Contract
IL DIRITTO CONTRATTUALE DÌ FONTE COMUNITARIA
La nozione di diritto contrattuale europeo acquista significati diversi secondo i contesti in cui viene usato. Le sue varianti riguardano il diverso modo di intendere la dimensione o qualificazione europea, i contenuti del diritto contrattuale, ma anche il metodo di esposizione, cioè il modo nel quale si può procedere ad illustrarne i significati e modalità operative. Tra le varie proposte di definizione:
• Diritto rappresentativo dei principali modelli
• Diritto primigenio
• Diritto contrattuale comunitario
La dottrina si cimenta nel dare al corpus di regole di fonte comunitaria un’interpretazione sistematica, procedendo per:
• Sintesi: enucleano i principi applicati in ambito nazionale e che talvolta trovano il loro omologo in un altro ambito nazionale, sicché si tende a considerare questi principi di livello “europeo”.
• Convergenza: è un tipo di ricerca che si focalizza su ciò che unisce gli ordinamenti e i giuristi che li praticano.
• Contrapposizione tra modelli: (frutto della teoria della concorrenza) sono modelli di illustrazione di una realtà che si vuole rappresentare frammentata in tanti modelli ciascuno dei quali ha vita propria e ciascuno di essi sfida l’altro. La vittoria è data dalla sua funzionalità e dalla sua convenienza dal punto di vista dell’operatore economico.
• Classificazione: cerca di creare una base su cui edificare regole comuni ai Paesi europei (è il metodo della Commissione europea)
• Codificazione: è il metodo proposto dal Parlamento europeo e dai gruppi di studio che si dedicano a ricerche di diritto contrattuale: un d. contrattuale inteso come set di regole comuni ai rapporti economici negoziali intrattenuti da operatori nell’ambito dell’UE.
Acquis communitaire: Il diritto contrattuale comunitario si compone di regole, prassi, sentenze cangianti nel tempo, provenienti da diversi modelli, inseriti nell’ambito delle fonti del d. comunitario e in seguito trasposte nell’ambito degli ordinamenti nazionali, ma non rivolte a disegnare una compiuta e organica disciplina contrattuale. Il diritto contrattuale comunitario nasce in un settore che riguarda la circolazione dei beni di consumo e alcune categorie di servizi e rivolto alla tutela dei consumatori. Ma poco a poco viene ampliato il suo raggio investendo settori diversi che vanno dalle clausole abusive alla garanzie nella vendita (ad es. ai contratti tra professionisti, e la subfornitura).
Principi cardine della disciplina dei contratti dei consumatori sono: efficacia della protezione e principio di informazione dei consumatori.
Il settore del diritto comunitario della concorrenza ha influenzato molto il diritto contrattuale, ad esempio nell’ambito della violazione di accordi e intese, abuso di posizione dominante, moral suasion (diretta alla negoziazione tra privati e autorità di controllo), espansione dei principi concorrenziali al di là dello specifico settore di appartenenza).
Armonizzazione: implica avvicinamento,coordinamento, ma non sovrapposizione né identità. E’ realizzata tramite la giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia (che ha
sancito l’applicabilità diretta delle direttive che sono state formulate in modo dettagliato e istituiscono d. in capo ai singoli, sono direttamente applicabili dal giudice nazionale e prevalgono sulle norme interne in contrasto con esse. L’applicabilità diretta funziona solo verticalmente, nei rapporti fra singoli e Stato. Altro scopo è il miglioramento dell’acquis comunitario per rendere le sue regole coerenti e di agevole applicazione nonché per aggiornarle secondo le esigenze di volta in volta espresse dai programmi di tutela degli interessi dei consumatori. Il miglioramento passa attraverso l’uniformazione della terminologia, l’elaborazione di principi generali, l’inserzione di regole in un quadro organico e la creazione di un codice comune europeo di diritto privato.
Vari interventi della Commissione:
• Approccio verticale: consiste nel rivedere singole direttive esistenti o nell’approvazione di nuovi atti normativi in settori specifici;
• Approccio orizzontale: consiste nell’adozione di strumenti quadro.
Interventi più rilevanti in ordine cronologico:
2001 questionario alle Istituzioni sul diritto contrattuale europeo; libro verde che riassume gli interventi già effettuati (cioè l’acquis), e si interroga sulla necessità di fare intervenire il legislatore comunitario o affidare la tutela del consumatore al mercato stesso.
2003 comunicazione della Commissione per creare un CFR (quadro comune di riferimento)
2004 comunicazione su “di diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis: prospettive per il futuro” (colmare le lacune, creare una terminologia unitaria, attuare le direttive).
La Commissione ha proposto di introdurre clausole standard; il Parlamento ha invece proposto l’adozione di un Codice Europeo non limitando l’armonizzazione al solo diritto contrattuale, e sostenendo che quest’ultima costituiva ostacolo alla protezione del consumatore.
I Governi, dal canto loro, invocano la sussidiarietà.
La Commissione Lando, nell’ambito dell’adozione graduale del Codice ha varato i “PDEC”.
Autonomia contrattuale, libertà di impresa e Costituzione europea
La Carta dei d. di Nizza si presenta come il nucleo di una vera e propria costituzione europea. La carta include i d. sociali e garantisce al consumatore nell’art.38 un elevato livello di protezione del consumatore, e ripudia la concezione molecolare dei diritti individuali. Dal punto di vista del d. privato, la Carta, incentrandosi sulla tutela della persona <<è uno strumento per la ricerca dei valori unitivi e per ridefinire i rapporti fra privati e fra questi e le Istituzioni in un ambito che supera i confini di ciascuno stato>>.
A seguito dell’approvazione della Carta di Nizza, in Italia si accese un aspro dibattito, dal momento che la Carta dei diritti di Nizza, non conteneva una norma esplicita che sancisse l’autonomia contrattuale, la quale era dunque deducibile soltanto dalla norma che garantiva la libertà di impresa.
Si è giunti alla conclusione che la carta incorpora valori e diritti che possono essere considerati come limiti esterni all’autonomia privata; si tratta di norme precettive, tra le quali vanno annoverate quelle che tutelano la dignità umana, la solidarietà, la buona fede, la proporzionalità, la ragionevolezza.
Secondo alcuni questi valori e diritti avrebbero contenuto vago e sono stati espressi dubbi sull’applicabilità della norma di chiusura sul divieto dell’abuso di diritto (art. 114, non compiere attività che contrastino con i diritti della Carta).
L’art. 16, indica invece i limiti interni (dati dal mercato) all’autonomia contrattuale e alla libertà di impresa:
• Diritto comunitario;
• Legislazioni nazionali;
• Prassi nazionali.
Tale articolo deve essere interpretato nel contesto della Carta, infatti la libertà di impresa può confliggere con alcuni diritti quali la tutela dell’ambiente, i diritti dei lavoratori, la protezione della vita privata e la dignità umana.
Le norme sulla formazione e sulla libertà di scelta non bastano a rendere paritetico il rapporto tra professionista e consumatore.
Le norme di libera concorrenza non escludono comunque interventi pubblici allo scopo di perseguire interessi generali, indispensabili per la tutela del consumatore.
Tra i limiti esterni (ossia i valori contenuti nel tessuto comunitario) inerenti ai rapporti professionista-consumatore, e anche tra due professionisti, vi è la correttezza.
La disciplina generale del contratto del consumatore: a) la nozione del consumatore
La categoria del contratto del consumatore si impernia sulla contrapposizione di due classi di soggetti distinte per capacità di incidere sulla predisposizione del regolamento contrattuale e sulla successiva esecuzione del rapporto: il professionista e il consumatore. La nozione di professionista contenuta nell’art 3 lett. c) della dir. 93/13 comprende le persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale e nel singolo intermediario. Il gruppo di imprese non può essere ricondotto alla nozione di professionista giacché si tratta di un aggregato di imprese che conservano la loro autonomia giuridica.
La figura del consumatore risulta controversa l’art. 2 lett. b, direttiva 93/13 designa il consumatore come qualsiasi persona fisica che agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività professionale.
Il consumatore viene individuato in negativo e su di una negazione non si costruisce uno status né si delinea una classe sociale. Di conseguenza il ripudio della concezione del consumatore come appartenente ad una classe sociale specifica ha suggerito l’abbandono ad una letture più soggettivistica per approdare ad una concezione orientata al sindacato in concreto dello scopo finale perseguito dalla controparte del professionista.
Tutto ciò ha portato ad un rivisitazione della normativa sul contratto del consumatore come disciplina dell’atto di consumo a prescindere dalla formale qualificazione soggettiva dei contraenti.
Sono determinanti al tal fine:
• l’interesse in concreto in vista del quale il contratto è concluso
• la condizione di assenza di forza contrattuale nel singolo caso
Sicché è legittimo considerare consumatore anche l’imprenditore individuale o il professionista mosso nella stipulazione del contratto dall’esigenza di appagare un bisogno di consumo.
La concezione oggettivistica incide sull’identificazione della finalità di consumo con la finalità di godimento individuale o familiare e consente di considerare tale qualsiasi scopo non strettamente collegato allo svolgimento della propria attività professionale o addirittura rispetto ad essa marginale.
Infatti anche il professionista persona fisica che acquisti un distributore di bevande per placare la sete dei propri dipendenti può essere considerato un consumatore.
Anche la Corte Europea di Giustizia di recente sembra essersi orientata in tal senso: << le regole di competenza stabilite dalla convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, concernenti la tutela giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale , devono essere interpretate nel modo seguente:
a)un soggetto che ha stipulato un contratto relativo ad un bene destinato ad uso in parte professionale ed in parte estraneo alla sua attività professionale non ha diritto di avvalersi del beneficio delle regole di competenza specifica previste in materia di contratti conclusi dai consumatori, a meno che l’uso professionale sia talmente marginale da avere un ruolo trascurabile nel contesto globale dell’operazione di cui trattasi essendo rilevante il fatto che predomini l’aspetto extraprofessionale. (USO PROMISCUO)
b)spetta al giudice stabilire se il contratto sia stato concluso per soddisfare esigenze attinenti all’attività professionale del soggetto ovvero se l’attività professionale riveste solo un ruolo marginale.
c)il giudice deve prendere in considerazione tutti gli elementi di fatto rilevanti mentre non deve tenere in conto circostanze ed elementi di cui la controparte avrebbe potuto prendere conoscenza al momento della conclusione del contratto a meno che il soggetto che fa valere lo status di consumatore si sia comportato in modo tale da far sorgere legittimamente l’impressione nella controparte contrattuale di agire con finalità professionali.
L’estensione della categoria del consumatore agli enti risulta problematica a causa dello stringente vincolo del testo dell’art 2 lett. b) dir. 93/13. Dalla definizione di consumatore si delinea chiaramente la ratio di circoscrivere la figura alle sole persone fisiche. Lo ha ribadito più volte la Corte Europea di Giustizia ( C-541/99 e C-542/99 ) secondo cui la nozione di consumatore non può che riguardare una persona fisica. (in Inghilterra la cassazione ha esteso la nozione di consumatore al piccolo imprenditore e ha esteso la disciplina sul credito al consumo anche agli enti privi di personalità giuridica. Sono considerati consumatori gli enti no-profit o i piccoli imprenditori in UK, Spagna, Grecia.
La Corte Costituzionale italiana ha inaugurato un orientamento contrario all’ampliamento della nozione di consumatore al di là delle persone fisiche. ( Corte cost. 30 giugno 1999 n. 282; 22 novembre 2002 n.469).
Il consumatore esperto cioè un acquirente del bene o del servizio dotato di un grado di preparazione tecnica pressappoco simile a quella del venditore/fornitore può essere considerato consumatore e quindi meritevole di tutela? Infatti se i profili dell’interesse e dell’assenza di forza contrattuale, concorrono all’identificazione della figura di consumatore, se ne dovrebbe escludere la ricorrenza nell’ipotesi dell’acquirente esperto, per assenza del divario di competenze e dello squilibrio nella detenzione delle informazioni che connota la relazione fra il professionista e il consumatore. Tale soluzione appare troppo rigorosa e sembrerebbe tradire la ratio della disciplina delle clausole vessatorie che
consiste nella predisposizione di regole di riequilibrio del contratto ancorate ad una presunzione astratta di disparità di potere contrattuale che si ricava dal fatto oggettivo del compimento di un atto di consumo e prescinde dalle qualità soggettive dell’autore.
b) il contratto con asimmetrie di potere contrattuale
Il contratto tra consumatore e professionista costituirebbe il paradigma di un modello generale definibile come contratto con asimmetrie di potere contrattuale, caratterizzato dal peculiare potere del giudice di influire sull’equilibrio dell’accordo per porre rimedio alla disparità economica e potere contrattuale fra le parti; strumentale a tale modello è la tendenza ad ampliare la nozione di consumatore.
Tutto ciò spinge a proporre un nuovo paradigma generale di contratto definito come << contratto con asimmetria di potere contrattuale>>.
Il legislatore comunitario ha prescelto una tecnica normativa che, ha rinunziato al carattere della generalità scegliendo come fattore di agglutinamento una particolare categoria di atti negoziali: gli atti di consumo.
L’asimmetria del potere contrattuale è uno schema adottato dal nostro c.c., agli artt. 1447-1448 sulla rescissione, 1425 e ss. sui vizi della volontà e, per analogia legis, la disciplina del contratto del consumo si può estendere ai rapporti tra imprese caratterizzati da disparità contrattuale.
Valutare il significativo squilibrio di diritti e obblighi, frutto di una condotta contro buona fede, è criterio assunto nella disciplina delle clausole abusive, dai PDEC e dai principi Unidroit.
L’invocazione della buona fede nei PDEC e nei principi di Unidroit, secondo la dottrina italiana, è eccessiva, ma sarebbe giustificata in quanto la buona fede avrebbe funzione di riequilibrio in via di autointegrazione, operando con la volontà delle parti, come avviene del diritto italiano per gli aspetti accessori del contratto. Per altra dottrina, invece, sarebbe strumento di eterointegrazione operando con riferimento a standard mercantili, come il prezzo e l’equilibrio ottenibile in un mercato comparabile, ma perfettamente concorrenziale.
In tal modo si configurerebbe un contratto suscettibile di un eccessivo controllo giudiziale e un’eccessiva limitazione dell’autonomia privata.
Le clausole abusive
Le clausole abusive di diritto comunitario sono distinguibili dalle clausole vessatorie previste dal codice civile (art. 1341.2 e 1469 bis).
La disciplina sulle clausole abusive è contenuta nella direttiva n. 93/13, che presenta tre caratteristiche fondamentali:
1. Si applica a tutti i contratti del consumatore;
2. Si occupa di regole esistenti negli ordinari c.c. e codice del commercio;
3. Presuppone molte nozioni di diritto contrattuale.
Oltre ai generici ambiti di applicazione (i contratti tra professionista e consumatore, e tra professionisti), è applicabile ai contratti per adesione:
• Contratti predisposti da soggetti terzi che hanno messo in circolazione il formulario contrattuale adottato dal professionista e sottoposto al consumatore;
• Contratti predisposti dal contraente più forte, formulato in modo da far assumere al consumatore il ruolo di offerente;
• Contratti stipulati da un intermediario;
• Contratti predisposti in parte dal professionista e contenente clausole aggiunte negoziate dal consumatore.
La direttiva ricorre al parametro della buona fede ai fini di controllo del contratto, infatti affida al giudice il compito di valutare la vessatorietà della singola clausola tramite il ricorso alla buona fede, ossia alla correttezza e al leale comportamento delle parti (s’intende la parte che ha predisposto il testo).
Il riferimento alla buona fede è stato mal tradotto dal legislatore italiano: “la vessatorietà si misura sullo squilibrio contrattuale in danno del consumatore, malgrado il requisito della buona fede”. Il legislatore italiano ha operato una torsione della buona fede da oggettiva a soggettiva (ignoranza del professionista di ledere l’altrui diritto), rendendo inutile il riferimento.
La direttiva introduce il criterio dell’equilbrio tra le posizioni giuridiche delle parti: l’equilibrio deve essere inteso in senso normativo ossia equilibrio tra d. e obblighi , e non in senso economico (opportunità dell’affare), tranne nel caso in cui il corrispettivo non sia espresso in modo chiaro; in quest’ultimo caso, infatti, è in gioco la trasparenza del rapporto, dal momento che il consumatore non può avvedersi dell’onere contrattuale. Lo squilibrio tra diritti e obblighi deve essere significativo, e il giudice deve valutare che il regolamento contrattuale, nel suo complesso, non pregiudichi il consumatore; nel far ciò opera un raffronto del contratto in concreto esaminato con un modello astratto di contratto equilibrato. La direttiva consente di individuare clausole indefettibilmente vessatorie, e clausole presuntivamente tali (fatta salva la prova del professionista). Inoltre specifica che non sono considerabili vessatorie quelle che hanno ad oggetto il ricorso ai sistemi di composizione stragiudiziale delle controversie.
La combinazione dei due criteri di buona fede e squilibrio normativo, consente la determinazione di un effetto che la buona fede in senso oggettivo da sola non produrrebbe, ossia l’inefficacia relativa (o la nullità relativa, xx xxx. 00 xxx xxx. xxx xxxxxxx) xxxxx xxxxxxxx. (NULLITA’ Di PROTEZIONE)
La direttiva insiste sulla trasparenza (criterio noto alla dottrina italiana e tedesca come elemento accessorio) sotto il duplice profilo dell’intellegibilità della clausole e della completezza delle informazioni dovute al consumatore prima della conclusione del contratto (tali informazioni possono essere contenute anche in allegati al contratto). L’art.
4 estende la sanzione della vessatorietà anche all’oggetto del contratto se esso non è indicato in modo chiaro.
L’art. 5 prevede la regola dell’ ”interpretatio contra proferentem” (in caso di dubbio sul senso di una clausola prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore), e l’art. 6 prevede il principio della conservazione del contratto (il contratto resta vincolante tra le parti se può sussistere senza le clausole abusive).
L’art. 8, è una norma di chiusura, prevede che gli Stati possano mantenere o adottare misure più severe, compatibili col Trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore.
Il secondo comma dell’art. 6 impegna gli Stati membri, nel caso in cui il contratto presenti un legame stretto con il territorio di uno Stato membro, a prendere le misure necessarie affinché il consumatore non sia privato della protezione nel caso in cui scelga di applicare al contratto la legislazione di un Paese terzo.
Ogni Stato detta dei congegni tecnici per rendere non vincolanti le clausole abusive. In Italia, a tale scopo, è stato inserito nel c.c. l’art. 1469 quinquies, che ha introdotto la figura della legittimazione relativa riservata al consumatore, la rilevabilità d’ufficio da parte del giudice (nel solo interesse del consumatore), la parzialità in quanto “il contratto rimane efficace per il resto”.
Il c.c. invece di fare riferimento alla nullità parziale (che prevede all’art. 1419) ha disciplinato il caso come un’ipotesi delle nullità di protezione consacrate dall’acquis communitaire (nuova figura di invalidità).
Vi sono stati tentativi di estensione della nullità di protezione all’ambito dei rapporti tra imprese (per esempio nel caso di abuso di posizione dominante oggi è prevista la sanzione del risarcimento del danno), ma ciò si scontra con la generale obiezione della tassatività e non è una soluzione adeguata in quanto non garantisce sempre il ripristino delle condizioni del corretto gioco concorrenziale.
La direttiva indica anche una tutela processuale e introduce un procedimento monitorio in cui le associazioni dei consumatori, dei professionisti e altri enti individuati (dai legislatori nazionali) possono proporre un azione inibitoria contro le clausole vessatorie. In Italia gli artt. 139 e ss. del cod. cons. disciplinano la possibilità di proporre un tentativo di conciliazione volontaria dinanzi la Camera di Commercio, industria, artigianato e agricoltura competente per territorio , può essere comunque proposto sia prima che dopo l’azione inibotoria, e in quest’ultimo caso solo dal professionista convenuto.
L’attuazione della direttiva ha comportato il diffondersi di un controllo di MORAL SUASION, infatti le associazioni dei consumatori hanno stipulato, con i singoli operatori (specialmente con Banche e Assicurazioni) dei protocolli d’intesa volti a bonificare i moduli contrattuali, e le Camere di Commercio hanno segnalato le clausole abusive.
b) Negoziazione porta a porta, a distanza, online
Per contratti “conclusi fuori dai locali commerciali” si intendono, ai sensi della direttiva 85/577, i contratti di vendita o fornitura di beni o servizi accumunati dalla circostanza che il negozio si conclude, ad esempio, al domicilio del consumatore o sul posto di lavoro, o ancora su “catalogo” (in tal caso il contratto è altresì “a distanza” e si applica la disciplina più favorevole al consumatore).
Per contratti “a distanza” si intendono, ai sensi della direttiva 97/7 i contratti di vendita o fornitura di beni di consumo o di servizi diversi da quelli finanziari, accumunati dalla circostanza che durante le trattative, e per la conclusione del contratto, il professionista utilizza una tecnica di comunicazione a distanza (telefono, fax).
La direttiva 00/31 disciplina “i contratti per via elettronica” (9/12)
Sono riconosciuti al consumatore vari diritti di informazione e il recesso di pentimento entro 10 gg.; con le decorrenze che variano a seconda del tipo di contratto, e in particolare la mancata informazione determina l’allungamento dei termini.
Art. 65. Decorrenze
1. Per i contratti o le proposte contrattuali negoziati fuori dei locali commerciali, il termine per l'esercizio del diritto di recesso di cui all'articolo 64 decorre:
a) dalla data di sottoscrizione della nota d'ordine contenente l'informazione di cui all'articolo 47 ovvero, nel caso in cui non sia predisposta una nota d'ordine, dalla data di ricezione dell'informazione stessa, per i contratti riguardanti la prestazione di servizi ovvero per i contratti riguardanti la fornitura di beni, qualora al consumatore sia stato preventivamente mostrato o illustrato dal professionista il prodotto oggetto del contratto;
b) dalla data di ricevimento della merce, se successiva, per i contratti riguardanti la fornitura di beni, qualora l'acquisto sia stato effettuato senza la presenza del professionista ovvero sia stato mostrato o illustrato un prodotto di tipo diverso da quello oggetto del contratto.
2. Per i contratti a distanza, il termine per l'esercizio del diritto di recesso di cui all'articolo
64 decorre:
a) per i beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore ove siano stati soddisfatti gli obblighi di informazione di cui all'articolo 52 o dal giorno in cui questi ultimi siano stati soddisfatti, qualora cio' avvenga dopo la conclusione del contratto purche' non oltre il termine di tre mesi dalla conclusione stessa;
b) per i servizi, dal giorno della conclusione del contratto o dal giorno in cui siano stati soddisfatti gli obblighi di informazione di cui all'articolo 52, qualora cio' avvenga dopo la conclusione del contratto purche' non oltre il termine di tre mesi dalla conclusione stessa.
3. Nel caso in cui il professionista non abbia soddisfatto, per i contratti o le proposte contrattuali negoziati fuori dei locali commerciali gli obblighi di informazione di cui all'articolo 47, ovvero, per i contratti a distanza, gli obblighi di informazione di cui agli articoli 52, comma 1, lettere f) e g), e 53, il termine per l'esercizio del diritto di recesso e', rispettivamente, di sessanta o di novanta giorni e decorre, per i beni, dal giorno del loro ricevimento da parte del consumatore, per i servizi, dal giorno della conclusione del contratto.
4. Le disposizioni di cui al comma 3 si applicano anche nel caso in cui il professionista fornisca una informazione incompleta o errata che non consenta il corretto esercizio del diritto di recesso.
5. Le parti possono convenire garanzie piu' ampie nei confronti dei consumatori rispetto a quanto previsto dal presente articolo.
Art. 64. Esercizio del diritto di recesso
1. Per i contratti e per le proposte contrattuali a distanza ovvero negoziati fuori dai locali commerciali, il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza specificarne il motivo, entro il termine di dieci giorni lavorativi, salvo quanto stabilito dall'articolo 65, commi 3, 4 e 5.
2. Il diritto di recesso si esercita con l'invio, entro i termini previsti dal comma 1, di una comunicazione scritta alla sede del professionista mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. La comunicazione può essere inviata, entro lo stesso termine, anche mediante telegramma, telex, posta elettronica e fax, a condizione che sia confermata mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento entro le quarantotto ore successive; la raccomandata si intende spedita in tempo utile se consegnata all'ufficio postale accettante entro i termini previsti dal codice o dal contratto, ove diversi. L'avviso di ricevimento non e', comunque, condizione essenziale per provare l'esercizio del diritto di recesso.
3. Qualora espressamente previsto nell'offerta o nell'informazione concernente il diritto di recesso, in luogo di una specifica comunicazione e' sufficiente la restituzione, entro il termine di cui al comma 1, della merce ricevuta.
Art. 55. Esclusioni
1. Il diritto di recesso previsto agli articoli 64 e seguenti, nonché gli articoli 52 e 53 ed il comma 1 dell'articolo 54 non si applicano:
a) ai contratti di fornitura di generi alimentari, di bevande o di altri beni per uso domestico di consumo corrente forniti al domicilio del consumatore, al suo luogo di residenza o al suo luogo di lavoro, da distributori che effettuano giri frequenti e regolari;
b) ai contratti di fornitura di servizi relativi all'alloggio, ai trasporti, alla ristorazione, al tempo libero, quando all'atto della conclusione del contratto il professionista si impegna a fornire tali prestazioni ad una data determinata o in un periodo prestabilito.
2. Salvo diverso accordo tra le parti, il consumatore non può esercitare il diritto di recesso previsto agli articoli 64 e seguenti nei casi:
a) di fornitura di servizi la cui esecuzione sia iniziata, con l'accordo del consumatore, prima della scadenza del termine previsto dall'articolo 64, comma 1;
b) di fornitura di beni o servizi il cui prezzo e' legato a fluttuazioni dei tassi del mercato finanziario che il professionista non e' in grado di controllare;
d) di fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente personalizzati o che, per loro natura, non possono essere rispediti o rischiano di deteriorarsi o alterarsi rapidamente;
d) di fornitura di prodotti audiovisivi o di software informatici sigillati, aperti dal consumatore;
e) di fornitura di giornali, periodici e riviste;
f) di servizi di scommesse e lotterie.
La disciplina dei contratti conclusi fuori dai locali commerciali si dedica prevalentemente all’informazione sul diritto di recesso:
Art. 47. Informazione sul diritto di recesso
1. Per i contratti e per le proposte contrattuali soggetti alle disposizioni della presente sezione, il professionista deve informare il consumatore del diritto di cui agli articoli da 64 a 67.
L'informazione deve essere fornita per iscritto e deve contenere:
a) l'indicazione dei termini, delle modalità e delle eventuali condizioni per l'esercizio del diritto di recesso;
b) l'indicazione del soggetto nei cui riguardi va esercitato il diritto di recesso ed il suo indirizzo o, se si tratti di società o altra persona giuridica, la denominazione e la sede della stessa, nonché l'indicazione del soggetto al quale deve essere restituito il prodotto eventualmente già consegnato, se diverso.
2. Qualora il contratto preveda che l'esercizio del diritto di recesso non sia soggetto ad alcun termine o modalità, l'informazione deve comunque contenere gli elementi indicati nella lettera b) del comma 1.
3. Per i contratti di cui all'articolo 45, comma 1, lettere a), b)
e c), qualora sia sottoposta al consumatore, per la sottoscrizione, una nota d'ordine, comunque denominata, l'informazione di cui al comma 1 deve essere riportata nella suddetta nota d'ordine, separatamente dalle altre clausole contrattuali e con caratteri tipografici uguali o superiori a quelli degli altri elementi indicati nel documento. Una copia della nota d'ordine, recante l'indicazione del luogo e della data di sottoscrizione, deve essere consegnata al consumatore.
4. Qualora non venga predisposta una nota d'ordine, l'informazione deve essere comunque fornita al momento della stipulazione del contratto ovvero all'atto della formulazione della proposta, nell'ipotesi prevista dall'articolo 45, comma 2, ed il relativo documento deve contenere, in caratteri chiaramente leggibili, oltre agli elementi di cui al comma 1, l'indicazione del luogo e della data in cui viene consegnato al consumatore, nonche' gli elementi necessari per identificare il contratto. Di tale documento il professionista puo' richiederne una copia sottoscritta dal consumatore.
5. Per i contratti di cui all'articolo 45, comma 1, lettera d), l'informazione sul diritto di recesso deve essere riportata nel catalogo o altro documento illustrativo della merce o del servizio oggetto del contratto, o nella relativa nota d'ordine, con caratteri tipografici uguali o superiori a quelli delle altre informazioni concernenti la stipulazione del contratto,
contenute nel documento.
Nella nota d'ordine, comunque, in luogo della indicazione completa degli elementi di cui al comma 1, puo' essere riportato il solo riferimento al diritto di esercitare il recesso, con la specificazione del relativo termine e con rinvio alle indicazioni contenute nel catalogo o altro documento illustrativo della merce o del servizio per gli ulteriori elementi previsti nell'informazione.
6. Il professionista non potra' accettare, a titolo di corrispettivo, effetti cambiari che abbiano una scadenza inferiore a quindici giorni dalla stipulazione del contratto e non potra' presentali allo sconto prima di tale termine.
Contratti a distanza Art. 50 Definizioni
1. Ai fini della presente sezione si intende per:
a) contratto a distanza: il contratto avente per oggetto beni o servizi stipulato tra un professionista e un consumatore nell'ambito di un sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato dal professionista che, per tale contratto, impiega esclusivamente una o piu' tecniche di comunicazione a distanza fino alla conclusione del contratto, compresa la conclusione del contratto stesso;
b) tecnica di comunicazione a distanza: qualunque mezzo che, senza la presenza fisica e simultanea del professionista e del consumatore, possa impiegarsi per la conclusione del contratto tra le dette parti;
c) operatore di tecnica di comunicazione: la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, la cui attivita' professionale consiste nel mettere a disposizione dei professionisti una o piu' tecniche di comunicazione a distanza.
Art. 51. (1) Campo di applicazione
1. Le disposizioni della presente sezione si applicano ai contratti a distanza, esclusi i contratti:
a) relativi ai servizi finanziari di cui agli articoli 67-bis e seguenti del presente Codice;
b) conclusi tramite distributori automatici o locali commerciali automatizzati;
c) conclusi con gli operatori delle telecomunicazioni impiegando telefoni pubblici;
d) relativi alla costruzione e alla vendita o ad altri diritti relativi a beni immobili, con esclusione della locazione;
e) conclusi in occasione di una vendita all'asta.
(1) Articolo così modificato dal decreto legislativo 23 ottobre 2007, n. 221.
Art. 52.Informazioni per il consumatore
1. In tempo utile, prima della conclusione di qualsiasi contratto a distanza, il consumatore deve ricevere le seguenti informazioni:
a) identita' del professionista e, in caso di contratti che prevedono il pagamento anticipato, l'indirizzo del professionista;
b) caratteristiche essenziali del bene o del servizio;
c) prezzo del bene o del servizio, comprese tutte le tasse e le imposte;
d) spese di consegna;
e) modalita' del pagamento, della consegna del bene o della prestazione del servizio e di ogni altra forma di esecuzione del contratto;
f) esistenza del diritto di recesso o di esclusione dello stesso, ai sensi dell'articolo 55, comma 2;
g) modalita' e tempi di restituzione o di ritiro del bene in caso di esercizio del diritto di
recesso;
h) costo dell'utilizzo della tecnica di comunicazione a distanza, quando e' calcolato su una base diversa dalla tariffa di base;
i) durata della validita' dell'offerta e del prezzo;
l) durata minima del contratto in caso di contratti per la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi ad esecuzione continuata o periodica.
2. Le informazioni di cui al comma 1, il cui scopo commerciale deve essere inequivocabile, devono essere fornite in modo chiaro e comprensibile, con ogni mezzo adeguato alla tecnica di comunicazione a distanza impiegata, osservando in particolare i principi di buona fede e di lealta' in materia di transazioni commerciali, valutati alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori particolarmente vulnerabili.
3. In caso di comunicazioni telefoniche, l'identita' del professionista e lo scopo commerciale della telefonata devono essere dichiarati in modo inequivocabile all'inizio della conversazione con il consumatore, a pena di nullita' del contratto. In caso di utilizzo della posta elettronica si applica la disciplina prevista dall'articolo 9 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70.
4. Nel caso di utilizzazione di tecniche che consentono una comunicazione individuale, le informazioni di cui al comma 1 sono fornite, ove il consumatore lo richieda, in lingua italiana. In tale caso, sono fornite nella stessa lingua anche la conferma e le ulteriori informazioni di cui all'articolo 53.
5. In caso di commercio elettronico gli obblighi informativi dovuti dal professionista vanno integrati con le informazioni previste dall'articolo 12 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70.
Art. 53. Conferma scritta delle informazioni
1. Il consumatore deve ricevere conferma per iscritto o, a sua scelta, su altro supporto duraturo a sua disposizione ed a lui accessibile, di tutte le informazioni previste dall'articolo 52, comma 1, prima od al momento della esecuzione del contratto. Entro tale momento e nelle stesse forme devono comunque essere fornite al consumatore anche le seguenti informazioni:
a) un'informazione sulle condizioni e le modalita' di esercizio del diritto di recesso, ai sensi della sezione IV del presente capo, inclusi i casi di cui all'articolo 65, comma 3;
b) l'indirizzo geografico della sede del professionista a cui il consumatore puo' presentare reclami;
c) le informazioni sui servizi di assistenza e sulle garanzie commerciali esistenti;
d) le condizioni di recesso dal contratto in caso di durata indeterminata o superiore ad un anno.
2. Le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai servizi la cui esecuzione e' effettuata mediante una tecnica di comunicazione a distanza, qualora i detti servizi siano forniti in un'unica soluzione e siano fatturati dall'operatore della tecnica di comunicazione. Anche in tale caso il consumatore deve poter disporre dell'indirizzo geografico della sede del professionista cui poter presentare reclami.
Art. 54. Esecuzione del contratto
1. Salvo diverso accordo tra le parti, il professionista deve eseguire l'ordinazione entro trenta giorni a decorrere dal giorno successivo a quello in cui il consumatore ha trasmesso l'ordinazione al professionista.
2. In caso di mancata esecuzione dell'ordinazione da parte del professionista, dovuta alla indisponibilita', anche temporanea, del bene o del servizio richiesto, il professionista, entro
il termine di cui al comma 1, informa il consumatore, secondo le modalita' di cui all'articolo 53, comma 1, e provvede al rimborso delle somme eventualmente gia' corrisposte per il pagamento della fornitura.
Salvo consenso del consumatore, da esprimersi prima o al momento della conclusione del contratto, il professionista non puo' adempiere eseguendo una fornitura diversa da quella pattuita, anche se di valore e qualita' equivalenti o superiori.
Commercio elettronico: disciplinato dal d.lgs. 70/03
Art. 12 (Informazioni dirette alla conclusione del contratto)
1. Oltre agli obblighi informativi previsti per specifici beni e servizi nonché a quelli stabiliti dall'articolo 3 del decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 185, il prestatore, salvo diverso accordo tra parti che non siano consumatori, deve fornire in modo chiaro, comprensibile ed inequivocabile, prima dell'inoltro dell'ordine da parte del destinatario del servizio, le seguenti informazioni :
a. le varie fasi tecniche da seguire per la conclusione del contratto;
b. il modo in cui il contratto concluso sarà archiviato e le relative modalità di accesso;
c. i mezzi tecnici messi a disposizione del destinatario per individuare e correggere gli errori di inserimento dei dati prima di inoltrare l'ordine al prestatore;
d. gli eventuali codici di condotta cui aderisce e come accedervi per via telematica;
e. le lingue a disposizione per concludere il contratto oltre all'italiano;
f. l'indicazione degli strumenti di composizione delle controversie.
2. Il comma 1, non è applicabile ai contratti conclusi esclusivamente mediante scambio di messaggi di posta elettronica o comunicazioni individuali equivalenti.
3. Le clausole e le condizioni generali del contratto proposte al destinatario devono essere messe a sua disposizione in modo che gli sia consentita la memorizzazione e la riproduzione.
Art. 8 (Obblighi di informazione per la comunicazione commerciale)
1. In aggiunta agli obblighi informativi previsti per specifici beni e servizi, le comunicazioni commerciali che costituiscono un servizio della società dell'informazione o ne sono parte integrante, devono contenere, sin dal primo invio, in modo chiaro ed inequivocabile, una specifica informativa, diretta ad evidenziare:
a. che si tratta di comunicazione commerciale;
b. la persona fisica o giuridica per conto della quale è effettuata la comunicazione commerciale;
c. che si tratta di un'offerta promozionale come sconti, premi, o omaggi e le relative condizioni di accesso;
d. che si tratta di concorsi o giochi promozionali, se consentiti, e le relative condizioni di partecipazione.
Art. 9 (Comunicazione commerciale non sollecitata)
1. Fatti salvi gli obblighi previsti dal decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 185 e dal decreto legislativo 13 maggio 1998, n. 171, le comunicazioni commerciali non sollecitate trasmesse da un prestatore per posta elettronica devono, in modo chiaro e inequivocabile, essere identificate come tali fin dal momento in cui il destinatario le riceve e contenere
l'indicazione che il destinatario del messaggio può opporsi al ricevimento in futuro di tali comunicazioni.
2. La prova del carattere sollecitato delle comunicazioni commerciali spetta al prestatore.
Art. 13 (Inoltro dell'ordine)
1. Le norme sulla conclusione dei contratti si applicano anche nei casi in cui il destinatario di un bene o di un servizio della società dell'informazione inoltri il proprio ordine per via telematica.
2. Salvo differente accordo tra parti diverse dai consumatori, il prestatore deve, senza ingiustificato ritardo e per via telematica, accusare ricevuta dell'ordine del destinatario contenente un riepilogo delle condizioni generali e particolari applicabili al contratto, le informazioni relative alle caratteristiche essenziali del bene o del servizio e l'indicazione dettagliata del prezzo, dei mezzi di pagamento, del recesso, dei costi di consegna e dei tributi applicabili.
