MINISTERO
MINISTERO
DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI
PARTE 1
BIOMASSE ED ENERGIA
CAPITOLO 5
PROCESSI E TECNOLOGIE
Il presente Studio, redatto nell’ambito del Progetto Biomasse Enama e finanziato dal Mipaaf, è stato coordinato dalla Commissione tecnica biomasse Enama costituita da:
Assocap - Xxxxx Xxxxxxx Cia - Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxxx - Xxxx X’Xxxxx
Confagricoltura - Xxxxxx Xxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxxx
Cra-Ing - Xxxxx Xxxx
Enama - Xxxxxx Xxxxxxxxxx e Xxxxxxx X’Xxxxxx Xxxxxx - Xxxxxx Xxxx e Xxxxx Xxxxxxx Unacoma - Xxxxx Xxxxxx e Xxxxxx Xxxxx Unima - Xxxxxxx Xxxxxxxx
Hanno collaborato alla realizzazione:
Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxx Xxxxxxxxxx Xxx Xxxxx Xxxxxxxxxxx Xxxx Xxxxx Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxxxxxx Xxxxx Xxxxx
Xxxx Xxxxxxxxxx Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxxxx
Xxxxx Xxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx
Presentazione
Il presente lavoro rientra tra le attività di divulgazione previste dal Progetto Biomasse Enama rea- lizzato con il contributo del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali D.M. n°11077 del 19 Di- cembre 2008.
Lo scopo è quello di presentare un inquadramento generale sullo stato dell’arte di quanto è stato fi- nora realizzato nell’ambito delle diverse filiere agro-energetiche nazionali,fornendo agli operatori del settore strumenti ed informazioni necessari all’auspicato sviluppo di tali filiere.
L’opera è stata resa possibile grazie al contributo ed alla condivisione dei contenuti da parte di tutti i Soci di Enama in rappresentanza dell’intera filiera,a partire dal mondo della ricerca, dell’industria e del commercio fino alle aziende attive sul territorio.
Esperti dei diversi settori hanno, quindi, fattivamente partecipato alla raccolta ed alla elaborazio- ne dei dati nell’ambito della “Commissione Biomasse Enama” appositamente costituita.
Lo studio, che si presenta come un rapporto esaustivo e ben articolato, si sviluppa in due parti: la prima, definita “Biomasse ed Energia”, riporta le caratteristiche tecniche e le disponibilità delle biomasse e dei biocombustibili, il censimento degli impianti presenti sul territorio nazionale, il qua- dro normativo ed una panoramica sui processi e le tecnologie attualmente disponibili.
La seconda parte, definita “Filiera e sostenibilità”, contiene le informazioni sui contratti agroe- nergetici per la filiera corta, oltre agli accordi quadro e le intese per le filiere agroindustriali. Com- pleta lo studio un capitolo sulla sostenibilità, la tracciabilità e le certificazioni degli impianti a biomasse.
La presente prima versione dello studio contiene dati ed informazioni che si riferiscono al giugno del 2011 e pertanto alcuni aspetti (normativo e censimento) in continua evoluzione saranno og- getto di aggiornamenti che verranno riportati in successive versioni.
Xxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx
Direttore ENAMA Presidente ENAMA
Sommario
5.1 Impianti per la produzione di energia termica alimentati a biomasse legnose 3
5.1.1 Caldaie a legna a tiraggio forzato per aspirazione 7
5.1.2 Caldaie a cippato 9
5.1.3 Caldaie a pellet 14
5.2 Impianti per la cogenerazione termo-elettrica alimentati da biomasse ligno-cellulosiche 16
5.2.1 Impianti di cogenerazione a ciclo ORC 17
5.2.2 La tecnologia Stirling 19
5.2.3 Cogenerazione con turbine a vapore 25
5.2.4 Generatori con turbine ad aria calda 29
5.2.5 Gassificatori 33
5.3 Impianti per la produzione di biogas, tecnologie della digestione anaerobica 43
5.3.1 Il biogas in Italia 43
5.3.2 La digestione anaerobica 44
5.3.3 Le biomasse per la produzione di biogas 46
5.3.4 L’impiego del biogas 48
5.3.5 Tecnologie per la produzione di energia da biogas 49
5.3.6 Il digestato 54
5.3.7 Tecnologie per il trattamento del digestato 55
5.3.8 Aspetti normativi 59
5.4 Cogeneratori alimentati a biogas 62
5.4.1 Cogeneratori 62
5.4.2 Sistemi di trattamento per il biogas 62
5.4.3 Sistemi di controllo ed automazione 63
5.5 Filiera dell’olio vegetale puro 64
5.5.1 Sistemi di estrazione dell’olio 65
5.5.2 Sistemi di filtraggio dell’olio 70
5.5.3 Cogeneratori a olio vegetale 73
5.5.4 Motori agricoli a olio vegetale 78
5.5.5 Considerazioni 84
5.6 Tecnologie per la trigenerazione 86
5.6.1 Sistemi ad assorbimento 87
5.7 Sistemi per la produzione di vettori energetici 93
Riferimenti bibliografici 97
5.1 Impianti per la produzione di energia termica alimentati a biomasse legnose
La combustione del legno
La combustione del legno avviene essenzialmente in tre stadi, in funzione della temperatura del processo:
- Essiccazione
- Degradazione
- Combustione
Essiccazione
L’acqua contenuta nel legno inizia a evaporare già a temperature inferiori ai 100 °C. Essendo l’evaporazione un processo che usa l’energia rilasciata dal processo di combustione, abbassa la temperatura in camera di combustione, rallentando il processo. Nelle caldaie a pezzi di legna, ad esempio, è stato rilevato che il processo di combustione non può essere mantenuto se il legno ha un contenuto idrico (M) superiore al 60%. Infatti, il legno “fresco” richiede un tale quantitativo di energia per far evaporare l’acqua in esso contenuta che porta la temperatura della camera di combustione al di sotto del livello minimo richiesto per sostenere la combu- stione. Perciò, il contenuto idrico del legno è uno dei parametri qualitativi più importanti dei combustibili legnosi. Pertanto la conoscenza del contenuto idrico del legno combustibile in ingresso al focolare è fondamentale per una corretta regolazione dei sistemi di aria forzata che agiscono nella camera di combustione e per una corretta progettazione dei volumi e della geometria della caldaia che assicuri un sufficiente periodo di permanenza dei gas nella calda camera di combustione per una loro completa combustione.
Degradazione termica (pirolisi/gassificazione)
Dopo il processo di essiccazione, a partire da una temperatura di 200 °C circa, il legno è sot- toposto ad una fase di degradazione termica che porta all’evaporazione della componente volatile, la quale rappresenta - in termini ponderali - oltre il 75% del legno, pertanto si può affermare che la combustione dei gas che lo compongono costituiscono la parte prevalente dell’energia liberata.
Combustione
Consiste nella completa ossidazione dei gas, una fase che inizia tra i 500 e i 600°C e si protrae fino ai 1000°C circa. Nel range 800-900°C il carbone solido è combusto e con lui anche il ca- trame.
La regola delle “3T”
La qualità della combustione è legata a tre fattori fondamentali: Tempo, Temperatura e Tur- bolenza.
La mancanza di adeguate condizioni causa la combustione incompleta del legno e quindi aumentano le emissioni nocive. La combustione incompleta è causata principalmente dalle seguenti condizioni negative:
- inadeguata mescolanza tra aria e combustibile nella camera di combustione;
- una carenza complessiva di ossigeno disponibile;
- temperatura di combustione troppo bassa;
- tempi di permanenza troppo corti.
I tre parametri sono strettamente correlati tra loro. È importante assicurare un adeguato tem-
po di permanenza del combustibile sul focolare, dei fumi caldi nella seconda zona di combu- stione e negli scambiatori. La temperatura deve raggiungere livelli sufficientemente elevati per consentire di completare le varie fasi della combustione specie quella di ossidazione dei gas. Infine è fondamentale un sufficiente apporto d’aria nelle varie zone e fasi della combu- stione attraverso gli apporti di aria primaria, secondaria ed eventualmente terziaria.
La combustione completa è, specie nei combustibili solidi quale è il legno, solo un concetto teo- rico in quanto è problematico raggiungere un corretto e costante grado di mescolanza tra aria e combustibile in un periodo di tempo così limitato. La combustione incompleta da luogo ad un’incompleta combustione dei gas e come conseguenza un aumento di incombusti sia organici che inorganici, questo si traduce in un aumento del contenuto di CO e polveri nei fumi esausti.
Evoluzione tecnologica degli apparecchi ed emissioni
Negli ultimi tre decenni vi è stato un graduale aumento dell’efficienza riscontrata nelle caldaie a legno che ha portato a una sostanziale riduzione dell’emissione di CO e delle altre emissioni nocive quali polveri, composti organici volatili, ossidi di azoto e di zolfo (fig. 5.1).
rendimento
Fig. 5.1. Livello di rendimento (%) di conversione energetica delle caldaie (BLT Wiesel- burg Austria)
anno
20000
18000
16000
mg/Nm³
Monossido di carbonio
(13 % O2)
14000
12000
10000
8000
6000
4000
2000
0
1980 1985 1990 1995 2000
anno
I grafici testimoniano un diffuso miglioramento delle tecniche costruttive delle caldaie, con ren- dimenti medi che si attestano, nel 2004, sopra l’85% e livelli di CO spesso sotto i 50 mg/Nm3.
Oltre al CO, esistono una serie di altri parametri che caratterizzano i fumi esausti e che possono essere usati come parametri-controllo della qualità del processo di combustione:
• la percentuale di O2, dovrebbe essere nel range 5-8%;
• la quantità di CO2 dovrebbe essere quanto più prossima al valore teorico che per il legno è 20,4%. Esiste tuttavia una forte correlazione tra O2 e CO2, a valori di O2 del 5-8% corri- spondono valori di CO2 del 13-16%;
• la quantità di NOX è legata principalmente alla temperatura che forma i così detti NOX termici, perciò la temperatura dovrebbe essere nel range 850-1200 °C;
• un parametro importante è anche la temperatura dei fumi che dovrebbe mantenersi sotto i 150-170 °C.
Naturalmente la combustione è influenzata fortemente dalla qualità del combustibile, in fun- zione della tipologia di caldaia. In linea generale, tanto maggiore è l’uniformità della pezzatura e del contenuto idrico nel combustibile legnoso e tanto migliore sarà la combustione.
Recentemente sono stati elaborati statisticamente i dati rilevati nel corso di 169 prove di com- bustione effettuate presso il BLT nel periodo 1999-2004. I risultati, riportati in tabella 5.1, indi- xxxx quindi l’attuale livello del fattore di emissione delle moderne caldaie a legna, cippato e pellet (Voglauer, 2005).
Tab. 5.1. Dati rilevati nel corso delle prove di combustione effettuate presso il BLT
NOX Kg/TJ | COV Kg/TJ | CO Kg/TJ | Polveri Kg/TJ | |
Caldaia a pezzi di legna | 85 | 3 | 65 | 14 |
Caldaia a cippato | 101 | < 1 | 18 | 18 |
Caldaia a pellet | 81 | < 1 | 31 | 11 |
Rispetto ai valori rilevabili 10 anni fa risulta evidente il notevole miglioramento delle per- formance di combustione degli apparecchi. Ponendo pari a 100 il fattore di emissione delle polveri dei vecchi apparecchi, la riduzione ottenuta varia dall’85% (nuove caldaie a cippato) all’98%, nel caso delle recentissime caldaie a pellet a condensazione (Fig. 5.2; Xxxxxx, 2006).
Fig. 5.2. Miglioramento delle performance nella combustione degli apparecchi a legna
2
-98%
8
-92%
9
-91%
15
-85%
100
nuove caldaie a pellet a condensazione
nuove caldaie a pezzi di legna
nuove caldaie a pellet nuove caldaie a
cippato
vecchie caldaie a pezzi di legna
0
20 40
60 80
100
Sovente si sente parlare anche di altri processi chimico-fisici che interessano le biomasse le- gnose. Tuttavia, essi hanno caratteristiche e campi d’applicazione ben differenti e alcuni sono
ancora allo stato di studio e sviluppo. Di seguito vengono brevemente descritte le principali caratteristiche di questi processi.
Altro aspetto da non trascurare è la taglia minima che devono avere gli impianti che adottano tali processi e quindi la possibilità di reperire in loco materiale che abbia le caratteristiche richieste.
Pirolisi: è da intendersi il processo di degradazione termica in assenza di agenti ossidanti esterni. Il processo produce principalmente - catrame (o bitume) e - carbone molto ricco di carbonio nonché una miscela di gas a basso peso molecolare. Il processo conduce anche alla formazione di CO e CO2 specialmente se sono utilizzati combustibili ricchi di ossigeno quali sono le biomasse vegetali.
Gassificazione: è da intendersi la degradazione termica in presenza di un agente ossidante esterno che possono essere aria, ossigeno, vapore e anche CO2; essa avviene a temperature comprese tra 800 e 1100 °C.
I gas prodotti contengono tipicamente CO, CO2, H2O, H2 e CH4 ad altri idrocarburi.
La gassificazione del legno che impiega aria quale agente ossidante produce gas a basso con- tenuto energetico (1-2 kWh/Nm3); se si usa ossigeno quale agente ossidante si ottiene un gas con potere calorifico maggiore (2,7-5 kWh/Nm3).
Il gas prima di essere impiegato in un motore a combustione interna e/o in una turbina per la generazione elettrica, deve essere purificato da agenti quali polveri e/o particelle di carbone, ceneri etc.
Mentre la pirolisi è tipicamente ottimizzata per massimizzare la produzione di carbone, la gas- sificazione è pensata per produrre la maggior quantità di gas combustibili.
Liquefazione: è un processo di conversione termochimica di un solido verso la fase liquida che avviene a basse temperature (250-350°C) e ad altra pressione (100-200 bar); tipicamente si usano miscele ad alto contenuto di idrogeno in pressione parziale e un catalizzatore che facilità e accelera il processo di trasformazione e per aumentare la selettività del processo.
I generatori di calore
Le principali caratteristiche qualitative richieste dalle caldaie sono la pezzatura, il contenuto idrico e di ceneri. La tabella 5.2 fornisce un quadro indicativo delle caratteristiche richieste dai generatori termici a legna e cippato.
Tab. 5.2. Requisiti qualitativi delle caldaie
Tipi di caldaia | Classe di potenza | Griglia | Sistema di alimentazione | Pezzatura (P) | Contenuto idrico (M) | Ceneri (A) |
Manuale a legna | < 100 | Fissa | Manuale | P330-1000 | M20 | - |
< 150 | Fissa | Coclea | P16-P45 | M20-M30 | A1,5 | |
Automatica a cippato | (30)150-1.000 | Fissa/ semimobile | Coclea | P16-P45 | M20-M40 | A1,5-3,0 |
> 1.000 | Mobile | Spintore | P16-100 | M30-M55 | A3,0-10,0 |
Nelle caldaie a legna a caricamento manuale, la pezzatura richiesta dipende dalla dimensione della bocca di carico; in alcuni modelli, con potenza 100 kW e apertura superiore della bocca, possono essere impiegati pezzi fino a 1 m di lunghezza. Nelle caldaie a legna è richiesto l’im- piego della classe M20.
Le caldaie a cippato a griglia fissa richiedono materiale molto omogeneo (P16 e P45), sia per
la ridotta dimensione della griglia sia perché pezzi fuori misura possono essere causa di bloc- chi alle coclee di trasporto e di caricamento. Diversamente, i generatori di maggiore potenza, dove si possono montare sistemi a spintore, sono molto più flessibili. Il contenuto idrico del cippato nelle caldaie a griglia fissa non deve superare il 30% (M30), mentre nelle caldaie con focolare in movimento può essere impiegato cippato più umido.
Le caldaie possono essere suddivise nelle seguenti categorie, in funzione del tipo di combu- stibile legnoso impiegato, della potenza del generatore, del tipo di sistema di caricamento del focolare:
• caldaie a pezzi di legna di piccola taglia a caricamento manuale;
• caldaie a cippato;
• caldaie a cippato di piccola e media taglia a griglia fissa con caricamento automatico a coclea;
• caldaie di media e grande taglia a griglia mobile con caricamento automatico a coclea o spintore;
• caldaie a pellet di piccola taglia a caricamento automatico.
5.1.1 Caldaie a legna a tiraggio forzato per aspirazione
Il funzionamento delle caldaie a legna si basa quasi unicamente sul principio dei focolari a fiamma inferiore o rovesciata. Sopra il letto di braci si trova il vano di carico della legna a pezzi che nel corso della combustione scivola verso il basso alimentando il letto di braci. In una cal- daia a legna la combustione della carica impiega circa 5 ore. Il focolare inferiore consente una decomposizione pirolitica e una gassificazione del combustibile relativamente continue.
Le caldaie di piccole dimensioni sono alimentate attraverso una porta frontale oppure uno sportello superiore. Le caldaie a legna trovano impiego principalmente in edifici che richiedo- no una potenza termica fino a ca. 50-60 kW. Recentemente, in seguito alla presenza sempre più diffusa di edifici a basso consumo energetico, sono disponibili sul mercato caldaie con potenze inferiori a 10 kW.
Negli ambiti industriali trovano impiego caldaie a legna di maggiori dimensioni (fino a circa 250 kW), che sono alimentate tipicamente con gli scarti legnosi dei processi di lavorazione. In questo caso il vano di carico è riempito oltre che con pezzi di legna anche con scarti legnosi sfusi (trucioli, cippato grossolano, ecc.).
La combustione
Nel processo di combustione i gas sono richiamati dalla depressione forzata creata da un ven- tilatore posto nella seconda camera di combustione rivestita in refrattario. La resistenza del flusso dei gas è piuttosto elevata perciò è necessaria la presenza di un ventilatore a tiraggio indotto a regolazione elettronica. Il ventilatore consente di modulare l’apporto d’aria primaria (generalmente pre-riscaldata) e secondaria nelle camere di combustione.
Nel primo settore della canna fumaria è presente solitamente la sonda Lambda che misura in continuo la concentrazione di O2 nei fumi esausti, regolando di conseguenza i giri del ventila- tore e, nelle caldaie automatiche, la velocità di caricamento del combustibile. La sonda Lamb- da è particolarmente utile perché il combustibile impiegato è comunemente caratterizzato da un’ampia variabilità di contenuto idrico ed energetico. Essa consente di mantenere nel tempo un elevato livello di rendimento del processo di combustione e di minimizzare le emissioni nocive. Solitamente l’accensione delle caldaie a pezzi di legna è manuale, tuttavia nei modelli più recenti è stata inserito anche il sistema di accensione automatica.
Fig. 5.3. Caldaia a legna con focolare a fiamma rovesciata
Caldaie a combustione inversa a tiraggio forzato per aspirazione: 1. aria primaria pre-riscaldata;
2. aria secondaria; 3. turbo-camera di combustione; 4. turbolatori verticali; 5. sonda Lambda;
6. ventilatore a tiraggio forzato e regolazione elettronica; 7. pannello elettronico di comando.
Le caldaie a legna solitamente montano scambiatori di calore verticali a tubi di fumo attraver- so i quali sono convogliati i gas caldi che scambiano il calore con il vettore termico posto al loro interno, ovvero l’acqua. Alcuni modelli montano invece degli scambiatori a piastre. Comu- nemente si trovano per lo più scambiatori a 1-2 giri di fumo.
L’accumulo inerziale
Per ottenere un’elevata qualità della combustione, la caldaia a legna a caricamento manuale deve lavorare quanto più possibile al più elevato carico termico. Tuttavia durante la stagione termica la massima potenza è richiesta solo per pochi giorni all’anno. Per tale motivo il calore prodotto da queste caldaie non è quasi mai quello richiesto momentaneamente dall’impianto termico. Per tale motivo risulta fondamentale l’installazione di un accumulo inerziale (puffer), che consente di evitare di disperdere nell’ambiente l’eccesso di energia termica, minimizzan- do la dispersione di energia. Inoltre l’installazione di un idoneo volume di accumulo può ren- dere molto più confortevole la gestione dell’impianto.
I vantaggi dell’accumulo inerziale sono:
• ottimizzare la combustione allungando la vita alla caldaia;
• assorbire i picchi di richiesta termica;
• programmare il riscaldamento degli ambienti per le prime ore del mattino e disporre di maggiori quantità di acqua sanitaria con una sola carica di legna1;
• integrare l’impianto con un sistema solare termico, che consente di tenere spenta la caldaia d’estate.
1 Quando l’accumulo è ben dimensionato d’estate una carica di legna può coprire il fabbisogno di acqua sanitaria di circa 4-5 giorni.
Fig. 5.4. Impianto di riscaldamento con sistema di accumulo
Oltre all’accumulo inerziale, molto importante è la presenza di un dispositivo idraulico anticon- densa (cfr. schema 1, pompa 2) nel circuito di ritorno, prima dell’ingresso dell’acqua in caldaia. Un ritorno di acqua troppo fredda in caldaia (eccessivo ΔT tra mandata e ritorno) può causare uno shock termico e pericolosi fenomeni di condensa che pregiudicano la vita utile del generatore.
Fig. 5.5. Schema d’impianto con quattro circuiti di riscaldamento e l’applicazione di un accumulo inerziale e un boiler separato (Fröling)
1. telecomando; 2. sonda di temperatura esterna; 3. rete elettrica 230 V;
4. sensore temperatura di mandata; 5. circuiti 1/2/3/4; 6. miscelatrici; 7. pompa 2; 8. sonda 1;
9. sonda 2; 10. pompa 1; 11. sonda 3; 12. acqua calda; 13. acqua fredda.
5.1.2 Caldaie a cippato
Le caldaie a cippato possono essere distinte in base al tipo di focolare che le rende idonee all’impiego di combustibili con differenti caratteristiche. I focolari sono distinguibili in sotto- alimentati, a caricamento laterale (con coclea e/o spintore) e con caduta dall’alto. Questi ultimi consentono esclusivamente l’utilizzo di cippato calibrato.
Nell’ambito del mercato degli impianti medio - piccoli a cippato, circa il 70% sono del tipo con
focolare a griglia, il 25% sono sottoalimentati e circa il 10% con alimentazione laterale senza griglia con fondo a spinta. Le caldaie a cippato più comuni sono, quindi, quelle a griglia con alimentazione laterale in cui l’alimentazione del cippato avviene con l’ausilio di una coclea o di uno spintore idraulico, particolarmente raccomandabile nel caso di impiego di cippato molto grossolano. Questa tipologia di caldaie si possono distinguere in:
• le caldaie a griglia fissa
• le caldaie a griglia mobile
Le caldaie a griglia fissa
Si tratta di generatori di piccola e media dimensione con potenza compresa fra 25 kW e 400- 500 kW, impiegati a scala domestica o a servizio di mini reti di teleriscaldamento.
Nel processo di combustione l’aria primaria, che adempie anche alla funzione di raffredda- mento della griglia, riducendo il rischio della formazione di scorie di fusione e di surriscal- damento dei materiali costruttivi, è immessa attraverso i fori della griglia e gli iniettori posti nella parte laterale che delimita il focolare. L’aria secondaria è immessa al di sopra della griglia, ovvero del letto di braci, oppure davanti all’ingresso della seconda camera di combustione. Le ceneri prodotte cadono in un cassetto posto al di sotto della griglia oppure, nel caso di uti- lizzo di cippato con elevato contenuto di ceneri, estratte attraverso una coclea che le trasporta in un contenitore più ampio (fig. 5.6).
Fig. 5.6. Schema di caldaia a cippato (25-55 kW) ad alimentazione laterale
HARGASSNER W 25-55 1. sottoalimentazione a spinta; 2. piastra di concentrazione fiamma;
3. scambiatore; 4. turbolatori; 5. flusso gas caldi; 6. canna fumaria; 7. sonda Lambda2;
8. scambiatore di sicurezza (EN 303-5); 9. motore coclee e sist. pulizia scambiatore;
10. coclea asporto cenere; 11. barra comando sist. pulizia scambiatore; 12. cassetto cenere;
13. aria primaria; 14. aria secondaria pre-riscaldata.
Il deposito del cippato
Nelle caldaie a griglia fissa generalmente il deposito del combustibile è a pianta quadrata. L’estrazione del cippato avviene con sistemi a balestra o a braccio articolato che convogliano
2 Nello specifico la caldaia è dotata di una sonda in grado di riconoscere il potere calorifico del combustibile (cippato di legno duro/tenero, pellet, trucioli) regolando in automatico la velocità di carico delle coclee.
il combustibile nella coclea di trasporto collegata per mezzo di un pozzetto di sicurezza inter- medio alla coclea di caricamento, che porta il cippato al focolare. L’estrattore è composto da un paio di molle a balestra o braccia articolate che si distendono radicalmente durante il lavoro di agitazione dell’estrattore che può essere inclinato oppure piano.
I sistemi di alimentazione delle caldaie automatiche sono dotate di specifici sistemi si sicurez- za che impediscono il ritorno di fiamma. La serranda taglia fuoco, attivata da un regolatore termomeccanico, in caso di superamento di una determinata temperatura, chiude ermetica- mente il pozzetto che separa la coclea di trasporto da quella di carico.
Il deposito del cippato può essere disposto in vari modi rispetto al vano tecnico della caldaia. Le soluzioni più economiche sono quelle nelle quali viene ricavato in una stanza esistente oppure attraverso la costruzione di una struttura esterna in legno, adiacente al vano tecnico su una platea in cemento (fig. 5.7).
Fig. 5.7. Deposito del cippato esterno, con struttura in legno realizzata su platea di cemento
Sono anche disponibili sul mercato dei moduli mobili o dei container, composti sia dal vano tec- nico che dal deposito del cippato. Il modulo, pre-assemblato in azienda e completo di caldaia e accessori idraulici ed elettrici, viene trasportato presso l’utenza e montato in poche ore (fig. 5.8).
Fig. 5.8. Modulo mobile plug&play proposto dall’azienda Ecoenergie Srl
Le caldaie a griglia mobile
Sono generatori caratterizzati da una potenza medio - grande, compresa fra ca. 100 kW ed alcuni MW, impiegati sia nel settore residenziale che in quello industriale.
La griglia è composta da elementi mobili (piatti, scalini) che favoriscono l’avanzamento del cippato lungo un piano inclinato o una griglia rotativa. Il focolare mobile consente l’impiego di cippato umido (M 40-50%) con elevato contenuto di ceneri. Recentemente il mercato propone caldaie a grigia mobile anche di piccola taglia.
Nel caso di griglia mobile a piano inclinato gli scalini si muovono in senso orizzontale avanti-in- dietro, spostando gradualmente in avanti il cippato lungo il piano inclinato. La caldaia è dotata di numerosi e complessi dispositivi che garantiscono un’omogenea distribuzione del cippato e del letto di braci sopra l’intera superficie della griglia. Questo aspetto è particolarmente im- portante per garantire un apporto di aria primaria equamente distribuita sulla superficie della griglia. Diversamente, possono crearsi scorie di fusione, un’elevata presenza di ceneri volatili, e un eccessivo apporto di aria. Il trasporto del cippato sopra la griglia deve essere “tranquillo” e omogeneo, al fine di mantenere il letto di braci calmo e omogeneo evitando così soluzioni di continuità che potrebbero dar vita a zone di materiale incombusto.
