INDICE
LA DISCIPLINA DEL LICENZIAMENTO NEL PUBBLICO IMPIEGO
INDICE
Capitolo I
Il licenziamento del dipendente pubblico
1. Excursus storico p. 1
2. La disciplina generale del licenziamento: la giusta causa,
il giustificato motivo oggettivo e soggettivo p. 17
3. Le ipotesi di licenziamento tipizzate dal
legislatore nel d.lgs. n.165/2001 p. 31
4. Le ipotesi di licenziamento previste nella
contrattazione collettiva p. 52
Capitolo II
La tutela in caso di licenziamento illegittimo
1. La tutela ante d.lgs. 75/2017
1.1 Dalla tutela obbligatoria alla tutela reale dello Statuto
dei Lavoratori p.68
1.2 La legge 20 giugno 2012 n.92, la riduzione della tutela reale
e la controversa applicabilità al pubblico impiego p. 75
1.3 Le incertezze giurisprudenziali: la Cassazione ribalta
il proprio orientamento p. 88
1.4 Il Jobs act e l’ulteriore marginalizzazione della tutela reale p. 97
2. La tutela post d.lgs.75/2017: un passo indietro nel
processo di contrattualizzazione? p. 106
3. L’opportunità dell’intervento normativo p. 108
Capitolo III
Il licenziamento del dirigente pubblico
1. La peculiarità del rapporto di lavoro p. 115
2. Vicende estintive del rapporto dirigenziale
2.1 Responsabilità dirigenziale: natura giuridica e rapporti
con la responsabilità disciplinare p. 136
2.2 Revoca e recesso p. 152
2.3 Le altre ipotesi: scadenza del termine e spoils system p. 163
3. La tutela in caso di illegittima sanzione espulsiva:
differenze col settore privato p. 170
Bibliografia p. 181
Capitolo I
Il licenziamento del dipendente pubblico
1 Excursus storico
Nell’ordinamento giuridico dell’Italia unificata il rapporto di pubblico impiego è riconducibile al diritto comune del lavoro; viene qualificato come locatio operarum: ad esso siapplicano le disposizioni del codice civile, sia pure con alcune specialità concernenti le procedure di reclutamento, la statuizione di dotazioni organiche ed un particolare regime pensionistico1.
Trova applicazione l’art. 1628 del codice civile del 1865 che, ispirato ad una visione economico-filosofica di tipo liberale, al fine di evitare la costituzione di vincoli perpetui e servili, stabilisce che “nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa ”. Non vi è dunque ragione di prevedere il diritto di recesso in quanto, essendo la prestazione lavorativa a termine o comunque dovendo essere finalizzata alla realizzazione di una determinata opera, non vi è necessità di sciogliere il rapporto di lavoro nel corso del suo svolgimento. In questo periodo le esigenze di tutela del dipendente pubblico sono scarsamente avvertite. La tesi maggioritaria ne identifica la principale causa nell’osmosi tra la politica e
1 In tal senso X. XXXXXXXX, L’impiego pubblico in Italia, Il Mulino, Bologna, 1979, pagg.55 ss.
l’amministrazione2: i vertici politici ed amministrativi appartengono alla stessa élite. In tale contesto il dipendente pubblico è considerato più come soggetto attraverso il quale il potere amministrativo si manifesta che come soggetto nei cui confronti il potere amministrativo viene esercitato. Secondo altri autori la ragione della scarsa attenzione verso i dipendenti pubblici è da rinvenirsi nella comune considerazione degli impiegati quali meri prestatori di opere in posizione di totale dipendenza rispetto al potere politico. In questo contesto scarsa reputazione è riservata soprattutto a coloro che occupano i livelli inferiori della gerarchia interna delle amministrazioni ed il cui stato giuridico ed economico è difficilmente differenziabile dai locatori di opere privati3.
Tutto cambia nei primi del Novecento quando il rapporto dipubblico impiego
si distacca dal diritto comune del lavoro. La dottrina intraprende la via dell’elaborazione di un diritto amministrativo: scompare il contratto come momento genetico del rapporto di impiego che nasce da un atto unilaterale, l’atto di nomina. La vita del rapporto è segnata da atti unilaterali dell’amministrazione, che non sono più riconducibili a negozi di diritto privato. Secondo la dottrina “il rapporto di lavoro di pubblico impiego viene considerato come una relazione non paritaria, cioè come un rapporto di mera
2 X. XXXXXXX, L’amministrazione dello Stato liberal-democratico, in X. XXXXXXX, La formazionedello Stato amministrativo, Xxxxxxx, Milano, 1974, pag.11.
3 Così X. XXXXXXX, Il rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni, CEDAM, Padova, 2000, pag.45.
soggezione dell’individuo nei confronti del soggetto pubblico che opera attraverso poteri pubblici di supremazia, derivanti direttamente dalla legge, che si sostanziano in provvedimenti aventi efficacia costitutiva idonei a modificare la posizione del lavoratore”4. E’ in particolare a partire dalla legge Giolitti del 1908 sugli impiegati statali che le norme del codice cominciano a declinare rispetto alle regole speciali dettate da leggi amministrative: nel riconoscere lo status di impiegato, la legge in questione abbina il riconoscimento di maggiori garanzie5 per il dipendente pubblico rispetto al privato ad un’accentuazione della sua subordinazione gerarchica nei confronti dei vertici della P.A.
Con l’avvento dell’Italia repubblicana il D.P.R. 10 gennaio 1957 n.3, recante
il “Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato”, dispone una dettagliata regolamentazione della materia del pubblico impiego e, in particolare, della disciplina dell’estinzione del rapporto di lavoro attraverso gli istituti della decadenza, della destituzione e della dispensa.
4 G.M. MONDA, La disciplina del licenziamento, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Collana Il Nuovo Diritto del Lavoro diretta da X. XXXXXXXX, X. XXXXXXX,- Giappichelli, Torino, 2013, pag.582.
5 La L. 25 giugno 1908 n.290 introduce i primi elementi di garanzia per il dipendente pubblico: regole certe circa il reclutamento (di norma per concorso pubblico); modalità dell’avanzamento basate su un criterio misto (per anzianità e per merito); enunciazione dei diritti degli impiegati (compreso quello di associazione). V. G. MELIS, L’amministrazione, in X. XXXXXXXXX (a cura di) Storia dello Stato italiano dall’unità ad oggi, Donzelli, Roma, 2001, pag. 205.
L’art.78 contempla, quale più grave sanzione a carico dell’impiegato che viola i suoi doveri, quello della destituzione. Trattasi di un provvedimento espulsivo previsto in tutti i casi in cui la condotta del lavoratore è incompatibile con i doveri attinenti alla pubblica funzione6; l’art.85, in particolare, prevede la destituzione di diritto nell’ipotesi in cui il dipendente sia stato condannato in via definitiva per una serie di delitti7 la cui condotta è palesemente incompatibile con il mantenimento di quel vincolo di fedeltà che deve caratterizzare il rapporto tra lavoratore e pubblica amministrazione8. Il legislatore del 1957 mira comunque a garantire la posizione di autorità e preminenza dell’amministrazione, limitando il numero e la portata delle norme a contenuto precettivo e lasciando ampi margini di discrezionalità nell’individuazione dei comportamenti del dipendente punibili con sanzioni disciplinari. Anche l’individuazione dei doveri del dipendente è volutamente generica ed informata
6 Il successivo art.84 prevede esplicite ipotesi di destituzione: atti che rilevano la mancanza del senso dell’onore e del senso morale, atti in grave contrasto con i doveri di fedeltà, grave abuso di autorità e di fiducia, violazione dolosa dei doveri d’ufficio che abbia portato grave pregiudizio allo Stato od a privati, illecito uso o distrazione di somme amministrate, richiesta o accettazione di compensi per affari attinenti ai compiti d’ufficio, gravi atti di insubordinazione, istigazione all’interruzione o turbamento del pubblico servizio.
7 Trattasi dei delitti contro la personalità dello Stato (esclusi quelli contro gli Stati esteri), dei delitti di peculato, malversazione, concussione e corruzione, dei delitti contro la fede pubblica, di alcuni delitti contro la moralità pubblica e il buon costume (oggi abrogati) e di alcuni gravi delitti contro il patrimonio (furto, rapina, estorsione, ecc.).
8 (Cfr. Corte Cost. 12-14 ottobre 1988 n.971) Il giudice delle leggi ha però diversi anni dopo dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione nella parte in cui non prevede, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare. Con tale pronuncia la Corte ha censurato la previsione normativa dell’automaticità della destituzione del pubblico dipendente, ritenendo che fossero in tal modo irragionevolmente precluse la gradualità della sanzione disciplinare da applicare in conseguenza della condanna penale irrevocabile e la possibilità per la P. A. di valutare di volta in volta i casi concreti, risultandone così vulnerato il principio costituzionale del buon andamento.
a contenuti prevalentemente etici, in modo da consentire l’elevazione a dovere di qualsiasi condotta pretesa dall’amministrazione9.
In campo privatistico l’evoluzione della materia è difforme. A partire dai primi del Novecento si cominciano infatti a diffondere collaborazioni stipulate senza l’apposizione di un termine finale di durata, in contrasto con la previsione codicistica che vieta contratti di lavoro a tempo indeterminato10. E’ la dottrina ad elaborare la tesi che consente il recesso unilaterale ad nutum per entrambe le parti nel rispetto del principio della libertà contrattuale e della parità, vera solo dal punto di vista formale, stante lo squilibrio sostanziale tra la posizione del datore di lavoro e quella del lavoratore11.
Il principio del libero recesso trova la sua prima collocazione nel diritto positivo con la legge sull’impiego privato (R.D. 13 nov. 1924 n.1825), che stabilisce la durata sine die del contratto di lavoro, rescindibile da entrambe le parti purché preceduto dal preavviso e da un’indennità12. L’istituto è confluito poi nel codice civile del 1942 nell’art.2118, il comma 1 prevede che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] dagli usi
9 X. XXXXXXXX, La responsabilità e il potere disciplinare, in Diritto del Lavoro, Commentario diretto da X.XXXXXXX, UTET, Torino, 2004 Volume V, pag. 837.
10 G.F. XXXXXXX, Il recesso unilaterale nel contratto di lavoro, evoluzione della natura giuridica in AA.VV. Giusta causae giustificati motivi nei licenziamenti individuali, Xxxxxxx, Milano, 1967, pag.1.
11 X. XXXXXXXXXX, Del licenziamento nella locazione di opere a tempo indeterminato , in Riv. Dir. Comm., 1911 - I, pag.377.
12 X. XXXXXX, Licenziamento e reintegrazione, riflessioni storico-critiche, in Riv. It. Dir. Lav. 2003 I, pag.7
o secondo equità”. Il preavviso era pertanto l’unica possibile restrizione al principio (ottocentesco) secondo cui nessuno può restare vincolato in perpetuo da un impegno contrattuale13. L’uguaglianza formale sancita dalla norma codicistica non tutelava, evidentemente, la posizione sfavorevole del lavoratore nei confronti del datore: “se tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti, il contratto di lavoro riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere, il bene che è condizione dell’avere e di ogni altro bene”14. Con l’avvento della Costituzione repubblicana, ed in particolare delle disposizioni di cui agli artt. 4 e 41, inizia ad avvertirsi diffusamente l’esigenza di vietare i licenziamenti immotivati. La materia era peraltro già stata oggetto della contrattazione collettiva: un primo accordo interconfederale del 194715 aveva inserito alcune limitazioni ai licenziamenti dell’industria; nel 1950 due accordi disciplinarono sia i licenziamenti
13 Xxxx X. XXXXXXX, Il licenziamento e la legge: una (vecchia) questione di limiti, in Variazioni su temi di diritto del lavoro fascicolo 3/2016, pag.416.
14 Così X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Spirito del diritto del lavoro, in Annuali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania, 1947 – 1948, pag. 3.
15 Firmato il 7 agosto 1947 tra Confederazione Generale della Industria Italiana e Confederazione Generale Italiana del Lavoro. L’accordo prevedeva che nelle imprese industriali con più di 25 dipendenti venissero istituite delle Commissioni interne in rappresentanza dei lavoratori con il compito di mantenere “normali rapporti” tra lavoratori stessi e direzione d’azienda.L’art.3 di tale accordo disciplinava sia i licenziamenti per riduzione del personale che quelli individuali. Quanto ai primi, motivati da riduzione o trasformazione dell’attività, era previsto un tavolo di concertazione tra Direzione aziendale e Commissione interna per trovare un accordo sui criteri. In ogni caso era testualmente previsto che “I licenziamenti per riduzione di personale devono essere motivati come tali nella relativa lettera di licenziamento. In caso che entro un anno l’azienda provveda a nuove assunzioni, dovrà riassumere i lavoratori licenziati per riduzione di personale, idonei alle mansioni e specialità occorrenti e con i criteri obiettivi di precedenza inversi rispetto a quelli in base a cui furono eseguiti i licenziamenti”. Fonte: sito internet istituzionale del CNEL sezione “contratti collettivi” - “accordi interconfederali”.
individuali che quelli collettivi16; nel 1965 un altro accordo intervenne nuovamente sui licenziamenti collettivi17.
L’art.4 della Carta, alla cui stregua <La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto> imponeva peraltro un intervento da parte del legislatore. Dapprima fu la Corte Costituzionale ed essere chiamata a pronunziarsi sulla legittimità dell’art.2118 c.c. in materia di contratto di lavoro subordinato. Molto significativa è la sentenza n.45 del 9 giugno 1965. Nel corso diseiprocedimenti civili promossi, a seguito di licenziamento, da altrettanti lavoratori contro i
16 Il primo sottoscritto il 18 ottobre 1950 tra la Confederazione Generale della Industria Italiana, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro, la Confederazione Italiana Sindacati dei lavoratori e l’Unione Italiana del lavoro e recepito con D.P.R. 14 luglio 1960 n.1011, al dichiarato scopo, espresso nell’art.1, “di prevenire i licenziamenti individuali ingiustificati e possibilità di turbamenti in occasione di licenziamenti individuali”, prevedeva l’istituzione di un Collegio di conciliazione ed arbitrato cui deferire l’esame dei licenziamenti in caso di richiesta del lavoratore interessato. Si applicava alle aziende con più di 35 dipendenti. Era espressamente stabilito “che nel caso in cui il Collegio non ritenesse valide le ragioni addotte dal datore di lavoro questi ….. provvederà a ripristinare il rapporto di lavoro, oppure, qualora per considerazioni di opportunità, lo stesso datore di lavoro considerasse incompatibile la permanenza del lavoratore nell'azienda, (dovrà) versare una penale in aggiunta al trattamento di licenziamento ”. La penale poteva essere fissata nella misura oscillante da un minimo di 5 ad un massimo di 8 mensilità. Il secondo accordo, sottoscritto tra le stesse parti sociali sopra indicate il 20 dicembre 1950 (recepito con D.P.R. 14 luglio 1960 n.1019), disponeva invece in materia di licenziamenti per riduzione di personale, prevedendo che la Direzione aziendale informasse previamente la propria Associazione territoriale che, a sua volta, ne dava comunicazione alle organizzazioni dei lavoratori ai fini di un accordo. Anche in tal caso veniva comunque stabilito un obbligo di motivazione nonché un obbligo di riassunzione nel caso in cui l’azienda avesse proceduto a nuove assunzioni nelle stesse mansioni entro un anno.
17 Accordo sottoscritto il 29 aprile 1965 tra la Confederazione Generale della Industria Italiana e Confederazione Generale Italiana del Lavoro, Confederazione Italiana Sindacati dei lavoratori e l’Unione Italiana del lavoro. Tale accordo prevedeva: comunicazione in forma scritta del licenziamento e diritto del lavoratore di chiederne le motivazioni (art.2); il lavoratore destinatario della comunicazione poteva chiedere alla propria organizzazione sindacale di tentare un accordo con l’organizzazione del datore di lavoro (art.3) e, in caso in cui l’accordo non fosse riuscito, il lavoratore poteva chiedere l’intervento del Collegio di conciliazione ed arbitrato (art.5), composto da un rappresentante del datore di lavoro, da un rappresentante del lavoratore e da un presidente (art.7); il Collegio, che pronunciava secondo equità e senza obbligo di formalità procedurali (art.10), se riteneva il licenziamento immotivato, ordinava il reintegro del lavoratore e, in caso di rifiuto da parte dell’azienda, comminava una penale non inferiore a 5 né superiore a 12 mensilità (art.11).
rispettivi datori di lavoro, il Pretore di Scalea aveva infatti sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale del primo comma dell'art. 2118 c.c. proprio in riferimento al richiamato art.4 Cost. Secondo le ordinanze di remissione, se da un lato il diritto al lavoro non poteva essere configurato come un diritto soggettivo all'occupazione, ciò non escludeva, dall’altro, che per i rapporti di lavoro già costituiti si imponesse un'adeguata protezione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, conformemente alla speciale posizione al primo conferita dalla Costituzione. La Corte argomentò in proposito come dalprimo comma dell'art. 4 Cost. si ricava che il diritto al lavoro si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell'attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino - “l'unica che trovi nella norma costituzionale in esame il suo inderogabile fondamento” - fa riscontro il divieto di creare o mantenere nell'ordinamento norme che limitino tale libertà ovvero che la rinneghino, nonché l'obbligo di indirizzare l'attività di tutti i pubblici poteri alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l'impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro. Per converso, secondo il Giudice delle leggi, l'art. 4 Cost. così come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di un'occupazione, altrettanto non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro. Nel dichiarare pertanto non fondata la questione di legittimità sollevata dal Pretore, la Corte osservò però che l'indirizzo politico di progressiva garanzia del diritto al lavoro, dettato nell'interesse di tutti i cittadini,
se non comporta la immediata e già operante stabilità di quelli di essi che siano già occupati, non esclude però, “ma al contrario esige che il legislatore, nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale, adegui, sulla base delle valutazioni di sua competenza, la disciplina dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato al fine intimo di assicurare a tutti la continuità del lavoro, e circondi di doverose garanzie - particolarmente per quanto riguarda i principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa, immediatamente immessi nell'ordinamento giuridico con efficacia erga omnes, e dei quali, perciò, i pubblici poteri devono tener conto anche nell'interpretazione ed applicazione del diritto vigente - e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti….. Il potere illimitato del datore di lavoro di recedere dal rapporto a tempo indeterminato non costituisce più un principio generale del nostro ordinamento”.
E’ dunque in questo contesto e sull’onda di queste spinte, seppur “blande”18, della Corte Costituzionale, che nasce la L.15 luglio 1966 n.604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, con la quale il legislatore ha introdotto il principio generale, valevole per l’impiego pubblico e privato, alla cui stregua “nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato … il licenziamento del prestatore
18 In tal senso X. XXXXXXX, op. cit., pag.419, il quale rileva ad esempio la debole procedu-ralizzazione amministrativa del ricorso al licenziamento (art. 7) o l’esclusione dall’ambito di applicazione della legge dei licenziamenti per riduzione di personale (art. 11).
di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo”.
Un decisivo passo avanti verso la tutela effettiva della stabilità del rapporto di lavoro è stata compiuta con la L.20 maggio 1970 n.300, cosiddetto Statuto dei lavoratori, che segna una tappa fondamentale in tema di licenziamenti illegittimi: dal combinato disposto dell’art.18 e dell’art.35 emerge infatti la disposizione per cui nelle aziende che occupano più di 15 dipendenti (o 5, nel caso di imprese agricole), il licenziamento dichiarato in via giudiziale inefficace o nullo obbliga il datore di lavoro alla reintegra del lavoratore. Nelle imprese di minori dimensioni, nelle medesime ipotesi, il lavoratore ha invece diritto alla sola tutela obbligatoria del risarcimento danni.