3. L'ordine e la ricevuta si considerano pervenuti quando le parti alle quali sono indirizzati hanno la possibilità di accedervi.
4. Le disposizioni di cui ai commi 2 e 3 non si applicano ai contratti conclusi esclusivamente mediante scambio di messaggi di posta elettronica o comunicazioni individuali equivalenti.
Una tale previsione induce a domandarsi se l’innovazione di una condotta ulteriore rispetto alle consuete cadenze delle fasi immediatamente precedenti e immediatamente successive alla formazione del consenso, valga a modificate il procedimento di conclusione del contratto informatico, introducendo una peculiare modalità di perfezionamento dell’accordo, destinata quindi a ridimensionare la fedeltà ai modelli codicistici, proclamata al comma1, oppure imporre un primo ed inderogabile atto di esecuzione del contratto che consiste nell’adempimento dell’obbligo legale di documentazione dell’accordo appena concluso e dei suoi contenuti essenziali.
L’art. 16 del d.lgs. 190/05, applicabile ai contratti a distanza e a quelli conclusi fuori dai locali commerciali, prevede che il contratto è nullo nel caso in cui il fornitore ostacola l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente, ovvero non rimborsa le somme da questi eventualmente pagate, ovvero viola gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche.
Si applicano le normali regole codicistiche circa il perfezionamento del contratto e l’obbligo del professionista di accusare ricevuta dell’ordine di acquisto non costituisce una deroga.
Non esiste uno specifico modo di conclusione del contratto telematico: alcuni casi possono ricollegarsi a schemi codicistici; si applicano invece regole più restrittive per i servizi finanziari, ad esempio la nullità nel caso in cui si ostacoli il diritto di recesso.
Rimangono esclusi dall’applicazione della disciplina dei contratti stipulati fuori dai locali commerciali i contratti relativi a beni immobili, contratti di fornitura di generi alimentari.
La Corte di giustizia ha fissato alcuni principi in tema di credito fondiario nella sent. HEINIRGER, e nel caso XXXXXXX ET XXXXXXX (vedi FF).
Gli altri istituti desumibili dai contratti speciali
Accanto alla disciplina sulle clausole vessatorie, il diritto privato di fonte comunitaria regola specifiche figure contrattuali (ad es. il contratto di multiproprietà, il contratto di pacchetto turistico e il contratto di credito al consumo), ha ampliato alcuni istituti già esistenti e ha introdotto nuovi istituti inediti a prevalente vocazione rimediale (ad es. le garanzie nella vendita di beni di consumo) ovvero procedimenti di formazione (la vendita a distanza).
Gli istituti a vocazione generale desumibili dalle normative di settore sono:
• I doveri di informazione: che investono sia la fase precontrattuale sia quella del perfezionamento, sia quella dell’esecuzione. In caso di violazione non vi sono sanzioni generali ma misure specifiche (es. allungamento del termine di recesso). Il vuoto di disciplina nell’intervento comunitario e il silenzio del legislatore italiano ha indotto la dottrina e la giurisprudenza ad interrogarsi sulle conseguenze della violazione di tali doveri: secondo alcuni sono collocabili nella fase delle trattative, per altri sono inderogabili (nullità relativa), per altri ancora si collocano nella fase della formazione della volontà (annullamento per vizi del consenso, errore).
La tesi prevalente oggi ritiene che detta violazione sia configurabile come inadempimento, quindi sia una vicenda propria del rapporto contrattuale, sicché la reazione più adeguata è la risoluzione del contratto. Detta tesi lascia al consumatore la scelta tra risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni con restituzione di quanto eventualmente ricevuto e il solo risarcimento del danno col trattenimento delle prestazioni già eseguite. Per la Cassazione è più conveniente chiedere il risarcimento del danno, ad es. per il consumatore risparmiatore.
• Gli oneri formali: inizialmente riguardavano prevalentemente i contratti relativi ai beni immobili, ora sono rivolti a tutelare il consumatore o l’investitore nei casi di contratti di finanziamento o di assicurazioni. La nuova finalità si collega soprattutto al connubio della forma con i doveri legali di informazione, e determina una reviviscenza dei vincoli formali (il c.d. neoformalismo di protezione). E’ lecito parlare di forma con finalità di informazione. Al riguardo è paradigmatica la disciplina relativa ai contratti di multiproprietà, pacchetto turistico e vendita di beni di consumo, che piegano i vincoli formali alle esigenze di trasparenza e informazione.
La forma assurge ad un duplice ruolo: di documentazione e di informazione. La forma informativa può concorrere con quella scritta, come un requisito essenziale del contratto; e la cui violazione comporta nullità di protezione. Ciò è previsto per la multiproprietà e il pacchetto turistico, mentre la forma informativa e la forma ab sustantiam non convivono nella disciplina dei contratti stipulati fuori dai locali commerciali e dei contratti a distanza, dov’è previsto il dovere di fornire per iscritto le informazioni relative al diritto di recesso, anche se il contratto viene concluso oralmente o per facta concludenda.
• Il recesso di pentimento (entro 10 gg.): strumento di autotutela per ovviare alla velocità degli scambi e valutare l’opportunità delle scelte effettuate. A differenza del recesso convenzionale, ex art. 1373 c.c., è fonte legale attivabile anche se è iniziata l’esecuzione, è ad nutum e non comporta costi al consumatore (tranne il rimborso spese).
Per i contratti fuori dai locali commerciali i 10 gg. divengono 60 se il professionista non ha dato le informazioni sul recesso; nel caso della multiproprietà, divengono tre mesi.
La disciplina del pacchetto turistico prevede il diritto di recesso in due ipotesi specifiche: quando la revisione al rialzo del prezzo forfettario del pacchetto turistico risulta superiore al 10% del costo originale; e quando prima della partenza l’organizzatore propone la modifica di uno degli elementi del contratto e provvede a comunicare la variazione del prezzo che il consumatore rifiuta.
In entrambi i casi il consumatore ha diritto (come nell’ipotesi di cancellazione del pacchetto prima della partenza) di usufruire di un altro pacchetto equivalente o di qualità superiore senza supplemento del prezzo, o di qualità inferiore ma con la restituzione della differenza di prezzo; oppure ha diritto al rimborso entro 7gg. lavorativi dal recesso o dalla cancellazione della somma di denaro già anticipata.
Il Testo Unico Bancario (TUB) assegna al consumatore il diritto di recedere entro 15 gg. dai contratti di credito al consumo a seguito dell’esercizio del ius variandi da parte del creditore o della modificazione unilaterale in peius dei prezzi, dei tassi e delle altre condizioni contrattuali.
• La nullità di protezione: è il rimedio posto a presidio del contenuto minimo ed inderogabile del contratto del consumatore, ed è volta a reagire all’introduzione delle clausole abusive non fatte oggetto di trattative individuali o appartenenti, nel diritto italiano, alla c.d. black list.
E’ una forma di nullità relativa e parziale poiché azionabile solo dal consumatore e rilevabile d’ufficio dal giudice ma solo nell’interesse di quest’ultimo, inoltre è destinata ad investire solo la parte del regolamento contrattuale o le singole clausole contra legem. ( es. art. 36 cod. cons. in materia di clausole abusive; l’art 78 cod. cons. In materia di multiproprietà).
La disciplina comunitaria della vendita dei beni di consume ha introdotto un nuovo parametro ossia il criterio di conformità al contratto che è volto a verificare se vi sia stata o meno la violazione del regolamento contrattuale e quindi della c.d. xxx contractus.(artt. 128 e ss. del cod. cons.)
• C.d. garanzia di conformità che è preordinata al ripristino della conformità tramite riparazione o sostituzione del bene viziato. È rivolta a verificare se vi è stata violazione del contratto; è dunque inderogabile a tutela del consumatore, per cui le clausole contrarie non sono vincolanti. Il parametro di conformità al contratto si iscrive nella tendenza del diritto privato di fonte comunitaria a fissare il contenuto minimo del contratto. Tale contenuto dell’accordo è rimesso all’autonomia delle parti, e i parametri di conformità previsti dall’art. 129 cod. cons. hanno carattere sussidiario ed intervengono in assenza di un’adeguata descrizione del bene.
• La garanzia di conformità si sostanzia nel riconoscimento al consumatore della facoltà di domandare al venditore in via stragiudiziale due diverse classi di rimedi ordinate secondo un sistema gerarchico :
Ripristino della conformità tramite riparazione o sostituzione, a scelta del consumatore, sempre che il rimedio chiesto non sia oggettivamente impossibile o eccessivamente oneroso;
Riduzione del prezzo o risoluzione, se le prime non sono possibili o eccessivamente onerose, o non sono state effettuate entro un termine congruo, o ancora abbiano arrecato notevoli inconvenienti.
L’AUTONOMIA CONTRATTUALE E LA LEGGE
Premessa. La dottrina italiana che le norme più recenti in materia di disciplina del contratto di derivazione comunitaria sono finalizzate a perseguire obiettivi minimi di tutela di specifiche categorie di contraenti, con il duplice corollario di: a) inderogabilità delle loro prescrizioni; b) incremento quantitativo delle norme imperative all’interno dei singoli ordinamenti nazionali. Il caso più palese di norme di derivazione comunitaria, che introducono meccanismi di protezione di particolari categorie di contraenti è quello dei contratti dei consumatori utilizzando tre particolari tecniche a tutela del consumatore: la previsione della nullità,l diritto di recesso accordato al contraente da tutelare, e la previsione di norme imperative.
Le norme di origine comunitaria sbilanciano l’equilibrio delle fonti di integrazione del contratto in favore delle norme imperative.
Xxxxxx indagando sul rapporto tra autonomia contrattuale e legge all’interno di un contesto privo di quel reticolo normativo che sarebbe ineludibile ai fini del discorso. Possiamo fare riferimento ai PDEC e al Codice Europeo dei Contratti. I PDEC non ignorano le norme imperative pur configurandole in termini diversi da quelli che si potrebbero delineare all’interno di un sistema normativo. Il Codice Europeo dei Contratti, all’art. 2.1, prevede che “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto, entro limiti imposti dalle norme imperative, dal buoncostume e dall’ordine pubblico, quali definiti nel presente codice, nel diritto comunitario o nelle leggi nazionali degli Stati membri dell’UE, purché non perseguano unicamente lo scopo di nuocere ad altri”.
I rapporti tra autonomia privata e Costituzione europea.
Si riscontra la crisi della teoria dei controlimiti: adesso i valori costituzionali e i limiti all’autonomia privata sono sanciti dalla CEDU e richiamati dalle sentenze delle Corti nazionali. La CEDU, si è erroneamente affermato, attribuirebbe rilevanza solo alle manifestazioni dell’autonomia privata, che più si collegano allo sviluppo della personalità umana e che dunque sono all’origine delle formazioni sociali (es. matrimoni, famiglie, sindacati).
Invece il riconoscimento della libertà di impresa, art. 16 CEDU, e la tutela del consumatore, art.38, dimostrano che anche se manca un esplicito riconoscimento dell’autonomia privata, questa ha rilevanza costituzionale di per sé. Anche la Costituzione italiana, con l’art. 41, effettua un riconoscimento diretto (“l’iniziativa economica privata è libera”).
L’autonomia privata alla quale la Carta attribuisce rilevanza è quella non abusiva.
Il controllo di razionalità e buona fede è attuato dal giudice in luogo della legge. Si riconosce autonomia privata non solo alla parte forte ma anche alla parte debole (è un concetto bilaterale, infatti l’autonomia privata evoca la posizione di entrambe le parti in quanto il contraente debole è tutelato con la compressione della posizione del contraente forte), e in quest’ottica si rivela infondata la critica mossa alla Carta di non aver previsto la priorità sulla libertà di impresa della tutela dell’ambiente e dei consumatori, perchè dalla sua lettura complessiva si capisce che l’autonomia privata si legittima solo ove non determini la sopraffazione dell’altra parte.
L’art. 54 CEDU (divieto di abuso del diritto) è stato oggetto di critiche imperniate sulla considerazione che la stessa esprime il generale ed ovvio principio che i comportamenti
lesivi degli altrui diritti sono illeciti. La previsione dell’abuso del diritto è in grado di inserire una robusta iniezione di contenuti nel complesso dei principi contenuti nella Carta, in quanto la regola in materia di abuso del d. insieme al principio di solidarietà è destinata ad incrementare lo scenario in materia di buona fede e i modi d’uso di tale clausola generale. Poiché l’inserimento di tali regole all’interno di una Carta dei d. fondamentali consente di attribuire al divieto di abuso del diritto il valore di coordinata fondamentale di cui l’interprete dovrà avvalersi in sede di interpretazione della legge.
E’ possibile sostenere che il disegno dei rapporti tra carta dei diritti ed autonomia privata evoca un modello di autonomia privata costituzionalmente corretta, realizza l’imposizione su ciascuna parte dei costi che consentono all’altra parte di esercitare in maniera consapevole e piena la propria autonomia.
Le tecniche di intervento legale: leggi, usi ed equità sono le fonti di integrazione sia del nostro diritto (art. 1374 c.c.), sia del diritto europeo. Il diritto comunitario prevede anche, tra le tecniche di intervento legale, le nullità e il diritto di recesso, che non sono tecniche integrative.
L’ordinamento comunitario ridefinendo il sistema delineato dall’art. 1374 costituisce una fonte di integrazione dell’autonomia privata superiore alla legge ordinaria ed inferiore ai principi costituzionali e ai diritti inviolabili della persona, anche se esso stesso non è qualificabile come parametro di costituzionalità, in quanto si tratta di ordinamenti distinti. Nell’ambito delle norme comunitarie diverse incidenze hanno le norme del Trattato (che si rivolgono agli Stati), i regolamenti (il contratto conforme ad essi ma contrario alle legislazioni nazionali rimane comunque valido), le direttive (efficacia diretta solo verticale, ossia invocabili se sufficientemente precise e incondizionate e se lo Stato è inadempiente. In questa ultima ipotesi lo Stato sopporterà l’obbligo risarcitorio se la direttiva non è attuata, e non è in alcun modo inciso l’atto di autonomia privata). Il giudice nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, deve interpretare il diritto nazionale quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva.
Le ipotesi di inderogabilità assoluta a tale proposito è importante ricordare il dibattito svoltosi in Italia sull’attuazione delle dir. 99/44 in materia di tutela dell’acquirente dei beni di consumo. Il problema specifico circa la portata degli attuali artt. 134 e 135 del cod. cons. e ai rapporti fra la previsione normativa di imperatività della disciplina, corredata da una previsione di NULLITA’ di PROTEZIONE , e la regola che fa salvi i diritti attribuiti al consumatore da altre norme dell’ordinamento giuridico. Il tema dei rapporti fra legge ed autonomia privata deve essere visto dal punto di vista del diritto europeo e anche alla luce delle relazioni fra singolo atto di autonomia privata ed il mercato. Contratto e mercato sono due categorie che esprimono punti di vista diversi rispettivamente quello atomistico e globale della medesima realtà. La disciplina del diritto europeo si configura secondo moduli di inderogabilità che fanno comunque salva la possibilità di un intervento dei contraenti al fine di individuare una disciplina che introducendo una regolamentazione di maggior favore per la parte beneficiaria della protezione di legge innalzi gli obiettivi di tutela avuti di mira dalla norma. Il valore della forza di legge del contratto si pone come recessivo rispetto a quello della tutela del consumatore. Da questo punto di vista il dlgs. 190/2005 in attuazione della dir. 02/65 sulla commercializzazione a distanza di servizi finanziari dove l’attribuzione al consumatore del diritto di recesso è rafforzata dalla previsione di irrinunciabilità dei diritti attribuiti al consumatore ed è anche sanzionata dalla nullità del contratto nel caso in cui il fornitore ostacola l’esercizio del diritto di recesso da parte del contraente.
Le norme imperative sono più numerose nel diritto UE di quelle dispositive e suppletive: si tratta però in molti casi di una inderogabilità relativa, perché il legislatore e le parti possono individuare una disciplina che alzi i livelli di tutela previsti dalla norma (sia la legge nazionale che il singolo contratto, collettivo o individuale che sia), come avviene nell’ambito della direttiva 99/44.
Rare sono le ipotesi di integrazione del contratto con norme derogabili suppletive, quali quelle in materia di GEIE (gruppo europeo di interesse economico).
La fisionomia del contratto di diritto europeo è sempre più costellata da ipotesi di attribuzioni di poteri di recesso e di pentimento: le norme in passato servivano ad evitare vincoli perpetui, oggi invece sono poste a tutela dei contraenti deboli (maggior tutela è prevista nel caso di contratti di servizi finanziari, infatti se ostacolato l’esercizio del diritto di recesso, è prevista la sanzione della nullità).
Le fonti in formazione del diritto privato europeo rapportate all’autonomia privata
Le fonti in formazione sono i PDEC e il Codice Europeo dei contratti.
Per l’applicazione del Codice non è necessaria una previsione esplicita; i PDEC sono applicati quando le parti convengono di inserirli nel contenuto contrattuale oppure quando convengono che il contratto sia disciplinato dai principi generali di diritto, dalla lex mercatoria o hanno usato espressione analoga, oppure quando non hanno scelto altro sistema di regole o altre norme per disciplinare il contratto e possono fornire una soluzione alla controversia.
Dette fonti costituiscono un utile riferimento ermeneutico, e non sono vincolanti in assenza di un’esplicita scelta delle parti. In esse numerose sono le norme imperative: nel Codice attengono più che altro alla forma e alla struttura del contratto, oltre che ai limiti di validità dell’obbligo di non alienare e alla prescrizione.
Nei PDEC sono imperative le norme attinenti a buona fede e correttezza. La clausola generale di buona fede ha sia una funzione integratrice che correttiva; si può derogare solo nelle sue singole applicazioni concrete.
Inoltre imperative sono:
• le regole sull’efficacia e sull’interpretazione delle clausole che non abbiano costituito oggetto di trattativa individuale, in particolare della clausola di omnicomprensività (che sancisce l’inefficacia di clausole e promesse antecedenti e non menzionate nel contratto). La ratio che sembra emergere è quella di proteggere l’affidamento della parte meno avveduta;
• le regole relative al prezzo equo e la clausola alternativa in sostituzione di prezzi manifestamente iniqui, determinati da una parte;
• principi che rendono impossibile escludere o limitare tutele previste in caso di dolo, violenza, ingiusto profitto, vantaggio iniquo e clausola abusiva non oggetto di trattativa individuale. Nel caso di errore e di informazioni inesatte, l’inderogabilità non è assoluta ma circoscritta alle ipotesi di esclusioni e limitazioni che siano contrarie a buona fede e correttezza.
• le norme che prevedono la riduzione della somma penale se manifestamente eccessiva rispetto alla perdita per inadempimento o per altre circostanze.
Anche per PDEC (principi di diritto europeo contrattuale) valgono le stesse conclusioni sull’autonomia privata traibili dalla Carta dei diritti: autonomia privata e valore costituzionale purché non sia abusiva.
LA RESPONSABILITA’ PRECONTRATTUALE
Il primo apparire della responsabilità contrattuale: la culpa in contraendo. Figura disegnata da Xxxxxxx nel XIX secolo. Nel nostro c.c. è disciplinata dagli artt. 1337- 1338. Art. 1338 c.c. “la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato , senza sua colpa nella validità del contratto”. Art. 1337 c.c. “le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”.
La responsabilità precontrattuale è stata introdotta per dare forma giuridica alle situazioni di danno che possono verificarsi nella fase preparatoria al contratto, in primo luogo alle situazioni di danno patrimoniale.
Il fondamento di tale responsabilità non fu visto la buona fede ma la colpa, come la denominazione data da Xxxxxxx alla figura nuova da lui scoperta: culpa in contraendo. Per Xxxxxxx tutta la responsabilità, di qualsiasi specie non poteva avere altro fondamento che la colpa. La novità di X. stava nell’ipotesi dannosa estranea al novero della responsabilità o forse non ancora messa in evidenza. Infatti essa risulta estranea alla responsabilità extracontrattuale per la natura meramente patrimoniale del danno e alla responsabilità contrattuale perché a causa della stessa invalidità il contratto non fornisce fondamento ad azione alcuna.
J. richiama le fonti romane (actio empti) per sostenere che anche da un contratto nullo
derivano alcuni effetti: l’obbligazione è un rapporto complesso che può produrre effetti secondari (obbligo di risarcimento del danno), a prescindere dall’obbligo principale della prestazione.
Dalla contraddizione Jheringhiana di un obbligo contrattuale nascente da un contratto nullo, si sviluppa la teoria del rapporto precontrattuale come rapporto obbligatorio che nasce ex lege all’instaurarsi delle trattative ed è volto a tutelare in chiave obbligatoria la sfera giuridica dell’altro contraente.
Un ampio dibattito è sorto in ordine alla natura di tale responsabilità: per X. è una responsabilità contrattuale.
A detta tesi sono state mosse alcune critiche:
• il contratto è invalido e quindi incapace di produrre effetti. J. risponde che l’invalidità comporta solo assenza dell’obbligo di prestazione, ma gli ulteriori effetti permangono;
• se il contratto non viene concluso, manca la responsabilità.
Si sviluppa così la teoria della natura ex lege obbligatoria del rapporto precontrattuale; J. parlava di una culpa in abstracto come fondamento di tale responsabilità, si tratta di una colpa “in non faciendo”, ossia una responsabilità che nasce dal non fare il dovuto. In questo modo diventano oggetto di diligenza non soltanto le situazioni soggettive esistenti, ma pure quelle che con il nuovo contratto si intendono creare.
La teoria della responsabilità precontrattuale nasce nel 1911 in seguito alla lesione subita da un cliente per la caduta accidentale di un rotolo durante la visione di una merce in un negozio; in particolare si è operata l’estensione della resp. precontrattuale come resp. di natura contrattuale, al danno riguardante la salute e la proprietà dell’altra parte. Il rapporto in questione non nasce dal contratto ma dall’affidamento nel quale il principio di
buona fede lo radica; di conseguenza il rapporto precontrattuale viene ampliato e riorientato.
La teoria del rapporto precontrattuale nasce come rapporto quasi contrattuale fondato sull’affidamento o direttamente sulla legge (come in Germania) e non sulla colpa. È presente in re ipsa il vincolo di buona fede (e nessun altro criterio di imputazione) che se rotto comporta resp. e risarcimento; solo nella resp. extracontrattuale vi è riferimento alla colpa in quanto non vi è un vincolo o una relazione tra le parti.
La culpa in contrahendo, nell’originaria versione di X., trova oggi il suo luogo di maggior significato nei contratti con i consumatori (settore più sensibile al problema dell’informazione orientata e alla conclusione onesta).
La rottura scorretta delle trattative.
Nei primi del ‘900, Xxxxxxxx, scopre un secondo filone della resp. precontrattuale: la rottura scorretta delle trattative.
La correttezza delle trattative investe prevalentemente i contratti commerciali e quelli tra parti di pari capacità contrattuale, nei quali tipicamente la stipulazione del contratto è preceduta da una fase più o meno elaborata di trattative, le quali tipicamente mancano nei contratti con i consumatori.
Faggellaesclude che il fondamento della responsabilità per il ritiro intempestivo dalle trattative sia la colpa , ma nella sua tesi emerge il dogma della volontà: si passa dalla colpa come fondamento unico della responsabilità alla volontà come radice del negozio giuridico. Xxxxxxxx sostiene che alla base della responsabilità per recesso scorretto delle trattative sta l’accordo a trattare, consenso che << contiene nella sua essenza l’obbligazione tacita di risarcire il trattante delle spese effetteve e del costo del lavorio preparatorio precontrattuale>> .
Il merito di questa tesi consista nell’avere ampliato l’ambito della responsabilità precontrattuale anticipando sino al momento delle trattative una responsabilità che prima coincideva con la formulazione della proposta dove le trattative hanno già trovato un punto ben individuabile di coagulo.
Relativamente al recesso scorretto dalle trattative, due sono le prospettive fondamentali:
• prospettiva soggettiva: viola la buona fede e risponde del danno causato colui che inizia le trattative inizia e le prosegue senza l’intenzione di concludere il contratto
• prospettiva oggettiva: viene rimesso al giudice il compito di accertare se la condotta del recedente era costitutiva di un affidamento nella futura conclusione del contratto, poi smentito.
La tesi soggettiva sembra aver trovato conferma nei PDEC art. 2:301 << in particolare, è contrario all buona fede e alla correttezza iniziare le trattative o continuarle in assenza di una effettiva volontà di raggiungere un accordo con l’altra parte>> ; ma ben vedere i Principi trasformano questa che sarebbe la prospettiva soggettiva in quella che è chiamata oggettiva, dato che nel commento all’art. parlano di falsa rappresentazione della realtà e induzione dell’altra parte a credere che la prima intenda concludere il contratto. Si può concludere che è la violazione dell’affidamento che, stante il principio di buona fede, contrasta con esso e genera responsabilità. Contraddittoriamente, i PDEC, sembravano contenere argomenti a favore di entrambe le tesi.
La resp. precontrattuale, in relazione al principio di buona fede è ammessa negli USA, ma è ancora esclusa nel Common law europeo, che non l’ha recepita espressamente, ma chiaramente non può essere negata la buona fede soprattutto se richiamata in una
clausola. Il problema è fino a che punto la libertà delle parti può essere considerata causa di giustificazione relativamente al danno arrecato all’altro contraente durante le trattative. L ‘atteggiamento dominante nel Common law ingleseè che la libertà di contrarre trova un limite nella resp. aquiliana e dunque nel divieto di cagionare agli altri un danno ingiusto con dolo o colpa; anche un’informazione erronea o incompleta non è fonte di resp. fino a quando l’informazione stessa non si innesti in una cornice di affidamento. I PDEC parlano di “tradimento della confidenza” quando una delle parti profitta delle informazioni confidenziali ricevute dall’altra nel corso delle trattative e prevedono l’obbligo di risarcire la perdita e restituire il vantaggio indebitamente conseguito (restituzione del profitto). In questa ipotesi si tratta di affidamento violato: è la condotta di colui che ha fatto tesoro dell’affidamento dell’altra parte fino al punto di approfittarne, infatti oltre al risarcimento è prevista la restituzione del profitto.
La natura contrattuale della responsabilità precontrattuale e le incomprensioni della Corte europea di giustizia nel caso Xxxxxxx x. Xxxxxx.
Tutti coloro che hanno approfondito l’aspetto teorico della responsabilità precontrattuale ne hanno affermato al natura xxxxxxxxxxxx.Xx natura contrattuale della responsabilità precontrattuale è affermata da alcuni studiosi (J. e Xxxxxxx) mentre, altri sostengono si tratti di responsabilità extracontrattuale.
Nel caso XXXXXXX vs. XXXXXX (2002), erroneamente, la Corte di Giustizia, ritenendo che non vi sia contratto finché non sia stato concluso, ha qualificato la responsabilità precontrattuale come extracontrattuale, non ritenendo possibile individuare un contratto nella fase delle trattative, in realtà la contrattualità non va riferita all’atto, ma al rapporto. Il punto di partenza è che entrare nelle trattative significa per ciascuna delle parti accettare il rischio dei costi necessari a giungere alla conclusione del contratto. Di conseguenza ciascuna parte sa che intraprendere una trattativa può comportare una perdita patrimoniale che essa deve imputare a se stessa come costo derivante dall’esercizio della libertà contrattuale di ambedue. Considerando pure la condotta di una parte come esercizio della libertà di contrarre o non contrarre il danno che ne sia derivato all’altra parte diventa rilevante quando la condotta risulti difforme da quella dovuta in funzione di evitare il danno. L’obbligo di contrarre in buona fede non oblitera la libertà di contrarre ma il semplice esercizio del diritto non ne giustifica la violazione e il danno arrecato in violazione dell’obbligo va risarcito.
Tale concezione è anche alla base del nostro artt. 1328 c.c. (revoca della proposta e accettazione) <<la proposta può essere revocata finché il contratto non sia concluso, ma se l’accettante ha intrapreso in buona fede l’esecuzione prima di avere notizia della revoca il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata esecuzione del contratto>>.
Qualificando come contrattuale la responsabilità da scorrettezza nelle trattative l’idea è ch una responsabilità possa esserci per un danno cagionato durante le trattative e tale responsabilità non può che essere contrattuale. Quindi l’alternativa non è tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, ma tra responsabilità e non responsabilità.
Quest’ultima è predicabile solo ove non vi siano limitazioni al principio della libertà di contrarre (common law), e non in ordinamenti come il nostro dove invece alla libertà di contrarre si aggiunge quella di farlo in buona fede.
Invece il regolamento 07/864 afferma la natura extracontrattuale, però poi applica la legge che si sarebbe applicata al contratto se questo fosse stato concluso, e detto esito è paradossale, perché il collegamento è un contratto non concluso.
Risarcimento del danno
La responsabilità precontrattuale riferita al contratto invalido o, come accade nelle trattative scorrettamente interrotte, mai concluso, ha una portata diversa da quella da inadempimento, benché ne condivida la natura in quanto responsabilità fondata sulla violazione di obblighi.
In quanto contrattuale, la responsabilità precontrattuale rende risarcibile un danno che consiste nella pura perdita patrimoniale (ossia non qualificato da ingiustizia). Si tratta di tutti i costi strumentali alla stipulazione dei quali si rileva un’ingiustificata inutilità che una condotta secondo buona fede avrebbe consentito all’altra parte di evitare. Inoltre dato chela trattativa genera un affidamento e quindi una situazione relazionale anche il danno derivante dalle offese che costituirebbero ingiustizia e darebbero adito a responsabilità extracontrattuale è altresì risarcibile a titolo di responsabilità precontrattuale . Quest’ultimo consiste nell’interesse a non entrare in trattative inutili e alla protezione e non invasione della propria sfera giuridica (che presiede la responsabilità extracontrattuale). L’interesse positivo consiste nell’aspettativa all’adempimento e nasce dall’inattuazione del rapporto obbligatorio.
Obblighi di informazione
L’informazione costituisce la materia prima della buona fede precontrattuale. Oggetto dell’obbligo di informazione sono: i dati di fatto importanti per la decisione contrattuale dell’altra parte, cause di invalidità del contratto, contenuto del contratto (se professionista), diritti attribuiti dalla legge al contraente debole (ad es. il diritto di recesso).
L’informazione diviene vera e propria prestazione accessoria, non più frutto dell’osservanza di un obbligo di protezione. Talora in caso di difformità è prevista la sanzione della nullità. L’informazione diventa una forma (o modalità di stipulazione). Ad esempio in materia di circolazione dei prodotti finanziari nel caso di obbligazioni di soggetti italiani emesse all’estero la negoziazione ad opera di investitori professionali deve avvenire a pena di nullità mediante consegna di un prospetto informativo, inoltre rispondono della solvenza dell’emittente per la durata di un anno dall’emissione (a meno che l’intermediario non consegni un foglio con le informazioni previste dalla CONSOB).
La nullità del contratto può essere chiesta anche in caso di offerta al pubblico di prodotti finanziari senza prospetto. Si registra uno spostamento del terreno della responsabilità a quello della nullità. La corte di Cassazione nel 2005 ha sentenziato che la contrarietà a norme imperative ex 1418 c.c. quale causa di nullità del contratto prevede che essa attenga elementi intrinseci della fattispecie negoziale, mentre i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e in detto caso il rimedio è costituito dal risarcimento. La nullità è di stretta competenza legislativa e può essere ricavata da una norma imperativa solo per integrare una lacuna quando non è testualmente prevista dal legislatore ( nullità virtuale).
LA FORMAZIONE DEL CONTRATTO
Consenso esterno e consenso interno
Gli schemi formativi crescono di numero e si adattano alle nuove possibilità tecnologiche, ma soprattutto tendono ad essere valorizzati in una logica funzionale nella quale la tecnica prescelta è orientata ad attribuire una specifica e differenziata rilevanza agli interessi delle parti nella fase che precede la conclusione del contratto .
Si distingue tra:
- consenso interno: concetto giuridico che attiene ai presupposti conoscitivi e alla libera e consapevole determinazione volitiva delle parti. Richiede di apprezzare come il singolo contraente ha potuto fare uso concretamente delle tecniche procedimentali. Si impongono un gran numero di prescrizione formali fornendo alle parti quelle informazioni che rendano possibili scelte ponderate. Inoltre è importante citare anche il diritto di recesso diverso da quello comune che caratterizza il nostro ordinamento. Quindi le parti sono tutelate prima e dopo la conclusione del contratto, affinché si formi legittimamente il consenso interno.
- consenso esterno: la pluralità dei procedimenti formativi assicura la realizzazione di aspetti funzionale molti diversi, anche in relazione alle qualità soggettive dei contraenti.
Bisogna contrapporre agli atti del procedimento (dimensione dinamica della formazione del contratto) quelli della fattispecie (dimensione statica, validità ed efficacia). Gli atti del procedimento sono strumentali e hanno breve durata.
Tre fasi dell’approccio dei sistemi giuridici europei continentali ai procedimenti formativi:
1) libertà procedimentale come componente dell’autonomia privata (nei codici francesi);
2) ricca emersione di regole positive sui procedimenti formativi per assicurare certezza nei commerci (posizione del codice di commercio del 1882);
3) i procedimenti formativi di matrice comunitaria consentono di assicurare la conformità delle regole negoziali ai principi dell’ordinamento costituzionale.
Diritto europeo in senso formale: recesso e formazione del contratto. Il dir europeo in senso formale di matrice comunitaria preoccupandosi maggiormente degli aspetti relativi al consenso interno ha adottato misure imperative che solo apparentemente limitano l’autonomia privata ma che in realtà sono volte a realizzare i presupposti perché questa sia esercitata in maniera consapevole. In tal senso vanno lette le ipotesi di nullità relativa e parziale a tutela del consumatore e la disciplina del recesso europeo (prolungamento dello spazio deliberandi), che a differenza di quello convenzionale previsto dall’ordinamento italiano non presenta il limite dell’inizio dell’esecuzione. Infatti nel nostro sistema il recesso è possibile, salvi i casi previsti dalla legge per i contratti ad esecuzione continuata, soltanto in via convenzionale; anche in tal caso il potere non può essere esercitato ove il contratto abbia avuto un inizio di esecuzione( art. 1373 c. c.); il recesso del consumatore viceversa oltre che essere legale e unilaterale è legato ad eventi che per un verso sono intervenuti prima della stipulazione del contratto (adempimento dei doveri di informazione) mentre per l’altro si verificano dopo che il contratto è stato definitivamente eseguito ( consegna del bene). Il recesso europeo serve a garantire consapevolezza e libertà decisionale al consumatore e perciò finché ne è ammesso l’esercizio la manifestazione volitiva del consumatore è privata di serietà e concludenza impegnativa.
Il cod. cons. al fine di garantire una consapevole e libera decisione prevede all’art.64, che
per tali contratti il consumatore ha diritto di recedere senza alcuna penalità e senza
doverne specificare il motivo, con una comunicazione scritta da inviarsi alla sede del professionista entro 10 gg lavorativi salvo quanto stabilito dall’art. 65 commi 3,4,5.
L’art. 65 cod. cons. prevede la disciplina del momento a partire dal quale il dir. di recesso deve essere esercitato:
(vedi sopra)
L’art.66 disciplina gli effetti del diritto di recesso.
1. Con la ricezione da parte del professionista della comunicazione di cui all'articolo 64, le parti sono sciolte dalle rispettive obbligazioni derivanti dal contratto o dalla proposta contrattuale, fatte salve, nell'ipotesi in cui le obbligazioni stesse siano state nel frattempo in tutto o in parte eseguite, le ulteriori obbligazioni di cui all'articolo 67.
Nella prospettiva del diritto europeo in senso formale il consenso interno ed esterno si compenetrano. Non basta più la congruenza degli atti procedimentali, perché il consenso esterno è condizionato al recesso e al suo esercizio che assume ora natura procedimentale. Il procedimento si conclude infatti solo con lo spirare dei termini per il suo esercizio (rilevanza di un contegno meramente omissivo).
Precisazioni sul contratto telematico: si è molto discusso riguardo alla previsione di un vero e proprio procedimento formativo europeo incidente direttamente sul consenso esterno: ciò era vero nel progetto originario il quale prevedeva che il contratto fosse concluso attraverso l’offerta l’accettazione la ricevuta di ritorno e infine la conferma.
Ciò tuttavia non è più vero dato che l’art.13 d. lgs. 70/03 si è limitato a stabilire l’applicazione delle “norme sulla conclusione dei contratti” all’ipotesi che il destinatario inoltri il proprio ordine per via telematica. La ricevuta di ritorno prima necessaria ha valore meramente informativo e la conferma non è più essenziale. L’ordine e la ricevuta di ritorno si considerano pervenuti quando le parti a cui sono indirizzati hanno la possibilità di accedervi: è la regola della recettizietà, in base alla quale non basta il mero invio dell’ordine secondo la mail box rule. A oggi il principio di ricezione è la regola generale dei contratti on-line in ogni paese europeo.
L’impatto del diritto uniforme sui sistemi nazionali.
Lo scenario della disciplina sulla formazione del contratto si arricchisce notevolmente se, oltre ad analizzare le direttive europee, si tiene conto della CISG (convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di cose mobili del 1980). La CISG detta una disciplina della formazione del contratto agli artt. 14-24, tale disciplina è stata arricchita dai principi UNIDROIT che hanno attinto dalla prassi del commercio internazionale e dai PDEC che hanno stemperato l’impronta essenzialmente commercialistica. Questa circolazione di regole con diversa valenza positiva e contenuti comuni ha fatto emergere l’idea di soft low. La CISG è in vigore in Italia e le sue regole sono applicabili in via analogica anche ad altri contratti. La Cassazione con la sent. 6323/2000 ribaltando il suo orientamento in tema di revocabilità della proposta ha compiuto un passo avanti verso un pieno allineamento con le soluzioni condivise in Europa ammettendo la recettizietà sia pure con argomenti criticabili perché anziché far leva sull’esigenza di coerenza sistematica e di un’interpretazione evolutiva del c.c. (muovendo dall’art.16 CISG), ma si fonda solo sui dati del c.c.