Gli stadi della combustione avvengono generalmente in tre sezioni separate della griglia, perciò l’aria primaria (sotto griglia) e la velocità della griglia sono modulanti. La griglia può essere dotata di sistemi di raffreddamento ad acqua per minimizzare i fenomeni di fusione delle ceneri che disturbano il processo di combustione e possono compromettere la vita utile dei materiali costruttivi, in modo particolare del refrattario. Gli stadi della combustione sono ottenuti separando la zona di combustione primaria da quella secondaria per evitare il rime- scolamenti dell’aria secondaria e separare le zone di gassificazione e ossidazione. Tanto più efficace è il mescolamento tra aria secondaria e gas combustibili, tanto più basso sarà l’eccesso d’aria necessario al completamento della combustione rendendo il processo maggiormente efficiente (fig. 5.9).
Fig. 5.9. Caldaia a griglia mobile inclinata (UNICONFORT mod. Biokraft)
1. zona di essiccazione; 2. zona di gassificazione; 3. zona di ossidazione; 4. camera primaria;
5. camera secondaria; 6. scambiatore; 7. bruciatore ausiliario; 8. spintore idraulico;
9. ventilatori aria primaria; 10. ventilatori aria secondaria; 11. ventilatori aria terziaria;
12. coclea estrazione cenere.
Il deposito del cippato
Nelle caldaie a griglia mobile è generalmente a pianta rettangolare con sistema di estrazione a rastrelli. Inoltre, la coclea di caricamento può essere sostituita da uno spintore idraulico, es- senziale nel caso si impieghi materiale triturato molto eterogeneo, con una notevole frazione di pezzi fuori misura.
L’estrazione a rastrelli consente di agire sul totale volume del deposito. L’estrattore è composto da uno o più binari, installati ad una certa distanza l’uno dall’altro, lungo cui scorrono avanti e indietro in senso orizzontale dei rastrelli azionati da pistoni oleodinamici posizionati esterna- mente al deposito. I rastrelli sono cuneiformi e spingono il cippato fino a riversarlo dentro una cunetta posizionata lungo il lato corto del silo, all’interno della quale è posta una coclea o un trasportatore a catena che convoglia il combustibile al focolare (fig. 5.10).
Fig. 5.10. Esempio di layout per una caldaia a griglia mobile di 700 kW (Uniconfort Biotec)
1. silo cippato; 2. sistema di estrazione a rastrelli; 3. motori sistema di estrazione; 4. coclea di trasporto;
5. pozzetto di carico; 6. caldaia; 7. multiciclone; 8. aspiratore fumi; 9. canna fumaria; 10. collettori.
Dimensionamento del silo di stoccaggio
Il dimensionamento del silo deve garantire un periodo di autonomia invernale di almeno 15- 20 giorni. Indicativamente un impianto da 100 kW nel periodo invernale può consumare circa 2 msr/giorno, perciò un silo di 60 m3 consente un’autonomia di un mese.
Il consumo giornaliero di un generatore di calore è facilmente calcolabile sulla base dell’ener- gia erogata (kWh erogati), del potere calorifico inferiore del legno e della sua massa sterica. Tuttavia, nei piccoli impianti, possono essere applicate con un discreto grado di precisione, la seguenti formule speditive:
Potenza caldaia in kW x 2,5 = Consumo di cippato in msr/anno (legno tenero P45, M30) Potenza caldaia in kW x 2,0 = Consumo di cippato in msr/anno (legno duro P45, M30)
Per trasformare i metri steri riversati (msr) in peso (kg) con contenuto idrico M 30% possono essere impiegati i seguenti valori:
• legno tenero (P45, M30): 220 kg/msr
• legno duro (P45, M30): 330 kg/msr
Il volume del silo deve essere calcolato anche in relazione alle capacità dei mezzi di trasporto di cui dispongono i possibili fornitori locali. Indicativamente, il silo deve essere dimensionato in modo tale che, dopo un funzionamento della caldaia a pieno regime per 15, si formi un vuo- to tale da poter essere riempito con un nuovo carico di cippato. Quindi il calcolo deve essere fatto sulla base del volume del mezzo di trasporto con cui verrà consegnato il cippato.
5.1.3 Caldaie a pellet
Le caldaie automatiche a pellet sono caratterizzate da focolari sotto-alimentati e a caricamen- to laterale (con coclea e/o spintore) e da focolari per caduta dall’alto. Un’ulteriore variante è rappresentata dalla griglia rotativa, a ribaltamento e a rullo. Questo tipo di griglia è stata sviluppata per ottenere lo scuotimento del letto di braci e ottenere così la rimozione delle ceneri con un conseguente miglioramento del processo di combustione nella sua fase finale. Tali dispositivi sono particolarmente efficaci quando si impiegano combustibili con elevato contenuto di cenere e basso punto di fusione delle ceneri (con conseguente formazione di scorie), come ad esempio pellet di vite e pellet e/o di potature e pellet di miscato.
Le caldaie a pellet sono impiegate principalmente in ambiente urbano e suburbano a servizio di singole abitazioni e piccoli condomini. Le caldaie con focolare sotto-alimentato possono avere potenze comprese fra 10 kW e 2,5 MW. Quelle con caricamento laterale da 15-25 kW fino ad alcuni MW e quelle con focolare alimentato a caduta da 6-15 kW fino a 30 kW.
A differenza delle caldaie con focolari sottoalimentati e a caricamento laterale che possono prevedere l’impiego sia di pellet che di cippato con pezzatura costante e contenuto idrico basso, le caldaie con focolare a caduta possono essere alimentate esclusivamente a pellet.
La combustione nelle caldaie con focolare a caduta
Il pellet, condotto da una coclea di alimentazione, cade dall’alto sul letto di braci che poggia su una griglia ribaltabile o un braciere a tazza o a “tunnel” (bruciatore). L’aria primaria e seconda- ria sono immesse attraverso i fori di iniezione sia da sotto che lateralmente. Periodicamente, le ceneri sono scaricate in modo automatico nel raccoglitore sottostante. Per assicurare la totale rimozione dei depositi di cenere la griglia ribaltabile urta contro una piastra pulente verticale in corrispondenza del raccoglitore delle ceneri.
Tipicamente, queste caldaie sono dotate di un serbatoio settimanale posto a fianco del gene- ratore di calore, rifornito automaticamente per mezzo di una coclea o di un sistema pneuma- tico che attingono da una scorta di combustibile annuale (fig. 5.11). Nelle zone di maggiore diffusione delle caldaie la consegna del pellet avviene tramite autobotti a scarico pneumatico attraverso tubazioni flessibili. Questa tipologia di conferimento consente di realizzare il silo di stoccaggio anche in luoghi di difficile accesso, rendendo possibile un maggior sfruttamento della capienza del deposito.
Fig. 5.11. Esempio di impianto a pellet automatico con sistema di caricamento pneumatico (Ökofen). Si tratta di un sistema di aspirazione collegato a due tubi flessibili lunghi fino a 15 m.
Requisiti tecnici di una moderna caldaia a pellet:
• potenza e combustione regolabili;
• bassi livelli di emissioni nocive a potenza nominale (modelli certificati);
• CO: ≤ 100 mg/Nm3 (13% O2);
• Polveri: ≤ 25 mg/Nm3 (13% O2);
• elevato rendimento (ηk) ≥ il 90%;
• sistemi di regolazione dell’aria comburente sui gas di scarico;
• modulazione della potenza nel campo 30%-100%;
• facile e confortevole rimozione delle ceneri (autonomia 2-4 settimane).
I depositi del pellet
I depositi per il pellet possono essere di tre tipi:
• piccoli sili con pareti di legno, metallo o tessuto;
• depositi con fondo e pareti inclinate;
• cisterne sotterranee.
Il dimensionamento del deposito può essere fatto in modo speditivo con la seguente formula: Volume del silo in m3 = 0,9 x potenza in kW
Perciò una caldaia a pellet di 15 kW necessita di un serbatoio di circa 13,5 m3. Supponendo che la stanza sia alta 2,3 m, il silo occupa una superficie di 6 m2 (misure 2x3x2,3 m).
Piccoli sili
Per questi depositi si sfrutta l’omogeneità del pellet facendolo scivolare lungo le pareti inclina- te verso la coclea di estrazione. Una soluzione conveniente è rappresentata dal “silo a sacco”, ovvero un silo in tessuto sintetico a sezione quadrata montato su un telaio metallico. Le misure della base del silo arrivano fino a 2,2 x 2,5 m e l’altezza fino a 5 m.
Deposito con fondo e pareti inclinate
I requisiti tecnico-costruttivi sono definiti dalla norma austriaca ÖNORM M7137. Muri e pa- vimenti devono essere dimensionati in modo tale da reggere il carico del pellet, ricordando che un metro stero riversato pesa indicativamente 600-650 kg. I muri e il solaio, oltre ad essere ignifughi devono essere ermetici per evitare la fuoriuscita di polvere nella fase di caricamento pneumatico.
Comunemente il fondo deve avere un’inclinazione di almeno 40-45° in modo tale che il pellet possa scivolarvi senza problemi. Il piano inclinato non deve essere troppo lungo e deve avere una superficie piana e liscia.
Serbatoi sotterranei
Comunemente hanno forma cilindrica o sferica, in cemento armato, vetroresina o particolari materiali plastici. Il limite superiore del deposito è posto ad una profondità di circa 0,8 m ri- spetto al livello del terreno e collegato al soprassuolo attraverso un pozzetto di ispezione da dove avviene il caricamento pneumatico.
5.2 Impianti per la cogenerazione termo-elettrica alimentati da biomasse ligno-cellulosiche
Questi impianti, oltre a produrre calore, realizzano la trasformazione dell’energia termica in elettrica: sono quindi caratterizzati dalla presenza di un bruciatore ove la biomassa produce calore ed un vettore energetico utilizzato per far funzionare un motore termico, che aziona a sua volta un alternatore.
La trasformazione energetica avviene solitamente in due tempi: il calore primario generato dall’impianto termico viene trasportato da un vettore energetico nel motore esotermico (così detto perché i due processi, termico e meccanico, sono fisicamente separati), direttamente collegato al generatore di corrente elettrica.
Nel solo caso della gassificazione non tutta l’energia termica viene prodotta nella prima fase del processo, ma soltanto quella necessaria per trasformare la biomassa solida in composti volatili (gas di sintesi, noti anche come “syngas”).
Questi sono una miscela eterogenea di composti di diversa qualità energetica (monossido di carbonio, metano, idrogeno ecc.) che viene sottoposto ad una successiva combustione all’in- terno di un motore endotermico, destinato ad azionare il generatore elettrico.
Caratteristica comune a questi processi sono le tipologie delle biomasse utilizzate, che devono essere sottoposte a combustione e quindi avere precise proprietà tecnologiche: quando sono destinate ad azionare motori esotermici la combustione è completa, mentre viene definita incompleta (pirolisi) quando si vuole produrre gas di sintesi.
Una ulteriore distinzione si può fare fra i motori primari, in relazione al tipo di fluido utilizzato:
1. aria calda: viene prodotta per mezzo di uno scambiatore di calore posizionato all’interno della caldaia o sull’uscita dei fumi dalla camera di combustione. Può essere impiegata sia in motori alternativi funzionanti secondo il ciclo Stirling, di cui al paragrafo 5.2.2, ovvero in motori rotativi, come le turbine ad espansione di cui al paragrafo 5.2.4.
2. vapore d’acqua: viene prodotto da una caldaia a vapore o da un surriscaldatore ed impiega- to esclusivamente in motori rotativi, come le turbine a vapore di cui al paragrafo 5.2.3.
3. vapore di fluidi organici: viene prodotto da un generatore riscaldato dai fumi di combustio- ne, direttamente nella caldaia ovvero con l’interposizione di un fluido diatermico; è impiega- to in motori rotativi a ciclo chiuso, come le turbine tipo ORC di cui al paragrafo 5.2.1.
4. gas di sintesi, derivante dalla distillazione a secco e parziale ossidazione della biomassa, come indicato al paragrafo 5.2.5: può azionare motori alternativi ad accensione coman- data (ciclo Otto) o Diesel (con iniezione pilota di gasolio), ovvero motori rotativi (turbine a gas), che possono essere a combustore esterno o interno; sono copie in miniatura rispetto ai grandi turbogas delle centrali termoelettriche, dai quali differiscono per il mi- nore rendimento dovuto all’impossibilità di realizzare cicli combinati (con altra turbina a vapore riscaldato dai gas di scarico).
Ciascuno di questi motori produce energia elettrica mediante accoppiamento, in genere tra- mite un giunto elastico, ad un alternatore.
Questo è una macchina elettrica in grado di generare una corrente alternata: mentre la tensio- ne dipende dalle caratteristiche costruttive dell’alternatore, la frequenza può variare in relazio- ne alla sua velocità angolare (espressa come numero di giri al minuto).
Poiché la corrente elettrica di rete ha una frequenza standard di 50 Hertz (la sua funzione d’onda si inverte 50 volte al secondo), l’energia prodotta dall’alternatore deve essere resa di- sponibile in una forma compatibile con le esigenze della rete.
Per questo motivo essa viene dapprima raddrizzata, ossia convertita in corrente continua,
quindi ritrasformata in corrente alternata alla frequenza suddetta di rete, per mezzo di un di- spositivo noto con il nome di “inverter”.
A questo punto, con l’ausilio di un normale trasformatore, la corrente viene portata alla tensio- ne ottimale per l’immissione in rete (nel caso di cessione al GSE).
Altra caratteristica comune a questi impianti è la cogenerazione, ossia la concomitante pro- duzione di energia termica, che rappresenta in realtà la frazione maggioritaria dell’energia ricavabile dalle biomasse, tenuto conto che il rendimento della produzione di energia elettrica può variare entro limiti molto ampi (dal 10 al 30% dell’energia lorda immessa nell’impianto attraverso la biomassa).
La cogenerazione è finalizzata prima di tutto a migliorare il rendimento energetico o economi- co della trasformazione energetica primaria e può intervenire sull’essiccazione della biomassa ai fini della sua conservazione, sul suo preriscaldamento per ridurre la perdita di calore du- rante la fase di innesco della combustione, ovvero sul preventivo riscaldamento dei fluidi di lavoro (nei cosiddetti economizzatori).
La frazione termica più importante, in una logica di cogenerazione, può essere ceduta per riscaldamento, tanto in ambito aziendale che extra aziendale.
Fra gli usi aziendali si segnalano in particolare:
• la produzione di acqua calda per uso domestico (da riscaldamento e sanitaria);
• la produzione di acqua calda per uso zootecnico: lavaggio impianti di mungitura, cuc- cette per fattrici, preparazione di alimenti in frazione liquida o semiliquida;
• fonte di energia termica per riscaldamento di essiccatoi e colture protette (serre e tunnels);
• produzione di vapore o acqua calda per l’azionamento di impianti frigoriferi ad assorbi- mento.
In ambito extra aziendale si segnala la fornitura di acqua calda per impianti di teleriscaldamento di fabbricati civili, di locali e di edifici pubblici, di impianti sportivi ecc., a condizione che questi si trovino a distanza idonea, in relazione alla temperatura dell’acqua calda in uscita dall’impianto, ai fabbisogni dell’utenza ed al grado di isolamento delle tubature di adduzione.
La rete di teleriscaldamento è simile da quelle alimentate da altre fonti energetiche; la presen- za di un sistema di cogenerazione può essere funzionale al risparmio dei costi di gestione della centrale termica, ovvero destinata a produrre una redditività propria.
Sul piano tecnologico si segnala la possibilità, per ciascuna utenza termica collegata, di mon- tare un contatore elettronico in grado di determinare con precisione la quantità di energia acquistata (in kWh o in MJ), sulla base della portata di acqua calda e della differenza di tempe- ratura fra ingresso ed uscita.
5.2.1 Impianti di cogenerazione a ciclo ORC
Premessa
Il ciclo ORC (Organic Rankine Cycle) rappresenta una variante evoluta rispetto agli impianti che sfruttano l’espansione del vapore d’acqua e si differenzia da questi per una serie di accor- gimenti tecnici, volti a renderne più semplice la conduzione e l’esercizio.
Le turbine a vapore presentano infatti, a fronte di un buon rendimento energetico, una lunga serie di complicazioni costruttive che ne limitano l’utilizzo ad impianti di dimensione pretta- mente industriale:
1. le caldaie a vapore sono soggette a rischi di esplosione dovuta al fluido di lavoro;
2. il funzionamento del generatore di vapore richiede la presenza continua di personale qualificato e appositamente abilitato;
3. le alte temperature (fino a 550° C) e pressioni (fino a 3 MP) in gioco comportano l’adozio- ne di sistemi di sicurezza particolarmente evoluti e costosi;
4. l’acqua utilizzata nel ciclo, anche se demineralizzata, può determinare fenomeni di cor- rosione che devono essere accuratamente monitorati.
Caratteristiche tecniche dell’impianto
L’impianto è costituito, schematicamente, da un bruciatore ove avviene la prima trasformazio- ne della biomassa in energia termica, che può essere realizzato secondo tipologie costruttive molto diverse, in relazione alle proprietà tecnologiche e qualitative del combustibile.
Il bruciatore deve essere idoneo ad accogliere uno scambiatore di calore per trasmettere l’energia termica ad un fluido pompabile, in grado di trasportarla al fluido di lavoro vero e proprio. Il ciclo ORC si avvale infatti di un sistema di generazione del vapore grazie al quale le condizioni estreme della combustione della biomassa (temperature elevate, fumi, ceneri ecc.) vengono mediate dall’interposizione di un liquido intermedio, isolante rispetto ai fenomeni di corrosione elettrochimica che colpiscono gli impianti a vapore, il quale trasporta l’energia termica dalla caldaia al generatore di vapore.
Questo liquido, che prende il nome di “olio diatermico” può essere un olio minerale o sintetico, talvolta completamente biodegradabile, dotato di eccezionali caratteristiche tecnologiche:
• elevate proprietà lubrificanti, che limitano l’usura di pompe e valvole;
• ridotta viscosità, anche a bassa temperatura, per favorire l’avviamento dell’impianto;
• temperature di lavoro comprese fra i 250 ed i 330° C;
• alto punto di ebollizione (sui 340-360°) e di decomposizione;
• bassa incendiabilità;
• ridotta percentuale di vaporizzazione;
• buon calore specifico (capacità di trasportare l’energia);
• alto indice dielettrico;
• elevata purezza e bassa tossicità.
Tali prestazioni consentono di evitare la formazione di depositi carboniosi nella parte più cal- da del circuito, come la serpentina posta all’interno della caldaia, che potrebbero, da un lato, ridurne la capacità di trasmissione del calore, dall’altro, intasare i filtri posti a protezione delle pompe di circolazione.
L’energia termica viene quindi impiegata per la vaporizzazione di un fluido di lavoro costituito da un liquido organico di elevato peso molecolare, di composizione analoga agli idrocarburi, anch’esso insensibile ai fenomeni galvanici, in grado di vaporizzare a temperature relativa- mente basse.
La trasformazione meccanica avviene facendo espandere il vapore all’interno di una turbina, la cui costruzione è tuttavia più semplice e leggera rispetto ad una azionata dal vapore d’acqua, per effetto della minima capacità corrosiva del fluido organico, della pressione più facilmente control- labile e della temperatura di lavoro nettamente minore (intorno ai 300°C, contro i 500° di un tur- bogeneratore a vapor d’acqua). Il fluido di lavoro, dopo l’espansione in turbina, viene riportato allo stato liquido in un rigeneratore, del tutto simile a quelli asserviti agli impianti a vapore. L’acqua di raffreddamento del rigeneratore può costituire una sorgente aggiuntiva di calore, sfruttabile sia ai fini cogenerativi, sia per il preriscaldamento di economizzatori e recuperatori di energia termica, in grado di aumentare il rendimento complessivo dell’impianto. La turbina aziona direttamente l’alternatore che, trattandosi di piccole potenze (da 200 a 2000 kWe), genera corrente elettrica in bassa tensione (da 400 a 660 volt), idonea sia all’immissione in rete, sia ad essere trasformata in media tensione se l’impianto è servito da una linea di distribuzione intermedia.
5.2.2 La tecnologia Stirling
Il motore Stirling
I motori alternativi si distinguono sostanzialmente in motori a combustione interna, che co- struiscono lo standard del parco automotoristico mondiale utilizzato come mezzi di trasporto, generazione di energia elettrica, ecc., e negli assai meno noti motori a combustione esterna. Il motore Stirling è l’esempio più noto di motore alternativo a combustione esterna ed è stato inventato da Xxxxxx Xxxxxxxx nel 1816, all’epoca in cui vi era aperta competizione fra l’aria calda ed il vapore per l’azionamento di macchinari industriali.
La produzione di calore per l’azionamento del moto, può, quindi, avvenire sia attraverso la combustione di legna, cippato, pellet, sia attraverso la combustione di biogas o syngas.
Principio di funzionamento
Il motore Stirling funziona con un ciclo chiuso di espansione/compressione guidato dalla dif- ferenza di temperatura esistente tra una sorgente calda ed un punto freddo. Il ciclo chiuso normalmente utilizza come fluido di lavoro termodinamico un gas inerte quale l’aria, che però è stata sostituita nelle versioni moderne dei motori Stirling da elio oppure azoto che permet- tono di raggiungere efficienze maggiori. All’atto del raggiungimento di una opportuna dif- ferenza di temperatura fra sorgente calda e punto freddo si innesca una pulsazione ciclica che viene trasformata in moto alternato dei pistoni. La pulsazione perdura fino a quando si continua a mantenere la differenza di temperatura mediante somministrazione di calore alla sorgente calda e sottrazione di calore al punto freddo.
Fig. 5.12. Schema del motore Stirling (fonte: xx.xxxxxxxxx.xxx/xxxx/Xxxxxx_Xxxxxxxx)
Poiché si tratta di un motore a combustione esterna può funzionare con qualsiasi tipo di sor- gente di calore, ad esempio con calore solare concentrato oppure con calore fornito da una caldaia di combustione di biomassa legnosa, carbone, biogas, gas e/o combustibili liquidi.
Inoltre, la combustione esterna implica che le parti maggiormente riscaldate dal calore non sono a contatto con le parti scorrevoli o rotanti (cuscinetti, pistoni) e di conseguenza le solle- citazioni di tali parti e le quantità impiegate di lubrificante sono ridotte e quindi lo è anche la manutenzione.
Altra particolarità del motore Stirling è quella di funzionare senza fare ricorso a valvole. Le sole parti in movimento sono il pistone ed il dislocatore che agiscono collegati ad un albero moto- re con una coppia di gomiti sfasati fra loro. Proprio grazie alla struttura molto semplice la vita utile media è compresa fra 40.000 e 60.000 ore di funzionamento.
Caratteristiche costruttive e di funzionamento
Poiché il calore non è prodotto all’interno del motore ma è applicato dall’esterno, è neces- sario trasferirlo all’interno ed ugualmente, dato che il motore sfrutta un dislivello di calore, occorre sottrarre calore per creare un punto freddo. Per il trasferimento del calore in maniera efficiente fra fluido di lavoro ed esterno occorrono estese superfici costituite da fasci tubie- ri o radiatori. Queste estese superfici di scambio appesantiscono il motore e lo rendono voluminoso a parità di energia erogata. Il flusso di calore dalla sorgente termica al fluido di lavoro interno non è istantaneo e ciò comporta un avviamento del motore lento; anche le modifiche al processo di trasferimento del calore sono lente e di conseguenza il motore Stirling non è adatto al funzionamento con avviamenti rapidi e con significative variazioni del regime di moto. Per questo è inadatto ad applicazioni nel campo della trazione di veicoli, ma non per la generazione elettrica.
La potenza erogata dal motore è proporzionale al dislivello di temperatura fra sorgente calda e punto freddo con il limite inferiore alla temperatura del punto freddo costituito dalla tem- peratura ambiente. Pertanto per aumentare la potenza del motore è necessario innalzare la temperatura della sorgente calda. Il limite è ovviamente costituito dalle limitazioni tecniche di resistenza e dai costi dei materiali capaci di resistere ad elevate temperature. Per questo uno dei materiali più idonei per la realizzazione è il titanio, il quale rappresenta uno dei limiti economici nella convenienza all’utilizzo di questa tecnologia.
Un’altra possibilità di incrementare la potenza erogata è quella di aumentare la pressione del fluido di lavoro aumentandone la quantità in circolo. Tuttavia va considerato che l’utilizzo di componenti pressurizzati richiede un adeguato progetto strutturale e tecnologico del motore che deve essere più robusto e più pesante.
Anche l’impiego di gas con idonee caratteristiche per un efficiente scambio termico, primo fra tutti l’elio, rappresenta un limite economico nella convenienza all’utilizzo di questa tecnologia. Attualmente, anche con le moderne tecnologie e ricerche sui materiali, la progettazione dei motori Stirling con una adeguata efficienza è meno semplice di quello che può sembrare esa- minando il principio di funzionamento.
Configurazioni di funzionamento
Nella figura 5.13 si riportano le tre configurazioni di funzionamento del motore Stirling.
Fig. 5.13. Configurazioni di motori Stirling (fonte: xx.xxxxxxxxx.xxx/xxxx/Xxxxxx_Xxxxxxxx)
Il motore Stirling in configurazione Alfa è basato su 4 fasi di funzionamento :
• spinta
• riscaldamento
• espansione
• raffreddamento.
Nella configurazione Beta la testata del cilindro è collegata ad una camera dotata di una parete calda, mentre il corpo del cilindro è collegato ad una parete fredda. All’interno della camera è
collocato il dislocatore, che è costituito da un materiale isolante non a tenuta in grado di co- prire alternativamente la parete calda e la parete fredda. Il ciclo compiuto dal motore è allora il seguente:
• il dislocatore copre la parete fredda della camera;
• il gas della camera, essendo riscaldato, si espande;
• il pistone si muove verso l’esterno della camera (in questo caso verso l’alto); nel suo moto spinge la giunzione che ruota e che a sua volta sposta il dislocatore sulla parete calda, isolando dal calore la camera che inizia a raffreddarsi;
• il gas si contrae richiamando il pistone;
• il pistone si muove verso l’interno (in questo caso verso il basso) e, analogamente a pri- ma, sposta il dislocatore sulla parete fredda durante il suo moto.
La configurazione Gamma è sostanzialmente analoga alla Beta, ma con la variante di non ave- re i pistoni coassiali, che invece possono essere a corsa parallela affiancata ovvero perpendi- colare, ma comunque disposti in modo da minimizzare gli spazi volumetrici “morti” fra i due pistoni. La configurazione Gamma (senza assi coassiali) semplifica la lubrificazione degli assi, e diminuisce le perdite per trafilamenti ed attriti delle tenute, con un modestissimo incremento degli spazi volumetrici morti rispetto alla configurazione Beta.
Sviluppo di motori Stirling
Il motore Stirling è ormai da tempo oggetto di studi e ricerche che hanno portato alla realiz- zazione di numerosi prototipi per applicazioni di nicchia, fra le principali delle quali si possono sicuramente citare quelle nel campo della microgenerazione di energia elettrica, recentemen- te anche in campi solari a concentrazione di tipo parabolico.
Fra gli anni ‘60 ed ’80 molte aziende hanno finanziato ricerche per lo sviluppo e l’applicazione di questa tecnologia e fra le principali esperienze quelle di General Motors, Ford, MTI, United Stirling, U.S. Department of Energy (DOE) e del governo Xxxxxxx.
