successivi all’estinzione del contratto” (comma 1).
La disposizione riguarda il patto che limita la concorrenza dopo lo scioglimento del contratto. Durante il rapporto, difatti, le parti non possono farsi reciproca concorrenza. Più precisamente “il preponente non può valersi contemporaneamente di più agenti nella stessa zona e per lo stesso ramo di attività, né l’agente può assumere l’incarico di trattare nella stessa zona e per lo stesso ramo gli affari di più imprese in concorrenza tra loro” (art. 1743 c.c.). Finché è in forza il contratto di agenzia vi è un’esclusiva reciproca, la quale implica che le parti non possano farsi concorrenza. Del resto l’obiettivo comune di preponente e agente è quello di massimizzare le vendite, e questo risultato può essere raggiunto solo in caso di massima collaborazione fra le parti. La prospettiva cambia completamente una volta scioltosi il contratto: il vincolo di esclusiva non sussiste più, e le parti possono liberamente farsi concorrenza. Per quanto riguarda in particolare l’agente, questi potrà iniziare a lavorare per un secondo preponente, anche se si tratta di preponente che opera in concorrenza con il primo preponente. Del resto si tratta della soluzione più vantaggiosa per l’agente, il quale è già introdotto in un certo mercato e può dunque apportare maggiori vantaggi al nuovo preponente.
Se il preponente vuole evitare che l’agente, una volta cessato il rapporto, inizi un’attività in concorrenza, deve limitare l’agente con un apposito patto e deve riconoscergli un’indennità per le limitazioni poste. Come emerge dall’art. 1751 bis c.c., le parti del contratto di agenzia possono limitare la concorrenza dell’agente una volta cessato il rapporto di agenzia. Poiché la limitazione alla concorrenza può implicare una significativa restrizione della capacità lavorativa dell’agente, la disposizione pone alcuni vincoli:
1) è necessaria la forma scritta;
2) il patto deve riguardare la medesima zona;
3) le limitazioni alla concorrenza non possono durare più di due anni.
Laddove venga stipulato un patto di non concorrenza che travalica questi limiti fissati dalla legge, si pone la domanda se il patto sia totalmente nullo (non operando dunque alcun divieto di concorrenza) oppure se sia nullo solo parzialmente, nella misura in cui esorbita dai limiti. La Corte di cassazione (16 settembre 2010, n. 19586) ha preso posizione sul punto, statuendo che il patto di non concorrenza è valido solo nell’ambito della medesima zona e clientela, mentre deve ritenersi nullo per le parti eccedenti, con esclusione di ogni derogabilità da parte della contrattazione collettiva attesa la natura indisponibile alle parti della previsione di cui all’art. 1751 bis comma 1 c.c. Questa soluzione (nel senso di conservazione parziale del patto) è del resto conforme alle regole generali sulla nullità parziale. A mente, difatti, dell’art. 1419 comma 1 c.c. “la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la
nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità”. Ex negativo si ricava che, di norma, la nullità di parte del contratto non implica la nullità dell’intero contratto.
Il comma 2 dell’art. 1751 bis c.c. prevede che “l’accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all’agente di una indennità di natura non provvigionale. L’indennità va commisurata alla durata, non superiore a due anni dopo l’estinzione del contratto, alla natura del contratto di agenzia e all’indennità di fine rapporto. La determinazione della indennità in base ai parametri di cui al precedente periodo è affidata alla contrattazione tra le parti tenuto conto degli accordi economici nazionali di categoria. In difetto di accordo l’indennità è determinata dal giudice in via equitativa”. Il Tribunale di Venezia, nella sentenza del 19 gennaio 2021, fa un’applicazione lineare di queste disposizioni di legge, calcolando l’indennità sulla base dell’AEC applicabile al caso di specie.
Xxxxxxx volta le parti concordano che l’indennità per il patto di non concorrenza postcontrattuale venga pagata già durante il rapporto, e non solo alla fine. Dal punto di vista letterale, questa soluzione parrebbe in contrasto con la legge. L’art. 1751 bis comma 2 c.c. prevede difatti che “l’accettazione del patto di non concorrenza comporta, in occasione della cessazione del rapporto, la corresponsione all’agente commerciale di una indennità”. Questo meccanismo risulta però rigido, in quanto potrebbe essere vantaggioso per ambedue le parti che l’indennità venga pagata, almeno in parte, già durante il rapporto, sia per sostenere economicamente l’agente fin da subito, sia per evitare che l’esborso del preponente risulti troppo oneroso alla fine del rapporto. Il Tribunale di Roma (17 marzo 2016) si è occupato di questa problematica. Secondo il tribunale capitolino il richiamo al momento della cessazione del rapporto contenuto in tale disposizione attiene alla maturazione del relativo diritto, laddove nulla esclude che le parti si accordino per un pagamento frazionato già in costanza di rapporto, costituendo tale modalità espressione di una loro libera scelta.
Procedimenti di cognizione e ADR
La rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Cass., sez. I, 3 marzo 2021, n. 5795, Pres. Cristiano – Est. Mercolino
[1] CTU – Acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio – Censura in sede di legittimità – Modalità e oneri (art. 196 c.p.c.)
La parte che in sede di legittimità lamenti l’acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l’operato, ma è tenuta, in ossequio al principio di specificità del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ad indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche mosse agli stessi, in modo tale da consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione.
CASO
[1] Il curatore di un fallimento proponeva azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. nei confronti dell’amministratore della società fallita per violazione del divieto d’intraprendere nuove operazioni dopo la perdita dell’intero capitale sociale e per omissione di vigilanza.
La domanda, anche sulla base delle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio, veniva accolta dal Tribunale di Messina, con conseguente pronuncia di sentenza di condanna di tale soggetto al risarcimento dei danni.
La pronuncia veniva successivamente confermata in secondo grado, dove l’appellante richiedeva, senza successo, la rinnovazione delle operazioni del c.t.u.. Tra i motivi di rigetto dell’appello proposto, per quanto qui interessa, la Corte riteneva corretta la ricostruzione della contabilità sociale compiuta dal c.t.u., rilevando la genericità delle critiche mosse dall’appellante.
La pronuncia veniva fatta oggetto di ricorso per cassazione con il quale, nella presente sede, verrà esaminato il motivo dedicato all’apprezzamento svolto dal giudice di seconde cure circa le operazioni svolte dal c.t.u. Per l’esattezza, il ricorrente lamentava l’errata interpretazione delle voci di bilancio da parte del giudice d’appello – dalle quale sarebbero emerse le violazioni imputate all’amministratore -, affermando la necessità della rinnovazione della c.t.u. ai fini della ricostruzione della reale situazione contabile della società.
SOLUZIONE
[1] La Suprema Corte rigetta il ricorso nella sua interezza, dichiarando, tra l’altro, l’inammissibilità del singolo motivo qui in esame.
Nello specifico, la Cassazione ha ricordato il proprio consolidato orientamento, secondo cui la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire il
c.t.u. a chiarimenti ovvero di rinnovare, in parte o in toto, le indagini, sostituendo il consulente, è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato (in tal senso, Cass., 24 gennaio 2019, n. 2103; Cass., 30 marzo 2010, n. 7622; Cass., 14 novembre 2008, n. 27247).
Nel caso di specie, tale adeguata motivazione risultava emergere dal complesso delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata a sostegno dell’adesione alle conclusioni rassegnate dal c.t.u., la cui irrituale contestazione – in quanto affetta da genericità -, comportandone la definitività, escludeva la possibilità di censurare la decisione di non procedere alla rinnovazione della consulenza.
QUESTIONI
[1] La questione affrontata dalla Cassazione, e che verrà presa in esame nello sviluppo del presente commento, attiene all’identificazione delle corrette modalità per procedere alla censura dell’attività svolta dal c.t.u. nominato, sì da poter ottenere, se del caso, la rinnovazione delle operazioni.
La consulenza tecnica è lo strumento, disciplinato agli artt. 61 ss. e 191 ss. c.p.c., di cui il giudice può avvalersi d’ufficio laddove, per la decisione di determinate questioni, sia necessaria l’acquisizione di uno specifico sapere tecnico.
La consulenza viene espletata da un soggetto esperto il quale, al termine delle proprie operazioni, è chiamato a redigere una relazione, sulla quale le parti sono legittimate a presentare osservazioni, che saranno oggetto di una successiva sintetica valutazione da parte del consulente stesso (art. 195, 3°co., c.p.c.).
Alla rinnovazione delle indagini e alla sostituzione del consulente è dedicato l’art. 196 c.p.c., che, in particolare, accorda «sempre» al giudice la facoltà di disporre la rinnovazione delle indagini peritali, qualificando dunque siffatto potere come discrezionale.
È opportuno precisare che detta attività di rinnovazione non dipende dalla nullità della consulenza espletata, bensì dalla circostanza per cui il risultato finale della stessa sia risultato inattendibile al fine della decisione della causa (o perché il consulente non ha assolto al proprio compito, o perché non ha adeguatamente espresso le proprie valutazioni, o perché non sono state osservate le norme in materia). In tali ipotesi, successivamente al deposito della relazione il giudice può scegliere, a sua discrezione, se disporre una nuova consulenza,
affidandola a un altro esperto, invitare il c.t.u. già nominato a fornire chiarimenti sulle operazioni svolte ovvero richiedergli un’integrazione della relazione depositata (per i concetti sin qui esposti si rinvia a X. Xxxxxx, sub art. 196, in X. Xxxxxxx (diretto da), Codice di procedura civile. Commentario, II, Milano, 2018, 363 ss.; nella giurisprudenza di legittimità, Cass., 15 luglio 2011, n. 15666).
