ULTERIORI CRITERI PER LA QUALIFICAZIONE
ULTERIORI CRITERI PER LA QUALIFICAZIONE
DEL RAPPORTO DI LAVORO
di Xxxxxxx XXXXXXXXX
Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripeti- tiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all’opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e crea- tivo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distin- tivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.
Corte di Cassazione, Sezione lavoro Sentenza 8 luglio 2013 n. 16935
(Pres. Dott. F.M. Xxxxxxxx; Rel. Xxxx. X. Xxxxxxxxxx)
[Omissis]
Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Palermo, parzialmente riformando la sentenza impugnata, accoglie- va la domanda del lavoratore in epigrafe, proposta nei confronti della società (…), avente ad oggetto, previo riconoscimento della natura subordina del rapporto intercorso con detta società, la condanna della stessa al pagamento delle differenze retributive e la declaratoria del licenziamento intimato oralmente con condanna al pagamento del consequenziale risar- cimento del danno.
A fondamento del decisum la Corte di merito, innanzitutto, rilevava che l’istruttoria espletata dimostrava la sussistenza della sottoposizione al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro sicchè poteva ritenersi la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato.
Quanto alle reclamate differenze retributive la Corte territoriale assumeva che queste tro- vavano fondamento nei turni settimanali predisposti dalla società e nelle dichiarazioni dei testi.
Circa, poi, la dedotta mancanza della messa a disposizione delle proprie energie lavorative da parte del lavoratore dopo il licenziamento, riteneva la Corte che tanto rilevava nel senso, anche a norma dell’art. 1227 cc, che andavano riconosciute le retribuzioni maturate dalla data di notifica del ricorso di primo grado essendosi solo da questa data verificata la mora accipiendi del datore di lavoro.
Quanto, infine, all’aliud perceptum la Corte di merito, sul presupposto che il lavoratore non aveva mai negato di aver prestato – nelle more – altra attività lavorativa, procedeva alla re- lativa deduzione.
Avverso questa sentenza la società ricorre in cassazione sulla base di tre motivi.
Resiste con controricorso la parte intimata che propone a sua volta impugnazione incidentale assistita da due censure.
Motivi della decisione
I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardano la impugnazione della stessa sentenza. Con il primo motivo del ricorso principale la società deduce violazione “degli artt. 2094 cc e 360 n. 3 e 5 cpc per avere la Corte ignorato, nella qualificazione, del rapporto come di lavoro subordinato, i presupposti necessari del relativo vincolo e comunque omesso di motivare, nelle ricostruzione delle caratteristiche del rapporto, sugli elementi prova decisivi prospettati dalla Agenzia Ippica”.
Sostiene in particolare la società che, nella specie, manca l’elemento fondamentale della subordinazione rappresentato dall’obbligo di continuativa messa a disposizione del datore di lavoro, durante l’orario di lavoro, delle energie lavorative senza la possibilità di discrezionale rifiuto immotivato.
Essenziale, dunque, afferma la società, sarebbe stato l’accertamento dell’obbligo di presenza
quotidiana o secondo scansioni temporali fissate dal datore di lavoro.
Né, afferma la società, la Corte di merito tiene conto delle specifiche e contrarie prove che erano state indicate nell’atto di appello.
Neppure, sottolinea la ricorrente, la Corte palermitana rileva la totale assenza di prova del
potere disciplinare.
La censura è infondata.
Preliminarmente va rilevato che questa Corte, sulla premessa che ogni attività umana eco- nomicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo, afferma che l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei con- fronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organiz- zazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa (tra le numerose decisioni x. Xxxx. 3 aprile 2000 n. 4036; Cass. 9 gennaio 2001 n. 224;
Cass. 29 novembre 2002 n. 16697; Cass. 1 marzo 2001 n. 2970; Cass. 15 giugno 2009 n. 13858
e Cass. 19 aprile 2010 n. 9251).
Viene, però, precisato, in tali pronunzie che l’esistenza del vincolo va concretamente apprez- zata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; e, proprio con riguardo alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce di principi fondamentali ora indicati, si è asserito che in tali ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito.
E’ stato, di conseguenza, enucleata la regula iuris – che va in questa sede ribadita – secondo
la quale, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata, nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all’opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresen- tato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la con- tinuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.