La linea di demarcazione tra l’area della tutela reale (reintegra) e quella della tutela obbligatoria (risarcimento) varierà nel xxxxx xxxxx xxxx00 e segnerà una delle principali differenze tra settore pubblico e privato.
Nell’ultimo decennio del XX secolo si determina un nuovo radicale mutamento di impostazione ed un deciso ritorno, dopo circa un secolo, del diritto privato nell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni e nel rapporto di lavoro del relativo personale20. La legge 23 ottobre 1992 n.421
19 V. infra la c.d. Riforma Fornero del 2012.
20 C. D’ORTA, Il potere organizzativo delle pubbliche amministrazioni tra diritto pubblico e diritto privato, in Diritto del Lavoro, Commentario diretto da X.XXXXXXX, UTET, Torino, Volume V, pag.100.
(“Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”) è un passaggio determinante nel percorso riformista del pubblico impiego: in analogia al settore privato, il rapporto di lavoro pubblico non nasce più in base ad un atto unilaterale dell’amministrazione ma in seguito alla stipula di un contratto individuale di diritto xxxxxxx00.
La legge delega - attuata fondamentalmente col d.lgs. 3 febbraio 1993 n.29 - segna l’ingresso ufficiale dei sindacati nella stipula dei contratti collettivi di lavoro22: contratti che disciplinano anche le fattispecie della più grave sanzione per il lavoratore, ovverosia il licenziamento. In quel periodo l’art.24 del
C.C.N.L. vigente comparto Ministeri contemplava espressamente le sanzioni del licenziamento con e senza preavviso: il successivo art.25 ne elencava le singole ipotesi23.
21 “L’attrazione del pubblico impiego nell’ambito dello ius privatorum ha comportato …. la fine del dominio dell’atto unilaterale, autoritativo e discrezionale (che) determinala modificadellaposizione del datore di lavoro pubblico che non è più un soggetto dotato del descritto potere di supremazia speciale, ma una delledueparti contraenti in posizionedi formaleparitàgiuridicarispetto all’altra”. Così G.M. MONDA, op.cit., pag.584.
22 Già la L.29 marzo 1983 n.93 (Legge quadro sul pubblico impiego) aveva previsto che alcune specifiche materie fossero disciplinate da un regolamento il cui contenuto era costituto da un accordo con le organizzazioni sindacali: ma tale accordo costituiva “un mero presupposto procedimentale necessario all’atto finale (regolamento governativo) … privo di autonoma efficacia giuridica”. Così
X. XXXXXXXXX, Il diritto del lavoro nel pubblico impiego, Piccin, Padova 2018, pag.6.
23 Contratto stipulato in data 10/02/1995 (con decorrenza gennaio 1994 - dicembre 1997). L’art.25 prevedeva il licenziamento con preavviso in casiquali la recidiva plurima in infrazioni quali l’assenza dal servizio ingiustificata fino a 10 gg., svolgimento di attività lavorative durante la malattia, minacce verso il pubblico o colleghi, illecito uso, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di spettanza o di pertinenza dell'Amministrazione o ad essa affidata; rifiuto espresso del trasferimento disposto per esigenze di servizio; assenza arbitraria ed ingiustificata dal servizio , persistente insufficiente rendimento, ecc. Costituivano cause di licenziamento senza preavviso: commissione in servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale per i quali sia fatto obbligo di
Il sistema rimane pressoché immutato con la seconda legge delega, cosiddetta seconda privatizzazione, realizzata con la L.15 marzo 1997 n.59 (c.d. Bassanini24) e la L.15 maggio 1997 n.127 (Xxxxxxxxx bis ) che porta ad un processo di riforma attuato attraverso tre decreti legislativi25, destinato ad essere consacrato in un testo unico. Obiettivo, quest’ultimo, non raggiunto in quanto il d.lgs. 30 marzo 2001 n.165 – recante “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche” - “non si configura tecnicamente come testo unico (...) ma dispone una nuova numerazione degli articoli del d.lgs. 29/1993”26.
Un rilevante segnale di discontinuità si avverte invece con la terza legge
xxxxxx, X. 4 marzo 2009 n.15 recante “Delega al Governo finalizzata all'ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro e alla
denuncia, commissione, in genere, di fatti o atti dolosi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro, ecc.
24 Xxxxxx Xxxxxxxxx, Ministro per la Funzione pubblica e gli Affari regionali nel I Governo guidato da Xxxxxx Xxxxx.
25 Decreti che modificarono le disposizioni del d.lgs. 29/1993: d.lgs. 4 novembre 1997 n.396 “Modificazioni al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in materia di contrattazione collettiva e di rappresentatività sindacale nel settore del pubblico impiego, a norma dell'articolo 11, commi 4 e 6, della legge 15 marzo 1997, n. 59; d.lgs. 31 marzo 1998 n.80 “ Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”; d.lgs. 29 ottobre 1998 n.387 “Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80”.
26 Così X. XXXXXXXXX, op.cit., pag. 15.
Corte dei conti”, attuata con d.lgs. 27 ottobre 2009 n.150. Fino ad allora la contrattazione collettiva poteva derogare, se non vietato espressamente dalla legge, a disposizioni legislative o regolamentari in materia di pubblico impiego ; dopo la riforma il meccanismo derogatorio viene invece sottoposto a specifica autorizzazione da parte della legge medesima: è questa che deve autorizzare espressamente deroghe contrattuali che, altrimenti, sono impossibili.
La c.d. “riforma Brunetta27” è stata nel segno di “un aperto ridimensionamento del peso della contrattazione collettiva nella gerarchia delle fonti”28. La nuova normativa ridisegna il quadro regolamentare, conferendo alla materia dei provvedimenti disciplinari un ruolo centrale, finalizzato al potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici , nell’intento di contrastare i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo29. La novella detta una specifica disciplina legale di licenziamento nel pubblico impiego. L’art.69 del d.lgs. 150/2009 introduce l’art.55-quater nel d.lgs. 165/2001 che inaugura la stagione della lotta ai c.d. “furbetti del cartellino”. A prescindere dalle ipotesi previste a livello di contrattazione collettiva, la novella elenca specifici casi (incentrati soprattutto sulla falsa attestazione della presenza in servizio) in cui “si applica comunque la sanzione del licenziamento
27 Xxxxxx Xxxxxxxx, Ministro per la Pubblica istruzione e l’Innovazione nel IV Governo guidato da Xxxxxx Xxxxxxxxxx.
28 Così X. XXXXXXXX, op. cit., pag.22.
29 G.M. MONDA, op.cit., pag.596.
disciplinare”. Il pugno di ferro è inoltre dimostrato dal fatto che la maggior parte di tali ipotesi (ad esclusione dell’assenza ingiustificata e dell’ingiustificato rifiuto di trasferimento) vengono ricondotte sotto l’egida della giusta causa: il licenziamento è, quindi, senza preavviso.
Viene altresì prevista l’ipotesi di licenziamento per scarso rendimento (art.55-quater comma 2) nel caso di insufficiente valutazione, non inferiore al biennio30.
La direzione intrapresa dal legislatore in ambito lavoristico è quella dell’abbandono del modello di rigorosa protezione del lavoratore rappresentato dall’art.18 L.300/1970, che ha visto sindacati, partiti politici ed imprese su due posizioni contrapposte, una a difesa di tale norma, l’altra favorevole all’abolizione.
Il legislatore interviene dapprima con la L. 28 giugno 2012 n.92, recante “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, cosiddetta “riforma Fornero”,31 che incide in maniera significativa sulle disposizioni di cui all’art.18 dello Statuto dei lavoratori. La tutela reintegratoria, generalizzata per tutti i licenziamenti illegittimi disposti nelle imprese con certi limiti dimensionali, lascia il passo a quattro diverse tutele a seconda del vizio rilevato dal giudice: in sintesi la reintegra viene confinata ai
30 Già la tornata contrattuale 1994-1997 aveva previsto tale ipotesi. V. supra pag.6, nota 16.
31 Xxxx Xxxxx Xxxxxxx, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel Governo guidato da Xxxxx Xxxxx.
soli casi di licenziamento discriminatorio e nullo o all’ipotesi di materiale insussistenza del fatto contestato o della non punibilità dello stesso in caso di licenziamento disciplinare; in tutti gli altri casi la tutela diviene solo indennitaria. Per quanto riguarda gli effetti della riforma in questione sul lavoro alle dipendenze della P.A., si apre subito un ampio dibattito, dottrinale e giurisprudenziale, sull’applicabilità del nuovo art.18 ai licenziamenti illegittimi dei pubblici impiegati.
La materia dei licenziamenti viene poi profondamente riformata dal cosiddetto Jobs Act e, dettagliatamente, dal d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 che introduce il contratto a tutele crescenti: non una nuova tipologia di contratto di lavoro, bensì la disciplina di un diverso modello sanzionatorio contro il licenziamento illegittimo32.
Quanto all’ultima riforma del settore (c.d. riforma Madia33) va anzitutto segnalato, con particolare riferimento alla materia del licenziamento, il d.lgs. 20 giugno 2016 n.11634, che modifica l’art.55-quater del d.lgs. 165/2001. La novella interviene allo scopo di sanzionare con maggiore rapidità, efficacia e certezza gli illeciti di falsa attestazione di presenza in servizio: licenziamento
32 X.XXXXXXXX – X.XXXXXXXX, La nuova disciplina dei licenziamenti e i rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx” – 304/2016, pag.10.
33 Trattasi della legge delega 7 agosto 2015 n.124 recante “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”.
34 Il d.lgs. 116/2016 reca “Modifiche all'articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165, ai sensi dell'articolo 17, comma 1, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare”
entro 30 giorni dei dipendenti che “truccano” i sistemi di rilevazione delle presenze per sé e per altri colleghi; obbligo della loro sospensione immediata con sospensione altresì del trattamento economico in godimento; responsabilità amministrativa per la violazione del danno di immagine; necessità di dovere dare xxxxx xx xxxxxxxxxxxxx xx xxxx xx dirigente e/o responsabile che non avvia il procedimento disciplinare o non lo conclude entro i termini o non irroga la sospensione.
Sempre in attuazione della legge delega, interviene ancora il d.lgs. 25 maggio 2017 n.75, che estende il novero delle ipotesi che legittimano l’irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare, che da sei passano a dieci.
Altro intervento estremamente significativo operato dal decreto in esame è costituito dalla modifica dell’art.63 del d.lgs. 165/2001, con la seguente determinante previsione: “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”: norma che segna, allo stato, un profondissimo solco tra pubblico e privato.
Da ultimo, ancora in attuazione della L.124/2015, è intervenuto il d.lgs. 20 luglio 2017 n.118 che, in tema di falsa attestazione di presenza in servizio, prevede un ruolo di maggiore rilevanza per l’Ispettorato per la Funzione pubblica, sancendo l’obbligo per l’amministrazione di inviare al medesimo ente
tanto il provvedimento di sospensione cautelare, quanto quello di apertura del contraddittorio.
2 La disciplina generale del licenziamento: la giusta causa, il giustificato motivo oggettivo e soggettivo
Dottrina e giurisprudenza maggioritarie sostengono che nel diritto del lavoro, pubblico e privato, le norme speciali sui licenziamenti individuali prevalgono sulla disciplina civilistica in materia di risoluzione del contratto35. Invero gli eventi che determinerebbero l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si traducono in giusta causa o in giustificato motivo di licenziamento, quindi sono assorbite dalla disciplina speciale lavoristica36 .
35 “L’impossibilità sopravvenuta di svolgimento delle mansioni contrattuali per ‘factum principis’ o per altra ragione, comunque non imputabile al lavoratore non può essere considerata come una fattispecie estintiva autonoma alla stregua del diritto comune … ma va valutata alla stregua delle norme particolari che regolamentano l’estinzione di tale rapporto ”, e cioè facendo riferimento alla disciplina dei licenziamenti individuali (Cass., sez. lav., 19 dicembre 1998, n.12719).
36 X. XXXXXXXX, Nel contratto di lavoro non sono ammessi i mezzi di cessazione del diritto comune, in Lav. Giur. 2000 pag.605; X. XXXXXXXX, Il licenziamento del dipendente pubblico prima e dopo il “Jobs Act”, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2015, pag.8. Non mancano posizioni divergenti, che fanno leva sulla fase preliminare della costituzione del rapporto di lavoro. Si tratta di ipotesi in cui la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente una condizione risolutiva che determina il venir meno ex tunc del vincolo contrattuale. Tipico, nel pubblico impiego, è il caso di invalidazione della procedura selettiva, che ha portato alla costituzione del rapporto, sia a seguito di pronuncia giudiziale che a seguito di un provvedimento emesso dall’amministrazione in via di autotutela: il rapporto si estingue non come conseguenza del licenziamento, ma per impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa36 (Xxxx. 5 agosto 2000, n.10322 del). Analoghe ipotesi in ambito privato (Cfr. Cass. 19 dicembre 1998 n.12719 al proposito della revoca della patente valida per l’estero ad un lavoratore del settore autotrasporti).
La fonte principale in materia, valida sia per il settore pubblico che per quello privato, si rinviene nella L. 15 luglio 1966 n.604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, il cui art. 1 recita: <Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell'articolo 2119 del Codice civile o per giustificato motivo>. La legge in questione apre la crisi al principio di “libera recedibilità: viene infatti introdotto nel nostro ordinamento un regime vincolistico del licenziamento che impedisce che il recesso intimato dal datore sia privo di motivazione. La novella stabilisce dunque che il licenziamento può avvenire soltanto per giusta causa o per giustificato motivo. La giusta causa, ai sensi dell’art.2119 c.c. è quella che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro. La nozione di giustificato motivo si ricava, invece, dall’art.3 della L.604/1966, che distingue tra notevoli inadempimenti degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore (giustificato motivo soggettivo) e ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa (giustificato motivo oggettivo): in ogni caso il licenziamento per giustificato motivo richiede il preavviso.
La giusta causa si sostanzia dunque in un comportamento talmente grave da legittimare il licenziamento “in tronco”, senza obbligo di dare il preavviso. Si
tratta di ipotesi in cui qualsiasi altra sanzione risulterebbe insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro, al quale non può pertanto essere imposto l’utilizzo del lavoratore, neanche in un’altra posizione.
Nel giustificato motivo soggettivo, invece, l’inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore non è così grave da rendere impossibile la prosecuzione provvisoria del rapporto, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l’obbligo di dare il preavviso. La definizione legale del giustificato motivo fa dunque “riferimento esclusivo a ragioni connesse alla sfera del rapporto di lavoro”37, mentre quella di giusta causa può essere relativa anche ad “un fatto esterno al contratto di lavoro, comunque imputabile al dipendente, idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario”38.
In materia si è formata una copiosissima giurisprudenza, della quale è anzitutto significativo riportare il principio affermato dalla Corte di Cassazione: “nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell'elemento della fiducia, che deve continuamente sussistere tra le parti; la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli
37 Così X. XXXXXXXX, op. cit., pag.239.
38 Ibidem.
aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell'elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto che su di esso possa incidere negativamente” (Cass., sez. lav., 29 ottobre 1999 n.12197).
La lesione dell’elemento fiduciario va dunque valutata sia sotto il profilo oggettivo (qualità e natura del singolo rapporto di lavoro; posizione delle parti, grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni39) che sotto il profilo soggettivo (particolari circostanze e condizioni nelle quali si realizza la rottura del vincolo stesso, motivi ed intensità dell’elemento psicologico, doloso o colposo che sia40): per decidere dunque riguardo alla sussistenza di una giusta
39 Emblematica in proposito è una pronuncia con cui la Suprema Corte, in accoglimento del ricorso da parte di una nota compagnia aerea, ha confermato il licenziamento di un assistente di volo colto in possesso di alcune dosi di marjuana. In contrasto con quanto affermato dai giudici di merito (il Pretore e, in appello, il Tribunale di Roma avevano ritenuto eccessiva la sanzione applicata) i giudici di legittimità hanno puntato l’indice sulla delicatezza delle funzioni affidate al soggetto durante il servizio a bordo, sui profili di grave pericolo per la incolumità dei passeggeri correlati ad una assistenza agli stessi resa durante i voli da persona adusa all'ingerimento di sostanze stupefacenti; sull’esigenza di continua attenzione da prestarsi dal dipendente nell'esercizio delle peculiari mansioni di propria competenza, sull’assoluto divieto di uso di droga previsto per gli operatori di bordo dal Manuale operativo del settore, ecc. (Cfr. Cass., sez. lav., 27 marzo 1998, n.3270).
40 Con sentenza n.18124 del 9 giugno 2016 la sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Roma che aveva confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di una dipendente di Poste Italiane per ammanco di cassa, argomentando, tra l’altro, come i giudici di secondo grado, nell’individuare “nella condotta addebitata alla lavoratrice un grado di colpa talmente elevato da sfociare quasi nel dolo ”, idonea ad “integrare una violazione degli obblighi contrattuali talmente grave … da spezzare in modo irrimediabile la fiducia datoriale”, non avessero analizzato “il contesto di regolazione interna
causa o di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento occorre considerare, da una parte, la gravità dei fatti addebitati al prestatore di lavoro, in correlazione alla portata oggettiva e soggettiva degli stessi, alle circostanze nelle quali si sono verificati e all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altra, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione comminata, verificando se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del lavoratore sia effettivamente tale da motivare o meno la massima sanzione disciplinare.
La casistica è piuttosto varia perché “il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato per il caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge (…), e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare predisposto dal datore di lavoro …. in quanto sarà il giudice a verificare, ove si contesti la giustificatezza del recesso, se gli episodi di volta in volta addebitati integrino o meno l’indicata fattispecie legale”41. La vasta elencazione delle ipotesi di giusta causa presente nei contratti collettivi ha pertanto valore esemplificativo ed è rimessa alla valutazione del giudice.
La casistica elaborata dalla giurisprudenza, comprende ipotesi che possono essere ricondotte sia alla giusta causa che al giustificato motivo soggettivo, a
dell’attività, così da non supportare l’estrema concettualizzazione della colpa insita nel riferimento al brocardo culpa lata dolo aequiparatur”.
41 Così Cass., sez. lav., 20 febbraio 2001, n.7819.
seconda della valutazione della loro gravità. Riassumendo per macro- argomenti, annoveriamo: insubordinazione, che comprende quei comportamenti suscettibili di incidere negativamente nell’organizzazione aziendale attraverso la disapplicazione delle disposizioni del datore di lavoro quali l’aperta contestazione delle direttive aziendali o l’eccesso di critica42, ovvero comportamenti oltraggiosi nei confronti del datore di lavoro43; rifiuto di eseguire la prestazione44; furto ai danni del datore di lavoro45; violazione
42 Nel confermare la legittimità del licenziamento di tre dipendenti di un Ospedale romano che avevano denunciato, nel corso di una conferenza stampa, la presenza di scorie radioattive (notizia falsa e diffamatoria secondo la Direzione aziendale), la suprema Corte ha affermato che se è vero che le opinioni espresse dal lavoratore dipendente, "anche se vivacemente critiche nei confronti del proprio datoredi lavoro, specie nell’esercizio dei suoi diritti sindacali", non possono costituire giusta causa di licenziamento "in quanto esplicazione di diritti costituzionalmente garantiti o, quanto meno, di una libertà di critica", è altrettanto vero che, qualora il comportamento in sé si traduca in un atto illecito (quale l'ingiuria o la diffamazione) o comunque in una condotta manifestamente riprovevole e tale da implicare, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, quella gravità necessaria e sufficiente a compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario il licenziamento è legittimo (Cass., sez. lav., 22 ottobre 1998, n.10511). Ed ancora: al lavoratore subordinato è garantito il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro (come deve particolarmente riconoscersi nel caso in cui un sindacalista si esprima sulla funzionalità del servizio espletato dall'impresa), ma ciò non consente di ledere sul piano morale l'immagine del proprio datore di lavoro con riferimento a fatti non oggettivamente certi e comprovati, poiché il principio delle libertà di manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost. incontra i limiti posti dall'ordinamento a tutela dei diritti e delle libertà altrui e deve essere coordinato con altri interessi degni di pari tutela costituzionale (Cass., sez. lav., 17 dicembre 2003, n.19350).