Laddove sia la parte a presentare istanza di rinnovazione della c.t.u., è discusso se il giudice, nel caso in cui opti per il rigetto di tale richiesta, sia tenuto a motivare la propria decisione. Sulla questione, infatti, si registra: a) la pronuncia di Xxxx., 27 aprile 2011, n. 9379, che ha affermato l’obbligo del giudice di motivare il proprio rigetto laddove la richiesta di rinnovazione della parte sia adeguatamente argomentata; nonché b) la più recente Cass., 29 settembre 2017, n. 22799, secondo cui, all’opposto, il giudice non solo non sarebbe tenuto a motivare il suo diniego, ma non sarebbe neppure tenuto a un’espressa pronuncia sul punto, dato che il rinnovo dell’indagine tecnica rientra tra i suoi poteri discrezionali.
Interessante ai fini dell’analisi del provvedimento in commento è poi la pronuncia di Xxxx., 18 marzo 2015, n. 5339, secondo cui in appello è ammissibile la richiesta di rinnovazione della
c.t.u. ove si contestino le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado (attività che, ovviamente, non costituisce richiesta di ammissione di un nuovo mezzo di prova, in quanto tale vietata ex art. 345 c.p.c.); il giudice, peraltro, se non ha l’obbligo di motivare il diniego di rinnovazione – che può essere anche implicito -, è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall’appellante avverso le valutazioni contenute nella sentenza impugnata, con la conseguenza per cui l’omesso espresso rigetto dell’istanza di rinnovazione non integra vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., bensì un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure alla sentenza impugnata.
In altri termini, se la parte presenta un’argomentata censura all’attività del c.t.u., accompagnata da un’istanza di rinnovazione della stessa, il giudice – pur potendo rigettare tale istanza in via implicita – è tenuto a rispondere a tali censure, pena l’integrazione del vizio di motivazione della relativa decisione di rigetto.
Nel caso di specie, tuttavia, le censure mosse dall’appellante sono state qualificate del tutto generiche: ciò che, evidentemente, ha fatto venir meno in capo al giudice d’appello anche l’obbligo di motivare il rigetto della richiesta di rinnovazione, con conseguente preclusione di qualsiasi possibilità di censura di tale questione nel successivo giudizio di cassazione.
Esecuzione forzata
La caducazione del titolo esecutivo per obblighi di fare travolge anche il decreto ingiuntivo emesso per le spese dell’esecuzione in forma specifica, ai sensi dell’art. 614 c.p.c.
di Xxxxx Xxxxxxxx
Cass. civ., sez. III, 12 gennaio 2021, n. 269 – Pres. Vivaldi – Rel. Xxxxxxx
Esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare – Rimborso delle spese – Decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 614 c.p.c. – Opposizione – Caducazione del titolo esecutivo – Rilevabilità d’ufficio – Sussistenza – Effetti
In tema di liquidazione delle spese sostenute per l’attuazione coattiva di obblighi di fare e di non fare, il decreto ingiuntivo ex art. 614 c.p.c. può essere ottenuto, durante o dopo l’esecuzione, anche per i compensi del difensore del creditore procedente e del consulente tecnico d’ufficio. Nell’ipotesi di opposizione avverso il menzionato decreto ingiuntivo, il giudice è tenuto a rilevare d’ufficio l’intervenuta caducazione del titolo presupposto azionato e, quindi, della stessa legittima ragione creditoria, producendosi l’effetto espansivo enunciato dall’art. 336, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che le spese di cui sopra resteranno a carico del medesimo creditore procedente.
CASO
Il debitore nei cui confronti era stata avviata l’esecuzione forzata di obblighi di fare interponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso a favore del creditore procedente ai sensi dell’art. 614 c.p.c. per il rimborso delle spese sostenute fino a quel momento.
Tra i motivi di opposizione, veniva addotto anche quello che faceva leva sul fatto che, dapprima, l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado in forza della quale era stata promossa l’esecuzione era stata sospesa in sede di appello e che, xxxxxx, il titolo esecutivo era venuto definitivamente meno, essendo stata l’originaria domanda rigettata all’esito del giudizio di rinvio disposto a seguito della cassazione della pronuncia di appello.
L’opposizione al decreto ingiuntivo veniva, tuttavia, respinta tanto in primo quanto in secondo grado, assumendosi che le vicende del titolo esecutivo non influivano sulla sussistenza del credito per spese di esecuzione già sostenute dal procedente.
Il debitore, quindi, proponeva ricorso per cassazione, sostenendo che l’effetto espansivo attribuibile alla sentenza che aveva determinato la caducazione del titolo esecutivo era idoneo
a travolgere anche il decreto ingiuntivo che aveva per oggetto le spese sostenute nell’esecuzione promossa in forza di detto titolo esecutivo.
SOLUZIONE
[1] La Corte di cassazione ha accolto il ricorso e xxxxxxx con rinvio la sentenza impugnata, ritenendo che la sopravvenuta caducazione del titolo esecutivo posto a fondamento dell’esecuzione forzata è circostanza che va rilevata anche in via officiosa e di cui dev’essere tenuto conto ai fini della regolamentazione delle spese del processo esecutivo, essendo principio consolidato quello in base al quale esse debbono gravare sul debitore esecutato solamente quando l’esecuzione sia stata fruttuosamente esperita.
QUESTIONI
L’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, disciplinata dagli artt. 612 e seguenti c.p.c., rappresenta una delle forme di esecuzione forzata in forma specifica previste dal nostro ordinamento e trova i propri referenti di carattere sostanziale negli artt. 2931 e 2933 c.c. (mentre gli artt. 2930 e 2932 c.c. si occupano, rispettivamente, dell’esecuzione forzata per consegna o rilascio e dell’esecuzione dell’obbligo di concludere un contratto).
Una peculiarità di tale forma di esecuzione forzata, che la differenzia da quella per espropriazione, è rappresentata dal modo in cui vengono liquidate le spese in favore del creditore procedente: l’art. 614 c.p.c., infatti, dispone che, al termine dell’esecuzione o nel corso di essa, la parte istante presenta al giudice dell’esecuzione la nota delle spese anticipate vistata dall’ufficiale giudiziario, a fronte della quale viene emesso un decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo ai sensi dell’art. 642 c.p.c., avverso il quale, se il debitore vi ha interesse, può essere proposta opposizione nelle forme ordinarie previste dagli artt. 645 e seguenti c.p.c.
Il motivo per cui si rende necessario ricorrere a un simile meccanismo, a differenza di quanto avviene in sede di espropriazione forzata (in cui le spese vengono liquidate con il provvedimento conclusivo del processo esecutivo, attribuendosi a tale titolo al creditore procedente, in via – per così dire – prededuttiva, una parte del ricavato della vendita dei beni pignorati), risiede nel fatto che, considerata la particolare struttura che caratterizza l’esecuzione forzata di obblighi di fare o di non fare, non è contemplato un provvedimento del giudice che vi pone termine e ne dichiara la conclusione e che, in ogni caso, il risultato finale del processo esecutivo non si traduce in una somma di denaro su cui il creditore può trovare soddisfazione.
Nel caso esaminato dalla sentenza che si annota, l’esecuzione forzata era stata avviata in virtù di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva. Nell’ambito della procedura così radicata, era stato emesso il decreto ingiuntivo previsto dall’art. 614 c.p.c. (visto che la norma contempla espressamente la possibilità che il provvedimento monitorio venga chiesto e pronunciato anche prima che le operazioni esecutive siano state completate), avverso il quale
il debitore aveva proposto opposizione; nel frattempo, tuttavia, la sentenza costituente il titolo esecutivo, all’esito delle impugnazioni proposte avverso di essa, era stata riformata, sicché il creditore si era visto privato del titolo in forza del quale aveva radicato l’esecuzione. Nonostante il debitore avesse evidenziato tale circostanza, il tribunale prima e la corte d’appello poi non l’avevano reputata determinante e avevano, quindi, respinto l’opposizione a decreto ingiuntivo.
La Corte di cassazione ha innanzitutto evidenziato che il provvedimento monitorio di cui all’art. 614 c.p.c. può avere per oggetto la liquidazione non solo delle spese sostenute per l’attuazione coattiva (sulla base di una nota predisposta dal creditore e vistata dall’ufficiale giudiziario, la quale, integrando per tale ragione prova scritta dotata di efficacia privilegiata, legittima e giustifica l’immediata provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo, previa verifica della congruità e delle generale riferibilità delle spese al titolo e della loro necessità, ossia della loro effettiva riconducibilità all’inadempimento dell’obbligo), ma pure di quelle di rappresentanza tecnica (in relazione alle quali, tuttavia, difettando la prova scritta privilegiata, non potrà essere accordata la provvisoria esecuzione a termini dell’art. 642 c.p.c.) e dei compensi del consulente tecnico d’ufficio; quindi, ha esaminato in che modo la caducazione del titolo esecutivo posto a fondamento dell’esecuzione si riflette sul provvedimento monitorio che contenga la liquidazione di tali ultime due voci.
In particolare, l’indagine si è appuntata sulla sorte del decreto ingiuntivo emesso durante l’esecuzione, senza attendere l’esito dell’impugnazione proposta avverso il titolo in base al quale la stessa era stata promossa.
Posto che il venire meno del titolo esecutivo è sempre rilevabile d’ufficio nell’ambito del processo di esecuzione, così come in quello avente per oggetto le opposizioni esecutive, i giudici di legittimità hanno evidenziato che tale evento elide la ragione giustificativa del provvedimento monitorio con il quale sono state liquidate le spese inerenti all’esecuzione, le quali, in applicazione del principio ricavabile dall’art. 95 c.p.c., restano a carico del creditore procedente che abbia avviato il processo esecutivo avvalendosi dell’esecutività provvisoria del titolo, prima che fossero definite le impugnazioni proposte avverso di esso.