Molti investimenti sono stati fatti da Kockums (svedese) per applicazioni su imbarcazioni della marina militare svedese, inclusi alcuni sommergibili dove poteva essere sfruttata una fonte di calore senza dover ricorrere alla combustione e, quindi, all’impiego di ossigeno. Oltre alla Kockums alla fine degli anni ‘90 il costruttore che ha raggiunto i risultati migliori è stata la Solo Stirling (Germania). In particolare, la flotta di motori Kockums 4-95 aveva raggiunto un eserci- zio cumulativo di 118.000 ore di funzionamento di cui 17.000 ore su un singolo motore mentre la flotta di motori Stirling Solo 161 aveva raggiunto un esercizio cumulativo di oltre 100.000 ore di funzionamento di cui 18.000 ore su un singolo motore che aveva fatto oltre 6.000 ore di funzionamento ininterrotte.
Finito il periodo delle sperimentazioni per uso militare, gli sviluppatori/fabbricanti di motori Stirling si sono concentrati su motori Stirling alimentati a gas oppure a gasolio/kerosene con l’obiettivo di realizzare impianti di microcogenerazione di taglia domestica (1-10 kWe) da uti- lizzare in nautica da diporto o in abitazioni residenziali non dotate di allacciamento alla rete elettrica. Il principale problema riscontrato per questo tipo di applicazione è quello della dimi- nuzione di efficienza dei sistemi Stirling in funzione della diminuzione della taglia dell’impian- to. Nel 2001 la società inglese EA Technology (Istituto di ricerca delle società elettriche inglesi) ha pubblicato un report intitolato “Future Cogen Project” con l’obiettivo di fare luce sui vari prototipi di motori Stirling di piccola potenza (inferiore a 10 kWe) in fase di sviluppo presso i costruttori attivi nel settore all’epoca. Di seguito è riportata la tabella, estratta dal report citato, indicante i modelli di motore Stirling per generazione di piccola taglia.
Tab. 5.3. Prototipi di generatori di piccola taglia con motore stirling (da report “Future Cogen Project” – EA Technology (UK))
Modello | Cilindri | Potenza (kW) | Rendimento elettrico | Temperatura scambiatore | Gas di processo |
WhisperGenPPS16AC | 4 | 0,7-5 | 10% | 650°C | Azoto (N2) |
Sunpower/Advantica RE100 | 1 FPSE | 1 | 25% | 600°C | Elio (He) |
STC/ENATEC | 1 FPSE | 1 | 10% | 650°C | ? |
Sigma PCP 1-130 | 1 | 3 | 25% | 700°C | Elio (He) |
Kawasaki Model V | 1 FPSE | 1,2 | 27% | 650°C | Elio (He) |
Tamin TESE004 | 1 | 1 | 22% | 650°C | Aria |
SIG | 1 FPSE | 1 | 25% | 600°C | Elio (He) |
Mitsubishi NS-03M | 1 | 3,8 | 36% | 780°C | Elio (He) |
Toshiba NS-03T | 2 | 4,1 | 34% | 820°C | Elio (He) |
Al 2010, basandosi su un indagine recentemente condotta, risulta che alcuni costruttori come la Sigma o la Solo Stirling non sono più presenti, mentre fra i costruttori/sviluppatori citati nella tabella del“Future Cogen Project” report vi sono soltanto due società che risultano essere ancora attive nella fabbricazione, la Whispergen e la Sunpower, ciascuna operante in campo applicativo ben definito per la propria, futura, produzione di serie.
In particolare la neozelandese Whispergen è stata acquisita dalla Meridian Energy (società elettrica della Nuova Zelanda). Nel 2008 la Whispergen ha fatto un accordo di licenza con la società Cooperativa Xxxxxxxx Xxxxxxxxx di Tolosa (Paesi Baschi – Spagna) per la fabbrica- zione/commercializzazione di motori Stirling Whispergen per applicazioni stazionarie (quindi escludendo i motori Stirling per uso nautico). E’ stata creata una società chiamata Efficient Home Energy (EHE) con sede a Tolosa (Spagna) che è il licenziatario esclusivo Whispergen per le applicazioni stazionarie in Europa. Questa è attualmente concentrata nello sviluppo/xxxxxx- cazione di microcogeneratori Stirling di tecnologia Whispergen con alimentazione a gas (me- tano o propano/GPL) e non ha attualmente in fase di sviluppo prototipi alimentati a biomasse. La Sunpower (USA), invece, risulta concentrata sui motori Stirling utilizzati negli impianti solari a concentrazione (CSP).
Altri sviluppatori/fabbricanti di motori Stirling sono emersi nel decennio 2000-2010 fra questi va certamente citata la danese Stirling Danmark (che è attualmente la più impegnata nel set- tore delle applicazioni dei motori Stirling agli impianti a biomassa legnosa) e la statunitense Stirling Biopower. Entrambe le società si sono concentrate sui motori Stirling di taglia inter- media (10-50 kWe). La Stirling Danmark, è uno spin-off dell’Università di Copenhagen, che si avvale delle esperienze maturate con il programma Kockums della marina militare svedese, e recentemente ha incentrato la ricerca nel campo della gassificazione delle biomasse da abbi- nare a motori Stirling.
Per piccolissimi impianti (1-5 kWe) esperienze nel campo dell’impiego di biomasse sono state reclamizzate anche dalla Sunmachine (Germania) e dalla KWB (Austria). La Sunmachine pub- blicizza sul suo sito internet un prototipo di microcogeneratore a motore Stirling alimentabile anche con pellet con potenza di 1,5-3,0 kWe. Simile è il prototipo pubblicizzato dalla KWB società austriaca costruttrice di caldaie a pellet/cippato.
Tuttavia, fra le case costruttrici citate, solamente la Stirling Danmark (Danimarca) e la Stirling
Biopower (USA) quotano la fornitura su base prototipale, segno evidente del fatto che dispon- gano di prodotti funzionanti commercialmente proponibili.
L’impianto a biomassa legnosa di Castel d’Aiano
Nel campo della generazione elettrica da biomassa con tecnologia Stirling il punto di riferi- mento principale, a livello italiano se non addirittura europeo, è oggi rappresentato sicura- mente dall’impianto realizzato a Castel d’Aiano (BO) dal Centro Innovazione per la Sostenibilità Ambientale (CISA) di Porretta Terme (BO).
Il sistema è costituito da un gassificatore di biomassa a tecnologia updraft da 200 kWt e da un motore Stirling della Stirling Danmark da 35 kWe e 140 kWt (fig. 5.14).
Fig. 5.14. Schema dell’impianto di microcogenerazione a motore Stirling di Castel d’Aiano (BO)
(Fonte: “L’ecoimpianto di Castel d’Aiano”)
1. gassificatore Updraft; 2. camera di combustione; 3. motore Stirling Danmark;
4. quadri elettrici di controllo e gestione; 5. accumulatore termico
L’impianto è alimentato con cippato forestale di produzione locale. Il gassificatore updraft gas- sifica il cippato conferito nel vano di carico, trasformandolo completamente in un gas sintetico a basso potere calorifico (1,26 kWh/Nm3) composto per la parte combustibile principalmente da CO, H2 e CH4. Come prodotto di scarto della gassificazione updraft si ottiene unicamente cenere con assenza di particelle incombuste, segno di una elevata qualità del processo di con- versione della biomassa in gas sintetico. Il gas sintetico, difatti, esce dal gassificatore updraft ad una elevata temperatura di circa 700°C.
Il gassificatore presenta, inoltre, il non trascurabile vantaggio di poter gassificare direttamen- te biomassa legnosa con contenuto di umidità che può arrivare al 60% (tenore di umidità del cippato fresco di bosco) senza necessità di pre-essiccazione.
Fig.5.15. Camera di Combustione e Motore Stirling Danmark di Castel d’Aiano (BO)
Fig. 5.16. Gassificatore Updraft di Castel d’Aiano (BO)
Il gas sintetico prodotto dal gassificatore viene, quindi, inviato alla camera di combustione esterna al motore Stirling dove viene completamente bruciato tramite un apposito bruciatore studiato per gas a basso potere calorifico. La temperatura di combustione del gas sintetico all’interno della camera di combustione è compresa nell’intervallo fra 800°C e 1.250°C.
Il motore Stirling produce, quindi, circa 35 kWe mentre circa 140 kWt vengono recuperati sot- toforma di acqua ad 80°C dal raffreddamento dei fumi della camera di combustione prima dell’invio al camino. L’energia termica prodotta viene impiegata per alimentare una piccola rete di teleriscaldamento del complesso sportivo (scuole, piscina, ecc. …) ubicato in prossimi- tà dell’impianto.
5.2.3 Cogenerazione con turbine a vapore
Premessa
Sono impianti in grado di realizzare la trasformazione energetica in due fasi distinte, la prima delle quali trasforma la biomassa in calore, impiegato per trasformare acqua i vapore; que- st’ultimo, opportunamente surriscaldato, compie il lavoro meccanico azionando il generatore elettrico.
Buona parte dell’energia elettrica prodotta nel mondo viene generata per mezzo di impianti a vapore, per diversi motivi:
• tecnologia consolidata, che può vantare oltre un secolo di applicazioni pratiche;
• affidabilità e durata, superiore a quella dei motori alternativi;
• indipendenza dalla fonte di energia termica: questa può essere una caldaia (alimentata con qualsiasi tipo di combustibile, fossile o rinnovabile), uno scambiatore di calore ri- scaldato ad energia solare, geotermica o nucleare;
• rendimento termodinamico elevato (vicino a quello dei motori endotermici), grazie al- l’adozione di particolari tecnologie di recupero.
Le prime applicazioni pratiche del vapore risalgono ad oltre duecento anni fa: per oltre un se- colo si utilizzarono quasi esclusivamente le macchine a moto alternativo (usate in agricoltura fino agli Trenta del secolo scorso), poi gradatamente sostituite da quelle rotative.
Già alla fine del XIX secolo la propulsione navale si avvaleva principalmente di grandi motori a turbina, prima alimentati a carbone e quindi, per semplicità di conduzione, ad olio pesante, la frazione più scadente ed economica della distillazione del petrolio. Ancora oggi questo com- bustibile è largamente impiegato nei grandi turbogeneratori di energia elettrica, specie nei Paesi dove mancano le centrali nucleari; in Italia, esigenze ambientali hanno portato alla so- stituzione degli impianti ad olio combustibile o carbone con i turbogas alimentati a gas natu- rale. In questi impianti le turbine a vapore vengono impiegate come ulteriori fonti di recupero energetico, per sfruttare il calore residuo dei gas di scarico delle turbine a gas (cicli combinati), raggiungendo così un rendimento elettrico complessivo elevatissimo (quasi il 58% nella Cen- trale Enel di Priolo).
Schema costruttivo
Un impianto di cogenerazione con turbina a vapore è molto semplice, almeno sul piano con- cettuale:
a. il calore prodotto da un bruciatore riscalda l’acqua contenuta nella caldaia, trasforman- dola in vapore;
b. il vapore si espande all’interno della turbina, producendo un lavoro meccanico;
c. questo lavoro viene impiegato per azionare un alternatore;
d. il calore in eccesso viene recuperato per riscaldamento.
Tuttavia se ci si limitasse a questo “ciclo base” il rendimento termico sarebbe piuttosto basso, per diversi motivi:
• nella prima fase, si perde energia per riscaldare l’acqua e portarla alla temperatura di evaporazione;
• nella seconda fase, il rendimento aumenta in relazione alla pressione del vapore immes- so nella turbina;
• in questa fase, è indispensabile che il vapore resti gassoso: se condensa nella turbina, la presenza di acqua allo stato liquido può aumentare la resistenza al movimento e indurre sollecitazioni meccaniche pericolose;
• poiché nella caldaia deve entrare acqua, è necessario raffreddare il vapore fino a farlo tornare allo stato liquido, abbassandone la temperatura; in questo processo, che avvie- ne in un apparecchio detto condensatore, bisogna sprecare meno calore possibile, recu- perandolo per il riscaldamento.
In un impianto alimentato a biomasse il bruciatore è dipendente dalla matrice utilizzata e dalle sue caratteristiche tecnologiche: si ritiene pertanto utile rimandare il lettore alle diverse tipo- logie descritte nel capitolo 5.1.
Fig. 5.17. Caldaia tipo Ansaldo per installazioni fisse
Una caldaia per la generazione del vapore funziona così:
• i fumi del bruciatore investono direttamente un fascio di tubi, all’interno dei quali scorre
– in pressione – l’acqua da vaporizzare;
• il vapore saturo così prodotto viene ulteriormente riscaldato nel surriscaldatore, una ser- pentina che tuttavia non viene lambita direttamente dai fumi, per evitarne la possibile bruciatura: questo perché il calore specifico del vapore è inferiore a quello dell’acqua;
• un dispositivo, detto economizzatore, riscalda l’acqua di alimentazione per portarla ad una temperatura prossima a quella di ebollizione (che, per effetto della pressione, bolle ad una temperatura ben superiore ai 100° C);
• un riscaldatore d’aria, che sfrutta il calore residuo dei fumi per preriscaldare l’aria in en- trata della caldaia;
• un impianto di raffreddamento di emergenza, destinato a raffreddare l’acqua in caso di blocco della turbina, per evitare di bruciare gli scambiatori di calore, in particolare quello ad acqua.
La turbina, se funziona con vapore surriscaldato, ha una costruzione molto simile a quelle a gas, azionate da combustibili liquidi o gassosi: in pratica si hanno turbine a più stadi coassiali (dove ogni stadio è una ruota ad alette), di diametro crescente in relazione alla diminuzione della temperatura del vapore e quindi della sua pressione.
L’azione del vapore sulle pale provoca una forte reazione assiale sull’albero della turbina; per evitare che questa spinta possa aumentare eccessivamente le resistenze alla rotazione (la su- perficie dei cuscinetti reggispinta è soggetta ad attrito), le turbine sono in genere montate a coppie sullo stesso albero, in modo da avere un unico cuscinetto centrale con uno sforzo
assiale nullo, o quasi, a vantaggio della durata, dell’affidabilità e, come abbiamo detto, anche della riduzione degli attriti interni della macchina.
Fig. 5.18. Turbina a vapore a doppio rotore
Il carter esterno della turbina presenta poi diverse prese di vapore per spillare una piccola parte del vapore durante le varie fasi di espansione (cicli Xxxx a spillamento): questo vapore viene poi riutilizzato per vari processi di recupero di calore. Gli spillamenti di vapore riducono la quantità totale di vapore che passa all’interno della turbina ed in particolare la parte a bassa pressione (e grande volume): in questo modo si possono costruire turbine meno ingombranti, caratterizzate dal fatto di cedere meno calore all’esterno e quindi con un rendimento termo- dinamico superiore. A tal fine è importante anche il grado di surriscaldamento del vapore, che nelle grandi centrali elettriche supera il valore di 500° C; a queste temperature si evita che una parte del vapore possa condensare in turbina, fenomeno quanto mai dannoso per le sollecita- zioni che imprime alle alette e per il rischio di corrosione delle parti meccaniche.
Inoltre, più la temperatura del fluido di lavoro è elevata, più aumenta il rendimento termo- dinamico della turbina e conseguentemente diminuisce, a parità di altri fattori, il consumo di biomassa per kWh prodotto.
Fig. 5.19. Turbina modulare per ciclo Xxxx a spillamento
Condensatore ed impianti addizionali
Il condensatore svolge un compito fondamentale: quello di riconvertire il vapore, ancora allo stato aeriforme, in uscita dalla turbina, dai circuiti di spillamento e dai vari scambiatori aggiun- tivi, in acqua allo stato liquido, asportando calore.
Negli impianti destinati a produrre soltanto energia elettrica, il calore viene trasmesso ad un grande quantitativo di acqua, derivata da un fiume o da un serbatoio artificiale di dimensioni opportune, in modo che abbia il tempo di raffreddarsi a temperature di poco superiori a quella dell’ambiente esterno; si tratta tuttavia di energia preziosa che viene dispersa inutilmente e che può produrre danni ambientali (inquinamento termico).
In un processo di cogenerazione il condensatore è in realtà un recuperatore di calore, ossia un grande scambiatore, costituito nella sua forma più semplice da una batteria di serpentine di tubo di rame immerse in un flusso di acqua da riscaldare, che circola in pressione.
L’acqua, riscaldandosi, sottrae calore al vapore fino a che, raggiunta la temperatura ottimale per il trasporto termico viene inviata all’impianto di distribuzione o valorizzazione (rete di te- leriscaldamento, essiccatoi o altri impieghi).
Il vapore, una volta ritornato allo stato liquido, viene pompato nuovamente in caldaia per ini- ziare un nuovo ciclo: naturalmente è indispensabile sottrarre al vapore soltanto la quantità di calore strettamente necessaria, per non diminuire il rendimento termodinamico del processo. Un ruolo cruciale lo riveste il cosiddetto economizzatore, un particolare scambiatore di calore che ha il compito di preriscaldare l’acqua proveniente dal condensatore fin quasi alla tempera- tura di vaporizzazione; l’energia necessaria viene recuperata dal vapore prelevato nei diversi stadi della turbina (spillamenti).
In questo modo il calore della caldaia viene utilizzato quasi esclusivamente per la vaporizza- zione e per il surriscaldamento del vapore. Un dispositivo analogo è il preriscaldatore dell’aria di alimentazione del bruciatore, il cui scopo è di aumentarne il rendimento termico; funziona anch’esso con il vapore ottenuto dagli spillamenti dalla turbina.
Fig. 5.20. Vista del gruppo completo con, in primo piano, l’alternatore
Generatore
Nelle moderne realizzazioni, l’albero su cui è calettata la turbina (o, come abbiamo visto, la coppia di turbine) porta anche l’alternatore, in grado di convertire il lavoro meccanico in ener- gia elettrica, e precisamente in una corrente alternata.
Negli impianti di grande potenza – quelli delle centrali termoelettriche – si dimensiona la turbina in modo che possa girare alla velocità costante di 3000 giri al minuto, in modo che l’alternatore compia esattamente i 50 giri al secondo che danno luogo alla frequenza di rete di 50 Hertz. I turboalternatori più piccoli (da qualche MW in giù) hanno invece una velocità di rotazione molto più elevata (in genere superiore ai 10.000 giri/min), così che producono una corrente alternata ad alta frequenza, non adatta ad essere immessa in rete.
A tal fine la corrente prodotta deve preventivamente essere convertita da alternata in conti-
nua, per mezzo di un raddrizzatore, e poi nuovamente trasformata in alternata alla frequenza standard di 50 Hertz, per mezzo di convertitori statici (inverter).
Quindi, con l’ausilio di un normale trasformatore, la corrente viene portata alla tensione otti- male per l’immissione in rete (nel caso di cessione al GSE).
5.2.4 Generatori con turbine ad aria calda
Il superamento delle problematiche connesse all’utilizzo di biomasse in sistemi cogenerati- vi (contestuale produzione di energia elettrica e termica) di piccola taglia basati su turbine, dotati di elevata affidabilità ed efficienza e con ridotte emissioni di NOX e di CO, rappresenta un salto tecnologico di notevole portata sulla strada dello sviluppo sostenibile, amplificando enormemente i vantaggi connessi alla generazione di energia e calore da biomasse di origine agricola e forestale. Gli impianti in questione sono costituiti da una turbina a gas di piccola taglia (microturbina) che, assieme agli altri componenti di seguito descritti, realizza un ciclo Xxxxxxx aperto con rigenerazione impiegante aria come fluido di processo.
Nel ciclo classico l’energia viene fornita al sistema attraverso la combustione del combustibile (normalmente metano) in una camera di combustione interna alla microturbina (aria e carbu- rante si mescolano); nel sistema a biomassa, invece, per elevare la temperatura del fluido effluen- te viene utilizzato uno scambiatore di calore ad elevata efficienza esterno alla microturbina, in cui l’aria di processo scambia calore con i fumi di combustione senza mescolarsi ad essi.
Il ciclo viene realizzato mediante una microturbina ad aria operante in combustione esterna e viene denominato EFMGT (Externally Fired Micro Gas Turbine): è stato pensato e progettato specificatamente per la realizzazione di impianti di cogenerazione di piccola taglia (sotto il MWe) e l’utilizzo di combustibili solidi altrimenti non utilizzabili con microturbine classiche, a meno di non ricorrere a preventivi processi di gassificazione.
L’aria in ingresso, aspirata direttamente dall’ambiente circostante, è portata alla pressione di esercizio tramite un compressore (fase di compressione); da qui passa al recuperatore (fase di rigenerazione) dove incrementa la sua temperatura per effetto del calore sottratto all’aria di scarico della turbina che fluisce verso il condotto di uscita. Dal recuperatore l’aria pressurizzata entra in caldaia convogliata per mezzo di uno scambiatore a più giri di fumo ad elevata effi- cienza in controcorrente rispetto ai gas combusti. Qui acquista ulteriore energia dai fumi caldi provenienti dalla combustione della biomassa legnosa (fase di combustione).
In pratica l’aria calda di turbina, aspirata dall’ambiente ad ogni ciclo termodinamico, viene nuova- mente espulsa dalla bocca di uscita della turbina dopo avere ceduto al sistema di generazione il suo contenuto energetico. Parte di questa aria, ad alta temperatura, viene nuovamente immessa in caldaia per aumentare il rendimento di combustione diminuendo quindi i consumi di combu- stibile. Il processo intero è regolato da parametri impostati nel sistema di controllo centrale che, operando con regolazioni in tempo reale in “continuo”, permette, attraverso una reciproca comuni- cazione fra caldaia e turbina, il raggiungimento delle condizioni desiderate di potenza generata ed il funzionamento completamente automatizzato di tutti i componenti.
Il generatore elettrico, il compressore e la turbina sono calettati sullo stesso albero.
Oltre alla capacità di generare energia elettrica tali sistemi sono progettati anche per recuperare il calore generato dal processo che altrimenti verrebbe disperso nell’ambiente, realizzando di fatto un vero e proprio sistema di cogenerazione. In tal caso le sorgenti termiche di recupero sono costi- tuite dall’aria di processo espulsa dalla turbina dopo l’espansione in turbina e dai fumi di combu- stione della biomassa: entrambe si presentano in forma gassosa ad elevata temperatura e possono
essere impiegate per diversi utilizzi (ad esempio per il riscaldamento di acqua, per il riscaldamento di ambienti in piccole reti locali di teleriscaldamento o per processi di essiccazione).
Fig. 5.21. Schema funzionale sistema di generazione con turbina ad aria (fonte X.Xxxxxxxx, Dipartimento di Sistemi Elettrici e Automazione - Università di Pisa)
Fig. 5.22. Modellizzazione 3D sistema basato su microturbina ad aria
gas di scarico
separatore centrifugo
scambiatore di calore
miscelatore caldaia
a pellet
bruciatore interno
generatore a microturbina
Fig. 5.23. Potenza massima recuperabile in funzione della temperatura dei fumi (fonte: Sib-Siber Srl)
Impianti di questo tipo, funzionando esclusivamente ad aria surriscaldata scaricata in ambien- te ad ogni ciclo di funzionamento, non richiedono particolari competenze per la loro gestione; grazie a sistemi di controllo standardizzati (in genere governati da una centralina a PLC che
regola l’alimentazione automatica del combustibile) possono pertanto funzionare anche in assenza di operatore.
Impianti di cogenerazione di questo tipo possono essere alimentati da diverse tipologie di bio- masse (cippato, agripellets, sansa, nocciolino, mais, stocco di tabacco, residui di pulitura boschiva ecc…): questi dipendono dalle specifiche tecniche e funzionali della caldaia impiegata.
Fig. 5.24. Foto impianto con microturbina ad aria (fonte: Bionertech srl – Turbec Spa)
5.2.4.1 Sistema di stoccaggio e caricamento della biomassa
il sistema di stoccaggio della biomassa può essere realizzato con diverse soluzioni in base al tipo di biomassa ed alle condizioni ambientali; il sistema di estrazione può essere di tipo a griglia fissa o mobile. La biomassa viene estratta dal deposito tramite una coclea che viene regolata e a sua volta regola il flusso da immettere in caldaia per mantenere prefissate condizioni potenza elettrica; il materiale viene poi trasferito ad un caricatore a vite senza fine che ha il compito di introdurlo in caldaia. Dimensionamenti e ulteriori specifiche tecniche sono comunque del tutto analoghi a quelli normalmente considerati per semplici impianti a cippato o similari.
Fig. 5.25. Dettaglio sistema di alimentazione (fonte: Bionertech srl – Turbec Spa)
5.2.4.2 Caratteristiche della caldaia
La caldaia impiegata può essere anche semplicemente del tipo a griglia fissa, purché idonea a trattare sia cippato fine o pellet sia materiale legnoso eterogeneo. Il sistema di alimentazione è munito di serranda di sbarramento al ritorno di fiamma ed è direttamente controllato dal sistema principale di comando e regolazione in funzione della potenza erogabile dalla turbina: in questo modo viene effettuata un’ottimizzazione di processo in qualunque condizione di esercizio.
Fig. 5.26. Particolare caldaia tipo (fonte: Bionertech srl – Turbec Spa)
5.2.4.3 Indicazioni sulla sostenibilità ambientale
Il flusso in uscita di gas caldi provenienti dalla caldaia a biomassa costituisce di fatto l’uni- ca emissione significativa di tutto l’impianto in quanto la turbina, in assenza di combustione, espelle soltanto aria pulita. Per garantire il rispetto della normativa vigente relativamente alle emissioni in atmosfera vengono previsti anche dei dispositivi di depurazione sui fumi, costitui- ti essenzialmente da un multiciclone, che, per la tipologia del processo, è in grado di abbassare il contenuto di polveri al di sotto delle soglie consentite.
5.2.4.4 Ingombri
Sistemi di questo tipo, composti dai moduli caldaia-turbina, dai sistemi per il trattamento, cari- co e scarico delle biomasse, occupano in genere una superficie non superiore a 200 mq.
Nelle figure seguenti sono riportati gli ingombri in alcune possibili configurazioni d’impianto.
Fig. 5.27. Particolare del sistema Fig. 5.28. Rendering dell’ impianto di alimentazione (Fonte: Bionertech srl – Turbec Spa)
5.2.4.5 Potenzialità e rendimenti operativi
Possono essere impiegati pertanto diversi tipi di combustori (caldaie) con una potenza termica al focolare di circa 5 volte la potenza elettrica producibile (ad esempio per un sistema con microturbi- na ad aria di potenza nominale 100 kW è necessario installare una caldaia da almeno 500 kW).
Ad oggi, nel momento in cui tali sistemi stanno di fatto facendo la loro comparsa sul mercato, il rendimento elettrico netto complessivo risultante è intorno al 14-16%, leggermente inferiore a quelli dei sistemi basati su ciclo Rankine Organico (ORC)3, vantando però una minore com- plessità tecnologica e funzionale complessiva.
Tab. 5.4. Caratteristiche tecniche impianto con microturbina alimentata ad aria
prestazioni tipo | |
Temperatura di xxxxxxxx xxxxxxx | 000 xX |
Xxxxxxxxx xx xxxxxxxx xxxxxxx | 4,5 bar |
Alimentazione caldaia | Biomassa |
Tipo di Generatore | Trifase |
Potenza elettrica di avviamento | 15 kWe |
Consumo orario di combustibile | dai 120 ai150 kg |
Potenza elettrica al netto degli autoconsumi | dai 75 agli 80 kWe |
Rendimento elettrico | 14-16 % |
Rendimento complessivo dell’impianto | 84% |
Potenza termica utilizzabile | 300 kWt |
Ore stimate funzionamento annuo minimo | 7.000 |
Temperatura acqua calda generata dallo scambiatore | 80/90°C |
5.2.5 Gassificatori
In termini generali, la gassificazione e la pirolisi sono due processi di conversione termochimica che avvengono rispettivamente in parziale (gassificazione) o pressoché totale assenza (pirolisi) di ossigeno attraverso i quali un combustibile solido è trasformato in un combustibile gassoso assimilabile al metano, fatto salvo il diverso potere calorifico (pci) sensibilmente inferiore.