43 Non sempre, però, la fattispecie legittima il licenziamento. V., ad es., Xxxx., sez. lav., 12 marzo 2014, n.5730 concernente il caso di un dipendente che aveva proferito accuse verbali nei confronti dell’datore di lavoro che lo aveva arbitrariamente trasferito.
44 La casistica giurisprudenziale sul tema è molto ampia. E’ interessante sottolineare l’orientamento della Cassazione nel caso in cui il rifiuto derivi dalla convinzione del lavoratore di subire un demansionamento: “nel rapporto di lavoro subordinato non è legittimo - ed è sanzionabile con il licenziamento per giusta causa - il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa dovuta, a causa di una ritenuta dequalificazione, ove il datore di lavoro adempia a tutti gli altri obblighi derivantigli dal contratto (pagamento della retribuzione, copertura previdenziale ed assicurativa etc.), essendo giustificato il rifiuto di adempiere alla propria prestazione, "ex" art. 1460 cod. civ., solo se l'altra parte sia totalmente inadempiente, negli altri casi potendo il lavoratore rifiutare lo svolgimento di singole prestazioni lavorative non conformi alla propria qualifica, ma non potendo rifiutare lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa” (Così Cass., sez. lav., 19 dicembre 2008, n.29832. In senso conforme Xxxx., sez. lav., 13 giugno 2016, n.12102).
45 Sul tema va rimarcato come per la Suprema Corte “la tenuità del danno non è da sola sufficiente ad escludere la lesione del vincolo fiduciario … ai fini della valutazione della proporzionalità tra
dell’obbligo di fedeltà e riservatezza46; comportamenti connessi alla malattia47
abbandono del posto di lavoro; azioni costituenti reato48.
E’ importante osservare d’altra parte, per costante giurisprudenza, che è ammissibile la conversione ad opera del giudice del licenziamento per giusta causa in quello per giustificato motivo soggettivo con il solo limite della immutabilità dei motivi addebitati al lavoratore: “la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro; ciò in generale abilita il giudice a valutare un licenziamento per giusta causa in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo senza che ciò comporti violazione dell’art. 112 c.p.c.; comporta altresì che, ove il
fatto addebitato e recesso viene in considerazione non già l’assenza o la speciale tenuità del danno patrimoniale ma la ripercussione sul rapporto di lavoro di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del dipendente rispetto agli obblighi assunti” (Cass., sez. lav., 5 aprile 2017, n.8816).
46 “in tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal
porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contrariaagli interessi del datoredi lavoropotenzialmente produttiva di danno” (Cass., sez. lav., 10 febbraio 2015, n.2550).
47 Anche in tale ambito la giurisprudenza è copiosissima. L’atteggiamento di rigore verso le false attestazioni in tema di malattia è in particolar modo testimoniato dall’orientamento della alla cui stregua è legittimo avvalersi di società di investigazioni con licenza investigativa, che sono in grado di recuperare prove ed informazioni che siano poi utilizzabili in sede giudiziaria quando il datore di lavoro abbia intenzione di procedere al licenziamento per giusta causa (in tal senso Cass., sez. lav., 26 novembre 2014, n.25162 e 16 agosto 2016 n.17113).
48 Il concetto di giusta causa non è limitato all’inadempimento tanto grave da giustificare la risoluzione immediata del rapporto di lavoro, ma si estende anche a condotte extralavorative che, tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro, e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione lavorativa, nondimeno possano essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti (Cass., sez. lav., 18 agosto 2016, n.17166 a proposito di un dipendente di una società privata arrestato per detenzione e spaccio di eroina).
datore di lavoro impugni globalmente la sentenza di primo grado che ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento nella sua domanda al giudice d’appello di dichiarare la legittimità della risoluzione del rapporto per giusta causa deve ritenersi compresa la minor domanda di dichiarare la risoluzione dello stesso rapporto per la sussistenza di giustificato motivo soggettivo. In sostanza il giudice, anche d’impugnazione, che ometta di pronunciarsi anche d’ufficio sulla possibilità che un licenziamento intimato per giusta causa possa essere qualificato in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, incorre nel vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.”49.
Va infine rilevato come parte imprescindibile della valutazione giudiziale
debba essere concentrata sull’esame relativo alla proporzionalità della sanzione inflitta rispetto alla gravità dei fatti addebitati: il giudice è chiamato a verificare se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si fonda il rapporto di lavoro sia, nel caso concreto, tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa, contemplata solo in presenza di una violazione talmente grave da non consentire neppure provvisoriamente la prosecuzione50. Ai fini del giudizio sulla proporzionalità, occorre anche valutare se analoghe inadempienze, commesse da altri dipendenti, siano state diversamente sanzionate dal datore di lavoro: se infatti “è condivisibile l’affermazione che
49 Così Cass., sez. lav., 19 ottobre 2017, n.24743.
50 Cfr., ad es., Cass., sez. lav., 16 ottobre 2015, n.21017.
non si possa porre a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, una motivazione del provvedimento adottato che sia comparata con le altre assunte in fattispecie analoghe (…) ove nel corso del giudizio non emergano quelle differenze che giustificano il diverso trattamento dei lavoratori, correttamente può essere valorizzata dal giudice l’esistenza di soluzioni differenti per casi uguali al fine di valutare la proporzionalità della sanzione adottata”51.
Il giustificato motivo oggettivo, come accennato in precedenza, è collegato dall’art.3 della L.604 del 1966 a “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Il licenziamento, dunque, avviene a causa di eventi e vicende le quali, andando ad incidere sulla realtà aziendale in cui il lavoratore è integrato, mettono in luce l’effettiva esigenza del datore di lavoro di porre fine al rapporto lavorativo52.
La giurisprudenza ha chiarito che in tal caso il licenziamento è scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della
51 Così Cass., sez. lav., 7 maggio 2013, n.10550. Gli Ermellini nel caso di specie hanno confermato la decisione della Corte d’Appello di Napoli che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato ad un dipendente di una società telefonica accusato di aver abusivamente utilizzato il telefono cellulare di servizio rilevando, tra l’altro, cha ad altri dipendenti, in situazioni analoghe, era stata applicata una sanzione conservativa.
52 X. XXXX, I licenziamenti per ragioni organizzative: unicità della causale e sindacato giudiziale , in Arg. dir. lav. 2008, I, pagg. 35 e ss.
sua congruità ed opportunità53: al giudice spetta soltanto il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall’imprenditore.
Le ragioni che legittimano il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo (g.m.o.) sono riconducibili a specifiche esigenze aziendali che impongono la soppressione del posto di lavoro ovvero a comportamenti o situazioni facenti capo al prestatore di lavoro (c.d. circostanze incolpevoli inerenti al lavoratore). Tra le prime, rientrano le soppressioni di posti di lavoro a causa di innovazioni tecnologiche, o a causa di riassetti organizzativi, oppure per una riorganizzazione dovuta alla necessità di contenere i costiaziendali. Tra le seconde si fanno rientrare invece quei comportamenti o situazioni del lavoratore, pur incolpevole, che non gli consentano di adempiere ai suoi obblighi contrattuali (ad esempio, perché la sua assenza per malattia abbia superato i limiti di tempo previsti dalla contrattazione collettiva, oppure per sopraggiunta inidoneità allo svolgimento delle mansioni)54.
In materia è importante sottolineare come consolidata giurisprudenza ha affermato che il licenziamento per g.m.o. è valido solo se il lavoratore non può essere impiegato in altro modo o settore, tenuto anche conto della possibilità di un demansionamento. Trattasi del c.d. “obbligo di repechage”, ovvero
53 Cass., sez. lav., 9 luglio 2012, n.11465.
54 Trattasi di “ipotesi di recesso datoriale per circostanze riferibili alla persona del lavoratore, ma comunemente ricondotte nell’ambito della figura del licenziamento per motivi oggettivi”. Così X. XXXXXXXX, op. cit., pag. 250.
dell’obbligo, per il datore di lavoro, di tentare di ricollocare nell’ambito aziendale il lavoratore prima di mettere in atto il provvedimento espulsivo. In tale ambito, peraltro, nella stessa giurisprudenza di legittimità si segnalano inversioni di tendenza. Dal punto di vista processuale è interessante riportare quanto sostenuto dalla Suprema Corte circa la questione dell’onere della prova dell’obbligo di cui trattasi. Infatti l’originario orientamento propendeva nel senso che, ferma la disposizione di cui all’art.5 della L.604/1966 – alla cui stregua incombe sul datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo - “resta peraltro pur sempre a carico del lavoratore, ricorrente in giudizio per ottenere l’annullamento del licenziamento, l’onere di dedurre ed allegare … circostanze di fatto e ragioni di diritto costituenti il fondamento della affermata illegittimità del licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo … ed anche la possibilità, comunque, di una sua diversa utilizzazione nell’impresa con mansioni equivalenti”55. Diversamente una recente sentenza della Suprema Corte esclude radicalmente l’esistenza di qualsiasi onere di allegazione a carico del lavoratore: “la domanda del lavoratore è correttamente individuata, a norma dell’art. 414 n. 3 e n. 4 c.p.c., da un petitum di impugnazione del licenziamento per illegittimità e da una causa petendi di inesistenza del giustificato motivo così come intimato dal datore di lavoro, cui incombe
55 Cass. Civ., 23 Ottobre 1998, n.10599.
pertanto la prova, secondo la previsione dell’art. 5 L. 604/1966, della sua ricorrenza in tutti gli elementi costitutivi, in essi compresa l’impossibilità di repechage: senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell’allegazione, per farne conseguire un onere probatorio” (Cass., sez. lav., 22 marzo 2016, n.5592) L’obbligo di repechage costituisce quindi un elemento imprescindibilmente connesso alle ragioni economiche ed organizzative poste alla base dell’atto risolutivo del rapporto di lavoro, la cui prova è pertanto da ritenersi integralmente a carico del datore di lavoro, in coerenza con il dispositivo dell’art. 5 della L. 604/1966.
Anche sul piano dei motivi che legittimano il licenziamento per g.m.o. è da
segnalare un recente orientamento giurisprudenziale, alla cui stregua non è necessario un presupposto fattuale identificabile nella sussistenza di “situazioni sfavorevoli” ovvero di “spese notevoli di carattere straordinario”, cui sia necessario fare fronte. È sufficiente, infatti, che il licenziamento sia determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, tra le quali non possono essere aprioristicamente o pregiudizialmente escluse quelle che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero anche quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa56. Al di là, quindi, delle situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure delle spese straordinarie,
56 Cass., sez. lav., 7 dicembre 2016, n. 25201
“anche una ragione esclusivamente organizzativa è di per sé sufficiente ad integrare le ragioni di cui all’art.3 della legge n.604 del 1996”57.
Come visto in precedenza, l’art.5 addossa sul datore di lavoro l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.
L’art.4 introduce la fattispecie del licenziamento discriminatorio - ovvero quello determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali – e lo sanziona con la nullità.
Gli articoli 2 e 6 attengono alla procedura. La versione originaria dell’art.2 della L.604 prevedeva che il datore doveva dare comunicazione scritta del licenziamento al lavoratore: quest’ultimo, entro otto giorni, poteva chiederne i motivi che il datore doveva comunicargli, sempre per iscritto, nei successivi cinque giorni. La violazione di tali regole rendeva il provvedimento espulsivo inefficace. Su tale iter interviene dapprima la L. 11 maggio 1990 n.108 (“Disciplina dei licenziamenti individuali”) che, oltre a generalizzare la figura del datore di lavoro (“imprenditore o non imprenditore”) amplia sia il termine concesso al lavoratore per chiedere i motivi del licenziamento (da otto a quindici) che quelli accordati al datore per la risposta (da cinque a sette). Estende inoltre l’obbligo di comunicazione scritta del licenziamento anche al
57 Così X. Xxxxxxx-Xxxxxxxxxx, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa, in Quaderni del CSDN Roma n. 2017/1, pag.1.
lavoratore con la qualifica di dirigente. Successivamente la “Fornero” (L.92/2012) semplifica la procedura, imponendo che già la comunicazione scritta del licenziamento contenga l’indicazione dei motivi dello stesso.
L’art.6 imponeva originariamente al lavoratore di impugnare il licenziamento, con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale, entro sessanta gg., decorrenti dall’iniziale comunicazione ovvero da quella successiva che indicava i motivi. Anche su tale diposizione il legislatore è intervenuto una prima volta con il D.L. 29 dicembre 2010 n.22558, sancendo l’inefficacia dell’impugnazione se non seguita, entro duecentosessanta giorni, dal deposito in cancelleria del ricorso al giudice del lavoro o dalla comunicazione a controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o di arbitrato. A decorrere dal 18 luglio 2012 la più volte citata legge Fornero ha abbreviato quest’ultimo termine a centottanta giorni. La finalità di tali termini decadenziali è quella di liberare il datore di lavoro dall’incertezza in ordine alla contestazione del licenziamento59.
L’art.8 dispone invece in ordine alla tutela accordata al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, tema sul quale ci soffermeremo ampiamente in seguito.
L’art.10 limita l’applicazione della legge ai soli operai ed impiegati ed esclude i lavoratori in prova: con varie sentenze la Corte Costituzionale ha
58 Recante “Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie”, convertito in L.26 febbraio 2011 n.10.
59 Così X. XXXXXXXX, op.cit., pag.240.
comunque ampliato, senza particolari stravolgimenti, il novero dei soggetti beneficiari, includendo gli apprendisti ed il personale marittimo60.
L’art.11, nella sua originaria formulazione, escludeva dal novero della legge le imprese con meno di 35 dipendenti (ovvero la stragrande maggioranza delle imprese italiane), nonché la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale: soltanto la citata L.108/1990 elimina il tetto dimensionale dell’impresa.
3 Le ipotesi di licenziamento tipizzate dal legislatore nel d.lgs. 165/2001
Il decreto 165, nel testo originario, non contemplava alcuna specifica ipotesi di licenziamento. L’art.55, terzo comma, demandava infatti alla fonte collettiva l’individuazione delle tipologie di infrazioni e delle relative sanzioni (tra cui quella espulsiva) a carico dei pubblici dipendenti.
Il secondo comma dell’articolo in esame disponeva, inoltre, l’applicazione al pubblico impiego della norma contenuta nel primo comma dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori, alla cui stregua “Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse
60 Cfr. Corte Cost. 14/1970, 169/1973, 189/1980, 96/1987, 41/1991.
devono applicare quanto in materia è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano”. Si tratta del c.d. codice disciplinare, termine illo tempore assente nel linguaggio del legislatore sia del settore privato che di quello pubblico61, ovverosia del documento predisposto dal datore di lavoro nel quale confluisce la normativa disciplinare soggetta a pubblicità.
Vi era dunque un duplice rinvio al contratto collettivo: il primo, indiretto, ad opera del secondo comma dell’art.55; il secondo, diretto, nel terzo comma dell’articolo medesimo. Quanto all’individuazione delle fonti, peraltro, il rinvio indiretto non deve ingannare. Se infatti il citato art.7 dello Statuto vincolava il datore di lavoro (privato) a trasfondere nel codice disciplinare la tipologia di infrazioni e sanzioni stabilite dai contratti “ove esistano” – ipotizzando dunque la possibilità che, in mancanza di contratti di settore, la normativa disciplinare fosse unilaterale – nel settore pubblico contrattualizzato il rinvio secco alla contrattazione collettiva operato dal terzo comma dell’art.55 non lascia dubbi nel senso di una riserva esclusiva alla fonte collettiva in tema di illeciti. Il rinvio all’art.7, comma 1, dello Statuto doveva quindi essere inteso essenzialmente in riferimento all’obbligo di pubblicità del codice disciplinare62.
61 X. XXXXXXXX, op. cit, pag.861.
62 Si discuteva in dottrina se, fermo il divieto per l’amministrazione di derogare in pejus al contratto collettivo introducendo nel codice disciplinare sanzioni diverse e più gravi, fosse invece consentito alla stessa di prevedere disposizioni meno rigorose: gli autori favorevoli osservavano che non sarebbe stato leso in tal modo il generale principio di parità di trattamento in quanto la sussistenza in materia di tale principio era esclusa dalla disposizione di cui al sesto comma dell’art.55 che conferiva alla
P.A. un potere discrezionale di differenziare ad personam il trattamento punitivo, patteggiando con
E’ importante sottolineare come il quadro normativo dell’epoca prevedeva che, se anche il legislatore fosse intervenuto in materia, un successivo contratto collettivo, salvo espresso divieto legale in tal senso, avrebbe comunque potuto derogare alle disposizioni legislative introdotte63.
La riforma Brunetta (L.15/2009, attuata con il d.lgs. 150/2009) sconvolge significativamente questo stato di cose. All’insegna della lotta ai cosiddetti “furbetti del cartellino” vengono non solo tipizzate nel decreto 165/2001 alcune ipotesi specifiche di licenziamento del pubblico dipendente, ma viene altresì calata un’ombra di sfiducia sulla fonte collettiva64. Sotto quest’ultimo aspetto vengono apportate modifiche al secondo comma dell’art.2 del d.lgs.165/200165, la cui conseguenza è che da un sistema di inderogabilità presunta della fonte collettiva, si passa ad un sistema in cui “è l’inderogabilità della fonte
il lavoratore una riduzione di pena in cambio della rinuncia all’impugnazione. V. S. XXXXXXXX, op. cit, pag.866.
63 V. supra, pag.9. Stante la formulazione dell’allora vigente art.2, secondo comma, del decreto 16 -
alla cui stregua “Eventuali disposizioni di legge (…) cheintroducanodisciplinedei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche (…), possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario” - nell’ipotesi di atti normativi invasivi “degli spazi propri della contrattazione collettiva (era consentito) a quest’ultima di riappropriarsi delle materie che le erano tate sottratte”. X. XXXXXXXX, op. cit., pag.39.
64 L’intervento normativo, se va in controtendenza rispetto al principio generale della privatizzazione
del rapporto di lavoro pubblico, non muta la natura giuridica del rapporto che viene conservato nell’ambito privatizzato ai sensi dell’art.2 del d.lgs.165/2001. E’ vero che viene impressa una connotazione più pubblicistica all’esercizio del potere disciplinare, ma non al punto di ripristinare quella posizione di supremazia speciale che, come si è detto in precedenza, caratterizzava l’ormai superato sistema pubblicistico. In tal senso G.M. MONDA, op.cit., pag.600.
65 Il nuovo testo, secondo xxxxxx, recita: “Eventuali disposizioni di legge (…) che introducano discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche (…), possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili, solo qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge”.
unilaterale ad essere presunta”66, mentre la derogabilità da parte della contrattazione collettiva diviene “oggetto di specifica autorizzazione da parte dello stesso atto normativo che ha invaso la sua competenza”67.