La convenzione di Vienna e i <<principi comuni>> dell’art. 288 tr.
La quasi totalità degli stati ha adottato la convenzione quindi è difficile negare che questa rappresenti ben più che una base comune di natura culturale dell’Europa continentale. I
principi comuni ai diritti degli stati membri in materia di formazione del contratto sono contenuti nella CISG dotata di positiva vigenza in quasi tutti i Paesi europei.
Le tecniche procedimentali
Lo schema dialogico proposta-accettazione (contegni commissivi dichiarativi) costituiSCE il modello procedimentale conosciuto in tutte le esperienze giuridiche rappresentando l’idea stessa di accordo. Nella CISG vi è un’antinomia tra art.14.1 per cui gli elementi essenziali del contratto devono essere determinati o determinabili nella proposta e l’art.55 secondo cui è possibile trarre dal mercato i parametri idonei al completamento del contenuto del contratto. Ciò si spiega contestualizzando l’antinomia storicamente: il mondo diviso in due blocchi, per i paesi socialisti la migliore soluzione era la prima e per i paesi industrializzati la seconda ( tesi accolta da UNIDROIT e PDEC).
Unidroit e PDEC oggi hanno risolto molte questioni problematiche, ad esempio è esplicitamente ammessa la revocabilità della proposta e il momento della conclusione del contratto si determina sulla base della recezione dell’accettazione.
Contegni meramente omissivi (non silenzio o inerzia di per sé) :
Il codice italiano regola la formazione del contratto attraverso una pluralità di congegni procedimentali variamente articolati, nei quali assumono autonomo rilievo contegni commissivi dichiarativi, contegni commissivi non dichiarativi. Il procedimento di formazione del contratto sfuma sfuma gradualmente da tecniche basate sul dialogo dei contraenti a tecniche nelle quali l’accordo si perfezione senza perfezione di dialogo.
Il diritto europeo della formazione del contratto ha pienamente utilizzato la molteplicità procedimentale e ha ulteriormente arricchito la pluralità degli schemi dando vita ad ulteriori varianti.
a. Accettazione non conforme. Nella Cisg, Unidroit e PDEC si è superato il principio della specularità esatta tra proposta e accettazione per cui anche nel caso in cui le modifiche apportate dall’accettazione non sono essenziali e nel contempo vi è un contegno omissivo del proponente (che non si oppone senza indugio), il contratto si considera concluso. L’art.19 Cisg fissa alcune modifiche ritenute essenziali, ad esempio modifica del prezzo, modalità di pagamento, quantità, termine e consegna.
b. Analoga regola vale nel caso di accettazione tardiva per ragioni non imputabili all’accettante. Anche qui, infatti, ha valore negoziale il contegno omissivo del proponente (entro ristretti limiti una parte può dichiarare di rifiutare gli effetti prodotti nella sua sfera giuridica).
È inutile il dibattito riguardo il fatto se il contratto debba considerarsi concluso solo dopo che sia decorso il termine per la recezione del proponente o prima già al momento dell’accettazione tardiva, salvo possibilità di eliminare gli effetti.
I principi Unidroit e Pdec completano il sistema disciplinato dalla Cisg definendo esplicitamente il valore della mancata risposta del proponente ad una lettera di conferma contenente clausole aggiuntive o difforme non essenziali (onere di reazione). Tali clausole diventano parti del contratto. La ratio consiste nell’economia dei mezzi giuridici.
Il contratto che si perfeziona con l’inizio di esecuzione: due statuti procedimentali.
L’art. 18.1 della CISG indica l’equivalenza dei comportamenti dichiarativi e non dichiarativi quali atti idonei a portare a conclusione il procedimento (<< Una dichiarazione od altro comportamento tenuto dal destinatario indicante il suo consenso ad una proposta costituisce accettazione. Il silenzio e l’inerzia non equivalgono ad accettazione>>) . Per gli
atti non dichiarativi la disciplina deroga alla regola della ricettività, in quanto hanno immediata capacità perfezionativa anche se il proponente non ne viene a conoscenza. L’art 1327 c.c. prevede che il contratto possa considerarsi concluso anche se su richiesta del proponente per la natura dell’affare o secondo gli usi si da esecuzione prima dell’accettazione.
Anche i PDEC prevedono tale possibilità, e anche quando il procedimento di conclusione del contratto non si struttura in proposta e accettazione, si applicano le norme previste per i contratti conclusi con lo schema “proposta-accettazione” con gli opportuni adattamenti. Quanto detto è importante perché i PDEC non indicano dei procedimenti alternativi nominati, ma lasciano aperta la tipologia di atti che possono condurre all’accordo; rimane all’autonomia privata creare procedimenti.
Il problema dell’interesse strumentale dell’urgenza e dell’effettività e il principio di parità
Secondo lo schema del nostro codice (art. 1327), alla proposta non segue la risposta, che è una dichiarazione, ma l’inizio di esecuzione, che è atto reale, che non è assolutamente revocabile.
Al comma 2 dello stesso articolo è disciplinato il c.d. “pronto avviso dell’iniziata esecuzione” all’altra parte (che non è un atto che costituisce parte del procedimento di formazione dei contratti, tant’è che la sua mancanza induce il solo risarcimento del danno). E’ un atto che ha natura rappresentativa di un fatto già verificato (cioè l’inizio dell’esecuzione). L’avviso è un mero atto-notizia che la legge impone alla parte, la quale, dando inizio all’esecuzione, ha perfezionato il contratto, all’insaputa del proponente.
Il dialogo qui è escluso perché sopraffatto da interessi procedimentali quali l’urgenza e l’effettività dell’esecuzione.
Nei PDEC invece sono previste due sottospecie di contratti che si perfezionano mediante l’esecuzione:
a) con comunicazione art. 2:205 (2) prevede contratti che si perfezionano con la comunicazione dell’esecuzione al proponente.
A differenza di quanto previsto dal c.c. e dalla CISG la comunicazione fa parte del procedimento di formazione, anzi lo perfeziona. La comunicazione è un atto che ha natura dichiarativa: non è un atto conclusivo e non è un atto di adesione alla proposta con effetto retroattivo al momento della dichiarazione perché l’art. 2:205 dei PDEC precisa non solo l’an , ma anche il quando della conclusione del contratto, ossia il momento in cui la comunicazione perviene al proponente. Tale specie si articola in tre momenti: proposta, esecuzione, comunicazione. Essa appare fortemente sbilanciata a svantaggio di chi esegue il contratto, che, dopo l’esecuzione, si troverebbe esposto tuttavia alla revoca dell’altra parte.
Non meno importante altro rilievo secondo cui l’esecuzione non risponde ad esigenze di effettività e rapidità (come invece accade nell’art. 1327), poiché, stante la lettera della norma, non si tratta dell’unico modo con cui l’oblato può concludere il contratto.
b) Senza comunicazione art. 2:205 (3), come nel nostro c.c., stabilisce che il contratto è concluso quando ha inizio esecuzione, di cui non deve essere data comunicazione.
IL CONTRATTO INFORMATICO
Xxxx deve intendersi per contratto informatico?
È il contratto concluso mediante computer, senza il contestuale intervento dell’operatore umano.
Tale definizione è utilizzata secondo due accezioni: indica la forma elettronica che caratterizza il contratto, e anche la modalità di formazione della volontà negoziale.
La dichiarazione di volontà è elaborata dal software sulla base di istruzioni previamente inserite e il cui risultato costituirà la dichiarazione imputabile alla parte.
Tempo e spazio nell’ambiente di internet sono indeterminati, e apparentemente mancano controlli esterni. Da ciò nascono dei problemi giuridici specifici:
• Valore giuridico della forma elettronica;
• Criterio di imputazione della dichiarazione negoziale;
• Momento e luogo di conclusione del contratto;
• Invalidità e interpretazione.
Fonti
Nell’ordinamento italiano si fa riferimento al d.lgs. 70/03, al Codice di Amministrazione digitale del 2005, alla disciplina generale del c.c., alla disciplina dei contratti a distanza, alla disciplina dei contratti dei consumatori.
Al livello dell’UE si fa riferimento alla direttiva 00/31; al livello internazionale alle varie iniziative dei principali organismi del commercio (OCSE, WTO).
La forma elettronica, le firme elettroniche e il documento informatico
E’ necessario individuare quali debbano essere i requisiti che il documento elettronico deve possedere per avere rilevanza giuridica. Il legislatore speciale italiano indica la firma elettronica quale criterio di imputazione della volontà negoziale (la sottoscrizione del contratto è chiaramente elemento essenziale).
La disciplina della firma elettronica è contenuta nel Codice di Amministrazione digitale del 2005;
• per firma elettronica si intende l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici utilizzati come metodo di autenticazione informatica.
• La firma elettronica avanzata è quella che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca identificazione creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce, in modo da consentire di rilevare se i dati siano stati successivamente modificati.
• La firma elettronica qualificata è basata su un certificato qualificato e creata mediante un dispositivo sicuro per la creazione della firma.
• La firma digitale è una firma elettronica qualificata basata su un sistema di forme asimmetriche a coppia, una pubblica e una privata. Consente al titolare, tramite una chiave privata, e ai destinatari, tramite una chiave pubblica, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico.
• La firma digitale autenticata è quella in cui l’intervento del notaio garantisce la riferibilità della firma al titolare, e la validità del documento.
La varietà di documenti informatici a seconda delle firme elettroniche. Rilevanza sostanziale e probatoria.
• il documento informatico non sottoscritto non ha effetti costitutivi perché è impossibile la sua imputazione all’autore; e come per le registrazioni meccaniche fa piena prova dei fatti rappresentati se colui contro cui sono prodotti non ne disconosce la conformità. (art. 2712 c.c.)
• Il documento informatico con firma elettronica semplice, se si risolve in atto unilaterale recettizio o in un contratto per il quale non è richiesta la forma scritta ab substantiam, ha la stessa validità della scrittura privata, su indicazione del legislatore comunitario. Per quanto riguarda la sua rilevanza probatoria, il legislatore comunitario impone di non considerare inefficace e irrilevante il documento informatico con firma elettronica semplice; il legislatore nazionale statuisce la libera valutazione del giudice “tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza”.
• Il contratto con firma elettronica qualificata è valido e rilevante a tutti gli effetti di legge, ed è equiparato alla scrittura privata. Per quanto riguarda la sua rilevanza probatoria, come le scritture private, fa piena prova della provenienza della dichiarazione fino a querela di falso.
L’equiparazione alla scrittura privata appare però incongrua, perché il disconoscimento da parte del titolare non può avvenire perché comporterebbe la probatio diabolica del non abuso; al massimo si può opporre l’abuso da parte di terzi invito domino. Inoltre deve escludersi il disconoscimento perché la piena prova fino a querela di falso implica una scrittura privata riconosciuta ex art. 2702 c.c., dunque tale documento deve esser considerato riconosciuto ex lege.
• Il documento informatico con firma digitale autenticata ha la stessa rilevanza sostanziale del documento elettronico con firma digitale qualificata, ma ha un’efficacia probatoria più ampia, dato che vi è l’intervento del notaio. Nonostante ciò, nell’assenza di una specifica previsione normativa, è difficilmente considerabile come atto pubblico.
Infine, si deve dare risalto al considerando n.16 della direttiva 99/93, il quale prevede che le parti siano libere di accordarsi sulle condizioni di accettazione dei dati firmati in modo elettronico, nella misura in cui ciò è consentito dal diritto nazionale. Ad es. vale il limite dell’ordine pubblico, per cui le parti non possono incidere sul regime legislativo riguardante i requisiti di validità dei negozi informatici.
La forma del contratto informatico e la imputabilità della dichiarazione negoziale informatica. L’accordo delle parti. La direttiva 00/31.
Si tratta di un tema connesso a quello della firma. Solo se la legge richiede sotto pena di nullità la forma scritta ab substantiam per il contratto informatico deve rispettare i requisiti per la creazione del documento con firma qualificata autenticata, altrimenti bastano comportamenti concludenti (quali la cliccata sulla specifica icona, la digitazione del proprio numero di carta di credito).
La dottrina ha denunciato la figura di contratti senza accordo perché concepiti senza libertà di trattare, ma con l’unica possibilità di aderire o meno, seguendo l’iter indicato;
mentre per altri il dialogo non è presupposto essenziale del perfezionamento del contratto nemmeno nel c.c.; per altri ancora, su internet non vi può essere una trattativa, ma tale orientamento non è condivisibile perché sotto tale profilo il contratto informatico non sembra introdurre alcuna novità rispetto al contratto tradizionale. Il contratto informatico si perfeziona a seguito di un iter formativo più o meno xxxxxxxxx.Xx direttiva 00/31 sul commercio elettronico, all’art. 10 si occupa dei ‘’contratti per via elettronica’’ ed elenca le informazioni da fornire al destinatario della proposta in modo chiaro, comprensibile ed inequivocabile; l’art. 11 prevede che il prestatore deve accusare ricevuta dell’ordine del destinatario del servizio senza ingiustificato ritardo e per via elettronica, inoltre l’ordine e la ricevuta si considerano pervenuti quando le parti hanno possibilità di accedervi. Nell’ordinamento italiano la disciplina è frutto della combinazione dei contratti a distanza, dei contratti negoziati fuori dai locali commerciali ( artt.45 e ss. cod. cons.) e del commercio elettronico ( d. lgs. 70/03).
Problema del momento e del luogo della conclusione del contratto e della legge applicabile
La circostanza che la contrattazione telematica collega soggetti ubicati in Stati diversi pone il problema del luogo di conclusione del contratto e della normativa applicabile. La soluzione va rintracciata nella l. 218/95 e nella Convenzione di Roma del 1980.
La formazione e l’espressione della volontà negoziale nel contratto informatico. La trasmissione della volontà avviene automaticamente in via informatica, ma la dichiarazione della volontà contrattuale è già definita quando viene trasmessa all’altra parte. Il sistema informatico o telematico nella fase di dichiarazione della volontà è solo un mezzo di trasmissione. L’utilizzo del programma ne comporta in qualche modo accettazione e assunzione di responsabilità quanto alla dichiarazione fatta nei riguardi della controparte. Si ritiene che la dichiarazione della volontà contrattuale trasmessa dal sistema informatico sia da imputare al soggetto che del sistema informatico si è avvalso. In conclusione il risultato del processo di elaborazione che si svolge a mezzo del programma negoziale imputabile all’utente che ne assume la piena responsabilità nei
confronti della controparte secondo i principi di auto- responsabilità e affidamento.
Errore, violenza e dolo nella formazione della volontà.
Per quanto riguarda la fase della programmazione ossia della formazione della volontà prima che venga dichiarata all’esterno si applicano le ordinarie norme disciplinanti questi profili contrattuali nazionali.
Innanzitutto si potrà incorrere in errore: l’errore motivo potrà rilevare sotto due profili
a)il contraente può essersi rappresentato fatti e circostanze determinanti per il suo consenso in modo erroneo.
Il contraente ha trasfuso tale volontà in un programma informatico corretto e rispondente alla volontà da lui espressa, ma viziato in quanto era viziata la volontà all’origine.
b)il contraente può essersi rappresentato fatti e circostanze determinanti per il suo consenso in modo corretto e la sua volontà contrattuale, di conseguenza può essersi formata correttamente, ma tale volontà può essere stata trasfusa in modo erroneo nel programma e quindi quest’ultimo può essere viziato per un errore del programmatore o dello stesso contraente.
In ambedue i casi troverà applicazione la disciplina codicistica dettata dagli artt. 1428 e ss. del c.c., quindi ai fini della invalidità della dichiarazione devono ricorrere i caratteri della essenzialità e riconoscibilità dell’errore.
La violenza viene risolta nella disciplina dell’errore e del dolo presentandosi i caratteri sia nella fase di formazione che di trasmissione della volontà negoziale.
Con riguardo al dolo trova applicazione la disciplina del c.c. sia quando il comportamento doloso viene posto in essere dalla parte direttamente sia quando ci si avvalga di un operatore o altro incaricato sia quando quest’ultimo sia raggirato dal terzo. La l. 547/93 contempla due ipotesi:
1)un soggetto al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di arrecare ad altri un danno, formi falsamente ovvero alteri o sopprima, in tutto o in parte il contenuto anche occasionalmente intercettato di talune delle comunicazioni relative ad un sistema informatico o telematico o intercorrenti tra più sistemi.
2)l’alterazione del funzionamento di un sistema informatico o telematico modificando dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o ad esso pertinenti, procurando a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno.
In entrambi i casi oltre all’azione di annullamento per dolo sarà esercitabile anche l’azione penale.
L’interpretazione del contratto informatico: si applica la normativa codicistica italiana sul contratto (tenendo conto della peculiarità del contratto informatico) e del comportamento antecedente e successivo delle parti; fondamentale è il criterio dell’interpretazione secondo buona fede. Le soluzioni in materia sono comunque precarie e destinate ad adattarsi all’evoluzione della tecnica.
I DOVERI DI INFORMAZIONE
Rilevanza costituzionale
Il diritto all’informazione può vantare nell’ordinamento comunitario rilievo costituzionale, poiché l’art. 153 TCE assegna alla Comunità il compito di promuovere a beneficio dei consumatori, “il diritto all’informazione, all’educazione e all’organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi”. La Corte europea di giustizia ha sottolineato lo stretto nesso tra la protezione e l’informazione dei consumatori, sicché una normativa nazionali che neghi l’accesso dei consumatori a talune informazioni, non potrebbe essere giustificata da esigenze imperative attinenti alla loro produzione. Nel diritto italiano il riconoscimento al consumatore di un “diritto fondamentale ad un’adeguata informazione” (art.2 co.2 cod.cons.) non vale di per sè a porre l’informazione sullo stesso piano dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, non potendo la legge ordinaria integrare l’elenco dei diritti riconosciuti in costituzione; siffatto diritto “fondamentale” rimane tra l’altro disarmato tutte le volte in cui la legge non appresta tutele direttamente azionabili dal consumatore. Sarà compito dell’UE contribuire al conseguimento dell’obiettivo mediante lo strumento di “ravvicinamento delle legislazioni”. L’informazione identifica in generale una delle caratteristiche più importanti del diritto contrattuale dell’UE (duty to disclosure).
Informazione e trasparenza delle relazioni di mercato.
Seppure il rispetto dei doveri di informazione, posti a carico degli operatori del mercato è comunque funzionale ad assicurare trasparenza e correttezza dell’attività negoziale, non per questo tali doveri possono solo collocarsi all’interno della singola vicenda negoziale.
Trasparenza (disclosure): consiste nella penetrabilità agevole di dati o situazioni da parte di chi ne abbia interesse, e per questo varia a seconda del tipo di relazione del modello di contrattazione. All’operatore del mercato obbligato a darsi un’organizzazione che esclude ogni opacità di relazioni e di interessi, può dirsi, ingenerale, che facciano capo doveri di informazione:
1) alcune informazioni vanno messe sul mercato a beneficio di tutti i possibili attori (ad es. inmateria di servizi finanziari e assicurativi). Tali obblighi concorrono a determinare lo statuto dell’attività del professionista, e sono presidiati da un sistema di autorizzazioni, controlli, sanzioni di natura amministrativa.
2) i doveri abbondano quando si tratti di scambi in cui una parte sia il consumatore; in tali casi i doveri vivono nella singola relazione contrattuale e le regole possono essere volte a tutelare sia attuali che potenziali contraenti; talora però la tutela nei loro confronti è scarsa dato che a livello comunitario è prevista solo l’azione inbitoria collettiva (attraverso cui si valutano i testi contrattuali unilateralmente formulati contenenti clausole non trasparenti o mancanti dei contenuti imposti dalla legge ai fini dell’informazione).
Doveri di disclosure e disciplina del contratto.
La trasparenza è un obiettivo che il legislatore comunitario persegue sia attraverso regole che impongono forme o modalità di espressione e /o redazione delle clausole contrattuali, sia attraverso doveri di informazione generalmente collocati nella fase che precede o accompagna la formazione dell’accordo. Si guarderà allora soprattutto al tempo, all’oggetto e alle finalità dell’informazione per qualificare la c.d. trasparenza contrattuale.
E’ dubbio per l’interprete se i doveri di informazione vadano collocati nella fase delle trattative o se invece influiscano sulla valida formazione dell’accordo.
Varie sono le classificazioni dei doveri di informazione nelle fonti comunitarie:
- modalità di trasmissione;
- luogo, tempo;
- modo dell’adempimento;
- rimedi all’inadempimento.
Contenuto dell’informazione e prossimità al contratto: l’inadeguatezza del criterio in un approccio di tipo rimediale.
Stante una certa instabilità del regime assegnato ai doveri di informazione dalla loro violazione (dato che la vicenda contrattuale può essere interessata in modo eterogeneo, esercitando il diritto di recesso, nullità, inefficacia, sanzioni amministrative dirette a colpire il professionista nella sua inattività, ma non quale partner contrattuale), la questione dei rimedi può essere oggi considerata quale principale criterio di lettura della disciplina comunitaria. Vari tentativi di classificazione hanno tentato di distinguere tra doveri di sistemazione contrattuali e precontrattuali, ma ciò non sempre è decisivo; bisogna semmai valutare caso per caso la loro posizione e funzione, partendo dai dati positivi.
L’inadeguatezza della distinzione tradizionale tra generici doveri di trasparenza e obblighi contrattuali di informazione è dimostrata anche dal fenomeno della contrattualizzazione dell’informazione: nel senso che flussi fi informazione forniti ad incertam personam, se ed in quanto suscettibili di raggiungere il pubblico dei “consumatori medi” e di influenzarne le determinazioni contrattuali, non rimangono sempre esterni alle sorti del singolo futuro ed eventuale contratto. Parimenti inadeguato è il criterio della prossimità al contratto in quanto è difficile distinguere tra informazione non propedeutica al contratto e informazione in vista del contratto, e ancora informazione da fornirsi prima e/o contestualmente al contratto, poiché tale sequenza rischia di avere una valenza meramente descrittiva dando risalto alla più alla prossimità dell’informazione che alla stipula del contratto.
Il principio di efficacia ed effettività della tutela e dei doveri d’informazione nella giurisprudenza della Corte europea di giustizia.
La scelta all’approccio rimediale appare obbligata. L’informazione si propone essa stessa come parte del contenuto del contratto o come oggetto di obbligazione e in tale ratio di protezione del contraente destinatario dell’informazione apparirà meritevole di tutela in ambito contrattuale anche l’affidamento ingenerato dalle notizie e dai dati diffusi in ottemperanza a pur generici doveri di trasparenza.
L’informazione sul recesso e la sentenza Xxxxxxxxx.
Alla luce della giurisprudenza della CEG, non mancano rimedi in caso di violazione dei doveri di informazione: è addirittura possibile che in futuro vi siano obblighi di informazione contrattuale.
Sentenza Xxxxxxxxx. La CEG giudica non conforme al diritto comunitario la legge tedesca sul credito a consumo, che nel caso di contratti di credito fissava il termine massimo per il recesso ad un anno dalla conclusione del contratto. La norma comunitaria invece (dir. 85/577 in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali), prevede che il termine entro cui esercitare il recesso di pentimento debba decorrere da quando il consumatore ha ricevuto l’informazione sul diritto di recesso, per cui la corte ritiene che il legislatore
nazionale non possa applicare il termine di un anno dalla stipulazione del contratto per l’esercizio del diritto di recesso, qualora il consumatore non abbia beneficio dell’informazione prevista. La CEG ha inoltre stabilito che il difetto di informazione sul recesso comporta la possibilità per il consumatore di potere esercitare tale diritto sine die, o almeno sino all’integrale attuazione del programma contrattuale il termine di 7 gg per esercitare il diritto di recesso comincia a decorrere dal momento in cui il consumatore ha ricevuto l’informazione sul diritto di recesso. I vari legislatori nazionale hanno recepito la dir.: in Inghilterra e Spagna è stato previsto come rimedio l’invalidità di protezione, mentre in Italia l’allungamento dei termini.
La stessa Ceg nel noto caso Xxxxxxx e Xxxxxxx vs Deutsche Bausparkasse Badenia AG ha ritenuto inadeguato il solo rimedio del recesso a presidio dei doveri di informazione, dovendo in questo caso prevedersi negli ordinamenti nazionali anche misure idonee a sollevare il consumatore dalle conseguenze dannose subite e a farle ricadere in capo al contraente che ha omesso l’informazione.
Informativa e disciplina del contratto ( di consumo) nelle direttive. Obblighi legali di informazione ed obbligazioni da informazioni.
Nelle direttive settoriali, aventi ad oggetto singole tipologie di contrattazioni con i consumatori fanno la loro comparsa i doveri legali di informazione e le regole a presidio della correttezza e impegnatività dell’informazione, sia essa fornita in adempimento di un obbligo legale sia essa spontanea.
Informazione e determinazione legale degli “elementi minimi” del contratto: le direttive sull’acquisto di diritti di godimento a tempo parziale di beni immobili e sui viaggi, vacanze e circuiti
La direttiva 122/2008 dell’acquisto del diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili (multiproprietà) stabilisce l’obbligatorietà della consegna, da parte del venditore ad ogni persona che richiede informazioni sul bene immobile, di un documento informativo, contenente informazioni precise sul bene. Il venditore deve consegnare ad ogni persona che richiede informazioni un documento informativo contenente la descrizione generale del bene ed almeno informazioni precise e succinte su identità e domicilio delle parti, natura esatta e oggetto del contratto, servizi e strutture comuni, informazione sul recesso.
Tutte le informazioni fornite nel documento dovranno fare parte integrante del contratto, e non potranno essere modificate senza esplicito accordo delle parti, salvo circostanze indipendenti dalla volontà del venditore, e comunque dovranno essere comunicate prima della conclusione del contratto, e xxx espressamente indicate.
Il diritto di recesso potrà essere esercitato entro 14 gg. dal recepimento di tutte le informazioni: in caso di loro mancanza, a tale tutela si aggiunge quella della sanzione pecuniaria.
In ragione della sostanziale corrispondenza tra contenuto dell’informazione e contenuto minimo del contratto, come prescritto (all’art. 4 dir. 94/47), l’ingiustificata modifica da parte del professionista di quanto scritto nel documento consegnato prima della conclusione del contratto rileverà se ed in quanto si traduca in una divergenza tra informazione e contratto.
Decisiva sarà allora la verifica di quanto versato nel contratto che, ai sensi dell’art. 4 co.1 da farsi obbligatoriamente in forma scritta. La violazione della forma, in tutti gli Stati membri, è risolta ricorrendo ai rimedi “in materia di inefficacia dei contratti”.
Inoltre, trattandosi di contratto predisposto dal professionista, il principio di interpretazione contra proferentem ribadito dalla disciplina delle clausole abusive nei contratti dei consumatori e quello, più generale, di inefficacia delle clausole “a sorpresa”, dovrebbero suggerire di subordinare l’efficacia della clausola del contratto difforme da quella del documento informativo ad un’accettazione espressa, secondo la scelta adottata dai Principi Unidroit.
Nel caso in cui il contratto non contenga qualcuno degli elementi del documento informativo, al consumatore che non abbia voluto o potuto esercitare validamente il diritto di recesso non potrà negarsi il diritto a pretendere l’adempimento del contratto in conformità a quanto enunciato nel documento informativo, ancorché non riprodotto: emerge un rimedio conservativo in base al quale il venditore ha l’obbligo di non modificare il documento in quanto questo fa parte integrante del contratto.
Il documento consegnato prima della conclusione del contratto contiene informazioni vincolanti, perché si tratta di informazioni concernenti elementi essenziali ai fini dell’identificazione economico e normativo del contratto, ed è già esso stesso espressione della volontà negoziale del professionista.
Nell’ipotesi di violazione dell’obbligo di consegna del documento informativo preliminarmente alla stipula del contratto, essendo legalmente previsto che il contenuto del documento medesimo sia praticamente identico al contenuto legale del contratto accadrà che:
• se tra il documento informativo e il contrato non vi è difformità, appare di poca rilevanza la violazione dell’obbligo di preventiva informazione, dato che il consumatore è comunque stato edotto di tutti gli elementi richiesti. In questo caso, l’omissione imputabile al professionista viene neutralizzata dall’esistenza di un accordo scritto che accompagna la ponderazione;
• se tra il documento informativo e il contratto vi è difformità, allora il rimedio andrà cercato con riguardo alla stessa sorte del contratto contrario a norme inderogabili, vale a dire la nullità evocata dall’art. 5 dir. 94/47.
Pacchetti turistici dir. 90/314
Sempre all’interno della disciplina comunitaria è possibile ricostruire una sequenza informazione-contratto non dissimile in materia di vendita di pacchetti turistici, materia disciplinata dalla dir. 90/314 concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti “tutto compreso”, pur essendo qui i doveri di informazione a beneficio dell’acquirente dislocati in momenti differenti.
Prima dell’inizio del viaggio, ovvero ove il contratto sia stipulato nell’imminenza di una partenza, contestualmente alla stipula, l’organizzatore dovrà fornire al consumatore le informazioni di carattere generale (passaporti, visti, formalità sanitarie) sia le informazioni specifiche del “pacchetto” offerto (orari, località di sosta intermedia, coincidenze, posto assegnato al viaggiatore).
Simile è il flusso di informazioni che deve essere contenuto nell’opuscolo informativo ove questo sia messo a disposizione del consumatore: destinazione, mezzi di trasporto, tipo di sistemazione, itinerario, passaporti, visti, formalità sanitarie, eventuali acconti e scadenze di versamento, data limite di informazione del consumatore in caso di annullamento del viaggio. La disciplina dell’opuscolo ricalca quella dettata a proposito del documento informativo in tema di multiproprietà (ma in quel caso la consegna è un preciso obbligo del professionista).
In caso di vendita di pacchetti turistici, il contenuto dell’opuscolo informativo può essere modificato prima della conclusione del contratto solo se nell’opuscolo stesso era prevista tale possibilità e previa comunicazione scritta al consumatore, salve le modifiche concordate tra le parti dopo la stipula.
Il contenuto dell’opuscolo consegnato prima del contratto e dunque le informazioni unilateralmente e spontaneamente rese in vista della conclusione del contratto costituiscono anch’essi parte integrante del contenuto contrattuale, in quanto elementi essenziali ai fini dell’identificazione del contenuto economico e normativo del contratto.
In caso di informazione ingannevole (cioè nel caso di difformità tra servizio descritto e servizio dovuto) sorge il diritto del consumatore ad un adempimento conforme all’informazione . Il contenuto dell’opuscolo spontaneamente fornito è prescritto dalla legge e ricalca il contenuto minimo del contratto.
I doveri di informazione come prescrizioni di forma e di contenuto minimo dell’offerta nel procedimento di formazione dell’accordo professionista- consumatore.
La ratio dei doveri legali di informazione nelle fonti comunitarie è consentire il controllo legale degli elementi da inserire nel contratto. E’ ritenuta vincolante l’informazione anche se spontaneamente fornita, così da sopperire ad un’assenza di trattative (contrattazione veloce) e da preservare la formazione di un consenso del consumatore pieno (informato e ponderato).
La disciplina dei contenuti minimi conforma il modo in cui il professionista opera sul mercato.
Le regole in tema di informazione intercettano così le comunicazioni in vari modo provenienti dal professionista, che in questo inedito procedimento di formazione dell’accordo sono destinati a svolgere la funzione di elementi minimi necessari dell’offerta proveniente dal professionista, ne prescrivono forma ed elementi e ne preservano la funzione attraverso un regime di irrevocabilità o di limitata revocabilità, allo scopo di prevenire ostacoli alla formazione di un valido accordo.
L’assenza di informazione comporta nullità del vincolo contrattuale per violazione di norme imperative in tema di offerta contrattuale. La ratio delle norme comunitarie è dunque di tramutare l’oggetto dell’informazione in promesse.
Informazione e contratto nella commercializzazione a distanza
La direttiva 97/7 disciplina i contratti a distanza.
Le informazioni preliminari che il consumatore deve ricevere prima della conclusione di qualsiasi contratto a distanza ai sensi dell’art. 4 rappresentano anch’esse il contenuto minimo dell’offerta.
Anche in questo caso pare che gli effetti della mancata informazione vadano riferiti alla proposta contrattuale, e dunque ne determinano l’inefficacia: ai sensi dell’art. 9 deve ritenersi che il contratto potrà dirsi validamente concluso solo ove risulti che il consumatore abbia dato il suo consenso ad un’offerta conforme al dettato dell’art. 4; grava sul fornitore la prova anche della prestazione del consenso del consumatore alla conclusione del contratto, ed è abusiva ex lege ogni clausola contrattuale inverte l’onere della prova.
La violazione degli obblighi di informazione si risolve in un pregiudizio dell’efficacia del contratto: sulla scia dell’indirizzo formulato dalla direttiva 02/65 che invitava gli Stati membri a prevedere sanzioni adeguate (effettive, proporzionate e dissuasive) in caso di mancato rispetto degli obblighi di legge da parte del fornitore, il legislatore italiano ha tramutato in causa di nullità del contratto la violazione di tali obblighi.
Rimedio veloce ed efficace previsto dalla direttiva è il diritto di recesso libero entro 3 mesi dal ricevimento del bene, o nel caso di prestazione di servizi dal momento della conclusione del contratto. Nei contratti a distanza la mancanza dell’informazione preliminare minima non può essere colmata al momento della conclusione del contratto, data la peculiarità della forma di contrattazione (il mezzo di comunicazione e la forma orale non consentirebbe un recupero successivo della mancanza di tempo utile di ponderazione, che non può colmarsi neanche con la conferma scritta dell’informazione).
Il legislatore comunitario, al fine di preservare per il consumatore uno spatium deliberandi preventivo richiama i principi di lealtà in materia di transazioni commerciali, ma mantengono la propria vigenza le regole in tema di resp. precontrattuale.
La conferma scritta delle informazioni fornite prima del contratto prevista dall’art. 5 si configura come adempimento di un obbligo contrattuale a carico del fornitore. Nel caso in cui essa differisca in peggio dall’offerta, come rimedio è sufficiente il diritto di recesso; nel caso in cui siano stati adempiuti i doveri di informazione preliminari, ma non l’obbligo di informazione scritta è previsto il risarcimento del danno. Oltre a ciò è previsto per il consumatore in buona fede che abbia atteso invano il completamento delle informazioni la possiblità di ricorrere al rimedio della risoluzione per inadempimento entro gli stessi tempi previsti per l’esercizio del diritto di recesso.
Crediti al consumo e contratti bancari
La direttiva 87/102 prevede gli elementi essenziali del contratto a forma scritta vincolata. L’informazione si realizza direttamente mediante il testo contrattuale: è necessario che le possibili modifiche successive volte a contenere il costo del contratto siano effettuate secondo criteri predeterminati e di cui il consumatore sia già a conoscenza (es. disciplina dell’informazione sul TAEG).
Nei contratti bancari è pressante la necessità di coniugare la disciplina dei doveri di informazione alle esigenze di personalizzazione e al rispetto della parità di trattamento. La disciplina italiana è contenuta negli artt. 116 e 117 del TUB, i quali prevedono un obbligo di pubblicizzazione del tasso d’interesse, delle spese, dei prezzi e di ogni altra condizione economica, formando in pratica una vera e propria offerta contrattuale sottratta però alla disciplina dell’offerta al pubblico.
Il contratto potrà discostarsi dall’informazione resa solo in melius, pena la nullità delle clausole più sfavorevoli, e l’automatica integrazione con le clausole pubblicizzate; inoltre, in caso di difetto di informazione, l’intera operazione diventa gratuita.
La pubblicità commerciale e gli effetti diretti sul contratto: la vendita di beni di consumo
La direttiva 99/44 sulla vendita di beni di consumo disciplina la garanzia di conformità, per cui il venditore è responsabile se il bene di consumo non corrisponde a quanto il consumatore poteva ragionevolmente aspettarsi per ciò che riguarda la qualità e la prestazione abituale di uno stesso tipo di bene, anche in considerazione di quanto pubblicamente dichiarato dal venditore, o dal produttore, o da un suo rappresentante, in particolare nella pubblicità o nella etichettatura.
Ciò vale anche quando la dichiarazione non sia stata corretta e portata a conoscenza del consumatore prima della conclusione del contratto, e salvo che il venditore non dimostri di non esserne a conoscenza e di non averla potuta conoscere con l’ordinaria diligenza.
Siamo davanti ad un fenomeno di contrattualizzazione dell’informazione, perché l’informazione è considerata come componente dell’offerta.
Messaggi promozionali e responsabilità precontrattuale
Numerose prescrizioni sono volte ad assicurare una pubblicità veritiera e corretta, ma rimangono fuori dall’ambito dei doveri di informazione contrattuale perché tale pubblicità è destinata ad un pubblico indistinto e lontano dalla vicenda contrattuale.
La pubblicità viene considerata ingannevole prevalentemente con riferimento agli effetti e non tanto al contenuto, anche se quest’ultimo influisce sugli effetti. L’operatore pubblicitario deve dimostrare l’esattezza dei dati di fatto contenuti nella pubblicità. Si tratta di una species della disciplina dell’informazione.
Le sanzioni esulano dalla vicenda contrattuale; una parziale correzione si ha in materia di pratiche commerciali sleali (cioè quando l’informazione, anche corretta, risulta ingannevole per il modo in cui è fornita, e quando viene omessa un’informazione rilevante), in quanto la direttiva 05/29, oltre ad invitare i legislatori nazionali ad adottare sanzioni amministrative e rimedi a carattere collettivo inibitori, stabilisce che non potrà non influenzare lo sviluppo di rimedi risarcitori. Non a caso gli elementi presi in considerazione al fine di giudicare il carattere veritiero o ingannevole delle informazioni attengono all’oggetto e alle condizioni del contratto.