Come si evince dal richiamo operato dall’art. 632, comma 4, c.p.c., all’ultimo comma dell’art. 310 c.p.c., le spese del processo esecutivo gravano sul debitore esecutato quando l’esecuzione non abbia raggiunto il suo scopo, o non lo abbia raggiunto per cause non ascrivibili al creditore procedente; anche in sede di opposizione al decreto ingiuntivo con il quale, ai sensi dell’art. 614 c.p.c., siano stati liquidati i compensi di rappresentanza tecnica e di assistenza giudiziale del creditore nell’ambito dell’esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, dev’essere dunque rilevato d’ufficio il sopravvenuto venire meno – in tutto o, al limite, anche solo in parte – del titolo esecutivo e la conseguente insussistenza di una legittima ragione creditoria che consenta di porre (integralmente o parzialmente) a carico del debitore le relative spese.
Ciò in applicazione di quanto stabilito dall’art. 336, comma 2, c.p.c. e dell’ivi delineato effetto
espansivo che la riforma o la cassazione della sentenza impugnata produce nei confronti degli atti e dei provvedimenti che da essa dipendono.
In altre parole, il decreto ingiuntivo emesso ai sensi dell’art. 614 c.p.c. non rimane insensibile alle vicende dell’esecuzione nell’ambito della quale è stato pronunciato e, in particolare, del titolo esecutivo che la sorregge, sicché sarà suscettibile di revoca nel momento in cui quest’ultimo dovesse, nelle more, venire meno.
Obbligazioni e contratti
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul contratto di assicurazione con clausola claims mad
di Xxxxxxx Xxxxxx
Cass. civ. Sez. III, 25 febbraio 2021, n. 5259 – Pres. Armano – Rel. Xxxxxxxx
[1] Contratto di assicurazione – Clausole claims made – Responsabilità civile – Nullità – Loss occurence
(Cod. civ., artt. 1322, 1366, 1375, 1917, 1932)
[1] “Il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917, comma 1, x.x., xxxxxxxxxx xxxx’xxx. 0000 x.x., x xxxxxxxxxxxxx al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322, comma 2, c.c., ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322, comma 1, c.c., della rispondenza della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto, ma non si arresta al momento della genesi del regolamento negoziale, investendo anche la fase precontrattuale e quella dell’attuazione del rapporto, con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati.”.
CASO
[1] Il caso origina dalla sentenza con cui Corte d’appello di Roma, confermando la decisione del giudice di prime cure, condannava in solido compagnia assicuratrice e struttura sanitaria al risarcimento del danno biologico subito da una paziente in conseguenza della errata ed imperita esecuzione di un intervento di endoscopia. Il Tribunale di Civitavecchia aveva dichiarato la nullità della clausola claims made apposta al contratto di assicurazione r.c. per vessatorietà, il giudice d’appello, invece, ne confermava la nullità sulla base della mancanza di causa e violazione di norme imperative.
SOLUZIONE
[1] Per quanto di interesse con il quarto motivo la società assicurativa ricorrente deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 x.x., xxxxx 0, xxxx. 0000, 0000, x 0000
x.x., xx xxxxxxxxx all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, impugnando la statuizione della sentenza che ha dichiarato la nullità della clausola claims made per difetto di causa e contrarietà a norme imperative. Con il quinto motivo, invece, la ricorrente censura la sentenza di appello nella parte in cui, espunta dalla polizza la clausola claims made ritenuta affetta da nullità, ha poi applicato al contratto assicurativo il principio della loss occurence ex art. 1917 c.c.
La Suprema Corte, dopo un’attenta e dettagliata ricostruzione degli approdi ermeneutici in tema di contratto di assicurazione con clausole claims made, ha ritenuto il quarto motivo inammissibile ed il quinto fondato fornendo delle importanti precisazioni in tema di conformazione giudiziale del contratto di assicurazione con xxxxxxxx claims made.
QUESTIONI
[1] Con la decisione in epigrafe la Corte di Cassazione, a tre anni di distanza dalla nota pronuncia a Sezioni Unite, è tornata sul contratto di assicurazione con xxxxxxxx claims made e sulla c.d. conformazione giudiziale.
In via preliminare la Suprema Corte rammenta come, dopo alcuni contrasti emersi nella giurisprudenza di legittimità, la questione concernente la validità della clausola claims made apposta nelle polizze assicurative della responsabilità civile sia stata definitivamente risolta dalle Sezioni Unite secondo cui “nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o comunque entro determinati periodi di tempo preventivamente individuati (cd. clausola “claims made” mista o impura) non è vessatoria, ma, in presenza di determinate condizioni, può essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero – ove applicabile la disciplina del D.Lgs. n. 206 del 2005 – per il fatto di determinare a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e obblighi contrattuali; la relativa valutazione va effettuata dal giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità quando congruamente motivata” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 9140 del 06/05/2016 con nota di X. XXXXXXXXX, La clausola ‘claims made’ non è vessatoria: ma l’ultima parola spetta al giudice, in Diritto & Giustizia, fasc. 22, 2016, 9).
Tale principio è stato ulteriormente specificato nel 2018 quando le Sezioni Unite, chiamate nuovamente a pronunciarsi sulla questione della validità e tipicità del contratto di assicurazione con clausole claims bade, hanno statuito che “il modello di assicurazione della responsabilità civile con clausole “on claims made basis”, quale deroga convenzionale all’art. 1917 c.c., comma 1, consentita dall’art. 1932 c.c., è riconducibile al tipo dell’assicurazione contro i danni e, pertanto, non è soggetto al controllo di meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, ma alla verifica, ai sensi dell’art. 1322 x.x., xxxxx 0, xxxxx xxxxxxxxxxx della conformazione del tipo, operata attraverso l’adozione delle suddette clausole, ai limiti imposti dalla legge, da intendersi come l’ordinamento giuridico nella sua complessità, comprensivo delle norme di rango costituzionale e sovranazionale. Tale indagine riguarda, innanzitutto, la causa concreta del contratto – sotto il profilo della liceità e dell’adeguatezza dell’assetto sinallagmatico rispetto agli specifici interessi perseguiti dalle parti – ma non si arresta al momento della genesi del regolamento
negoziale, investendo anche la fase precontrattuale (in cui occorre verificare l’osservanza, da parte dell’impresa assicurativa, degli obblighi di informazione sul contenuto delle “claims made”) e quella dell’attuazione del rapporto (come nel caso in cui nel regolamento contrattuale “on claims made basis” vengano inserite clausole abusive), con la conseguenza che la tutela invocabile dall’assicurato può esplicarsi, in termini di effettività, su diversi piani, con attivazione dei rimedi pertinenti ai profili di volta in volta implicati” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 22437 del 24/09/2018 con nota di XXXXXXXX A. M., L’immeritevolezza nell’assicurazione claims made, in Nuova Giur. Civ., 2019, 1, 70).
Gli arresti indicati hanno preso atto dell’evoluzione della prassi di settore, che aveva ricevuto, peraltro, il crisma normativo in plurimi e recenti interventi legislativi i quali, come è stato rilevato dalle Sezioni Unite, avevano semplicemente “recuperato nel substrato della realtà materiale socioeconomica una regolamentazione giuridica pattizia già diffusa nel settore assicurativo”, che aveva preso atto della inadeguatezza, in particolare nelle ipotesi di sinistri produttivi di danni cd. Iungolatenti, del principio della loss occurrence contemplato dall’art. 1917 x.x., xxxxx 0, xxxxxxxxxxxx xx xxxxxxx consentite dall’art. 1932 c.c. e venendo in tal modo a ridefinire “i modi ed i limiti” stabiliti dal contratto assicurativo, attraverso una delimitazione dell’oggetto del contratto, piuttosto che attraverso la introduzione di limiti alla responsabilità dell’assicuratore.
La clausola claims made (sia nella forma cd. “pura” estesa ai fatti commessi anteriormente all’inizio di efficacia della polizza sia nella forma cd. “impura” o “mista” che subordina la copertura assicurativa alla contestuale occorrenza, nel periodo di vigenza della polizza, tanto del sinistro, quanto della richiesta di risarcimento del danno) ha trovato, infatti, fondamento normativo nel:
L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 3, comma 5, lett. e), convertito con modificazioni dalla
L. 14 settembre 2011, n. 148 (come modificato dalla L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 26), recante “Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” (la norma, imponendo l’obbligo assicurativo agli esercenti le professioni liberali, dispone che le proposte delle società assicurative debbono contenere “l’offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura.”);
X. Xxxxxxxxx 22 settembre 2016, recante il regolamento, autorizzato dalla L. 31 dicembre 2012, n. 241, art. 12, comma 5 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), che, all’art. 2, comma 1, prescrive: “l’assicurazione deve prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata ed una ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l’attività nel periodo di vigenza della polizza”;
8 marzo 2017, n. 24, “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie” che, all’art. 11 dispone: “La garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all’impresa di assicurazione
durante la vigenza temporale della polizza. In caso di cessazione definitiva dell’attività professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura. L’ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta”.
Vengono a cadere, dunque, tutte le obiezioni pregiudiziali di vessatorietà-invalidità mosse alla ridetta clausola che ha trovato ormai un assetto normativo tipizzato ritenuto dal legislatore conforme allo schema del contratto assicurativo.