Nel dettaglio la biomassa, portata ad alta temperatura in limitata presenza di ossigeno, si de- compone producendo essenzialmente vapori, aerosol e piccole quantità di gas lasciando un residuo solido ricco in carbonio (char). In seguito ad un processo di raffreddamento e condensa- zione i composti organici condensabili formano una fase liquida scura (bio olio o tar).
5.2.5.1 Gassificazione
Il processo consiste nell’ossidazione incompleta di una sostanza in ambiente ad elevata tem- peratura (900÷1.000°C) per la produzione di un gas combustibile (detto gas di gasogeno o anche syngas) di basso potere calorifico inferiore, variabile tra i 5.000 kJ/Nm3, nel caso più
3 Impianti che hanno un maggiore tasso di consolidamento e affidabilità, in quanto hanno da tempo superato ogni fase di test e sperimentazione.
diffuso dei gassificatori ad aria, ed i 12.000 kJ/Nm3, nel caso dei gassificatori ad ossigeno. Valori intermedi (10.000 kJ/Nm3) si ottengono nel caso di gassificatori a vapor d’acqua.
Il processo avviene con l’ausilio di un agente di gassificazione che può essere:
• l’aria: è la tecnologia più semplice ma il gas prodotto ha basso potere calorifico perché contiene molto azoto che lo “diluisce”
• l’ossigeno: l’assenza di azoto permette di ottenere migliore qualità del gas (maggiore
potere calorifico)
• il vapore: è più economico rispetto all’ossigeno e il gas ha un maggiore contenuto di idrogeno.
Le tecniche di gassificazione sono molteplici, anche se ad oggi poche si sono affermate com- mercialmente. Per la combustione in piccola taglia (inferiore ad 1 MWe) possono essere impie- gati gassificatori a pressione atmosferica a letto fisso, per i quali vi è ormai una tecnologia tutto sommato consolidata soprattutto per le biomasse ligneo - cellulosiche.
Altre tecnologie di gassificazione, invece, come il Fluid Bed (letto fluido), Circulated Fluid Bed (letto fluido ricircolato) e il Fast Fluid Bed (letto fluido veloce) sono in fase di sviluppo e si pre- stano a taglie di impianto che vanno dai 2-3 MWe fino oltre 50 MWe.
Fig. 5.29. Esempio di reattore di gassificazione
biomassa
aria
gas grezzo
ceneri
Nel dettaglio, la composizione caratteristica del gas ottenuto da biomasse con umidità intorno al 10-15%, utilizzando come agente gassificante l’aria, è compresa nei seguenti valori:
Tab. 5.5. Composizione del gas ottenuto nel processo di gassificazione (agente aria)
H2 | 8% - 15% |
O2 | 1,5% - 3% |
N2 | 40% - 54% |
CH4 | 0,2% - 1,2% |
CO | 17% - 20% |
CO2 | 8% - 10% |
Sono inoltre presenti H2O e catrami.
In generale i problemi connessi alla gassificazione si incontrano a valle del processo e sono legati principalmente alle impurità presenti nel gas (polveri, catrami e metalli pesanti).
5.2.5.2 Pirolisi
La pirolisi è una degradazione termica che avviene sia in completa assenza di un agente ossi- xxxxx sia con una sua limitata presenza in quantità tali da non causare gassificazione. Come per la gassificazione, dal combustibile di bassa qualità in ingresso si ricava un combustibile solido o carbone vegetale (char), un combustibile liquido (tar) e un gas, o meglio una miscela combustibile gassosa costituita prevalentemente da Monossido di Carbonio (CO), Anidride Carbonica (CO2), Idrogeno (H2) e Metano (CH4), dotata di un contenuto energetico che la rende idonea all’impiego in motori endotermici o turbine; sono inoltre presenti tracce di idrocarburi vapore, azoto e vari contaminanti.
Poiché le reazioni che avvengono sono prevalentemente endotermiche (trattandosi di rea- zioni che portano alla rottura di catene lunghe di idrocarburi con la formazione di catene con minor numero di atomi di carbonio), si deve fornire calore: esso è generalmente assicurato dall’esterno ed anche una parziale gassificazione può essere impiegata per dare calore diretta- mente. Si lavora comunque a temperature relativamente basse, comprese tra 300 e 800°C, e il reattore deve permettere il massimo controllo del quantitativo di aria fornito al processo.
Si possono individuare le seguenti tipologie di pirolisi:
• pirolisi lenta: avviene a bassa temperatura e lunghi tempi di reazione per massimizzare la resa in char a circa il 30% in peso, comprendendo circa il 50% del contenuto energeti- co dell’alimentazione;
• flash pirolisi a bassa temperatura: avviene a bassa temperatura (tipicamente a 500°C
e mai superiori a 750°C) e a grande velocità di reazione e piccoli tempi di residenza (mi- nori di 1 secondo) per massimizzare la resa in liquido (fino all’80% in peso);
• flash pirolisi ad alta temperatura:
avviene come al punto precedente, ma a temperature relativamente più alte (sopra i 700°C) per massimizzare la produzione di gas (fino all’80% in peso);
• pirolisi convenzionale:
avviene a temperature moderate (max 400 - 500°C) e velocità medie di reazione per avere una produzione uguale di gas, liquido e carbone.
Il prodotto liquido finale (tar) può essere impiegato direttamente come combustibile di bassa qualità per caldaie o essere successivamente convertito in combustibile pregiato di impiego anche motoristico. In tabella 5.6 viene schematicamente riassunto quanto sopra espresso.
Tab. 5.6. Schema riassuntivo sulle diverse tipologie di pirolisi
Gassificazione | A seconda della temperatura e della rapidità del processo avremo un prodotto primario, prevalente sugli altri | Prodotto | Prodotto |
e pirolisi | Primario | Secondario | |
Conversione termica | Olio | Liquidi - solidi - gas | |
in carenza/assenza | |||
di ossigeno | |||
Le molecole vengono | Solido | Liquidi - solidi - gas | |
scisse per puro effetto | |||
Gas | Liquidi - solidi - gas | ||
termico |
Recentemente, per ottimizzare la resa dei processi, si stanno testando degli impianti che abbi- nano la pirolisi alla gassificazione dando così origine ad un’ulteriore categoria di impianti che vengono chiamati di pirogassificazione.
Da un punto di vista chimico fisico sono presenti in sequenza due fasi: pirolisi e ossidazione controllata (gassificazione). Nella prima si produce gas di pirolisi e char; nella fase di ossida- zione controllata (gassificazione) avvengono le reazioni esotermiche che forniscono il calore necessario alle reazioni di riduzione (endotermiche) dalle quali si formano i costituenti del syngas.
Nelle figure 5.30 e 5.31 è schematizzato un processo tipo che consiste in una prima fase in cui avviene la pirolisi, generalmente a basse temperature (talvolta anche inferiori ai 400 °C): il gas ricavato può essere inviato direttamente alla sezione di purificazione ovvero immesso, previa ulteriore ossidazione parziale, nel gassificatore vero e proprio dove viene comunque “gassifi- cato” il char (carbone o coke) sottoprodotto dalla medesima pirolisi.
Fig. 5.30. Schema funzionale di un impianto di piro-gassificazione
Fig. 5.31. Schema funzionale impianto tipo (rielaborazione da X. Xxxxxxxx - Centro di Ricerca sulle Biomasse - Perugia)
Vi sono alcuni evidenti benefici derivanti dalla pirogassificazione che si possono riassumere in:
• migliore qualità (maggiore potere calorifico) del gas prodotto;
• possibilità di reimpiego del tar nel reattore di pirogassificazione;
• impiego dal char nel reattore di gassificazione per ulteriore produzione di gas e per la produzione di calore necessario all’avvio del processo.
Tab. 5.7. Caratteristiche dei processi di gassificazione, pirolisi e pirogassificazione in funzione della temperatura e delle caratteristiche energetiche del syngas prodotto ( fonte: A. Bortolazzi)
Processo | Temperatura (°C) | Prodotti | Potere calorifico gas Mj/Nm3 (kcal/Nm3) |
Pirolisi * | 250 – 400 | Gas, char, tar | >15 (> 3.580) |
Pirolisi veloce * | 400 – 500 | Gas, char, tar | 16,5 – 18,5 (3.950 – 4.450) |
Pirogassificazione * | 300 – 400 | Gas, char, tar | 18 (4.300) |
Gassificazione in aria | 900 – 1.000 | Gas | 5,5 – 7,5 (1.315 – 1.800) |
Gassificazione in ossigeno | 900 – 1.000 | Gas | 11 (2.650) |
Gassificazione in vapore H2O | < 800 | Gas | 10 (2.400) |
* a seconda della temperatura e della rapidità del processo avremo un prodotto primario, prevalente sugli altri. Dato di riferimento: potere calorifico gas metano 8.600 – 9.200 kcal/Nm3
In ogni caso si mettono in rilievo gli indubbi benefici ambientali che tali processi comportano in quanto:
1. la bassa temperatura riduce l’emissione di polveri sottili (in funzione della purezza del gas ottenuto);
2. gli ossidi di azoto sono ridotti poichè l’idrogeno ne sequestra i precursori;
3. i metalli pesanti sono ridotti notevolmente, perché data la relativamente bassa tempe- ratura ne è ridotta la sublimazione e la emissione in atmosfera;
4. la concentrazione di diossine e furani nelle emissioni è di norma inferiore ai livelli misu- rabili;
5. la percentuale finale di xxxxxx è fra il 5 e l’8 % della massa del combustibile essiccato inizialmente immesso nel reattore.
Fig. 5.32. Impianto sperimentale (foto: ENEA)
Fig. 5.33. Impianto alla scala reale (500 kWe) (foto: Solenia)
Fig. 5.34. Impianto di gassificazione in esercizio (alimentazione cippato forestale) (foto C.E.T.A.)
Fig. 5.35. Particolare reattore di gassificazione di impianto piccola taglia
Tab. 5.8. Punti deboli e punti di forza dei sistemi di gassificazione
Punti deboli dei sistemi di gassificazione | Punti di forza dei sistemi di gassificazione |
• pulizia e qualità (pci)del syngas | • elevati rendimenti di processo (75% - 85%) |
• flessibilità di utilizzo in relazione alla bio- massa utilizzata | • facilità di integrazione con sistemi generativi già esistenti (motori, turbine) |
• affidabilità (continuità) di funzionamento (7.000/8.000 h/anno) soprattutto nella ge- nerazione di energia elettrica | • possibilità di realizzare cicli combinati (elet- tricità e calore) mediante recupero termico (sezione purificazione gas; motore/turbina) |
• costi di manutenzione elevati o non sem- pre preventivabili | • “eliminazione” di agenti problematici per il comparto agricolo (ad esempio nitrati) |
• dimensioni di impianto compatibili con real- tà agricole del territorio |
Si può pertanto affermare che si è ancora in una fase di passaggio dalla prototipizzazione all’in- dustrializzazione degli impianti, con la contestuale presenza sul mercato di soluzioni tecnologi- che con un grado di sufficiente affidabilità accanto ad altre che non lo sono ancora del tutto.
5.2.5.3 La purificazione del syngas
Come si è visto il gas uscente dal reattore porta con sè una serie di sottoprodotti indesiderati quali polveri, catrami e metalli pesanti che devono essere debitamente rimossi prima di poter impiegare lo stesso in motori endotermici o in turbine.
Da un punto di vista tecnologico le soluzioni possono essere molteplici e tutte con buoni livelli di efficienza; ciò che tuttavia rimane ancora un ostacolo, non tanto di carattere tecnico bensì economico – funzionale, è rendere compatibile con l’investimento la sezione di pulizia del syn- gas in impianti di taglia piccola o medio piccola: infatti il costo complessivo di tale sezione può incidere, in termini percentuali, significativamente; esso inoltre aumenta proporzionalmente al livello di purezza che deve avere il syngas.
In Tab. 5.9 sono riassunti i principali problemi che un sysngas non debitamente depurato può causare nello stadio di produzione di energia elettrica (nell’esempio si considera l’uso di una turbina).
Tab. 5.9. Problemi che si possono riscontrare con l’utilizzo di syngas non debitamente purificato
Contaminante | Problemi |
Particolato | Erosione delle palette della turbina, inquinamento atmosferico |
Alcali | Corrosione calda delle palette della turbina |
Composti azoto | Formazione NOX |
Catrami | Intasamento filtri, difficoltà combustione, depositi interni |
Zolfo, cloro | Corrosione, emissioni |
In termini generali, da un punto di vista metodologico, il gas, preventivamente raffreddato, viene sottoposto ad una fase di lavaggio ad acqua, normalmente mediante uno scrubber, e sottoposto successivamente a dei filtraggi chimico fisici o elettrostatici mediante l’impiego in serie di cicloni, elettrofiltri e/o filtri a maniche.
Tali soluzioni e le loro combinazioni funzionali vengono comunque analizzate in fase di pro- getto dell’impianto in relazione al suo dimensionamento e alla biomassa impiegata: si può comunque affermare che, proprio perché la sezione di purificazione del gas è probabilmente la parte più delicata dell’interno impianto, non esiste una soluzione “standardizzata” valida per tutti i processi.
Uno schema di filtraggio standard potrebbe/dovrebbe comunque prevedere:
• un multiciclone a secco;
• un abbattitore di temperatura aria/aria;
• uno scrubber ad acqua (a circuito chiuso);
• un compressore con nebulizzazione acqua;
• un ciclone di separazione acqua;
• un condensatore;
• un filtro a manica.
5.2.5.4 Utilizzo del Syngas
Da quanto finora visto, la condizione necessaria per l’impiego del syngas come combustibile è la sua pulizia da impurità, soprattutto per evitare di intervenire con eccessiva frequenza nella manutenzione (programmata e non) dei sistemi di generazione dell’energia elettrica (motori o turbine).
Tuttavia, al di là di inevitabili vantaggi e svantaggi che ciascuno dei sistemi (riassunti nella successiva tab. 5.10) presenta, si sottolinea la possibilità di utilizzare due approcci diversi che possono avere delle implicazioni sul livello di complessità della precedente sezione di purifi- cazione del gas.
Se infatti utilizzando motori endotermici (Otto o diesel modificati) o turbine a gas è appunto necessaria un’accurata eliminazione delle impurità del gas, si possono anche impiegare si- stemi basati sul ciclo Rankine o motori a combustione esterna (Stirling) che comportano una notevole semplificazione - tecnologica e conseguentemente economica - della sezione di pu- lizia del gas. Infatti nel caso di sistemi basati su ciclo Rankine è possibile bruciare il syngas in una “tradizionale” caldaia dotata di opportuno scambiatore di calore che riscalda un fluido organico che a sua volta cede calore per la produzione di vapore in grado di alimentare una turbina (a vapore). Nel caso di motori Stirling lo scambiatore integrato nella caldaia costituisce la sorgente calda di cui necessita il motore per il suo funzionamento.
In entrambi i casi, tuttavia, a fronte di una semplificazione impiantistica, è comunque necessa- rio preventivare una maggiore produzione di ceneri e una peggiore qualità delle emissioni in atmosfera che rendono indispensabili sistemi di filtraggio più selettivi.
Parimenti anche i rendimenti complessivi del processo (gassificazione e produzione di energia elettrico/termica) risultano inferiori a causa di un ulteriore passaggio di stato termodinamico nel caso del ciclo Rankine organico (ORC) e del minor rendimento di un motore Stirling rispet- to un motore endotermico o ad una turbina a gas.
Tab. 5.10. Vantaggi e svantaggi nell’utilizzo del syngas con i diversi sistemi.
Motori combustione interna (Diesel, Otto) | Pro | Facile reperibilità e adattabilità Rendimenti elettrici 28 – 40% |
Contro | • Il gas deve essere pulito • Possibile integrazione con combustibili fossili | |
Turbine a gas | Pro | Facile reperibilità Buona diffusione di microturbine (anche < 50kWe) Buoni rendimenti (25 –35 %) |
Contro | • Il gas deve essere pulito • Costi di investimento iniziale maggiori |
Motori combustione esterna (Stirling) | Pro | Maggiore durata Non necessita gas pulito |
Contro | • Rendimenti elettrici inferiori • Limitata diffusione • Necessaria caldaia con scambiatore termico | |
Turbine a vapore integrate in cicli particolari (ORC) | Pro | Non necessita gas pulito Efficienza elettrica superiore a turbine a gas Tecnologia consolidata |
Contro | • Rendimento elettrico complessivo basso (15-18%) • Costi di investimento maggiori • Maggiore complessità di impianto |
5.2.5.5. Indicazioni sulla sostenibilità ambientale
Per quanto concerne gli impatti ambientali e le emissioni in atmosfera degli impianti di gassi- ficazione, giova ricordare che il processo avviene in ambiente chiuso con una velocità molto più bassa rispetto ai processi di combustione: tutto il materiale organico viene degradato, per cui i residui del processo non superano mediamente, il 6-8% della massa iniziale; la materia si ritrova nel gas prodotto e nel vapore ottenuto.
Le temperature limitate di processo evitano o quanto meno riducono notevolmente, specie nella reazione pirolitica, alcuni fenomeni che avvengono solitamente nei combustori quali:
• la fusione o sublimazione (gassificazione) dei metalli e il conseguente rilascio nei fumi come particelle tossiche;
• la formazione di legami Carbonio – Cloro - Idrogeno che costituiscono le Diossine ed i Furani;
• la elevata formazione di micro e nano-polveri, trasportate nei fumi a causa della eleva- tissima turbolenza.
Le emissioni in atmosfera sono pertanto riconducibili alla combustione del syngas nelle turbine a gas
Particolare attenzione nel caso dell’impiego di reflui zootecnici meritano le emissioni di Ossidi di Azoto ( ): ovviamente l’azoto e i suoi componenti non spariscono alla fine del processo, ma fatte salve le modeste percentuali presenti nelle ceneri, si ritrovano nei fumi di combustione sotto forma di azoto molecolare (N2) e ossidi di azoto (NOX). La struttura di processo nonché
l’eventuale presenza di sistemi di filtraggio permette di ridurre le emissioni degli inquinanti come gli NOX ampiamente al di sotto dei limiti di legge, circoscrivendo pertanto l’emissione principalmente all’azoto molecolare (N2), gas che compone circa il 79% dell’atmosfera.
5.2.5.6. Dimensionamento
Considerati i rendimenti medi di processo (75%-85%) e i rendimenti medi di trasformazione dei sistemi di generazione impiegabili (motori, turbine) possiamo asserire che il rendimento elettrico medio di un impianto di gassificazione o pirolisi può variare tra il 24 e il 28%, valori teorici significativamente più elevati di altri sistemi come ad esempio quelli basati su ciclo Rankine Organico (ORC) che si attestano comunque al di sotto del 20%.
Il vantaggio di tali impianti è costituito dalla modularità degli stessi in quanto a parità di po- tenza del reattore di gassificazione è possibile adottare delle configurazioni modulari impie- gando motori o turbine di potenza standard posti in parallelo. Ad esempio un reattore della potenza di circa 2 MWt può produrre un quantitativo si syngas sufficiente alla produzione di circa 500 kWe ottenibili attraverso 2 turbine della potenza di 250 kW ovvero 4 motori da 125 kW. In tal modo sono possibili anche gestioni flessibili e programmare interventi di manuten- zione evitando dei fermo impianto generali.
Per quanto riguarda l’energia termica recuperabile sono in linea di principio almeno 3 i punti dei sistemi di gassificazione in cui si può effettuare un prelievo mediante scambiatore:
• nella sezione di condizionamento raffreddamento del syngas;
• nell’eventuale sezione di essiccazione della biomasse (uscita dall’essiccatore);
• nello scambiatore integrato delle microturbine ovvero dal circuito di raffreddamento dei motori impiegati per la generazione elettrica.
Per quanto riguarda il dimensionamento del silo di accumulo della biomassa valgono le me- desime indicazioni progettuali già indicate nella sezione dedicata alle caldaie.
5.3 Impianti per la produzione di biogas, tecnologie della digestione anaerobica
5.3.1 Il biogas in Italia
La diffusione di impianti per la produzione di biogas nel nostro Paese ha evidenziato un for- te sviluppo negli ultimi anni, grazie a mirate politiche di incentivazione per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
L’ultimo aggiornamento del censimento degli impianti di digestione anaerobica del settore agro-zootecnico, condotto dal C.R.P.A., evidenzia a Maggio 2011 la presenza di 521 impianti a biogas, di cui 130 in costruzione, per una potenza installata complessiva stimata in circa 350 MWe. Questi impianti sono localizzati per la gran parte nelle aree rurali della Pianura Padana ed in particolare in Lombardia (210 impianti), in Veneto (78 impianti), in Piemonte (72 impian- ti) ed in Xxxxxx Xxxxxxx (63 impianti), regioni che concentrano oltre l’80% degli impianti pre- senti su tutto il territorio nazionale.
In particolare, il forte trend di sviluppo della filiera si è verificato a partire dall’anno 2009, a seguito dell’introduzione, come sistema di incentivazione per gli impianti di potenza inferiore ad 1 MW elettrico, della tariffa onnicomprensiva (0,28 €/kWh elettrico per 15 anni).
Come si evince dalla figura 5.36 (numero di impianti) e dalla figura 5.37 (potenza complessiva installata), dal 2008 al 2011 il numero di impianti operativi o in costruzione è più che triplicato. In particolare è aumentato considerevolmente il numero di impianti di taglia inferiore ad 1 MWe, i quali rappresentano circa l’86% degli impianti censiti. Tra gli impianti di taglia inferiore a 1 MWe, il 65% presentano una potenza superiore ai 500 kWe.
Fig. 5.36. Trend del numero di impianti di biogas agro-zootecnici (fonte: C.R.P.A.)
Operativi In costruzione
130
391
294
205
150
120
72
79
86
97
50
56
63
600
500
Numero impianti
400
300
200
100
0
Ante
2000
2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
Fig. 5.37. Trend della potenza elettrica installata negli impianti di biogas agro-zootecnici
(fonte: C.R.P.A.)
400,0
Potenza elettrica (MW)
350,0
300,0
250,0
200,0
150,0
100,0
50,0
0,0
Operativi In costruzione
108,1
241,6
160,5
98,5
54,8
31,5
19,6
3,3
3,7
3,8
5,3
6,6
11,0
Ante
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011
Per quanto attiene alle biomasse utilizzate per la produzione di biogas (fig. 5.38), il 58% degli im- pianti impiega effluenti zootecnici in co-digestione con colture energetiche e scarti dell’agro-indu- stria; questi impianti rappresentano oltre il 70% della potenza installata complessiva. Il 29% degli impianti opera invece con soli effluenti zootecnici, con una quota di potenza installata di poco superiore al 22%. Infine, il 13% degli impianti non impiega reflui zootecnici, bensì colture dedicate con sottoprodotti dell’agro-industria, e rappresenta circa il 7% della potenza complessiva.
Fig. 5.38. Distribuzione degli impianti agro-zootecnici in funzione della tipologia di sub- strato utilizzato (fonte: C.R.P.A.)
SOTTOPRODOTTI AGROINDUSTRIALI
+
COLTURE ENERGETICHE
EFFLUENTI ZOOTECNICI + SOTTOPRODOTTI AGROINDUSTRIALI + COLTURE ENERGETICHE
SOLO
EFFLUENTI ZOOTECNICI
Effluenti zootecnici +
Solo effluenti zootecnici
agroindustriali + colture energetiche
Il Piano di Azione Nazionale (PAN) per le energie rinnovabili in Italia, in attuazione della Dir. 28/2009/CE, fissa un importante obbiettivo per il settore del biogas puntando ad una potenza installata pari a 1.200 MWe al 2020.
Nel PAN, inoltre, si evidenzia la necessità di consentire anche in Italia l’integrazione del biome- tano nella rete del gas naturale e di prevedere un’apposita tariffa incentivante.
La rapida crescita del settore rivela che il potenziale da parte del settore agricolo può essere di gran lunga maggiore. Considerati infatti i quantitativi disponibili di biomasse di scarto (agro- industria), di origine zootecnica, di residui colturali agricoli e di circa 200.000 ha di colture de- dicate (pari all’1,6% della SAU italiana), è stato stimato un potenziale di produzione di circa 6,5 miliardi di metri cubi gas metano equivalenti, che corrispondono all’8% del consumo attuale di gas naturale in Italia (C.R.P.A., 2011). Tale potenziale risulta pari a circa 3 volte quello propo- sto dal PAN per il biogas al 2020 (pari a circa 2 miliardi di metri cubi di gas metano equivalenti anno). Tradotto in termini di energia elettrica, la potenza installata risulta all’incirca di 2700 MWe, per una produzione di circa 20 TWh/anno di energia elettrica.
5.3.2 La digestione anaerobica
La digestione anerobica è un processo biologico, attraverso il quale la sostanza organica pre- sente nelle biomasse, in condizioni di assenza di ossigeno (anaerobiosi), viene trasformata in metano (CH4) ed anidride carbonica (CO2), i principali costituenti del biogas.
Il processo di digestione avviene in fasi distinte (figura 5.39), ma interdipendenti tra di loro, ad ognu- na delle quali sono associati diversi gruppi di microrganismi. Nelle prime fasi attraverso i processi di idrolisi, acidogenesi e acetogenesi, la sostanza organica complessa (carboidrati, proteine, grassi, ecc.) viene trasformata in molecole semplici, quali acido acetico, anidride carbonica ed idrogeno, ad opera rispettivamente di batteri idrolitici, fermentanti e acetogenici. Nell’ultima fase – la meta- nogenesi – tali composti sono trasformati in CH4 e CO2, da parte dei microrganismi metanigeni.
La conversione a biogas della sostanza organica può variare entro un ampio intervallo, com-
preso tra il 40% e il 95%, in funzione delle biomasse utilizzate, delle condizioni di processo e del tempo disponibile per la degradazione.
Fig. 5.39. Schema del processo di digestione anaerobica
SOSTANZA ORGANICA COMPLESSA PROTEINE CARBOIDRATI LIPIDI
IDROLISI
ACIDOGENESI ACETOGENESI METANOGENESI
AMINOACIDI ZUCCHERI ACIDI GRASSI
ACIDI VOLATILI
ACETATO / IDROGENO
BIOGAS
Batteri idrolitici
Batteri fermentanti Batteri acetogenici Batteri metanigeni
Le reazioni biologiche sopradescritte avvengono all’interno di appositi reattori anaerobici (di- gestori), dove sono ricreate le condizioni ottimali per la buona riuscita dell’intero processo. La complessità alla base del processo biologico di produzione del biogas rende necessario uno stretto controllo di determinati parametri al fine di garantirne il buon funzionamento, nonché di ottimizzare quanto più possibile le rese (tab. 5.11).