Il prospetto informativo
È un documento destinato per legge ad accompagnare il collocamento dei titoli sul mercato, fornendo al pubblico dati economici riferiti alla società.
Già prima dell’esistenza del diritto comunitario era già contemplato negli ordinamenti interni.
Il dibattito sulla resp. da prospetto è molto acceso: la direttiva 03/71 è l’espressione più compiuta del processo di ampliamento della resp. da prospetto, in quanto la estende alle varie forme di sollecitazione al pubblico risparmio, e fissa il contenuto del prospetto stesso. Secondo tale direttiva l’obbligo di pubblicare il prospetto vale per tutte le offerte al pubblico o di strumenti finanziari non rivolte esclusivamente ad investitori qualificati. Ai fini della direttiva si intende per offerta al pubblico ogni comunicazione rivolta a persone in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e degli strumenti finanziari offerti.
Mentre strumenti finanziari sono i titoli negoziabili elencati all’art. 14 della direttiva 93/22, salvo gli strumenti del mercato monetario definiti nell’art. 1 punto 5 e aventi una scadenza inferiore ai 12 mesi.
Il prospetto è valido 12 mesi; è obbligatorio in ogni offerta al pubblico di strumenti finanziari ed è messo a disposizione del pubblico. Contiene informazioni sull’emittente e sugli strumenti finanziari.
Scopo della disciplina è coniugare la flessibilità con la protezione dell’investitore non qualificato. Le informazioni devono essere complete, sufficienti, più obiettive possibili e continuamente aggiornate con supplementi, a seguito dei quali è ammessa la revoca dell’adesione dell’investitore. Questi è così tutelato contro prospetti infedeli o ingannevoli. Il prospetto va sottoscritto dal predisponente come elemento essenziale del negozio: se manca o è irregolare, il negozio è nullo; se è incompleto, è annullabile o risolvibile.
Indubbio è il legame funzionale con il contratto dato che il prospetto costituisce parte dell’offerta; è alla base della valutazione sulla sua convenienza e avvia la negoziazione. In ogni caso la clausola di buona fede conduce a qualificare la resp. da prospetto come resp. precontrattuale.
In Italia la prevalente dottrina la ritiene come resp. contrattuale per inadempimento di un contratto qualificato con i potenziali investitori e ritiene applicabile dunque il regime probatorio ex art. 1218 c.c.
L’informazione come servizio nei contratti di negoziazione di prodotti finanziari. In alternativa alla sollecitazione al pubblico è possibile una negoziazione individuale di strumenti finanziari con investitori professionali tramite collocamento privato o sollecitazione all’investimento. L’obiettivo della disciplina in materia non è più solo la tutela degli investitori, ma anche la stabilità del mercato finanziario, e la creazione di un mercato finanziario integrato. Si ha così il rafforzamento delle misure di regolamentazione dell’attività di intermediazione mobiliare finalizza ad armonizzarne i requisiti e le norme di comportamento in ambito comunitario. Qui l’informazione diviene un servizio, perché non si tratta più solo di prescrizioni in tema di offerta contenuto o oggetto del contratto, ma l’informazione va riferita anche a circostanze estrinseche che attengono all’emittente.
La disciplina dei doveri di informazione poggia non sul loro contenuto, ma sul risultato che devono conseguire, che in questo caso è un flusso di informazioni a doppio senso (anche l’intermediario deve acquisire informazioni dal cliente circa le sue esperienze in materia di investimenti).
Nel collocamento individuale l’informazione si inserisce nel rapporto discendente dal contratto-quadro; mentre nella sollecitazione all’investimento si inserisce in un documento. La violazione dei dovere di informazione non potrà non rilevare quale inadempimento alla prestazione del servizio e al parametro di diligenza professionale richiesto dalla legge; rileva altresì se tradotto in un cattivo o infedele o inadeguato consiglio di investimento (investimento sbagliato) rientrando nell’area dei danni risarcibili, sempre che non si voglia sperimentare il terreno dei rimedi al vizio del consenso, sotto forma di dolo, errore, reticenza. Nei noti casi di default di Xxxxx, Xxxxxxxx il legislatore italiano ha iniziato un‘affannosa ricerca alle risposte adeguate da dare alle vittime e riprendendo il suggerimento di qualche giudice di merito, ha esteso alla negoziazione individuale l’obbligo a carico dell’intermediario di consegnare il prospetto informativo, e ha previsto la sanzione della nullità nel caso di obbligazioni emesse all’estero. I giudici di merito hanno avanzato due tesi:
1) la nullità del contratto di acquisto degli strumenti finanziari per violazione degli obblighi di informazione da parte degli intermediari;
2) risoluzione per inadempimento del prestatore di servizio più risarcimento del danno. Quest’ultima tesi è appoggiato dalla Cassazione
E’ stata prospettata un’ulteriore tesi più isolata dalle altre che avanzava la annullabilità per dolo, ma non è facile provare ciò.
I doveri di informazione entro la (falsa) alternativa tra regole di validità e regole di responsabilità
Si deve ammettere che la commistione tra regole di validità e regole di responsabilità non è nelle fonti, interne o comunitarie, ma nella scelta dei giudici. Meritevole di apprezzamento risulta dunque essere la prima pronuncia della S.C. che ha cercato di
mettere ordine nel caotico panorama giurisprudenziale. La sentenza censura non il ricorso in sè alla figura della nullità virtuale, bensì la rintracciabilità tout court, nel caso di violazione dei doveri di informazione, di una causa di nullità ex art. 1418 co.1 c.c. e ciò perché la nullità deve comunque avere attinenza ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, e che riguardino cioè la struttura o il contenuto del contratto; laddove i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e si intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo a nullità del contratto.
La S.C. ribadisce che la nullità dell’atto negoziale, non discende da qualsivoglia violazione di una norma imperativa, e mai può intervenire a presidio della violazione di regole di condotta.
Al contempo la S.C. non sembra escludere in principio che la violazione di regole imperative di informazione, ostacolando la formazione di un consenso libero e informato, trovi sanzione nella nullità del contratto in quanto tali informazioni non riguardano direttamente la natura e l’oggetto del contratto, ma concernono soltanto elementi utili per valutare la convenienza dell’operazione. Ne risulta una regola fortemente eversiva in base alla quale un accordo non “informato” sarebbe insufficiente ad integrare il requisito dell’art.1325 c.c..
Ove l’offerta non sia conforme alle prescrizioni normative il contratto non potrà dirsi validamente concluso. Il giurista italiano potrà sorprendersi dal fatto che tale assunto condurrebbe a fare assurgere l’accordo informato a requisito essenziale con gli effetti di cui agli art. 1325 e 1418; ma dalla prospettiva europea rimane indiscusso che le regole sui doveri di informazione si configurano comunque quali regole che attengono alla composizione strutturale della fattispecie la cui violazione reclama il rimedio della nullità.
Quella che è stata denominata “informazione-consulenza” che si connota proprio per un contenuto non rigidamente predeterminabile è innanzitutto una modalità di adempimento della prestazione, per la cui violazione è possibile ricorrere ai rimedi dell’inadempimento contrattuale (risarcimento del danno e risoluzione).
Nell’ordinamento italiano c’è la tendenza ad ampliare l’area di obbligatorietà della consegna del prospetto informativo, estendendola anche alla negoziazione individuale e dando così più spazio alla sanzione della nullità: tale rimedio è però inefficace perché pur tutelando l’acquirente consumatore riduce i doveri di informazione attiva dell’intermediario limitandoli alla mera consegna del prospetto.
L’informazione nel corso del contratto e il ius variandi
Quanto a funzione e rimedi in materia di doveri d’informazione, poco cambia se questi sono collocati in fase postcontrattuale. Invece appartengono alla fase di esecuzione del contratto:
1) gli obblighi di informazione funzionali all’adempimento della prestazione;
2) gli obblighi di informazione che concernono modifiche delle condizioni contrattuali e che debbono precederle.
Nel primo caso l’obbligo legale delinea una prestazione accesorea e strumentale all’adempimento di quella principale. Nel secondo caso si controbilancia uno ius variandi unilateralmente riconosciuto.
In materia di assicurazione per la vita e contratti di prestazione di servizi finanziari il ius variandi unilaterale è ritenuto strumento irrinunciabile di efficiente funzionamento del
mercato creditizio dato il regime di rischio in cui operano le banche, ma confligge con il principio generale dell’immodificabilità unilaterale delle prescrizioni contrattuale da parte di una delle parti. Nel diritto interno derivato è riconosciuta piena cittadinanza al ius variandi unilaterale, purché preannunciato in seno al contratto con clausola specificamente approvata dalla controparte, e ne subordina l’esercizio ad un obbligo di informazione- comunicazione anche ai fini del recesso consentito all’altra parte (il recesso dunque rappresenta il vero contrappeso dello ius variandi).
Duty to disclose come principio generale nell’acquis comunitario? Le scelte dei PDEC
I doveri di informazione nei PDEC comprendono informazioni preliminari come fonte di obbligazioni contrattuali salvo la prova che l’altra parte sapeva o non poteva non sapere che l’informazione era inesatta (contrattualizzazione della informazione-dichiarazione). Il destinatario della dichiarazione può scegliere tra vari rimedi: nel caso di informazioni e consulenze inesatte è possibile solo il risarcimento del danno. Oltre agli obblighi legali da e di informazione si può ritenere che esistano doveri di informazione che facciano parte dell’acquis comunitario? Pare di no. Infatti inserito hanno: a) inserito la reticenza tra i vizi del consenso; b) espressamente sanzionato un generale dovere di informazione (clausola di buona fede) che però ancora rileva solo se vi è dolo.
Può comunque affermarsi che grazie all’influenza del diritto comunitario negli stati membri il principio generale di buona fede e correttezza, in luogo del consueto dovere di “non nascondere” impone il più pregnante dovere di non volgere in danno della controparte il proprio vantaggio informativo a prescindere dal dolo, anche se solo omissivo.
L’ACCORDO SUFFICIENTE E LA FUNZIONE DEL CONTRATTO
I requisiti del contratto nei PDEC
Nei PDEC all’art.1:102 si definisce l’autonomia contrattuale come la libertà delle parti di stipulare contratti e determinarne il contenuto nel rispetto di buona fede, correttezza e norme imperative contenute nei principi e sanciscono la possibilità delle parti di escludere l’applicazione delle norme o derogarvi salvo sia diversamente stabilito.
Art.2:101 sancisce che i requisiti del’accordo delle parti sono: la manifestazione di volontà di vincolarsi giuridicamente e la sussistenza di un accordo sufficiente.
Non sono necessari i requisiti di forma, e la prova del contratto può essere data con qualsiasi mezzo, compresa la testimonianza.
Art. 2:102 In tema di volontà si afferma ch essa si ricava dalle dichiarazioni e dalla condotta della parte così come compresa dall’altra parte.
Art.2:103 si considera accordo sufficiente quello in cui le clausole sono sufficientemente determinate dalle parti possono essere determinate applicando i principi (l’accordo insufficiente sarà ineseguibile, frattura funzionale).
L’idea di sufficienza evoca una relazione tra contenuto contrattuale e finalità che esse si promettono di realizzare.
Se però una parte rifiuta di concludere un contratto fino al raggiungimento dell’accordo su un punto specifico prima di ciò il contratto non viene ad esistenza. Da notare dunque che in materia di accordo sufficiente non si fa riferimento né all’oggetto né alla causa né alla forma del contratto, e un’analoga impostazione hanno i principi UNIDROIT. Non costituisce una grave lacuna il mancato riferimento all’oggetto dato che i caratteri che la tradizione riferisce ad esso (art.1346 c.c. liceità, possibilità, determinatezza, determinabilità) vengono attribuiti dai PDEC e dal cod. europeo dei contratti al contenuto.
La causa del contratto e l’accordo sufficiente
Più delicato è il problema del mancato riferimento alla causa. Nella cultura civilistica europea il dibattito sulla causa è sempre stato ampio essendo questo un elemento presente nella tradizione legislativa sia italiana che francese. Il BGB distingue tra zweckt (scopo) e grund (fondamento), mentre l’esperienza UK parla di consideration.
In Italia il c.c del 1865 considerava la causa “lecita per obbligarsi”, mentre l’odierno codice la considera la funzione economico-sociale del contratto, cioè il fine intrinseco di un contratto socialmente apprezzabile e come tale meritevole di tutela. Tale dimensione è sancita dalla relazione che accompagna il c.c. del 1942, ma è anche intrinsecamente contraddittoria perché da un lato si criticano le teorie che vedono nella causa lo scopo pratico individuale e soggettivo, dall’altro involontariamente si avvallano, dato che la causa così individuata risulta come scopo soggettivo e come strumento di controllo di tale scopo (funzione economico-sociale e funzione economico-individuale).
La causa si fonda sulla dialettica tra un’idea di negozio espressione di autonomia privata, e l’idea di uno Stato che detiene il monopolio della dimensione giuridica della socialità (unica fonte di valutazione in termini di meritevolezza di tutela giuridica). Cioè oltre ad effetti pratici si vogliono produrre effetti giuridici e ciò è possibile solo se i valori privati sono compatibili con quelli proprio dell’ordinamento dello stato (contratto come ordinamento originario).
Viene confermata l’idea della extrastatualità del diritto civile, tanto che sono previste forme di salvataggio di situazioni nate in contrasto con la legge.
La causa può essere intesa ancora come funzione economico-indiviudale, senza però confonderla con la funzione sociale cui la stessa relazione al c.c. faceva riferimento in linea con l’ideologia fascista. Infatti definire la causa come funz. Eco-ind significa attribuirle la natura ibrida di espressione oggettivata delle finalità soggettive. Si da dunque alla regola contrattuale una dimensione razionale. Trace della causa così intesa possono rinvenirsi anche nei PDEC: in vari parlano di “nature and purpose”, anche se stranamente, nella versione italiana, piuttosto che scopo, il termine “purpose” è stato tradotto con “oggetto”. Se ne parla a proposito di: giudizio di ragionevolezza; circostanze rilevanti; clausole implicite; interpretazione.
Il principio per cui i comportamenti devono essere coerenti con le finalità che la regola contrattuale vuole perseguire sembra espresso anche dai frequenti richiami a ragionevolezza, buona fede, correttezza, accordo sufficiente già citati agli artt. 1:102, 2:102, 2:103. La causa rimane quindi un elemento intrinseco alla stessa idea di economia privata, di cui si attesta sempre una “invisibile presenza”, anche in quei testi normativi che hanno frettolosamente rimosso il riferimento ad essa.
INVALIDITA’ ED INEFFICACIA
Nel linguaggio del diritto europeo dei contratti di fonte comunitaria, non è quasi mai menzionata la figura dell’invalidità, se non in eccezioni quasi uniche: la nullità delle intese vietate, alcuni riferimenti a nullità, annullabilità ed inefficacia contenuti nella dir. 02/47 sui contratti di garanzia finanziaria, nell’ambito della disciplina sulle concentrazioni tra imprese.
Le formule invece ricorrenti sono quelle: dell’irrinunziabilità di determinati diritti, del carattere imperativo o cogente di disposizioni appositamente indicate, della non vincolatività o non azionabilità di particolari accordi o clausole contrattuali.
È il legislatore nazionale che in sede di trasposizione del diritto di fonte comunitaria in corrispondenti regole di diritto interno, traduce quelle formule in altrettante categorie rimediali, scegliendo tra quelle reputate più idonee a garantire adeguata protezione all’ordine degli interessi, così come enunciati e valutati dal legislatore comunitario.
Il legislatore italiano, in particolare, ha preferito adottare il rimedio della “nullità di protezione”, un’espressione ormai recepita a pieno nel linguaggio legislativo in tema di clausole vessatorio, all’art. 36 cod. cons.
Quello della nullità è un rimedio generalmente adottato dalla quasi totalità delle legislazioni nazionali, anche se permangono significative differenziazioni, frutto di diverse identità e tradizioni culturali, ma che rappresentano esse stesse fattori propulsivi e di crescita del processo di integrazioni giuridica europea (le clausole vessatorie in UK sono soltanto “non vincolanti”, nel BGB sono “inefficaci”, in Francia “non scritte per contrarietà all’ordine pubblico”).
L’invalidità come negazione di dover essere
Invalido è quel contratto che non è come dovrebbe o avrebbe dovuto essere. L’invalidità denuncia dunque lo scarto tra l’essere e il dover essere del contratto.
Ma l’essere, per il diritto, non significa neanche idoneità agli effetti né tanto meno efficacia nel diritto (tant’è che neppure il contratto valido è necessariamente efficace), ma fissa solo la sua rilevanza.
L’invalidità dunque non è un’inqualificazione, ma una qualificazione negativa del contratto conseguente alla negazione di dover essere.
Nel nostro codice civile manca uno statuto normativo unitario dell’invalidità, ma è presente la disciplina della nullità e dell’annullabilità le quali, secondo una consolidata dottrina, costituiscono le due più rilevanti species del più ampio genus dell’invalidità. Criticabile è la tesi secondo cui nullità ed annullabilità sarebbero irriducibili ad un unico e medesimo schema di interessi: in realtà c’è sempre un calcolo che l’ordine giuridico compie con riferimento alla mancanza dei requisiti del contratto invalido, e dipende da tale calcolo la possibilità di differenti e diversificati gradi e stadi di invalidità, e di riflesso la configurabilità di differenti modalità di atteggiarsi dell’efficacia/inefficacia che ne consegue. È quindi il criterio del calcolo differenziale ad operare, da cui nasce la diversità degli statuti di nullità ed annullabilità.
Il grado e la natura delle invalidità vengono fatte dipendere da una valutazione ponderata di entità e qualità dell’anomalia, ma il tutto in un’ottica che considera sia il momento formativo dell’accorso sia quello regolamentare degli interessi programmati in modo astratto, indifferenziato e neutrale, rimanendo del tutto estranea ogni strategia di
costruzione e conformazione del regolamento contrattuale per scopi di tutela di particolari esigenze delle parti o di terzi.
Nella normativa post-codice si abbandona la vecchia concezione atomistica e neutrale del contratto, per fare spazio ad una nuova concezione di esso che valorizza il punto di vista esterno, cioè lo connette alla situazione complessiva di cui è espressione o sulla quale dovrà incidere (si toglie dunque rilievo al punto di vista interno, quindi al contenuto del contratto). È il compimento di quello che si può chiamare il lento ed inesorabile declino del contratto come “regola” di privati interessi patrimoniali, e il suo definitivo trapasso a mera “tecnica” organizzativa di determinati interessi negoziali; una vera e propria rottura del nesso biunivoco tra il contratto e il regolamento.
Al termine di un siffatto processo l’invalidità appare ormai staccata dai tradizionali schemi, e non più relegata al campo dei rimedi di fattispecie, viene a proporsi quale vero e proprio rimedio di regolamento, cioè mezzo tecnico di gestione e controllo del regolamento contrattuale.
Le invalidità nell’esame comparatistico e nelle fonti scientifiche
In questo ambito si assiste ad un’evidente divaricazione tra formante normativo e formante dottrinale.
Il diritto europeo dei contratti non presenta l’invalidità in versione di annullabilità (ad es. la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili, espressamente dispone che il proprio contenuto non riguarda la validità del contratto o di singole sue clausole o degli usi).
Sono invece i principi elaborati dal formante dottrinale a riportare in auge la invalidità/annullabilità, e di particolare rilievo è la riscrittura da parte dei Principi Unidroit e dei PDEC della tradizionale disciplina dei vizi del consenso, con particolare attenzione al nuovo trattamento dell’errore, per il ruolo eminentemente assegnato alla buona fede, al principio di responsabilità e al requisito della scusabilità.
All’art. 3.10 i Principi Unidroit introducono una nuova causa di annullabilità: il “gross disparity”, vale a dire l’eccessivo squilibrio derivante da attribuzione ingiustificata di vantaggio eccessivo; sulla stessa linea i PDEC disciplinano, all’art. 4:109, l’ “excessive benefit or unfair advantage”, cioè l’annullabilità del regolamento contrattuale affetto da ingiusto profitto o vantaggio iniquo; mentre all’art. 4:110 sanciscono l’annullabilità anche delle clausole abusive non oggetto di trattativa individuale. Quello che tuttavia lascia perplessi è l’inquadramento nell’ambito dell’annullabilità perché appare in controtendenza con il formante legislativo europeo, il quale indica in modo chiaro ed univoco che la tecnica più appropriata al rimedio dell’inosservanza di un preciso dover essere normativo è la nullità c.d. di protezione, laddove invece l’annullabilità risponde quasi sempre e soltanto ad un’esigenza di tutela della libertà decisionale dei contraenti. Più coerente con le indicazioni provenienti dalla normativa europea è indubbiamente l’Avant-project francese, il quale ordina le invalidità esclusivamente attorno alla nullità di protezione, distinguendola in assoluta e relativa, a seconda del carattere generale o particolare dell’interesse tutelato. Una valutazione a parte merita il Codice europeo dei Contratti il quale, oltre a prevedere la
c.d. “inesistenza”, contiene una norma che disciplina la “privazione di effetti” in materia di condizioni di contratto e clausole vessatorie, e una norma che prevede la nullità anche in tutti i casi previsti dalle leggi dell’UE, oltre a quelle degli Stati membri (ciò che sorprende, però, è che nel conflitto viene data prevalenza alle norme degli Stati membri, sia pure alle condizioni precisate nella disposizione).
Perdita di unità del contratto, pluralizzazione della nullità e discesa in campo delle c.d. nullità di protezione
Nel diritto europeo di fonte legale, alla tradizionale concezione bipolare dell’invalidità, si è sostituita una diversa e opposta configurazione solitaria e monistica, incentrata sulla nullità.
E tale nullità è divenuta, in prospettiva europea, un rimedio sempre più conformato, quanto a struttura e funzione, dal tipo di operazione contrattuale posta in essere, valutata sia dal punto di vista dello specifico assetto di interessi in gioco, che sotto il profilo della particolare posizione delle parti coinvolte e della natura dei beni e servizi edotti.
Il diritto europeo dei contratti mostra invece un atteggiamento di rigetto verso ogni forma di trattamento rigidamente monistico, riproponendo una dicotomia di modelli e una corrispondente notevole diversità di regimi giuridici che il diritto interno aveva da tempo cancellato (ad es. tra contratti di impresa e contratti del consumatore).
Sicché si è passati dalla tradizionale disciplina generale ed indifferenziata, che faceva leva soltanto sull’esistenza di determinate cause e predefiniti caratteri, ad un regime giuridico diversificato e complesso, variamente articolato e graduato a seconda della specifica tipologia inficiante l’atto, e come tale irriducibile ad un concetto unico.
Il modo attraverso il quale il diritto europeo dei contratti ha realizzato un siffatto processo di profondo mutamento è rappresentato dalla messa in campo di una nuova figura di nullità, la c.d. nullità di protezione, quale categoria non più monistica, bensì plurale, irriducibile ad uno schema unitario e compatto, in quanto avente fondamento in patologie di varia natura del regolamento contrattuale.
La svolta muove dal radicale “oltrepassamento” della teoria della fattispecie, e qualora siano previste ancora ipotesi di nullità strutturali, queste devono avere essenzialmente un ruolo funzionale (nullità strutturali a necessario rilievo funzionale), in quanto volte a garantire efficienza e razionalità al regolamento contrattuale; il salto di qualità si coglie ad esempio nel momento in cui si è fatta della forma un autonomo requisito di validità e di circolazione dell’operazione contrattuale.
Nullità funzionali con finalità conformativa del regolamento contrattuale
Nella maggior parte delle ipotesi, a prendere decisamente il sopravvento è invece una nullità di tipo completamente nuovo, che possiamo dire essere “funzionale”, commisurata e in stretto rapporto con il concreto assetto degli interessi perseguito dalle parti, ed avente finalità essenzialmente conformativa di rimodellamento del regolamento contrattuale. Se ne possono distinguere vari tipi:
• regolamenti imposti: il diritto europeo dei contratti, a volte, predetermina in tutto o in parte, ad opera della stessa norma o di autorità indipendenti, il regolamento contrattuale. In questo caso si tratta di regolamenti sottoposti ad un elevato grado di protezione giuridica. In questi casi si ha nullità se il regolamento contrattuale è privo del profilo precettivo imperativamente prefissato o normativamente delegato: di regola all’effetto eliminativo totale o parziale si accompagna la contestuale ad automatica integrazione o sostituzione delle parti caducate con regole dettate dalla stessa previsione normativa o dalle stesse autorità indipendenti. È di norma azionabile d’ufficio, con legittimazione relativa, e a volte estesa anche ad ogni interessato.
• Regolamenti contrattuali ambiti: altre volte la norma si limita a dettare dei contenuti minimi necessari da salvaguardare e perseguire ad ogni costo. Si tratta di regolamenti favoriti dall’ordine giuridico e suscettibili di deroghe solo in melius. La nullità in questi casi consegue al fatto che il regolamento contrattuale viene riscontrato privo del contenuto minimo necessario normativamente predeterminata; è di regola a parzialità necessaria e l’azionabilità, oltre che ad istanza di parte e di ufficio, può avvenire anche ad opera di terzi qualificati da connessi interessi meritevoli.
• Regolamenti contrattuali preferiti: si tratta di assetti pattizi alternativi, connotati da una particolare conformazione regolamentare. La nullità si ha se il regolamento contrattuale non corrisponde alla determinazione pattizia preferita dall’ordine giuridico: azionabile d’ufficio e da chiunque vi abbia interesse, colpisce di pieno diritto, in tutto o in parte, il regolamento pattizio con contenuto infrattivo (esemplare in tal senso è la disciplina delle intese, o il caso del contratto che risultasse espressione di abuso di posizione dominante).
• Regolamenti contrattuali tollerati: si tratta di assetti di interessi programmati e decisi dagli operatori (soprattutto in materia di contratti bancari e finanziari). Il diritto europeo dei contratti mostra di tollerarli a patto che rispettino determinate condizioni, e cioè che non risultino compromessi o messi in gioco interessi costitutivi di sistema, e fino a quanto il soggetto cui è conferita la legittimazione ad agire non intenda far valere la nullità, o questa non venga rilevata d’ufficio.
• Ipotesi di violazione del principio di buona fede: si tratta di un’ulteriore tipologia di nullità funzionali al rimodellamento del regolamento contrattuale costituita da ipotesi di violazione del principio di buona fede (cioè quando il contegno contrario a buona fede di una delle due parti, avuto riguardo al concreto e reale assetto di interessi in campo, abbia esplicato un effettivo condizionamento sulla conformazione del contratto).
Nullità preordinate all’equità e alla giustizia del regolamento contrattuale L’esigenza di regolamenti contrattuali equi (cioè improntati a ragioni di giustizia sostanziale), è molto avvertita nel diritto europeo dei contratti.
In tutti questi casi la nullità scaturisce dal fatto che il regolamento contrattuale viene scoperto affetto da significativo squilibrio economico o soltanto giuridico, da sproporzione tra prestazioni, da abuso di posizione dominante o di dipendenza economica, da abuso tout court, contrarietà a buona fede, grave iniquità o sostanziale ingiustiza; presenta i caratteri della parzialità necessaria e dell’azionabilità, oltre che ad istanza del contraente lese, anche di ufficio e a volte pure ad opera di terzi qualificati. Ad es. ai sensi dell’art. 2.2 cod. cons. l’equità nei rapporti contrattuali è diritto fondamentale di consumatori ed utenti, a pari della correttezza e della trasparenza; nella più recente normativa comunitaria emerge un vero e proprio principio di equa negoziazione, avente portata generale e il più delle volte accompagnato anche dalla previsione di diretti poteri giudiziali con finalità integrativa e/o correttiva del regolamento contrattuale.
Il problema è però che l’equità è un concetto giuridico indeterminato, come lo sono anche proporzionalità ed equilibrio, e pertanto è necessario individuare dei parametri generali. Le diverse formule normativamente utilizzate risultano poco utili perché rimandano ad ulteriori unità di misura (ad es. “significativa, o non congrua, o eccessiva, o ingiustificata alterazione dell’equilibrio contrattuale); più appropriato sembra essere il quadro di riferimento delineato dalla normativa sui ritardi di pagamento nelle transazioni
commerciali, perché elenca un contesto di circostanze da cui partire per cercare i criteri determinativi del valore dell’equa negoziazione.
Scopo e finalità della nullità europea quale tecnica rimediale di graduazione dell’efficacia con funzione di protezione
Costituisce primario obiettivo del diritto europeo dei contratti la sostanziale conformazione del regolamento contrattuale. Si iscrive in questa logica l’adozione della c.d. nullità- funzione, cioè la nullità che sta in diretto e immediato rapporto di corrispondenza con un determinato assetto di interessi, in ragione della natura degli stessi, della specifica posizione delle parti, dei beni e servizi negoziati.
Alla tradizionale indole nagativa e demolitoria propria di ogni nullità, la nullità europea sostituisce una particolare tecnica costruttiva di graduazione dell’efficacia del contratto (la nullità nel diritto europeo ha carattere plurale).
Fondamento della nullità non è più necessariamente la tutela di un interesse solo pubblico o sociale, astratto e spesso contrapposto a quello particolare delle parti contraenti, ma direttamente ed immediatamente anche soltanto in questo; da sanzione quale era, la nullità diventa protezione, qualificandosi appunto come nullità di protezione di ben individuate categorie di interessi.
Il superamento dei tradizionali caratteri e il nuovo volto della nullità europea di protezione
Caratteri diversi connotano la nullità europea di protezione rispetto alla nullità codicistica. Quest’ultima, quando c’è, non conosce compromessi o patteggiamenti, e si costruisce secondo schemi e moduli uniformi e insuscettibili di variazioni e adattamenti: se l’atto non è conforme allo schema, l’inefficacia non può che essere radicale, assoluta; l’azione sarà imprescrittibile; rilevabilità d’ufficio.
La parzialità non è configurabile se non come eventuale e residuale soltanto; in forse risultano persino collaudati caratteri quali:
a) L’indisponibilità, in quanto limitata alle sole pattuizioni sfavorevoli, ed eslcusa per le pattuizioni a vantaggio o più favorevoli al contraente debole;
b) L’insanabilità, sia pure nei limiti del principio di una disponibilità successiva all’azione nelle forme della esecuzione o anche di una rinunzia;
c) L’imprescrittivibilità, dovendo la permanenza in vita della relativa azione ritenersi strettamente subordinata alla vigenza delle pretese nascenti dai rapporti regolati;
d) La retroattività erga omnes e quella inter partes
e) L’esito di un’espressa comminatoria, dato che spesso le nullità si atteggiano come virtuali soltanto (ad es. nel divieto di abuso di posizione dominante, art 82 tr.) o come testuali.
La nullità europea di protezione quale categoria plurale a rilevanza costante ma ad efficacia variabile
Importante è evitare un inquadramento della nullità europea nel tradizionale schema delle nullità relative, perché ciò sarebbe insufficiente e riduttivo nonché smentito dalla stessa natura dell’istituto in commento. In molte ipotesi di nullità europea, infatti, l’azionabilità in giudizio è aperta anche a terzi estranei al contratto (accordi gravemente iniqui in danno
del creditore; abuso di dipendenza economica) e addirittura a chiunque possa vantare un interesse meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico (intese anticoncorrenziali vietate; abuso di posizione dominante), mentre com’è noto, nelle nullità c.d. relative la legittimazione all’azione è riservata ad una sola delle parti contraenti.
Deve ritenersi escluso anche ogni ricorso allo schema logico del rapporto regola-eccezione: il modello europeo di nullità, infatti, non ha natura eccezionale, e come tale non si sottrae all’estensione analogica (e non sarebbe il caso nemmeno di degradare al rango di eccezione il modello codicistico).
Neppure infine può condividersi la sempre più diffusa qualificazione delle diverse nullità di diritto europeo come speciali, perché la specialità implica il riferimento ad un regola di cui si vuole specificare la portata, mentre la nullità europea è essa stessa regola di sistema.
La nullità europea è quindi, in ultima analisi, da definire quale la tecnica rimediale di protezione e categoria plurale a rilevanza costante ma ad efficacia variabile.
L’inefficacia nel diritto europeo dei contratti: a) da nullità di clausole vessatorie; b) da validità sospesa per atteso esercizio di ius poenitendi; c) da incompatibilità di concentrazioni anticoncorrenziali
Se l’efficacia può derivare anche da un atto nullo, l’inefficacia presuppone invece un negozio necessariamente valido.
È fondamentale al riguardo considerare che anche l’effetto giuridico ha un suo ciclo vitale e pertanto anch’esso, nonostante l’idoneità del regolamento a produrlo, può venirsi a trovare, per vicende interferenti con il suo normale decorso, nell’impossibilità provvisoria o definitiva, assoluta o relativa, originaria o successiva, di operare pienamente.
L’inefficacia si presenta dunque come vicenda negativa perfettamente speculare all’efficacia, consistendo propriamente nella mancata trasformazione, in correlativi effetti, dei previsti e programmati modelli di comportamento prescelti dalle parti per la realizzazione dell’assetto contrattuale di interessi avuto di mira.
Le cause cui ascrivere la negazione all’atto consistono a volte in carenze intrinseche agli stessi effetti contrattuali (indeterminatezza dei soggetti e dell’oggetto: un effetto non imputabile ad un soggetto né riferibile ad un oggetto sarebbe impossibile); più spesso però sono carenze estrinseche, ragioni di sistema, ad impedire agli effetti contrattuali di prodursi pienamente.
L’inefficacia viene quindi a designare una condizione di soccombenza interna dell’interesse interno al contratto che, pur essendo rilevante e valido, interferisce con altri interessi esterni al contratto e con esso incompatibili. L’inefficacia presenta una naturale vocazione alla composizione di interessi conflittuali, e per questo potrebbe essere utilizzata quale strumento di controllo della c.d. giustizia delle operazioni di scambio (anche se il diritto europeo dei contratti non mostra particolare propensione per l’impiego di questa categoria).
Una rilevante applicazione era rappresentata invece dall’inefficacia delle clausole vessatorie, secondo alcuni da qualificare come inefficacia vera e propria, secondo altri da ricondurre alla categoria della nullità.
Ad inefficacia pendente sembrerebbe invece darl luogo la disposizione di cui all’art. 11.4 d.lgs. 190/05 secondo cui l’efficacia dei contratti di commercializzazione a distanza relativi ai servizi finanziari di investimento è sospesa durante la decorrenza del termine previsto per l’esercizio del diritto di recesso.
Quella degli accordi di concentrazione incompatibili è invece un’inefficacia vera e propria: gli accordi di concentrazione manifestano un assetto di interessi interno potenzialmente
confliggente con il sistema degli interessi esterno di un mercato aperto e concorrenziale, e per questo l’efficacia di tali accordi è sottoposta alla condicio juris di una dichiarazione di compatibilità da parte della Commissione, con valore medio tempore sospensivo della sua realizzazione. Essa è destinata a evolvere in definitiva inefficacia in caso di mancato avveramento di detta condizione, e cioè di accertata incompatibilità degli accordi medesimi con il principio della libertà di concorrenza. Ciò giustifica, in ipotesi di operazioni di concentrazioni illegittimamente già realizzate, il ripristino con efficacia retroattiva della situazione quo ante.
IL PRINCIPIO GENERALE DI BUONA FEDE
Il principio di buona fede nel contratto, nel senso di regola generale circa il comportamento e l’esercizio del diritto, a carico di ogni contraente, è presente oggi come principio pervasivo in tutti gli ordinamenti privatistici dell’Europa continentale; si potrebbe addirittura aggiungere che si tratta di un principio essenziale e fondatore dello stesso diritto privato europeo.
Esso trova le sue radici nella bona fides del diritto contrattuale romano, e in particolare nel sistema contrattuale emergente dai bonae fidei iudicia, così come dall’exceptio doli nel processo formulare.
Nel corso dei secoli sono state così create, sulla base della regola della buona fede, imponenti complessi normativi extralegali, che hanno avuto un massiccio seguito nella prassi di numerosi ordinamenti europei, anche se con qualche differenza. Un’analisi storico comparativa metterà in luce come ad esempio sia in Francia che negli altri ordinamenti latini, è rimasta ignota una portata normativa autonoma del canone di buona fede, inteso come punto di riferimento legislativo a cui il giudice possa ricorrere per correggere gli effetti iniqui di una norma legale o contrattuale.
Nel common law inglese la bona fides è sconosciuta, non essendo possibile ricondurla alla nozione di “good faith”; invece analizzando alcune giurisprudenze tedesche si possono ritrovare alcune soluzioni equitative che i giudici hanno legittimato con l’idea del principio generale di buona fede.
Il principio generale di buona fede nel diritto tedesco dalla pandettistica alla prassi giudiziale attuale
Ben diverso è appunto il ruolo del principio generale di buona fede nel diritto privato tedesco.
In continuità con l’usus modernus pandectarum (cioè con il diritto romano, filtrato ed epurato da tutte le sue imperfezioni), la figura dell’eccezione di dolo permane nel diritto e nella prassi giudiziale della Germania del XIX sec.
Nel 1912 il filosofo Xxxxxxx inquadra la nozione di eccezione di xxxx nel divieto del venire contra factum proprium, riconducendola così al principio generale di buona fede codificato nei $$ 242 e 157 del BGB, che concernono l’esecuzione e l’interpretazione del contratto secondo buona fede.
Soltanto nel secondo e terzo decennio del XX secolo inizia a trovare applicazione, nella giurisprudenza tedesca, l’idea secondo la quale l’esercizio di un diritto in maniera maliziosa e contraria all’affidamento suscitato nella controparte può essere paralizzato col ricorso alla figura dell’exceptio o della replicatio doli. Esemplare al riguardo è lo sviluppo dell’istituto giurisprudenziale della Verwikung (decadenza/prescrizione), secondo cui chi tarda ad esercitare un suo diritto contrattuale o legale, e suscita così nella controparte il giustificato affidamento che non ne farà più uso, è da considerarsi decaduto da quest’ultimo, anche se i termini di prescrizione non sono ancora decorsi.