Nella clausola claims made pura, infatti, la maggiore alea per l’assicurato di vedersi non indennizzati i sinistri che vengono a verificarsi in prossimità della scadenza della polizza (qualora entro tale termine non venga altresì formulata la richiesta risarcitoria), viene ad essere compensata dalla maggiore alea che grava sull’assicuratore per eventuali richieste risarcitorie presentate dopo l’inizio della efficacia del contratto, per sinistri occorsi anteriormente ad essa: non risultando in tal modo alterato il sinallagma delle prestazioni a carico dei contraenti. Al riguardo, come osserva la Suprema Corte, il modello della clausola in questione, comunemente utilizzato nella prassi assicurativa, può venire ad articolarsi secondo lo schema, tanto della “retroattività” (fatti dannosi già accaduti prima della stipula del contratto), quanto della “ultrattività” (fatti dannosi che si verificheranno dopo la scadenza del termine di durata del contratto).
La previsione del fatto-sinistro e del suo riferimento cronologico non esaurisce, tuttavia, la fattispecie cui è collegata la insorgenza del diritto ad essere sollevato dalle conseguenze pregiudizievoli della responsabilità civile, venendo ad essere richiesto anche l’ulteriore elemento (esterno alla sfera di controllo dei contraenti, come tale incerto e per ciò idoneo a rendere compatibile la clausola claims made con lo schema causale del contratto assicurativo delineato nell’art. 1895 c.c.) della manifestazione del diritto al risarcimento del danno esercitato dal terzo danneggiato. Ma è proprio l’elemento aleatorio costituito dalla incertezza della richiesta risarcitoria che viene ad essere temporalmente circoscritto in tali clausole, così da consentire all’assicuratore di meglio calibrare il proprio impegno nel tempo e, correlativamente, di definire con maggiore precisione il premio assicurativo (in relazione alla limitazione temporale della possibile verificazione del rischio), con beneficio anche per l’assicurato. Tale migliore definizione delle prestazioni dei contraenti (volta a garantire una misura del premio quanto più corrispondente alla entità del rischio assunto) viene a costituire – nel giudizio demandato al giudice di merito non più sulla compatibilità della clausola claims made con la struttura del “tipo” negoziale della assicurazione della responsabilità civile, ma sulla “tenuta” di tale clausola rispetto al complessivo programma che le parti hanno inteso concordemente attuare al fine della regolazione dei rispettivi interessi – indizio sintomatico della esclusione di un abusivo squilibrio delle posizioni contrattuali delle parti che, invece, potrebbe ravvisarsi nel caso in cui la predetta clausola, inserita nel complesso delle altre disposizioni contrattuali venga a realizzare “un sistema di restrizioni” delle condizioni di adempimento della obbligazione indennitaria talmente intenso da eludere sostanzialmente la
stessa funzione causale del contratto, che, pertanto, verrebbe ad esaurirsi nella mera onerosità del premio anticipatamente corrisposto dall’assicurato e nella riduzione o addirittura nell’assenza dell’alea di rischio per l’assicuratore.
Non vi è dubbio che – come evidenziato dalle Sezioni Unite nel 2018 – il sistema assicurativo della responsabilità civile persegua “anche” un fondamentale interesse pubblico, attraverso “una corretta allocazione dei costi sociali dell’illecito” ed ancor più assolvendo alla funzione di garantire la reintegrazione dei pregiudizi subiti dai danneggiati, funzione che appare evidente nelle “assicurazioni sociali”, ma che trova attuazione anche nelle polizze RC private, atteso che la assunzione da parte delle imprese assicuratrici degli oneri economici gravanti sull’assicurato, in dipendenza della sua responsabilità civile, ridonda evidentemente nel generale affidamento dei terzi ingiustamente danneggiati sulla possibilità di ottenere il ristoro degli interessi lesi.
Tuttavia, pur non potendo disconoscersi l’interesse superindividuale che è sotteso al sistema assicurativo della responsabilità civile, una valutazione in termini di validità della clausola claims made da effettuare in relazione ad i suoi riflessi sulla “causa concreta” del contratto assicurativo, non può estendersi fino a riconsiderare tale funzione sociale, che costituisce il risultato terminale del funzionamento complessivo del sistema assicurativo della responsabilità civile, come criterio privilegiato ai fini della verifica di corrispondenza della compatibilità di efficienza della clausola in relazione al singolo programma negoziale voluto dalle parti od alla conservazione dell’equilibrio delle rispettive posizioni assunte dai contraenti; né è consentito condurre la predetta verifica di validità della clausola in relazione alla causa concreta del negozio, attraverso una mera valutazione della convenienza economica dell’importo del premio rispetto al rischio assicurato, atteso che in tal modo verrebbe a compiersi una indebita invasione dell’ambito di autonomia negoziale dei privati.
Il giudizio di tenuta della clausola claims made, piuttosto, dovrà estendersi al controllo delle complessive clausole del contratto assicurativo ed al risultato operativo finale che, dalla interpretazione sistematica delle stesse e dalla esecuzione in concreto attuata dai contraenti, viene ad emersione. Il risultato dovrà essere valutato alla stregua del parametro fornito dalla effettiva funzionalità del modello – così in concreto individuato – a regolare gli interessi per la cura dei quali le parti hanno inteso definire il programma negoziale, venendo a tal fine in rilievo, come elemento unificante della verifica, la applicazione della clausola generale di buona fede (artt. 1366,1375 c.c.).
Ciò posto in merito alla ricostruzione ermeneutica e normativa del contratto di assicurazione con clausole claims made la Suprema Corte si è soffermata anche sul profilo della conformazione giudiziale del contratto con clausole claims made. Nel caso di specie, infatti, il giudice d’appello, dopo aver dichiarato nulla la clausola claims made, aveva automaticamente applicato al contratto assicurativo il regime della loss occurence di cui all’art. 1917 c.c., comma
1. La Corte censura tale applicazione affermando che il giudice territoriale avrebbe dovuto riportare il contratto ad equilibrio e non applicare un differente programma, fondato su uno schema negoziale (quello proprio dell’art. 1917 c.c.) che le parti avevano voluto, invece,
espressamente emendare e modificare.
Il giudice territoriale, in particolare, avrebbe dovuto indagare tra i differenti modelli di xxxxxxxx claims made rinvenibili nell’ordinamento, ed individuare quello ritenuto maggiormente compatibile alla realizzazione di un equilibrato assetto degli interessi dei contraenti, così riadeguando le condizioni di polizza in funzione della causa concreta, tenendo conto anche di tutti gli altri elementi a condizioni operative compatibili con gli interessi perseguiti al momento della stipula dai soggetti contraenti, così da salvaguardare una causa del contratto funzionale alla volontà delle parti di concordare una prestazione assicurativa che contemplasse un rischio contraddistinto dal duplice elemento della verificazione del sinistro e della richiesta risarcitoria pervenuta dal danneggiato.
La Corte di Cassazione, in definitiva, afferma che a seguito della dichiarazione di nullità della clausola claims made non debba essere applicato il modello loss occurrence, ma, come già affermato dalle Sezioni Unite nel 2018, debba essere integrato il contenuto contrattuale individuando tra i modelli di clausola delimitativa del rischio presenti sul mercato quello maggiormente rispondente ad un equilibrato assetto dei rapporti tra le parti.
Proprietà e diritti reali
Frazionamento di lotti di terreno a scopo edificatorio e limitazioni a carico dei successivi aventi causa
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Corte di Cassazione, Sezione 2, Civile, Sentenza 14 gennaio 2021 n. 524 (Presidente Dott.ssa M. R. Xx Xxxxxxxx, Relatore X. Xxxxxxx)
Proprietà – Abitazione – Villa – Illegittimo uso – Attività Imprenditoriale – Banchetti e ricevimenti
– Organizzazione di beni e servizi ex art. 2082 c.c. – Attività vietata dalle clausole contrattuali – Risarcimento danni – Servitù – Vendite a lotti aree fabbricabili – Pattuizione nei contratti di limitazioni a carico degli acquirenti circa la destinazione del bene.
“Allorché il proprietario di un terreno decida di frazionarlo e venderlo a scopo edificatorio, le limitazioni a carico degli acquirenti circa la destinazione del bene contenute in una pattuizione dei contratti di compravendita, ove regolarmente trascritte, costituiscono una servitù prediale reciproca tra i fondi che vincolano all’osservanza anche i successivi aventi causa, pur se i rispettivi atti di acquisto non ne facciano menzione, avendo i proprietari originari dei terreni in tal modo costituito per accordo negoziale unanime un vincolo di natura reale sul bene.”
CASO
Più proprietari di diverse unità immobiliari convenivano, innanzi al Tribunale di Tivoli, Xxxxx e Xxxxxx, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, in quanto, in violazione di norme contrattuali e urbanistiche, svolgevano nella loro villa, contigua alle abitazioni degli attori, intrattenimenti e banchetti in assenza delle autorizzazioni amministrative necessarie per l’esercizio di attività di somministrazione di alimenti e bevande.
Gli attori deducevano altresì che i convenuti, contravvenendo alle prescrizioni contenute nell’originario atto pubblico di compravendita dei lotti di terreno sui quali erano edificate le ville – il cui art. 9 prescriveva il divieto per gli stessi acquirenti di destinare l’immobile ad attività industriali o commerciali – causavano disturbo per emissione di rumori molesti, passaggio di mezzi e presenza di persone oltre i limiti di tollerabilità in relazione alla destinazione residenziale della zona.
Pertanto, gli attori chiedevano ordinarsi ai convenuti di astenersi o comunque di cessare l’illegittimo uso della villa con condanna al risarcimento dei danni per diminuzione del valore commerciale dei di loro immobili.
Resistevano i convenuti asserendo l’assenza di qualsivoglia richiamo, all’interno del proprio atto di compravendita, alle succitate limitazioni d’uso.