A tali principi la Corte di merito si è attenuta quando, sulla premessa che il lavoratore in causa era addetto a mansioni ripetitive e che tali mansioni, una volta ricevute le istruzioni iniziali, non richiedevano ulteriori direttive e controlli, ha dato rilievo, ai fini di cui trattasi, alle risul- tanze istruttorie dalle quali emergeva che: i turni settimanali erano predisposti dalla società, ancorchè sula scorta delle disponibilità inizialmente manifestate dal prestatore di lavoro; una volta predisposti i turni il lavoratore era tenuto a rispettarli e non poteva allontanarsi senza essere autorizzato; in caso d’indisponibilità il lavoratore doveva avvertire preventivamente il preposto; il lavoro veniva svolto nei locali dell’agenzia con l’uso dei beni aziendali secondo orari predeterminati; il compenso corrisposto era fisso, senza che vi fosse alcun riferimento al risultato della prestazione; non vi era alcun rischio economico da parte del lavoratore.
E’, quindi, corretta l’affermazione della Corte di merito secondo la quale il rapporto era connotato dal requisito della subordinazione, intesa come sottoposizione del lavoratore al potere organizzativo, di controllo e, all’occorrenza, disciplinare da parte del datore di lavoro non ravvisandosi, peraltro, nelle modalità delle prestazioni lavorative come sopra effettuate margini di autonomia.
Né e vale la pena di sottolinearlo il mancato esercizio del potere disciplinare è indice di per sé di assenza del potere disciplinare.
D’altro canto in ordine alla valutazione delle emergenze istruttorie non vi è motivazione illogica o non formalmente coerente o, ancora, inadeguata, sicchè anche sotto tale aspetto la censura è infondata, non potendo, in tale ambito, il controllo devoluto a questo giudice di legittimità andare oltre.
Con la seconda critica del ricorso principale la società, denunciando violazione dell’art. 36 Cost. e della Legge n. 604 del 1966 e 300 del 1970, rileva che dall’accoglimento del primo motivo – sulla natura non subordinata del rapporto di lavoro – deriva l’inapplicabilità della garanzia costituzionale di cui alla denunciata norma e delle leggi poste a tutela del lavoratore per il caso di licenziamento illegittimo.
La critica, atteso il rigetto del primo motivo, rimane assorbita.
Con il terzo motivo del ricorso principale la società ricorrente, allegando omessa ed insuffi- ciente motivazione su “punto” decisivo della controversia, evidenzia l’erroneità della senten- za impugnata in punto di accertamento del tempo della prestazione lavorativa ed in partico- lare rileva l’inattendibilità di un teste.
Il motivo è infondato. Va premesso che costituisce principio del tutto pacifico nella giurispru- denza di questa Corte che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di control- larne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del proces- so, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi,
dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008 n. 3267, Cass. 27 luglio 2008 n. 2049 e, da ultimo, Xxxx. 25 maggio 2012 n. 8298).
In tale ottica si è ribadito da questa Corte che la deduzione di cui all’art. 360 n. 5 cpc non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali con- tenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa valutazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fat- to compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono, pertanto, risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. 30 marzo 2007 n. 7972).
Neppure, si è ulteriormente rimarcato, il motivo di ricorso per cassazione, con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione, può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non si può proporre con esso un pre- teso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), cpc; in caso contrario, questo motivo di ricorso si ri- solverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e, perciò, in una richiesta diretta all’ottenimento di una diversa pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (Cass. 26 aprile 2006 n. 9233).
Sulla base di tali principi non può trovare ingresso in questa sede la censura in esame che, a fronte di una valutazione delle risultanze istruttorie sorrette da congrua motivazione, la quale dà conto del percorso logico seguito per addivenire all’accertamento dell’orario di lavoro os- servato, mira sostanzialmente a meramente contestare, e la scelta del giudice di merito, tra le complessive risultanze del processo, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esso sottesi, e la concludenza delle emergenze valutate.
Con il primo motivo del ricorso incidentale il lavoratore deduce la violazione degli artt. 112 cpc, 1362-1365 cc, travisamento dei fatti, violazione dell’art. 24 Cost., 1227 cc e 416 cpc nonché omessa motivazione su “punto” decisivo.