Il richiamo al principio generale di buona fede offre al giudice tedesco la legittimazione per intervenire nel controllo e nell’integrazione del contenuto del contratto, facendo riferimento ad una ipotetica volontà delle parti, per cui ad esempio il venditore di un immobile sarà, in base a buona fede, obbligato a cedere all’acquirente le proprie eventuali pretese al risarcimento dei danni per vizi occulti, che egli stesso abbia contro il proprio
xxxxx causa, malgrado la previsione a suo favore nel contratto di una clausola di esclusione di responsabilità.
O ancora, dal principio di buona fede si dedurrà l’impossibilità di giovarsi dell’intervento di una causa esterna per pretendere immediatamente lo scioglimento del rapporto; piuttosto sorgerà un obbligo di rinegoziazione del contratto, altrimenti sarà il giudice legittimato ad integrare e adattare le condizioni del rapporto contrattuale. Questo principio si trova oggi accolto nel nuovo $$ 313 BGB e nell’art. 6:111 PDEC.
Il medesimo principio di buona fede del $ 242 ha offerto dopo il secondo conflitto mondiale alla giurisprudenza tedesca anche la base per sviluppare un complesso sistema giurisprudenziale di controllo del contenuto delle condizioni generali del contratto, per cui ad es. è stata considerata invalida per contrarietà alla buona fede la clausola di un contrato di deposito che escludeva la responsabilità dei magazzini frigoriferi del porto di Amburgo nel momento in cui escludeva la responsabilità anche per l’ipotesi di non funzionamento degli impianti.
In realtà il $ 242 BGB, nelle intenzioni dei compilatori del c.c. tedesco, non fu visto affatto in maniera tanto diversa da come fu ad esempio valutato l’art. 1134.3 del Code Civil francese: se si analizza la giurisprudenza si potrà constatare che i richiami iniziali al $ 242 BGB furono formulati solo in ipotesi in cui si trattava in realtà dell’esercizio di diritti potestativi o di termini previsti in clausole contrattuali. È invece solo verso la fine degli anni ’20 che il Reichsgericht cominciò a vedere nel $ 242 BGB un principio generalissimo, consistente anche in un limite all’applicazione di norme legali.
I tribunali tedeschi, attraverso la regola generale della buona fede, hanno rivoluzionato la disciplina legale della nullità per vizio di forma: sono giunti a disapplicare i termini legali della prescrizione estintiva creando attraverso l’istituto pretorio della Verwirkung un complesso di ipotesi preterlegali di perdita del diritto, che si pongono come un tertium genus accanto agli istituti legali della prescrizione e della decadenza; hanno relativizzato la disciplina dettata dal BGB sulla sospensione e sulla interruzione della prescrizione ed hanno svuotato di senso il $ 225 (oggi abrogato) che sanciva la nullità di modifiche convenzionali alla disciplina legale della prescrizione, tendendo a sostituire quindi al sistema legale (ispirato all’idea della certezza del decorso dei termini) un sistema elastico ispirato principalmente alla tutela delle aspettative della controparte).
Recentemente la dottrina tedesca ha formulato qualche dubbio circa l’opportunità di ricorrere ancora oggi alla formula tralatizia della violazione del principio di buona fede, sentendo la necessità di inquadrare le soluzioni raggiunge nel diritto applicato in una precisa analisi degli interessi in conflitto. Nell’ultima edizione del classico commentario al BGB ci si sposta dalla categoria del divieto di venire contra factum proprium ad una interpretazione teleologica in cui si mantiene l’idea della funzione creatrice e correttiva della bona fides.
Il dibattito sul principio generale di buona fede nella dottrina e nella prassi italiane
I primi contributi sul tema provengono da quegli autori che all’inizio del secolo cominciarono a guardare verso il modello della pandettistica e della civilistica tedesche del tempo.
Del modello tedesco si recepì in particolar modo il rifiuto dell’ammissibilità di una eccezione generale di dolo nel diritto vigente, e di ciò ne è prova sia per la dottrina sotto il codice del 1865, sia per quella sotto il nuovo codice del 1942: si continuò a sostenere che nel diritto vigente la repressione del comportamento doloso o sleale a danno degli
affidamenti e delle attese creati nella controparte, trovava realizzazione solo nelle ipotesi previste in specifiche norme del codice. In effetti il codice del 1942 prevede numerosi articoli che sanzionando la condotta contraddittoria o l’intento malizioso di chi fa valere una pretesa in giudizio, traendo vantaggio dal proprio comportamento sleale, rappresentano in realtà una concretizzazione legale dell’idea sottostante al divieto di venire contra factum proprium (si pensi ad es. all’art. 1260.2 che rende opponibile al cessionario che ne era a conoscenza il patto con cui le parti hanno escluso la cedibilità del credito; all’art. 1359 che considera avverata la condizione apposta al contratto quando questa sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento; all’art. 1426 che deroga all’annullabilità del contratto concluso dal minore, se questi aveva con raggiri occultato la sua età. La dottrina rifiutò, tuttavia, di desumere da queste norme un principio generale positivamente applicabile.
È negli ultimi decenni che si può osservare sul presente tema un deciso nuovo orientamento della dottrina italiana: dalle numerose norme del codice civile del 1942, in cui trovano richiamo le regole della buona fede e della correttezza (artt. 1175, 1366, 1375, 1337, 2598), si può fare derivare un generale principio di buona fede che sottende alle relazioni giuridiche, alcuni addirittura iniziano ad affermare che il legislatore abbia implicitamente introdotto nel sistema italiano una clausola generale di buona fede.
Si mette così in luce come il principio di buona fede sia presente non solo in ogni fase di sviluppo della fattispecie contrattuale, ma anche nell’esercizio dei diritti in generale. Si fa così appello alla nozione di buona fede in senso oggettivo, come criterio capace di determinare il contenuto del rapporto giuridico ed il limite del diritto di credito.
Punto in comune di tutti i contributi dottrinali italiani è la critica verso la scarsa inclinazione della giurisprudenza a servirsi del principio di buona fede, considerato anche come norma generale, e quindi inidonea ad una diretta applicazione. Proprio sulla base di questo nuovo indirizzo, la prevalente dottrina italiana ha iniziato ad ammettere, negli ultimi anni, la vigenza nell’ordinamento italiano della figura dell’eccezione di dolo generale, di cui viene visto il fondamento legale nelle norme codicistiche di buona fede: ad es. si è vista la possibilità di sollevare una exceptio doli in materia di fideiussione bancaria, factoring e contratto autonomo di garanzia.
Negli ultimi anni anche la massa dei dati giurisprudenziali è più fitta; un esempio fra tutti è quello offerto dalla sent. 5639 Cass., in cui la Suprema Corte ebbe modo di stabilire che è contraria a buona fede la sospensione dell’assicurazione per ritardo nel pagamento dei premi, da parte dell’istituto che da tempo provvedeva a ritirare i premi tramite un proprio incaricato, fuori dalle scadenze stabilite dal contratto.
La recezione del modello tedesco sembra tuttavia avvenuta in Italia in maniera non totale.
La bona fides come ratio decidenti implicita nel diritto applicato francese
Una valutazione realistica del diritto applicato in Francia permette di affermare che l’idea del divieto di venire contra factum proprium, almeno come ratio decidendi implicita, non è affatto ignota agli interpreti latini. Spesso la soluzione imposta dai canoni tradizionali della buona fede e dell’equità è stata filtrata dagli interpreti attraverso il ricorso all’idea di un tacito atto di volontà, che si risolve però di fatto in una finzione giurisprudenziale.
Anche sotto altri punti di vista si può constatare come nel diritto francese applicato abbia avuto luogo una lenta erosione di alcuni aspetti del ius strictum codificato: esemplare al riguardo è l’erosione del rigore della disciplina legale in materia di termini prescrizionali, che la giurisprudenza francese ha compiuto col ricorso all’antica massima equitativa contra non valentem agere non currit praescriptio (“contro chi non sia in grado di agire, non
decorre la prescrizione”). Non si tratta di una sospensione della prescrizione (e così i giudici evitano l’obiezione sulla tipicità legale delle cause di prelazione), ma di un beneficio che i tribunali dispensano cognita causa in virtù della nozione di forza maggiore e della considerazione che nessuno è tenuto all’impossibile; un’impossibilità d’agire connessa ad un comportamento sleale o fraudolento dell’altra parte. Anche nella nostra vecchia giurisprudenza sotto il codice del 1865 si rinvengono alcune sentenze con un orientamento analogo a quello francese; l’art. 2941, n.8 c.c (“la prescrizione rimane sospesa tra il debitore che ha dolosamente occultato l'esistenza del debito e il creditore, finché il dolo non sia stato scoperto”) ha apparentemente risolto il problema, anche se una sua più liberale interpretazione potrebbe offrire ai nostri interpreti maggiori spazi per contemperare il rigore dei termini prescrizionali con le esigenze di tutela della buona fede e dell’affidamento suscitati nel creditore.
I parallelismi col diritto tedesco non vanno tuttavia sopravvalutati: la giurisprudenza francese rimane, nella sostanza, estremamente reticente ad un ampio ricorso alla bonne foi di cui all’art. 1334.3 Code Civil, che non può coincidere, dunque, con la “Treu und Glauben” tedesca. Un controllo del contenuto del contratto, sulla base del semplice principio della buona fede contrattuale, rimane per i giudici francesi difficilmente concepibile.
La buona fede nel diritto privato comunitario e l’impatto del common law inglese
Alla domanda circa l’esistenza o meno di un principio di buona fede nel diritto comunitario è arduo rispondere.
I regolamenti infatti parlano solo di buona fede in senso soggettivo; nelle direttive di carattere privatistico, invece, esempi più significativi sono gli artt. 3 e 4 dir. 86/653 in cui si prevede a carico dell’agente e dell’imprenditore un obbligo di agire con lealtà e buona fede, o ancora il noto art. 3 dir. 93/13 secondo il quale una clausola contrattuale non oggetto di trattativa individuale è da considerarsi abusiva quando, nonostante l’esigenza di buona fede, provoca uno squilibrio significativo a carico del consumatore.
In particolare, l’applicazione di quest’ultima norma comunitaria mostra in forma esemplare l’ambivalenza della nozione di buona fede contrattuale nel diritto privato comunitario: ogni qual volta il legislatore comunitario inserisce in un testo normativo di natura privatistica l’espressione “buona fede”, rimerge un conflitto fra civil law e common law. La bona fides romana è infatti completamente estranee alla tradizione del diritto ingelse: qui la “good faith” è intesa in senso soggettivo, come la situazione psicologica di chi non è a conoscenza di determinate situazioni e fatti che possono essere rilevanti nella formazione e nell’esecuzione di un contratto (una “fair and open dealing”, cioè un’equa ed aperta trattativa). Per un giurista di common law è quindi inconcepibile che un giudice sia autorizzato, in nome della buona fede e dell’equità, ad integrare il contenuto di un contratto ed a precludere al creditore l’esercizio del suo diritto. Nel 1992 l’House of Lords ha addirittura espressamente negato l’applicabilità, nel diritto inglese, della nozione di buona fede oggettiva.
Comparando le diverse attuazioni nazionali dell’art. 3 dir. 93/13, viene esemplarmente ad evidenza l’ambivalenza del diritto privato comunitario sul punto:
• Il legislatore tedesco ha utilizzato il termine Treu und Glauben, pensando senza dubbio al principio generale del $ 242 BGB;
• Il legislatore francese ha preferito evitare, nell’attuazione di tale articolo, l’espressione “bonne foi”, malgrado questo termine ricorra nello stesso testo francese della direttiva;
• Il legislatore italiano, nell’art. 33 cod. cons., ha ripreso esattamente il testo della direttiva.
La Corte europea di giustizia ha finora evitato di prendere chiaramente posizione in materia; recentemente si è dichiarata incompetente a chiarire se in una data ipotesi una condizione generale di contratto sia o meno contraria di buona fede, in quanto ritiene che una tale valutazione sia riservata al giudice nazionale.
Soluzioni giudiziali ex fide bona e soluzioni codicistiche
Si può constatare come l’idea della preclusione al creditore dell’esercizio di una posizione giuridica formale quale sanzione per avere fatto valere il proprio diritto in maniera sleale e contraria agli affidamenti fatti nascere dal proprio comportamento nella controparte, è presente nella grande maggioranza dei sistemi giuridici continentali.
Ciò non vale per il common law inglese. Storicamente nella tradizione del diritto romano comune si tratta di un principio che trovò la sua concretizzazione nella figura dell’exceptio doli generalis. La continuità di questo istituto in Germania conferma come il diritto tedesco sia il più vicino alla tradizione del diritto romano comune. Nel diritto francese e nei sistemi a questo legati i giuristi sono più reticenti di fronte a questa idea. La funzione antica della regola della bona fides permane travasata nelle rationes decidendi implicite di certe soluzioni giurisprudenziali.
MUTAMENTO DI CIRCOSTANZE E OBBLIGO DI RINEGOZIAZIONE
Il principio pacta sunt servanda e la distribuzione del rischio da circostanze non regolate dal nuovo mercato globale.
Il principio “pacta servanda sunt” (sanctity of contract) è alla base di tutti gli ordinamenti europei. Subisce però, in misura diversa nei diversi paesi membri, delle limitazioni in ragione delle sopravvenienze contrattuali. Bisogna distinguere tra ordinamenti tradizionalmente restii ad abbandonare il principio di sanctity of contract (Francia e Inghilterra) e altri ordinamenti più propensi ad attribuire rilievo alle sopravvenienze contrattuali, o in modo indistinto (Germania) o prevedendo discipline diverse a seconda dei tipi di sopravvenienze e della rilevanza sul programma negoziale (ad es. in Italia si distingue dagli altri casi l'eccessiva onerosità sopravvenuta).
Oggi è sempre più avvertita la necessità di attribuire rilevanza a taluni tipi di sopravvenienze come ad es. le innovazioni tecnologiche [...]
I rimedi
I rimedi per le sopravvenienze contrattuali nei vari ordinamenti sono i più diversi e diverso è il ruolo del giudice nell'attuazione di essi. Alcuni ordinamento sono contrari ad attribuire al giudice il potere di determinare le condizioni di adeguamento del contratto (ad es. in Italia l'art.1467 in caso di eccessiva onerosità prevede che la parte su cui questa grava possa chiedere la risoluzione, che l'altra parte può evitare offrendo la rinegoziazione). Altri ordinamenti sono orientati verso l'amministrazione giudiziale delle sopravvenienze (ad es.: in Germania e Olanda il giudice ha il potere di adeguare il contratto, anche se tale rimedio può rivelarsi inadeguato nei casi in cui la prestazione è assolutamente inidonea a soddisfare lo scopo per cui era stata convenuta).
In alcuni casi sono le parti ad inserire nel contratto clausole di rinegoziazione, ma ampio è il dibattito circa la possibilità di desumere in via interpretativa sulla base di clausole generali (es. buona fede) un obbligo legale di rinegoziazione. In molti casi la dottrina anche italiana ha sostenuto tale possibilità perché ha considerato i rapporti di lungo periodo tra agenti del mercato come retti da contratti incompleti, posta l'impossibilità di prevedere ex ante scenari futuri; ma altri hanno criticato tale tesi in quanto la rinegoziazione potrebbe dare adito a a comportamenti opportunistici e si realizzerebbe disparità tra i contraenti, evitabile solo con l'adeguamento giudiziale che però priverebbe di significato la rinegoziazione.
Nei vari ordinamenti inoltre diverse sono le conseguenze che si collegano al rifiuto o al fallimento della rinegoziazione. Si stanno ancora studiando procedure di rinegoziazione atte a minimizzare il rischio che la rideterminazione di termini del contratto risulti avversa a che ha realizzato investimenti specifici.
Manca nell'ordinamento comunitario un insieme di regole volte a disciplinare il problema delle sopravvenienze contrattuali. Solo una dottrina minoritaria vede nel riferimento alla forza maggiore contenuta nell'art. 79 CISG un riferimento ad eventi assimilabili all'eccessiva onerosità.
I tentativi della Giurisprudenza degli Stati membri di attribuire rilevanza allo squilibrio sopravvenuto.
- In UK si è data rigorosa applicazione del principio pacta sunt servanda non dando rilievo alle sopravvenienze contrattuali. Ad es. nel caso “Paradine vs Xxxx” anche nel caso di impossibilità oggettiva ad adempiere, chi ha assunto un'obbligazione contrattuale si è ritenuto che ne rimanga vincolato. I primi temperamenti si sono avuti a partire dal XIX sec. con:
a) la doctrine of impossibilty (prima in riferimento solo all'impossibilità fisica e poi anche agli altri casi di impossibilità);
b) la doctrine of frustration of purpose secondo cui non basta l'eccessiva onerosità per dare rilevanza alle sopravvenienze, ma occorre anche che l'adempimento richiesto sia divenuto qualcosa di radicalmente diverso rispetto a quanto pattuito dal contratto. In ogni caso rimangono dubbi se siano coperti solo i rischi qualitativi o anche quelli quantitativi. Queste dottrine sono state applicate nei famosi Coronation cases e Suez cases.
- In Francia il principio pacta sunt servanda ha avuto un'applicazione ancora più rigorosa. La dottrina dell'imprevision trova spazio solo nei contratti con la P.A., tuttavia ciò non comporta che il costo delle sopravvenienze gravi sempre sulla parte che la subisce.
- In Germania nonostante l'assenza di regole generali che attribuissero rilevanza alle sopravvenienze, anche prima della riforma del BGB, i Giudici erano pervenuti a tale conclusione, desumendo persino l'ammissibilità dell'adeguamento giudiziale dal par. 242 BGB sulla buona fede.
- In Olanda si è giunti alle stesse conclusioni.
- In Spagna la Giurisprudenza ha invocato la clausola rebus sic stantibus nel caso in cui vi fossero: straordinaria divaricazione tra le condizioni al momento della stipulazione e quelle sopravvenute; sproporzione straordinaria tra le prestazioni; imprevedibilità.
L'esperienza italiana:a) la distinzione fra eccessiva onerosità sopravvenuta e altro tipo di frustrazione dell’interesse di uno dei contraenti.
Il cod. del 1942 ha per primo espressamente conferito rilevanza alle ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta all'art. 1467: “nei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita, se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare la risoluzione del contratto, con gli effetti stabiliti dall'Art. 1458. La risoluzione non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nell'alea normale del contratto. La parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”.
L'eccessività viene valutata secondo l'equo apprezzamento del giudice. L'evento si valuta straordinario ed imprevedibile assumendo come parametro l'uomo medio, la natura del negozio e le condizioni del mercato. Tale articolo accoglie il modello consensualistico di gestione delle sopravvenienze perché viene preservata la volontà di entrambe le parti, dato che anche il rimedio dell'adeguamento è l'esito dell'esercizio di un potere unilaterale.
c)dalla risoluzione all’obbligo di rinegoziazione.
L'art. 1467 disciplina tuttavia solo il rischio quantitativo; per risolvere il rischio qualitativo, ossia l'inidoneità della prestazione a soddisfare gli interessi specifici che avevano condotto il contraente a stipulare il contratto , dottrina e giurisprudenza hanno costruito la figura della presupposizione che però è stata oggetto di numerose critiche per la sua scarsa consistenza teorica. Le Corti non hanno fornito un unico rimedio, infatti hanno riconnesso alla presupposizione talora la nullità, talaltra la annullabilità o la risoluzione, a volte il
recesso e altre la rinegoziazione. Addirittura talvolta ne hanno individuato i fondamenti nell'art. 1467 ma senza spiegarne il perché.
E' stato criticato il rigido assetto del nostro ordinamento in materia di sopravvenienza in quanto l'art. 1467 si riferisce solo all'eccessiva onerosità e la presupposizione appresta solo qualche filtro alla rilevanza delle sopravvenienze qualitative. La presupposizione viene definita come una situazione di fatto o di diritto di carattere obiettivo, certa nella rappresentazione delle parti che pur in mancanza di un espresso riferimento ad essa nelle clausole contrattuali possa ritenersi tenuta presente dai contraenti nella formazione del consenso, come presupposto comune avente valore determinante ai fini dell'esistenza e del permanere del vincolo.
Inoltre la disciplina dell'eccessiva onerosità sopravvenuta e quella della presupposizione esitano ad operare il rimedio drastico della caducazione del contratto.
Per parte della dottrina in casi di sopravvenienza esisterebbe un obbligo legale di rinegoziazione (clausola implicita) quanto meno nei contratti di lunga durata, muovendo da equità e buona fede si può giungere a tale conclusione adottando due diverse prospettive:
1)tale clausola sarebbe effetto legale proveniente dall'integrazione del contratto secondo equità ex art.1374 cc in quanto la ratio equitativa sarebbe insita anche nell'art.1467. Tuttavia a tale prospettiva può opporsi il fatto che tra l'art. 1467 (che esplica il modello consensualistico) e l'obbligo di rinegoziazione (che esplica il modello conservativo) vi è soluzione di continuità.
2)poiché il co. 3 dell'art.1467 prevede il diritto della parte avvantaggiata alla prosecuzione del rapporto, sarebbe configurabile un obbligo per la parte svantaggiata a trattare le nuove condizioni nei contratti di lunga durata in cui poiché le parti hanno rinunciato ad allocare il rischio, e la mancata regolazione comporta un dovere di collaborazione al fine di ripristinare l'aderenza del contratto alla mutata situazione in forza dell'art.1375 cc.
Anche a tale prospettiva possono muoversi delle critiche: dal comma 3 dell'art.1467 non può affatto desumersi un obbligo di rinegoziazione, non è poi vero che l'interpretazione secondo la natura dell'affare fa supporre una rinuncia delle parti a regolare il rischio (ad. Es. non è così per il rischio quantitativo).
Infine tale tesi non tiene conto del fatto che l'art.1375 parla di esecuzione e non di rinegoziazione del contratto. Per altra dottrina bisognerebbe far riferimento non solo all'art.1467 ma anche all'art.1664 in materia di appalto che prevede in conformità al modello conformativo, l'adeguamento automatico del corrispettivo monetario. Si privilegia non la volontà individuale in conformità con il modello consensualistico, di cui l'art. 1467 è espressione, ma l'efficiente allocazione delle risorse.
Per l'impresa i due modelli divergono notevolmente in quanto mentre il modello consensualistico la preserva in ordine alla congruità della scambio ma non in ordine alla permanenza del contratto e dunque in ordine agli investimenti mostrandosi più appropriato ai casi in cui si ha uno scambio puntuale (ossia la cui esecuzione non comporti durature interferenza delle sfere patrimoniali dei contraenti), il modello conservativo la garantisce sia in ordine alla congruità dello scambio che in ordine alla permanenza del contratto.
Dunque è più adeguato al modello di scambio integrativo.
Il primo modello del cod. sarebbe prospettato come disciplina generale, il secondo per un tipo nominato di contratto. Occorrerebbe un operazione interpretativa volta a: a) particolarizzare l'art.1467, nel senso che il principio in esso contenuto non dovrebbe essere inteso come disciplina generale delle sopravvenienze (quantitative) ma come
disciplina particolare nell'ambito di scambi puntuali per il rischio quantitativo; b) generalizzare l'art.1664 applicandolo come disciplina generale del rischio per gli scambi integrativi.
Le riforme olandese e tedesca e il nuovo progetto francese.
L'art. 6:258 c.c. Olandese diverge dal nostro art.1467 sotto il profilo dell'individuazione della sopravvenienza rilevante, perché non fa riferimento espresso all'eccessiva onerosità e dunque sembra coprire anche i rischi qualitativi, e sotto il profilo dei rimedi perché riconosce ampio potere discrezionale al giudice il quale su domanda di una delle parti può modificare il contratto o caducarlo anche parzialmente.
In Germania il par.313 BGB diverge dall'art.1467 cc sotto il profilo dell'individuazione delle sopravvenienze rilevanti perché non fa riferimento all'eccessiva onerosità e addirittura da rilievo alla falsa presupposizione, diverge anche sotto il profilo dei rimedi perché ammette sia le modificazioni giudiziali del contratto, che il recesso o la disdetta e riconosce ancora più ampia discrezionalità al giudice.
In entrambe le riforme (tedesca e olandese) non si fa differenza tra rischio quantitativo e qualitativo ed è ammesso il possibile adeguamento giudiziale del contratto.
Alle stesse conclusioni è giunto anche l'”avant project de reforme des obligations...” francese, che da al giudice la possibilità di ordinare la rinegoziazione e nel caso in cui fallisca si avrà la risoluzione senza costi né risarcimento. Negli ultimi anni in conclusione pare essersi mitigata la sanctity of contract.
La clausola di hardship nella prassi internazionale e nei Principi Unidroit
Le hardship clauses sono clausole elaborate dalla prassi del commercio internazionale volte a fronteggiare le sopravvenienze. La prima parte di tali clausole indica quali sopravvenienze devono essere prese in considerazione, la seconda determina le conseguenze cui il loro verificarsi potrà dar luogo. Nel testo che la Camera di commercio internazionale (ICC) suggerisce di usare, si considerano rilevanti le sopravvenienze imprevedibili che alterano in modo fondamentale l'equilibrio del contratto, comportando un onere eccessivo a carico della parte tenuta all'esecuzione. L'ICC indica i rimedi (da notare la differenza con l'art.1467):
1) la possibilità per la parte svantaggiata di richiedere la rinegoziazione indicandone i motivi, e le parti sarebbero tenute a consultarsi
2) nel caso di fallimento della rinegoziazione a) il contratto potrà comunque ritenersi vincolante per volere delle parti; b) le parti potranno richiedere il parere di un terzo sulla revisione del contratto;c) rivolgersi ad un arbitro intermediario o ad un giudice nazionale per l'adeguamento; d) rivolgersi ad un terzo incaricandolo di adeguare il contratto.
L'ICC giudica inopportuno aprire indiscriminatamente strada alle sopravvenienze qualitative cui però le parti possono attribuire rilevanza.
Una conferma di tale orientamento si trova nei principi Unidroit nei quali la rilevanza dell'hardship è limitata alle ipotesi in cui viene alterato l'equilibrio del contratto o per l'accrescimento dei costi dell'operazione o per la diminuzione del valore della controprestazione.
I PDEC e il Codice Europeo dei contratti
L'art.6:111 dei PDEC come il nostro art. 1467 da rilievo solo alla eccessiva onerosità sopravvenuta ed imprevedibile e non consente di dare rilievo alle circostanze sopravvenute nei contratti aleatori. Come rimedi attribuisce un ruolo privilegiato alla negoziazione (in ciò
diverge dalla disciplina italiana che adotta il modello consensualistico) e al potere del giudice di modificare il contratto. Ammette tuttavia il risarcimento del danno in caso di violazione dei parametri di buona fede e correttezza, ad es. nel caso in cui le trattativa non abbiano una durata ragionevole.
Simile è la disciplina del cod. eur. Contr.. In entrambi i casi si ha una parificazione del metodo risolutivo e conservativo, per cui sarà la giurisprudenza con il tempo ad eliminare il rischio di rilevanti inconvergenze. In entrambi i casi è introdotto il dispositivo della rinegoziazione, tale obbligo è figlio dell'idea di equità, ma in realtà non può essere efficace se non ve ne sono le condizioni per rinegoziare, mentre se vi sono è inutile perché la rinegoziazione si avrebbe rinegoziazione in ogni caso.
LA RISOLUZIONE
Bisogna distinguere due tipi di sistemi:
a) quelli retrospettivi che ammettono la retroattività della risoluzione. negli ordinamenti di civil law attraverso la retroattività si determina l'estinzione dell'obbligazione (es. il diritto francese che riferisce la risoluzione e/o meglio l'inadempimento seguito dalla risoluzione al meccanismo della condizione risolutiva tacita. Con riguardo agli effetti verso i terzi la risoluzione ha effetti reali e pertanto sarà opponibile anche ai terzi; in Italia il codice correda la risoluzione di retroattività, ma tale retroattività ha natura solo obbligatoria con effetti inter partes);
b) quelli prospettivi che non ammettono la retroattività della risoluzione, ma solo la liberazione delle parti e l'obbligo delle restituzioni (es. ordinamenti di common law e diritto transnazionale).
Effetti della risoluzione:
1)esigenza di guardare alla situazione delle parti sia prima che dopo lo scioglimento del contratto: dopo benché diversi siano i presupposti concettuali dei due sistemi il risultato è lo stesso perché le parti non sono più tenuti ad eseguire ala loro obbligazione; prima se nei sistemi retrospettivi è come se il contratto non fosse mai esistito si applicherà la disciplina della ripetizione dell'indebito, nei sistemi prospettivi, ove non vi è tale finzione, sorgeranno obbligazioni restitutorie per reintegrare le parti nello status quo ante. Anche qui però di fatto la differenza è più apparente che reale, dato che un ombra di retroattività è presente anche nei sistemi prospettivi.
2)Effetti verso i terzi: nei sistemi prospettivi è esclusa l'opponibilità ai terzi; in quelli retrospettivi si verifica ciò solo nei sistemi con retroattività a carattere reale.
3)Risarcimento del danno: è ammesso in entrambi i tipi di sistemi, anche se in quelli retrospettivi può considerarsi come una forzatura dei codici dato che il contratto è cancellato ab initio. Nei sistemi retrospettivi, per quanto riguarda le restituzioni, vi sono delle sensibili deviazioni dalla disciplina dell'indebito ex art. 2033 c.c. Sia rispetto ai principi del contratto, perché non vale il principio di corrispettività giacché ciascun obbligo restitutorio sarà per conto proprio (il venditore è tenuto a restituire il prezzo anche se non potrà ricevere la restituzione della cosa perché è perita o gravemente danneggiata), sia rispetto ai principi dell'obbligazione perché non si fa riferimento all'elemento soggettivo della colpa, ma la responsabilità per la restituzione è governata dal principio di buona fede. Perciò in materia di risoluzione del contratto per evitare contraddizioni non dovrebbe applicarsi la disciplina della risoluzione ma quella delle azioni contrattuali. Due sono le contraddizioni insite nell'applicazione della disciplina dell'indebito: a) la differenza con la disciplina della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, dato che l'art. 1463 prevede la risoluzione di diritto ; b) non ha senso parlare di buona fede dove il contratto sia in vigore e le parti devono eseguire le loro prestazioni.
Il regime delle restituzioni
Il quadro normativo delle restituzioni contrattuali è alquanto pasticciato nei diversi sistemi perché frutto di diversi modelli teorici. Da un lato, il modelli franco-italiano si espone a troppe contraddizioni e forzature ove applicato alle restituzioni contrattuali, mentre fa bene il modello tedesco a considerare le obbligazioni restitutorie come contrattuali e come
tali da eseguirsi contemporaneamente (sebbene erroneamente in un primo momento, trattandosi di un sistema retrospettivo, le riteneva incompatibili con il risarcimento).
I principi UNIDROIT sui contratti commerciali internazionali dedicano un apposito art. alle restituzioni da scioglimento del contratto. Il principio di <<reciprocità>> è espressamente formulato. Se la restituzione in natura non è possibile si corrisponde il valore <<quando ragionevole>>. Si fa eccezione per i contratti la cui esecuzione può essere divisibile.
L’ottica è quella del rimedio con il quale si tende a riaffermare che non possono tenersi ferme le prestazioni o attribuzioni che non abbiano a fronte un corrispettivo.
LE CLAUSOLE PENALI
La disciplina uniforme delle clausole penali nei PDEC ed in una lontana Résolution del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Le clausole penali costituiscono una importante misura <<compulso ria>> dell’adempimento e/o del non ritardato adempimento di obbligazioni contrattuali e anche di obbligazioni non contrattuali.
Una Risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 1978 aveva già fissato i criteri per l’uniformazione della disciplina delle clausole penali nei vari Paesi per dare una più sicura soluzione ai problemi di diritto internazionale privato che si ponevano.
I criteri tratti dalla Risoluzione del 1978:
a)l’oggetto della penale deve consistere in una prestazione pecuniaria b)divieto di cumulo della penale con l’azione di esatto adempimento, salvo che la penale sia convenuta per l’esecuzione tardiva
c)la stipulazione della penale deve essere compatibile con l’azione contrattuale di specie; la clausola non deve escludere il ricorso del creditore all’esatto adempimento.
d)l’efficacia della penale deve essere subordinata alla colpa del debitore
e)la penale manifestamente eccessiva può essere ridotta dal giudice, ma entro il limite di quanto il debitore avrebbe ottenuto a seguito dell’applicazione delle regole legali.
Verificando la corrispondenza di tali criteri con quelli esistenti nei principali ordinamenti interni si traggono rilevanti differenze strutturali e funzionali di disciplina. Si mette in evidenza la peculiarità del caso italiano, cioè di un ordinamento nel quale la centralità della clausola penale <<contrattuale>> o <<convenzionale>> non ha consentito la penetrazione di misure compulso rie a carattere legale e/o giudiziale (c.d. penali legali e/o giudiziali) ed ha favorito una prevalente impostazione dell’autonomia contrattuale dei << xxxxx xxxxxxxxxxxx>>. L’ordinamento italiano non ha conosciuto un adeguato sviluppo di misure alternative ai rimedi strettamente risarcitori.
Inoltre la dir. 93/13, sulle clausole abusive, ha posto un complicato problema di raccordo fra la semplice riducibilità della penale eccessiva e la nullità della penale vessatoria e/o abusiva. La sovrapposizione della disciplina delle clausole abusive a quella codicistica delle clausole penali ha determinato la coesistenza di penali eccessive ma riducibili e di in talune fattispecie concrete riferibili alla convenzione di <<altri vantaggi usurari >> (art.644 c.p.) le clausole penali si prestano alla consumazione del reato di usura ed in tal senso si può parlare di <<penali usurarie>>.
In realtà si tratta di penali eccessive e <<illecite>> perché collegate ad un fatto di reato. Quindi nell’ordinamento italiano vengo fuori tre differenti patologie delle clausole penali:
1)penale eccessiva, ma valida e riducibile 2)penale abusiva, inefficace
3)penale usuraria, inevitabilmente nulla
I PDEC confermano la Risoluzione del 1978, ma sono talmente generici e generali da provocare dubbi interpretativi, in seno ed in riferimento alle singole esperienze ordina mentali. L’art. 9:509 che si riferisce alle clausole di liquidazione forfettaria del danno , stabilisce 2 norme generali:
• <<Quando il contratto prevede che la parte inadempiente paghi una determinata somma di denaro al creditore per l’inadempimento , tale somma è dovuta a prescindere dal verificarsi di una effettiva perdita>>
• <<tuttavia, nonostante qualsiasi accordo in contrario, la somma prevista può essere ridotta ad un ammontare congruo quando risulti manifestamente eccessiva rispetto alla perdita conseguente all’inadempimento>>.
Tale quadro di riferimento crea problemi di adeguamento all’interno di ogni paese ed in particolare in Italia.
Dalla Risoluzione del 1978 composta da otto artt. emerge :
• l’intento di assegnare a tali clausole una funzione meramente risarcitoria
• divieto di cumulo di tutele, mentre nei PDEC non compare un espresso divieto di cumulo
• la clausola non deve escludere il ricorso del creditore all’esatto adempimento, tale principio non compare espressamente nei PDEC, ma può essere ricavato implicitamente
• l’efficacia della penale deve essere subordinata alla colpa del debitore , questa regola non è posta in maniera chiara dai PDEC, a meno di volere ricavare tale regola dai principi generali sul contratto alla materia delle clausole penali.
• la penale manifestamente eccessiva può essere ridotta equitativamente dal giudice anche in caso di adempimento parziale, ma entro il limite di quanto il debitore avrebbe ottenuto a seguito dell’applicazione delle regole legali. I PDEC non precisano che la riducibilità della penale sia consentita anche in presenza di un adempimento parziale.
Analoghe considerazioni possono farsi in relazione al Codice europeo dei contratti.
La penale negli ordinamenti europei. Clause pènale. (Francia)
Il Code civil disciplina la clausola penale nell’art.1152, in materia di <<danno contrattuale>>, e negli artt. 1226-1233, in materia di << obbligazioni con clausole penali>>.
Gli artt. 1152 e 1231, rispettivamente sull’ammontare della penale e sulla riducibilità per adempimento parziale dell’obbligazione principale, sono stati riformati sia dalla
l. 597/75, sulla modificabilità giudiziale, in diminuzione o in aumento, dell’ammontare dovuto dal debitore, sia dalla l. 1097/85, limitatamente alla possibilità che il giudice intervanga anche d’ufficio.
In Francia non si distinguono le clausole di liquidazione convenzionale dei danni delle clausole penali e prevale un modello di disciplina unitario e flessibile: unitario perché applicabile ai contratti individuali, ai contratti di massa e ai contratti tra imprenditori; flessibile perché pur privilegiando la finalità di forfetizzazione del danno non esclude impieghi diversi di tipo compulsorio -afflittivo. La legge di riforma ha incrementato i poteri del giudice consentendogli di diminuire la penale manifestamente eccessiva e di aumentare la penale manifestamente irrisoria.
La clausola penale nei Paesi del Benelux e la Convenzione dell’Aja del 1973.
( Belgio, Olanda e Lussemburgo).
Nei codici civili di Belgio , Olanda e Lussemburgo la disciplina della clausola penale è influenzata dal Code Napolèon, ma l’evoluzione dell’elaborazione dottrinale sia in Francia che in altri Paesi e l’applicazione giurisprudenziale dell’istituto ha reso opportuna la Convenzione dell’Aja del 1973. In tale Convenzione può cogliersi la natura tanto risarcitoria quanto afflittiva che connota la clausola nella determinazione oggettiva e legale del tipo e/o nella determinazione soggettiva e convenzionale delle parti.
È possibile cogliere in negativo la reiterazione di un modello che preservando un contenuto << anche non pecuniario>> della prestazione penale, si presta ad inconvenienti applicativi sia sul versante della liceità che su quello dell’illiceità della clausola, nonché la rielezione di penali << pure>>.
Vertragsstrafe. (Germania).