Viene poi modificato l’art.55 del decreto 165: scompare il riferimento all’art.7 dello Statuto dei lavoratori e si parla per la prima volta espressamente di codice disciplinare, prevedendo che la sua pubblicazione sul sito internet della P.A. datrice di lavoro equivalga ad affissione nella relativa sede lavorativa. Ma, soprattutto, la riserva alla fonte collettiva in tema di individuazione della tipologia delle sanzioni perde il carattere dell’esclusività. Dal testo originario alla cui stregua “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”, si passa alla seguente formulazione: “Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni é definita dai contratti collettivi”. Il legislatore entra quindi in maniera decisa nella materia, con le specifiche disposizioni dettate dall’art. 55-quater in tema della sanzione espulsiva del licenziamento. L’incipit è molto significativo: “Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi”. L’avverbio comunque va riferito alla possibilità di irrogare il
66 X.XXXXXXXX, op. cit., pag.40.
67 Ibidem.
licenziamento disciplinare per le ipotesi ivi indicate indipendentemente dalla presenza di fattispecie simili nella contrattazione collettiva, senza che tale espressione possa invece essere intesa nel senso di prevedere un meccanismo espulsivo automatico68. Il nuovo bilanciamento delle fonti disciplinato dal novellato secondo comma dell’art.2 del decreto 165/2001, nonché il principio richiamato dal primo comma dell’art.55 secondo cui “Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile”69, indicano che in ogni caso la fonte negoziale non potrà incidere sulle fattispecie individuate dal legislatore.
I casi enucleati dalla legge di riforma consistono in condotte del lavoratore
che ledono il rapporto fiduciario così gravemente da legittimare il licenziamento, con o senza preavviso. Alcune delle ipotesi previste dalla riforma erano già contenute nei codici disciplinari dei vigenti contratti collettivi di comparto: la diretta previsione normativa le rende immodificabili a livello
68 “La natura automaticadel meccanismo espulsivo vienenegatavalorizzandodueelementi: in primo luogo, il licenziamento non è mai automatico poiché costituisce l’atto conclusivo di un procedimento disciplinare regolato dalla legge e posto a garanzia dell’incolpato; in secondo luogo, la conferma dell’art.2016 c.c. quale caposaldo del sistema disciplinare (…) impone di valorizzare i criteri di gradualità e proporzionalità, che dovranno pertanto sorreggere la valutazione effettuata dall’autorità procedente in ordine alla determinazione della sanzione applicabile all’infrazione” Così X. XXXXXXX, Sanzioni disciplinari e responsabilità dei dipendenti pubblici, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx,122/2011, pag.24.
69 Il riferimento agli artt.1339 e 1419 c.c. richiamano il meccanismo civilistico dell’eterointegrazione contrattuale che, come noto, comporta la sostituzione automatica e di diritto delle clausole del contratto di lavoro che siano difformi rispetto alla previsione legale. (X. XXXXXXXXX, La riforma Brunetta: un breve quadro sistematico delle novità legislative e alcune considerazioni critiche , in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx,101/2010).
contrattuale. Inoltre il legislatore, regolando tali ipotesi, ha precisato con maggiore analiticità rispetto alle formulazioni generiche adottate dalla contrattazione collettiva i singoli elementi costitutivi delle diverse fattispecie nell’ottica di assicurare maggiori garanzie ai pubblici dipendenti70.
In particolare, la novella legislativa del 2009 individua diverse ipotesi di licenziamento senza preavviso, ovvero, ai sensi della disciplina generale, per giusta causa.
La prima è la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l'alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia (art.55- quater, primo comma, lett.a).
A tale condotta è anche conferita specifica rilevanza penale dal successivo art.55-quinquies, che prevede la pena della reclusione da 1 a 5 anni e la multa da 400 a 1.600 euro. Se la falsa attestazione avviene con la complicità del medico, a questi si applica la medesima pena nonché, in caso di condanna definitiva, la radiazione dall’albo e il licenziamento per giusta causa se dipendente di una pubblica struttura.
In attuazione della cosiddetta riforma Madia (L.124/2015), il d.lgs.116/2016 ha modificato l’art.55-quater in commento allo scopo di sanzionare con
70 In tal senso G.M. MONDA, op. cit., pag.602.
maggiore rapidità, efficacia e certezza questa grave forma di illecito. La novella introduce anzitutto il comma 1-bis, che fornisce una puntuale definizione di falsa attestazione, specificando che essa si verifica con “qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso”71 e che “della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta”. Introduce altresì ulteriori cinque commi i quali dispongono anzitutto l’immediata sospensione con privazione dello stipendio (salvo l’assegno alimentare) del dipendente la cui condotta fraudolenta sia stata rilevata in flagranza o tramite sistemi di sorveglianza72 (comma 3-bis). Il provvedimento sospensivo, che contiene la contestazione dell’addebito e la convocazione del dipendente dinanzi all’ufficio
71 “La registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata ed in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita” (Cass., sez. lav., 14 dicembre 2016, n.25750). “La fattispecie disciplinare di cui all’art. 55 quater c. 1 lett. a) del D. Lgs. n. 165 del 2001 si realizza non solo nel caso di alterazione/manomissione del sistema, ma in tutti i casi in cui la timbratura, o altro sistema di registrazione della presenza in ufficio, miri a far risultare falsamente che il lavoratore è rimasto in ufficio durante l’intervallo temporale compreso tra le timbrature/registrazioni in entrata ed in uscita (Ibidem).
72 A differenza dell’ordinaria fattispecie di sospensione cautelare che costituisce una misura di autotutela per l’amministrazione e che generalmente non incide sulla retribuzione del dipendente, la sospensione prevista dall’art.55 quater costituisce preciso adempimento di legge e comporta perdita temporanea dello stipendio. Così X. XXXXXXXX, op. cit., pag.245.
disciplina, deve essere adottato entro quarantotto ore73 dall’avvenuta conoscenza del fatto. Il relativo procedimento74 deve essere concluso entro trenta giorni dalla contestazione dell’addebito (comma 3-ter). Inoltre, entro quindici giorni dall’avvio del procedimento disciplinare, l’ufficio deve fare denuncia del fatto oltre che al pubblico ministero, alla procura regionale della Corte dei Conti la quale a sua volta, entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento, avvia, se ne ravvisa i presupposti, l’azione per danno d’immagine75 (comma 3-quater). E’ prevista infine la sanzione espulsiva altresì per il dirigente o, comunque, il responsabile dell’ufficio disciplinare che, senza giustificato motivo, ometta di avviare il procedimento disciplinare o di adottare il provvedimento cautelare di sospensione (comma 3-quinquies).
Altro comportamento lesivo tipizzato è individuato nelle falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell'instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera (art.55-quater primo comma lett.d).
Secondo la Suprema Corte le dichiarazioni false legittimano sempre il licenziamento disciplinare del dipendente pubblico non potendo essere invocata
73 A testimonianza del rigore usato dal legislatore, è espressamente previsto che la “violazione di tale termine non determina la decadenza dall'azione disciplinare ne' l'inefficacia della sospensione cautelare, fatta salva l'eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile”.
74 E’ prevista la possibilità per il dipendente di farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante sindacale, nonché l’invio di memorie scritte.
75 L’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità di stipendio. Il procedimento della
Corte dei Xxxxx deve concludersi entro centoventi giorni dalla denuncia: termine elevato a centocinquanta giorni dal d.lgs. 118/2017.
dall’accusato la fattispecie del “falso innocuo”76: “il comportamento del dipendente pubblico è, dunque, sanzionato indipendentemente dalla circostanza che la falsità abbia fatto conseguire il posto di lavoro, essendo sufficiente a integrare la fattispecie la condotta di avere prodotto la documentazione o la dichiarazione falsa, al fine o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro”77.
Il licenziamento senza preavviso è anche stabilito per sanzionare la reiterazione nell'ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell'onore e della dignità personale altrui (art.55-quater primo comma lett.e).
Con l’introduzione di tale fattispecie il legislatore del 2009 ha recepito e sistematizzato le diverse indicazioni fornite dai contratti collettivi che già prevedevano, nella stessa ipotesi, sanzioni che andavano dalla sospensione del servizio fino ad un massimo di dieci giorni al licenziamento con preavviso in caso di recidiva nel biennio o senza preavviso in caso di terza recidiva. Si realizza un “inasprimento della disciplina pattizia, con la previsione dell’applicabilità della sanzione del licenziamento senza preavviso (…) basato
76 In diritto penale ricorre il c.d. falso innocuo nei casi in cui l'infedele attestazione (nel falso ideologico) o l'alterazione (nel caso di falso materiale) siano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell'atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale dell'atto stesso di attestazione dei dati in esso indicati.
77 Così Cass., sez. lav., 7 giugno 2016, n.11636 .
solo su una materiale e storica reiterazione delle condotte, a prescindere dalla sussistenza di una recidiva formalmente contestata”78.
L’ultima ipotesi tipizzata di giusta causa si rinviene nella condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l'estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro (art.55- quater primo comma lett.f).
Anche in tal caso la riforma Xxxxxxxx ha esteso, rispetto alle precedenti ipotesi di fonte pattizia, l’ambito di operatività del licenziamento per giusta causa precedentemente ancorate, dai contratti collettivi, a specifiche tipologie di reati particolarmente gravi79.
Le altre ipotesi di licenziamento introdotte dal legislatore del 2009 con l’art.55-quater del d.lgs. 165/2001, sono dunque, per esclusione, con preavviso e sono determinate da giustificato motivo:
Il primo caso previsto concerne l’assenza priva di valida giustificazione per
un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall'amministrazione (art.55-quater,comma 1, lett.b).
78 Così G.M. MONDA,op. cit., pag. 604.
79 Il C.C.N.L. del personale non dirigente del comparto Regioni e autonomie locali quadriennio normativo 2006-2009, sottoscritto in data 11 aprile 2008, prevedeva ad esempio il licenziamento per giusta causa in seguito a condanna definitiva per i reati di peculato, concussione e corruzione (art.3, comma 8).
La fattispecie integra violazione dell’obbligo di diligenza di cui all’art.2104
c.c. Il riferimento all’assenza di una “valida giustificazione” fa ritenere che il legislatore abbia voluto punire in modo molto più severo di quanto prevedeva la contrattazione collettiva, i comportamenti di lassismo reiterato80. In materia è interessante segnalare l’orientamento della Corte di Cassazione. Secondo gli Ermellini “l'assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell'arco di un biennio consente l'intimazione della sanzione disciplinare del licenziamento purché non ricorrano elementi che assurgono a "scriminante" della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa”81. Sempre secondo la Suprema Corte, “ai sensi dell’art. 55-quater lett. b) del D.lgs. 165/01 l’assenza per malattia è priva di rilievo disciplinare non quando è solo esistente, né quando è (anche) comunicata, ma quando è giustificata nelle forme, inderogabili, previste dall’art. 55-septies c.1, e
80 In tal senso G.M. MONDA, op.cit., pag.606.
81 Cfr. Xxxx., sez. lav., 19 settembre 2016, n.18326. Il caso riguarda una dipendente comunale che, costretta dalle necessità di cura della figlia disabile, aveva esaurito i permessi di cui alla legge 104/1992 e, permanendo l’assenza, veniva licenziata ai sensi dell’art. 55 quater del d.lgs. n. 165/2001. La Suprema Corte - nell’accogliere il ricorso del Comune avverso la sentenza della Corte territoriale che aveva invece dichiarato illegittimo il licenziamento rinvenendo nella condotta della lavoratrice i requisiti della buona fede - pur nell’escludere la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, così come da consolidato orientamento della Corte Costituzionale, ha ritenuto che la disposizione di cui all’art.55 quater, comma1, lett.b) - che cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della condotta - consente comunque la verifica, caso per caso, della sussistenza dell'elemento intenzionale o colposo, e non legittima il licenziamento soltanto se ricorrono elementi che assurgono a "scriminante" della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa. Elementi non rinvenuti nel caso di specie in quanto la Cassazione ha ritenuto fondate le doglianze del Comune che lamentava come la Corte d’Xxxxxxx avesse confuso le problematiche della figlia disabile con l’osservanza dei doveri d’ufficio cui è tenuto ogni dipendente.
pertanto quando è stata attestata la certificazione medica rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio Sanitario Nazionale”82.
Altra ipotesi disciplinata consiste nell’ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall'amministrazione per motivate esigenze di servizio (art.55-quater, comma 1, lett.c).
La condotta in esame si pone in contrasto con l’obbligo di osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore di cui al secondo comma dell’art.2104 c.c. In materia la Cassazione si è espressa nel senso che il trasferimento di un lavoratore disposto in carenza di sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive costituisce inadempimento datoriale, cui il lavoratore può reagire ai sensi dell’art. 1460, comma 1, c.c., rifiutando di prendere servizio nella sede di destinazione e mettendo, però a disposizione le proprie energie lavorative presso l’originaria sede di lavoro83.
82 Così Cass., sez. lav., 25 agosto 2016, n.17335. La Corte d’appello di Catanzaro aveva condannato il Comune datore di lavoro, a reintegrare il dipendente licenziato a causa di una assenza ingiustificata dal servizio per tre giorni. Il lavoratore infatti non era rientrato al termine del periodo di malattia e solo tre giorni dopo aveva comunicato il proseguire della malattia ed inviato poi il certificato medico con ulteriori due giorni di ritardo. La Corte territoriale aveva ritenuto che, pur rientrando i fatti dedotti in giudizio nella fattispecie disciplinata dall’articolo 55 quater del d.lgs. 165/01, la condotta del dipendente avrebbe dovuto essere punita solo con una sanzione conservativa in quanto ai sensi dell’art. 2119 c.c. la sanzione del licenziamento era sproporzionata alla condotta addebitata e realizzata. Gli Ermellini, accogliendo le argomentazioni della Corte d’Xxxxxxx riguardo alla sproporzione della sanzione, e respingendo quindi il ricorso del Comune, hanno affermato il principio di diritto riportato nel testo.
83 In tal senso Cass., sez. lav., ordinanza n.29054 depositata il 5 dicembre 2017.
Il legislatore sanziona poi le gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento, ai sensi dell'articolo 54, comma 3 (art.55-quater, comma 1 lett.f-bis).
Trattasi di un’ipotesi di licenziamento introdotta, in attuazione della riforma Madia, dal d.lgs. 75/2017. La violazione grave o reiterata del codice di comportamento era peraltro già stata individuata quale causa di licenziamento dal terzo comma dell’art.54 così come modificato dalla L. 6 novembre 2012 n.19084.
Viene altresì punita con la sanzione espulsiva la commissione dolosa, o gravemente colposa, dell'infrazione di cui all'articolo 55-sexies, comma 3 (art.55-quater, comma 1, lett.f-ter).
Anche tale fattispecie, formalmente introdotta dal d.lgs. 75/2017, era nota al nostro ordinamento. L’art.55-sexies, comma 3, introdotto dalla riforma Brunetta del 2009, già sanzionava infatti con la sospensione dal servizio senza retribuzione dei dirigenti che omettevano o ritardavano l’esercizio dell’azione disciplinare. Il d.lgs. 116/2016, con l’introduzione del comma 3-quinquies all’art.55-quater, aveva poi espressamente previsto la sanzione espulsiva per i dirigenti o comunque i responsabili degli uffici disciplinari (anche non dirigenti) che omettono l’attivazione del procedimento o l’adozione del
84 Recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione”.
provvedimento di sospensione nei confronti dei dipendenti colpevoli di falsa attestazione di presenza in servizio. La riforma del 2017 (che modifica lo stesso terzo comma del 55-sexies) non fa altro quindi che generalizzare la sanzione del licenziamento in tutti i casi in cui l’omesso o ritardato esercizio dell’azione disciplinare sia da ascrivere a condotte dolose o gravemente colpose.
Altre fattispecie di licenziamento con preavviso consistono nella reiterata violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato l'applicazione, in sede disciplinare, della sospensione dal servizio per un periodo complessivo superiore a un anno nell'arco di un biennio (art.55- quater, comma 1, lett.f-quater) e nell’insufficiente rendimento, dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell'amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell'ultimo triennio, resa a tali specifici fini ai sensi dell'articolo 3, comma 5-bis, del decreto legislativo n. 150 del 2009 (art.55-quater, comma 1, lett.f- qunquies).
Queste ultime due ipotesi individuate dal novellato art.55-quater attengono allo scarso e insufficiente rendimento, anch’esse già in precedenza contemplate tanto dal legislatore, allo stesso art. 55-quater, comma 2 (abrogato dal decreto 75), quanto dalla contrattazione collettiva.
Qui l’ambito discrezionale dell’amministrazione e, in caso di impugnazione, quello del giudice del lavoro, è più ampio rispetto alle altre fattispecie (per es. assenza ingiustificata) le quali, comunque, presentano un aspetto “oggettivo”, ovvero presuppongono un sostrato documentale. Nelle ipotesi di scarso o insufficiente rendimento l’inadempimento degli obblighi contrattuali, per rilevare, deve essere imputabile alla negligente condotta del lavoratore, la cui prova è a carico del datore di lavoro. Per la configurabilità dell’infrazione non basta il giudizio dell’amministrazione - che formula una valutazione di scarso o insufficiente rendimento in rapporto ad un periodo di tempo, rispettivamente, di due (lett. f-quater) o tre anni (lett. f-quinquies) - ma è altresì necessario che lo scarso o insufficiente rendimento sia dovuto alla reiterata violazione degli obblighi lavorativi, accompagnata, nel primo caso, dall’irrogazione della sospensione del servizio e, nel secondo, dalla valutazione negativa costantemente resa per tutti e tre gli anni.
Prodromico, pertanto, al provvedimento di licenziamento è pertanto l’espletamento di un procedimento disciplinare con specifica contestazione della recidiva. Il licenziamento, dunque, “non potrà discendere da una mera attività valutativa negativa, ma da un formale processo cognitivo in cui l’amministrazione deve dimostrare che il rendimento insoddisfacente è stato
provocato da una delle ragioni indicate, sulla base degli esiti del sistema di valutazione del personale”85.
Tutte le nuove ipotesi di licenziamento introdotte dal d.lgs. 75/2017 “ vanno lette alla luce del generale e prevalente principio di proporzionalità punitiva, che potrebbe consentire, a fronte di manifestazioni più tenui di tali illeciti, di infliggere anche sanzioni conservative, pur a fronte di un dato testuale che sembra imporre in via esclusiva il licenziamento”86. Ma, più in generale, tale osservazione vale per tutte le ipotesi di licenziamento previste dall’art.55- quater. Il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale esclude infatti la legittimità di ogni forma di licenziamento automatico87: una lettura costituzionalmente orientata della normativa deve pertanto tener conto dell’espresso richiamo, operato dal secondo comma dell’art.55 del d.lgs. 165/2001 all’art.2106 c.c. con “la conseguenza di ritenere comunque operante il criterio generale di valutazione incentrato sulla gradualità e proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione88. L’art.2106 stabilisce infatti che l’inosservanza dei doveri e degli obblighi di cui agli artt.2104 (diligenza ed
85 X. XXXXXXXX, op. cit., pag.250.
00 X. XXXXXX, Xx novità apportate al procedimento disciplinare nel pubblico impiego dalla riforma Madia (d.lgs. 75 del 2017 e n.118 del 2017), in Lav. Dir. Europa, 2017, fascicolo I, pag.9.