Prospetta il ricorrente sostanzialmente che la Corte del merito ha errato nell’interpretare il terzo motivo dell’appello della società dove il mero riferimento alla mancata messa a dispo- sizione delle prestazioni lavorative veniva in rilievo quale indicatore di una presunta carenza probatoria.
Assume, poi, il ricorrente incidentale che la Corte non ha tenuto conto che con atto del 15 settembre 2001 impugnandosi il licenziamento venne manifestata la volontà di proseguire il rapporto di lavoro con esclusione, quindi, di ogni colpevole inerzia.
La censura non è esaminabile.
Infatti il ricorrente incidentale pur lamentando l’erronea interpretazione dell’atto di appello e la mancata considerazione di un documento, omette del tutto, in violazione del principio di autosufficienza di trascrivere nel ricorso il testo e dell’atto di appello e del documento mal considerato (x. Xxxx. 12 ottobre 1998 n. 10101 e Cass. 25 settembre 2002 n. 13945 nonché
Cass. 19 maggio 2006 n. 11886).
Né tale ultimo documento risulta depositato secondo quanto stabilito, a pena di improcedibi- lità, dal n. 4 dell’art. 369 cpc, così come modificato dall’art. 7 D.Lgs. del 2 febbraio 2006 n. 40 applicabile ratione temporis.
Con la seconda censura del ricorso incidentale il lavoratore assume violazione dell’art. 112
cpc, travisamento dei fatti, violazione degli artt. 345, 414, 416, 420 e 437 cpc nonché omessa motivazione su “punto” decisivo.
Sostiene al riguardo il ricorrente incidentale che la deduzione da parte della società dell’aliun- de perpeptum è tardiva, sicchè la Corte del merito non poteva pronunciarsi sulla questione. Né, aggiunge, la circostanza di non voler accettare il contraddittorio equivale all’ammissione sull’avvenuta percezione di latri redditi da lavoro.
La censura alla luce della giurisprudenza di questa Corte è infondata.
E’ principio di diritto vivente nella giurisprudenza di questa Corte che in tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore l’eccezione, con la quale il datore di lavoro deduca che il di- pendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di nuova occupazione ovvero de- duca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l’aggravamento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte. Pertanto, allorquando vi è stata allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d’ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l’acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. 26 ottobre 2010 n. 21919).
A tale regula iuris il giudice di appello si è attenuto traendo dalla mancata negazione, da parte del lavoratore, e, quindi, dal silenzio della parte interessata, il convincimento della avvenuta corresponsione di altri redditi tali da incidere sulla quantificazione del danno.
In conclusione i ricorsi vanni rigettati.
La reciproca soccombenza la compensazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte riuniti i ricorsi li rigetta e compensa le spese del giudizio di legittimità.
[Omissis]
NOTA
Sommario: 1. Premessa. 2. Il caso. 3. Le motivazioni. 4. Conclusioni.
1. Premessa
Discutere di subordinazione e autonomia significa occuparsi di un tema classico del diritto del lavoro, di sicuro spessore, sul quale non si contano i contributi della dottrina e le pronunce della giurisprudenza.
La distinzione tra lavoro subordinato e autonomo è così antica da poter essere rinvenibile già nel diritto romano e, in particolare, nelle Institutiones di Gaio, ove si faceva riferimento alla locatio operarum, intesa come locazione di opere di un soggetto in favore di un altro mediante corrispettivo, e alla locatio operis, la quale “pur costituendo anch’essa una locazio- ne, si diversificava per l’oggetto non già costituito da una prestazione di opere (intesa come locazione di energie lavorative rese dal locatore), bensì dal risultato dell’opera pattuita e convenuta tra le parti”1.
1 G. VENETO, Il nuovo Manuale di Diritto del Lavoro, Xxxxxxx, Bari, 2011, 180.
Gli istituti della locatio operarum e locatio operis venivano per la prima volta codificati nel nostro ordinamento nel Codice Civile del 1865 seppure in linea generale sotto la locuzione “locazione delle opere”; mancava, infatti, una vera e propria disciplina del lavoro subordina- to. L’art. 1570 definiva la locazione delle opere come “il contratto per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante mercede”. In merito alla lacuna codicistica sulla nozione di lavoro subordinato, è stato autorevolmente affermato in dottrina che tale carenza “non sta a dimostrare che la locatio operarum fosse un contratto di scarso rilievo sociale (e cioè che il fenomeno del lavoro subordinato non fosse importante e, tanto meno, diffuso): dimostra, piuttosto, che […] la determinazione del contenuto della locatio operarum era la- sciata alla più ampia ed indiscriminata autonomia della volontà privata”2.