Nel diritto tedesco la disciplina della clausola penale muove dal BGB sulle condizioni generali del contratto che accoglie l’esperienza dottrinale e giurisprudenziale sulla
c.d. contrattazione standardizzata e che va raccordata alla legge tedesca del 1996 di adeguamento alla normativa comunitaria sulle clausole abusive.
La penalità convenuta può consistere in una somma di denaro o in una diversa prestazione, nell’ordinamento tedesco ci sono dubbi sulla configurabilità di penali non pecuniarie.
La normativa codicistica sulla clausola penale riposa sulla distinzione fra penale per l’inadempimento e penale per l’inesatto adempimento, la cui fattispecie più significativa è rappresentata dal ritardo.
Le due fattispecie della penale per l’inadempimento e per l’inesatto adempimento differiscono per quel che concerne il rapporto con le pretesa dell’obbligazione principale.
In caso di inadempimento tale rapporto è di esclusione e la penale totale non può cumularsi con la richiesta
In caso di inesatto adempimento il rapporto fra penale per l’inesatto adempimento e domanda dell’obbligazione principale è di perfetta compatibilità.
Circa i rapporti fra penale e risarcimento del danno il BGB fa salva la risarcibilità del maggior danno sia quando si tratti di inadempimento che inesatto adempimento. La risarcibilità del maggior danno è esclusa quando la penale abbia ad oggetto una prestazione non pecuniaria.
Il § 343 BGB consente al giudice di ridurre ma non anche di aumentare la pena stipulata. La riduzione della penale può essere pronunciata su domanda del debitore, ma a condizione che essa sia manifestamente eccessiva. Inoltre nel ridurre la penale il giudice deve valutare il puro interesse patrimoniale del creditore e ogni suo interesse giustificato; il che rende la clausola penale funzionale sia alle ragioni risarcitorie del creditore sia alle ragioni compulsorie all’esatta osservanza del comportamento dovuto, che si esprimono in una misura afflittiva della pena convenuta.
Il § 344 BGB stabilisce la nullità della clausola penale prevista per l’inadempimento dell’obbligazione principale allorché tale obbligazione sia nulla .
La disciplina contenuta nel BGB esprime una concezione bifunzionale della clausola penale, poiché essa è allo stesso tempo strumento di coazione indiretta all’inadempimento e tecnica di liquidazione anticipata dei danni.
Liquidated damages e penalty.( common law inglese).
Nel common law si distinguono due specie di clausole penali, i liquidated damages
e le penalties, delle quali la prima è consentita e la seconda è vietata.
I liquidated damages sono clausole di liquidazione preventiva del danno, in particolare sono clausole di <<anticipata valutazione del danno conseguente all’inadempimento della particolare obbligazione considerata>> che le parti inseriscono nel regolamento contrattuale attenendosi ad una misura prevedibile dello stesso danno.
La penalty è pattuita in terrorem per garantire il credito ed evitare l’inadempimento. In presenza di una clausola di liquidazione preventiva del danno il creditore ha diritto a ricevere la somma pattuita senza dovere provare l’esistenza e l’entità dei danni sofferti, ma non può pretendere il risarcimento dell’eventuale maggior danno. Lo scopo principale della clausola è di esonerare le parti dalla difficoltà e dalle spese di una prova del <<danno effettivo>>, ma la preclusione del <<maggior danno>> consente alla clausola di liquidazione preventiva del danno di attuare anche una limitazione della responsabilità del debitore.
Le clausole qualificate come penalties esibiscono una finalità prettamente compulso ria e solo apparentemente afflittiva, poiché l’esperienza giuridica inglese ritiene inammissibile che le parti facciano una punizione <<l’oggetto di un accordo>>.
La penalty copre ma non determina il danno: oltre la penalty non si può andare ed entro il suo ammontare l’attore riceverà soltanto il risarcimento dei danni che proverà di avere effettivamente subìto.
La penalty pattuita in vista del rafforzamento di un vincolo contrattuale ed a garanzia del diritto del creditore, esaurisce il suo unico effetto in quello della predeterminazione di una <<misura massima>> del risarcimento.
A tale inconveniente il credito può ovviare agendo direttamente for breach of contract , tale rimedio non è precluso dalle corti e gli consente di chiedere l’intero risarcimento dei danni effettivamente subiti.
La disciplina della penalty rispecchia il principio della <<giusta ricompensazione>>, accolto dalla dottrina e dalla giurisprudenza inglesi.
È importante accennare ai criteri ai quali le corti inglesi devono ricorrere nel qualificare le singole clausole come <<clausole di liquidazione preventiva del danno>> o come <<penalties>>. A tale proposito non è decisiva la formulazione letterale adottata dalle parti, ma bisogna interpretare sia la volontà delle parti sia i termini oggettivi e le intrinseche circostanze di ciascun contratto, peraltro avendo riguardo al momento della conclusione dello stesso.
Oltre alla disciplina generale anche nell’esperienza inglese si profilano interventi legislativi volti a tutelare il <<contraente debole>> nella moderna contrattazione di massa.
L’esperienza inglese sembra orientarsi verso una configurazione delle clausole penali strettamente monofunzionale ed in chiave risarcitoria.
La penale nel diritto italiano. Tutela convenzionale del credito e modelli sanzionatori.
La duttilità delle clausole penali offre all’ars stipulatoria dei privati un elemento accidentale del contratto in grado d sostenere obblighi, patrimoniali o meno, sia
nell’adozione tipica, o diretta, dello schema racchiuso negoziale esprime una funzione rimediale ugualmente riconducibile a quella propriamente penale.
L’indicazione di un diverso nomen iuris o l’omissione di alcun riferimento stipulativo alla clausola penale, impegna la dottrina e la giurisprudenza nella qualificazione giuridica di <<xxxxx xxxxxxxxxxxx>>, di <<pene private>>, di <<pene contrattuali>>, di misure convenzionali a carattere <<afflittivo-risarcitorio>>, che reclamano concrete soluzioni di specie compatibili con i principi generali degli artt.1383-1384 c.c.
Ben oltre tali casi di specie l’assetto costitutivo della clausola e l’effetto obbligatorio che ne deriva portano a considerare le diverse configurabilità negoziali della prima e le differenti obbligazioni penali del secondo.
Struttura pattizia della penale e limiti dell’autonomia contrattuale.
Nella previsione del codice si distinguono due specie di clausole penali ex contractu quella che si collega all’inadempimento e l’altra che si collega al ritardo nall’adempimento, ma si fanno salve due variabili di entrambe le specie fondamentali, a seconda che la penale abbai <<l’effetto di limitare il risarcimento alla prestazione promessa>> o faccia salva <<la risarcibilità del danno ulteriore>> (art. 1382 c.c.).
Tali distinzioni positive trovano riscontro nella specificazione delle discipline. Così accade:
a)per l’incidenza che l’onere probatorio ha sulla pretesa della sola clausola penale o sulla richiesta dell’ulteriore risarcimento (art. 1382 c.c.);
b)per il diverso riferimento del cumulo con la prestazione principale (art. 1383 c.c.);
c)per il diverso modo di rapportare alla penale di specie i criteri della riduzione (art.1384 c.c.).
nell’esperienza giurisprudenziale e dottrinale si registrano articolazione della clausola penale che non sono riscontrabili nelle previsioni del codice: a volte si tratta di adeguamenti interpretativi di una disciplina appena essenziale; altre volte si tratta di vere e proprie dilatazioni dello schema negoziale posto tipicamente dalla legge. Nell’ideazione di una << c.d. penale pura>> dovuta cioè in aggiunta al risarcimento del danno, si supera l’effetto naturale di limitare il risarcimento dovuto; si incrina il divieto logico del cumulo e si esalta una funzione meramente afflittiva riservata all’autonomia dei soggetti. Mentre la pattuizione di clausole consistenti nella <<c.d. liquidazione convenzionale dei danni>> da quanti care forfettariamente, ma per accordo delle parti rimane attratta ad una ratio risarcitoria. Le << multe >> prescindono da una ragione immediata o prevalente di risarcimento dei danni patrimoniali ed orientano la penale all’osservanza compulso ria di un comportamento debitorio che riguarda soltanto l’esatta esecuzione di semplici
<< modalità contrattuali >>. Quel particolare patto in virtù del quale la penale viene riferita anche all’inadempimento derivante da causa non imputabile al debitore ripropone una <<pena privata>> non prevista dall’ordinamento e resa ancora più anomala dall’adozione di una pura responsabilità oggettiva, o senza colpa, del debitore. Il rapporto meramente accessorio che intercorre fra l’obbligazione penale e l’inosservanza del comportamento principale non sembra impedire la ricostruzione della penale in chiave di << clausola-negozio>>, ma lascia dubitare che la stessa possa anche assumersi come un vero e proprio negozio
autonomo. L’individuazione della funzione penale trascende dalla questione della natura risarcitoria e/o afflittiva della clausola codicistica ed apre alla questione più generale della tipicità sanzionatoria della
<<obbligazione penale>>. La determinazione dei soggetti, attivo e passivo, dell’obbligazione riguarda sia l’identità degli autori del contratto e della clausola, sia la determinabilità successiva dell’una o dell’altra parte, la riferibilità <<a favore del terzo>> del contratto e della clausola e la stessa eventuale rilevanza intuitus personae. Il riferimento generico ad <<una determinata prestazione >>, con il quale l’art. 1382 c.c. indica l’oggetto della penale, fa dubitare che tale prestazione possa consistere solo in una somma di denaro e possa compendiarsi nel classico modulo di classificazione di ogni possibile << dare, fare e non fare>>. Ciò comporta un’attività interpretativa volta a delimitare la possibilità che le parti conseguano risultati illeciti o fraudolenti. Il patto di risarcibilità si inserisce nelle clausole penali come eventuale.
Inoltre la ricognizione dei possibili contenuti eventuali della clausola penale comporta altre implicazioni sia sula piano strutturale che sul piano effettuale. Sul piano strutturale implica una diversificazione della clausola penale dai contenuti propri di altri patti accessori, come la condizione e la clausola risolutiva. Sul piano effettuale implica un raffronto più ravvicinato fra l’obbligazione penale ed altre obbligazioni apparentemente simili, come quella alternativa e quella facoltativa.
Obbligazione penale e obbligazione risarcitoria.
Nell’esperienza giuridica italiana, l’elaborazione della clausola penale che si registrano nell’autonomia privata, le c.d. penali contrattuali, e le trasposizioni legali dello schema obbligatorio-penale, le c.d. penali legali o penali giudiziali, asseverano la centralità della disciplina codicistica contenuta nella artt.1382-1384 c.c.: sia le une sia le altre sembrano potersi riferire ad una medesima funzione penale, assumibile come funzione sanzionatoria, alternativa a quella risarcitoria; né le une né le altre sembrano potersi ricondurre ad un assetto uniforme di strutture, di effetti e di risultati << pratici >> o funzioni << concrete >>.
Particolarmente in materia di penali contrattuali, le << funzioni concrete >> di volta in volta realizzabili dalla clausola di specie, sono affidate ad un’ampia autonomia delle parti, ma contenute entro un sistema di norme che ne segna i limiti in ragione di due preoccupazioni ordina mentali. La prima è quella di stabilire le relazioni della penale con le possibili altre sanzioni concorrenti, come il risarcimento dei danni ( art.1382 c.c.) e con gli altri rimedi ordinari a tutela del creditore, come la domanda di esatto adempimento (art.1383 c.c.).
La seconda preoccupazione è quella di preordinare i criteri per il ridimensionamento giudiziale del contenuto e del risultato che la sanzione esprime di fatto: in tal senso la riducibilità della penale opera una ricomposizione dell’obbligazione sanzionatoria, entro la quale la valutazione equitativa del giudice è vincolata << all’interesse che il creditore aveva all’adempimento >> e può essere azionata sia nel caso che la penale sia manifestamente eccessiva sia nel caso che la prestazione principale sia stata semplicemente eseguita in parte ( art.1384 c.c.). All’interno della struttura pattizia della penale, il fenomeno espansivo della clausola esprime l’adeguamento dell’assetto negoziale e dell’effetto obbligatorio alla misura più ampia possibile dell’autonomia privata in materia sanzionatoria. Mentre all’interni delle strutture assumibili come penali legali o come penali giudiziali, la trasmigrazione del modello
obbligatorio-penale dal piano contrattuale a a quello legislativo esprime la tipizzazione normativa di rimedi alternativi alla sanzione risarcitoria e posti a tutela di qualificate ragioni creditorie che si impongono nel rapporto principale esibendo una struttura obbligatoria e una funzione sanzionatoria che prescinde sia dalla prova che dall’incidenza reale dei danni.
La funzione penale.
La teoria risarcitoria riconduce la tipizzazione della clausola ad una riparazione << patrimoniale >> che presuppone l’inadempimento o il ritardo come produttivi comunque di << danni >> evocandone una qualificazione di <<danni-evento>> e non di <<danni-conseguenza>>.
La teoria afflittiva tipizza la causa o la giustificazione normativa della volontà negoziale volta a <<punire>> la pura e semplice inosservanza dell’obbligo a prescindere dal carattere necessariamente patrimoniale della prestazione principale sia dall’interesse economico del creditore il che allontana la penale dall’incidenza di
<<danni-evento>> e di <<danni-conseguenza>> malgrado l’eventuale produzione effettiva di <<danni-risarcibili>>. Le teorie principali colgono attraverso le loro analisi qualificate componenti, reali e/o verosimili, della funzione penale. In tal senso la funzione penale può considerarsi come <<dualistica>> ovvero come una funzione sanzionatoria nella quale l’esito forfettariamente-risarcitorio e quello meramente-afflittivo sono “mutualmente esclusivi” e “congiuntamente esaustivi”.
Tale formulazione consegue ad una analisi strutturale e ad una valutazione di qualificate casistiche, dalle quali emerge anche la prevalente, quando non esclusiva rilevanza <<sanzionatoria>> della penale rispetto all’impraticabilità dell’esatto adempimento e rispetto all’esatto quantificazione del risarcimento. La funzione risarcitoria colma l’incidenza effettiva dei danni, infatti il risarcimento è orientato a compensare una sofferenza economica del soggetto danneggiato.
La sanzione afflittiva, o la pena privata, colpisce l’inosservanza di un comportamento dovuto mediante la privazione di un diritto o l’attribuzione di un obbligo che si pongono in modo del tutto sfavorevole al soggetto responsabile e che trascendono una ragione patrimoniale di ristoro del soggetto offeso. Di conseguenza la sanzione dell’obbligazione penale partecipa sia della funzione risarcitoria sia di quella punitiva, senza riuscire ad identificarsi né con l’una né con l’altra. Dal codice si ricavano due ragioni principali di contemperamento della sanzione privata: a)quella indirizzata a correlare gli effetti della penale con le altre sanzioni e con gli altri rimedi convergenti sul medesimo fatto lesivo; b)e quella orientata a controllare l’incidenza reale della penale, mediante la riconducibilità giudiziale della prestazione convenuta. La richiesta della penale esclude sia il risarcimento, sia l’adempimento ma non esclude né la risarcibilità dei danni ulteriori né la cumulabilità dell’adempimento con la penale, se questa è pattuita per il ritardo. La riduzione consegue sia all’eccessività della penale dovuta per il totale adempimento sia all’eccessività della penale dovuta per il parziale adempimento. La riducibilità consente di correggere gli effetti di una penale che, <<dovuta indipendentemente dalla prova del danno>> sia eccessiva al raffronto con l’inadempimento totale o col parziale adempimento dell’obbligazione principale, ma va determinata in ragione dell’<<interesse che il creditore aveva all’adempimento>>. La manifesta eccessività della penale, o il parziale adempimento dell’obbligazione principale consentono l’abbattimento della
<<eccedenza afflittiva>> , ma l’ineliminabilità della penale e l’interesse anche non patrimoniale del creditore all’adempimento dell’obbligazione principale giustificano comunque una giusta <<misura di afflittività>>.
La penale quindi può realizzare anche una funzione afflittiva. L’obbligazione penale ha una precipua <<funzione dualistica>> che realizza un esito sanzionatorio o forfettariamente risarcitorio o meramente afflittivo, secondo una <<tipica>> combinazione
<<binaria>> nella quale la legge compone in astratto e consente in concerto che la funzione risarcitoria e quella afflittiva siano mutuamente esclusive e congiuntamente esaustive.
La funzione penale offre un modello sanzionatorio che esibisce una duttilità compulsorio-coercitiva in grado di corrispondere a diverse ragioni creditorie dei privati , ma in grado, de iure condendo, di introdurre anche future, qualificate, tutele dualistiche. Inoltre la penale è suscettibile di adeguarsi alle vicende del rapporto principale sia per previsione delle parti sia per intervento correttivo del giudice.
IL CONTROLLO DEL CONTRATTO DA PARTE DEL GIUDICE
Premessa
Recentemente si è assistito ad un forte avviamento della funzione del giudice in ogni fase della disciplina del contratto. Per alcuni ciò è negativo perché il diritto risulterebbe meno autonomo da etica e politica ed anche perchè il giudice non è legittimato democraticamente; per altri perché solo il potere giudiziario può avere funzioni di garanzia ed anche perché a fronte della discontinuità legislativa e della complessità delle fonti la iurisdictio ha una posizione preminente rispetto alla legislatio. La giustizia ha fondamento nel contraddittorio processuale e nel valore del precedente e, nel nostro mondo globale, il contratto sempre più si sostituisce alla legge.
Invalidità
Se all'inizio del 900 l'invalidità si aveva quando veniva violato un interesse sociale, mentre la violazione di un interesse individuale si considerava un vizio più lieve, oggi la tendenza è diversa. La nullità è un rimedio che oltrepassa la fattispecie e conforma il regolamento in funzione di un fine preciso. Non trova spazio nel diritto privato comunitario la dicotomia tra annullabilità e nullità essendo prevista solo la figura della nullità. Nel diritto privato uniforme (PDEC e Unidroit) l'invalidità raggruppa fondamentali ipotesi di annullabilità. Numerose sono le differenze nei vari ordinamenti nazionali, tutte le esperienze convergono però su alcuni aspetti, tra cui la previsione della nullità di protezione che supera l'alternativa tra interesse pubblico e l'interesse individuale.
La causa.
Nell'800 si dava alla causa un significato soggettivo (e lo scopo che induce ciascuno ad assumere il vincolo), mentre all'inizio del 900 pur tutelando la libertà di iniziativa privata si sentì la necessità di ancorare la liceità dell'agire privato alla conformità alle finalità fissate dallo Stato per il tipo negoziale predisposto, e dunque la causa diviene la funzione essenziale e caratterizzante del contratto in relazione al risultato immediatamente perseguito dalle parti. In Italia dalla seconda metà del 900, una volta recepiti con la Costituzione i valori di libertà e di iniziativa economica e di uguaglianza formale e sostanziale, si attribuisce indirettamente un ruolo primario all'autonomia privata attenuandosi così il ruolo che in passato era stato attribuito al giudizio causale. La causa comincia ad essere intesa come elemento concreto del singolo negozio necessario al raggiungimento dello scopo concreto voluto dalle parti. D'altro canto considerare la causa come elemento immutabile dalla volontà, significa non poter compiere nei contratti tipici un controllo tramite l'art. 1343 c.c. (es. una vendita non potrebbe mai avere causa illecita). Ciò perché la nozione astratta di causa, come funzione, porta a trascurare interessi reali che il contratto è di volta in volta diretto a realizzare.
I PDEC e Unidroit non menzionano la causa come elemento essenziale sopratutto perché:
a) il common law non l'ammette; b) la buona fede ha un ruolo centrale; c) si attenua il requisito della bilateralità del contratto, dato che sempre più spesso si hanno promesse vincolanti senza l'accettazione. Nel diritto Xxxxxxx si dà molto spazio ai negozi astratti, mentre nel diritto Inglese la consideration rileva solo nei contratti onerosi. In Italia ed in Francia tradizionalmente si è dato molto spazio alla causa in concreto, che abbraccia anche rapporti di tipo gratuito. Le tendenze più recenti (nuovo codice Olandese) tendono a non considerare più la causa come elemento essenziale.
La buona fede e correttezza: a)l’ordinamento italiano
a) Xxxx'ordinamento italiano sempre più rilievo viene dato alla buona fede. Due sono le tesi fondamentali circa la sua funzione: funzione autointegrativa del regolamento contrattuale nei limiti della volontà espressa nel testo; funzione di controllo ed eterointegrazione ossia di riequilibrio delle posizioni delle parti financo redistributiva. E' difficile conciliare la buona frode con il modello tradizionale della fattispecie, ciò perché la buona fede non si colloca tra gli effetti della fattispecie, ma amplia gli obblighi delle parti. Nel 94 la Cassazione la definita come “limite interno di ogni situazione soggettiva” e ne ha trovato fondamento nell'art. 2 della Cost. Ove si parla di solidarietà. Applicato ai contratti il dovere di solidarietà comporta l'obbligo di esecuzione ed interpretazione secondo buona fede (artt. 1375 e 1366). In materia di pratiche commerciali sleali e ampiamente fonte di diritti e obblighi, e consente di valutare contegni e reprimere abusi;
b) nella prospettiva delle fonti scientifiche (PDEC e Unidroit) la regola di buona fede consente sia di valutare contegni sia di integrare, modificare o sciogliere il contratto;
c) nella prospettiva dell'acquis communitaire bisogna eseguire il confronto con estrema cautela perché si tratta di provvedimenti eterogenei, che non hanno mai disciplinato il contratto in generale, e formulati con ambiguità terminologiche oltreché attuati in maniera diversa nei vari ordinamenti. Precisato ciò è possibile individuare modalità di intervento tramite numerose direttive che impongono un contenuto minimo essenziale, limitano il potere di modificare il contratto ed introducono requisiti formali in funzione di protezione. In alcune direttive (es. Dir. 93/13 sulle clausole abusive) la buona fede e citata come criterio di valutazione di contegni;
d) Nella prospettiva della Corte di Giustizia emblematica è la sentenza Courage del 2001 in cui rispondendo al quesito di una Corte Inglese circa la possibilità per un contraente di una intesa vietata (perché restrittiva della concorrenza) di chiedere tutela nei confronti dell'altra parte che aveva imposto una clausola abusiva (ingiustamente vantaggiosa), la CEG ha risposto che tale tutela non può essere esclusa a priori, attribuendo rilevanza ai fini della responsabilità alla condizione di supremazia economica nelle trattative. Secondo alcuni si tratterebbe di responsabilità precontrattuale concepita però non come illecito aquiliano ma come violazione di un rapporto obbligatorio (obbligo di buona fede durante le trattative);
e) In una prospettiva di sintesi la buona fede è criterio integrativo dei diritti e degli obblighi che sorge indipendentemente dalla loro volontà, che è inderogabile e che preesiste alla formazione del contratto, imponendo specifici obblighi di comportamento. E' uno strumento per valutare contegno e circostanze soggettive delle parti che va confrontato con le regole di responsabilità e validità. Il concetto di buona fede pare possa essere recepito anche nel Common Law sulla base della rilevanza che questo attribuisce alla ragionevoli aspettative delle parti ed alle scorrettezze procedurali. Secondo alcuni la buona fede sarebbe la strumento prioritario per garantire la giustizia del contratto in quanto se violata ne comporterebbe la nullità. Tale orientamento trae erroneamente spunto da alcuni precedenti giudiziari in cui però il richiamo alla buona fede integra le norme sulla validità ma non basta da solo a determinare la nullità. La violazione dell'obbligo di buona fede di per sé comporta solo il risarcimento del danno come si evince dall'art. 1338 cc in materia di conoscenze delle clausole di invalidità e da una sentenza della Cassazione del2006 secondo cui la nullità virtuale ex art. 1418 attiene solo ad elementi intrinseci alla fattispecie negoziale (struttura e contenuto).
Il giudice può correggere o integrare, su domanda della parte legittimata all'annullabilità, il contratto in modo da renderlo conforme a buona fede e correttezza? I PDEC
espressamente lo consentono e oggi anche la dottrina tende ad ammettere che si possono imporre atti e modalità esecutive conformi alla prassi consolidata degli affari e dunque all'intrinseca razionalità dell'operazione voluta.
Sulla base della buona fede nelle fattispecie in cui vi è disparità di potere delle parti, si ha un inversione dell'onere della prova. Sono possibili vari esempi tra cui l'art. 34 cod. cons. Circa clausole di contratti di massa di cui il professionista deve provare che siano state oggetto di trattative individuali, o in materia di obbligazioni di mezzi, la Cassazione ha più volte ribadito che grava sul professionista l'onere di provare che ha agito con diligenza.
La risoluzione del contratto: l'inadempimento e il ruolo della colpa
Nel diritto comune, nel code civil e nel codice 1865 e nel cod. austriaco l'inadempimento aveva fondamento nella colpa.
Nel c.c. del 1942, nelle fonti europee, nel BGB, nel common law e nella dottrina italiana e francese si ha invece una connotazione oggettiva dell'inadempimento, la colpa deve avere un ruolo diverso nella responsabilità contrattuale (rispetto alla extracontrattuale) perché essa non è il fondamento della responsabilità, ma è espressione del rapporto preesistente, non si atteggia in astratto come negligenza o imperizia, ma come inosservanza del comportamento dovuto in forza del contratto.
Ecco perché la Cassazione S.U. Xxx 2001 ha sancito che chi agisce per ottenere l'adempimento, la risoluzione o il risarcimento deve solo provare la fonte del suo diritto e allegare l'inadempimento della controparte. Ciò in base a tre motivazioni: si presume che il diritto persista; la vicinanza della prova al soggetto nella cui sfera si è prodotto l'inadempimento; l'omogeneità del regime probatorio in caso di totale o inesatto adempimento.
Successivamente la corte ha precisato che le azioni (di adempimento, risoluzione e risarcimento) sorgono insieme all'obbligazione e non scaturiscono dalla sua violazione per cui deve essere il debitore a provare l'adempimento in quanto fatto estintivo di tali diritti già sorti. Tali conclusioni sono comuni in tutta Europa.
Le sopravvenienze
Disciplinate dall'art. 1467 cc, nel BGB, nei PDEC, nei p.pi Unidroit, nella prassi negoziale (clausole di hardship) la rinegoziazione consente la realizzazione della volontà delle parti, non ne comporta l'alterazione. La giurisprudenza italiana è eccessivamente circospetta nel sancire l'obbligo di rinegoziazione. La dottrina italiana ricostruisce in modo diverso l'intervento correttivo del giudice: a) è ammissibile solo se dal contratto emerge come la parti vogliano ripartire il rischio; b) per riequilibrare e reprimere abusi; c) connesso all'obbligo di rinegoziazione.
INTRODUZIONE SUI TIPI CONTRATTUALI
Disciplina per i tipi contrattuali e disciplina per << gruppi di contratti>>.
Il codice del 1942 e il c.d. Diritto comunitario dei contratti disciplinano i vari tipi contrattali perciò la disciplina generale dei contratti si applica solo in via residuale.
– Il diritto europeo dei contratti c.d. “comune” (quello dei PDEC) invece disciplina solo la parte generale del contratto: i tipi contrattuali continuerebbero ad essere disciplinati dai diritti nazionali.
– Nel diritto europeo dei contratti e in quello comunitario delle direttive, a differenza che nella normativa domestica, è prevalente il ricorso a norme imperative che disciplinano o il contratto in generale o gruppi di contratto come ad es. in materia di vendita di beni mobili di consumo, la direttiva in materia infatti non si occupa solo della vendita, ma si applica a tutti i contratti finalizzati alla fornitura o produzione di beni di consumo.
Non possono dimenticarsi diversi tipi interni, ad es. nella parte in cui la disciplina europea sulla vendita di beni di consumo tace, va applicata la disciplina interna sul contratto di vendita e non la disciplina generale.
Non si può dimenticare il contesto europeo da cui promana il segmento normativo ad es. nel caso della vendita di beni di consumo il contesto è costituito dal problema della circolazione e della titolarità delle situazioni giuridiche.
La <<perdita della fattispecie>> : diritto <<comunitario>> per gruppi di contratti e tipi contrattuali dei diritti interni.
Si assiste nel diritto comunitario al fenomeno della c.d. “perdita della fattispecie” in quanto sempre più numerosi sono i tipi previsti e sempre più sono le norme imperative. Secondo alcuni ciò potrebbe portare ad una rilevante compressione dell'autonomia privata, ma in realtà non è così perché la tecnica delle norme imperative paradossalmente esalta l'autonomia privata della parte debole del rapporto contrattuale. Il legislatore comunitario è attento più che ai singoli tipi di contratto ai tipi di contratto perché in questi può annidarsi un momento distorsivo della concorrenza. Paradigma descrittivo di questo fenomeno sono i contratti con asimmetrie di potere contrattuale.
Analoghe considerazioni possono farsi con riferimento ai contratti funzionali alla circolazione di beni e servizi in settori delicati (assicurazioni sulla vita, bancario, servizi di pubblica utilità) in cui l'autonomia privata potrebbe ulteriormente essere compressa dal potere regolamentare della autorità amministrativa indipendente (ISVAP, Consob, Banca d'Italia) che agiscono secondo i macro obiettivi definiti a livello UE (eteroregolamentazione secondaria). Anche in tal caso l'autonomia privata risulta rafforzata, è strumento per la sua salvaguardia.
Il diritto dei contratti è essenziale alla creazione del mercato unico, obiettivo primario dell'UE. Ecco perché si tende a comprimere e a conformare l'autonomia privata. Per eliminare le barriere distorsive della concorrenza è necessaria la creazione di un codice che uniformi le norme nazionali sia imperative che dispositive.
Due sono i limiti di intervento del legislatore europeo dei contratti dei consumatori:
1) orizzontali: si verificano nel momento in cui si sceglie di adottare una disciplina transtipica relativa a contratti conclusi con il consumatore secondo particolari modalità (es. negozi fuori dai locali commerciali a distanza …);
2) verticali: sono meno frequenti e si hanno nel momento in cui si adotta una disciplina relativa a singoli tipi contrattuali (multiproprietà, vendita di pacchetti turistici, …)
In entrambi i casi si adotta la tecnica della norma imperativa che non pregiudica, ma anzi esalta l'autonomia privata.
Generalmente in ambito europeo si sono avuti interventi speciali o settoriali (rari casi di discipline generali, come ad es. in materia di clausole abusive), comunque l'interprete anche negli interventi speciali può individuare segmenti di disciplina comune che costituiscono un nucleo del contratto del consumatore.
I rapporti contrattuali BUISNESS TO BUISNESS sono quei rapporti giuridici in cui entrambi i contraenti agiscono per un fine che non può dirsi estraneo all'attività professionale svolta (es. contratti di agenzia e subfornitura). Questo tipo di disciplina ha una scarsa propensione tipologica perché è più rivolta a gruppi di contratti che a singoli tipi. Ad es. la disciplina della subfornitura è relativa per lo più a contratti di durata; e anche qui il ricorso costante alla tecnica della norma imperativa ha lo scopo di recuperare la libertà dell'autonomia contrattuale dei privati.
I rapporti di durata. La costruzione teorica più accreditata in dottrina tedesca vede in essi figure autonome di obbligazione, tuttavia tale tesi è criticabile perché la peculiarità dei rapporti di durata sta unicamente nel fatto che l'interesse del creditore va soddisfatto nell'arco di un periodo di tempo può o meno lungo e che l'adempimento può essere o periodico o continuativo (es. contratto di locazione o di lavoro).
Il rapporto di durata può avere una molteplicità genetica nel senso che può scaturire oltre che da contratti, dall'autonomia testamentaria e da disposizioni di legge.
Forte incidenza ha la componente fiduciaria, alla quale per il protrarsi nel tempo del rapporto obbligatorio, si impronta la relazione tra le parti. E' necessario distinguere questi rapporti da quelli in cui anche se l'esecuzione può protrarsi nel tempo (o essere differita o in cui le obbligazioni accessorie possono essere adempiute successivamente), l'adempimento è sostanzialmente unitario (es. vendita a rate).
E' possibile poi dare due soluzioni al problema dell'incidenza della dissoluzione del rapporto:
1) se la causa è ascrivibile ad un vizio genetico la maggior parte degli ordinamenti tende a garantire il ritorno allo status quo ante, e dunque ad ammettere la restituzione di quanto eseguito.
2) Se la causa risiede in una causa sopravvenuta, ci sono vari orientamenti. Nella maggior parte dei paesi (Italia con l'art.1458, Olanda, Germania, Svizzera e Portogallo) prevale il principio dell'irretroattività. In altri paesi si applica ancora il principio della retroattività. In Francia e Spagna si può registrare una recente tendenza ad abbandonare la rettrospettività, e si ha uno spostamento verso l'area dell'irretroattività. In Francia la dottrina ritiene che la retroattività della risoluzione sia una scelta di politica del diritto contingente, una finzione giuridica dunque non insuperabile.
Nonostante la indubbia diversità di base nelle soluzioni normativa, nei paesi UE si delinea un diritto europeo uniforme in senso sostanziale per almeno due ulteriori profili del contratto di durata:
a) ammissibilità del recesso a seguito di inadempimento solo quando si verifica l'esistenza di una giusta causa. Indicazioni in tal senso oltre che nelle legislazioni di quasi tutti i paesi
possono individuarsi anche: nella Convenzione di Vienna del 1980 (sulla vendita internazionale di beni mobili) che all'art.47 riconosce il diritto dell'acquirente di concedere al venditore inadempiente un termine supplementare ragionevole; o se si tratta di inadempimento essenziale, di dichiarare la risoluzione integrale del contratto; - Nei PDEC e nei p.pi Unidroit viene considerata mancata esecuzione anche l'esecuzione difettosa e tardiva, e si stabilisce che in tal caso salvo dipenda da un atto o da una omissione del creditore o questo se ne sia assunto il rischio, il debitore possa a sue spese e comunicandolo al creditore, assumere tutte le misure idonee a correggere la propria esecuzione. Il creditore può concedere un termine supplementare, e se la prestazione consiste in una dazione di somme di danaro, può chiedere l'esecuzione salvo questa sia impossibile o comporti spese o uno sforzo irragionevole per il debitore, o il creditore può ottenere in altro modo l'esecuzione o ancora l'esecuzione presenti un carattere strettamente personale.
In ogni caso il creditore non può pretendere l'esecuzione in un termine irragionevole. Solo nei casi in cui l'inesecuzione è essenziale, il creditore ha diritto alla risoluzione. Nei PDEC si ha inoltre la distinzione tra inadempimento imputabile (che legittima il creditore a chiedere sia la prestazione che il risarcimento) e non imputabile. In entrambi i casi la parte non inadempiente può rifiutare di adempiere, chiedere la risoluzione, concedere un termine supplementare alla parte inadempiente, accettare un inesatto adempimento a fronte di una riduzione del prezzo.
b) nel caso di mutamento delle circostanze originarie tale da rendere più oneroso l'adempimento, si potrà ottenere l'integrazione e la conservazione del contratto nella fase di esecuzione ricorrendo ai principi di buona fede, equità.
In Francia ad es. la giurisprudenza ha ammesso l'intervento correttivo del giudice sulla base della clausola rebus sic stantibus. Ad analoghe conclusioni si è arrivati in Germania dove si è registrata una vera e propria svolta con la riforma del BGB che ha introdotto esplicite norme esclusorie dell'obbligo di prestazione (eccessiva onerosità, buona fede, ragionevolezza). Parimenti si rinvengono riferimenti all'equità in Grecia, Portogallo, Spagna, Olanda, Austria (in cui si fa riferimento anche all'imprevedibilità) e Italia (art. 1467, 1374 c.c.). In Irlanda e Scozia rilevano solo i mutamenti di circostanze che rendono la prestazione impossibile (anche in UK si parla di “frustation of the venture”). Nel nord Europa la giurisprudenza favorevole alla modificabilità, fa leva su una clausola iniqua nel contratto.
LA VENDITA DEI BENI DI CONSUMO
La vendita dei beni di consumo e le tecniche di attuazione della direttiva 99/44.
La vendita dei beni di consumo appare riconducibile allo schema della vendita di prodotti realizzati in serie ad opera di un venditore professionista inserito in una catena distributiva organizzata ed integrata in senso verticale. È altresì riconducibile allo schema giuridico della vendita di cose di genere o fungibili. Al contrario non persuade la teoria secondo cui sono beni di consumo quelli acquistati dal consumatore, giacché il concetto di consumatore è legato alla debolezza sociale e non a una categoria ontologica come quella riconducibile allo status di imprenditore o professionista.
La direttiva 99/44 ne detta la disciplina e ha suscitato ampio dibattito circa la qualificazione giuridica della posizione contrattuale del venditore in termini di obbligazione o garanzia.
Propria di tale disciplina è una prospettiva rimediale in luogo di quella caratterizzata dall’attribuzione di diritti soggettivi. Detta caratteristica è evidenziata dal fatto che non vi è una regolamentazione organica della materia, bensì una regolamentazione unitaria della materia dei vizi occulti e dell’assenza di qualità del bene venduto e, in particolare, dei mezzi di tutela a disposizione del consumatore. Nulla vi è circa altri profili dello schema contrattuale. Vi sono solo schemi che disciplinano la fase di esecuzione in vista della manutenzione del vincolo contrattuale. È compito dei Paesi membri occuparsi della ricostruzione della disciplina complessiva attingendo, nei limiti della compatibilità con le norme speciali di origine comunitaria, al diritto comune della vendita per tutti gli aspetti non regolati dalla dir. 99/44. La norma di chiusura della direttiva (art.8) fa salvi gli altri diritti riconosciuti al consumatore dalle norme nazionali in tema di responsabilità contrattuale o extracontrattuale (c.d. doppio binario di tutela); ciò comporta un rafforzamento della tutela del consumatore mediante il c.d. cumulo dei rimedi.