Tab. 5.11. Principali parametri di stabilità di processo (fonte: elaborazione CETA)
PARAMETRI DI STABILITÀ DI PROCESSO | |
Temperatura | Esistono diversi sistemi di digestione anaerobica • 25 - 40 °C (sistemi mesofili – ottimale 38-40°C) • 45 - 65 °C (sistemi termofili – ottimale 55°C) • <25 °C (sistemi psicrofili o a freddo – poco adottati) Variazioni di soli 1-2 °C all’interno dell’intervallo ottimale possono influenzare notevolmente le prestazioni del processo |
pH | Ambiente neutro, compreso tra 6,5-7,5 |
Produzione di biogas | È un parametro valido in rapporto con la “ricetta” giornaliera in alimentazione |
Qualità del biogas | La % di CH4 è funzione della tipologia di biomassa introdotta; un calo significativo della % CH4 evidenzia una disfunzione in atto del processo |
Acidi grassi volatili (AGV) | Un aumento significativo degli AGV evidenzia una disfunzione del processo; può portare ad un calo del pH (acidosi), che può comportare un blocco anche irreversibile del processo |
Alcalinità | Rappresenta la capacità tamponante del sistema che contribuisce a mantenimento di un pH neutro. Un sistema stabile presenta valori nell’ordine di 2500-5000 mg CaCO3/l |
Rapporto AGV / alcalinità | Solitamente se < 0,3 è indice di operatività stabile del digestore |
Rapporto carbonio / azoto nella biomassa | Deve essere compreso tra 20 e 40 per evitare deficit o eccesso di azoto |
Presenza di sostanze tossiche | Ammoniaca, metalli pesanti, salinità elevata |
Presenza di micronutrienti essenziali | Cobalto, Nichel, Zolfo, Ferro, Selenio, Molibdeno, Selenio. Un loro sovradosaggio deve essere evitato per non indurre fenomeni di tossicità |
Oltre a CH4 e CO2, nel biogas sono presenti vapore acqueo ed altri gas in concentrazioni mi- nori, tra cui l’idrogeno, l’azoto, l’idrogeno solforato. La composizione del biogas dipende fon- damentalmente dalle caratteristiche del materiale organico di partenza. Biomasse ricche in grassi e proteine determinano percentuali di CH4 più elevate, rispetto a biomasse ricche in carboidrati. Il potere calorifico del biogas è direttamente proporzionale al suo contenuto in metano. In tabella 5.12 è riportato un quadro delle possibili caratteristiche qualitative medie di un biogas di origine agro-zootecnica.
Tab. 5.12. Caratteristiche del biogas
Metano | 50-75% |
Anidride carbonica (CO2) | 25-45% |
Idrogeno (H2) | 1-10% |
Azoto (N2) | 0,5-3,0% |
Monossido di carbonio (CO) | 0,1% |
Idrogeno solforato (H2S) | 0,02-0,2% |
Acqua (H2O) | Saturazione |
Potere Calorifico Inferiore (P.C.I.) | 18,8-21,6 MJ/Nm3 |
5.3.3 Le biomasse per la produzione di biogas
Le matrici impiegate per la produzione di biogas (substrati) sono biomasse ricche in sostanza organica. Tradizionalmente i principali substrati utilizzati sono stati i fanghi di depurazione ed in una fase successiva gli effluenti zootecnici. Oggi l’impiego anche di altre biomasse (anche in co-digestione) con una maggiore densità energetica, quali colture dedicate, residui colturali e scarti agro-alimentari, consente di aumentare la produzione energetica e l’efficienza comples- siva degli impianti.
Le principali matrici di provenienza agricola e agro-industriale sono:
Effluenti zootecnici
La produzione di biogas da effluenti zootecnici di allevamento dipende non solo dalla specie allevata, ma anche da altri fattori quali lo stadio di accrescimento e la modalità di stabulazione. Sono principalmente impiegati gli effluenti di bovini (liquame/letame) e i liquami suini. Meno diffuso è l’utilizzo della pollina che presenta alcune criticità (elevata concentrazione di azoto, presenza di “marmorino”, ecc.).
Residui colturali
Si tratta di residui provenienti dai raccolti agricoli quali foraggi, frutta e vegetali di scarsa qualità, percolati da silos e paglia che possono essere addizionati come co-substrati alle deiezioni animali. Colture dedicate
In questo caso si considerano colture dedicate quelle piante specificatamente coltivate per l’avvio alla digestione anaerobica per la produzione di biogas. Nel Centro-Nord si prestano alla produzione di biogas le colture da insilato quali mais ceroso, sorgo, triticale, segale, loiessa. Nel Centro-Sud, dove la disponibilità di acqua è più limitata, si può far ricorso a cereali autunno vernini (grano, orzo, triticale), oppure a colture a ciclo primaverile-estivo, con basse esigenze idriche (sorgo, girasole). La convenienza nel loro utilizzo deve essere valutata in funzione del costo di approvvigionamento, della possibilità di stoccaggio e della disponibilità di superfici per la distribuzione del digestato.
Scarti/sottoprodotti
L’industria agro-alimentare lavora ingenti quantità di prodotti agricoli e produce reflui che spesso sono avviabili alla digestione anaerobica. Alcuni esempi sono il siero di latte dell’in- dustria casearia, i reflui liquidi dell’industria di lavorazione della frutta, gli scarti organici di macellazione dell’industria della carne. Queste matrici possono essere addizionate come co- substrati nella digestione di liquami zootecnici.
In merito all’impiego di sottoprodotti agro-industriali in ogni caso è fondamentale una valuta- zione attenta sia degli aspetti tecnici (modalità di conservazione, di alimentazione, i dosaggi, ecc.), sia degli aspetti formali che ne derivano (l’inquadramento normativo ed autorizzativo, la classificazione e l’impiego del digestato, ecc.).
La resa energetica dei vari substrati è strettamente legata alla quantità e alla qualità della so- stanza organica in essi contenuta; sono questi infatti a condizionare la resa specifica di conver- sione in biogas e la percentuale in metano (tabella 5.13).
Tab. 5.13. Resa in biogas e percentuale in metano in funzione della tipologia di substrato
(Fonte: elaborazione CETA)
SUBSTRATO | Resa biogas Nm3/t SV (*) | Resa biogas Nm3/t tal quale | Contenuto in metano % |
ALLEVAMENTO | |||
Liquame bovino | 000-000 | 00-00 | 55-60 |
Letame bovino | 000-000 | 00-00 | 55-60 |
Liquame suino | 000-000 | 00-00 | 60-65 |
AGRICOLTURA | |||
Insilato di mais | 600-680 | 190-210 | 52 |
Insilato di sorgo | 500-560 | 140-160 | 52 |
Insilato di triticale | 550-650 | 170-200 | 53 |
Insilato di erba | 500-550 | 130-140 | 52 |
AGRO-INDUSTRIA | |||
Siero di latte | 670 | 30 | 58 |
Buccette di pomodoro | 350 | 80 | 55 |
Polpa di patate | 580 | 100 | 52 |
(*) SV = Solidi Volatili, frazione della sostanza secca costituita da sostanza organica
In linea generale occorre porre attenzione ai punti di forza e di debolezza di ciascuna tipologia di biomassa utilizzabile. Le colture energetiche sono caratterizzate da rese energetiche elevate e certe, ma anche da costi di produzione/approvvigionamento elevati, spesso correlati ai prez- zi di mercato delle corrispondenti produzioni alimentari (es. granella di mais e mais insilato). Le biomasse di scarto sono invece caratterizzate da rese energetiche variabili, con disponibi- lità temporali diversificate in relazione alla matrice organica considerata, ma con un costo di approvvigionamento nullo o comunque minimo.
La scelta della tipologia e della potenza di un impianto di biogas deve quindi tenere in forte considerazione l’aspetto relativo alla natura, alla disponibilità ed al costo della matrice orga- nica da utilizzare.
5.3.4 L’impiego del biogas
L’uso energetico del biogas può avvenire con diverse modalità (figura 5.40):
1. combustione diretta in caldaia, per la sola produzione di energia termica;
2. combustione in un cogeneratore, per la produzione combinata di energia termica ed elettrica. Il calore prodotto può essere ulteriormente sfruttato in sistemi ad assorbimen- to per la produzione di energia frigorifera (trigenerazione);
3. produzione di biometano (autotrazione o immissione nella rete gas).
L’impiego attualmente più diffuso è la produzione di elettricità e di calore mediante sistemi di cogenerazione, grazie agli incentivi esistenti che premiano la produzione di energia elettrica.
Fig. 5.40. Processi di valorizzazione del biogas
BIOGAS
DEUMIDIFICAZIONE DESOLFORAZIONE
CALDAIA
COGENERAZIONE
TRIGENERAZIONE
RIMOZIONE CO2 COMPRESSIONE
CALORE
CALORE
ELETTRICITÀ
CALORE ELETTRICITÀ
FREDDO
BIOMETANO
AUTOTRAZIONE
RETE GAS NATURALE
Il biogas può essere utilizzato per la combustione diretta in caldaia e la produzione di energia termica. Tale utilizzazione è stata predominante negli impianti costruiti negli anni ’80, diffusi presso gli allevamenti suinicoli annessi ai caseifici dove forte è il fabbisogno di calore per il processo di caseificazione.
La forma di utilizzazione del biogas attualmente più diffusa è quella della produzione di ener- gia elettrica e termica in cogenerazione. Da 1 m3 di biogas è possibile così produrre circa 1,8- 2,0 kWh di energia elettrica e 2-3 kWh di energia termica. La cogenerazione ha il vantaggio di sfruttare al meglio l’energia contenuta nel biogas, anche a copertura dei fabbisogni energetici dell’impianto stesso, che indicativamente rappresentano il 5-10% dell’energia elettrica pro- dotta ed il 25-30% dell’energia termica.
Per l’alimentazione di caldaie e cogeneratori sono richiesti alcuni semplici pretrattamenti del biogas, finalizzati alla rimozione dell’umidità e dell’idrogeno solforato (H2S), con lo scopo di evitare problemi di corrosione dell’impianto.
Il Biometano
Il biometano è ottenuto dal biogas mediante un processo denominato “upgrading” (rimozione della CO2), associato ad un trattamento di purificazione (rimozione di H2S, ammoniaca, acqua, particelle solide). Il gas ottenuto contiene circa il 95-98% di metano, è chimicamente analogo al gas naturale e, come tale, può essere immesso nella rete di distribuzione. La destinazio- ne finale può essere quindi l’utenza domestica (riscaldamento e cottura), la cogenerazione in impianti centralizzati (ove il calore prodotto possa essere usato in maniera più efficiente), le stazioni di rifornimento di carburante per veicoli a metano (l’Italia possiede il più grande parco macchine a metano d’Europa).
Questa pratica è già largamente diffusa in alcuni paesi europei (Germania, Austria, Svezia, Da- nimarca). In Europa infatti esistono oltre 110 impianti di upgrading, operativi ed in costruzione,
77 dei quali immettono nella rete un quantitativo di circa 350 milioni di m3 di metano/anno (Fonte: IEA e German Energy –Agency).
E’ evidente come questa applicazione consenta un impiego più flessibile ed efficiente del bio- gas, con un enorme potenziale di sviluppo in particolare nel nostro Paese che presenta una rete di distribuzione tra le più estese e capillari al mondo.
In Italia, come stabilito dal Decreto Rinnovabili (d.lgs. 28 del 3/3/2011), si attende a breve l’emanazione delle direttive relative alle condizioni tecniche ed economiche per l’erogazione del servizio di connessione di impianti di produzione di biometano alle reti del gas, nonché la definizione del contesto incentivante.
Fig. 5.41. Valorizzazione del biometano per autotrazione o in immissione in rete gas
5.3.5 Tecnologie per la produzione di energia da biogas
Un impianto di biogas è strutturato in unità operative, caratterizzate dalla presenza di diverse componenti tecnologiche (figura 5.42):
• Sistema di alimentazione substrati. Questa unità è predisposta alla ricezione, allo stoccaggio e all’introduzione del substrato nel digestore. In questa fase si procede alla pre-miscelazio- ne, alla pesatura ed al controllo delle varie matrici organiche utilizzate. L’unità è quindi com- posta da serbatoi e da varie attrezzature quali pompe, tramogge, coclee, ecc. (figura 5.46).
• Digestore anaerobico. Esistono varie tipologie di digestori, come diversi sono i processi di- gestivi. In linea generale comunque questa unità comprende una o più vasche, le relative coperture, il sistema di riscaldamento, i miscelatori, le valvole di sicurezza, ecc..
• Trattamento biogas. Il biogas prodotto prima di essere efficientemente utilizzato deve subire un trattamento che prevede la deumidificazione, la desolforazione, la filtrazione, ecc..
• Utilizzo del biogas. Questa unità comprende l’insieme di apparecchiature atte alla cogene- razione (motore, alternatore, scambiatore, circuito raffreddamento, scarico fumi, ecc.), alla compressione del gas, ai sistemi di controllo ed il bruciatore di emergenza (torcia).
• Installazioni elettriche ed allacciamento alla rete. Queste unità sono predisposte alla trasfor- mazione e alla cessione della energia elettrica prodotta alla rete e consta di quadri, cabina di trasformazione, contatori, ecc..
• Strumenti per l’automazione e il controllo. Un impianto di biogas è provvisto di una unità di comando potenza e controllo della centrale, per permettere di operare sia in modalità manuale che automatica; questa unità serve inoltre a monitorare il funzionamento dell’im- pianto, visualizzare dati, ecc..
• Stoccaggio del digestato ed eventuali sistemi di trattamento. Completano l’impianto la vasca di stoccaggio finale ed eventuali sistemi per il trattamento del digestato (ad es. separatore solido/liquido).
DISPOSITIVI DI SICUREZZA
DIGESTORE
STOCCAGGIO BIOGAS
MISCELATORI
SISTEMA ALIMENTAZ. BIOMASSE LIQUIDE
ACCUMULO DIGESTATO
RISCALDAMENTO
SISTEMA ALIMENTAZ. BIOMASSE PALABILI
POMPE
TUBI TRASPORTO DIGESTATO DEPURAZIONE BIOGAS
STRUMENTI DI CONTROLLO
UTENZA TERMICA
COGENERATORE COLLEGAMENTO RETE
ELETTRICA
Fig. 5.42. Schema di funzionamento del processo produttivo di un impianto di biogas
Fig. 5.43. Panoramica su alcune tipologie di digestore
Tecnologie di digestione anaerobica applicabili
Sono differenti le tecnologie di digestione anaerobica sviluppate nel corso degli ultimi anni, principalmente basate sul tenore di sostanza secca presente all’interno del digestore:
• Digestione a umido. Lavorano con un contenuto in sostanza secca inferiore al 10-12% e rap- presentano la tipologia più diffusa in ambito agricolo. Solitamente si presentano come di- gestori verticali e completamente miscelati (figura 5.44); in alternativa i digestori a umido possono essere anche a flusso orizzontale (figura 5.44a).
• Digestori a secco. I digestori a secco sono adatti alla digestione di materiali con contenuto in sostanza secca superiore al 20% (es. letame, biomasse vegetali, ecc.). La tecnologia non mol- to diffusa nel comparto agricolo ed è stata sviluppata ed applicata soprattutto nel settore del trattamento dei rifiuti solidi urbani (figura 5.44b).
Fig. 5.44. Digestore a umido verticale
Fig. 5.44a. Digestore a umido orizzontale
Fig. 5.44b. Digestore a secco
A seconda degli stadi in cui avviene la digestione anaerobica, gli impianti possono essere ave- re diverse tipologie di processo (figura 5.45):
• Processo monostadio. Le fasi di idrolisi, fermentazione acida e metanigena avvengono con- temporaneamente in un unico reattore; in generale, gli impianti di biogas agro-zootecnici sono a fase singola, seppur contraddistinti dalla presenza di due vasche (fermentatore + post-fermentatore). In realtà, è nella prima vasca che avvengono la quasi totalità dei pro- cessi di metanogenesi (90%); la presenza di una seconda vasca, sempre dotata di copertura, consente di aumentare le rese in biogas anche di più del 20% e di agevolare le operazioni di manutenzione straordinaria dell’impianto.
• Processo bistadio. Questa tipologia di processo prevede la separazione della fase di idrolisi e di acidogenesi (primo stadio) da quella metanigena (secondo stadio). I due reattori sono distinti ed in generale il primo ha dimensioni inferiori rispetto al secondo. Questa tipologia di processo è funzionale a massimizzare l’efficacia e l’efficienza dei diversi gruppi microbici che operano nelle diverse fasi, agendo sui diversi parametri di esercizio (es. pH più bassi per la prima fase, pH neutri per la fase metanigena). Sono quindi caratterizzati da rese di conver- sione in biogas maggiori, ma hanno costi di impianto e di esercizio maggiori.
Fig. 5.45. Tipologia di processi di digestione anaerobica
BIOGAS
BIOGAS
MONOSTADIO BISTADIO
fermentatore post-fermentatore
Componenti dei digestori
I digestori anaerobici sono reattori costruiti in cemento armato o in acciaio, dotati di diverse componenti finalizzate a ricreare le condizioni ideali per lo svolgimento delle reazioni biochi- miche che portano alla produzione del biogas. In particolare, i componenti di maggior rile- vanza sono:
• Sistema di riscaldamento. L’odierna tecnica impiantistica tende a privilegiare le condizioni mesofile o termofile; ne deriva la necessità di controllare con particolare accuratezza le tem- perature di processo, che devono essere stabili. La temperatura di processo viene mantenu- ta costante mediante un apposito sistema di riscaldamento. Esso è costituito da una serie di tubazioni (in acciaio inox o PVC) disposte normalmente sulle pareti interne del digestore, nelle quali circola acqua calda prodotta dalla cogenerazione (figura 5.46a). Alcune soluzioni impiantistiche, di concezione industriale, prediligono invece sistemi di riscaldamento ester- no, al fine di consentirne la manutenzione periodica senza necessità di svuotamento del digestore.
• Sistema di miscelazione. Ha la funzione di uniformare la temperatura all’interno del reattore, di miscelare il substrato per assicurare una miscela omogenea in ogni sua parte durante la fermentazione, di evitare la formazione di stratificazioni e di favorire la risalita del biogas. Sono solitamente sistemi a basso regime di rotazione e rappresentano spesso una buona percentuale del consumo di energia elettrica dell’impianto. Il loro funzionamento viene temporizzato e limitato quindi a qualche ora al giorno. Esiste un’offerta molto diversificata di sistemi di miscelazione, che possono essere a pala, a elica o di tipo idraulico (figura 5.46b). Alcune soluzioni prevedono la possibilità, mediante appositi pozzetti di servizio, di estrarre il miscelatore per consentirne la manutenzione periodica.
• Coibentazione. Al fine di limitare quanto più possibile la dispersione di calore, sono utiliz- zati materiali isolanti, quali lana roccia, polistirene espanso, schiuma di poliuretano, per rivestire esternamente le pareti del digestore. Come alternativa alla coibentazione, se le condizioni del terreno lo consentono, il digestore può essere interrato, quanto meno par- zialmente.
• Copertura gasometrica. Il biogas prodotto è trattenuto nella parte superiore del digestore, tra la superficie liquida e la copertura. I digestori possono avere tetti fissi o mobili. Il tetto fisso lascia uno spazio libero tra la superficie del liquido e la base del coperchio stesso. Il gas deve essere perciò accumulato in un recipiente esterno (gasometro). La soluzione più diffusa è la copertura mobile che fornisce un volume disponibile variabile: il biogas viene raccolto da una copertura a forma di calotta sferica ancorata alle pareti del reattore, oppure in alcuni casi galleggiante (figura 5.46c). Solitamente è costituita da materiale polimerico e può presentare una, due o tre membrane:
- copertura a cupola semplice: non è pressurizzata ed è costituita da un telone di materiale flessibile ancorato sul perimetro della vasca;
- copertura a cupola a doppia o tripla membrana: è fissata al bordo della vasca e costruita con due o tre strati sovrapposti di membrane; quelle più esterne costituiscono una came- ra d’aria che funge da elemento di spinta pneumatica sulla membrana più interna, che racchiude il biogas;
- copertura galleggiante: sono membrane che galleggiano sulla superficie libera del ma- teriale in digestione, dotate di un sistema di zavorra realizzato con tubi flessibili riempiti con acqua, per garantire la pressione di accumulo del biogas. Sono tipiche degli impianti semplificati, nati da vasche x xxxxxx di stoccaggio di liquami pre-esistenti.
Fig. 5.46. Caricamento delle biomasse solide: tramogge di carico dotate
di coclee e nastri trasportatori
Fig. 5.46a. Sistema di riscaldamento:
tubazioni in acciaio inox o PE posizionate nella parete interna del digestore; scambiatori esterni
Fig. 5.46b. Sistema di miscelazione:
miscelatori a pale; miscelatore idraulico con motore esterno; miscelatori ad elica
con motore esterno
Fig. 5.46c. Copertura gasometrica: copertura con soletta in calcestruzzo o telo gasometrico
5.3.6 Il digestato
Il digestato è il residuo della digestione anaerobica. Si tratta di un prodotto dalla composizio- ne e dalla consistenza variabile, in funzione dei substrati in entrata e delle modalità di condu- zione dell’impianto. Il digestato è un buon materiale fertilizzante, ad effetto concimante più o meno pronto a seconda della sua origine (tabella 5.14).
Tab. 5.14. Caratteristiche del digestato in funzione della matrice organica utilizzata (fonte: C.R.P.A.)
Parametri chimici | Unità di misura | Digestato da liquami suini | Digestato da liquami bovini + biomasse vegetali | Digestato da biomasse vegetali |
pH | - | 8,3 | 7,8 | 7,9 |
Solidi totali (ST) | % t.q. | 3,0 | 4,3 | 6,8 |
Solidi volatili (SV) | % ST | 52 | 66 | 65 |
Azoto totale (NTK) | g/kg t.q. | 3,9 | 3,8 | 4,0 |
Azoto amminiacale | % NTK | 77 | 62 | 53 |
Fosforo totale | g/kg t.q. | 0,8 | 0,5 | 0,5 |
La digestione anaerobica porta alla stabilizzazione della sostanza organica; in questo processo anche l’azoto organico viene “liberato” e rilasciato come azoto minerale (ammonio), conferen- do al digestato proprietà di fertilizzante a “pronto effetto”.
Dal grafico riportato in figura 5.47 si evidenzia l’aumento della proporzione di azoto ammo- niacale rispetto all’azoto organico, in seguito al processo di digestione. Le quote di azoto or- ganico e di ammonio che si ritrovano nel digestato dipendono dalla “dieta” del digestore. Ad esempio, con solo reflui zootecnici, l’azoto caricato nel digestore è già prevalentemente am- moniacale (fino al 70-75% dell’azoto totale nei liquami suini); viceversa, caricando biomassa vegetale, l’azoto è prevalentemente organico.
Da ciò consegue che nel digestato prodotto da soli liquami, la quota di ammonio potrà arri- vare fino all’80-85%. Nel caso, invece, del digestato con componente vegetale (insilati di mais, sorgo, triticale, paglia, ecc.), la percentuale di ammonio nel digestato rappresenta circa il 50- 60% dell’azoto totale.
Fig. 5.47. Variazione della proporzione di N organico ed N ammoniacale tra biomasse pre e post digestione (fonte: C.R.P.A.)
Non tutti i digestati sono dunque uguali e il loro potere fertilizzante “a pronto effetto” è funzio- ne della quota di azoto “minerale” presente.
Numerose sono ormai le casistiche di impianti funzionanti che dimostrano che, se appli- cato secondo le corrette pratiche agronomiche di distribuzione, il digestato può essere utilizzato in sostituzione totale o parziale dei fertilizzanti chimici. I risultati infatti rivelano una complessiva corrispondenza di effetti tra il digestato e i concimi minerali, a parità di azoto efficiente.
Per valorizzare appieno il potenziale nutritivo del digestato e minimizzare le perdite, spe- cie quelle per volatilizzazione dell’ammoniaca, è necessario che la distribuzione avvenga a ridosso dell’epoca di utilizzo delle colture e che sia tempestivamente seguita da inter- ramento.
Alcuni trattamenti del digestato permettono di migliorare le caratteristiche agronomiche del prodotto. Ad esempio il digestato sottoposto a separazione solido/liquido genera una frazione chiarificata che contiene buoni livelli di azoto in forma ammoniacale, compreso quello mineralizzatosi nel corso della digestione, e una frazione solida con un’elevata per- centuale di sostanza organica parzialmente stabilizzata. La frazione chiarificata può essere quindi un buon sostitutivo del concime di sintesi, a patto che venga utilizzata in periodi coincidenti con lo sviluppo colturale e limitando le emissioni ammoniacali in atmosfera. La frazione solida, contenente sostanza organica che in funzione dell’efficienza del pro- cesso ha ancora una degradabilità più o meno elevata, può invece essere valorizzata ai fini ammendanti.
I benefici agronomici ed ambientali nell’utilizzo del digestato sono quindi imputabili a:
• Utilizzo di materiale stabilizzato (stabilizzazione della sostanza organica), igienizzato (ab- battimento/riduzione della carica microbica rispetto ai reflui zootecnici tal quali) e deodo- rato (abbattimento delle emissioni maleodoranti).
• Fluidificazione e omogeneizzazione del prodotto digerito che risulta così più facilmente distribuibile con uniformità.
• Apporto di sostanza organica (proprietà ammendante).
• Apporto di NPK (proprietà fertilizzante che consente una sostituzione dei concimi di sin- tesi).
• Riduzione delle emissioni di gas serra (riduzione delle emissioni di CO2 e di N2O).
5.3.7 Tecnologie per il trattamento del digestato
Qualora si presenti l’esigenza di una riduzione del contenuto di azoto per sottostare ai vincoli imposti dalla Direttiva Nitrati, possono essere necessari dei post trattamenti. In questo conte- sto, la produzione di energia dal biogas può rendere economicamente ed energeticamente più sostenibili i trattamenti di abbattimento dell’azoto a valle del digestore.
Le tecnologie disponibili sono molteplici e presentano diverso grado di efficienza, di comples- sità e di maturità tecnologica. Nella figura 5.48 si evidenziano le possibili applicazioni tecnolo- giche agli effluenti zootecnici e al digestato.
Fig. 5.48. Schema dei potenziali trattamenti degli effluenti zootecnici e al digestato (fon- te: Veneto Agricoltura - progetto Reducareflui)
Reflui zootecnici solidi
Reflui zootecnici liquidi
Biomasse Sottoprodotti
vegetali agro-industriali
Combustione
Digestione anaerobica
Digestione anaerobica “a secco”
Digestato tal quale
Compostaggio Estrusione Disidratazione/
Essiccazione
Separazione Liquido/Solido
Miscele batterico-enzimatiche
N2
Acque reflue con N
Fase solida
del digestato/refluo
Fase liquida
del digestato/refluo
Aree filtro forestali
Vasche vegetate
Depurazione biologica
(DN/N, SBR, MBR,
Cicli alternati, AnAmmOx)
Filtrazione
(Ultrafiltrazione, Osmosi inversa)
Cristallizzazione Sali di ammonio
Evaporazione sottovuoto
Strippaggio
N2 N2
N2
Fanghi
Acque reflue con N
Acque reflue senza N
Acque reflue con N
Concentrato liquido ricco in N
Concentrato solido ricco in N
Acque reflue con N
Acque reflue senza N
Concentrato solido ricco in N
Acque reflue con N
Concentrato solido ricco in N
Concentrato liquido ricco in N
LEGENDA:
= Materiale organico utilizzabile per produrre energia = Materiale prodotto dal processo di digestione anaerobica
(consistenza liquida o semisolida)
= Materiale di consistenza solida (palabile) prodotto a seguito di specifici trattamenti
= Materiale di consistenza liquida (convogliabile tramite condotta) prodotto a seguito di specifici trattamenti
= Composti in fase gassosa NON inquinanti, prodotti a seguito di specifici trattamenti
= Acque NON contenenti azoto,
prodotte a seguito di specifici trattamenti
= Trattamento con il quale si produce energia a partire da materiale organico
= Trattamento a carico di materiale di consistenza solida (palabile)
= Trattamento a carico di materiale di consistenza liquida (convogliabile tramite condotta)
= Trattamento a carico di materiale di consistenza solida
(palabile) o su digestato tal quale (consistenza liquida o semi-solida)
È possibile raggruppare i trattamenti in 3 grandi categorie: trattamenti meccanici, fisico-chi- mici e biologici.