Il Tribunale rigettava tutte le domande attoree asserendo che l’irregolarità amministrativa dell’attività svolta all’interno della villa, per difetto delle necessarie autorizzazioni di cui sopra, comportava l’impossibilità di ordinarne la cessazione o sospensione, importando semmai l’irrogazione delle sanzioni amministrative conseguenti al TU di Pubblica Sicurezza.
Quanto alla violazione del succitato art. 9 del contratto di compravendita, il giudicante finiva per escludere che la disposizione contrattuale avesse natura reale, non mostrandosi idonea a creare un vincolo sul bene; trattandosi, di converso, di un obbligo di natura personale tra i soggetti stipulanti.
La Corte d’Xxxxxxx, adita dai soccombenti attori in primo grado, ribaltava l’impugnata sentenza statuendo, in primis, che l’attività svolta dai due convenuti Xxxxx e Xxxxxx all’interno della villa costituiva attività imprenditoriale giacché svolta sistematicamente e con organizzazione di beni e servizi, secondo i criteri ex art. 2082 c.c.; in secundis, secondo la Corte territoriale, l’attività svolta dai convenuti doveva ritenersi vietata in base alle succitate clausole contrattuali, atteso che l’atto regolarmente trascritto vincolava all’osservanza delle disposizioni in esso contenute anche i successivi acquirenti, avendo i proprietari originari dei fondi costituito un vincolo di natura reale, tipo servitù prediale.
Restando dunque irrilevante che nell’ultimo atto di compravendita relativo all’unità immobiliare dei convenuti, non recava riferimento al limite, dovendosi applicare le norme civilistiche in ordine alla trascrizione degli atti ed alla continuità di cui agli artt. 2643 c.c. e segg.
Sulla scorta di dette argomentazioni, la Corte concludeva con il disporre la cessazione dell’attività imprenditoriale all’interno di villa dei convenuti, a prescindere dalla legittimità o meno del profilo amministrativo dell’attività di ristorazione.
I soccombenti Xxxxx e Xxxxxx presentavano ricorso per Cassazione a cui resistevano gli originari attori con apposito controricorso.
SOLUZIONE
La Suprema Corte di Cassazione rigettava il ricorso principale e condannava i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità ovvero, ravvisandone i presupposti ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, al versamento del contributo unificato dovuto per il ricorso principale, se dovuto.
QUESTIONI
Mediante la prima doglianza i ricorrenti lamentavano la violazione o falsa applicazione, errata e contraddittoria motivazione della Corte territoriale circa la natura imprenditoriale dell’attività da essi svolta ex art. 2082 c.c. in relazione articolo 360 c.p.c., n. 3.
A sostegno della prima censura, i ricorrenti asserivano di essersi limitati a concedere in uso a terzi una parte della propria villa per feste e ricevimenti senza, però, impegnarsi nello svolgimento di attività di tipo imprenditoriale in proprio. Parimenti, deducevano che il corrispettivo, derivante dalla concessione in uso della villa, era assimilabile al canone nelle locazioni e non ad un ricavo d’impresa.
A ben vedere dei giudici di diritto, il motivo di ricorso era infondato atteso che il vincolo gravante sul terreno, imposto dal succitato art. 9 del contratto di vendita del terreno oggetto di frazionamento, insisteva sul bene indipendentemente dal soggetto che materialmente esercitava tale attività.
Dunque, detto divieto doveva ritenersi sussistente tanto sui proprietari della villa quanto sui terzi ai quali i proprietari concedevano il bene per lo svolgimento di attività imprenditoriali mediante l’affitto giornaliero ad organizzatori professionali di feste e banchetti.
In entrambe le ipotesi, infatti, si realizzava la violazione del citato contratto di vendita, con il quale l’originario proprietario, al momento del frazionamento del terreno, costituiva un vincolo di non facere di natura reale sul bene.
Il secondo motivo di ricorso era, invece, rubricato violazione o falsa applicazione, errata e contraddittoria motivazione, errata valutazione delle prove circa la natura reale delle pattuizioni contenute nell’atto del 3 dicembre 1965 ex art. 2643 c.c. e art.1073 c.c..
I ricorrenti sostenevano la doglianza, senza però fornire elementi a sostegno dell’assunto, affermando che il contratto di vendita dell’originario proprietario – che aveva deciso di procedere ad un frazionamento del terreno – aveva natura di piano di lottizzazione.
A tal riguardo secondo gli Ermellini, il giudice di seconde cure aveva, in primis, correttamente argomentato le ragioni della decisione adottata sulla servitù in oggetto, senza incorrere nella denunciata violazione o falsa applicazione delle succitate norme e, in secundis, nell’ambito dell’accertamento di fatto a lei demandato ed espletato sulla base dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., correttamente tenuto conto dello stato dei luoghi e della volontà delle parti come emergente dalla complessiva operazione negoziale.
L’adita Corte d’Appello, dunque, aveva correttamente applicato consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo il quale allorché il proprietario di un terreno decida di frazionarlo e venderlo a scopo edificatorio, la pattuizione nei contratti di compravendita di limitazioni a carico degli acquirenti circa la destinazione del bene, ove regolarmente trascritte, costituiscono una servitù prediale reciproca a non tollerare modificazioni delle aree individuate in proprietà alle singole unita’ immobiliari.
Vieppiù, con riferimento ai piani di lottizzazione, ferma giurisprudenza di legittimità ha più volte avuto modo di affermare che, nelle vendite a lotti di aree fabbricabili, le pattuizioni contrattuali, con cui allo scopo di conferire determinate caratteristiche alle zone in esecuzione di un piano di sviluppo si impongano limitazioni alla libertà di utilizzare vari lotti, danno luogo alla costituzione di servitù prediali a carico e a favore di ciascun lotto.
Secondo la Suprema Corte, “Ai fini della costituzione convenzionale di una servitù prediale non si richiede l’uso di formule sacramentali, di espressioni formali particolari, ma basta che dall’atto scritto si desuma la volontà’ delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l’imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario, sempre che l’atto abbia natura contrattuale, che rivesta la forma stabilita dalla legge ad substantiam e che da esso la volontà delle parti di costituire la servitù risulti in modo inequivoco, anche se il contratto sia diretto ad altro fine”[1].
Anche la seconda doglianza, dunque, appariva inammissibile per effetto della sussistenza della servitù prediale reciproca tra i fondi, costituita con i singoli atti di acquisto delle proprietà, peraltro, regolarmente trascritti.
Gli ulteriori motivi di ricorso venivano dichiarati infondati ed inammissibili sia perché trattasi di questioni non trattate nella motivazione della sentenza impugnata, sia perché condizionati dall’accoglimento delle precedenti doglianze.
[1] Corte di Cassazione, Sezione 2, Civile, Ordinanza, 27 aprile 2018 n. 10169; Xxxxx xx Xxxxxxxxxx, Xxxxxxx 0, Xxxxxx, Xxxxxxxx, 00 aprile 2011 n. 9475.
Diritto e procedimento di famiglia
Non ha diritto al mantenimento il coniuge separato che rifiuta lavori non consoni al suo titolo di studio
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Cassazione civile sez. VI n. 5932 del 4 marzo 2021
Assegno di mantenimento – capacità lavorativa coniuge richiedente (art. 156 c.c. – art. 115 c.p.c.)
In tema di mantenimento al coniuge separato, il rifiuto di proposte lavorative considerate inferiori rispetto al titolo di studio deve essere valutato dal giudice ai fini dell’attribuzione dell’assegno. E’ necessario accertare l’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività retribuita, anche acquisendo professionalità diverse o ulteriori rispetto a quelle già possedute dal richiedente l’assegno.
CASO
La Corte di appello di Trieste, decidendo una causa relativa alla separazione personale dei coniugi, aveva confermato l’attribuzione in favore della moglie di un assegno di mantenimento quantificato nella misura di 1.000 euro.
Il marito aveva dedotto nel giudizio la circostanza del rifiuto della donna di accettare alcune occasioni lavorative che lo stesso le aveva procurato.
La donna, di 48 anni e in possesso di laurea in farmacia, non aveva accettato alcune proposte lavorative considerate non adeguate al suo profilo individuale, sia per età che per istruzione (badante, barista …).
I giudici di Trieste avevano affermato il diritto del coniuge richiedente di rifiutare le proposte non “pertinenti ed adeguate”, ritenendo svilente che una persona laureata, avendo goduto di un certo livello di vita, possa essere in seguito “condannata al banco di mescita o al badantato”.
Su questo ed altri punti della sentenza, il marito ricorre in Cassazione eccependo la violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c., essendosi la Corte territoriale limitata ad affermare il divario economico dei redditi delle parti, mentre l’assegno di mantenimento nella separazione sarebbe finalizzato ad assicurare un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che questo si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto del tutto
inattivo, rifiutando le numerose possibilità lavorative proposte dal marito, e aggravando così ingiustificatamente la sua posizione debitoria.
Soluzione e percorso argomentativo seguito dalla Cassazione
La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso.
La decisione della Corte territoriale, secondo la Cassazione, si pone in contrasto con l’art. 156
c.c. poiché ai fini dell’attribuzione di assegno in favore del coniuge, l’attitudine al lavoro e le potenzialità di guadagno sono elementi indispensabili da valutare.
Il giudice di merito deve accertare la capacità lavorativa in concreto e quindi rileva, ad esempio, la possibilità di acquisire professionalità diverse e ulteriori rispetto a quelle possedute.
La sentenza di merito, al contrario, aveva confermato il diritto al mantenimento sulla base di rilievi del tutto astratti, arrivando a negare dignità al lavoro manuale o di assistenza alla persona, ignorando elementi rilevanti, ossia se la donna fosse in grado di procurarsi redditi adeguati.