La disciplina della vendita dei beni di consumo ha sollecitato un ampio ripensamento dell’intera normativa sul contratto di vendita in vista dell’estensione delle soluzioni adottate dalla dir.99/44 al di là del loro campo di applicazione originario, costituito dai rapporti tra professionisti e consumatori. In Francia e in Germania si è discusso sull’opportunità di esportare il sistema gerarchico di rimedi nel campo dei rapporti tra parti in posizione di parità di potere contrattuale, in particolare ai rapporti tra imprese.
In Italia all’indomani dell’emanazione della direttiva si accese un ampio dibattito circa le modalità più opportune di recepimento. Alla fine è stato deciso di lasciare inalterata la disciplina generale della vendita e di introdurre l’art. 1519 bis alla Sezione II del Capo I dedicata alla vendita di cose mobili (disciplina oggi trasposta nel codice del consumo). Il che denunzia l’intento di relegare la vendita di beni di consumo a sottotipo della species vendita di cose mobili, col risultato di una disciplina incongrua e frammentaria. Si è cercato di superare detto problema coordinando i diversi segmenti di disciplina attraverso inizialmente la novellazione del codice civile (clausole abusive e vendita dei beni di consumo) e l’approvazione di leggi speciali (es. contratti a distanza, commercio elettronico..). L’esigenza di razionalizzare le disposizioni di origine comunitaria è stata soddisfatta infine con l’approvazione del il d.lgs. 206/05 recante il codice del consumo).
Il campo di applicazione e le definizioni
L’art.1 dir.99/44 delinea il campo di applicazione della direttiva tramite un duplice criterio:
a. criterio soggettivo: rappresentato dalla limitazione ai soli rapporti contrattuali tra consumatore e professionisti (per consumatore si intende qualsiasi persona fisica che, nello stipulare il contratto di vendita di beni di consumo, agisca per fini estranei alla propria attività commerciale o imprenditoriale; mentre è professionista qualsiasi persona fisica o giuridica che venda beni mobili di consumo nell’ambito della propria attività commerciale o professionale).
b. criterio oggettivo: si articola in una duplicità di parametri. Il primo rappresentato dall’individuazione di uno spettro eterogeneo di tipi contrattuali cui le norme sono applicabili (non solo la vendita, ma anche i contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre); il secondo è volto a circoscrivere ulteriormente il novero dei rapporti contrattuali considerando solo quei contratti il cui oggetto mediato consiste in un bene mobile materiale con esclusione dei beni oggetto di vendita forzata, dell’energia elettrica e dell’acqua o del gas, a meno che non siano confezionati per la vendita in volume delimitato o in quantità determinata.
La direttiva qualifica il bene di consumo in funzione del suo valore d’uso (cioè soddisfare l’interesse dell’acquirente al godimento del bene). Detta qualificazione è legata al dato oggettivo, cioè è tale il bene la cui causa sia di consumo, evidenziandone la destinazione. Siamo di fronte a un’ipotesi di causa con funzione economico-individuale piuttosto che economico-sociale. Bisogna evidenziare il distacco dalla tradizionale causa di scambio, tipica della vendita. Ad incidere sulla configurazione della causa del contratto di vendita di beni di consumo più del referente economico, è la nuova disciplina delle tutele, in particola l’introduzione dei rimedi satisfattivi della riparazione e della sostituzione (imposizione a carico del venditore non più circoscritta al dare-trasferire, ma estesa alla messa a disposizione di un bene conforme).
Non è possibile una lettura unitaria della disciplina in quanto si tratta di una disciplina a carattere settoriale, dal momento che regola solo un aspetto specifico, ossia la garanzia di conformità.
La disciplina della vendita dei beni di consumo non si applica ai contratti aventi ad oggetto:
• Beni immobili (soprattutto a causa del loro particolare regime di pubblicità).
• Servizi (per non irrigidire le regole di responsabilità professionale a causa dell’innesto delle particolari norme sulla garanzia di conformità).
• Beni immateriali (anche se in realtà tale esclusione è in generale rimessa all’apprezzamento degli interpreti. In Italia è una categoria completamente esclusa).
• Beni usati se acquistati ad un’asta alla quale il consumatore abbia la possibilità di assistere personalmente (anche in questo caso l’esclusione è a discrezionalità dello stato membro. La Spagna li ha esclusi; l’Italia ha incluso tra i beni di consumo i prodotti usati, tenuto conto del tempo del pregresso utilizzo e dei difetti non derivanti dall’uso normale della cosa).
L’incertezza regna a proposito dei beni mobili registrati, categoria ammessa espressamente solo dal legislatore olandese e rimessa all’apprezzamento degli interpreti negli altri ordinamenti.
La nozione di conformità del bene del contratto.
La nozione di conformità ha il pregio di ridurre ad unum le varie figure di violazione. Detta nozione, già adottata dalla Convenzione di Vienna, è volutamente generica e ampia per
sfuggire alla rigidità di una nozione analitica. Per ovviare all’inconveniente dell’assenza di contorni precisi, si fa riferimento ad alcuni indici, definiti in maniera puntuale dalla direttiva e all’art. 2 qualificati come presunzioni di conformità. La conformità è una nozione relazionale perché postula un rapporto di identità tra il contenuto del contratto e il bene trasferito. Gli indici di riferimento non hanno carattere tassativo e sono:
• Conformità alla descrizione fatta dal venditore (tanto più la descrizione della cosa è accurata, tanto più si amplia il contenuto e si riduce la discrezionalità in sede di esecuzione).
• Possesso delle qualità del bene presentato dal venditore come campione o modello.
• Idoneità all’uso voluto dal consumatore e portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto e da questi accettato.
• Idoneità al’uso abituale di beni dello stesso tipo.
• Possesso delle qualità del bene che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi (tenuto conto della natura del bene e delle eventuali dichiarazioni pubbliche sulle sue caratteristiche, effettuate in particolare mediante pubblicità e etichettatura; sotto quest’ultimo profilo la dir. si pone in linea con quanto sperimentato nella dir.90/314 sui viaggi, vacanze e circuiti tutto compreso).
Inoltre è equiparata al difetto di conformità l’imperfetta installazione, ove tale attività è compresa nel contratto e venga effettuata dal venditore o sotto la sua responsabilità ovvero dal consumatore sulla base di istruzioni di istallazione non corrette o carenti.
La direttiva configura tali criteri come presunzioni di conformità e ciò ha indotto la dottrina a ravvisarvi una regola di onere della prova. In realtà tali indici sono dei criteri di integrazione del regolamento contrattuale ed assolvono alla funzione di delineare una nozione minima di conformità. Appare preferibile considerare le presunzioni di conformità un’elencazione esemplificativa delle principali ipotesi di difetti di conformità e attribuire al termine presunzione il valore di formula evocativa del carattere non tassativo, che lascia intatto il potere discrezionale del giudice di ricorre ad altri parametri per accertare la non conformità del bene al contratto. Tali indici funzionano come elementi di integrazione del contratto nel senso che il termine di riferimento principale per l’accertamento della conformità è l’accordo concreto raggiunto dalle parti, rispetto al quale gli indici si innestano in modo da fissare una soglia minima di qualità e di requisiti del bene.
La categoria della conformità al contratto pone al centro della vicenda relativa alle qualità e alle proprietà del bene il regolamento contrattuale quale punto di riferimento diretto dell’impegno del venditore e del risultato atteso dal compratore, che non è più identificato con la sola aspettativa del trasferimento della proprietà del bene, bensì con l’aspettativa del trasferimento della proprietà di un bene conforme al contratto. I rimedi sono ricollegabili direttamente al contenuto del contratto: un difetto di conformità del bene alienato è violazione contrattuale.
Inoltre, la conformità al contratto si pone come punto di congiunzione tra il contenuto e l’oggetto del contratto e consente di distinguere tra i due: il primo è costituito da “tutto ciò che nel contratto è detto e scritto” (parte dispositiva, ossia il complesso di regole poste dalle parti per disciplinare i rapporti specifici) e il secondo è costituito dalla prestazione delle parti (comportamenti e risultati dovuti); il bene materiale coinvolto nel trasferimento rappresenta l’oggetto della prestazione e dunque è solo mediatamente l’oggetto del contratto. In realtà questa ricostruzione è parzialmente smentita da recenti interventi normativi di origine comunitaria, però è utile in quanto permette di distinguere tra:
• Fase programmatica (con riguardo alla parte del contenuto di natura descrittiva volto a delineare le caratteristiche del bene). Su di essa la direttiva 99/44 opera mediante l’integrazione degli indici di conformità.
• Fase esecutiva. Fase in cui si annidano maggiormente abusi e scorrettezze. Rispetto ad essa la direttiva introduce un sistema di rimedi di natura specifica volto a soddisfare l’interesse dell’acquirente.
La categoria della conformità ha il pregio di sostituire le diverse figure di violazione contrattuale elaborate nella prassia applicativa del precedente sistema di tutela del compratore, affidato negli ordinamenti di matrice romanistica alle azioni edilizie (i presupposti di efficacia delle garanzie edilizie sono individuati nel: vizio materiale occulto, mancanza delle qualità promesse, assenza delle qualità essenziali, vizio giuridico, vendita aliud pro alio e cattivo funzionamento). La Convenzione di Vienna e poi la dir. 99/44 hanno completato il percorso di semplificazione e unificazione del regime dei vizi occulti e mancanza di qualità, grazie al ricorso ad una categoria unitaria (il difetto di conformità) e alla predisposizione di un unico sistema rimediale, imperniato su mezzi di tutela in forma specifica tradizionalmente banditi dal regime edilizio e solo a fatica riconosciuti dalla giurisprudenza come forme di reazione alle difformità del bene più eclatanti.
Il carattere elastico della figura presenta l’inconveniente di non fornire all’interprete indicazioni sui contorni precisi della conformità e ciò ha determinato nel dibattito europeo contrasti sulla collocazione di alcune figure, quali l’aliud pro alio e i vizi giuridici (si segnala la soluzione adottata dal BGB, che ha equiparato la vendita di aliud pro alio al vizio materiale e ha previsto uniformità di trattamento per vizi materiali e vizi giuridici).
Per una nozione positiva di conformità al contratto bisogna guardare sia all’art. 35 CISG (che individua dei criteri integrativi), sia all’art. 25 CISG (che è incentrato sul fondamentale breach of contrac, ossia sulla violazione che causa all’altra parte un pregiudizio tale da privarla sostanzialmente di ciò che essa aveva diritto di aspettarsi dal contratto, a meno che la parte inadempiente non abbia previsto tale risultato e che neanche una persona ragionevole della stessa qualità nelle stesse circostanze avrebbe potuto prevederlo; si rivolge non solo alle prestazioni del venditore, ma anche a quelle del compratore).
Di conseguenza detto concetto di conformità del contratto scardina l’idea della compravendita come contratto volto essenzialmente al trasferimento della ricchezza e attribuisce rilievo giuridico oltre alla logica dello scambio, anche all’interesse individuale del compratore; ciò trae conferma da due elementi:
• Non configurabilità della violazione qualora il difetto di conformità si traduca in fatti noti al compratore o fatti che non poteva ignorare.
• Rilievo dato all’affidamento del compratore,evocato agli artt. 25 e 35 CISG.
Quanto detto, sebbene riguardi articoli della CISG, è comunque attuale in quanto il contenuto è transitato nella dir. 99/44 e alle disposizioni nazionali.
In linea con la CISG, la dir.99/44 ha escluso la sussistenza del difetto di conformità:
x. Xxxxxxx il compratore, al momento della conclusione del contratto, xxxxxxx o non possa ragionevolmente ignorare il difetto del bene;
b. Qualora il difetto di conformità si origini nei materiali forniti dall’acquirente medesimo.
Inoltre, a differenza della disciplina della vendita internazionale di beni mobili, la direttiva include nel suo ambito di applicazione i contratti di fornitura di beni nei quali il committente si impegni a fornire una parte sostanziale dei materiali necessari per la fabbricazione o la produzione.
Il sistema gerarchico di tutela
Il difetto di conformità costituisce violazione (“breach of contract”) e in particolare un’inesatta esecuzione dell’impegno del venditore di trasferire la proprietà al compratore e di immetterlo nel possesso di beni dotati di specifiche qualità e di determinate caratteristiche.
La reazione predisposta dalla disciplina della vendita dei beni di consumo consiste nella messa a disposizione del compratore di un meccanismo rimediale articolato su due piani:
• il primo occupato dai rimedi in forma specifica, volti al conseguimento del ripristino della conformità del bene e consistenti nella riparazione o nella sostituzione del bene difforme (rimedi ripristinatori: riparazione o sostituzione);
• il secondo occupato dalle tradizionali azioni di risoluzione e riduzione del prezzo, nucleo essenziale delle classiche azioni edilizie (actio redibitoria e quanti minoris).
Tra le due coppie di rimedi corre un rapporto gerarchico in quanto il consumatore è tenuto a domandare prima la riparazione o sostituzione del bene e, in via subordinata, la risoluzione o riduzione del prezzo. I criteri di gerarchizzazione idonei a consentire il passaggio dai rimedi ripristinatori ai mezzi di tutela edilizi sono molteplici:
• impossibilità del ripristino (per vis maior o casus) o la sua sproporzione rispetto ai rimedi sussidiari (eccessiva onerosità, diverso dal concetto di difficultas praestandi, cioè l’impossibilità soggettiva del tutto irrilevante ai fini dell’estinzione dell’obbligazione ripristinatoria).
• Decorso infruttuoso di un periodo di tempo ragionevole tra la richiesta di ripristino e l’esecuzione della sostituzione o della riparazione.
La violazione del dovere di esecuzione in tempi ragionevoli (tempestività delle operazioni) e senza notevoli inconvenienti rappresenta un inadempimento ulteriore.
La ratio della scansione gerarchica dei rimedi risiede nella predisposizione di un sistema di tutela che privilegi la salvaguardia dell’interesse specifico del compratore al conseguimento della proprietà e del possesso di un bene dotato delle caratteristiche e delle qualità legittimamente attese mediante l’imposizione di un’obbligazione di ripristino della conformità del bene idonea a realizzare il conseguimento del valore d’uso della cosa venduta. Pertanto l’obiettivo è la manutenzione del contratto. Anche la mancata o l’inesatta eliminazione del difetto attivano i rimedi sussidiari. Tutto ciò conferma che la direttiva è volta ad assegnare rilievo sotto il profilo casuale all’interesse specifico del compratore.
Risulta particolarmente problematico stabilire se i rimedi primari a carattere ripristinatorio, qualora inattuati o inesattamente attuati, siano suscettibili a loro volta di tutela in natura, eventualmente eseguibile in forma specifica. La norma comunitaria non disciplina il punto in questione, ma non esclude una soluzione positiva. Il riconoscimento della tutela in natura equivale a negare che tra rimedi primari e secondari intercorra un automatismo che determina, in caso di fallimento dei primi, il necessario passaggio ai secondi. In questo senso si pone la lettera dell’art. 3 della direttiva alla luce della sua formulazione in termini di discrezionalità piuttosto che in termini di doverosità; infatti prevede che una volta vericatesi le condizione previste dai criteri di gerarchizzazione “il consumatore può chiedere una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto”. Di conseguenza l’obbligazione di ripristino è qualificabile come un ordinario vincolo obbligatorio, la cui precettività è affidata al mezzo di tutela in forma specifica ed al rimedio risarcitorio. Inoltre i rimedi della garanzia di conformità sono del tutto gratuiti (art. 3.2 “il consumatore ha
diritto al ripristino senza spese”, in particolare le spese di spedizione e per la mano d’opera e i materiali).
La dir. 99/44 presenta delle carenze:
• Mancata previsione di una procedura di autotutela volta ad ottenere in via coercitiva il ripristino della conformità del bene.
• Mancata introduzione di istituti di esecuzione indiretta tanto di natura indennitaria quanto penalistica.
La natura dei rimedi tra responsabilità e garanzia
I maggiori contrasti interpretativi sono sorti in ordine agli artt.2 e 3 della direttiva: l’art.2 dispone che “ il venditore deve consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita”; l’art.3 prevede che “il venditore risponde di qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene”. Le due norme presentano una formulazione generica.
Le due linee di pensiero che i sono contrapposte in materia possono definirsi teoria della responsabilità e teoria della garanzia.
1. La prima teoria ritiene che tale disciplina sia un ampliamento dell’area della responsabilità da inadempimento del venditore (sono sanzionabili, quindi, anche i vizi materiali, difetti di qualità essenziali e mancanza di qualità promesse, che la disciplina generale della vendita inserisce nell’ambito della garanzia). In capo al venditore vengono configurate, a seconda delle letture, ora un’obbligazione di consegna di beni conformi al contratto (prevalente in Italia), ora un’obbligazione di conformità del bene del contratto.
2. La seconda teoria riconduce i rimedi della riparazione e della sostituzione allo schema della garanzia e sostiene che la disciplina della vendita dei beni di consumo rappresenti un’evoluzione dell’antico concetto ancorato alle azioni edilizie e destinato a esplicare i suoi effetti sul piano della mera rilevanza economica dell’affare ed ora, invece, ricalibrato al fine di consentire il soddisfacimento dell’interesse perseguito dal compratore con il contratto di vendita (il c.d. fine specifico di consumo).
Tra le due posizione contrapposte si collocano due opinioni di compromesso:
a. La prima ravvisa nei rimedi della riparazione e sostituzione strumenti di tutela satisfattiva da valutare, se non come azione di esatto adempimento di un’obbligazione, almeno come tecniche di tutela specifica volta al conseguimento di un risultato (la conformità del bene al contratto) promesso al compratore senza farne oggetto di un rapporto obbligatorio. La scelta legislativa è di individuare nella consegna il termine di rilevanza dei difetti di conformità e ciò permette che prima della consegna non si produca una situazione di irreversibilità nella determinazione dell’oggetto della prestazione attributiva. Invece, secondo il principio consensualistico franco-italiano il perfezionamento della fattispecie traslativa di norma si compie con la prestazione del consenso o con l’attività di individuazione. Nella vendita di beni di consumo ciò che rileva è la recuperabilità sul piano giuridico della conformità del bene affetto da vizi; l’autonomia tra l’acquisto del diritto e l’ottenimento della disponibilità di un bene funzionalmente idoneo determina: a. che l’allineamento tra il risultato traslativo e l’ottenimento di un bene conforme sia sempre possibile sino al momento della consegna; b. che non vi siano ostacoli a qualificare in termini di obbligazione l’impegno del venditore a dislocare sul piano
possessorio il risultato traslativo. Ciò implica che il diritto alla riparazione e alla sostituzione costituiscono un’applicazione specifica della richiesta di adempimento.
b. La seconda opinione ruota attorno alla distinzione tra vizi e difetti di conformità preesistenti al trasferimento della proprietà e quelli successivi. Nel primo caso non vi è spazio per saldare la responsabilità del venditore alle presunte obbligazione di conformità del bene al contrato e di consegna di beni conformi ( che risulta anche logicamente inconcepibile); sicché tale responsabilità deve trovare fondamento nell’istituto della garanzia (che si arricchisce degli strumenti di tutela della riparazione e sostituzione, qualificabili come misure restitutorie che mirano alla manutenzione del contratto e non come misure di adempimento). La garanzia è da intendere come forma di responsabilità speciale del venditore per inesattezza del risultato traslativo.
Secondo detta opinione la forma giuridica dell’obbligazione (in particolare l’obbligo di consegna di beni conformi) appare idonea a rappresentare la posizione del venditore nell’ipotesi in cui i vizi e i difetti di conformità del bene sorgano tra il momento del trasferimento della proprietà e quello della consegna. L’art. 2 dir.99/44 ha modificato il contenuto della tradizionale obbligazione di consegna, il cui oggetto non è più rappresentato dal bene alienato nello stato nel quale si trovava al momento della vendita, bensì dal bene nello stato e con le caratteristiche previste dal contratto e dalle determinazioni legali. L’obbligazione di consegna potrà considerarsi inadempiuta sol che al momento della traditio manchi conformità e sussista un qualche difetto, quindi anche i difetti sopravvenuti derivanti dal caso fortuito o imputabili al venditore (l’art.3 deroga così al principio res perit domino e sposta il momento del passaggio del rischio del perimento del bene al tempo della consegna).
L’irrilevanza della condotta del venditore ai fini dell’imputazione del difetto di conformità e l’estensione dell’area della responsabilità sino al caso fortuito conferiscono a tale responsabilità natura oggettiva e assoluta .
Questa è una linea interpretativa che assume a modello la Convenzione di Vienna che contiene, a differenza della dir. 99/44 una disciplina analitica del passaggio del rischio e ne individua di regola il momento nella consegna dei beni.
Lo scontro tra le teorie della responsabilità e della garanzia può portare a un apparente approdo comune solo nel senso che per entrambe è possibile individuarsi il momento patologico nella violazione del contratto; i contrasti riemergono allorché si procede all’inquadramento della garanzia nell’area della responsabilità in quanto un primo orientamento ritiene che la violazione del contratto consiste nell’inadempimento di un’obbligazione (di far acquistare la proprietà del bene e esatta esecuzione del contratto). L’opinione opposta inserisce la garanzia tra gli effetti della vendita diversi dall’obbligazione e ne subordina l’efficacia all’inadempimento del contratto, in particolare a quella parte della lex contractus che non consiste nell’assunzione di obbligazioni, ma nella promessa di un determinato risultato, con conseguente assunzione del rischio che tale risultato si rilevi o diventi impossibile. Altra dottrina si attesta su di una posizione interlocutoria, configurando la garanzia come reazione all’irregolarità dell’attribuzione patrimoniale promessa e mantiene l’impostazione che inserisce la garanzia nell’area della responsabilità per inadempimento considerando la garanzia come sanzione contro l’inadempimento.
Mexxxxx xffermò che il concetto di inadempimento del contratto è stato irrigidito nei termini di una correlazione essenziale col concetto di inadempimento di una specifica obbligazione contrattuale. La dottrina invece fissa il punto di partenza della teoria dei vizi
redibitori nel distacco della garanzia dall’obbligazione. Il ricorso al’istituto della garanzia è collegato all’impossibilità logica e giuridica di imputare il vizio o l’assenza di qualità del bene alla condotta del venditore che non ha partecipato alla sua realizzazione o, comunque, influito sul suo modo di essere. Il principio dell’impossibilium nulla obligatio è un limite logico posto all’obbligazione e non anche all’autonomia negoziale dei privati, che hanno la piena disponibilità degli effetti del contratto. L’ordinamento giuridico consente che un interesse posa essere assunto a contenuto del regolamento contrattuale, ma non tanto nell’alveo dell’obbligazione, quanto in quello della garanzia. Non sembra quindi condivisibile la conclusione di quanti hanno riconosciuto nei rimedi ripristinatori della riparazione e della sostituzione l’azione di esatto adempimento e da ciò hanno tratto conferma dell’introduzione ad opera della nuova disciplina di un’obbligazione di conformità del bene al contratto o di consegna di beni conformi e poi hanno dedotto che il difetto di conformità del bene costituisca inadempimento e sia imputabile al venditore a titolo di responsabilità.
Per stabilire se la vendita dei beni di consumo abbia introdotto una forma di responsabilità per inadempimento ovvero abbia arricchito il contenuto della garanzia edilizia, è necessario guardare alla sostanza del fenomeno economico cui la disciplina comunitaria appronta la regolamentazione.
I rimedi della riparazione e della sostituzione si possono ascrivere al novero degli strumenti di reazione contro l’inadempimento solo qualora si riesca a configurare in capo al venditore un obbligo di condotta che investa la verifica della conformità al contratto dei beni finiti o da assemblare e la loro conseguente realizzazione. Se si accoglie questa lettura può ritenersi che la disciplina della vendita di beni di consumo abbia imposto al venditore un’ulteriore obbligazione avente ad oggetto il collaudo di ciascun bene commerciato da effettuarsi dopo la conclusione del negozio, ma prima della consegna del bene (a meno di contestualità).
Non può darsi per scontato che il legislatore comunitario volesse gravare i rivenditori di beni di consumo dell’obbligo di attrezzarsi di strutture idonee al ripristino della conformità, né che le strutture preposte alla riparazione e alla sostituzione provvedano anche all’accertamento della conformità dei beni al contratto.
Inoltre l’attività di ripristino è solo eventuale in quanto è legata al manifestarsi entro il termine di due anni dalla consegna di un difetto di conformità già sussistenti a quel momento (art. 5,1); tale circostanza costituisce oggetto di prova dell’acquirente, il cui onere è alleggerito dalla previsione dell’art. 5.3 di una presunzione iuris tantum di esistenza al tempo della consegna dei difetti che si svelino entro sei mesi dalla traditio (presunzione che non determina un’inversione dell’onere della prova: il compratore deve comunque dimostrare che il difetto si è manifestato entro sei mesi dalla consegna).
L’obbligazione di verifica e di collaudo della conformità del bene implicherebbe un’azione di controllo da parte del venditore; mentre l’obbligazione di riparazione e sostituzione non impone al venditore di munirsi di un’organizzazione atta al ripristino, giacché questi potrebbe appoggiarsi a una catena distributiva.
È quindi difficile trarre argomenti a favore dell’obbligazione di verifica e di controllo dalla mera natura di rimedi in forma specifica della riparazione e della sostituzione, perché il ricorso alla catena di distribuzione se praticabile quando si tratta di ripristinare l’eventuale difetto di conformità, non lo è qualora ci si sposti sul terreno del collaudo (il bene dovrebbe passare dal produttore al distributore intermedio per giungere al venditore finale e poi risalirebbe la catena per sottoporsi al controllo di conformità prima del momento della consegna).
La garanzia specifica
È superato il limite dell’impossibilità logica di un’obbligazione relativa al modo di essere della cosa compravenduta in quanto è stata ammessa la possibilità di incidere sullo stato del bene dovuta all’inserimento del venditore nella catena distributiva. La recuperabilità della corrispondenza del bene al contratto implica soltanto l’astratta possibilità di dedurre in obbligazione il conferimento al compratore di un bene conforme (non anche l’inevitabilità di tal esito). La communis opinio giustifica il ricorso all’istituto della garanzia solo a causa dell’impossibilità logica di concepire l’evento cui mira il contratto (assenza vizi e presenza qualità promesse) come obbligo di prestazione, giacché tale evento rimane sottratto alla sfera di controllo e di azione del venditore. In realtà è una petizione di principio: la scelta del legislatore di assegnare agli effetti del contratto di vendita legati allo stato del bene la forma della garanzia piuttosto che quella dell’obbligazione può anche derivare da ragioni di opportunità e di ordine economico: ad esempio l’imposizione al venditore dell’obbligazione di verificare ciascun bene commerciato e procedere all’eventuale ripristino prima della consegna comporterebbe un aggravamento eccessivo ei costi a suo carico. Perciò la garanzia si presenta come una forma più efficiente in quanto permette il raggiungimento di un risultato utile senza la cooperazione della controparte, sicché il mancato soddisfacimento dell’interesse protetto non determina una responsabilità in capo alla parte tenuta alla garanzia, ma piuttosto costituisce il presupposto di efficacia dei rimedi previsti dalla garanzia medesima.
La natura di rimedi in forma specifica della sostituzione e della riparazione costituisce un elemento che lascia propendere per il loro inquadramento nello schema dell’azione di adempimento, solo se non si contesta che l’istituto della garanzia sia sempre stato finalizzato all’equilibrio delle posizioni contrattuali. In realtà non vi sono ragioni per non riconoscere che la funzione di ripristino non appartenga a un concetto evoluto di garanzia (prima intesa prevalentemente in senso economico). Nulla permette di affermare che siano logicamente incompatibili in quanto il tipo di obblighi derivanti dalla garanzia non è fissato a priori (e pertanto non si tratta necessariamente di obblighi restitutori); infatti la garanzia è una fonte di obblighi che diversamente dalla responsabilità non presuppongono la violazione di un’obbligazione. La garanzia in forma specifica è allora la forma giuridica più adeguata a racchiudere i rimedi ripristinatori della riparazione e sostituzione.
Risarcimento del danno
Ci si è chiesti quale sia, nel caso in cui la conformità al contratto rimanga dedotta in garanzia, il fondamento della misura risarcitoria, che la totalità degli autori ritiene compatibile con la disciplina della vendita di beni di consumo, benché ivi non espressamente prevista. La misura risarcitoria è uno strumento utilizzato per far valere la responsabilità del debitore. È un rimedio collegato alla produzione del danno il cui costo deve venire rimosso dalla sfera giuridica del danneggiato per trasferirlo nella sfera giuridica del danneggiante. Quale effetto dell’inadempimento è strumento per fare valere la responsabilità del debitore.
Il risarcimento non ha necessariamente come presupposto un’obbligazione violata, può seguire anche l’attivazione della garanzia,in quanto, essendo la concezione della garanzia edilizia (per vizi occulti) un surrogato della pretesa di adempimento, allora la garanzia include il pieno risarcimento del danno, cioè l’interesse positivo del compratore (Mengoni). Si è detto che se il venditore garantisce l’idoneità della cosa, non può non rispondere dei danni che la inidoneità cagiona; tuttavia la previsione di garanzia in forma specifica non
sembra lasciare margini per il risarcimento del danno da interesse positivo. La riparazione e la sostituzione coprono infatti il danno emergente e non il lucro cessante (escluso per definizione dalla funzione di consumo che connota il contratto). La consegna di un bene non conforme costituisce la causa di un pregiudizio che investe un bisogno personale del consumatore e che non si può compensare sul piano economico ma solo prevenire mediante una tutela in natura. L’opinione in esame ritiene applicabile l’art. 1494,2 c.c., che impone al venditore di risarcire i danni che derivino dai vizi ella cosa come reazione all’inadempimento di un obbligo di protezione. A ben vedere è l’idea stessa di garanzia a precludere l’esistenza di un obbligo di protezione (da danni alla persona del compratore a causa del difetto di conformità) a carico del venditore. Una volta sottratto il ben ala sfera di controllo di quest’ultimo è inconcepibile ipotizzarne l’assoggettamento ad un obbligo di cautela nei confronti del compratore.
L’art. 1419,2 c.c. (risarcimento danno in materia di vendita) può essere invocato solo qualora il venditore agisca con dolo, nella piena consapevolezza della difformità e pericolosità del bene (in relazione al disposto di cui all’art. 1225 c.c.).
Si può quindi concludere che per la non invocabilità del risarcimento del danno, in questa prima fase, presidiata dai rimedi in forma specifica, la cui priorità, nel sistema delineato dall’art. 130 cod. cons., implica l’attribuzione al risarcimento della sua funzione tipica in ambito contrattuale di tutela puramente sussidiaria. Inoltre nella prima fase dell’esecuzione del contratto non vi sono margini per il risarcimento del danno da ritardo, in quanto l’art. 3 dir. 99/44 fa riferimento alla mancata riparazione o sostituzione del bene entro un periodo ragionevole quale presupposto per invocare l’azione redhibitoria e quanti minoris.
La priorità data alle garanzie in forma specifica attribuisce all’esecuzione del contratto natura procedimentale (una volta accertato e tempestivamente denunziato il difetto di conformità, si apre una fase rimediale volta al ripristino del bene e del tutto eventuale):
a. Accertamento e denuncia tempestiva del difetto di conformità;
b. Fase rimediale, rispetto alla quale la garanzia si pone come fonte di un’obbligazione ripristinatoria sempreché la prestazione dia oggettivamente possibile e non eccessivamente onerosa. L’art. 3,3 attribuisce alla sproporzione il carattere di una spesa irragionevole e fornisce tre criteri di valutazione dell’irragionevolezza dei costi: valore che il bene avrebbe in assenza di difetto; entità del difetto di conformità; possibilità di ripristino senza notevoli inconvenienti per il compratore. Nozione di onerosità del tutto sganciata dall’abituale riferimento al solo ammontare del danno.
A tal proposito si parla di “eccesiva onerosità dialettizzata” perché il frutto di bilanciamento degli interessi del venditore e del compratore in un quadro destinato a privilegiare l’appagamento del bisogno del consumatore; bilanciamento dovuto al fatto che i tre criteri si prestano a letture di salvaguardia delle ragioni di entrambe le parti: ad es. i primi due favoriscono, a tutela del venditore, un giudizio di eccessiva onerosità rapportato al bene specifico il suo valore di quest’ultimo non sia notevole.
Quanto detto non si concilia con l’idea che riparazione e sostituzione costituiscano azioni di esatto adempimento; l’attivazione dei rimedi ripristinatori appartiene alla fase di esecuzione del contratto (così come in precedenza si è sostenuto a proposito della tutela in natura contro l’inadempimento o l’inesatto adempimento dell’obbligazione di sostituzione e riparazione del bene non conforme.
Il regresso
Nel caso in cui venditore sia chiamato a rispondere del difetto di conformità riconducibile all’azione o all’omissione del produttore, di un precedente venditore nella stessa catena contrattuale o di un qualsiasi altro intermediario, la dir.99/44 attribuisce al medesimo venditore finale il “diritto di agire nei confronti della persona o delle persone responsabili nel rapporto contrattuale” (art.4).
Al riguardo sono necessarie delle osservazioni:
a. Prima osservazione: la lettera della norma non menziona il diritto di regresso, che rimane confinato solo alla rubrica. La norma rimane neutra al riguardo e ciò è confermato dalla chiusa “la legge nazionale individua il soggetto o i soggetti nei cui confronti il venditore finale ha diritto di agire, nonché le relative azioni e modalità di esercizio”. In realtà la scelta del soggetto passivo appare obbligata: colui che si sarà reso effettivamente responsabile del difetto di conformità; ma gli ordinamenti giocando sulla chiusa hanno adottato le soluzioni più disparate.
b. Seconda osservazione: la versione Italia della direttiva ha complicato il quadro adoperando l’espressione “rapporto contrattuale” per indicare il contesto entro il quale individuare il soggetto passivo dell’azione riconosciuta al venditore finale. Formula molto astratta che genera il rischio di restringere la cerchia dei possibili responsabili.
Il legislatore italiano per fortuna ha ignorato la trappola linguistica. L’art. 131 cod.cons. riconosce al venditore finale, che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore, la facoltà di “agire, entro un anno dall’esecuzione della prestazione, in regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili, per ottenere la reintegrazione di quanto prestato”. La disposizione in esame prevede, quindi, il verificarsi di due presupposti: a. dal lato del venditore: l’aver soddisfatto le pretese del consumatore; b. dal lato del legittimato passivo: l’avere dato causa con una propria azione od omissione al difetto di conformità. Così facendo configura un autentico diritto di regresso. Detta scelta normativa contribuisce a sfatare un luogo comune, ossia che il regresso necessariamente presupponga un vincolo solidale tra legittimato attivo e legittimato passivo e conferma l’idea che detto diritto costituisca una forma giuridica più astratta e duttile del diritto di rivalersi sul sostituito.
Va ricordato inoltre che l’art. 130 non contempla tra i rimedi a favore del consumatore la misura risarcitoria. L’eventuale risarcimento del danno esula, quindi, dallo speciale diritto di regresso di cui all’art. 131 ed il venditore finale potrà ottenerne ristoro, ma soltanto dal proprio daxxx xausa e in virtù dell’ordinaria tutela contrattuale.
Da segnalare che in Germania il regresso risulta ancorato al singolo rapporto contrattuale e posto a corredo della disciplina generale della vendita (il venditore può rivolgersi solo al dante causa, per il rimborso delle spese di riparazione e sostituzione, in virtù delle ordinarie azioni contrattuali connesse alla garanzia per vizi o a titolo di risarcimento del danno). In Austria è riconosciuto al venditore il diritto di rivolgersi soltanto al proprio dante causa, ma può agire tramite le tutele riconosciute al consumatore.
Garanzia convenzionale
La garanzia convenzionale (o commerciale) ha titolo nel contratto di vendita e si traduce in una manifestazione impegnativa di volontà da parte del venditore, che assume la forma giuridica di un impegno contrattuale e ulteriore rispetto a quello, di fonte legale, relativo alla conformità del bene al contratto. Il fondamento volontario dell’istituto emerge dalla
terminologia dell’art.6 dir. 99/44 ove di riferisce ad un vincolo giuridico relativo alla “persona che offre”. Un connotato particolare di questo tipo di garanzia è costituito dal suo collegamento a specifiche anomalie del bene: secondo il secondo comma della disposizione in esame tale “garanzia deve indicare in modo chiaro e comprensibile l’oggetto”, ove per oggetto si intende non solo il contenuto della garanzia, ossia i rimedi attribuiti al compratore, la durata e l’estensione territoriale, ma anche i presupposti oggettivi in presenza dei quali tale garanzia diviene efficace; presupposti oggettivi che si identificano con le la difformità alle caratteristiche individuate non solo in base alla descrizione contenuta nel contratto e alle dichiarazioni pubbliche, ma anche con specifico riferimento alla dichiarazione di garanzia convenzionale e alla relativa pubblicità. La garanzia convenzionale costituisce una forma di tutela complementare e ulteriore a favore del consumare; proprio per ciò deve risultare chiaro che la garanzia lascia impregiudicati i diritti legali del consumatore: al fine di scongiurare il rischi che il consumatore si concentri sulla garanzia convenzionale e tralasci di avvalersi della garanzia legale potenzialmente più favorevole, l’art. 6 dispone che “la garanzia deve indicare che il consumatore è titolare di diritti secondo la legislazione nazionale applicabile disciplinante la vendita dei beni di consumo e specificare che la garanzia lascia impregiudicati tali diritti”. Il quinto comma di tale disposizione individua ulteriori requisiti formali e ne precisa l’irrilevanza ai fini della validità di tale dichiarazione, cosicché il consumatore può continuare ad avvalersi della garanzia stessa e esigerne l’applicazione.
Nel diritto italiano il carattere accessorio e volontaristico dell’istituto emerge dalla definizione accolta dall’art. 128,2 lett. e) cod. cons. ove si parla di “garanzia convenzionale ulteriore” e la si descrive come “un qualsiasi impegno di un venditore o di un produttore, assunto nei confronti del consumatore senza costi supplementari, di rimborsare il prezzo pagato, sostituire, riparare o intervenire altrimenti sul bene di consumo, qualora esso non corrisponda alle condizioni enunciate nella dichiarazione di garanzia e nella relativa pubblicità”. La disciplina specifica è contenuta nell’art. 133 cod. cons., il quale riproduce il contenuto dell’art. 6 della direttiva.