Trattamenti meccanici
La separazione meccanica tra solido e liquido è il trattamento del digestato più semplice e più diffuso. Essa genera un solido palabile (con circa il 20-30% di sostanza secca) e un liquido con basso tenore di solidi (circa il 2-8% di sostanza secca), consentendo una gestione agronomica più flessibile, nonché una riduzione dei volumi di stoccaggio.
Il trattamento non porta ad una effettiva rimozione dell’azoto presente, bensì determina una ridistribuzione dello stesso.
La frazione liquida, dove si concentrano l’azoto ammoniacale e i sali solubili, presenta carat- teristiche simili a quelle di un concime e può essere distribuita in fertirrigazione. La frazione solida, ad elevato contenuto in sostanza organica ed azoto organico a lento rilascio, presenta proprietà ammendanti e può essere ceduta ad altre aziende terze, consentendo la riduzione del carico azotato aziendale.
Il processo di separazione solido liquido molto spesso è una fase fondamentale di pre-trat- tamento a monte di altri processi (nitro-denitro, compostaggio effluenti liquidi, membrane, evaporazione sottovuoto, essiccazione).
Le tecniche di separazione meccanica sono diverse (vagli, setacci, presse a vite, filtropresse a nastro, centrifughe) e sono caratterizzate da efficienze e costi di investimento e consumi energetici molto diversi. In tabella 5.15 si riportano le prestazioni di alcune tecnologie di se- parazione solido liquido.
In linea di massima la rimozione dell’azoto dipende dalla percentuale di azoto sospesa, dalla efficienza di separazione dei solidi del dispositivo, dal tipo di matrice e dal pretrattamento subito (stoccaggio, digestione). I separatori a compressione elicoidali presentano ottime pre- stazioni (specie con digestati con componenti “fibrose”) e consumi energetici contenuti. Le centrifughe permettono le maggiori efficienze di separazione, ma sono caratterizzate anche dai maggiori costi di investimento e dai maggiori consumi energetici.
Tab. 5.15. Prestazioni di diverse tecnologie per la separazione meccanica dei solidi (fonte: CETA)
Efficienza di separazione Frazione solida Consumo energetico | ||||||
Tipo di separatore | %SS | %N | %SS | % di volume rispetto al liquame in ingresso | kWh/m3 liquame trattato | kWh/kgN separato |
Separatore rotante | 00-00 | 00-00 | 00-00 | 00-00 | 0,4-1,8 | 0,5-2,4 |
Separatore a com- pressione elicoidale | 00-00 | 00-00 | 00-00 | 0-00 | 0,4-1,8 | 0,5-1,7 |
Centrifuga | 00-00 | 00-00 | 00-00 | 00-00 | 4,3-6,7 | 6,2-9,1 |
Trattamenti fisico-chimici
Con queste tipologie di trattamenti la gran parte dell’azoto viene estratto e trasferito in un “concentrato” solido, eventualmente utilizzabile come fertilizzante. Sono solitamente processi molto efficienti, ma costosi, che comunque necessitano di pretrattamenti a monte (separa- zione solido liquido, depurazione). Pur essendo tecnologie collaudate e diffuse in altri settori economici (industriale, depurazione civile), trovano ancora scarsa applicazione in campo zoo- tecnico.
L’efficienza di questi trattamenti dipende sia dalla tecnologia utilizzata (tabella 5.16) sia dalla tipologia di materiale trattato (es. concentrazione di azoto ammoniacale).
Tab. 5.16. Efficienza di separazione dell’azoto (N) e del fosforo (P) mediante diversi trat- tamenti fisico-chimici (Fonte: CETA)
Tecnologia di trattamento Distribuzione dopo trattamento* Frazione liquida** Frazione solida/ densa | ||||
Strippaggio | Azoto 20-40% | Fosforo 10-70% | Azoto 60-80% | Fosforo 30-90% |
Precipitazione della struvite | Azoto 20% | Fosforo 10% | Azoto 80% | Fosforo 90% |
Microfiltrazione e ultrafiltrazione | Azoto 50% | Fosforo 15% | Azoto 50% | Fosforo 85% |
Osmosi inversa | Azoto 5% | Fosforo 1% | Azoto 95% | Fosforo 99% |
* Regione Lombardia – ERSAF – I.I.A. Gestione e riduzione dell’azoto di origine zootecnica. Soluzioni tecnologi- che e impiantistiche - Quaderni della ricerca.
** Nei quantitativi di N presenti nelle frazioni liquide non sono considerate eventuali perdite per volatilizzazio- ne che possono avvenire durante la fase di stoccaggio. Ad esempio la Regione Veneto (All. A al Decreto 104 del 31 marzo 2008), considera che uno stoccaggio di 90 giorni può comportare una perdita di azoto ammoniacale pari al 28% dell’azoto.
Trattamenti biologici
Consentono una vera e propria riduzione della concentrazione di composti azotati, mediante la loro trasformazione biochimica in azoto molecolare allo stato gassoso (N2).
I trattamenti biologici, specie quelli nitro-denitro tradizionali, sono noti in ambito zootecnico, in particolare negli allevamenti intensivi di suini.
Sono processi efficienti, ma “energivori” e quindi costosi. In un contesto simile, la digestione anaerobica, attraverso la produzione di energia, rappresenta un’opportunità interessante per la riduzione dei costi di gestione del reflui per le aziende nelle aree a maggior criticità. Nella tabella 5.17 alcune tipologie di trattamento biologico e relative efficienza di rimozione del- l’azoto.
Tab. 5.17. Efficienza di separazione dell’azoto attraverso diversi trattamenti biologici
(Fonte: CETA)
Tipologia di trattamento | Rimozione dell’Azoto (N) |
Fanghi attivi tradizionali con nitro-denitro | 70-95% |
Trattamento XXXXXX- ANAMOX (sistemi di denitrificazione via nitro) | 95% |
Impianti SBR (Sequencing Batch Reactor) | 70-90% |
Impianti MBR (Membrane bio reactors) | > 90% |
Fitodepurazione | >50% |
5.3.8 Aspetti normativi
Il quadro normativo per la realizzazione e gestione di un impianto di produzione di biogas è piuttosto articolato ed in perenne evoluzione.
L’attuale quadro normativo si riferisce in particolare a 5 tematiche: il regime autorizzativo, gli incentivi, la fiscalità, la definizione dei sottoprodotti e la gestione del digestato. In Tabella 5.18 sono riportati i principali riferimenti normativi per il settore del biogas.
Tab. 5.18. Riferimenti normativi per un impianto di produzione di biogas (Ragazzoni, 2011)
AUTORIZZAZIONE | - Decreto legislativo 29-12-2003, n. 387 - Linee guida 18-9-2010 - Decreto legislativo 3-3-2011, n. 28 |
INCENTIVI (0,28 €/kWh fino al 31-12-2012 per 15 anni) | - Decreto ministeriale 18-12-2008 e seguenti (leggi finanziarie) - Decreto legislativo 3-3-2011 |
FISCALITÀ (attività agricola se la biomassa è prevalentemente prodotta in azienda) | - Legge n. 296/06 (Finanziaria 2007) - Sostituzione art. 2135 del Codice Civile, con art. 1 del d.lgs. 228/01 orientamento e modernizzazione del settore agricolo |
RIFIUTI E SOTTOPRODOTTI | - Decreto legislativo 16-1-2008, n. 4 “definizione di sottoprodotto” - Legge 129/2010 (art. 1, comma 3) - Decreto legislativo 3-12-2010, n. 205 |
DIGESTATO | - Direttiva nitrati, decreto ministeriale 7-4-2006 e applicazioni regionali |
Regime autorizzativo ed incentivi
Tra gli ultimi riferimenti normativi di rilievo, il decreto legislativo 3 marzo 2011 n. 28 (Decreto Rinnovabili), che recepisce la direttiva comunitaria 2009/28/CE sulla promozione della produ- zione di energia da fonti rinnovabili, definisce alcuni aspetti innovativi circa le autorizzazioni e le procedure amministrative ed il sistema di incentivazione.
In primo luogo il provvedimento stabilisce che le attività di costruzione ed esercizio di impian- ti di produzione di energia da fonte rinnovabile vengono regolate attraverso speciali procedu- re amministrative semplificate, quali la autorizzazione unica (art. 12 del d.lgs. n. 387/2003), la procedura abilitativa semplificata (Pas, che sostituisce la denuncia di avvio attività, Dia, e che per gli impianti a biogas si applica per impianti con potenza sotto i 250 kW) o la comunicazio- ne relativa alle attività di edilizia libera.
Per quanto attiene l’incentivazione degli impianti di tipo agricolo, il decreto stabilisce che gli incentivi attualmente vigenti sono validi per gli impianti che entreranno in esercizio entro il 31 dicembre 2012, ed avranno una durata di 15 anni; il decreto contemporaneamente traccia le basi per la revisione del sistema di incentivazione per gli impianti alimentati a fonti rinno- vabili che partiranno dal 1 gennaio 2013, attraverso la definizione di un sistema “base” a cui sommare “specifici bonus” legati a particolari aspetti, quale potenza nominale dell’impianto, la matrice organica utilizzata (es. effluenti zootecnici, sottoprodotti agro-industriali, colture dedicate, ecc.), uso dell’energia termica.
Classificazione delle biomasse in ingresso
Il quadro normativo rispetto all’alimentazione dell’impianto di biogas è estremamente com- plesso, in relazione al vasto paniere di matrici organiche utilizzabili. Di particolare importanza
è la definizione di sottoprodotto, in quanto su questo aspetto in parte si fonda l’utilizzo delle deiezioni zootecniche e dei sottoprodotti agro-industriali (tabella 5.19).
Tab. 5.19. Possibili classificazioni di alcune tipologie di biomassa in ingresso ad un impianto di biogas (fonte: C.R.P.A.)
TIPOLOGIA BIOMASSA | POSSIBILE CLASSIFICAZIONE |
Deiezioni zootecniche | - “Effluenti zootecnici” ai sensi del d.m. 07-04-2006 quando destinati ad uso agronomico - “Sottoprodotti” reimpiegati in altro processo produttivo - “Rifiuti” ai sensi della Parte IV del d.lgs. 152/06 |
Residui da industria agro-alimentare | - “Sottoprodotti” reimpiegati in altro processo produttivo - “Rifiuti” ai sensi della Parte IV del d.lgs. 152/06 |
Xxxxx, fanghi | - “Rifiuti” ai sensi della Parte IV del d.lgs. 152/06 |
Dopo un susseguirsi di modifiche ed integrazioni alla definizione di sottoprodotto, con il d.lgs. 3 dicembre 2010 n. 205 (recepimento della Direttiva Europea Rifiuti 2008/98/CE) viene stabili- to che una sostanza può essere considerata come sottoprodotto se rispetta contemporanea- mente i seguenti punti:
• la sostanza è originata da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza;
• è certo che la sostanza sarà utilizzata, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
• la sostanza potrà essere utilizzata direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
• l’ulteriore utilizzo è legale, ovvero la sostanza soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.
Anche con la nuova definizione di sottoprodotto il primo dei requisiti da garantire è la certezza del riutilizzo; si tratta di un concetto fondamentale per dimostrare che la sostanza in gioco non ha a che vedere con il concetto di rifiuto. La certezza dell’effettivo reimpiego del sottoprodotto in un altro processo produttivo viene dimostrata con uno specifico contratto di scambio tra i due soggetti coinvolti, il produttore e l’utilizzatore.
Inquadramento normativo del digestato
Non esiste attualmente un inquadramento normativo univoco a livello nazionale per il tratta- mento e/o l’impiego del digestato a scopi agronomici o commerciali.
In generale la qualificazione del digestato può, in funzione delle matrici di alimentazione del digestore, delle caratteristiche del ciclo produttivo e delle modalità di impiego del digestato, essere inquadrata nell’ambito della disciplina che regolamenta l’utilizzo:
• dei rifiuti;
• dell’esclusione dal regime dei rifiuti in caso di sostanze naturali non pericolose utilizzate nell’attività agricola;
• dei sottoprodotti;
• ai sensi del d.m. 7/4/2006 sull’utilizzo agronomico (attualmente riservato ai soli effluenti di allevamento).
In estrema sintesi, se nell’impianto di biogas non vengono utilizzati materiali che possano es- sere classificati come rifiuti, il digestato è assimilato a un effluente zootecnico ed il suo utilizzo agronomico è assoggettato, sulla base del d.m. 7/4/2006 (“Decreto Effluenti”), alla Direttiva Ni- trati. Viceversa, se nell’impianto sono impiegate biomasse classificate come rifiuto, il digestato è assoggettato alla Disciplina Rifiuti, ai sensi della parte IV del D.lgs. 152/2006.
Allo stato attuale si è in attesa dell’approvazione del nuovo testo del Decreto Effluenti, che prevede l’introduzione della definizione del digestato, le modalità e condizioni di utilizzo. Le modifiche in corso sono dettate dall’esigenza di fornire maggiore chiarezza e di adeguare ad una realtà agricola in evoluzione l’utilizzazione agronomica del digestato.
Un altro aspetto importante legato all’utilizzo agronomico del digestato riguarda il dosaggio di azoto, che deve essere definito nel rispetto dei vincoli stabiliti dalla Direttiva Nitrati (91/676/ CEE) e relativi provvedimenti di attuazione: 170 kg di N/ha in Zone Vulnerabili da Nitrati (ZVN) e 340 kg di N/ha in Zone Ordinarie (ZO).
La mancanza di un inquadramento del digestato a livello nazionale ha dato origine a diverse interpretazioni a livello di singole Regioni, su come definire i massimali di azoto consentiti. Tuttavia oggi prevale il criterio che nei digestati “misti” da co-digestione, solo alla frazione di azoto che deriva dai reflui zootecnici viene applicato il limite per le ZO o ZVN; il resto dell’azoto va a contribuire alla quota del fabbisogno colturale specifico. Tale criterio è quello esplicitato nei nuovi Piani di Azione per le Zone Vulnerabili da Nitrati di recente approvazione da parte delle Regioni Piemonte, Lombardia, Veneto, Xxxxxx Xxxxxxx.
5.4 Cogeneratori alimentati a biogas
5.4.1 Cogeneratori
Il biogas prodotto da un impianto di digestione anaerobica alimenta un cogeneratore costituito da un motore a combustione interna (Diesel, a ciclo Otto modificato o turbina a gas), accoppiato ad un alternatore sincrono trifase ed a uno scambiatore di calore per il recupero termico. Il rendimento elettrico migliora con l’aumentare della taglia della turbi- na o del motore, in un intervallo compreso tra circa il 28 ed il 42%; il rendimento termico è pari a circa il 40-50%.
Fig. 5.49. Esempio di impianto di cogenerazione alimentato a biogas
5.4.2 Sistemi di trattamento per il biogas
Prima del suo utilizzo a fini energetici il biogas deve essere sottoposto a opportuni trattamenti di depurazione. Riguardo agli utilizzi per la produzione di energia elettrica e termica (cogene- ratore, caldaia), la presenza di sostanze che si comportano da agenti corrosivi, come ad esem- pio l’idrogeno solforato, possono causare importanti danni agli impianti di utilizzazione.
Come evidenziato in tabella 5.20, la scelta del trattamento o dei trattamenti più opportuni dipende sia dalle caratteristiche del biogas sia dalle modalità di utilizzo previste.
Tab. 5.20. Trattamento del biogas in funzione dell’utilizzo previsto (fonte: CETA)
Inquinante | Conseguenza | Trattamento | Utilizzo |
Formazione di | |||
condensa che provoca | Separatori di condensa | - In caldaia | |
Acqua | malfunzionamenti; | apparati frigoriferi di | - Cogenerazione |
azione corrosiva | condensazione | - Gas naturale | |
potenziale | |||
Idrogeno solforato (H2S) | Corrosione dei motori, elementi elettrici | Filtri di ossidi di ferro; filtri di carbone attivo; biofiltri; lavaggio con idrossido di sodio (NaOH); lavaggio con soluzione di Sali di ferro; rimozione biologica dello zolfo mediante insuflazione di O2 | - In caldaia* - Cogenerazione* - Gas naturale |
Anidride carbonica (CO2) | La rimozione della CO2 è necessaria per aumentare il tenore di metano del biogas (gas naturale) | Assorbimento in acqua con successivo strippaggio ed emissione in atmosfera; membrane semipermeabili che trattengono selettivamente il CH4 | - Gas naturale |
* Solo in caso di presenza eccessiva di H2S
5.4.3 Sistemi di controllo ed automazione
Gli impianti di cogenerazione sono solitamente dotati di diverse tipologie di sensori (tem- peratura, pH, indicatori di livello, analizzatore biogas, ecc.), che consentono il monitoraggio costante dell’andamento del processo e della produzione energetica. Anche negli impianti più semplici il funzionamento è totalmente automatizzato, gestito dalla centralina di controllo.
Il cogeneratore è completo di sistemi di raffreddamento di emergenza (es. radiatori singoli, a doppio pacco), da una quadristica elettrica, comprendente un quadro di comando e controllo ed un quadro di parallelo rete, e dalla linea dei gas di scarico, che comprende il silenziatore e il sistema catalizzatore ossidante. Il sistema è generalmente inserito in container insonorizzati in cui sono ricavati i locali di controllo ed il sistema di recupero del calore (scambiatore a piastre su circuito di raffreddamento motore e scambiatore di calore a fascio tubero su gas di scarico).
5.5 Filiera dell’olio vegetale puro
Il comparto agricolo svolge ad oggi un ruolo fondamentale nella produzione di combustibili da biomassa in quanto è in grado di offrire un’ampia gamma di materiali che possono essere impiegati a fini energetici. Tra i prodotti che stanno attirando l’interesse del settore agricolo dal punto di vista energetico ci sono quelli derivanti dalle colture per la produzione di oli ve- getali, che rappresentano una delle potenziali materie prime da cui ricavare il combustibile da impiegare per la produzione di energia elettrica e/o termica e per i trasporti.
L’olio vegetale puro è stato riconosciuto in Italia come carburante con il Decreto Legislativo 30 maggio 2005 n. 128 che recepisce la Direttiva Europea 2003/30/CE, in cui viene defini- to “olio prodotto da piante oleaginose mediante pressione, estrazione o processi analoghi, greggio o raffinato ma chimicamente non modificato, qualora compatibile con il tipo di mo- tore usato e con i corrispondenti requisiti in materia di emissioni”. Tra le fonti energetiche sulle quali fare affidamento per il raggiungimento degli obiettivi imposti dall’Europa entro il 2020 (introduzione obbligatoria del 10% di biocombustibili in contenuto energetico) è quindi annoverato anche l’impiego di olio vegetale puro (Direttiva 2009/28/CE).
La produzione di olio vegetale tal quale avviene attraverso la spremitura di semi di piante oleaginose quali colza, girasole e soia (in ambito europeo) cui seguono diverse operazioni mirate alla rimozione delle sostanze inquinanti (acqua, impurità, fosforo, ecc). L’ottenimento dell’olio può avvenire secondo due principali modalità: in impianti industriali, con estrazio- ne meccanica seguita da estrazione chimica tramite solvente, o in impianti di piccola scala (decentralizzati) con la sola estrazione meccanica.
L’impiego di olio vegetale come combustibile nei motori può avvenire in due modi: da un lato è possibile trasformare l’olio vegetale mediante trans-esterificazione in combustibile biodiesel (utilizzabile in purezza o in miscela con altri combustibili fossili senza l’adozione di modifiche ai motori impiegati); per contro è possibile utilizzarlo tal quale in impian- ti di cogenerazione (per la produzione di energia elettrica e termica) o in motori Diesel opportunamente adattati all’impiego di olio vegetale puro con l’installazione di un kit di modifica.
A fronte della possibilità di ottenere e reimpiegare l’olio vegetale tal quale come biocom- bustibile in azienda, ad oggi la filiera agricola può assumere un ruolo particolarmente in- teressante. In questo modo è possibile ottenere una produzione decentralizzata su piccola scala di biocarburante per l’impiego nei cogeneratori o nei motori agricoli da autotrazione, a seguito di investimenti relativamente contenuti.
La filiera agricola permette di adottare un modello consortile, dove il servizio di spremitura è funzionale da una parte all’ottenimento di un biocombustibile immediatamente utilizza- bile come fonte energetica, dall’altra alla produzione di un panello proteico risultante dalla spremitura a freddo del seme, che può essere impiegato nell’alimentazione zootecnica o, a sua volta, ai fini energetici. Il panello proteico costituisce i 2/3 del risultato della spremitura e costituisce un’interessante fonte integrativa del reddito aziendale.
Quella dell’olio vegetale puro è quindi una filiera energetica corta, che sfrutta tecnologie consolidate, con produzioni, energetiche e non, diversificate ed è inoltre caratterizzata da elevati livelli di efficienza energetica complessivi; si tratta di una filiera prontamente attuabi- le da parte di quella imprenditoria agricola che voglia differenziare le proprie produzioni. Sostanzialmente la filiera può essere suddivisa in fasi distinte:
• la coltivazione della coltura oleaginosa (colza, girasole, soia, ecc.) ed il condiziona- mento del seme oleoso ottenuto;
• la spremitura meccanica dei semi e la filtrazione dell’olio vegetale grezzo; in questa fase si ottiene un importante sottoprodotto, il panello proteico;
• l’utilizzo energetico dell’olio vegetale e la destinazione zootecnica, energetica o altro del panello proteico.
Tab. 5.21. Fasi di produzione dell’olio vegetale, principali caratteristiche
Fase | Funzioni principali e caratteristiche |
Stoccaggio del seme | Si effettua in aree di stoccaggio possibilmente separate da agenti atmosferici e biologici che possano alterare le qualità chimico fisiche del prodotto |
Preparazione del seme | Prima della spremitura il seme viene vagliato e successivamente può essere decorticato e/o riscaldato |
Spremitura del seme | Avviene con pressa continua |
Stoccaggio del panello proteico | Deve avvenire in luogo areato ed asciutto |
Sedimentazione dell’olio grezzo | Prima di essere filtrato l’olio grezzo viene stoccato in serbatoi; le parti solide sedimentano e in tal modo vengono separate dalla massa liquida |
Filtrazione dell’olio grezzo | Avviene mediante filtri a cartone o per centrifugazione |
Stoccaggio dell’olio grezzo | L’olio filtrato viene stoccato in serbatoi |
Negli ultimi anni si sono diffusi soprattutto in Austria e Germania numerosi casi di oleifici agri- coli decentralizzati (più di 300 solamente in Germania); in queste nazioni infatti, l’impiego di olio vegetale come carburante risulta più vantaggioso grazie al sistema di tassazione agevola- to, che prevede l’esenzione dal pagamento di accise per i biocarburanti. La normativa relativa alle caratteristiche chimiche dell’olio di colza destinato ad essere usato come biocarburante (DIN V 51605) infatti nasce proprio dall’esperienza tedesca.
In Italia lo sviluppo del mercato dell’olio vegetale puro basato sul coinvolgimento di frantoi locali gestiti da aziende agricole, in forma singola o associata, è fortemente influenzato e vin- colato dall’attuale quadro legislativo e fiscale di riferimento. Infatti è ancora previsto il paga- mento dell’accisa per l’impiego dell’olio vegetale puro come carburante per autotrazione e non si è ancora strutturato un adeguato sistema di incentivazione del recupero di energia termica da sistemi di cogenerazione.
5.5.1 Sistemi di estrazione dell’olio
Un impianto di spremitura meccanica si compone di due diverse sezioni, una riguardante la gestione e preparazione del seme (stoccaggio, vagliatura, pulizia, decorticazione e condizio- namento) ed una riguardante la vera e propria estrazione dell’olio grezzo, mediante presse meccaniche a freddo.
La preparazione del seme oleoso
Il seme oleoso, prima di essere avviato alla spremitura meccanica, deve essere opportunamen- te pulito ed essiccato per garantire l’ottenimento di un olio vegetale di qualità e per ottimizza- re i rendimenti di spremitura.
La pulizia da materiali ferrosi, pietrisco e terra, derivanti dalle operazioni di raccolta in campo e di trasporto nei sili, si rende necessaria per ottenere un prodotto di buona qualità e preservare l’integrità dell’impianto. I materiali metallici vengono facilmente eliminati con elettromagneti; per quelli non metallici, invece, si ricorre a sistemi meccanici e pneumatici, come vibrovagli e soffianti.
Fig. 5.50. Impianto di vagliatura dei semi oleosi
Durante lo stoccaggio l’umidità del seme deve essere inferiore al 9% per garantirne la conserva- zione; questo parametro incide notevolmente anche sul rendimento di spremitura (i valori otti- mali sono compresi tra il 5-7%) e sui tempi di conservazione del panello proteico (Picco, 2008). In alcuni casi può essere considerata la possibilità di decorticare il seme prima della sezione di spremitura, al fine di eliminare parte dello strato protettivo lignocellulosico che caratterizza alcuni semi (es. girasole): tale strato infatti non contiene olio e ha un contenuto proteico gene- ralmente modesto. La decorticazione consente di diminuire la dimensione delle presse e la re- lativa abrasione, di migliorare la qualità dell’olio (cere) e di facilitare la fase di filtrazione. Resta comunque una possibilità da considerare attentamente in relazione ai costi del trattamento ed ai relativi benefici qualitativi.
Il condizionamento del seme può prevedere una fase di pre-riscaldamento fino ad una tem- peratura di 40 °C, per aumentare la velocità di estrazione dell’olio, rendere più efficiente il drenaggio della matrice proteica ed ottimizzare la successiva fase di pulizia dell’olio grezzo, in particolare nei periodi autunno-invernali.
Ottenimento dell’olio vegetale puro (OVP)
L’estrazione dell’olio nel frantoio agricolo decentralizzato avviene per mezzo della spremitura di semi oleaginosi con una pressa meccanica a freddo. Scopo della tecnologia di estrazione è la separazione di grassi e proteine, fra loro immiscibili, pervenendo all’isolamento di ciascuno con il massimo grado di purezza e di rendimento, al costo minore, evitando l’insorgere di rea- zioni collaterali. Tale processo di spremitura avviene previa pulitura del seme, necessaria per evitare che le impurità mescolate al seme, entrando nella pressa, alterino la qualità dell’olio. La resa in olio del processo di estrazione è variabile: dalla colza e dal girasole si estrae circa il 33% in peso di olio, tale resa media è influenzata dalle modalità di estrazione dell’olio e dalla specie vegetale utilizzata.
Negli oleifici agricoli la pressatura avviene quasi esclusivamente con l’impiego di presse a co- clea che si distinguono in:
− presse a cilindro forato, nelle quali l’olio fuoriesce da fori posti nella parte mediana del cilindro, mentre il panello esce nella parte centrale in forma di pellettato . Queste presse hanno capacità produttive solitamente fino a 100 kg di seme/ora;
− presse a colatoio, dove il cilindro è composto da piastre poste a distanza regolare tra loro che vanno a formare il colatoio; all’interno del cilindro ruota una coclea a diametro cre- scente che provoca la compressione e spremitura del seme, mentre il panello fuoriesce dai lati in forma di scaglie. La capacità produttiva di questo sistema varia da 15 a 2.000 kg di seme/ora.