87 La Corte afferma infatti il “principio della necessità del procedimento disciplinare, in luogo della destituzione di diritto dei pubblici dipendenti” (Corte Cost. 9 luglio 1999, n.286). Nello stesso senso Corte Cost. 17/10/1996, n.363: “l'illegittimità della destituzione di diritto, e la necessità che si svolga il procedimento disciplinare al fine di assicurare l'indispensabile gradualità sanzionatoria, riconducendo alla loro sede naturale le relative valutazioni”.
88 Cfr. G.M. MONDA, op.cit., pag.605.
obbedienza) e 2105 c.c. (fedeltà) può comportare l’applicazione di sanzioni disciplinari di entità proporzionata alla gravità dell’infrazione commessa. Secondo l’orientamento della suprema Corte la proporzionalità tra sanzione e infrazione è una norma generale per tutto il diritto punitivo (Cass., sez. lav., 26 gennaio 2016, n.1351) ed è “un principio di civiltà giuridica”89.
Un’altra specifica ipotesi di licenziamento è diciplinata dall’art.55-septies del decreto 165/2001. E’ previsto, in via generale, che in tutti i casi di malattia dei pubblici dipendenti, il medico trasmetta telematicamente all’I.N.P.S. – competente ai successivi accertamenti medico-legali - la relativa certificazione. L’inosservanza di tale obbligo, se ricorre l’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, costituisce, ai sensi del quarto comma dell’articolo in esame, illecito disciplinare e, in caso di reiterazione, è punito con il licenziamento.
Sempre il d.lgs.165/2001 prevede un’ipotesi risolutiva del rapporto di lavoro che, seppure non denominata “licenziamento”, si configura comunque come una sanzione espulsiva, legata a motivi soggettivi. Trattasi della disposizione contenuta nel secondo comma dell’art.55-sexies che prevede una forma di responsabilità disciplinare per grave danno all’ufficio causato da inefficienza o incompetenza professionale verificate dall’amministrazione in sede di valutazione del personale. In tal caso il dipendente è collocato in disponibilità
89 X.XXXXXXXX, op.cit., pag.18.
per un periodo massimo di due anni, scaduto il quale, in mancanza di ricollocamento presso altre amministrazioni, il rapporto di lavoro è risolto.
Esaminiamo ora l’ipotesi tipica di licenziamento per ragioni oggettive - contemplata dal d.lgs. 165/2001 - collegata ad eccedenze di personale. La materia è disciplinata dagli artt.33 e 34 del decreto. La relativa procedura ha inizio con la rilevazione delle eventuali situazioni di soprannumero, cui segue l’informativa alle organizzazioni sindacali e il tentativo di ricollocazione del personale qualificato in eccedenza presso la stessa od altra amministrazione. Decorsi novanta giorni dalla comunicazione ai sindacati, i dipendenti in eccedenza, non altrimenti impiegati, vengono collocati in disponibilità; durante tale periodo il lavoratore ha diritto soltanto ad un assegno mensile pari all’80% dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale nonché all’assegno familiare. Il personale in questione viene iscritto in appositi elenchi secondo il criterio cronologico del collocamento in disponibilità. Le PA che vogliono assumere personale devono previamente comunicare ai soggetti incaricati della tenuta degli elenchi l’area funzionale e la sede di destinazione dei nuovi posti di lavoro: soltanto dopo due mesi dalla comunicazione possono bandire concorsi per il reclutamento di personale per il numero di posto ancora disponibili. Il mancato rispetto di tale procedura è sanzionato con la nullità dei contratti stipulati. Decorsi ventiquattro mesi il rapporto cessa ope legis e senza
preavviso90.
Nell’ottica in cui la risoluzione del rapporto di lavoro rappresenta comunque una extrema ratio, il D.L. 24 giugno 2014, n.9091 ha modificato l’art.33 del decreto 165/2001 prevedendo che nei sei mesi antecedenti la fine del periodo di collocamento in disponibilità, il dipendente può presentare all’amministrazione istanza di ricollocamento anche in qualifica inferiore rispetto a quella di appartenenza, a condizione che vi sia vacanza di posto in organico nella qualifica medesima. Trattasi di una deroga al principio sanzionato dall’art.2013 c.c., nel testo previgente le modifiche apportate dal d.lgs.81/201592, secondo cui il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore. L’eventuale ricollocazione non può avvenire prima dei trenta giorni anteriori alla scadenza del termine di collocamento in disponibilità. Il personale ricollocato mantiene comunque il diritto di essere successivamente reintegrato nella propria originaria qualifica e categoria di inquadramento.
Altra ipotesi di risoluzione è prevista dall’art.55-octies nel caso di accertata permanente inidoneità psicofisica al servizio dei dipendenti. Trattasi di
90 Il D.L. 6 luglio 2012, n. 95 ha peraltro previsto che "Il periodo di 24 mesi di cui al comma 8 dell'articolo 33 del decreto legislativo n. 165 del 2001 può essere aumentato fino a 48 mesi laddove il personale collocato in disponibilità maturi entro il predetto arco temporale i requisiti per il trattamento pensionistico".
91 Recante” Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l'efficienza degli uffici giudiziari”, convertito nella L.114/2014.
92 Recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.
fattispecie che, differentemente da quelle sino ad ora esaminate, si colloca decisamente al di fuori dell’area disciplinare: l’impossibilità della prestazione lavorativa costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento 93. L’operatività della norma è legata all’emanazione di uno specifico DPR94.
Concludiamo la disamina osservando come l’introduzione di un corpus di norme che individuano specifiche fattispecie sanzionatorie, ha indotto parte della dottrina a ritenere obbligatorio in tali casi l’esercizio dell’azione disciplinare. Non essendo stata inserita una norma che preveda in maniera espressa l’obbligatorietà dell’azione disciplinare, se ne desume tale carattere dalla previsione di sanzioni in caso di inerzia o di esercizio tardivo della stessa a carico del dirigente (artt.55-bis e 55-sexies) e in considerazione del fatto che il potere disciplinare costituisce uno strumento per il raggiungimento di maggiori livelli di efficienza del lavoro pubblico e per una maggiore efficacia dell’azione amministrativa95. In tale direzione si è espressa anche la Corte di Cassazione96, affermando che il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico, sebbene fondato, a seguito della privatizzazione del rapporto di
93 In tal senso G.M. MONDA, op.cit., pag.611. L’autore nutre pertanto forti perplessità sulla collocazione sistematica della norma. Sulla configurabilità di una vera e propria ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo cfr. Cass., sez. lav.,4 ottobre 2016, n.19774.
94 Trattasi del D.P.R. n.171 del 27 luglio 2011 recante “Regolamento di attuazione in materia di risoluzione del rapporto di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche dello Stato e degli enti pubblici nazionali in caso di permanente inidoneità psicofisica, a norma dell'articolo 55-octies del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
00 Xxx. X. XXXXXX, Xx potere disciplinare, in CARABELLI e CARINCI (a cura di), Il lavoro pubblico
in Italia, Cacucci Bari, 2010, pag. 216..
96 Cass., sez. lav., 4 aprile 2017, n.8722.
impiego, sul contratto e, quindi, sottratto alle regole del procedimento amministrativo, conserva un carattere di specialità rispetto all’analogo potere del datore di lavoro privato, in quanto è condizionato dalla presenza di interessi generali che trascendono quelli del singolo datore di lavoro, funzionali alla redditività dell’impresa e finalizzati al rispetto dei principi, di rilievo costituzionale, di buon andamento, imparzialità e legalità dell’azione amministrativa.
Il dirigente privato, infatti, gode sempre di un’ampia discrezionalità nell’esercizio del potere disciplinare, da lui esercitato su delega del datore di lavoro, ed è sempre libero di valutare l’opportunità e la convenienza dell’iniziativa e anche di tollerare comportamenti che potrebbero essere ritenuti disciplinarmente rilevanti. Al contrario il dirigente pubblico, dovendo ispirare la propria condotta alla tutela degli interessi generali sopra evidenziati, è tenuto ad esercitare sempre e comunque il potere disciplinare e in nessun caso può permettere che rimangano impunite condotte poste in essere dall’impiegato in violazione delle regole di comportamento imposte dalla legge o dal contratto collettivo, ma gli è consentito soltanto di provare che ha ritenuto, in modo non irragionevole , che l’infrazione del dipendente non sussisteva ovvero di fornire un giustificato motivo per aver omesso di esercitare o per non aver esercitato tempestivamente il suddetto potere.
Considerata dunque l’assenza di discrezionalità, l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio può solo rilevare quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, ed essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere. Anche i doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva tengono conto della particolare natura del rapporto che impegna l’impiegato ad ispirare la propria condotta ai doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico espressamente indicati nell’art. 54 del d.lgs. n. 165 del 2001. La consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta.
4 Le ipotesi di licenziamento previste nella contrattazione collettiva
Si è visto finora come la contrattazione collettiva fosse, sotto l’egida della prima contrattualizzazione del pubblico impiego, fonte esclusiva in materia di
definizione della tipologia illeciti disciplinari, ivi compreso il licenziamento 97. A seguito della riforma del 2009 il legislatore ha invaso il campo della fonte negoziale, prevedendo specifici ed inderogabili casi di licenziamento nell’art.55-quater d.lgs.165/200198.
Oggi, dunque, la contrattazione collettiva continua a tipizzare le ipotesi più comuni di licenziamento che si aggiungono a quelle previste dal citato art.55- quater del decreto 165/2001.
A seguito dei recenti rinnovi contrattuali, il contratto collettivo vigente nel comparto delle Funzioni centrali99 dedica il titolo VI alla “Responsabilità disciplinare” (artt.60-66). L’art.61, comma 1, annovera tra le sanzioni disciplinari il licenziamento con preavviso (lettera f) e senza preavviso (lettera g). Il successivo art.62 (Codice disciplinare), dopo aver individuato i criteri generali per determinare il tipo e l’entità di ciascuna sanzione nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità100 ed aver stabilito che in caso di
97 Art.59 d.lgs. 29/1993 ed art. 55 d.lgs. 165/2001.
98 V. retro par.3.
99 Trattasi del contratto sottoscritto il 12 febbraio 2018 tra l’ARAN e le organizzazioni sindacali, valevole per il triennio 2016-2018, applicabile al personale non dirigente, dei Ministeri, Avvocatura dello Stato, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, C.N.E.L., Agenzia delle Entrate ecc. Per una dettagliata elencazione si veda l’art.3 del C.C.N.Q. per la definizione dei comparti e delle aree di contrattazione collettiva nazionale sottoscritto in data 13 luglio 2016.
100 Tali criteri sono: intenzionalità del comportamento, grado di negligenza, imprudenza o imperizia dimostrate, tenuto conto anche della prevedibilità dell'evento; rilevanza degli obblighi violati; responsabilità connesse alla posizione di lavoro occupata dal dipendente; grado di danno o di pericolo causato all'amministrazione, agli utenti o a terzi ovvero al disservizio determinatosi; sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti, con particolare riguardo al comportamento del lavoratore, ai precedenti disciplinari nell'ambito del biennio previsto dalla legge, al comportamento verso gli utenti; concorso nella violazione di più lavoratori in accordo tra di loro.
concorso formale o materiale di infrazioni punite con diverse sanzioni si applica quella più grave, elenca le varie tipologie di sanzioni disciplinari. Per quanto in particolare riguarda quella espulsiva, il comma 9 dell’articolo in esame distingue dettagliatamente le ipotesi di licenziamento con e senza preavviso.
Quanto al licenziamento con preavviso la fonte negoziale (art.62, comma 9 punto 1) richiama anzitutto le ipotesi legali dettate dall’art. 55-quater lett. b), c) e da f-bis a f-quinquies d.lgs. 165/2001. Trattasi di fattispecie di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, già esaminate nel precedente paragrafo, afferenti alle assenze ingiustificate, all’immotivato rifiuto di trasferimento, a gravi violazioni del codice di comportamento, all’omissione dolosa o gravemente colposa dell’avvio del procedimento disciplinare, allo scarso ed insufficiente rendimento.
Vi sono poi due ipotesi che afferiscono alla scarsa diligenza del dipendente durante un procedimento disciplinare a carico di un collega. Trattasi in particolare della recidiva nell’ingiustificato rifiuto di collaborazione con l’ufficio disciplinare o nel rilascio allo stesso di false o reticenti dichiarazioni da parte di chi, per ragioni d’ufficio o di servizio, sia a conoscenza di informazioni rilevanti afferenti ad un procedimento disciplinare in corso101, nonché della recidiva nell’omesso o ritardato esercizio dell’azione disciplinare
101 La singola infrazione è punita, sia a livello legale (art.55-bis, comma 7, d.lgs.165/2001) che contrattuale (art.62 comma 5 del C.C.N.L. Funzioni Centrali) con la sospensione dal servizio senza retribuzione fino a un massimo di 15 giorni.
ovvero in valutazioni manifestamente irragionevoli circa l’insussistenza di illecito in relazione a condotte aventi, invece, oggettiva rilevanza disciplinare102.
E’ comminata altresì la sanzione del licenziamento con preavviso in caso di recidiva nella violazione degli obblighi della prestazione lavorativa che abbia determinato la condanna dell’amministrazione di appartenenza al risarcimento dei danni103.
Il contratto prevede poi la sanzione per casi in cui viene in rilevo la pericolosità sociale del dipendente: recidiva in alterchi con vie di fatto negli ambienti di lavoro; recidiva, nel biennio, di atti, comportamenti o molestie a carattere sessuale, ovvero anche singoli episodi di atti, comportamenti o molestie di tale natura particolarmente gravi; condanna definitiva per delitti commessi fuori dal servizio ed estranei all’attività lavorativa, che non consentono, per la loro gravità, la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Altre ipotesi di licenziamento con preavviso riguardano condotte che minano l’efficiente organizzazione del lavoro: recidiva nelle assenze ingiustificate superiori a due giorni in continuità con le giornate festive e/o con il riposo
102 In tal caso la singola infrazione è punita a livello legale (art.55-sexies, comma 3, d.lgs. 165/2011) con la sospensione dal servizio senza fino ad un massimo di tre mesi ed a livello contrattuale con la più grave sanzione della sospensione per il medesimo periodo ma senza retribuzione (art.62 comma 6 C.C.N.L. Funzioni Centrali).
103 La singola infrazione è punita, sia a livello legale (art.55-sexies, comma 1, d.lgs.165/2001) che contrattuale (art.62 comma 7 del C.C.N.L. Funzioni Centrali) con la sospensione dal servizio senza retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi.
settimanale; recidiva nelle assenze collettive ingiustificate nei periodi in cui è necessario assicurare continuità nell’erogazione di servizi all’utenza; mancata ripresa del servizio, salvo casi di comprovato impedimento, dopo periodi di interruzione dell’attività previsti dalle disposizioni legislative e contrattuali vigenti ed alla conclusione del periodo di sospensione o alla scadenza del termine fissato dall’amministrazione.
Alcune fattispecie di licenziamento con preavviso contemplate nella fonte negoziale in esame puniscono invece comportamenti che manifestano un conflitto tra gli interessi privati del dipendente e quelli dell’amministrazione: conclusione, per conto dell'amministrazione, di contratti di appalto, fornitura, servizio, finanziamento o assicurazione con imprese con le quali il dipendente abbia stipulato contratti a titolo privato o ricevuto altre utilità nel biennio precedente, ad eccezione di quelli conclusi ai sensi dell'art. 1342 del codice civile (ovvero tramite moduli o formulari); recidiva nell’accettazione di incarichi di collaborazione da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all'ufficio di appartenenza; recidiva nella violazione del dovere di astensione dal prendere decisioni o svolgere attività inerenti alle sue mansioni in situazioni di conflitto di interesse, anche potenziale, con interessi personali, del coniuge, di conviventi, di xxxxxxx, di affini entro il secondo grado.
Sono ancora punite, per giustificato motivo soggettivo, condotte fraudolente che evidenziano una scarsa moralità del dipendente, quali la recidiva nell’occultamento, da parte del responsabile della custodia, del controllo o della vigilanza, di fatti e circostanze relative ad uso illecito, manomissione, distrazione o sottrazione di somme o beni di pertinenza dell’ente o ad esso affidati, nonché l’accettazione di regali o altre utilità di non modico valore con diretta correlazione all’attività d’ufficio.
Altre fattispecie previste di licenziamento con preavviso riguardano: la recidiva, superiore al biennio, nelle mancanze punite con la sanzione disciplinare della sospensione dalservizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di 10 giorni104; la recidiva plurima di una delle violazioni punite con le più lievi sanzioni del rimprovero verbale o scritto, della multa e della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione105; la recidiva, nel biennio, in una violazione che abbia già comportato la sospensione dal servizio e dalla retribuzione; la costrizione di altri dipendenti ad aderire ad associazioni od organizzazioni ovvero esercizio di pressioni a tale fine, promettendo vantaggi o prospettando svantaggi di carriera; la recidiva nel diffondere notizie non rispondenti al vero quanto all'organizzazione, all'attività e ai dipendenti pubblici.
104 Per l’elencazione delle singole violazioni cfr. art.62, comma 4, C.C.N.L. Funzioni Centrali.
105 Per un’elencazione delle violazioni che danno luogo alle citate sanzioni non espulsive, cfr. art.62, commi 3-8, C.C.N.L. Funzioni Centrali.
Quanto al licenziamento senza preavviso, il punto 2 del comma 9 dell’art.62 richiama, anche in tal caso, preliminarmente le ipotesi legali di giusta causa elencate dall’art. 55-quater lett. a), d), e) ed f), d.lgs. 165/2001 afferenti rispettivamente alla falsa attestazione della presenza in servizio, a falsità documentali o dichiarative in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro, alla reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive e alla condanna penale definitiva con interdizione dai pubblici uffici106.
Le altre fattispecie individuate attengono tutte a condotte, previste o meno dall’ordinamento come reati, caratterizzate da una gravità tale da determinare inevitabilmente l’immediato scioglimento del vincolo contrattuale: commissione di gravi illeciti di rilevanza penale; condanna definitiva per un delitto che, pur non attenendo in xxx xxxxxxx xx xxxxxxxx xx xxxxxx, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità; commissione in genere - anche nei confronti di terzi - di fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale, sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro 107; condanna, anche non definitiva, per una serie di delitti contro la pubblica amministrazione indicati dagli artt.7, comma 1ed 8, comma 1, del d.lgs. 31
106 Per una disamina delle singole ipotesi, vedi retro paragrafo 3.
107 La Suprema Corte ha, ad esempio, ravvisato la fattispecie in esame nel caso di un dipendente licenziato dall’I.N.P.S. per aver utilizzato lavoratori dipendenti per la lavorazione di un terreno di sua proprietà senza aver redatto le prescritte buste paga (Cfr. Cass., sez.lav., 18 luglio 2016 n.1460).
dicembre 2012 n.235108, nonché dall’art.3, comma 1, L. 27 marzo 2001 n.97109 o comunque per gravi delitti commessi in servizio; condanna penale cui segua l’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Anche l’ipotesi di accordo del CCNL Funzioni locali110 propone le medesime condizioni..