La Corte avrebbe dovuto, pertanto, compiere una valutazione specifica sulle proposte dei lavori ricercati o reperiti, non limitandosi ad un giudizio generico di inadeguatezza in base al titolo di studio.
QUESTIONI
L’assegno di mantenimento è riconosciuto al coniuge che non abbia adeguati redditi propri per provvedere al proprio mantenimento o disponga di un reddito che non gli consenta di mantenere un tenore di vita analogo a quello che aveva durante il matrimonio.
Rileva a tale scopo anche la capacità lavorativa dei rispettivi coniugi.
Con la decisione in esame, la Cassazione conferma il recente orientamento giurisprudenziale secondo cui l’attitudine del coniuge al lavoro deve essere valutata in termini di effettiva possibilità di svolgere un’occupazione in considerazione di ogni fattore individuale e ambientale, e con esclusione di valutazioni astratte e ipotetiche.
L’assegno di mantenimento può essere escluso pertanto se il coniuge richiedente con concrete potenzialità di svolgere un’occupazione retribuita, abbia rifiutato immotivatamente proposte di lavoro (Xxxx. Civ. n. 5817/2018 e Cass. Civ. n. 28938/2017).
Diritto e reati societari
La legittimazione dell’associazione professionale all’insinuazione al passivo
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Cassazione civile, Sezione VI – 1, Ordinanza n. 23489 del 27 ottobre 2020.
Parole chiave: insinuazione al passivo – fallimento – professionista – associazione professionale
– legittimazione attiva –
Xxxxxxx: ai fini della legittimazione dell’associazione professionale all’insinuazione al passivo, spetta al giudice di merito verificare se l’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione professionale attribuiscano all’associazione stessa la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati.
Disposizioni applicate: articoli 36 c.c., 2751 bis n. 2 c.c.
La controversia muove dal rigetto dei un’istanza di ammissione al passivo – avanzata da uno Studio legale romano per un credito concernente le prestazioni professionali svolte da alcuni Avvocati membri dello Studio – motivato sulla scorta della mancata allegazione dell’avvenuta cessione del credito da parte dei professionisti all’associazione istante, la quale dunque non risultava legittimata a presentare l’insinuazione.
Il Tribunale di Catania, a seguito dell’opposizione proposta, aveva rilevato il persistere della mancata dimostrazione della legittimazione ad agire dello Studio associato opponente, anche in ragione del fatto che l’intestazione delle fatture allo Studio professionale non risultava prova sufficiente a dimostrare la titolarità del credito in capo all’associazione professionale.
Al fine di ottenere la cassazione del decreto di rigetto dell’opposizione, lo Studio legale ha pertanto proposto ricorso, deducendo che l’attività professionale nella quale trovava titolo il credito dedotto in giudizio era di per sé sufficiente ad escludere il conferimento di un mandato impersonale all’associazione e lasciava invece presumere che l’associazione professionale avesse chiesto l’ammissione quale cessionaria del credito dei singoli associati.
A dimostrazione di tale tesi, il ricorrente riportava alcune pronunce della Suprema Corte (Xxxx. 8974/2016, Cass. 4486/2015, Cass. 17207/2013 e Cass. 22439/2009) nell’ambito delle quali si era ritenuto che l’iniziativa processuale assunta da un’associazione professionale lasciasse presumere l’avvenuta cessione in suo favore del credito di pertinenza del professionista.
Tuttavia, i casi richiamati riguardavano unicamente fattispecie in cui, una volta riconosciuta la legittimazione dell’associazione professionale tramite l’ammissione del credito al passivo, rimaneva da vagliare la questione attinente al riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 2 c.c.; nel caso di specie, invece, non vi era prova della legittimazione attiva dell’associazione professionale a reclamare il compenso per l’attività svolta dai propri membri.
A tal riguardo, occorre allora rammentare il fatto che sussiste la legittimazione attiva dello Studio professionale – che potrà quindi porsi come autonomo centro d’imputazione di rapporti giuridici – laddove il giudice di merito accerti che, conformemente all’art. 36 c.c., l’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione professionale attribuiscano all’associazione stessa la legittimazione a stipulare contratti e ad acquisire la titolarità di rapporti, poi delegati ai singoli aderenti e da essi personalmente curati (cfr. Cass. 15694/2011, Cass. 4268/2016 e Cass. 15417/2016).
Si badi, però, che ciò non significa che i professionisti che si associano per dividere le spese e gestire congiuntamente i proventi della propria attività trasferiscono per ciò solo all’associazione tra loro costituita la titolarità del rapporto di prestazione d’opera, conservando infatti la rispettiva legittimazione attiva nei confronti del proprio cliente (Xxxx. 6994/2007, Cass. 13042/2003).
È pertanto compito del giudice di merito stabilire in concreto il tenore dello statuto interno dell’associazione medesima, onde consentire di desumere da questo accertamento la prova della legittimazione attiva dell’associazione.
Nel caso di specie, pertanto, avendo il Tribunale di Catania ritenuto che lo Studio non avesse prodotto prove sufficienti a dimostrare la propria legittimazione attiva, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.
Muovendo da tale caso, si vuole altresì osservare che, anche laddove lo Studio professionale fosse riuscito a dimostrare la propria legittimazione all’insinuazione, altra questione sarebbe stata quella relativa al riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 2 c.c..
Per ottenere il suddetto previlegio, infatti, occorre accertare se il cliente abbia conferito l’incarico al singolo professionista ovvero all’entità collettiva nella quale questi è organicamente inserito quale prestatore d’opera qualificato: “nel primo caso il credito ha natura privilegiata, in quanto costituisce in via prevalente remunerazione di una prestazione lavorativa resa personalmente dal professionista, che rimane unico titolare dell’attività affidatagli ed esclusivo responsabile della stessa nei confronti del cliente, mentre nel secondo ha natura chirografaria, perché ha per oggetto un corrispettivo riferibile al lavoro del professionista solo quale voce del costo complessivo di un’attività che è essenzialmente imprenditoriale. Neppure rileva che, in virtù del sottostante patto associativo, il credito privilegiato sia stato eventualmente ceduto all’entità collettiva costituita per la gestione in comune dei proventi dell’attività dei singoli associati: va infatti considerato, per un verso, che i costi necessari all’autonomo svolgimento della professione sono coperti dalla retribuzione anche nel caso in cui lo studio è nell’esclusiva titolarità di colui che
ha eseguito la prestazione, e, per l’altro, che la cessione non incide sulla natura del credito e non lo fa degradare a chirografo ma, al contrario, legittima lo stesso studio associato a far valere il diritto al privilegio (Cass. nn. 18455/011, 11052/012)” (Cass. civ., Sez. I, Sent., 05/03/2015, n. 4486).
Infine, si evidenzia come ai fini di dimostrare la natura personale della prestazione svolta dal professionista ed ottenere il privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c. “non rileva tanto verificare chi abbia emesso le fatture o parcelle, perché questi compiti competono allo studio associato, ma a chi sia stato affidato l’incarico” (Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 12/06/2018, n. 15290).
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Accesso alla procedura di piano del consumatore del socio illimitatamente responsabile dopo la riforma del 2020 della Legge n. 3/2012
di Xxxxx Xxxxxxxx
Trib. Lecco 5 gennaio 2021, Est. Tota
Parole chiave: legge speciale 27 gennaio 2012, n. 3 – procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento – procedura di piano del consumatore – riforma entrata in vigore Natale 2020 – legittimazione del socio illimitatamente responsabile di società di persone
Xxxxxxx: Nella procedura di piano del consumatore ex lege n. 3/2012, come riformata nel dicembre del 2020, il socio illimitatamente responsabile è equiparato al consumatore ed è quindi legittimato ad accedere alla procedura di piano, per i suoi debiti personali.
Riferimenti normativi: artt. 6, comma 2, lett. b) – 7, comma 2-ter – 14-ter, comma 7-bis, L. 27 gennaio 2012, n. 3
CASO E SOLUZIONE
Investito della questione della legittimazione alla procedura di piano del consumatore su ricorso di un socio solidalmente ed illimitatamente responsabile di società di persone, proposto anteriormente alla riforma della legge n. 3/2012 intervenuta nel dicembre del 2012, il Tribunale di Lecco ha fatto applicazione delle norme novellate, che, anticipando in parte qua la regola del c.c.i.i., ammettono alla procedura di piano anche i soci illimitatamente responsabili, equiparati, per i loro debiti personali, ai consumatori.
COMMENOTO
Diciamo subito che la decisione in rassegna è corretta e da approvarsi. E’ da diverso tempo pacifico che l’omologazione del concordato preventivo della società comporti anche per i soci illimitatamente responsabili la liberazione dai debiti sociali. Tale regola, desunta dal regime del concordato preventivo, era sempre stata ritenuta vigente anche nelle procedure sovraindebitamentarie negoziali. Ma la liberazione operava soltanto per i debiti sociali, lasciando irrisolto il tema della responsabilità per i debiti personali. Tale questione ha trovato definizione (ancorché non del tutto, come infra chiariremo) con la riforma del 2020 (L. 18 dicembre 2020, 176 di conversione del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137), con cui una serie di disposizioni del c.c.i.i. sono state recepite positivamente nella legge speciale; ed esattamente
mediante la modificazione dell’art. 6, comma 2, lett. b), che ha ampliato la nozione di “consumatore” includendovi anche il socio di società di persone “per i debiti estranei a quelli sociali” nonché attraverso l’aggiunta, in coda all’art. 7, di un nuovo comma, 2-ter, che espressamente prevede che l’omologazione dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento (e, deve credersi, anche del piano del consumatore) “produce i suoi effetti anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili”; e si consideri, infine, anche l’aggiunta, all’articolo 14-ter, del nuovo comma 7-bis, a tenore del quale “il decreto di apertura della liquidazione della società produce i suoi effetti anche nei confronti dei soci illimitatamente responsabili”.