In seguito, il Legislatore del 1942 non ha fornito la nozione di lavoro subordinato bensì, all’art. 2094 c.c., ha definito lavoratore subordinato colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
In dottrina ci si è interrogati a lungo sul concetto di collaborazione – legata inscindibilmente a quello di subordinazione – e sulla sua portata ontologica e ideologica. La stessa deve essere intesa come collaborazione teleologicamente orientata alla realizzazione degli scopi dell’im- presa ed esplicantesi non solo nei riguardi del datore di lavoro ma anche nei confronti degli altri lavoratori3.
Il richiamo esplicito alla collaborazione, tuttavia, non può essere considerato, ex se, risolutivo del problema dell’esatta qualificazione del fenomeno della subordinazione e della conseguen- te attribuzione della posta in gioco4 rappresentata dall’applicazione delle tutele previste dalla legislazione di sostegno al lavoratore subordinato ritenuto soggetto contrattualmente debole (e non solo contrattualmente).
Un ruolo fondamentale, a tal fine, è stato assunto dalla giurisprudenza la quale, partendo dal dato normativo, ha cercato di ricostruire la fattispecie anche alla luce di una serie di indici spesso combinantisi tra loro di diversa natura e importanza5. La stessa giurisprudenza, però, “ha prodotto una notevole quantità di provvedimenti che […] hanno contribuito ben poco a fissare riferimenti sicuri e stabili nella materia”6.
2. Il caso
Il succinto excursus che precede, lungi dal voler rappresentare una disamina completa del fenomeno della subordinazione, alla cui letteratura monografica si fa rinvio per un maggiore approfondimento7, è utile per ricostruire l’antecedente logico per l’analisi della pronuncia
2 X. XXXXX, Diritto del Lavoro, Xxxxxxx, Bari, 2011, 41.
3 R. DEL PUNTA, Diritto del Lavoro, Xxxxxxx, Milano, 2010, 308 ss..
4 X. XXXXXX, Lavoro subordinato e lavoro autonomo, in DRI, Xxxxxxx, Milano, 2000, II, 217 ss..
5 X. XXXXX - X. XXXXXXX, La subordinazione, in: Il rapporto di lavoro, subordinazione e costituzione, Utet, Torino,1993, 81.
6 X. XXXXXXXXXXX, Alla ricerca della subordinazione: appunti per la qualificazione del rapporto di lavoro subordinato, in RGL, 2003, III, I, 539 ss..
7 Senza pretesa di esaustività: X. XXXXXXXX, Autonomia e subordinazione nella prestazione lavorativa, Cedam, Padova, 1974; X. XXXXX, La subordinazione del lavoratore nel diritto del lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1947; X. XXXXXXXXXXX, Libertà contrattuale e subordinazione, Xxxxxxx, Milano, 2001; N. DE MARINIS, Impresa e lavoro oltre la legge Biagi: vecchi e nuovi problemi della subordinazione, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2008; X. XXXXX, Il nuovo diritto del lavoro: subordinazione e lavoro flessibile, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2006; X. XXXXXX, Subordinazione e autonomia nel diritto del lavoro, Xxxxxxx, 1989;
M.F. RABAGLIETTI, La subordinazione nel rapporto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1959; X. XXXXX - X. XXXXXXX, op. cit.; X. XXXXXX, La subordinazione nel rapporto di lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 1994; X. XXXXXXXXX XXXXXXXX, Subordinazione e diritto del lavoro: problemi storico-critici, Xxxxxx, Xxxxxx, 0000.
in epigrafe, posto che “il problema della qualificazione del contratto di lavoro subordinato è sempre stato inscindibilmente legato a quello della nozione di subordinazione, ricostruita dall’art. 2094 c.c., rispetto allo schema della locazione delle opere, come particolare modo di atteggiarsi della prestazione lavorativa”8.
Il profondo mutamento del mercato del lavoro degli ultimi anni, la proliferazione di tipologie contrattuali no standard, nonché l’evoluzione dei processi produttivi hanno inciso notevol- mente sull’autonomia privata determinando una rivitalizzazione del dibattito su subordina- zione e autonomia.