Si è discusso in dottrina, soprattutto prima della riforma del 2009, se l’elencazione delle ipotesi di licenziamento contenute nel contratto collettivo fosse o meno tassativa. Il dibattito prende le mosse dalle modifiche apportate all’originaria formulazione dell’art.59 del d.lgs. 29/1993 - il quale disponeva che “la tipologia e l'entità delle infrazioni e delle relative sanzioni possono essere definite dai contratti collettivi” – dal d.lgs. 31 marzo 1998 n.80111: il nuovo testo della norma – poi trasfuso nell’art.55 del decreto 165/2001 – dispone che “la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi”. La sostituzione della mera possibilità con l’obbligatorietà della definizione della materia ad opera della fonte pattizia ha dato origine a due
108 Recante “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”.
109 Recante “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
110 L’ipotesi di contratto in esame, sottoscritta il 21 febbraio 2018 e valevole per il triennio 2016- 2018, si applica al personale non dirigente dipendente da Regioni, Comuni, Città metropolitane, Comunità montane, ex Istituti autonomi case popolari, Aziende pubbliche i servizi alla persona, Università agrarie, Camere di Commercio ed Autorità di bacino.
111 Recante “Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle
amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell'articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59”.
xxxxxx interpretativi: alcuni autori sostengono che la novella abbia stabilito una vera e propria riserva a favore della contrattazione collettiva112; altri ritengono invece che una tesi di tal genere ridimensionerebbe notevolmente la portata della giusta causa con riferimento alla quale, pertanto, le indicazioni contenute nei contratti collettivi hanno una valenza esemplificativa ma non esaustiva113, non escludendo “che altri comportamenti, non espressamente previsti, possano legittimare un licenziamento per giusta causa”114. Già il legislatore della riforma Xxxxxxxx orienta l’interprete a favore di questa seconda tesi. Prima di procedere all’elencazione di specifiche ipotesi di licenziamento l’art.55-quater esordisce infatti con le seguenti parole: “Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo …”.
Il richiamo alla disciplina generale rende evidente l’intenzione di non considerare le fattispecie legali e contrattuali di licenziamento come un numero chiuso e la clausola di salvaguardia fa salve le eventuali ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo. Va inoltre considerata la disposizione di cui all’art.30,
112 In tal senso, ad es., X.XXXXX, Il licenziamento del dipendente pubblico: il quadro legale, in Lav. Pubbl.Amm., 2001, n. 2, pagg.27 e ss.
113 X. XXXXXXXX, L’estinzione del rapporto di lavoro, in X. XXXXXXX XXXXXXXXXX (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale. Il lavoro privato e pubblico , Ipsoa, Milano, 2009, pagg.206 e ss.
114 X. XXXXXXXX, Il diritto del lavoro … cit., pag.242. L’autore rileva peraltro come un discorso diverso potrebbe valere per il giustificato motivo soggettivo stante la volontà del legislatore di demandare esclusivamente a sé stesso e alla contrattazione collettiva la tipologia delle sanzioni e delle relative infrazioni.
comma 3, della L. 4 novembre 2010 n.183115, alla cui stregua “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi”. La norma non limita l’ampiezza dei poteri interpretativi del giudice ma lo obbliga più semplicemente ad esplicitare nella motivazione della sentenza di aver tenuto conto delle tipizzazioni provenienti dalla fonte pattizia116.
Anche la giurisprudenza è orientata nella direzione della non tassatività delle ipotesi di licenziamento contenute nei contratti: “numerose decisioni di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. 14.2.2005 n 2906, Cass. 18 2.2011 n. 4060), in tema di licenziamento (…) hanno sancito che la nozione di giusta causa è nozione legale e che il giudice non è vincolato alle previsioni di condotte integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi”117. La Suprema Corte è così incline ad affermare che le infinite condotte astrattamente ipotizzabili che sono in grado di compromettere il rapporto fiduciario non possono essere tipizzate e codificate nei contratti collettivi: la codificazione di tutte le possibili
115 Recante “Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro”, denominato generalmente “Collegato lavoro”.
116 C. DE XXXXX, Il licenziamento nel lavoro pubblico, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2011, pag.21. “La norma non dice che il giudice deve tenere conto, ma che tiene conto (…)”, pertanto il giudice non è vincolato dalle disposizioni del contratto collettivo.
117 Cass., sez. lav., 31 gennaio 2012 n.1405.
condotte è ontologicamente impossibile118. Inoltre il giudice può sempre “ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore” (Cass., sez. lav., 16 marzo 2018 n.6606). In quest’ultima sentenza gli Ermellini evidenziano, per altro verso, come invece condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo secondo la disciplina generale non possono essere sanzionate con il licenziamento se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative119. A conclusione dei quest’analisi circa la non tassatività delle fattispecie di origine pattizia (e al di là di quelle legali individuate dall’art.55- quater), va segnalato che anche i contratti collettivi recentemente approvati o in corso di approvazione per i pubblici dipendenti, oltre a far espressamente slava “la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo” (art.62, comma 9, C.C.N.L. Funzioni Centrali ed art.59, comma 9, ipotesi
118 Cfr. Cass.,sez.,lav., 21 giugno 2012 n.10337; Cass.,sez.,lav., 12 febbraio 2016 n.2830; Cass.,sez.,lav. 8 giugno 2017 n. 14321.
119 Secondo la Cassazione la contrattazione collettiva ha il potere di sanzionare meno gravemente una
condotta che secondo le nozioni legali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo potrebbe determinare il licenziamento disciplinare (Cass.,sez.,lav., 5 maggio 2017, n.11027).
C.C.N.L. Funzioni Locali) contengono disposizioni di carattere generale che legittimano il licenziamento anche al di fuori delle ipotesi espressamente elencate in relazione a condotte illecite che si sottraggono, per la loro peculiarità, ad una preventiva catalogazione120.
Le sanzioni previste nei contratti collettivi, ivi compresa quella espulsiva, devono essere trasfuse nel codice disciplinare, cioè nel documento predisposto dal datore di lavoro in cui è contenuta la normativa disciplinare applicabile ai suoi dipendenti.
Il codice disciplinare contenuto nei contratti nazionali di comparto ha la funzione di individuare non solo le infrazioni e le sanzioni applicabili, ma anche i criteri in base ai quali determinare la sanzione applicabile ad una data condotta, tenendo conto del principio di proporzionalità. La sanzione va rapportata non solo rispetto alla tipologia di infrazione, ma anche rispetto alla sua entità: anche nei contratti esaminati il codice disciplinare prevede i soli limiti minimi e massimi della sanzione la cui quantificazione è lasciata alla valutazione unilaterale del datore di lavoro pubblico, salvo il successivo vaglio giurisdizionale121.
120 Art.62, comma 9 punto 1 lett.g) e punto 2 lett.f), C.C.N.L. Funzioni centrali ed art.59 nono comma punto 1 lett.g) e punto 2 lett.f), C.C.N.L. Funzioni Locali.
121 X. XXXXXXXX,op. cit., pag.15.
Lo scopo è dunque quello di favorire la conoscenza, da parte dei lavoratori, delle norme, delle procedure e dei conseguenti provvedimenti destinati ad incidere negativamente nella loro sfera giuridica.
Il decreto 165/2001, nella sua originaria formulazione, non faceva espresso riferimento a tale documento: l’art.55, comma 2, rinviava, peraltro, alle disposizioni contenute nei commi 1, 5 e 8 dell’art.7 dello Statuto dei lavoratori. Il primo comma, in particolare, dispone che le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Con la riforma Xxxxxxxx scompare il richiamo nell’art.55 alle disposizioni dell’art.7 dello Statuto citato122 e viene introdotto per la prima volta a livello legale il termine “codice disciplinare”. Il vigente secondo comma, terzo periodo, dell’art.55 d.lgs.165/2001 testualmente dispone: “la pubblicazione sul sito istituzionale dell'amministrazione del codice disciplinare, recante l'indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all'ingresso della sede di lavoro”. L’art.62 del vigente C.C.N.L. Funzioni centrali dispone: “Al codice disciplinare, di cui al presente articolo, deve essere data la massima pubblicità mediante pubblicazione sul sito
122 Benché, d’altro canto, l’applicabilità dello Statuto dei lavoratori continui ad essere sancita, in via generale, dall’art.51 del decreto n.165/2001.
istituzionale dell’amministrazione secondo le previsioni dell’art. 55, comma 2, ultimo periodo, del d. lgs. n. 165/2001”; speculare è la norma contenuta nell’art.59, comma 11, dell’ipotesi di accordo C.C.N.L. Funzioni Locali.
Parte della dottrina ritiene che il mancato richiamo nella novellata versione dell’art.55 d.lgs.165/2001 allo Statuto dei lavoratori non determini anche la scomparsa dell'obbligo di affissione nel posto di lavoro: dire che la pubblicazione sul sito è equivalente all'affissione, implica la permanenza di quest'ultima quale possibile forma di pubblicità123. Occorre peraltro stabilire se le due forme di pubblicità (affissione e pubblicazione on line) siano alternative o debbano invece cumularsi. L’interpretazione letterale farebbe propendere per la prima tesi. La fonte pattizia menziona invece come mezzo di pubblicità del codice unicamente la pubblicazione sul sito internet, ma al contempo richiede che al codice sia data la «massima pubblicità»: è indubitabile che tale obiettivo possa dirsi pienamente raggiunto solo nel caso in cui siano adottate insieme le due forme di pubblicità. Aderire a tele tesi implicherebbe però violazione della disposizione del novellato art.55: in conclusione, pertanto, deve ritenersi che la pubblicazione on line costituisca già forma idonea a garantire la massima pubblicità.
123 X. XX XXXXX,Il potere disciplinare nel lavoroprivato e nel pubblicoimpiegoprivatizzato, Xxxxxxx, Milano, 2010, pag.441.
La mancata pubblicazione on line del codice non può determinare la nullità della sanzione, ove comunque sia stata effettuata l'affissione: non altrimenti in caso contrario. Resta salvo però che la validità delle sanzioni applicate per le infrazioni tipizzate dal legislatore (art.55 quater d.lgs. 165/2001) non è subordinata alla pubblicazione nel sito web o all’affissione, stante il principio ignorantia legis non excusat124.
Concludiamo l’analisi sottolineando come la Suprema Corte abbia distinto, in caso di licenziamento intimato in carenza di adeguata pubblicità del codice disciplinare, tra condotte che, ex sé, contrastano con il cosiddetto “minimo etico” o con norme penali riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione ed altre che possono collidere con mere prassi, con la conseguenza della necessaria conoscibilità ex ante da parte del lavoratore125. Nel primo caso il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta; nel secondo la condotta contestata al lavoratore non viola generali obblighi di legge ma puntuali regole comportamentali, variabili nel tempo, negozialmente previste e
124 V. TENORE Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Xxxxxxxx , Xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, pag. 34.
125 Cass., sez. lav., 3 ottobre 2013, n.22626.
funzionali al miglior svolgimento del rapporto di lavoro, per cui l’affissione si presenta necessaria126.
126 Cass., sez. lav., 21 luglio 2015, n.15218. Nella fattispecie la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte territoriale che aveva annullato, per mancata affissione del codice disciplinare, la sanzione della sospensione di una dipendente comunale accusata di aver disatteso la disposizione impartitele dal dirigente circa l’uso di un protocollo interno. Gli Ermellini hanno ritenuto che il fatto contestato non concretava violazione di generali obblighi di legge ma di puntuali regole comportamentali. La Suprema Corte conferma invece il licenziamento di un dipendente comunale per numerose assenze ingiustificate considerando irrilevante il rilievo mosso circa la mancata affissione del codice disciplinare, proprio perché, in tal caso, trattasi di violazione di norma che contrasta col c.d. minimo etico (Cass., sez.lav., 24 febbraio 2017, n.4826).
Capitolo II
La tutela in caso di licenziamento illegittimo
1 La tutela ante D.lgs.75/2017
1.1 Dalla tutela obbligatoria alla tutela reale dello Statuto dei Lavoratori
Nel rapporto di lavoro, soprattutto privato, gli interessi delle parti non coincidono. L’imprenditore mira a realizzare un profitto; il lavoratore ha convenienza a remare nella stessa direzione del datore, ma al diverso fine di tendere alla conservazione del posto - fonte di sostentamento per sé e per la sua famiglia - ed altresì alla progressione economica. Ma proprio lo scopo di lucro, soprattutto in periodi sfavorevoli di mercato, porta inevitabilmente l’imprenditore a contenere al massimo i costi dei fattori della produzione, tra cui la forza lavoro. Xx è segnatamente in questa fase che gli interessi navigano in senso contrario: la stabilità del rapporto, cui legittimamente mira il lavoratore, penalizza il titolare dell’impresa, che avrebbe perciò convenienza a sciogliere con facilità il vincolo contrattuale127.
Nel settore del pubblico impiego, l’amministrazione “non è un soggetto economico tenuto al rispetto delle regole del mercato”128 ed è mossa dall’esigenza di perseguire interessi pubblici. La divergenza degli interessi è
127 Cfr., in tale senso, X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, Sulle categorie del diritto del lavoro “riformate”, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 288/2016, pag.28.
128 X. XXXXXXX, La privatizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art.97 Cost.: di alcuni problemi e dei possibili rimedi, WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 49/2007, pag.5.
meno ampia e la posizione del lavoratore è da sempre stata esposta a rischi minori.
Nel corso degli anni il legislatore è intervenuto per tutelare gli interessi in conflitto ora a favore dell’una, ora a favore dell’altra parte. Fino al 1966 la posizione dominate appartiene al datore di lavoro, libero di recedere ad nutum dal rapporto. La l.n. 604/1966 introduce la necessità della motivazione della sanzione espulsiva (giusta causa o giustificato motivo) – e prevede alternativamente, in caso di licenziamento illegittimo, la riassunzione o il risarcimento del danno (consistente nella corresponsione di un’indennità da un minimo di cinque ad un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione129). Il datore di lavoro, pertanto, non era comunque mai obbligato alla riassunzione. La legge, inoltre, non si applicava alle imprese che occupavano meno di trentasei dipendenti, ovvero alla maggior parte delle imprese italiane illo tempore esistenti130, i lavoratori delle quali continuavano a sottostare alla spada di Damocle del recesso ad nutum.
La normativa del 1966, dunque, “da un lato sottoponeva al controllo del giudice la motivazione del licenziamento nelle aziende medio grandi e dall'altro
129 Ai sensi dell’art.8, la misura massima della predetta indennità poteva essere ridotta a otto mensilità per i prestatori di lavoro con anzianità inferiore a trenta mesi oppure maggiorata fino a quattordici mensilità per quelli con anzianità superiore ai venti anni. Le misure minime e massime del potevano inoltre essere ridotte della metà per le imprese con meno di sessanta dipendenti.
130 L’art.11 della legge, nel definire tale ambito di applicazione, faceva comunque salve le
disposizioni relative al licenziamento nullo, perché discriminatorio, che valevano pertanto anche per le imprese di minori dimensioni.
si limitava a monetizzare il licenziamento ingiustificato (…) ma non lo invalidava”131. L’utilizzo del verbo “riassumere”, infatti, presupponeva che il licenziamento illegittimo determinasse l’estinzione del rapporto di lavoro: l’eventuale riassunzione provocava la ricostituzione ex nunc del vincolo contrattuale.
A coronamento delle lotte del mondo del lavoro, culminate nel cosiddetto “autunno caldo” del 1969, la L. 20 maggio 1970 n.300 “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, universalmente conosciuta come “Statuto dei Lavoratori”, segna una tappa fondamentale nella storia Repubblicana. I diritti relativi alla libertà e all’onore dei lavoratori nonché alla libertà sindacale vengono consacrati in un provvedimento legislativo 132. E, soprattutto, le disposizioni contenute nell’art.18, sulla tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, diventano il simbolo di un contrasto tra i diversi interessi in gioco (quelli dell’impresa e quelli del lavoratore) nonché tra i partiti politici di segno opposto che, ancora oggi, è al centro del dibattito.
131 X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, op.ult. cit., pag.29.
132 Grande enfasi fu data all’approvazione dello Statuto dai quotidiani dell’epoca, soprattutto da quelli più vicini al mondo sindacale. Emblematico in tal senso è l’articolo di fondo della prima pagina del 15 maggio 1970 (giorno successivo alla definitiva approvazione della legge da parte della Camera) del famoso quotidiano socialista “L’Avanti”, che titolava: “La Costituzione entra in fabbrica”.
Il legislatore del 1970 tra i due interessi in conflitto - quello dell’imprenditore alla temporaneità del vincolo e quello del lavoratore alla continuità del rapporto di lavoro - privilegia decisamente il secondo.
Disponeva l’originaria versione dell’art.18: “… il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento (…) o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità (…), ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”. In ogni caso di licenziamento “inefficace” – cioè non comunicato per iscritto o non motivato a fronte di specifica richiesta del lavoratore (art.2 l.n.604/1966) – o annullabile - in quanto privo della giusta causa o giustificato motivo ovvero nullo perché discriminatorio (ex art.4 l. n.604/1966) - al lavoratore privato veniva riconosciuta la tutela reale della reintegra. L’art.18 “modifica radicalmente gli effetti del licenziamento ingiustificato (…) che (…) non è più idoneo a estinguere il rapporto di lavoro” in quanto “è considerato invalido (nullo o annullabile) o inefficace”133. Il termine reintegra sottolinea la ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro.
Alla reintegra si aggiungeva, ai sensi del secondo comma dell’art.18, il risarcimento del danno quantificato in almeno cinque mensilità di retribuzione. Il datore di lavoro, il cui provvedimento espulsivo veniva invalidato, non poteva dunque più optare tra riassunzione e risarcimento, dovendo necessariamente
133 X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, op.ult. it., pag.30.
reintegrare: la scelta in ordine alla risoluzione del rapporto di lavoro veniva trasferita in capo al dipendente, nel caso in cui questi non riprendeva servizio entro trenta giorni dall’invito del datore - condannato dal giudice - a rientrare nella sede di lavoro. Anche la soglia dei limiti dimensionali delle imprese oggetto della novella legislativa, veniva notevolmente abbassata: l’art.35 dello Statuto disponeva infatti che la legge si applicava a tutte le imprese che occupavano più di quindici dipendenti o cinque, se imprese agricole134. Pertanto ai datori di lavoro non imprenditori (per esempio, partiti e sindacati) continuava ad applicarsi la disciplina più favorevole della legge n. 604 del 1966 e rimaneva altresì in vigore l’art. 2118 c.c., e cioè l’area del recesso libero, per tutti i datori di lavoro imprenditori e non imprenditori con meno di 15 dipendenti.
Vent’anni dopo il legislatore interviene nuovamente in materia, occupandosi delle imprese di minori dimensioni. La l.11 maggio 1990 n.108, “Disciplina dei licenziamenti individuali”, apporta modificazioni sia alla l.n.604/1966 che all’art.18 dello Statuto.
Sostanzialmente la novella estende il regime della tutela obbligatoria previsto dalla l.n..604/1966 a tutti i lavoratori (compresi i dirigenti) in imprese private ed enti pubblici che occupano fino a quindici dipendenti (o cinque per le imprese agricole) (art.2 comma 1) ed impone il regime della tutela reale, a
134 Il secondo comma dell’art.35 chiariva che tali limiti dimensionali valevano, cumulativamente, per tutte le sedi dell’impresa ubicate nel medesimo Comune.
prescindere dai limiti dimensionali, in tutti i casi di licenziamento nullo in quanto discriminatorio (art.3).
Dal 26 maggio del 1990 (data di entrata in vigore della legge n.108), pertanto, il limite dimensionale dei quindici dipendenti segna la linea di confine tra l’applicazione della tutela reale e quella della tutela obbligatoria, rimanendo confinato il recesso ad nutum, ai sensi dell’art.4 della l.n.108/1990, ai prestatori di lavoro domestico, ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono attività senza fini di lucro, di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, di religione o di culto, ai lavoratori ultrassessantenni che abbiamo maturato il diritto alla pensione nonché, ai sensi dell’art.4 della l.n.91/1981, agli sportivi professionisti.