Fig. 5.51. Testata di pressa meccanica del tipo a cilindro forato (capacità operativa di 100 kg semi/h) e pressa meccanica del tipo a colatoio (capacità operativa di 250 kg semi/h)
Fig. 5.52. Il panello proteico, sottoprodotto della spremitura meccanica
Il sottoprodotto della spremitura dei semi è un panello proteico, il cui contenuto in olio ve- getale residuo varia tra l’11 ed il 15%, in funzione della tecnologia e potenza applicata per l’estrazione dell’olio (Picco, 2009).
In seguito alla spremitura, l’olio viene decantato per favorire la sedimentazione (sfruttando la differenza di densità). Con un’ultima operazione l’olio viene filtrato al fine di eliminare le impurità contenute nell’olio.
Per garantire una corretta ed efficace estrazione dell’olio è importante che il frantoio possa operare a una temperatura ambientale almeno sopra i 20 °C; le dimensioni e le caratteristiche dei locali pertanto devono essere adeguate per sfruttare al meglio il calore emesso dalla pres- sa stessa ed evitare dispersioni (AIEL, 2007).
A completare l’impianto di spremitura possono essere presenti dei sistemi di stoccaggio e
pompaggio dell’olio grezzo alla successiva fase di pulizia, nonché dei sistemi per la movimen- tazione e lo stoccaggio del panello proteico, oltre che i quadri elettrici e di controllo.
Requisiti e standard qualitativi dell’olio vegetale puro (OVP)
L’olio vegetale puro non subendo modificazioni chimiche nel corso della sua produzione, pos- siede sostanziali differenze rispetto alle caratteristiche chimiche e fisiche del gasolio. L’OVP tipicamente, presenta una viscosità fino a venti volte maggiore rispetto al gasolio e un punto d’infiammabilità nettamente più elevato, oltre ad una maggiore tendenza alla polimerizzazio- ne che facilita la formazione di depositi negli ugelli della pompa di iniezione e sulle scanalatu- re dei pistoni. La definizione della qualità del carburante (rispetto dei parametri qualitativi) è la premessa fondamentale per un affidabile funzionamento dei motori in cui è impiegato. Solo quando qualità e composizione chimica del carburante sono definite in modo rigoroso (nor- mate), possono essere rilasciate da parte delle case costruttrici di motori le necessarie garanzie sia per il corretto e duraturo funzionamento del motore sia per il rispetto dei limiti di emissione fissati dalla normativa vigente (Xxxxxxxx e Francescato, 2008).
In riferimento all’olio di colza i requisiti per l’impiego dell’olio vegetale puro nei motori sono descritti dalla normativa DIN V 51605 – Olio vegetale di colza per l’impiego come biocarburan- te nei motori – di cui si riportano gli estremi in tabella 5.22.
Tab. 5.22. Norma DIN V 51605. Olio vegetale di colza per l’impiego come biocarburante nei motori
Proprietà/composizione Caratteristiche dell’olio di colza | Limiti Min Max | Unità | Metodi di prova | |
Valutazione visiva | Libero da agenti estranei visi- bili, sedimenti e acque libere | |||
Densità (15 °C) | 900 | 930 | kg/m3 | DIN EN ISO 3675/12185 |
Punto di infiammabilità (V. chiuso) | 220 | DIN EN ISO 2719 | ||
Viscosità cinematica a 40 °C | 36 | mm2/s | DIN EN ISO 3104 | |
Potere calorifico inferiore | 36.000 | kJ/kg | DIN 51900-1,-2.-3 | |
Residui carboniosi | 0,4 | % (m/m) | DIN EN ISO 10370 | |
Numero di iodio | 95 | 125 | g/100g | DIN EN 14111 |
Contenuto di zolfo | 10 | mg/kg | DIN EN ISO 0884/20846 | |
Numero di cetano | 39 | - | IP 498 | |
Proprietà variabili | ||||
Contaminazione totale | 24 | mg/kg | DIN EN 12662 | |
Acidità (numero neutralizzazione) | 2 | mg KOH/g | DIN EN 14104 | |
Stabilità di ossidazione a 110 °C | 6 | h | DIN EN 14112 | |
Contenuto di fosforo | 12 | mg/kg | DIN EN 14107 | |
Contenuto di Ca+Mg | 20 | mg/kg | E DIN EN 14538 | |
Contenuto di ceneri | 0,01 | % (m/m) | DIN EN ISO 6245 | |
Contenuto di acqua | 0,075 | % (m/m) | DIN EN ISO 12937 |
Il valore di densità è utilizzato per determinare la massa del volume del carburante a una spe- cifica temperatura. Con l’aumento del tenore di carbonio aumenta la lunghezza della catena triglicerica, quindi il numero di doppi legami e il valore di densità dell’olio. Commercialmente il carburante è gestito in termini volumetrici e per quanto riguarda l’olio di colza la densità rimane quasi costante a 920 kg/m3 a 15 °C.
Il punto di infiammabilità di un combustibile è la temperatura più bassa alla quale si formano vapori in quantità tale che, in presenza di ossigeno e di un innesco, abbia luogo il fenomeno della combustione. L’olio di colza ha un punto di infiammabilità di circa 230 °C.
La viscosità cinematica è espressa come il rapporto tra la viscosità dinamica di un fluido (coe- sione) e la sua densità. Da questa espressione dipende la velocità del combustibile quando viene sottoposto a forze esterne. Il valore di viscosità cinematica è strettamente legato alla temperatura alla quale è sottoposto il carburante (diminuisce all’aumentare della temperatu- ra). Un alto valore di viscosità comporta problemi nella fase di avviamento a freddo del motore e, a basse temperature dell’olio vegetale, un peggioramento della polverizzazione del getto dopo l’iniezione. La viscosità dell’olio di colza si attesta mediamente sui 35 mm2/s a 15 °C; valo- ri di viscosità vicini a quelli del Diesel si ottengono a temperature elevate (90 °C).
Il potere calorifico inferiore esprime la quantità di calore (energia) che può essere liberato dalla combustione completa di una sostanza per una determinata massa. Tale valore è calcolato come il potere calorifico superiore diminuito del calore di condensazione del vapore d’acqua durante la combustione. Tale valore per l’olio di colza si attesta mediamente su 37.600 kJ/kg.
Un eccessivo contenuto di zolfo nel combustibile influisce sulla longevità del motore; i com- posti acidi che si formano durante la combustione portano infatti ad un’usura corrosiva dello stesso. L’olio di colza solitamente si attesta sotto valori di 10 mg/kg.
La contaminazione totale corrisponde alla quantità di materiali insoluti che rimangono nel- l’olio dopo la filtrazione. Possono comportare l’intasamento dei filtri e degli iniettori. La con- taminazione deriva principalmente da residui di spremitura non adeguatamente rimossi, ma può essere incrementata anche da un non accorto stoccaggio. Per adempiere a questo requi- sito sono necessari continui controlli qualitativi, senza i quali non è possibile mantenere lo standard nel tempo. L’eccessiva contaminazione si esplica nel rischio di danni alla pompa di iniezione del motore in seguito a depositi nella camera di combustione.
Il quantitativo di acidi minerali e acidi grassi è un parametro che indica il livello di alterazione dell’olio; un’eccessiva acidità comporta una più rapida corrosione degli iniettori.
Un eccessivo contenuto di fosforo favorisce la formazione di depositi all’interno della camera di combustione.
I frantoi di piccola taglia difficilmente riescono a rientrare nei parametri di contenuto di calcio e magnesio, infatti il contenuto di questi elementi, come il contenuto di zolfo, aumenta all’au- mentare della temperatura di spremitura (Emberger e Xxxxxxx, 2007).
Il contenuto in ceneri descrive la percentuale di solidi inorganici presente all’interno del carbu- rante. Un elevato contenuto in ceneri aumenta il rischio di abrasione degli iniettori; può essere causato dall’ingresso di polveri esterne nel combustibile.
Carburanti a confronto
Le diverse caratteristiche tra i vari tipi di carburante più comunemente utilizzati in ambito agri- colo sono molto variabili. La maggiore differenza tra olio vegetale puro e Diesel si riscontra nella viscosità cinematica, che raggiunge valori similari a quelli del Diesel solo ad alte temperature; proprio per questo motivo le modifiche ai motori sono principalmente atte ad aumentare la fluidità dell’olio. L’impiego non corretto dell’olio vegetale puro infatti provoca danni riconducibili
all’ottimale funzionamento degli iniettori. La differenza in quanto a contenuto energetico non è altrettanto significativa, si manifesta tuttavia una sensibile riduzione delle prestazioni della mac- china e un leggero aumento dei consumi con l’impiego di OVP rispetto al Diesel.
Tab. 5.23. Caratteristiche a confronto fra diversi tipi di carburante
Unità | Diesel | Biodiesel EN 14214 | Olio di girasole | Olio di colza | |
Potere calorifico | MJ/kg | 42,7 | 37,2 | 37,7 | 37,6 |
Densità a 15 °C | kg/l | 0,83 | 0,86-0,9 | 0,92 | 0,91 |
Contenuto energetico (volumetrico) | MJ/l | 35,2 | 32,7 | 34,8 | 34,2 |
Viscosità a 40 °C | mm2/s | 2-4,5 | 3,5-5 | 31,4 | 36 |
Punto di infiammabilità | °C | > 55 | ≥ 120 | 253 | > 220 |
5.5.2 Sistemi di filtraggio dell’olio
I trattamenti di pulizia e filtrazione sono finalizzati alla rimozione di sostanze presenti in so- spensione o in soluzione nell’olio vegetale grezzo, che possono avere influenza negativa sia sul suo impiego energetico diretto sia come materia prima per la produzione del biodiesel. L’olio grezzo ottenuto dalla spremitura a freddo dei semi oleaginosi è infatti caratterizzato da una certa torbidità che deve essere rimossa prima dell’impiego in qualsiasi tipo di motore. L’olio torbido è costituito da due fasi principali: una fase liquida e una fase solida (caratterizzata dalla presenza di particelle e rimasugli di spremitura). La pulizia dell’olio ha quindi lo scopo di eliminare quest’ultima componente, che potrebbe provocare una precoce alterazione del biocombustibile grezzo.
In un frantoio dove avviene la spremitura a freddo dei semi, la pulizia dell’olio avviene in due fasi: la pulizia primaria e la successiva filtrazione di sicurezza. Tali opere di filtrazione sono spe- cifiche per questo tipo di biocombustibile e devono essere adattate alle caratteristiche fisiche dell’olio, in particolare tenendo conto della viscosità cinematica e della densità dello stesso. Attraverso la pulizia primaria avviene la separazione tra la fase liquida e quella solida nel modo più efficace possibile, mentre con la filtrazione di sicurezza vengono trattenuti i residui even- tualmente ancora presenti nell’olio a causa di una non ottimale separazione primaria.
Pulizia primaria
Filtri per sedimentazione
La sedimentazione è un processo molto lento di separazione della fase solida da quella liquida. Questa tecnica consiste in una semplice deposizione di materiale con peso specifico maggiore dell’olio e, poiché poco costosa, è adottata generalmente in oleifici di piccole dimensioni con capacità produttive inferiori a 50 kg di seme/h.
I processi sedimentativi variano a seconda della grandezza delle particella, della viscosità del liquido (quindi anche della temperatura dello stesso) e dell’interazione tra le particelle e la fase liquida. Solitamente questo tipo di sistema è composto da diverse cisterne di sedimentazione posizionate in serie per rendere più efficace il processo di deposizione. I più comuni vantaggi del sistema di sedimentazione sono:
- ingombro limitato;
- minimo investimento economico;
- versatilità;
- facilità di utilizzo;
- costi di esercizio ridotto;
- buone performance.
Di contro ci sono i lunghi tempi necessari per la deposizione e quindi per l’impiego nei mo- tori. Alla fase di sedimentazione va sempre associata la applicazione finale della filtrazione di sicurezza.
Fig. 5.53. Schema di un sistema di sedimentazione in continuo a quattro stadi
Filtri a pressa
È il sistema maggiormente utilizzato nei frantoi decentralizzati, dove la filtrazione prima- ria avviene con l’impiego di filtri a pressa e filtri a piastre convenzionali. Solitamente viene applicato in seguito a una preventiva decantazione dell’olio in cisterna. Questo sistema è caratterizzato dal pompaggio dell’olio attraverso il filtro a pressa, dove una serie di piastre è alternata a telai vuoti all’interno dei quali si forma il prepanello. Il prepanello si crea per l’immissione nel liquido di farine fossili composte da silice, le quali aderiscono ai supporti di filtraggio fra i telai e, in seguito ai primi ricircoli di olio, formano un substrato a sua volta filtrante. Questo filtro “naturale” risulta essere molto efficace nella selezione del materiale presente all’interno dell’olio.
Il filtro inoltre ha bisogno di essere abbinato ad un apparecchio dosatore automatico di farine fossili per la formazione del suddetto prepanello, tramite un’apposita pompa.
Le piastre che caratterizzano questo tipo di filtro a pompa possono essere composte da tele di nylon o da cartoni e il flusso del prodotto in entrata si ripartisce nei singoli telai vuoti, i quali fungono da camera di alimentazione e da spazio di contenimento del prepanello che, alla fine del ciclo, viene rimosso manualmente o automaticamente. Riassumendo, il ciclo operativo di questa tipologia di filtro si può così descrivere:
- formazione del prepanello in circuito chiuso (nella filtrazione ad alluvionaggio);
- inserimento dei cartoni nel filtro (nella filtrazione con strati filtranti);
- filtrazione;
- spostamento e recupero del filtrato residuo;
- scarico del prepanello esaurito e lavaggio.
Questi filtri permettono di modulare la superficie filtrante modificando il numero delle piastre; questo offre la possibilità di ottenere in un unico ciclo di filtrazione una doppia filtrazione dello stesso prodotto, mediante l’impiego di due differenti tipi di cartoni filtranti (per esempio uno di tipo sgrossatore e uno brillantatore). Ciò si ottiene con l’impiego di un piastrone d’inversio- ne che dividerà il pacco di piastre in due settori, ognuno dei quali verrà assemblato con un tipo di cartoni filtranti adatto alla filtrazione che si desidera ottenere. I cartoni che è possibile applicare a questo sistema possono avere una porosità variante tra 0,45 μm e 1,2 μm.
Le caratteristiche principali di questi filtri sono la facilità del loro funzionamento e la semplicità del sistema costruttivo, privo di parti meccaniche in movimento; essi inoltre possono lavorare
con grandi superfici filtranti (in poco spazio) e con graduali aumenti di pressione, che possono prolungare la durata del ciclo di filtrazione.
Fig. 5.54. Sistema di filtrazione con filtro a piastre
Filtrazione con filtri verticali a pulizia automatica
Questa tipologia di filtro, generalmente installata in frantoi medio-grandi, è costituita da pia- stre in pressione; il panello filtrato viene preventivamente essiccato con aria compressa prima di essere scaricato in modo automatico dalla vibrazione pneumatica delle piastre, nella parte inferiore del filtro.
Filtri a centrifuga
Si tratta di sistemi di filtraggio molto costosi che solitamente vengono impiegati in impianti di cogenerazione di medio-grandi dimensioni e che quindi riescono ad ammortizzarne il costo entro margini temporali accettabili. Il principio di funzionamento è quello che sfrutta la forza centrifuga per la separazione delle componenti con densità superiore a quella dell’olio. La for- za centrifuga è il risultato del movimento di rotazione ad alta velocità e della grande dimensio- ne del tamburo. La rotazione è generata da un motore elettrico collegato a un albero orizzon- tale per mezzo di un accoppiamento elastico o di una frizione. Il movimento si trasferisce a un albero verticale, sulla cui parte conica superiore è assemblato il tamburo. Il liquido processato viene immesso nel centro del tamburo attraverso un tubo di alimentazione dove il prodotto subisce un’accelerazione e viene forzato verso la periferia del tamburo e, attraversando un set di dischi, viene separato dagli strati solidi. Il liquido separato affluisce verso la parte superiore del tamburo dove viene evacuato per stramazzo o attraverso pompe centripete.
I solidi catturati si raccolgono alla periferia del tamburo e qui vengono scaricati all’esterno. In seguito a questa operazione la componente liquida può essere ulteriormente convogliata in un filtro costituito da una serie di vagli per l’ulteriore eliminazione di parti solide ancora all’interno.
Filtrazione finale o di sicurezza
Il processo di pulizia dell’olio vegetale si completa con la filtrazione di sicurezza, per trattenere basse concentrazioni di particelle solide.
Filtro a secco
Si tratta di un filtro in pressione, impiegato nella filtrazione finale per trattenere basse con- centrazioni di particelle solide. Da uno studio effettuato per valutare l’idoneità dei sistemi di filtrazione finale nei frantoi decentralizzati è stato rilevato che questo tipo di filtro non è ido-
neo per oli caratterizzati da un contenuto di residuo solido totale inferiore a 25 mg/kg. Tuttavia tale filtro può essere impiegato quando la filtrazione finale è articolata in due fasi: filtro a secco unito a filtro a candela.
Filtro a candela o a cartuccia
Questi tipi di filtro possono essere a comparto singolo o multiplo e consistono essenzialmente in un corpo di sostegno cilindrico circondato da un mezzo filtrante, il tutto avvolto e sigillato da un involucro esterno in acciaio. Il mezzo filtrante può essere costituito da fibra di tipo natu- rale o sintetica. Il filtro a candela è attraversato dall’olio nel verso che va dall’esterno all’interno dello stesso. È stato verificato che si può ottenere un buon filtraggio con fibra di cotone o di polipropilene, tuttavia rimane preferibile l’impiego del cotone per la maggiore efficacia di rimozione della fase solida.
I motori solitamente sono dotati di filtri con maglie aventi dimensioni di 3 μm, perciò è meglio prevedere un filtro a candela con maglia avente capacità di separazione ≤ 1 μm.
È tuttavia possibile applicare, come filtro di sicurezza, un secondo sistema di filtraggio a pressa, solitamente di dimensioni più contenute, che si va ad aggiungere al sistema di pulizia primaria.
Conservazione dell’olio
Dopo la spremitura e filtrazione è necessario che all’olio vengano applicati precisi requisiti di conservazione affinché non sia compromessa la qualità dello stesso e quindi il corretto funzio- namento all’interno dei motori.
L’olio vegetale puro è un prodotto naturale e per questo è soggetto ad alterazioni e trasfor- mazioni nel tempo, è quindi necessario avere delle accortezze nella fase di conservazione che devono riguardare soprattutto i seguenti fattori:
− mantenimento di un basso contenuto di residuo solido totale all’interno;
− mantenimento di una fresca temperatura nel magazzino di stoccaggio (evitando gelate);
− evitare grandi sbalzi di temperatura nel magazzino;
− evitare il contatto con la luce;
− evitare il contatto con acqua e ossigeno;
− evitare contatto con metalli non ferrosi;
− controllo della pulizia del serbatoio;
− se possibile riempire completamente il serbatoio ad ogni rifornimento;
− prelevare il combustibile dal serbatoio nella parte più alta dello stesso (evitando di estrarre fondi e depositi dell’olio).
Buona norma è non stoccare l’olio per un periodo di tempo maggiore ad un anno.
5.5.3 Cogeneratori a olio vegetale
La norma UNI 8887/1987 definisce il processo di cogenerazione come “l’insieme delle opera- zioni volte alla produzione combinata di energia meccanica/elettrica e calore, entrambi con- siderati effetti utili, partendo da una qualsivoglia sorgente di energia. Il processo di cogenera- zione deve realizzare un più razionale uso dell’energia primaria rispetto a processi che produ- cono separatamente le due forme di energia. La produzione di energia meccanica/elettrica e calore deve avvenire in modo sostanzialmente interconnesso in cascata”.
La Delibera AEEG n. 42/02 definisce l’impianto di produzione combinata di energia elettrica e calore come “un sistema integrato che converte l’energia primaria di una qualsivoglia fonte di energia nella produzione congiunta di energia elettrica e di energia termica (calore), conse-
guendo un risparmio di energia primaria ed un beneficio ambientale rispetto alla produzione separata delle stesse quantità di energia elettrica e termica”.
In Italia si sta puntando molto sul settore della cogenerazione da biomassa e più in generale nell’ottica della diversificazione delle fonti rinnovabili, che potrebbe permettere di ridurre la vulnerabilità nell’approvvigionamento delle risorse energetiche e limitare le importazioni di energia elettrica (Zuccaio, 2005). I cogeneratori sono motori endotermici statici che producono in modo combinato energia elettrica e termica nello stesso sistema di produzione, considerato fonte energetica da assimilare alle fonti rinnovabili. Questi sistemi consentono di raggiungere un grado di rendimento complessivo dell’impianto fino al 90%; generalmente la potenza ter- mica in kW del cogeneratore dovrebbe coprire circa il 30% della potenza necessaria all’utente (ciò permette di soddisfare circa il 60-70% del fabbisogno termico annuo dell’utenza).
Tra le varie fonti di combustione che possono alimentare gli impianti a cogenerazione è an- noverato anche l’olio vegetale puro che, come descritto in precedenza, può essere prodotto e reimpiegato in oleifici decentralizzati, aumentando i benefici per la filiera agricola energetica. La produzione di energia meccanica o elettrica e di calore deve avvenire in modo sostanzialmen- te interconnesso, implicando un legame tecnico e di mutua indipendenza tra una e l’altra forma, anche attraverso sistemi di accumulo. Il calore generato può essere trasferito all’utilizzazione finale in forme diverse, tra cui vapore, acqua calda, aria calda, e può essere destinato a usi civili di riscaldamento, raffrescamento o a usi industriali in diversi processi produttivi (Zuccaro 2005).
La valorizzazione della cogenerazione dovrebbe quindi trovare applicazione solo laddove sia- no presenti utenze caratterizzate da un’elevata e costante domanda termica.
Vantaggi e limiti della cogenerazione
I principali vantaggi conseguibili da un uso più completo delle fonti energetiche sono di natura:
- economico-strategica: la cogenerazione comporta un miglioramento dei rendimenti globali di utilizzo e quindi una diminuzione dei consumi (a parità di potenza) delle fonti energetiche tradizionali, limitando così la dipendenza da queste ultime;
- ambientale: a parità di energia utile ricavata, si usa una minor quantità di combustibile e si ha una emissione più contenuta di prodotti della combustione;
- di salvaguardia delle risorse: la cogenerazione consente un utilizzo più efficiente delle risorse energetiche, riducendone gli sprechi.
Il limite principale della cogenerazione riguarda la corrispondenza tra produzione e domanda, sia sul lato elettrico, che su quello termico: risulta necessario quindi ottenere rendimenti com- plessivi il più elevati possibile ma anche usare razionalmente le energie prodotte. È necessario quindi che la domanda di elettricità e calore da parte dell’utenza si collochi all’interno del campo di valori del rapporto caratteristico della macchina impiegata. Sotto il profilo logistico, affinché si realizzi una convenienza economica per l’impianto, le utenze termiche ed elettriche devono trovarsi nelle vicinanze del sistema di generazione energetica, in particolare per quanto riguarda la rete di distribuzione del calore. I limiti applicativi possono essere così sintetizzati:
- la cogenerazione è tanto più vantaggiosa quanto minore è la temperatura del calore richiesto;
- il sistema cogenerativo è economicamente e tecnicamente vantaggioso solo se la po- tenza richiesta dall’utenza supera una determinata soglia minima, variabile con la tipo- logia costruttiva dell’impianto stesso.
Ciascuna tipologia di impianto di cogenerazione a olio vegetale è caratterizzata da uno speci- fico campo di applicazione, all’interno del quale devono essere analizzati i massimi rendimenti termodinamici e/o la massima convenienza economica.
Sistemi di cogenerazione
Le soluzioni impiantistiche di cogenerazione prevedono l’utilizzo di motori ad accensione comandata (secondo il ciclo Otto) oppure ad accensione spontanea (basata sul ciclo Diesel). Questi provvedono alla generazione di energia meccanica, convertita poi in elettrica trami- te apposito alternatore. Il recupero termico viene invece effettuato su tutti i fluidi operanti nel motore: aria di sovralimentazione, acqua di raffreddamento, olio di lubrificazione, gas di scarico. Il maggior recupero di calore si ottiene dai gas di scarico (circa la metà del totale) e dall’acqua di raffreddamento delle camicie dei cilindri. Un impianto ad energia totale basato su motori alternativi è caratterizzato da una totale indipendenza della generazione elettrica da quella termica, dal momento che le utenze termiche vengono alimentate con i cascami energetici della produzione elettrica.
Gli elementi fondamentali di un sistema di cogenerazione, che si ritrovano in tutte le soluzioni impiantistiche, sono:
- il motore primo che attua la conversione dell’energia termica introdotta in energia mec- canica;
- il generatore elettrico accoppiato al motore primo che trasforma l’energia meccanica in energia elettrica;
- gli scambiatori di calore intermedi nella rete termica;
- gli scambiatori di calore dispersivi, atti a dissipare il calore in eccesso rispetto alle esigen- ze dell’utenza;
- eventuali dispositivi di introduzione aggiuntiva di calore (post-combustori e caldaie supplementari);
- le reti di distribuzione del calore (ad uno o più livelli termici);
- la strumentazione di regolazione e controllo dell’impianto;
- l’impianto elettrico di allacciamento allo stabilimento;
- i sistemi di antinquinamento e di insonorizzazione della centrale cogenerativa.
Cogenerazione da impianti Diesel ad olio vegetale
L’impiego di oli vegetali grezzi per l’alimentazione di motori a ciclo Diesel di grande taglia destinati alla produzione di energia elettrica (5-15 MWe con rendimenti netti del 45-47%) rap- presentano un elemento di grande importanza e novità nel panorama nazionale.
L’utilizzo di olio vegetale puro in sostituzione dei combustibili fossili convenzionali non deter- mina variazioni di rilievo nelle prestazioni dei motori a combustione interna, anche se richie- de l’implementazione di alcuni accorgimenti tecnici in relazione alle differenti caratteristiche del combustibile utilizzato (minore potere calorifico, maggiore viscosità e minore numero di cetano). Il maggiore problema è rappresentato dalla necessità di polverizzare il combustibile prima dell’iniezione, problema ottemperato con un preriscaldamento dell’olio vegetale ad una temperatura di 60-70 °C per aumentarne la fluidità.
Una parte rilevante dell’energia chimica del combustibile non convertita in energia elettrica dal motore, viene resa disponibile sotto forma di gas di scarico e di acqua calda. Gran parte di questi flussi termici possono essere utilmente recuperati per la produzione di energia termica ad uso cogenerativo, laddove vi sia un’adeguata richiesta termica da parte delle utenze. In alternativa, specie nel caso dei motori di grande taglia, una parte di questa energia può essere recuperata per la produzione di energia meccanica in un ciclo a vapore sottoposto (Cocco et al., 2006).
Negli ultimi anni si è assistito ad un abbassamento delle taglie di impianto, con motori a ciclo Diesel caratterizzati da potenze che partono da poche decine di kW sino al MW, operanti ad alta velocità (1.500 giri/min), con rendimenti elettrici relativamente elevati, variabili tra il 35-
40%, e comunque con la possibilità di recupero dell’energia termica. Queste soluzioni impian- tistiche permettono al proprietario dell’impianto di accedere al sistema di incentivazione che prevede la tariffa omnicomprensiva per la cessione dell’energia elettrica prodotta.