Prima della riforma del dicembre del 2020, il problema si poneva quanto ai debiti personali dei soci, posto che: a) a norma della legge fallimentare, i soci non potevano accedere al concordato preventivo; né essi, di per sé, e cioè per la loro qualità di soci, potevano essere dichiarati falliti, se non in estensione del fallimento della società[1]; b) il loro accesso alle procedure da sovraindebitamento ex lege n. 3/2012 era dubbio, registrandosi un orientamento favorevole[2] ed altro, maggioritario, contrario[3]; c) a norma del c.c.i.i., essi erano considerati consumatori per i debiti estranei a quelli sociali, ma pareva escluso che essi potessero accedere a procedura da sovraindebitamento se titolari di debiti comunque riferibili ad altre loro attività, pur personali[4] (i.e., per una loro attività imprenditoriale o professionale[5]) e comunque non potevano conseguire la liberazione dai debiti sociali nel caso in cui non ricorresse il presupposto oggettivo che consentisse alla società l’accesso ad una procedura di regolazione della crisi.
In dottrina era stata criticata la tesi che escludeva la legittimazione alle procedure da sovraindebitamento dei soci solidalmente responsabili delle società di persone, osservandosi che la stessa avrebbe comportato la paradossale ed illogica conseguenza di escludere tale categoria di debitori, unico caso escluso, dalla possibilità di conseguire l’esdebitazione[6]. All’argomento, dei sostenitori della tesi restrittiva, secondo cui ammettere i soci alla procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento per i loro debiti personali avrebbe potenzialmente sottratto, ai creditori sociali, la garanzia generica del patrimonio dei soci, si replicava che lo stesso risultato poteva prodursi a seguito della promozione di esecuzioni singolari ad iniziativa dei creditori particolari[7], senza che alcuno si fosse mai sognato di affermare che queste sarebbero state inammissibili perché potenzialmente pregiudizievoli per i creditori sociali.
La riforma del 2020 ha, parzialmente, risolto la questione, ammettendo la legittimazione dei soci solidalmente responsabili ad accedere alla procedura di piano del consumatore, per i debiti personali (art. 6, comma 2, lett. b).
Resta peraltro sul tavolo la questione dell’accesso alla procedura per i debiti diversi da quelli personali, i.e. per i debiti sociali. Alla obiezione che, per gli stessi, la responsabilità è sussidiaria, cosicché il problema non si pone, fin tanto quanto la società è in grado di far fronte alle sue obbligazioni, va replicato che, nel piano del socio che chieda la composizione per il suo sovraindebitamento per debiti estranei, non possono non considerarsi anche i debiti
sociali, giacché, diversamente, dovrebbe considerarsi la soddisfazione dei soli debiti personali; o, alternativamente, anche di quelli sociali, senza che peraltro siano escussi né il patrimonio sociale né gli altri soci, con conseguenze paradossali (un solo socio dovrebbe far fronte, in ipotesi, a tutti i debiti societari, pur in assenza di richiesta di adempimento ad opera di alcuno; diversamente, la procedura dovrebbe occuparsi soltanto dei debiti personali, ignorando le responsabilità sociali, con conseguenze potenzialmente assai pregiudizievoli per i creditori sociali).
Particolarmente complessa, ma non impraticabile, è la questione della possibilità di risolvere la crisi di società con soci solidalmente responsabili mediante procedure collegate, come nel caso in cui una procedura di accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall. della società sia connessa a una o più procedure di composizione del sovraindebitamento dei soci, prevedendosi la soddisfazione dei creditori sociali anche attraverso l’eccedenza della liquidazione del patrimonio personale dei soci[8].
[1] Per l’ammissibilità dell’accesso del socio solidalmente responsabile della società di persone, onde poter usufruire dell’esdebitazione per i proprî debiti personali di cui diversamente non potrebbe liberarsi, v. X. Xxxxxxxx, Accesso alla procedura di sovraindebitamento del socio illimitatamente responsabile di s.a.s., in Il Xxxxxxxxxxxxxxx.xx, p. 9.6.2014 (Quesiti operativi); in giurisprudenza, x. Xxxx. Xxxxxx 00 marzo 2018, in Il Xxxxxxxxxx.xx,
p. 9.4.2018. Affermava essere la loro legittimazione “più problematica, ma possibile” X. Xxxxxxx, Gli strumenti di regolazione della crisi da sovraindebitamento dei debitori non fallibili – Introduzione alla disciplina della L. 27 gennaio 2012, n. 3, dopo il c.d. “decreto crescita-bis”, cit., 568.
[2] Per l’ammissibilità della procedura da sovraindebitamento dei soci solidalmente ed illimitatamente responsabili si era espresso Trib. Rimini 27 giugno 2019, in Il Xxxx.xx, p. 25.10.2019, e in Fall. 2020, 413, con nota di X. Xxxxxxxx, Ammissibilità delle procedure collegate di accordi ex art. 182 bis l.fall. di società di persone e accordo di sovraindebitamento dei soci solidalmente responsabili, in Fall. 2020, 413; Trib. Rimini 22 marzo 2018, in Fall. 2019, 943 e in Il Xxxx.xx, p. 22.3.2018 (sotto la data del 13 marzo 2018); Trib. Prato 16 novembre 2016, in Xxxxxxxx.xx, p. 21.12.2016; Trib. Mantova 28 aprile 2016, in Xxxxxxxx.xx, p. 4.10.2016 (in quest’ultima, con affermazione per obiter dictum, nell’ambito di un procedimento in cui, per ciò che riguardava il socio, ciò che rilevava, ed era stato chiesto, era se potesse accedere al concordato preventivo, negandosi poi l’accesso al concordato preventivo, ma non alle procedure ex lege n. 3/2012); altresì a favore Trib. Rimini 9 marzo 2019, in Il Xxxxxxxxxxxxxxx.xx,
p. 12.6.2019, nel caso in cui anche gli altri soci avessero presentato eguale istanza e la società avesse promosso procedura di accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis l.fall., giustificandosi la legittimazione nell’ottica di una complessiva regolazione della crisi di ciascun debitore e della società. In dottrina, a favore: G. M. Nonno, Il presupposto oggettivo di ammissibilità e il contenuto del piano, cit., 83, sulla base del ragionamento che la soggezione al fallimento del socio è un effetto della previsione eccezionale dell’art. 147 l.fall., ma che egli, di per sé, non è un imprenditore fallibile e, quindi, sempre di per sé, non può considerarsi rientrare nel novero dei soggetti esclusi dal ricorso al sovraindebitamento; G. Lo Xxxxxx, La composizione delle crisi
da sovraindebitamento (introduzione), in Fall. 2012, 1022; F. Maimeri, Presupposti soggettivi ed oggettivi di accesso, cit., 1033; X. Xxxxxxx, Finalità e definizioni, in F. Xx Xxxxxx – X. Xxxxxxx – X. Xxxxxxxxx, La “nuova” composizione della crisi da sovraindebitamento, cit., 16; Idem, La nuova disciplina del sovra-indebitamento e dell’accordo di ristrutturazione per i debitori non fallibili, cit., 231; X. Xxxxxxxxxx, La procedura di liquidazione del patrimonio del debitore alla luce del diritto “oggettivamente” concorsuale, cit., 770; X. Xxxxxxxx, Accesso alla procedura di sovraindebitamento del socio illimitatamente responsabile di s.a.s., cit.; X. Xxxxxxx, La nuova procedura per l’insolvenza del soggetto non fallibile, Fall. 2012, 23. Per una decisione in cui, implicitamente, veniva riconosciuta la legittimazione ad un socio di società cancellata da un anno, cfr. Trib. Verona 9 maggio 2018, in Fall. 2019, 943 e in Il Xxxx.xx, p. 7.6.2018. In giurisprudenza, per un caso di soci solidalmente responsabili di società di persone (avente peraltro oggetto agricolo), cfr. Trib. Pistoia 19 novembre 2014, in Il Xxxx.xx, p. 8.1.2015, n. 11859, con nota di X. Xxxxxxxxxxxx, Forme di interazione tra procedure concorsuali: l’utilizzo di finanza esterna concordataria nella procedura di sovraindebitamento.
[3] Trib. Milano 18 agosto 2016, in Fall. 2017, 197, sulla base dei seguenti argomenti: a) il socio risponde anche per i debiti della società, e non può sottrarvisi; b) il fallimento della società reca seco quello del socio, e il ricorso alla procedura da sovraindebitamento non può impedirlo. In senso contrario, si consideri che: a) l’esdebitazione del socio può essere chiesta per i debiti suoi personali, non per i debiti della società, di cui lo stesso resta sempre responsabile (ma che potrebbero non essere in concreto esigibili, se la società è perfettamente solvibile, e, quindi, le sue obbligazioni per tale titolo sarebbero del tutto eventuali); b) la stessa legge sul sovraindebitamento prevede che possano cessare gli effetti della procedura a seguito della dichiarazione di fallimento del debitore e nonostante l’omologazione e quello del socio solidalmente responsabile è – assieme a quello dell’imprenditore che abbia superato la soglia – praticamente l’unico caso in cui può ammettersi che possa essere dichiarato il fallimento; in ogni caso, ove dovesse essere dichiarato il fallimento della società, il fallimento del socio conseguirà automaticamente e, frattanto, il suo patrimonio personale risulta protetto dall’apertura della procedura concorsuale minore (per queste ultime considerazioni, cfr. Trib. Prato 16 novembre 2016, cit.). Egualmente, per l’esclusione dei soci solidalmente responsabili delle società di persone, in quanto assoggettabili al fallimento in estensione ai sensi dell’art. 147 l.fall, x. Xxxx. Xxxxxx 00 luglio 2016, in Fall. 2016, 1386. Per l’affermazione per cui, essendo soggetti fallibili, non potrebbero accedere alla procedura di accordo, v. X. Xxxxxxxxxxxx, L’accesso del socio alle procedure di sovraindebitamento: una grave lacuna normativa, in Fall. 2017, 198 (sia pure lamentando un vuoto normativo); X. Xxxxxxxxxx, La procedura di liquidazione del patrimonio nella legge n. 3/2012, in Giur. comm. 2016, 712, § 2; X. Xxxxxx, La procedura di concordato minore, in La riforma del sovraindebitamento nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, a cura di X. Xxxxxxxxxx – X. Xxxxxx, Xxxx, 0000, 224; X. Xxxxxxxxx, I nuovi procedimenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento dopo il maquillage della L.