Tre anni dopo, l’art.55, secondo comma, del d.lgs. n.29/1993, statuisce che la “legge 20 maggio 1970, n. 300, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”135. La soglia dimensionale, differentemente che nel settore privato, non rileva dunque nel pubblico impiego: ogni caso di illegittimo licenziamento è quindi protetto con la tutela reale accordata dall’art.18. Il legislatore ritiene quindi che la particolarità del datore di lavoro pubblica amministrazione, “non consentiva, né giustificava, alcuna
135 Invero già la legge quadro sul pubblico impiego n.93/1983 aveva previsto l’applicazione al settore pubblico di varie norme dello statuto dei lavoratori, ma non dell’art.18 sulla tutela del licenziamento illegittimo.
diversità di trattamento nella tutela (…) in ragione di requisiti di tipo dimensionale”.136
L’art.51, comma 2, d.lgs. 165/2001, ripropone quasi testualmente la disposizione sopra esaminata: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.
L’aggiunta della locuzione “e successive modificazioni ed integrazioni” ha suscitato un vivace dibattito in dottrina e giurisprudenza. Sul tema, che verrà ripreso più ampiamente nel seguito della trattazione a proposito dell’applicabilità al pubblico impiego della riforma “Fornero”, si sono sviluppate essenzialmente due tesi.
Secondo alcuni autori il legislatore voleva far esclusivo riferimento alle modifiche operate allo Statuo da parte della citata l.n.108/1990, non essendo sostenibile “l’ultrattività di un rinvio implicante modifiche future al testo vigente dell’art.18 all’epoca dell’entrata in vigore del d.lgs 165/2001 ”137 . Interventi normativi sulla l.n.300/1970 successivi all’entrata in vigore del
136 Così MAINARDI S., op. cit., pag.857.
137 X. XXXXX, Il Processo Fornero tra innovazioni e contraddizioni, in X. Xxxxx (a cura di), Processo del lavoro, Commento sulle norme del codice di rito, delle leggi speciali e analisi tematiche delle tutele giurisdizionali, Giappichelli, Torino, 2016 pag.445. In giurisprudenza Xxxx., sez.lav., 9 giugno 2016, n.11868 (v. ampiamente infra, par.1.3).
decreto 165/2001 non sarebbero pertanto applicabili, a meno di espressa previsione in tal senso, ai lavoratori alle dipendenze della PA138.
Altra parte della dottrina, invece, sposa la tesi del c.d. “rinvio mobile”, che recepisce il contenuto delle norme collocate in altre fonti adeguandosi alle stesse e alle loro successive modificazioni e integrazioni. Lo Statuto dei lavoratori, in virtù del richiamo da pare dell’art.51 d.lgs.165/2001, sarebbe pertanto sempre applicabile al pubblico impiego a prescindere dalle modifiche legislative che intervengono nel tempo, salvo, in tal caso, un’espressa esclusione139.
1.2 La legge 20 giugno 2012 n.92, la riduzione della tutela reale e la controversa applicabilità al pubblico impiego
Le forme di tutela per il lavoratore illegittimamente licenziato rimangono sostanzialmente inalterate fino al 2012.
In questo lasso temporale (1970-2012) muta profondamente il tessuto industriale italiano: l’internazionalizzazione dei mercati impone una maggiore competitività, costringendo le imprese a ridurre i costi di produzione, compreso
138 In tal senso anche X. XXXXXXXXX, La riforma del lavoro, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2012, pag.55 e X. XXXXXXX, Pubblico impiego privatizzato e art.18, in Lav.giur. 2013, pag.27 e ss.
139 In tal senso, tra gli altri, R. DEL PUNTA, Sull’applicazione del nuovo art.18 al rapporto di lavoro subordinato, in Xxx.Xx. Dir. Lav. 2013, II, pagg.418 e ss. e X. XXXXXXXXX, Pubblico impego e nuovo articolo 18 St.lav: difficile convivenza o coesistenza pacifica?, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 176/2013. In giurisprudenza Xxxx., sez. lav., Xxxx., sez.lav., 26 novembre 2015 n.24157 (v. ampiamente infra, par.1.3)
quello delle risorse umane. Si assiste inevitabilmente a diversi tentativi volti a modificare le disposizioni dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Tra essi è opportuno citarne due di segno opposto, che danno la dimensione dell’incertezza in materia: il referendum abrogativo del 2000, che proponeva l’abrogazione totale della norma e quello del 2003, che, tutto all’opposto, tentava di estenderne la portata alle piccole imprese; entrambi non raggiunsero il quorum140.
A fronte della permanenza dell’art. 18, gli imprenditori ottengono una legislazione favorevole alla flessibilità in entrata: si diffondono i rapporti cosiddetti temporanei141.
Inoltre l’applicazione sempre più diffusa della disciplina comunitaria, per quanto in particolare concerne la materia degli aiuti di Stato, eleva la concorrenza a valore e prende sempre più piede il convincimento che l’intervento pubblico – incisivo, negli anni ’70, nella regolamentazione del mercato - debba limitarsi a disporre regole che evitino il sorgere di situazioni di monopolio142.
140 Il primo, promosso dal Partito Radicale, da Forza Italia e dal Partito Repubblicano, si tenne il 21 maggio 2000: il 66,60% degli elettori che si presentò alle urne espresse voto contrario all’abrogazione. La seconda consultazione, promossa dal Partito della Rifondazione Comunista, si tenne il 15 giugno del 2003: anche in tal caso il quorum non fu raggiunto, per quanto l’86,70% degli italiani che andò a votare si espresse in senso favorevole alla modifica della norma.
141 Quali la somministrazione di lavoro ed il lavoro a progetto, disciplinati dalla L. 14 febbraio 2003
n.30 e dal d.lgs. 10 settembre 2003 n.276.
142 Cfr., in tal senso X. XXXXXXX XXXXXXXXXX, op. ult. cit., pag.31.
Nel 2012, nel tentativo di superare la dicotomia esistente nel mercato del lavoro costituita dalla presenza di lavoratori protetti dalla normativa sul licenziamento (insiders) e lavoratori privi di ogni protezione e tutela (outsiders), il governo propone un disegno di legge con il duplice scopo di irrigidire la flessibilità in entrata, al fine di eliminare forme di falso lavoro autonomo e, al tempo stesso, di flessibilizzare la disciplina in uscita143, prevedendo per le fattispecie del licenziamento ingiustificato o la sanzione della reintegrazione o quella del risarcimento144.
La l. 28 giugno 2012 n.92, “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, conosciuta come riforma Fornero, è intervenuta a modificare in modo sostanziale (con l’art.1, comma 42) l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, segnando essenzialmente la fine, almeno per il settore privato, del dominio della tutela reale.
143 E’ stato rilevato come alla “stretta sulla flessibilità in entrata” sia corrisposta “una apertura sulla flessibilità in uscita, onde rendere le due tipologie privilegiate sufficientemente appetibili per l’imprenditoria e almeno parzialmente funzionali ad una mobilità fra insiders ed outsider”. Così X. XXXXXXX,Complimenti, dottor Xxxxxxxxxxxx:Il disegno di legge governativo in materia di riforma del mercato del lavoro, nella Relazione tenuta al Convegno “La riforma del mercato del lavoro”, 13 aprile 2012, Roma, Facoltà di Giurisprudenza, Università Roma Tre.
144 E’ bene ricordare come il Governo dell’epoca, presidiato da Xxxxx Xxxxx, operasse in un contesto storico in cui, a seguito della crisi del debito greco del 2010, la recessione stava penetrando sempre più anche in Europa occidentale. Tale sfavorevole contingenza portò all’adozione di misure di contenimento della spesa pubblica relativamente alla materia pensionistica (D.L. 6 dicembre 2011 n.201) e, successivamente, alla riforma delle tutele dei lavoratori: provvedimento, quest’ultimo, presentato come una delle condizioni da cui far dipendere la stessa permanenza in Europa del nostro Paese (L.92/2012).
Significativamente il primo intervento della riforma è sulla rubrica dell’articolo in esame, non più intitolata “Reintegrazione nel posto di lavoro” bensì “Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo”.
Il nuovo testo dell’art.18 prevede quattro tipi di rimedi in caso di illegittimità della sanzione espulsiva.
Il primo rimedio (c.d. tutela reale forte) è previsto dai primi tre commi del novellato art.18 nei casi di licenziamento dichiarato nullo o inefficace. Le ipotesi di nullità previste attengono al licenziamento discriminatorio145, a quello intimato in concomitanza con il matrimonio146 o in violazione delle norme a tutela della maternità e paternità147, nonché agli altri casi di nullità previsti dalla
145 La norma fa riferimento all’art.3 della l.n.108/1990. Questo a sua volta richiama l’art.4 della L.604/1966 - che definisce discriminatorio il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall'appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali – e l’art.15 dello Statuto dei lavoratori, che aggiunge i casi della partecipazione ad uno sciopero, della razza, lingua, sesso handicap, età, orientamento sessuale e convinzioni personali. La giurisprudenza ha inoltre equiparato al licenziamento discriminatorio quello per rappresaglia o ritorsione che “costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni” (Cass., sez. lav., 3 dicembre 2015, n.24648).
146 L’art.18 in commento rinvia per tale fattispecie all’art.35 del d.lgs. 198/2006 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), il cui terzo comma fissa la presunzione (relativa) che il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione stessa, sia stato disposto per causa di matrimonio. Presunzione che il datore di lavoro può superare offrendo la prova che il licenziamento sia invece dipeso da colpa grave costituente giusta causa, da cessazione dell’attività aziendale o da ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o, ancora, da scadenza del termine contrattuale. Dall’interpretazione letterale risulta quindi che la fattispecie in esame riguardi solo i dipendenti di sesso femminile. La giurisprudenza di merito ha peraltro offerto un’interpretazione della norma volta ad estendere la sua applicabilità anche ai lavoratori maschi, in ossequio del principio di parità di trattamento tra i sessi di cui alla direttiva n.76/207/CE (Trib. Milano, sentenza del 3 giugno 2014, Trib. Vicenza, ordinanza del 24 maggio 2017, Trib. Roma, sentenza del 16 gennaio 2017).
147 Il rinvio è qui alle disposizioni di cui all’art.54, commi 1, 6, 7 e 9, del d.lgs.151/2001 i quali prevedono il divieto di licenziamento per la lavoratrice madre dall’inizio della gravidanza al compimento di un anno di età del bambino (ad esclusione die casi di giusta causa, cessazione attività aziendale, scadenza del termine, mancato superamento del periodi di prova) nonché in caso di
legge o determinati da un motivo illecito determinante ai sensidell'articolo 1345
c.c. Il licenziamento inefficace è quello intimato in forma orale. In tali casi dunque (nullità o inefficacia) il legislatore del 2012 prevede l’obbligo di reintegra e, nei casi di nullità, altresì un risarcimento di natura economica consistente in un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento a quello della reintegra, dedotto quanto aliunde perceptum per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione, nella misura comunque non inferiore a cinque mensilità di retribuzione. In alternativa alla reintegrazione nel posto di lavoro (che deve comunque avvenire entro trenta giorni dall’invito del datore a riprendere servizio, pena la risoluzione del rapporto), il lavoratore può chiedere un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione di fatto. Il regime della tutela reale forte si applica a prescindere dal numero dei dipendenti ed anche ai lavoratori con la qualifica dirigenziale.
Una c.d. tutela reale attenuata è prevista dal combinato disposto del quarto, settimo e ottavo comma del novellato art.18. I casi in questione sono anzitutto quelli in cui il giudice annulla il licenziamento disciplinare intimato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto stesso è punito dai contratti collettivi o dai codici disciplinari con
domanda o fruizione del congedo parentale per malattia del figlio: disposizioni che si applicano anche in caso di affidamento.
una sanzione conservativa. Altra ipotesi è quella in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per motivo oggettivo consistente nella inidoneità fisica o psichica del lavoratore o per violazione dell’art. 2110 c.c. relativamente al periodo di comporto, ovvero la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento medesimo. Qui la sanzione prevista per il datore di lavoro è la reintegrazione del dipendente nonché il risarcimento consistente in un’indennità pari a massimo dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Anche nei casi in esame il lavoratore deve riprendere servizio, pena la risoluzione del rapporto di lavoro, entro trenta giorni dal relativo invito da parte del datore e può, in alternativa alla reintegra, optare per l’indennità pari a quindici mensilità dello stipendio. Si parla di tutela reale attenuata in riferimento alla sanzione del risarcimento: sia perché dallo stesso vengono detratte non solo le somme che il lavoratore ha eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività nel periodo di estromissione (come nel caso della tutela reale piena) ma altresì l’aliunde percipendum dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione, sia perché il risarcimento non può superare le dodicimensilità (mentre nel primo caso, disponendo la norma che non può essere inferiore a cinque mensilità, non esclude che il risarcimento superi le dodicimensilità). Inoltre in tal caso la tutela reale è accordata soltanto alle imprese che, come previsto dalla precedente
versione dello Statuto, occupino più di quindici lavoratori (o cinque se imprese agricole).
Dal combinato disposto dei commi 5, 7 e 8 è regolata la c.d. tutela obbligatoria piena (art.18, commi 5, 7 e 8), prevista quando il giudice annulla il licenziamento accertando che non ricorrono gli estremi (per motivi diversi dall’insussistenza del fatto contestato o della previsione di sanzione conservativa che integrano la tutela reale attenuata) della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo ovvero del giustificato motivo oggettivo per casi diversi da quelli previsti nei commi precedenti. Il lavoratore illegittimamente licenziato non gode della reintegra ma soltanto di un’indennità risarcitoria nella misura compresa da un minimo di dodici ad un massimo di 24 mensilità.
Una tutela obbligatoria ridotta è infine prevista dall’art.18, commi 6 e 8, quando il licenziamento viene dichiarato inefficace per difetto di motivazione o vizi nelle procedure di contestazione. La tutela è sempre e soltanto risarcitoria nella minore misura variabile da un minimo di sei ad un massimo di dodici mensilità.
Se, dunque, sino al 18 luglio 2012 (data di entrata in vigore della legge 92), ogni caso di licenziamento invalido veniva sanzionato, nelle imprese con certi limiti dimensionali, con la reintegrazione nel posto di lavoro, la c.d. riforma Fornero estende a tutti i lavoratori, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, la tutela reale in caso di licenziamento nullo o inefficace, e riduce il
campo di applicazione della tutela stessa nei casi di licenziamento c.d. disciplinare (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) illegittimo, prevedendola solo quando sia accertata l’insussistenza del fatto contestato 148 o vi siano disposizioni contrattuali che per il fatto stesso prevedono l’applicazione di sanzioni conservative. Anche per il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, la tutela reale residua, come visto, in limitate ipotesi.
La legge di riforma ha da subito posto un problema relativo all’applicabilità del nuovo art.18 dello Statuto al pubblico impiego.
Se infatti, da un lato, l’art.51, comma 2, del d.lgs.165/2001 dispone l’applicabilità dello Statuto (e delle successive modificazioni) ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l’art.1, comma 7, della l.n.92/2012, stabilisce che le disposizioni della novella, “per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri” per la regolazione dei suddetti rapporti Il successivo ottavo comma demanda all’iniziativa del Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione l’individuazione e la definizione, con il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, delle
148 La locuzione “insussistenza del fatto contestato”, di cui al novellato quarto comma dell’art.18, ha peraltro suscitato diversi dubbi interpretativi. La dottrina si è divisa tra coloro che sostengono la tesi del c.d. “fatto materiale”, per cui la fattispecie si realizzerebbe quando il fatto non sussiste nella sua materialità (tra gli altri X. XXXXXXX, Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori, in Riv.it.dir.lav. 2012, I, pag.437; X. XX XXXX XXXXXX, Il licenziamento disciplinare nel nuovo art. 18: una chiave di lettura, in Riv.it.dir.lav., 2012, II, pag.1067) e coloro che, invece, ritengono determinante la valutazione dell’elemento soggettivo (teoria del “fatto giuridico”). In tal senso cfr. X. XXXXXXXX, La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv.it.dir.lav., 2012, I, pag.553.
“modalità e (de)i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”149.
La mancata emanazione dei decreti attuativi ha riacceso un vecchio dibattito tra i sostenitori della tesi secondo la quale il rapporto di pubblico impiego, per aumentarne la produttività, deve essere governato dalle stesse regole di quello privato150 e coloro che, invece, difendono la specialità ontologica del settore, facendo leva sulla natura pubblica del datore di lavoro e sulle modalità di accesso all’impiego attraverso il pubblico concorso: in mancanza di giusta causa o di giustificato motivo il dipendente pubblico non può essere privato del posto di lavoro che ha meritato superando la procedura selettiva151.
I sostenitori della prima tesi, che rappresentano la dottrina maggioritaria, sono favorevoli all’immediata applicabilità del nuovo art.18 al pubblico impiego 152, facendo leva anzitutto sul richiamo dell’art.51, comma 2, del decreto n.165/2001 allo Statuto dei lavoratori e alle sue successive modificazioni, nonché sulla norma dettata dall’art.2, comma 2, del decreto 165 medesimo, che fissa la regola di carattere generale, secondo la quale al lavoro
149 E’ stato osservato come solo quando in prossimità della definitiva approvazione della legge 92/2012 fu ovviamente prospettata la sua applicabilità al pubblico impiego – “ciò che fece montare la protesta, sino a qual momento piuttosto tiepida, del mondo sindacale, che naturalmente avversava tale eventualità” - il legislatore corse ai ripari introducendo, nell’art. 1, “in maniera tanto frettolosa quanto ambigua, i commi 7 e 8”, GIUBBONI S. – COLAVITA A., op. cit., pag.4.
150 Cosı` M. D’ANTONA, La disciplina del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni dalla legge al contratto, in X. XXXXXX e X. XXXXXXX (a cura di), Opere, vol. IV, Milano, 2000, pagg. 175 e segg
151 Cfr., per tutti, X. XXXXXXX, Il sofisma della privatizzazionedel pubblico impiego, in Corriere Giur.,
1993, 4, pag. 403.
152 X. XXXXXXXX, Il diritto del lavoro … cit. pag.259.
pubblico contrattualizzato si applicano le disposizioni previste dal libro V del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa 153: trattasi della tecnica del rinvio mobile, che recepisce il contenuto di norme collocate in altre fonti adeguandosi automaticamente all’evoluzione delle medesime.
Alcuni autori154, giungono alle medesime conclusioni, sottolineando che per escludere i dipendenti pubblici dall’applicabilità dell’art.18 sarebbe stata necessaria un’apposita e specifica previsione di legge155.
Altra dottrina, nella stessa direzione, sostiene che l’art. 1, comma 7, è una norma generale, mentre l’art.51, comma 2 del d.lgs.165/2001, è una disposizione speciale, come tale destinata, anche se cronologicamente anteriore, a prevalere sull’altra, secondo il criterio lex posterior generalis non derogat legi priori speciali156.
Sempre tra i sostenitori dell’immediata applicabilità del novellato art.18 al pubblico impiego, alcuni ritengono che la ratio dell’estensione si colga nell’intentio operis della riforma, in quanto se la modifica del sistema dei
153 In tal senso X. XXXXXXXXX, Diritto del lavoro pubblico, Xxxxxxxxxxxx, Torino, 2012, pag.16.
154 X. XXXXXXX e X. XXXXXXXXX, Licenziamento riformato e pubblico impiego, articolo del 2 aprile 2013 in xxx.xxxxxxxxx.xx., pag.8.