Xxxxxx, nel caso di specie, il ricorrente, un’agenzia ippica, contestava alla Corte del merito l’aver ignorato, nella corretta qualificazione del rapporto di lavoro del prestatore, i presup- posti necessari del vincolo di subordinazione. In particolare, ad avviso della stessa Agenzia, il rapporto di lavoro era privo della messa a disposizione continuativa delle energie lavorative da parte del lavoratore durante l’orario di lavoro.
Ai fini del riconoscimento del rapporto di impiego subordinato, la Corte d’Appello di Palermo, dopo aver constatato che la prestazione contrattualmente dedotta era modesta e meramente ripetitiva, aveva rilevato la sussistenza della sottoposizione al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro.
3. Le motivazioni
La Corte di legittimità ha introdotto le proprie motivazioni con un assunto che per quanto possa apparire scontato rappresenta ormai un caposaldo della giurisprudenza sul tema: “ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di lavoro subordinato che di lavoro autonomo”.
L’accertamento in concreto dell’esatta qualificazione del rapporto di lavoro deve essere ope- rato non già in riferimento al nomen iuris bensì all’attività effettivamente espletata, posto che il riferimento al dato formale risultante dal contratto come rivelatore della natura subor- dinata o autonoma del rapporto di lavoro è proprio di una giurisprudenza ormai vetusta9.
Solo a partire dai primi anni del decennio scorso la Corte di legittimità, tornando sui propri passi, ha disconosciuto il requisito formale come determinante e ha introdotto, con un’ar- gomentazione innovativa, il principio per il quale la natura del rapporto di lavoro deriva dalle concrete modalità di esecuzione della prestazione lavorativa10: “Anche in presenza del “nomen iuris” adottato dalle parti per la qualificazione del rapporto tra le stesse instaurato come rapporto di lavoro subordinato, occorre aver riguardo alla volontà effettiva delle parti
8 X. XXXXXXX - R. DE XXXX XXXXXX - X. XXXX - X. XXXX, Il rapporto di lavoro subordinato, in Diritto del lavoro, 2, Utet, Torino, 1999, 20 ss..
9 Cass. civ., 2 luglio 1992, n. 8120: “con riguardo alle prestazioni di contenuto intellettuale, che per la loro stessa natura non richiedono alcuna organizzazione imprenditoriale, né postulano un’assunzione di rischio a carico del lavoratore, l’accertamento della natura (autonoma o subordinata) del rapporto va destituita esclusivamente dalla posizione tecnico-gerarchica in cui si trovi o meno il lavoratore medesimo, in correlazione ad un potere direttivo del datore di lavoro, che inserisca allo intrinseco svolgimento di quelle prestazioni, restando irrilevante, ove difetti detto requisito, l’eventuale sussistenza di connotati normalmente propri del lavoro subordinato, quali la collaborazione, l’osservanza di un determinato orario, la continuità dell’attività e la forma della retribuzione (Cass. nn. 4702/1991; 2788/1987, 3011/1985), ribadendosi il principio, secondo cui, quando le parti, nel regolare i loro reciproci interessi, abbiano dichiarato di voler escludere l’elemento della subordinazione, non è possibile, specie nei casi caratterizzati dalla presenza di elementi compatibili con l’uno o con l’altro tipo di rapporto, pervenire ad una diversa qualificazione se non si dimostra che in concreto il detto elemento di subordinazione si sia di fatti realizzato nello svolgimento del rapporto medesimo”; Cass. civ., 15 maggio 1991, n. 5409.
10 Cass. civ. Sez. V, 27 novembre 2002, n. 16805 in Foro It., 2003, I, 1148; Cass. civ. Sez. II, 11 settembre 2003, n.
13375; Cass. civ. Sez. lav., 20 giugno 2003, n. 9900.
medesime, di talché la qualificazione propria del rapporto deve desumersi, oltre che da tale dato formale, anche, e in misura prevalente, dalle concrete modalità della prestazione e, in generale, di attuazione del rapporto” (Cass. 27/11/2002, n. 16805).
Nella sentenza qui commentata, La Suprema Corte ha rilevato che, per consolidata giurispru- denza, “la subordinazione va intesa come disponibilità del lavoratore nei confronti del datore con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del dato- re di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività d’impresa”11.