N. 3/2012, in Fall. 2013, 1435 (secondo lo stesso A. non vi sarebbe invece ragione per negare la legittimazione alla procedura nel caso di decorso dell’anno dalla cessazione del rapporto sociale); egualmente, per X. Xxxxx, L’insolvenza civile, in X. Xxxxx (a cura di), Sovraindebitamento e usura, Milano, 2012, 69, l’accesso alle procedure da sovraindebitamento sarebbe consentito al socio solidalmente responsabile soltanto decorso l’anno dalla cessazione del rapporto
sociale e quindi una volta venuta meno la possibilità della dichiarazione di fallimento in estensione ex art. 147 l.fall. Parimenti contra X. Xxxxxxxxxx, Presupposti di ammissibilità, in F. Xx Xxxxxx – X. Xxxxxxx – X. Xxxxxxxxx, La “nuova” composizione della crisi da sovraindebitamento, in Il Civilista, Milano, 2013, salva l’ipotesi in cui il socio si sia indebitato non uti socius, bensì quale consumatore.
[4] In tal senso, v. X. Xxxxxxxxxx, I soci illimitatamente responsabili e le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Fall. 2020, 319.
[5] Per tale soluzione, v. X. Xxxxxxxxxx, I soci illimitatamente responsabili e le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento, cit., 319-320.
[6] X. Xxxxx, Il socio illimitatamente responsabile e la composizione della crisi personale da sovraindebitamento, in Fall. 2019, 949, giustamente sottolinea che la tesi negativa appare in netto contrasto con la ratio legis (che è quella di consentire l’esdebitazione a tutte indistintamente le persone fisiche sovraindebitate) e “a causa di un’eventualità che potrebbe anche non verificarsi mai (il fallimento della società)”, con seri rischi d’illegittimità costituzionale.
[7] Per tale esatta osservazione, v. V. F. Xxxxxxxxxx – L. V. De Santis, L’ambito soggettivo di applicazione delle “nuove” procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, a cura di
X. Xxxxxxxxxx – X. Xxxxxx, Xxxx, 0000, 45.
[8] È il caso esaminato da Trib. Rimini 27 giugno 2019, cit.
Diritto Bancario
Accordi a "saldo e tralcio" e segnalazione in Centrale dei rischi
di Xxxxx Xxxxxxxx
Con l’espressione “saldo e stralcio” si intende un accordo transattivo che intercorre tra debitore e creditore, in virtù del quale il primo si impegna a corrispondere una somma di importo inferiore rispetto a quella originaria ed il creditore accetta (in sostanza le parti addivengono ad un ridimensionamento del debito).
Nella giurisprudenza di legittimità (tra le tante, Cass. n. 12876/2015; Cass. n. 15444/2011; Cass. n. 13717/2006; Cass. n. 1690/2006) si sono consolidati, in argomento, i seguenti principi: deve essere qualificata novativa la transazione che determina l’estinzione del precedente rapporto e ad esso si sostituisce integralmente, di modo che si verifichi una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello dell’accordo transattivo, con la conseguente insorgenza dall’atto di un’obbligazione oggettivamente diversa dalla precedente.
Invece, è qualificabile come transazione semplice, o conservativa, l’accordo con il quale le parti si limitano ad apportare modifiche solo quantitative ad una situazione già in atto e a regolare il preesistente rapporto mediante reciproche concessioni, consistenti (anche) in una bilaterale e congrua riduzione delle opposte pretese in modo da realizzare un regolamento di interessi sulla base di un ‘quid medium’ tra le prospettazioni iniziali.
Nell’ipotesi in cui un rapporto venga fatto oggetto di una transazione e questa non abbia carattere novativo, la cosiddetta mancata estinzione del rapporto originario discendente da quel carattere della transazione significa non già che la posizione delle parti sia regolata contemporaneamente dall’accordo originario e da quello transattivo, bensì soltanto che l’eventuale venir meno di quest’ultimo fa rivivere l’accordo originario, al contrario di quanto invece accade qualora le parti espressamente o oggettivamente abbiano stipulato un accordo transattivo novativo. Quanto precede implica il venir meno in via definitiva dell’accordo originario, nel qual caso l’art. 1976 c.c. sancisce l’irrisolubilità della transazione (salvo che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente pattuito).
Tanto premesso, la Banca d’Italia (Comunicazione del 19 giugno 2020), relativamente agli accordi transattivi “a saldo e stralcio”, ha fornito importanti chiarimenti riguardo alle modalità segnaletiche alle quali gli intermediari partecipanti alla Centrale dei rischi devono attenersi:
a) se l’accordo prevede che il pagamento della somma concordata debba avvenire contestualmente alla stipulazione o comunque in un’unica soluzione, nella rilevazione riferita al mese in cui è stato effettuato il pagamento, l’intermediario segnala il cliente nella categoria “sofferenze – crediti passati a perdita” per la parte stralciata. Nessuna segnalazione è dovuta per
cassa tra le “sofferenze”. A partire dalla rilevazione successiva nessuna segnalazione è dovuta;
b) se l’accordo raggiunto prevede un piano rateale di rimborso ed è da subito efficace, la quota che il cliente si è obbligato a rimborsare si configura come un nuovo finanziamento rateale. In questo caso, nel mese in cui le parti hanno raggiunto l’accordo, l’intermediario segnala il cliente nella categoria “sofferenze – crediti passati a perdita” per l’importo stralciato e non effettua alcuna segnalazione tra le “sofferenze”. Nelle date contabili successive, l’intermediario segnala nella categoria “sofferenze” la quota del credito da rimborsare con importi decrescenti in corrispondenza dei pagamenti man mano ricevuti, fino al pagamento dell’ultima rata concordata;
c) se l’accordo è efficace con il pagamento dell’ultima rata, l’intermediario segnala il cliente nella categoria “sofferenze” per importi via via decrescenti fino al pagamento dell’ultima rata concordata; la segnalazione nella categoria “sofferenze-crediti passati a perdita” – per il valore dell’importo non riscosso – è effettuata con riferimento alla data contabile in cui è corrisposta l’ultima rata e il credito è estinto.
La Comunicazione di Bankitalia precisa, altresì, che gli intermediari, prima di stipulare un accordo “a saldo e stralcio”, avranno cura di chiarire al cliente (obblighi di informazione e trasparenza nei confronti della clientela) le conseguenze che esso comporta in termini di segnalazioni alla Centrale dei rischi. In particolare, dovranno indicare al cliente se il raggiungimento dell’accordo comporti la segnalazione nella categoria “sofferenze – crediti passati a perdita”.
Soft Skills
La selezione dei collaboratori: dalla ricerca all'inserimento in studio
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Business Coach e Formatore
Il periodo storico che stimo attraversando è un vero e proprio ponte di passaggio da un passato e un futuro della professione.
Se un tempo la professione si svolgeva solitamente in forma individuale, creando strutture di studio di piccole dimensioni, caratterizzata dal dominus e dai suoi collaboratori, oggi la situazione si presenta con caratteristiche diverse e il futuro spinge nella direzione del team. Cosa vogliamo dire? Che la professione forense del futuro è una professione che si esercita in squadra e non in forma individuale. Le ragioni sono molteplici, vediamole.
LE SPECIALIZZAZIONI
Il mercato da tempo sta richiedendo specialisti e non più generalisti. Questo è un dato incontrovertibile se prendiamo le statistiche delle ricerche effettuate dagli utenti sul web e se leggiamo le indagini di mercato svolte dal 2008 ad oggi. Le aziende – ma anche i privati – effettuano oggi ricerche mirate di specialisti legali e non più generiche come un tempo. Chi, per esempio, necessita di consulenza e assistenza in materia di licenziamento, non si rivolgerà più ad un avvocato generico quanto all’attività prestata, ma ad un avvocato giuslavorista e spesso con l’attenzione di specificare nella ricerca se specializzato nel diritto del lavoro lato azienda o lato lavoratore. Chi ha necessità di costituire una società o di acquisirne una già attiva, si rivolgerà ad un avvocato specializzato nel diritto societario, se non addirittura in M&A. Xxxxxxx si ritiene siano stati violati nostri diritti in ambito di proprietà intellettuale, ci rivolgeremo ad un legale specializzato in tutela della proprietà intellettuale e potremmo continuare così. Il mercato dei legali si sta avviando verso le specializzazioni sul modello del mercato medico. È utile subito chiarire che quando parliamo di specializzazioni in questo articolo indichiamo il termine in modo atecnico come sinonimo di “esperienza”, e di “focalizzazione”. Le specializzazioni in senso stretto, infatti, sono ancora in fase di approvazione e di specificazione quanto a requisiti e percorsi per ottenerle. Ma è lì che si sta andando, sull’onda, appunto delle richieste di mercato.