155 Come, ad esempio, avvenuto con l’art.1, comma 2, del d.lgs.276/2003, recante “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”. La norma in questione espressamente dispone che “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”
156 X. XXXXXXXX, La legge n.92/2012 e il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in X. XXXXXXXXX
(a cura di), Riforma del lavoro. Tutte le novità introdotte dalla legge 28 giugno 2012 n.92, Xxxxxxx, Milano, 2012, pag.33
licenziamenti è finalizzato alla crescita, non si può tener fuori il settore pubblico in cui la produttività stenta a decollare: “non si può non riconoscere che escludere i dipendenti pubblici significherebbe ammettere che tutti i lavoratori sono uguali, ma i lavoratori pubblici sono più uguali degli altri”157
Viene inoltre evidenziato come la disciplina precedente della tutela reale contenuta nell’art.18 risulta espressamente sostituita dalla novella legislativa e, pertanto, il nuovo art.18 si applica anche ai pubblici dipendenti non essendo possibile la vigenza di due testi normativi 158.
I sostenitori della tesi contraria rilevano invece che il rinvio allo Statuto operato dal più volte richiamato art.51 del d.lgs. n.165/2001 sarebbe di natura materiale – ovvero al testo vigente al momento dell’approvazione del decreto 165- non essendo “ipotizzabile una lettura dell’art.51 volta a ipotecare, anche per il futuro, l’applicazione di ogni modifica alle norme dello Statuto al pubblico impiego”159.
La dottrina in esame sostiene che l’inciso “per quanto da esse non espressamente previsto” di cui all’art.1 comma 7 della l.n.92/2012 valga ad escludere che siano direttamente applicabili alla PA le nuove disposizioni
157 X. XXXXXXXXX, op. cit., pag.12.
158 Recita testualmente l’art.1, comma 42 lett.b), L.90/2012: i commi dal primo al sesto ( dell’art.18) sono sostituiti dai seguenti. V. in proposito X. XX XXXX, Riforma della tutela reale contro il licenziamento illegittimo e rapporto di lavoro privatizzato alle dipendenze di amministrazioni pubbliche: problemi e prospettive di coordinamento , in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 178/2013.
159 X. XXXXX, La legge Fornero e il rapporto di impiego pubblico, in LPA, n.5/2012.
contenute nella riforma, perché oggetto di futura armonizzazione: la norma in commento, evitando di precisare che la riforma non si applica ai rapporti dei dipendenti pubblici privatizzati, “lo dà per sottinteso” proprio quando afferma che le «disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione» di quei rapporti di lavoro. Secondo tale ricostruzione i commi 7 e 8 dell’art.1 della l.n.92/2012 manifestano l’intenzione del legislatore di varare successivamente un corpo di norme specifiche per il settore pubblico: nelle more resta vigente il testo dell’art.18 nella formulazione antecedente alla legge Fornero160. Vi sarebbe, dunque, una coesistenza tra il vecchio ed il nuovo testo dell’art.18 dello Statuto: il primo destinato a sopravvivere per il pubblico, il secondo che disciplina il privato.161 Il vecchio testo non sarebbe pertanto abrogato ma disapplicato ed espropriato del lavoro privato. L’intentio del legislatore sarebbe quella di accrescere, per il settore privato, il livello occupazionale con la flessibilità non più solo in entrata, ma anche in uscita162.
160 X. XXXXXXXXX, op. cit., pag.55.
161 In tal senso X. XXXXXXX, Pubblico impiego privatizzato … cit. pagg.27 e ss. e X. XXXXXXX, Art.18 St.lav per il pubblico impiego cercasi disperatamente, in LPA n.2/2012, il quale pone l’accento sulla coesistenza della vecchia e nuova disciplina, evidenziando una continuità tra la legge Biagi e la legge Fornero, ove entrambe mostrano di diversificare la disciplina del settore pubblico da quello privato, la cui ragione sarebbe rinvenibile nella forte inoccupazione giovanile che caratterizza il primo e nel sovrannumero di personale che caratterizza il secondo
162 Così X. XXXXXXX, E’ applicabile il novellato art.18 St. al pubblico impiego privatizzato? (Una domanda ancora in cerca di risposta), In XXX, 0000, fasc. 6, pagg..913 e ss.
Un terzo orientamento dottrinale, pur propendendo per l’immediata applicabilità dell’art.18 post Fornero al pubblico impiego privatizzato, ritiene che bisogna tenere in debito conto la specificità del settore. La tesi in questione163 prende le mosse dalla disposizione contenuta nell’art.2, secondo, comma, d.lgs.165/2001 che qualifica espressamente come norme imperative tutte le speciali disposizioni contenute nel decreto medesimo: imperatività ribadita dall’art.55 in relazione a tutta la disciplina legale del licenziamento. Da tale caratteristica deriva che tutti i licenziamenti non assistiti da giusta causa o da giustificato motivo violerebbero norme imperative e, pertanto, sarebbero nulli, con la conseguenza della tutela reintegratoria forte, in ogni caso, prevista dal nuovo art.18164.
I sostenitori dell’immediata applicabilità del testo riformato al pubblico impiego criticano la posizione di quanti invece ritengono ancora vigente il vecchio testo dell’art.18, affermando come nel nostro ordinamento non possono coesistere due versioni della stessa norma con differenti campi di applicazione in assenza di specifiche disposizioni in tal senso fornite dal legislatore. La soluzione al problema non può che trovare fondamento nel sistema delle fonti e, in particolare, nelle disposizioni contenute nell’art.15 delle disposizioni sulla
163 Sostenuta da X. XXXXXXX, La difficile convivenza tra il nuovo articolo 18 e il lavoro pubblico, in WP CSDLE “Xxxxxxx X’Xxxxxx”.IT – 170/2013.
164 In tale direzione, tra gli altri, anche X. XXXXXXXXX, L’art. 18 st. lav. e il pubblico impiego: breve (per ora) storia di un equivoco, in XXX, 0000, pag. 1019; R. DEL PUNTA,op. cit., pag.416.
legge in generale che individuano due tipologie di abrogazione: espressa e tacita. Quest’ultima si sostanzia in due sottotipi: quella per “incompatibilità” e quella per “nuova disciplina” la quale si ha quando nuove norme dispongono in una materia precedentemente regolata da altre leggi. Ed è proprio a questa categoria di abrogazione tacita che vanno ascritte le modifiche apportate dalla legge Fornero all’art.18 dello Statuto che, per questo motivo, non possono non ritenersi subito applicabili senza condizioni al pubblico impiego 165. Se il legislatore avesse voluto conservare la contemporanea vigenza di testi differenti della stessa legge avrebbe indicato, tramite disposizioni di carattere transitorio, il circoscritto campo di applicazione. Le vecchie disposizioni contenute nell’art.18 prima della riforma, valgono – ai sensi dell’art.11 delle preleggi - esclusivamente per il passato, cioè per il periodo antecedente alla data del 18 luglio 2012, per il principio tempus regit actum.
1.3 Le incertezze giurisprudenziali: la Cassazione ribalta il proprio orientamento
Il dibattito in ordine all’applicabilità del riformato art.18 dello Statuto dei Lavoratori al pubblico impiego contrattualizzato si è sviluppato, immancabilmente, anche in sede giurisdizionale.
165 In tal senso X. XXXXXXXX, La tutela da licenziamento illegittimo nel lavoro pubblico contrattualizzato: la Cassazione applica il nuovo testo dell’art. 18 l. n. 300/1970, una parte (minoritaria) della giurisprudenza di merito dissente, in Dir. lav. merc., 2016, 1, pagg. 165 e ss.
Una delle prime controversie si è svolta innanzi al Tribunale di Perugia166. La questione riguardava il licenziamento intimato per giusta causa ad un collaboratore scolastico, arrestato in flagranza per il delitto di detenzione di materiale pornografico realizzato con minorenni. Il ricorrente adiva le vie legali, con ricorso ex art.700 c.p.c., contestando la sanzione espulsiva sia in quanto ritenuta sproporzionata rispetto all’entità dell’illecito, sia perché adottata in violazione delle regole procedurali di cui all’art.55-bis d.lgs. 165/2001, con conseguente decadenza della potestà disciplinare. L’Avvocatura dello Stato, in difesa del MIUR, eccepiva l’inammissibilità del ricorso ex art.700 c.p.c., stante il suo carattere residuale rispetto al rito speciale introdotto dall’art.1, commi 47 e ss., della L.92/2012167 . Il giudice di prime cure, in accoglimento dei rilievi dell’Avvocatura, rigettava il ricorso del collaboratore, sostenendo l’applicabilità al pubblico impiego contrattualizzato della riforma Fornero. Il ricorrente reclamava avverso l’ordinanza dinanzi al medesimo Tribunale, in composizione collegiale, lamentando come il rinvio operato dall’art.51 del decreto n.165/2001 allo Statuto fosse riferito soltanto all’art.18 che, a sua volta, non conteneva alcun richiamo al nuovo rito speciale introdotto dalla l.n.92/2012. Il Collegio confermava il precedente provvedimento con una serie
166 Ordinanza del 9 novembre 2012 e, in seguito a reclamo, ordinanza del 15 gennaio 2013 in XXX,
0000, pagg.1117 e ss.
167 La riforma Fornero, oltre alla modifica dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori oggetto del prese nte lavoro, ha altresì introdotto un rito speciale da osservare in caso di licenziamento illegittimo.
di argomentazioni che, tra l’altro, propendevano per l’immediata applicabilità al pubblico impiego non solo del nuovo rito processuale, ma altresì del novellato art.18 dello Statuto. Per il Tribunale di Perugia, “accedendo alla tesi che vuole il nuovo art. 18 legge 300/1970 non applicabile al pubblico impiego, si violerebbe l’art. 51 comma 2 decreto lgs 165/2001, secondo il quale tale settore è disciplinato dalla legge 300/1970 come via via modificata”; l’art. 51 decreto n.165/2001 ha dunque realizzato una modifica dell’articolo 18, non certamente incidendo sul contenuto diretto di tale fonte normativa di cognizione, ma estendendo, per diretta statuizione normativa, il suo campo di applicazione al pubblico impiego. Per “modifica” normativa, secondo i giudici umbri, non si intende solo “la diretta modifica della fonte di cognizione, ma anche la modifica per altra via dell’ordinamento oggettivo generale che comporti variazione del suo contenuto o del suo ambito di applicazione”. Il Tribunale di Perugia sottolineava ancora come l’eventuale applicabilità del vecchio art. 18 avrebbe dovuto trovare titolo in una ipotetica abrogazione tacita parziale dell’art. 51, comma 2, d.lgs. 165/2001, con la espunzione nel rinvio mobile del solo art. 18 e non dell’intero Statuto dei Lavoratori: circostanza che non trova conferma in alcuna disposizione normativa. In mancanza di espresse indicazioni in tal senso da parte della l.n.92/2012, nonché di disposizioni di carattere transitorio che avrebbero consentito la sopravvivenza per il settore pubblico, nelle more dell’armonizzazione, del vecchio testo dell’art.18, non può dunque che
concludersi per l’applicabilità delle nuove norme sui licenziamenti anche ai pubblici dipendenti.
Nella stessa direzione si segnalano altre decisioni dei giudici di merito, di cui si riportano di seguito alcuni stralci significativi: “una lettura logico-sistematica dell’art. 1, 7°- 8° comma, l. n. 92, da un lato e degli art. 2, comma 2 e 51 comma 2, d.lgs. n. 165/2001, dall’altro, suggerisce (…) che le modifiche apportate all’art. 18 Statuto dei lavoratori, in quanto relative ad una norma già applicata al pubblico impiego, rappresentano giust’appunto un caso in cui le disposizioni della l. n. 92/2012 trovano immediata operatività nei confronti dei pubblici dipendenti senza alcuna necessità di previa armonizzazione”168; “non diversamente da quanto avviene in ogni caso di intervento legislativo modificativo, l’unico art. 18 in vigore da quel momento è dunque quello che risulta da tali modificazioni”169; si applica il nuovo testo dell’ art. 18 “a prescindere dalle iniziative di armonizzazione (…) riferibili a quegli istituti che ancora presentano parziali divergenze nel rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato tra i quali non è annoverabile l’ art. 18 st.lav.”170.
Sulla questione interviene la Suprema Corte con la sentenza n.24157, depositata in data 26 novembre 2015. La vicenda prende le mosse dal
168 Trib. Palermo, ordinanza 17 marzo 2014, in FI, 2014, pag.1478.
169 Trib. Torino, ordinanza 14 febbraio 2014.
170 Trib. Pavia, 6 novembre 2015, in DRI, 2016, p.247. Nella stessa direzione cfr. Trib. Santa Xxxxx Xxxxx Vetere 2 aprile 2013, in LG, 2013, p.624 e Trib. Bari, 14 gennaio 2013 secondo cui “l’art.51, comma 2, del d.lgs. n.165/2001 estende l’integrale applicazione dello Statuto dei lavoratori ed in particolare dell’art.18 alla P.A.” (in RIDL, 2013, II, pag.410).
licenziamento di un dirigente di un consorzio pubblico siciliano dichiarato illegittimo dal Tribunale di Agrigento perché comminato da un solo componente dell’ufficio disciplinare che, invece, è organo collegiale: i giudici ordinavano conseguentemente la reintegrazione nel posto di lavoro. La Corte di Appello di Palermo confermava il provvedimento di primo grado. Ricorreva in Cassazione il Consorzio: con il terzo motivo, in particolare, eccepiva la mancata applicazione del nuovo testo dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori che, per meri vizi formali del procedimento disciplinare, contempla la sola tutela indennitaria e non quella reintegratoria. Gli Ermellini, pur rigettando il ricorso171, affermano decisamente come sia “innegabile che il nuovo testo dell’art.18 (…) trovi applicazione ratione temporis al licenziamento di cui è processo (e, quindi, nel settore della PA) e ciò a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione”.
Secondo autorevole dottrina la Corte coglie decisamente nel segno laddove lascia intendere che, “fino a quando non ci sarà un organico intervento normativo in materia, la disciplina applicabile è costituita necessariamente dal nuovo testo dell’art. 18 cit., unica norma vigente nell’ordinamento giuridico a far data dall’entrata in vigore della legge n. 92/2012”172.
171 Nella fattispecie la Corte rileva come le norme procedurali violate nel caso concreto (art.55 bis, quarto comma, d.lgs. 165/2001) siano norme imperative. Violazione che concreta dunque un’ipotesi di nullità ai sensi del novellato art.18, primo comma, dello Statuto, con la conseguenza della tutela reintegratoria.
172 X. XXXXXXXX, op. ult. cit.
Nell’inerzia del legislatore, la giurisprudenza ha continuato nella sua opera ermeneutica e, con la sentenza della Cassazione, sez. lav., n. 11868 del 9 giugno 2016, ha ribaltato il citato orientamento.
Il caso riguardava un dipendente pubblico che, in ragione dell’assoluta incompatibilità tra prestazioni effettuate in varie occasioni nello stesso giorno in località diverse, veniva licenziato per giusta causa senza preavviso. Il Tribunale di Roma accoglieva il ricorso del dipendente, accertando che l’amministrazione aveva violato il principio della necessaria immutabilità della contestazione, in quanto il licenziamento era stato disposto in relazione ad episodi specifici non richiamati nella lettera di avvio del procedimento disciplinare: condannava pertanto la PA al pagamento dell’indennità ai sensi del sesto comma dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori come modificato dalla legge Fornero (tutela indennitaria debole)173.
Avverso tale sentenza proponevano reclamo sia l’Amministrazione – che
insisteva per la legittimità del licenziamento - sia il dipendente pubblico- che invocava la reintegra nel posto di lavoro. La Corte territoriale confermava la sentenza del giudice di prime cure e, quindi, l’illegittimità del licenziamento per vizi procedurali174, con condanna dell’amministrazione al pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura di sei mensilità.
173 V. supra pag.81.
174 La lettera di avvio del procedimento disciplinare non richiamava in alcun modo gli episodi contestati sui cui si fondava la sanzione espulsiva.
Entrambe le parti impugnavano la sentenza in Cassazione. La parte della sentenza di maggiore interesse circa il regime di tutela applicabile al dipendente pubblico in caso di licenziamento giudizialmente dichiarato illegittimo è quella in ordine ai motivi di ricorso incidentale del dipendente licenziato che, cercando di dimostrare l’insussistenza del fatto contestato, invocava la tutela reintegratoria, seppur debole, disposta dall’art.18 dello Statuto nel testo novellato dalla Legge Fornero.
La Corte richiama anzitutto il dibattito dottrinario, sviluppatosi in merito al campo di applicazione della l.n.92/2012 al pubblico impiego, tra i sostenitori del rinvio mobile alle disposizioni statutarie operato dall’art. 51 del d.lgs 165 del 2001 (da cui consegue l’uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato) e coloro che invece propendono per l’inapplicabilità della nuova disciplina al pubblico impiego, stante la specialità ontologica del settore, fino all’avvenuta armonizzazione di cui all’art.1, comma 8, della l.n.92/2012. I giudici fanno poi riferimento all’orientamento espresso nella citata sentenza n.24157/2015, sottolineando come in quell’occasione la Corte, pur facendo proprio il primo dei suddetti orientamenti, ha peraltro ”ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare” di cui al d.lgs.165/2001, la cui violazione, trattandosi di norme imperative, comporta la nullità del licenziamento e, conseguentemente,
l’applicazione della tutela reale forte di cui al primo e secondo comma del nuovo art.18 dello Statuto.
Ciò premesso, la sentenza in commento afferma decisamente che la tesi relativa all’applicabilità del nuovo testo dell’art.18 al settore pubblico deve essere disattesa “giacché plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dall’art. 2 del d.lgs n. 165 del 2001 ”. A sostegno delle proprie argomentazioni la Corte invoca anzitutto l’interpretazione letterale della L.92/2012, che nulla dicendo circa l’estensione al pubblico impiego delle proprie disposizioni, non può che applicarsi solo in seguito all’intervento di “armonizzazione” previsto dal comma 8 dell’art.1 Lo stesso dato testuale dell’art.1, comma, 1, della legge parrebbe tener “conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata”.
In secondo luogo gli Ermellini invocano ragioni di ordine logico sistematico,
rilevando come il nuovo art.18 “introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato”. La Corte osserva ancora come l’inapplicabilità della legge Fornero al pubblico impiego sia “particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento al solo art. 7 della legge n. 300 del 1970 e non agli
artt. 55 e 55 bis del d.lgs citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate ai sensi e per gli effetti degli artt. 1339 e 1419 e seguenti c.c.”.
La Cassazione richiama poi i principi fissati dalla Corte Costituzionale175 alla cui stregua mentre nell’impiego privato “il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi”.
Quanto alla tesi del rinvio mobile allo Statuto operato dall’art.51 del d.lgs. 165/2001 - sostenuta da coloro che propendono, invece, per l’applicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato – la Corte osserva come la norma in commento disponga comunque che lo Statuto stesso si applica a prescindere dal numero di dipendenti, con ciò volendo estendere la tutela reintegratoria anche in quei contesti in cui, per il numero esiguo di dipendenti (gli Ermellini citano ad esempio gli enti territoriali minori di limitate dimensioni), sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge
n. 604 del 1966: tale scelta limita il rinvio “mobile”, impedendo in tal modo l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la
175 Il riferimento è a Corte Cost.n.351 del 24 ottobre 2008.