Tuttavia, se il riferimento all’assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, diret- tivo e disciplinare costituisce un punto decisivo, del tutto pacifico, prioritariamente rilevante ai fini del riconoscimento della natura subordinata del rapporto, le peculiari caratteristiche della prestazione, innanzi rilevate, conducono ad una ponderazione di tale criterio. Infatti, conformemente alla giurisprudenza più recente, la Suprema Corte ha enunciato il principio per il quale “nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all’opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresen- tato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la con- tinuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore”12.
Alla luce del principio appena enucleato, può ben comprendersi come le frontiere della subor- dinazione siano ormai estremamente mobili13 e non sempre ben determinabili. In questi casi si è di fronte a casi di subordinazione attenuata potendosi considerare concluse sia la stagione formalistica sia quella che assolutizzava il criterio della sottoposizione al potere organizzati- vo, direttivo e disciplinare14.
Dalle considerazioni che precedono consegue la necessità di individuare ulteriori criteri per qualificare un rapporto di lavoro come subordinato escludendo, peraltro, che il mancato eser- cizio del potere disciplinare possa rilevare ai fini del riconoscimento della natura autonoma del rapporto di lavoro.
Nella sentenza in epigrafe, la Corte di legittimità ha individuato indici ritenuti quali la conti-
11 Ex pluribus, Cass. civ. Sez. lav., 19 aprile 2010 n. 9251; Cass. civ. Sez. lav., 15 giugno 2009 n. 13858; Cass. civ.
Sez. lav., 01 marzo 2001, n. 2970; Cass. civ. Sez. lav., 29 novembre 2002, n. 16697; Cass. civ. Sez, lav., 09 gennaio
2001, n. 224; Cass. civ. Sez. lav., 03 aprile 2000, n. 4036.
12 V. anche: Cass. civ. Sez. lav .,19 aprile 2010, n. 9252; Cass. civ. Sez. lav., 05 maggio 2004, n. 8569; Cass. civ. Sez. lav., 18 marzo 2004, n. 5508; Cass. civ. Sez. lav., 13 maggio 2004, n. 9151; Così in Cass. civ. Sez. lav., 06 luglio 2001, n. 9167: “Ai fini della distinzione tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro - inteso come sottoposizione ad ordini specifici e al diretto e costante controllo datoriale delle diverse fasi di esecuzione delle prestazioni lavorative - diviene, con l’evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro nella direzione di una sempre più diffusa esteriorizzazione di interi settori del ciclo produttivo o di una serie di professionalità specifiche, sempre meno significativo della subordinazione, mentre, in riferimento a tali nuove realtà, assume valore di indice determinante della subordinazione l’assunzione per contratto dell’obbligazione di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle, con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione per il perseguimento dei fini propri dell’impresa datrice di lavoro”.
13 L’espressione è di X. XXXXXX, D&L, 2004, II, 333 ss..
14 X. XX XXXXXXXXX, Mansioni elementari e subordinazione, in DRI, Xxxxxxx, Milano, 2010, I, 176 ss..
nuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.
4. Conclusioni
Sulla base dei presupposti richiamati testé, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso constatan- do la corretta interpretazione del Giudice di merito il quale ha accertato la predisposizione di turni settimanali da parte della Società non suscettibili di modifica da parte del lavoratore, la corresponsione di una retribuzione fissa e l’assenza del rischio economico in capo al pre- statore.
La pronuncia in esame si pone in linea con la costante giurisprudenza sul tema in ordine alla ponderazione del concetto di subordinazione in considerazione delle concrete modalità (sem- plici e ripetitive o, al contrario, creative e di particolare elevatezza) con le quali l’attività viene posta in essere.
In conclusione, non può farsi a meno di rilevare che il superamento della giurisprudenza ancorata al dato formale ha creato disorientamento nell’interprete nella ricerca della subor- dinazione in fattispecie connotate da elementi peculiari come quella in oggetto. A tal fine la regola iuris enunciata se da un lato si pone come strumento di sicuro ausilio, dall’altro impone una costante valutazione caso per caso degli indici sussidiari che “singolarmente valutati, non sembrano fornire elementi discriminanti tali da poter assurgere a nozioni che, da sole, con- sentono di ritenere esistente il criterio della subordinazione”15.
15 X. XXXXXX, op. cit., 180.