I caratteri della volontarietà e specificità sono presenti anche nell’ordinamento francese ed in quello olandese.
La Spagna ricalca il contenuto dell’art. 6 dir. 99/44.
LA VENDITA INTERNAZIONALE DI BENI MOBILI
La Convenzione di Vienna del 1980 (ratificata da oltre 50 stati, compresi diversi paesi in via di sviluppo; tra essi non figura la Gran Bretagna) costituisce il diritto applicabile alla vendita internazionale (cioè a quei contratti di vendita le cui parti hanno la sede d’affari in paesi differenti), salvo le ipotesi in cui le parti prevedano esplicitamente il diritto nazionale applicabile o richiamino con clausola compromissoria la lex mercatoria ( il diritto spontaneo costituito essenzialmente da consuetudini e da statuti corporativi).
In particolare tale convenzione disciplina taluni aspetti problematici del commercio internazione e in particolare: la conformità del bene, i rimedi a disposizione del compratore, il passaggio del rischio (restano esclusi altri aspetti tra cui quelli inerenti alla validità del contratto, dal momento che i diversi ordinamenti presentano discipline totalmente difformi in materia e gli stati sono restii a limitazioni della propria sovranità di tal sorta). La conseguenza di questa incompletezza (ad es. con riguardo al calcolo degli interessi da applicare a somme dovute a titolo di risarcimento) della disciplina CISG è che per le questioni non disciplinate dalla convenzione il giudice interno dovrà fare riferimento al diritto applicabile secondo le comuni regole internazionalprivatistiche ovvero dovrà utilizzare i <<principi generali>> della CISG.
L’applicabilità della CISG può addirittura condizionare il problema della giurisdizione; ad es. in un caso in cui un venditore italiano di frigoriferi si era rivolto ad un giudice italiano per ottenere il pagamento dall’acquirente francese, la Corte di Cassazione (sent. 7488/2004), applicando l’art.5 della Convenzione di Bruxelles, in virtù della quale ai fini della giurisdizione rileva il luogo di esecuzione dell’obbligazione, ha ritenuto che il prezzo dovesse esser pagato presso il domicilio del venditore ex art.57 CISG, dichiarando la giurisdizione del giudice italiano.
Il modello internazionale e quello europeo a confronto
La CISG ha assunto il ruolo di modello e paradigma di riferimento rispetto ad altre normative, oltre che ai PDEC, in particolare ala disciplina della vendita di beni mobili in Europa; analogamente alla direttiva europea della vendita di beni di consumo, prevede l’obbligo di consegnare beni conformi al contratto e tra i rimedi la riparazione e la sostituzione.
Ma nell’ambito della CISG riparazione e sostituzione sono congegnati in termini di facoltà per il venditore (art. 48), dal momento che per la convenzione il compratore è anch’esso un professionista. Al venditore è riconosciuto il diritto di rimediare all’inadempimento in tempi ragionevoli, in ogni caso il compratore può chiedere la risoluzione se l’inadempimento è essenziale (a differenza della disciplina europea, tale rimedio non è subalterno ai rimedi conservativi, ma prevale sull’interesse del venditore di mantenere il contratto). Inoltre la direttiva esclude un tale livello di gravità dell’inadempimento, ma al contempo non offre il rimedio specifico se esso risulta sproporzionato o impossibile. Sembrerebbe, quindi, che nella CISG tra rimedio correttivo e risolutivo non vi sia gerarchia ma che siano rimedi alternativi. In realtà l’inadempimento si qualifica essenziale solo laddove l’intervento correttivo non sia possibile o risulti eccessivamente gravoso. Sul punto la giurisprudenza sulla CISG sembra costante tutte le volte in cui afferma che anche il più grave dei vizi non dà luogo ad inadempimento essenziale se il vizio è oggettivamente eliminabile e v’è una disponibilità soggettiva del venditore ad intervenire. Pertanto, come nella vendita al consumo europea, ove la risoluzione non può chiedersi se il rimedio
specifico è possibile e meno costoso, anche qui alla risoluzione del contratto può ricorrersi colo come ultima ratio. I due modelli prevedono, quindi, un sistema in cui il rimedio conservativo è prevalente su quello risolutivo.
Il termine per la denuncia del difetto di conformità.
Ai sensi dell’art. 43 CISG il compratore è tenuto a dare notizia del difetto di conformità del bene entro un termine ragionevole (decorso il quale non può più accedere ai rimedi di tipo conservativo; ovviamente la ragionevolezza va valutata alla luce del rimedio di cui ci si vuole avvalere). L’interpretazione giurisprudenziale appare piuttosto rigida, specie ove il tribunale riconduce alla scadenza del termine non soltanto la preclusione del rimedio risolutivo, ma anche l’impossibilità di accedere a rimedi di tipo conservativo, come la riduzione del prezzo o il risarcimento danni. Deve segnalarsi una singolare decisione di un giudice austriaco, secondo cui il compratore, che non abbia denunciato entro un termine ragionevole il difetto di conformità, può comunque esercitare l’azione di riduzione del prezzo addirittura ottenendo un abbattimento totale della somma dovuta.
I rimedi.
L’azione di adempimento e di esatto adempimento sono ammissibili solo se sussistano una serie di condizioni esterne e interne al diritto convenzionale (per la sostituzione si tratta dell’inadempimento essenziale ed una richiesta fatta entro un periodo di tempo ragionevole; per la riparazione della ragionevolezza della richiesta). Se sussistono le condizioni interne, il giudice non è, per ciò solo, tenuto ad ordinare l’esatto adempimento “a meno che non lo farebbe in virtù della sua legge nazionale” (art.28). l’ammissibilità del rimedio specifico è in tal modo condizionata dalla presenza di un consenso dello Stato.
IL CREDITO AL CONSUMO (DISCIPLINA MODIFICATA DALLA NUOVA DIRETTIVA 2008)
LA NOZIONE
Il credito al consumo rappresenta un’importante canale di finanziamento per il soddisfacimento della domanda di beni, in particolare durevoli (ad es. mezzi di trasporto, elettrodomestici..), i cui costi superano il limite di reddito del consumatore, mediante il differimento temporale di pagamento.
Per far fronte a tali esigenze lo strumento giuridico utilizzato, in un primo momento, è rappresentato dalla vendita a rate con riserva di proprietà (caratterizzato dalla separazione del godimento immediato del bene dall’acquisto della proprietà). Lo scenario è destinato a mutare a seguito della crescita dei consumi e di una sempre maggiore propensione all’indebitamento. Oggi, poiché il fornitore medio non è più in grado di anticipare le risorse necessarie all’operazione di finanziamento, il meccanismo del finanziamento allora fuoriesce dallo schema del rapporto bilaterale e assume strutture trilaterali (fornitore/ finanziatore imprenditore-terzo/ consumatore).
La scomposizione dei rapporti giuridici ha determinato una prassi contrattuale caratterizzata da alcune costanti:
- il finanziatore si riserva la facoltà di decidere se accordare o meno il prestito all’esito di un’indagine sulle condizioni economiche del richiedente;
- la somma viene corrisposta direttamente al venditore e non al consumatore;
- il finanziatore si cautela contro il rischio di insolvenza mediante una garanzia reale (di norma, l’ipoteca);
- il rimborso è a rate mensili che comprendono la quota di capitale e gli interessi normalmente a un tasso annuo normalmente soggetto a variazione nel corso del rapporto; Ne sono derivate ricadute poco favorevoli al consumatore:
1. Inopponibilità al finanziatore delle eccezioni inerenti al contratto di compravendita; Aggiramento della normativa sulla vendita con riserva di proprietà.
La disciplina comunitaria del credito al consumo è contenuta nella dir. n°87/102, modificata dalle direttive n°90/88 e 98/7 e confluita in Italia nella legge n°142/92, in forte ritardo rispetto agli altri Stati membri (l’adeguamento si deve con probabilità al passaggio dell’attività bancaria dal regime pubblicistico al mercato); le norme italiane di attuazione sono confluite negli artt. 121-128 bis TUB e negli artt. 40-44 cod. cons. In materia è intervenuta la direttiva n°2008/48.
L’attuazione della dir. 87/102 nel panorama europeo.
La direttiva n°87/102 risulta oggi ampiamente recepita dai Paesi membri, tuttavia il procedimento di armonizzazione è risultato imperfetto a causa della persistenza di diversità nelle discipline nazionali, soprattutto sul versante dell’individuazione dell’ambito di applicazione:
- Francia: legge madre risale al 1966 e estende la tutela anti-usura ai crediti concessi in occasione di vendite a rate; solo nel 1978 maggiore effettività nella protezione offerta al’utente di servizi finanziari al consumo (vennero introdotti i doveri d’informazione, il recesso di pentimento entro sette giorni dall’accettazione dell’offerta preliminare e modificato il contenuto minimo del contratto).
- Germania: il diritto tedesco vanta un primato, infatti la prima legge in materia è del 1894, poi l’AGBG del 1976 sulle condizioni generali del contratto. Xxxxx di primo piano è giocato dalla giurisprudenza di merito e legittimità in via di concretizzazione della clausola generale di buona fere-correttezza.
La disciplina italiana: l’ambito di applicazione e i limiti.
In Italia: la disciplina di recepimento (l. 154/92) e quella sulla trasparenza bancaria (l. 142/92) sono coeve e ciò ha posto problemi di coordinamento sanati dal TUB (testo unico bancario), che ha incluso le discipline nel Titolo IV sulla trasparenza delle condizioni contrattuali.
L’art.121,1 TUB rispetto alla direttiva 87/102 ha accolto una nozione più ampia di credito al consumo: Per credito al consumo si intende la concessione, nell'esercizio di un'attività commerciale o professionale, di credito sotto forma di dilazione di pagamento, di finanziamento o di altra analoga facilitazione finanziaria a
favore di una persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta (consumatore)”. L’ampiezza della disposizione in esame ha comportato la possibilità di ricondurre alla disciplina una pluralità di fattispecie negoziali eterogenee. La norma non delinea uno schema contrattuale unitario, quanto una causa di credito al consumo, lasciando ampi margini alla possibilità di tradurre tale funzione economico-individuale in forme contrattuali diverse tra loro. Elementi identificativi sono: la concessione di credito o la vendita a rate; il requisito soggettivo della qualifica di consumatore dell’acquirente-finanziato; il profilo funzionale dello scopo estraneo all’attività imprenditoriale eventualmente svolta.
Rientrano di certo nella nozione:
a. Vendita con riserva di proprietà, cui l’art.121 TUB fa riferimento con l’espressione “credito sotto forma di dilazione di pagamento”;
b. Contratto di credito al consumo per acquisto di beni e prestazione di servizi: mutuo di scopo, i contratti della prassi bancaria e finanziaria(tipici ed atipici, quali il credito documentario e l’anticipazione bancaria garantita), il prestito personale, la cessione del quinto dello stipendio;
c. Leasing traslativo al consumo (o impuro, contratto preordinato al trasferimento del bene al termine del rapporto dietro pagamento del prezzo di opzione, il permanere a tale scadenza di un apprezzabile valore residuo del bene superiore alla somma pattuita per l’opzione fa sì che il canone di leasing assuma il valore di corrispettivo del trasferimento della proprietà. Il contratto differisce dal leasing puro preordinato al mero godimento del bene).
Inoltre mentre la direttiva contempla anche la “promessa” di credito, la disposizione TUB presuppone l’avvenuta conclusione del contratto, ma non vi è alcuna ragione in un ambiente regolato dall’atipicità di escludere il preliminare di credito al consumo.
Il creditore-finanziatore è colui che concede il credito “nell’esercizio di un’attività commerciale o professionale”. Il secondo comma dell’art. 121 individua un elenco di soggetti a cui è riservato l’esercizio del credito (banche, intermediari finanziari e i soggetti autorizzati alla vendita di beni o di servizi nel territorio della Repubblica..). la disciplina viene estesa anche a coloro che svolgono attività di intermediazione strumentale alla concessione del credito da parte del finanziatore e, pertanto, gli obblighi di forma, di informazione e di consegna di copia del documento contrattuale sono applicabili anche ai rapporti tra consumatore e mediatore, il quale, in ossequio al collegamento negoziale, vedrà esigibile il proprio credito al compenso soltanto ad erogazione del credito avvenuta.
La disposizione, inoltre, stabilisce che il destinatario finale del finanziamento (debitore- finanziato) deve essere un consumatore. Il giudizio di estraneità dello scopo all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale non presuppone l’espressa menzione nel contratto della finalità al consumo del credito da part del debitore-finanziato e addirittura, nel caso di silenzio del regolamento contrattuale, l’opinione pressoché unanime ritiene che operi a favore del debitore una presunzione di “estraneità dello scopo”, tale da imporre al creditore che voglia evitare l’applicazione delle norme sul credito al consumo l’onere della prova contraria; in tal modo viene rafforzata la posizione del debitore e si ottiene il vantaggio di costringere il creditore ad una più adeguata attività di informazione al fine di indurre il debitore a rendere palese lo scopo dell’operazione di finanziamento. Alcune critiche sono state mosse alla scelta del legislatore italiano di delimitare la figura del consumatore alle sole persone fisiche, in quanto si ritiene che non vi sia ragione di non considerare consumatore un ente non economico o un ente economico che agisca per fini non istituzionali, ossia estranei all’attività imprenditoriale o professionale. Inoltre la soluzione adottata dal legislatore può sollecitare condotte di interposizione simulatoria, con le quali una persona fisica acquista formalmente a suo nome e per suo conto, ma in realtà si rende tramite dell’acquisto dell’ente. L’esame dell’esperienza europea rivela sul punto soluzioni divergenti: il diritto inglese estende la disciplina anche agli enti privi di personalità giuridica; il diritto tedesco consente l’accesso al credito anche a imprenditori per la nascita o l’avvio dell’attività professionale o commerciale, entro il limite dei 50.000€.
Le fattispecie escluse.
Ai sensi dell’art.121,4 restano sottratti alla disciplina del credito al consumo i:
1. Finanziamenti di importo inferiore e superiore ai limiti stabiliti dal comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR); detti contratti sollevano perplessità per l’attitudine a favorire pratiche elusive della disciplina del credito al consumo mediante la disgregazione di un’unica operazione di finanziamento in una pluralità di contratti di credito di importo inferiore al limite minimo. Secondo parte della dottrina questo rischio non esige una specifica disciplina anti-elusione, giacché in via interpretativa è consentito valutare unitariamente una pluralità di contratti di importo inferiore al limite legale intercorsi tra le medesime persone in un arco temporale non troppo esteso.
2. Contratti di somministrazione . agli art. 1559 ss. c.c., purché in forma scritta e consegnati in capo al consumatore. Rappresentano una delle ipotesi più controverse a causa degli errori contenuti nel testo normativo; infatti, il legislatore riconduce la categoria ai contratti disciplinati agli artt. 1559 e ss. del c.c., mentre la disciplina comunitaria fa riferimento ai “contratti relativi alla prestazione continuata di un servizio, pubblico o privato, in base ai quali il consumatore ha diritto di versare il corrispettivo di tale servizio, per la durata della fornitura”. Ciò ha sollevato il dubbio di includere o meno nella disciplina la somministrazione di cui all’art. 1677 del c.c.; ha elevato il rispetto di requisiti meramente formali (quali la redazione per iscritto e la consegna di copia del documento) a condizione sufficiente di un’adeguata tutela, mentre la ratio della dir. 87/102 è ispirata al primato del controllo contenutistico del contratto o dell’insieme dei contratti collegati; ha assoggettato i contratti di somministrazione privi della forma scritta alla disciplina del credito al consumo, che paradossalmente impone l’adozione di tale forma.
3. Finanziamenti rimborsabili in una nuova soluzione entro 18 mesi, con il solo eventuale addebito di oneri non calcolati in forma di interesse, purché previsti nel loro ammontare;
4. Finanziamenti privi di corrispettivo di interessi o altri oneri, fatta eccezione per il rimborso delle spese vive eventualmente e documentate. Detta ipotesi amplia l’esenzione contenutistica dell’ipotesi di cui al punto 3; la loro sottrazione si giustifica perché si tratta di forme di finanziamento essenzialmente gratuite.
5. Finanziamenti destinati all’acquisto o ala conservazione di un diritto di proprietà su di un bene immobile edificato o da edificare, ovvero all’esecuzione di opere di restauro o di miglioramento;
6. Contratti di locazione, a condizione che prevedano espressamente la clausola che in nessun momento la proprietà della cosa locata possa trasferirsi, con o senza corrispettivo, al locatario; ciò ribadisce a contrario l’estensione della tutela al leasing traslativo al consumo.
7. Contratti di apertura di credito in conto corrente non connessi all’uso della carta di credito. A loro riguardo si registra un’evidente divergenza tra dir. 87/102 e TUB. La dir. ne prevede l’esclusione dalla disciplina nel credito al consumo. L’art. 126 del TUB ne appronta, viceversa, una disciplina speciale che prevede l’indicazione a pena di nullità: a. del massimale e dell’eventuale scadenza del credito; b. del tasso di interesse annuo e del dettaglio analitico degli oneri applicabili dal momento della conclusione del contratto, oltre i quali nulla è dovuto, nonché delle condizioni che possono determinare la modifica durante l’esecuzione del contratto stesso; c. le modalità di recesso dal contratto.
8. Fideiussione. È controverso se lo schema contrattuale della fideiussione sia idoneo a realizzare la causa del credito al consumo. Sul contrasto si è pronunciato la CGE che ha ritenuto la garanzia fideiussione estranea alla dir. n°87/102 sulla base di un nozione ristretta di contratto di credito, giustificata alla luce delle molte fattispecie espressamente escluse.
I doveri di informazione.
Ratio della disciplina del credito al consumo è riequilibrare i rapporti di forza contrattuale tra finanziatore e consumatore.
1. xx xxxxx annuo effettivo globale.Sul piano della disclosure delle informazioni rilevanti ai fini dell’adozione di scelte consapevoli da parte del cliente-consumatore. La fase delle trattative è ampiamente disciplinata dal TUB che affianca alla buona fede e alla correttezza codicistiche svariate presunzioni in tema di pubblicità delle operazioni di credito al consumo; in particolare l’art.123 estende a tali operazione gli obblighi imposti per la sollecitazione del pubblico alle operazioni e servizi bancari imposti per la sollecitazione del pubblico di operazioni e servizi bancari e finanziari dall’art.116, che prescrive l’obbligo di pubblicizzare, in ciascun locale aperto al pubblico del soggetto abilitato, i tassi di interesse, i prezzi, le spese per le comunicazioni alla clientela e ogni altra condizione economica relativa alle operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli interessi di mora e ove si tratti di operazione di finanziamento anche il tasso effettivo globale medio. A tali elementi l’art.123 co.1 affianca il tasso annuo effettivo globale (il TAEG) e il co.2 ne prevede l’inserzione anche negli annunci pubblicitari e nelle offerte, con qualsiasi mezzo effettuato.
Con tasso annuo effettivo globale si intende il costo totale del credito a carico del consumatore espresso in percentuale annua della somma concessa e comprensivo degli interessi e oneri da sostenere per l’utilizzazione del credito (art.122). le modalità i calcolo, gli elementi da computare e la stesa formula di calcolo devono esser stabilite con delibera dal CIRC (Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio). Il TAEG è un tasso puramente virtuale poiché non viene utilizzato per calcolare i ratei di restituzione della somma, ma costituisce un mero indicatore ossia una cifra rappresentativa del costo globale del prestito, utile a fini comparatistici. Il tasso nominale, al contrario, esprime il costo annuo del finanziamento, ma non tiene conto di due elementi: il tempo della scadenza degli interessi (la c.d. tipologia del rimborso) e le spese dell’operazione.
Il TAEG ha il pregio di esprimere in forma elementare il costo finanziario dell’acquisto e si rileva indicato per venir incontro all’esigenza di comprensione del cliente sprovvisto di competenze tecniche per il discernimento tra più offerte di credito.
2. Il contenuto minimo del contratto
Sul versante della predisposizione del contenuto minimo del contratto come presidio contro formulazioni oscure e reticenti del regolamento contrattuale, l’art.124 TUB impone la forma scritta ad substantiam e l’obbligo di consegnare un esemplare del contratto al cliente. Per la violazione del requisito di forma è prescritta la nullità relativa di protezione; di contro, per la violazione dell’obbligo di consegna non è previsto alcun rimedio. Tale omissione ha dato luogo alle ricostruzioni più varie: dall’inopponibilità delle condizioni sfavorevoli al consumatore e sostituzione automatica di clausole ex art.1339 x.x. xx xxxxxxxxxxxx xxx xxxxx xx xxxx xx finanziatore.
Al secondo comma è delineato il contenuto minimo inderogabile, esso comprende oltre alle informazione relative al TAEG, anche indicazioni circa l’ammontare e le modalità di finanziamento, il numero, gli importi e le scadenze delle singole rate; eventuali garanzie richieste. Se il contratto di credito al consumo ha ad oggetto l’acquisto di beni e servizi determinati, sono richiesti: la descrizione analitica dei beni e dei servizi, l’indicazione del prezzo di acquisto in contanti, del prezzo stabilito dal contratto e dell’ammontare dell’eventuale acconto, la specificazione delle condizioni per il trasferimento di proprietà, nei casi in cui il passaggio della proprietà non sia immediato. L’art.124 TUB è mal formulato sul piano rimediale: mentre il co.2 tace le conseguenze da riconnettere all’inosservanza dei vincoli di contenuto in esso previsti, il co.3 specifica che l’assenza delle indicazioni ulteriori prescritte in caso di credito per l’acquisto di beni o servizi determinati produca la nullità relativa del contratto. Da un’interpretazione complessiva della norma possiamo dedurre che la nullità colpisce il contratto quale che sia la parte del contenuto inderogabile non rispettata, perché sarebbe irragionevole ritenere che la violazione del contenuto eventuale venga sanzionata più severamente dell’inosservanza delle disposizioni generali di contenuto. La mancanza di un apposito rimedio al co. 2 si può giustificare forse con il ricorso alla sostituzione automatica di clausole prevista dal co.5 con riguardo alle indicazione del co.2: il mancato inserimento del contratto determina allora nullità soltanto parziale ex art. 1419, co.2, c.c. ulteriore previsione di nullità parziale riguarda le clausole di rinvio agli usi per la determinazione delle condizioni economiche al prestito, sicché si considerano non dovute le somme
richieste e addebitate al consumatore senza un’espressa previsione contrattuale (legato al principio di non determinazione per relationem del contenuto del contratto).
3. Il collegamento negoziale e il recesso
Sul versante del diritto di recesso. L’art.125 co.2 TUB attribuisce al solo consumatore la duplice facoltà di adempiere anticipatamente e recedere dal contratto ed in entrambi i casi senza alcuna penalità. La prima regola mira a porre un argine ala prassi dell’imposizione di penali spesso assai gravose per l’ipotesi di restituzione anticipata ed in un’unica soluzione della somma, al fine di ristorare il finanziatore dalla perdita degli interessi sulle ulteriori rate non scadute.
Facoltà del consumatore di opporre, in caso di cessione di crediti nascenti dal contratto di finanziamento, al cessionario del credito (ma non del contratto)” tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente compresa l’eccezione di compensazione anche in deroga dell’art.1248 c.c.” (art. 125 co.3 TUB). La ratio è di evitare che la cessione dei crediti peggiori la posizione contrattuale del debitore- ceduto, scongiurando il rischio di atti di disposizione dei crediti di natura fraudolenta, finalizzati alla limitazione delle difese del consumatore. La disposizione in esame riconosce, dunque, il collegamento negoziale.
La disposizione più improntata alla logica del collegamento negoziale è l’art.125, poi confluita nell’art.42 cod. cons., che sancisce che “Nei casi di inadempimento del fornitore di beni e servizi, il consumatore che abbia effettuato inutilmente la costituzione in mora ha diritto di agire contro il finanziatore nei limiti del credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisce al finanziatore l'esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore. La responsabilità si estende anche al terzo, al quale il finanziatore abbia ceduto i diritti derivanti dal contratto di concessione del credito”.
È esclusa la risoluzione del contratto a fronte dell’inadempimento di una sola rata purché non superi l’ottava parte dell’intera somma, con conservazione del beneficio del termine per le rate successive (art. 125 co.1).
L’estensione dell’art. 1525 x.x. xx xxxxxxxxx xx xxxxxxx xx xxxxxxx xxxxxx xx xxxxxxxx xxxxx sul bene acquistato a favore del finanziatore viene ricondotta anche alla figura del collegamento negoziale. La rilevanza di detto collegamento risiede nella circostanza che l’art.125, co.1, considera il contratto di credito al consumo non come un negozio con esclusiva causa di finanziamento, ma come un accordo volto a realizzare una causa più ampia di scambio proprio in virtù della connessione funzionale con il contratto di compravendita del bene acquistato con la somma presa a mutuo. In realtà l’estensione della disciplina di cui all’art.1525 non è giustificato dalla sussistenza di un collegamento negoziale, dal momento che di quest’ultimo si potrebbe parlare se la norma l’esclusione della facoltà di risolvere il contratto di credito a fronte di un collegamento non significativo valesse anche nell’ipotesi di inadempimento del contratto collegato di compravendita e sancisse la facoltà del debitore di risolvere il contratto di credito al consumo a seguito di inadempimento del venditore o di violazione del contratto di compravendita, come nell’ipotesi di bene affetto da difformità o di proprietà altrui. In realtà l’art.125 considera la figura di interdipendenza contrattuale. L’estensione dunque è dovuta al fatto che la scissione del contratto di vendita con dilazione di pagamento in due contratti distinti (vendita e mutuo) rischia di frapporre uno schema negoziale
rappresentato dal contratto di credito al consumo, grazie al quale è possibile trasformare la vendita con patto di riservato dominio in una compravendita semplice e aggirare la prescritta soglia minima dell’inadempimento di importo superiore all’ottava parte del prezzo al fine dell’attivazione del rimedio della risoluzione.
Il TUB non provvede a regolare gli effetti della risoluzione del contratto di credito al consumo per inadempimento del mutuatario. La prassi negoziale ha elaborato clausole contrattuali inique, che prevedono anche l’azione esecutiva sul bene. La lacuna si potrebbe correggere ricorrendo all’applicazione dell’art.1526 c.c., che sancisce l’obbligo del finanziatore di restituire le rate riscosse verso un “equo compenso per l’uso della cosa” e salvo diritto al risarcimento danno, nonché l’obbligo del debitore di restituire l’intera somma presa a mutuo.
Nei casi di inadempimento del fornitore, il consumatore che abbia preventivamente effettuato la costituzione in mora può agire contro il finanziatore nei limiti del credito concesso, a condizione che vi sia un accordo che attribuisca al finanziatore l’esclusiva per la concessione di credito ai clienti del fornitore (art.125).
IL CONTRATTO DI PACCHETTO TURISTICO
La nozione.
Inizialmente, in assenza di una specifica disciplina normativa dei “viaggi organizzati” (che impongono agli operatori del settore di non limitarsi a svolgere il ruolo di semplici intermediari per il trasporto ed il soggiorno del cliente, ma di organizzare anche una serie di servizi complementari che vengono venduti contestualmente in un unico “pacchetto”), una parte della dottrina e della giurisprudenza considerarono il contratto di viaggio come appalto di servizi, altra parte invece come mandato, altra ancora alla promessa del fatto del terzo (quest’ultima era forse la tesi più rispondente alla realtà).
Nel 1970, la materia trovò regolamentazione nella convenzione internazionale di Bruxelles (CCV), che pose fine alle incertezze circa la natura del contratto, ma ebbe scarsa incisività pratica dal momento che fu ratifica soltanto dal Belgio e dall’Italia (che tra l’altro si è giovata di una riserva limitandone l’applicazione ai contratti di viaggio internazionali, eseguiti totalmente o parzialmente in uno Stato diverso dallo Stato dove il contratto è stato stipulato o da dove il viaggiatore è partito).Tale convenzione continua a trovare applicazione in concorso con le altre.
A livello europeo, un ventennio dopo è stata emanata la direttiva 90/314, che si applica a viaggi, vacanze e circuiti turistici <<tutto compreso>> (cioè la combinazione, venduta o offerta ad un prezzo forfettario, laddove superi le 24 ore e comprenda una notte, di almeno due elementi tra: trasporto, alloggio, altri servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio che costituiscono una parte significativa del tutto compreso) venduti o offerti in vendita nel territorio della comunità. Scompare la distinzione operata dalla CCV tra contratto di organizzazione e contratto di intermediazione di viaggio. Il termine fissato per l’attuazione della dir. 90/314 era il 31 dicembre 1992, ma tale termine è stato disatteso da molti Paesi membri in ragione della necessità di coordinare il testo comunitario con la normativa previgente e nell’esigenza di compiere alcune scelte su punti che il legislatore comunitario aveva preferito lasciare alla discrezionalità dei legislatori nazionali. L’ampia discrezionalità ha prodotto numerose disarmonie tra i diversi ordinamenti.
L’attuazione della direttiva in Italia.
L’Italia, come moltissimi altri Paesi, ha disatteso il termine previsto per l’attuazione della direttiva, provvedendo con decreto legislativo soltanto nel 1995 e ora tale disciplina è confluita agli artt. 82 ss. del codice del consumo.
Il codice disciplina la vendita o l’offerta di pacchetti turistici nel territorio nazionale (ambito oggettivo) dall’organizzatore e il venditore di pacchetti turistici al consumatore (ambito soggettivo). La norma si limita a definire l’organizzatore e il venditore come quei soggetti che predispongono o vendono pacchetti turistici, senza prevedere il possesso dell’autorizzazione governativa; il consumatore è così maggiormente garantito, mentre in precedenza risultava sprovvisto di tutela nel caso in cui si rivolgesse a tour operator non autorizzati.
E’ prevista la forma scritta in termini chiari e precisi, una copia della quale, sottoscritta o timbrata dall’operatore, deve essere rilasciata al consumatore; viene individuato il contenuto minimo, i doveri di informazione circa le modalità di svolgimento del viaggio, la ricettività delle strutture e i diritti che spettano al viaggiatore.
L’art. 86, lett. d) attribuisce alla somma versata all’atto della prenotazione la qualifica di “caparra”; il contratto si considera concluso nel momento della prenotazione mediante la
consegna della caparra. La norma desta perplessità in quanto prevede che “gli effetti di cui all’art. 1385 c.c. non si producono qualora il recesso dipenda da fatto sopraggiunto non imputabile, ovvero sia giustificato dal grave inadempimento della controparte”; detta caparra è, infatti, da qualificarsi più correttamente come caparra penitenziale e non confirmatoria, in quanto non legata al profilo dell’inadempimento ma a quello del recesso: la caparra costituisce il corrispettivo del diritto di recesso liberamente esercitabile dal consumatore, salvo le ipotesi di recesso giustificato che impongono al tour operator a restituire la caparra (l’onerosità del recesso vien meno quando il consumatore se ne avvalga a causa di una variazione contrattuale sgradita oppure a causa di un fatto sopravvenuto a lui non imputabile o di un inadempimento grave dell’organizzatore e/o del venditore). Analoga ratio ha giustificato la possibilità che il contratto preveda in caso di recesso il pagamento da parte del consumatore di una multa penitenziale, cioè una somma proporzionalmente crescente all’approssimarsi del viaggio.
L’organizzatore o il venditore hanno il potere di modificare successivamente le condizioni del contratto: nel caso in cui ciò avvenga prima della partenza, tali variazioni devono avvenire per iscritto, specificando le differenze di prezzo, garantendo al consumatore la possibilità di recedere senza il pagamento di penale (è da considerarsi “significativo” anche quella variazione che non comporti variazione i prezzo); nel caso in cui durante il viaggio una parte essenziale dei servizi non possa essere effettuata l’organizzatore deve predisporre adeguate soluzioni alternative se non comportino oneri per i consumatori ovvero deve rimborsare il consumatore nei limiti della differenza tra le prestazioni originarie e quelle effettuate, salvo il risarcimento danni e qualora le modifiche siano tali da impedire la prosecuzione del viaggio il consumatore non le accetti per un giustificato motivo, l’organizzatore è tenuto a fornirgli un mezzo di trasporto per il ritorno al luogo di partenza o altro luogo convenuto e restituire la differenza tra le prestazioni previste e quelle effettuate fino al rientro anticipato (art 91).
Il consumatore che recede dal contratto o che lo veda cancellato prima della partenza ha diritto di usufruire di un altro pacchetto turistico di qualità equivalente o superiore senza supplemento di prezzo (se di qualità inferiore avrà diritto anche alla differenza del prezzo) o gli è rimborsata entro sette giorni lavorativi dal momento del recesso o della cancellazione la somma di denaro già corrisposta (art 92). Gli artt. 93 ss. contengono la disciplina della responsabilità da inadempimento dell’organizzatore e del venditore, i quali rispondono altresì dei danni cagionati alla persona (art.94) e di quelli causati dagli altri eventuali prestatori di servizi di cui si sono avvalsi, salvo il diritto di rivalsa (art.93, co.2). Il tour operator può sottrarsi alla responsabilità qualora provi che l’inadempimento è dipeso da impossibilità dovuta a causa a lui non imputabile, come ad es. lo sciopero dei servizi di trasporto.
L’art 98 co. 1 prevede che ogni mancanza nell'esecuzione del contratto deve essere contestata dal consumatore senza ritardo affinché l'organizzatore, il suo rappresentante locale o l'accompagnatore vi pongano tempestivamente rimedio. Al secondo comma è prevista la possibilità che entro dieci giorni lavorativi dalla data del rientro il consumatore sporga reclamo tramite raccomandata all’organizzatore o al venditore; non si capisce a cosa il reclamo possa servire. Inoltre è previsto l’obbligo per l’organizzatore e il venditore di stipulare un’assicurazione per la responsabilità civile verso il consumatore. In caso di insolvenza o fallimento dell’organizzatore o del venditore al fine di garantire comunque il rimborso del prezzo versato nonché il rimpatrio del consumatore nel caso di viaggi all’estero, è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un fondo nazionale di garanzia (art.100).
L’inadempimento e l’adempimento sanante
La disciplina codicistica del pacchetto turistico è molto attenta alla fase dell’esecuzione del contratto; gli stessi obblighi informativi, non riguardano solo la fase precontrattuale e quella della conclusione del contratto, ma attengono anche al profilo dell’esecuzione diventando uno dei presupposti per la configurazione della responsabilità contrattuale del venditore o dell’organizzatore. La disciplina in esame va accomunata a quella della vendita dei beni di consumo, per quanto le tecniche rimediali predisposte siano diverse: nella vendita dei beni di consumo, la garanzia in forma specifica e nel pacchetto turistico il c.d. adempimento sanante e il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale.
Gli articoli 91 e 92, anche se non inseriti tra le disposizioni sul mancato od inesatto adempimento, prevedono una prima forma di reazione all’inadempimento del contratto che si ispira al principio della tutela in natura delle posizioni contrattuali. L’art 91 prevedendo “soluzioni alternative per la prosecuzione del viaggio” allude a una sorta di
c.d. adempimento sanante, ossia alla possibilità concessa all’organizzatore di eliminare gli effetti dell’inadempimento rilevante del contratto di pacchetto turistico tramite prestazioni differenti poste in essere con condotte successive ma pienamente idonee a soddisfare l’interesse iniziale del consumatore.
Anche l’art.92 contempla un’ipotesi di adempimento sanante: non vi è dubbio che la cancellazione del pacchetto turistico costituisca un’ipotesi di inadempimento, altrettanto non si può dire delle condizioni di attivazione del recesso, dove manca l’inadempimento. In quest’ultimo caso piuttosto si può parlare di una garanzia in forma specifica volta a realizzare l’interesse del consumatore, pur in assenza di vero e proprio inadempimento o violazione del contratto e a prescindere dal titolo su cui si fonda la pretesa del soddisfacimento dell’interesse, dal momento che essendoci stata risoluzione il titolo, e cioè il contratto, è sciolto. Detto inquadramento è altresì confermato dall’ulteriore previsione dell’art.92, co. 1, che, in alternativa attribuisce al consumatore il diritto alla restituzione della somma già corrisposta, anch’esso riconducibile alla categoria della garanzia, nella sua conformazione tradizionale di strumento di riequilibrio economico dell’affare.
È rigettata la ricostruzione della norma come ipotesi di risarcimento in forma specifica perché il diritto di usufruire altro pacchetto non si fonda necessariamente sull’inadempimento dell’organizzatore o venditore (presupposto essenziale invece per la responsabilità contrattuale di cui il risarcimento costituisce l’effetto indefettibile) e in secondo luogo, perché il rimedio risarcitorio assolve la funzione di riparare una perdita tramite la rimozione delle conseguenze e non si può piegare alla realizzazione della diversa funzione di attuare l’interesse creditorio rimasto insoddisfatto, funzione quest’ultimo propria ella messa a disposizione di un pacchetto turistico sostitutivo.
Il rimedio dell’adempimento sanante presenta una portata più ampia di quella che emerge dalle ipotesi sinora esaminate ed, infatti, l’art 96, co.2 e 98, co.1 si ispirano al principio della correzione della prestazione e lo enunciano tramite un’accezione atecnica del termine “rimedio”, con cui il legislatore on allude a uno specifico mezzo di protezione, ma di tale idea si limita a cogliere il tratto categoriale di strumento di reazione ad un bisogno di tutela.
Secondo l’art 96, co. 2 “l'organizzatore o il venditore apprestano con sollecitudine ogni rimedio utile al soccorso del consumatore al fine di consentirgli la prosecuzione del viaggio ( in caso di inadempimento o inesatto adempimento), salvo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno nel caso in cui l'inesatto adempimento del contratto sia a questo ultimo imputabile”. Non è richiesto l’accertamento dello stato soggettivo del venditore o