Fig. 5.55. Motore Diesel con alternatore e sistema di recupero dell’energia termica
Motori Stirling
Il motore Stirling rappresenta un’alternativa tecnologica molto promettente nel settore della produzione di energia elettrica da biomasse su piccola scala. Una caratteristica molto interes- sante di questa tipologia di motore è che viene realizzato anche con potenze molto ridotte (10-15 kW), mantenendo comunque rendimenti interessanti. Il motore opera secondo un cir- cuito chiuso realizzato attraverso due sistemi cilindro-pistone. Il fluido operativo viene alter- nativamente compresso all’interno del cilindro a contatto con la sorgente calda. Nel trasferi- mento da un cilindro all’altro il fluido attraversa uno scambiatore rigenerativo che incrementa le prestazioni del ciclo. Lo Stirling è pertanto un motore alternativo a combustione esterna internamente rigenerata che può utilizzare pertanto combustibili di bassa qualità.
L’energia termica prodotta dalla combustione viene trasferita al fluido operativo ad alta tem- peratura (700-800 °C) mentre la quota di energia termica non convertita in lavoro viene aspor- tata dall’acqua di raffreddamento (30-80 °C). I motori Stirling possono essere alimentati anche con olio vegetale e biomasse in genere, anche se questo utilizzo è ancora attualmente in fase dimostrativa.
Nella maggior parte dei casi, la produzione di energia elettrica viene considerata in associazio- ne con la produzione di energia termica in sistemi di cogenerazione. In questo caso, l’energia termica viene prodotta attraverso il recupero del calore di scarico del motore (scambiatore a freddo) e dell’entalpia residua dei gas di scarico del combustibile. Per potenze dell’ordine di 10-150 kWe, il rendimento globale è dell’ordine di 80-90% (in cogenerazione).
Cogenerazione con ciclo Rankine a fluido organico
I turbogeneratori basati sul ciclo Rankine a fluido organico (ORC: Organic Rankine Cycle) sono una possibile soluzione per la cogenerazione a biomassa, con potenza nominale tipicamente compresa tra 400 e 1.500 kWe per unità. I vantaggi di questa tecnologia sono l’elevata dispo- nibilità di impianti, i costi di manutenzione contenuti, il funzionamento completamente auto-
matico e la buona efficienza elettrica. Questi impianti sono adatti alla produzione di energia elettrica in modo competitivo dal punto di vista economico.
Il principio di generazione di energia elettrica attraverso un ciclo ORC corrisponde al ciclo Rankine convenzionale: la differenza sostanziale consiste nell’utilizzo di un fluido di lavoro organico avente proprietà termodinamiche più favorevoli rispetto all’acqua. Il processo ORC è connesso alla caldaia attraverso un circuito a olio diatermico. Il fluido di lavoro organico pressurizzato viene vaporizzato e surriscaldato per mezzo dell’olio diatermico nell’evapora- tore e successivamente espanso in una turbina assiale direttamente connessa al generatore asincrono. In un secondo momento, il fluido organico passa attraverso un rigeneratore (dove avviene un recupero di calore) prima di entrare nel condensatore. La condensazione del fluido di lavoro avviene a un livello di temperatura che permette l’utilizzazione del calore recuperato in sistemi di teleriscaldamento (AA.VV., 2006).
CASO STUDIO
Un impianto di cogenerazione su piccola/media scala - Kòmaros Agroenergie Srl
L’oleificio decentralizzato
Xxxxxxx Xxxxxxxxxxx Xxx è una società nata nel febbraio 2007 su iniziativa di un gruppo di agricoltori e imprenditori attivi nel settore agricolo che hanno costituito una cooperativa di circa 100 agricoltori con lo scopo di dare una risposta alle difficoltà delle attività agricole locali causate dalla crisi del settore bieticolo.
Kòmaros ha realizzato un oleificio decentralizzato che lavora il seme raccolto dalla stipula di contratti di acquisto con agricoltori locali su circa 350-400 ha. Il frantoio lavora con tre presse a freddo poste in serie aventi una capacità produttiva di circa 150 kg di seme/ora (100 kg di panello e 50 kg di olio e una perdita media di 2 kg/ora).
Dopo la pressatura a freddo l’olio subisce la prima filtrazione della torbidità, tenuta in sospen- sione con un agitatore meccanico mediante un filtro a piastre composto da 40 piastre da 4 l ciascuna e provviste di telo filtrante lavabile. Prima dell’immissione dell’olio nella cisterna di stoccaggio, con capacità di 22 m3, l’olio subisce un’ulteriore filtrazione di sicurezza attraverso un filtro a manica. L’oleificio ha una capacità produttiva di circa 2.000 l di olio pulito ogni 15 ore di lavoro in continuo.
L’impianto di cogenerazione
La chiusura della filiera energetica nel frantoio decentralizzato avviene attraverso l’impiego dell’olio così prodotto in un gruppo cogenerativo. L’impianto è composto da un motore MAN con potenza elettrica di 420 kW, adattato all’uso dell’olio con un sistema a doppio serbatoio, allestito in un container.
L’olio stoccato in due cisterne interrate viene pompato in un serbatoio interno al container con una resistenza elettrica che porta la temperatura dell’olio a circa 70 °C prima di entrare nel motore, che consuma circa 232 g/kWh.
Il consumo annuo è circa pari a 421 t di olio, di cui il 55% olio di girasole prodotto direttamente da Kòmaros e la restante parte acquistato sul mercato (prevalentemente olio di palma).
L’energia elettrica è ceduta in rete per mezzo di una cabina elettrica che consente la trasforma- zione da bassa a media tensione e cede energia per circa 1.700 MWhe annui, pagati in base alla tariffa onnicomprensiva di 280 €/MWhe (per la quota derivante da olio vegetale non extra UE). La potenza termica cogenerata è resa in parte all’acqua (200 kWt) e in parte recuperata dei fumi di scarico (250 kWt).
5.5.4 Motori agricoli a olio vegetale
Ad oggi le applicazioni si sono essenzialmente concentrate sull’olio di colza poiché è quello regolato dalla norma DIN V 51605 e gli adattamenti ai motori sono stati indirizzati principal- mente a:
- ridurre la viscosità dell’olio vegetale;
- incrementare la pressione con la regolazione del sistema di iniezione;
- adeguare le caratteristiche della fiamma;
- ridurre la formazione dei residui in camera di combustione;
- contenere il livello delle emissioni.
Attualmente sul mercato sono presenti due grandi costruttori che realizzano macchine agrico- le con motori Diesel di serie opportunamente modificati per l’alimentazione con olio vegetale puro: la Fendt commercializza il modello 820 VARIO Greentec, mentre la SAME Deutz Fahr il modello AGROTRON M Natural Power. Entrambi i trattori montano un motore Deutz modi- ficato secondo il sistema a doppio serbatoio. La novità fondamentale è che acquistando un trattore adattato dalla casa madre, viene riconosciuta la garanzia sulla macchina. In tutti gli altri casi, non essendo presente sul mercato un motore per l’impiego specifico di olio vegetale puro, si rende necessario l’utilizzo di motori Diesel opportunamente adattati in un secondo momento con kit di modifica.
L’innovazione e l’ottimizzazione dei sistemi di adattamento hanno consentito recentemente di ottenere il rispetto dei limiti di emissione previsti per i Diesel Euro 4 (Xxxxxxxx e France- scato, 2008).
Caratteristiche di un motore a olio vegetale puro
Un motore che utilizza l’olio vegetale puro come carburante ha la necessità di avere un par- ticolare sistema di alimentazione e una particolare miscelazione di aria e carburante. Ciò è ottenuto in una camera sferica ricavata nella parte superiore del pistone dotata di appositi iniettori. Il carburante viene iniettato localmente e tangenzialmente all’interno della zona cen- trale di combustione; questo processo impedisce al combustibile e al suo residuo di entrare in contatto con le pareti, riducendo così al minimo la perdita di calore. Per questo motivo gli ugelli di iniezione devono avere un’apertura dotata di un ago autopulente e devono essere disposti con angolatura e posizione specifici.
Gli adattamenti ai motori diesel per il funzionamento a olio vegetale puro si possono distin- guere in due categorie: sistemi a un serbatoio o a due serbatoi.
Sistema a un serbatoio
Nel sistema di modifica a un serbatoio il motore è alimentato solo ed esclusivamente con olio vegetale. Le condutture sono adatte al trasporto di olio vegetale e quindi hanno un diametro maggiore. Solitamente è installato un pre-riscaldatore del combustibile il quale può essere elettrico o prelevare il calore da uno scambiatore collegato al radiatore. L’olio vegetale è preri- scaldato a 70 °C per migliorare l’accensione a freddo del motore, tuttavia in alcune situazioni questo non è sufficiente quindi può essere necessario l’inserimento di un riscaldatore aggiun- tivo. L’accensione a freddo può essere ulteriormente migliorata attraverso la sostituzione delle candelette di preriscaldamento, allungando il periodo del loro pre- e post-riscaldamento. La modifica comporta il riscaldamento delle pompe di iniezione per ridurre la viscosità dell’olio e ottimizzare il getto, queste se non idonee devono essere sostituite.
Il vantaggio diretto di tale sistema consiste nella completa sostituzione del gasolio, di contro c’è il fatto che tali modifiche possono essere attuate solo in particolari condizioni, non tutte le macchine infatti sono adatte a essere convertite a olio vegetale con unico serbatoio. Il costo della modifica attualmente può variare da 5.000 a 8.000 € Iva esclusa (AIEL, 2007).
Fig. 5.56. Trattore Deutz Fahr modificato con sistema a un serbatoio (sistema VWP)
Fig. 5.57. Trattore Xxxxx modificato con sistema a un serbatoio (sistema Hausmann)
Sistema a due serbatoi
Nel sistema di modifica a due serbatoi è previsto l’uso del Diesel per le fasi di accensione e spe- gnimento, mentre nella fase di funzionamento intermedia viene impiegato l’olio vegetale. Al momento dell’avviamento il motore viene alimentato a gasolio fino al raggiungimento della temperatura di circa 70 °C, questo per permettere che l’olio vegetale diminuisca la viscosità e possa entrare in circolo senza provocare danni al motore, in particolare agli iniettori. Il ritorno all’alimentazione a gasolio deve essere fatto anche pochi minuti prima dello spegnimento del motore in modo da permettere la pulizia dall’olio vegetale delle condutture di carburante ed evitare intasamenti degli stessi con conseguenti problematiche al momento della succes- siva accensione a freddo. Non sono richieste generalmente particolari modifiche al motore,
tuttavia è necessario prevedere sistemi di preriscaldamento dell’olio, così come nel sistema a un serbatoio. Il sistema a due serbatoi può essere applicato a diversi tipi di trattori, tuttavia è necessario valutare opportunamente le scelte del sistema di adattamento più idoneo al tipo di utilizzo specifico. Il vantaggio di questo sistema è che non sussistono i problemi di accensione a freddo (che si manifestano in particolare in inverno e ancor di più in ambienti freddi), d’altro canto esiste una certa dipendenza dal gasolio e quindi si perdono in parte i vantaggi legati all’uso esclusivo dell’olio vegetale puro (AIEL, 2007).
Il principale inconveniente è dovuto al fatto che ad oggi non ci sono sistemi di garanzia sul motore con l’installazione di questi sistemi di modifica, a meno che il trattore non esca dalla casa madre già predisposto per il funzionamento a OVP. Il costo medio del kit di modifica si aggira intorno agli 8.000 € IVA esclusa.
Fig. 5.58. Trattore Lamborghini Victory Plus 230 - modificato con kit Elsbett per l’alimentazione a olio di colza
Fig. 5.59. Trattore Fendt 820 Vario Greentec – Prodotto di serie con un motore alimentato ad olio di colza
Caratteristiche e sistema di funzionamento di un kit di modifica con sistema a doppio serbatoio gasolio/olio di colza
In questo sistema, il serbatoio del carburante deve essere modificato e suddiviso in due serbatoi resi indipendenti l’uno dall’altro: un serbatoio per il gasolio è necessario per la fase di accensione e spegnimento del motore e l’altro per l’olio di colza necessario nella fase intermedia di funzionamento del trattore.
Il gasolio è necessario in fase di avviamento e di spegnimento del motore il quale funziona a olio solo quando l’acqua di raffreddamento supera la temperatura di 70-75 °C e i gas di scarico 220 °C: i sensori dell’acqua del radiatore e del rilevamento dei gas di scarico inviano un impulso alla centralina di controllo che consente il passaggio graduale da gasolio a olio vegetale.
La centralina è contenuta all’interno del “modulo compatto”, che rappresenta il nucleo cen- trale del sistema e consente al motore di funzionare a gasolio e olio di colza, regolando l’alimentazione e il momento in cui avviene il cambio di carburante.
Il pre-filtro del carburante è in grado di trattenere eventuali particelle di acqua ed impurità presenti nel carburante e svolge una funzione di valvola di non ritorno del carburante.
La pompa dell’olio vegetale richiama dal serbatoio l’olio vegetale combustibile fornito dal modulo compatto. Tale pompa deve essere installata possibilmente vicino al serbatoio del carburante in un punto protetto onde evitare il danneggiamento da urti.
I circuiti del liquido del radiatore originale vengono interrotti e deviati attraverso un nuo- vo sistema di condutture mentre il circuito per l’olio vegetale viene realizzato con nuove tubazioni.
Il ritorno al funzionamento a gasolio deve essere inserito manualmente alcuni minuti prima dello spegnimento oppure in alcuni kit ritorna automaticamente, dopo aver prima eseguito un’operazione di “lavaggio” con gasolio, quando la temperatura dei gas di scarico scende sotto la soglia, quando la temperatura dell’olio del motore supera un determinato valore, quando la macchina non è sotto sforzo o quando il motore si spegne.
Il kit comprende l’installazione di una centralina di controllo nella scatola dei fusibili con- nessa al circuito elettrico del trattore, dove sono presenti due fusibili e un pulsante ausiliario utilizzato qualora ci sia la necessità di eliminare l’aria dal circuito dell’olio vegetale. Oltre a questo, il sistema comprende una scatola nera che registra tutti i dati connessi al funziona- mento della macchina e un pannello di controllo per permettere all’operatore di verificare il corretto funzionamento dell’impianto.
L’utilizzo dell’olio vegetale di colza come combustibile rispetto a un trattore alimentato a gasolio, non comporta sostanziali differenze, mediamente si registra una perdita minima di potenza di circa il 3–4% e un consumo maggiore del 2% circa di carburante rispetto al gasolio.
Tuttavia le modalità di installazione della componente elettrica necessaria per il funziona- mento del kit di adattamento possono variare a seconda del modello di trattore.
Fig. 5.60. Schema di funzionamento di un sistema a due serbatoi Diesel - olio vegetale
Principali kit di modifica presenti sul mercato
Fig. 5.61. Sistema a doppio serbatoio Elsbett xxx.xxxxxxx.xxx
Fig. 5.62. Sistema a doppio serbatoio Landtechnik GRAM xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx
Fig.5.63. Sistema a doppio serbatoio Pflanzenol 3E xxx.0xxxxx.xxx
Impiego di miscele gasolio-olio vegetale senza modifica del motore
Una alternativa di guida con olio vegetale come combustibile, è la miscelazione con gasolio. A seconda del tipo di motore e del modello di sistema di iniezione infatti è tecnicamente possi- bile aggiungere percentuali maggiori o minori di olio vegetale al gasolio. Su motori di vecchia concezione, con precamera di combustione e pompa di iniezione tipo Bosch VE (adatta, anche se non ufficialmente, all’uso di olio) i problemi si limitano a una certa difficoltà nell’avviamen- to a freddo anche con percentuali oltre il 50%. Su motori molto moderni, al contrario, si po- trebbero avere problemi anche con percentuali di miscelazione molto inferiori, nell’ordine del 10-20%. Sicuramente è da evitare l’uso di olio vegetale con pompe rotative CAV e Rotodiesel, molto sensibili alla viscosità del carburante. Ad ogni modo non è possibile definire con certez- za una percentuale adatta o meno, questa infatti varia a seconda del tipo di utente, delle tem- perature ambientali e, soprattutto, del tipo di olio vegetale. Questo conferma che il corretto impiego dell’olio vegetale presuppone, soprattutto in macchine di nuova generazione, l’adat- tamento del motore e l’affidamento a ditte specializzate per l’installazione delle modifiche.
5.5.5 Considerazioni
Limiti e complessità
L’impiego di olio vegetale come combustibile presenta diversi problemi tecnici nei motori diesel. In particolare, i maggiori problemi derivano dalla sua maggiore viscosità rispetto al gasolio, che si accentua con le basse temperature. La maggiore viscosità può causare dan- neggiamenti sia al sistema di iniezione sia causare incrostazioni a parti interne del motore, nel caso queste vengano raggiunte dall’olio.
La combustione ad alte temperature di olio vegetale produce maggiori quantità di ossidi di azoto rispetto al gasolio, oltre a questo si verifica una leggera perdita di potenza del motore e un incremento del consumo di carburante, in quanto l’olio di semi di colza è caratterizzato da un potere calorifico più basso rispetto al combustibile fossile tradizionale. A causa dell’elevata viscosità che incide sul sistema di alimentazione e di iniezione del motore, si ha una minore
polverizzazione nella camera di combustione e di conseguenza una combustione più difficile, associata alla formazione di residui, i quali possono andare a inquinare l’olio motore e possono causare incrostazioni alle fasce elastiche dei pistoni riducendone la tenuta.
Aspetti positivi
L’impiego delle biomasse vegetali per la produzione di energia presenta indubbi vantaggi am- bientali ed economici. Un considerevole beneficio dall’impiego di olio vegetale puro sta nel fatto che la sua produzione è diretta e avviene all’interno dell’azienda agricola con semplici sistemi di pressatura. Ciò permetterebbe di massimizzare il profitto per l’imprenditore agrico- lo, il quale inoltre ha la possibilità di utilizzare il prodotto di scarto della produzione dell’OVP (panello proteico) come mangime per l’alimentazione zootecnica (bovini, suini).
Nel caso dell’impiego di oli di idonee caratteristiche in motori correttamente modificati, le emissioni di monossido di carbonio, idrocarburi volatili e idrocarburi policiclici aromatici sono inferiori rispetto al Diesel. L’OVP non contiene composti acidi solforati (responsabili delle piog- ge acide) e mediamente produce il 50% in meno di polveri (fuliggine) rispetto ai carburanti tradizionali; inoltre, le tecniche di separazione secondaria negli scarichi dei motori (filtri anti- particolato), che sono in grado di ridurre drasticamente i livelli di emissione, possono essere applicate anche nel caso di impiego dell’olio vegetale.
L’utilizzo di OVP contribuisce in modo significativo alla riduzione delle emissioni di gas serra: la quota di carbonio emessa in atmosfera è quella assorbita dalle piante al momento della fotosintesi.
C’è da considerare inoltre l’aspetto della sicurezza in caso di sversamento accidentale di olio; questo infatti non provoca grave inquinamento in quanto ha un’elevata biodegradabilità, non è tossico per animali e esseri umani contribuendo alla salvaguardia e alla protezione del suolo e delle acque.
Conclusioni
La produzione e l’uso di olio vegetale puro come biocarburante, se gestita in modo corretto, comporta indubbiamente una serie di vantaggi interessanti per il settore agricolo. Tuttavia essendo il comparto dell’olio vegetale per autotrazione non ancora ben strutturato, sussistono dei limiti attuativi che possono diventare importanti se le fasi della filiera non vengono pia- nificate adeguatamente. La qualità del prodotto è indubbiamente il primo requisito al quale fa capo la sostenibilità della filiera; senza l’adesione agli standard imposti dalla norma DIV V 51605 infatti non è possibile accedere alle forme di garanzia offerte dalle case costruttrici che le prevedono. Si rende altresì necessario che l’utilizzatore finale faccia riferimento solo ad aziende adeguatamente specializzate e referenziate per l’installazione di sistemi di alimenta- zione a OVP. L’impiego di questo biocarburante in agricoltura offre inoltre un contributo alla sicurezza negli approvvigionamenti di energia da fonti rinnovabili, incentivando la produzio- ne locale direttamente all’interno delle aziende agricole (singole o associate). In un momento particolarmente delicato per il settore agricolo come quello attuale, l’impiego di olio vegetale come fonte energetica alternativa può contribuire all’integrazione del reddito delle aziende agricole e alla conservazione e/o creazione di occupazione nelle aree rurali.
5.6 Tecnologie per la trigenerazione
Premessa
Con il termine “trigenerazione” si intende la produzione, all’interno del medesimo sito pro- duttivo, di energia sotto due sole forme, elettrica e termica. Quest’ultima, tuttavia, viene resa disponibile in due diverse gamme di temperature, una superiore ed una inferiore alla temperatura ambiente: si spiega così il prefisso, che suggerisce una divisione in tre branche distinte.
La fornitura di energia a media ed alta temperatura viene usata per il riscaldamento, finalizza- to sia alla climatizzazione di edifici che per alimentare processi produttivi, che in agricoltura vanno dalle attività zootecniche al riscaldamento di colture protette, dall’essiccazione alla tra- sformazione di prodotti agricoli.
L’energia a bassa temperatura viene largamente impiegata nella climatizzazione degli edifici nei mesi estivi e, in misura crescente in relazione ad una diversa considerazione del valore del benessere animale, anche per il raffrescamento di locali di allevamento.
La trigenerazione nella produzione del freddo
Grazie all’adozione di particolari tecnologie la temperatura può essere ulteriormente abbassa- ta, al punto da consentire la refrigerazione o il congelamento, finalizzato sia alla conservazione di prodotti agricoli primari o derivati, sia alla gestione di singole fasi dei processi di trasforma- zione, come ad esempio nella vinificazione (spumantizzazione).
Con la parola trigenerazione, infine, si tende oggi a comprendere (seppure con una certa forza- tura di termini) anche la semplice produzione di energia termica, nei due livelli di temperatura, senza produzione di energia elettrica; quest’ultima infatti, negli impianti di minore potenzia- lità, presenta una serie di complicazioni costruttive che possono rendere il processo antieco- nomico. L’idea di usare l’energia termica per il raffreddamento si è gradualmente imposta in seguito alla diffusione dei primi impianti cogenerativi, in grado cioè di produrre elettricità e calore, soprattutto per motivi economici.
Nei contesti di tipo residenziale – abitazioni private, strutture di degenza ed accoglienza, al- berghi – o in alcuni ambienti lavorativi, come uffici e spazi commerciali, il riscaldamento con il calore prodotto da una centrale di cogenerazione è indubbiamente vantaggioso ma, nelle fasce climatiche mediterranea e padana, limita il tempo di utilizzazione dell’impianto ad un numero di ore piuttosto basso (sempre inferiore ad 1/3 dell’utilizzo ottimale annuo, anche tenendo conto delle sospensioni per cause tecniche).
Considerando i parametri climatici del nostro territorio, l’integrazione della cogenerazione con la produzione di fluidi freddi per il la climatizzazione estiva – nota come trigenerazione – con- sente di aumentare notevolmente il periodo complessivo di impiego dell’energia (spesso oltre il 50% del tempo ottimale di funzionamento della centrale di cogenerazione).
Le tecnologie disponibili
Il processo di trigenerazione, quando viene alimentato da biomasse di origine agricola e fore- stale, si compone di quattro diverse fasi:
1. produzione primaria di energia termica;
2. impiego del calore per la produzione di energia meccanica e quindi elettrica;
3. veicolazione ed uso dell’energia termica per riscaldamento;
4. fornitura di energia termica ad impianti ad assorbimento, per la produzione di fluidi freddi.
Le prime tre fasi vengono ampiamente trattate in altre parti del presente lavoro e precisamente:
• produzione primaria di energia termica: paragrafi 5.1.1, 5.1.2 e 5.1.3;
• impianti di cogenerazione e riscaldamento: paragrafi 5.2.1, 5.2.2, 5.2.3, 5.2.4 e 5.2.5.
Si rimanda pertanto il lettore ai paragrafi indicati, sia per quanto riguarda le biomasse suscet- tibili di destinazione energetica, sia relativamente alle diverse tecnologie che conviene impie- gare. La produzione di freddo è invece limitata ad alcuni sistemi, tutti riconducibili alla tecno- logia dell’assorbimento: questa rappresenta una evoluzione, su scala dimensionale diversa, del processo utilizzato dai frigoriferi che vengono montati su camper, roulottes ed imbarcazio- ni, che sfruttano come fonte energetica un piccolo bruciatore a gas liquido.
Non sarebbe infatti conveniente, in termini di rendimento globale, adottare macchine frigori- fere a compressione – universalmente adottate nella refrigerazione tradizionale – che partono necessariamente da una fonte di energia meccanica. Questo perché il passaggio termodina- mico dalla biomassa alla generazione di energia elettrica manifesta un rendimento che non supera di norma il 40%, con qualche eccezione oltre il 50% (nei grandi turbogeneratori a va- pore, che però hanno qualche problema di compatibilità ambientale).
I sistemi ad assorbimento, a fronte di una certa complessità costruttiva, sono caratterizzati da un rendimento molto più elevato, in quanto si elimina la “strozzatura” rappresentata dal motore termico (necessario per azionare il generatore di corrente elettrica), che rimane il vero anello debole della catena.
5.6.1 Sistemi ad assorbimento
Premessa
Esistono diversi tipi di macchine frigorifere, la più comune delle quali è una evoluzione del processo Linde, tuttora utilizzata tanto nella refrigerazione quanto nella climatizzazione, sia in ambito domestico che produttivo.
Nella maggior parte dei casi un fluido organico viene portato ad una certa pressione, grazie ad un compressore, e quindi fatto evaporare all’interno di un circuito sigillato. Durante l’evapora- zione il fluido assorbe calore, refrigerando così il fluido di trasporto che circola all’interno dello scambiatore e che servirà per la refrigerazione o la climatizzazione.
Nelle installazioni fisse la fonte di energia è preferibilmente rappresentata dalla corrente di rete, mentre in quelle mobili (furgoni a temperatura controllata per il trasporto di derrate deperibili) si usano motori Diesel o, nei veicoli leggeri, motori elettrici alimentati dalle batterie di bordo.
Ove la fonte di energia primaria è il calore di un impianto di cogenerazione, il sistema a com- pressione non risulta molto conveniente da punto di vista del rendimento energetico, certo, ma nemmeno sotto l’aspetto economico.
Se si guarda al bilancio energetico, si devono realizzare ben tre diverse trasformazioni:
1. conversione in energia meccanica (tramite un motore primario), caratterizzata da un rendimento modesto: in media dal 15 al 35% per i motori a combustione esterna, e dal 25 al 40% per quelli a combustione interna;
2. produzione di energia elettrica: la tecnologia ad inverter ha migliorato molto il rendi- mento dei piccoli impianti, che si aggira in media fra 80 e 90%;
3. produzione del “freddo”, tramite sistemi frigoriferi a compressore azionato da motori elettrici che, nei sistemi ad inverter, hanno un rendimento effettivo analogo a quello degli alternatori.
Il rendimento globale dell’intero processo è dato dal prodotto dei rendimenti delle singole macchine e, pur potendo variare entro limiti molto ampi – fra il 10% ed il 30% dell’energia immessa con la biomassa – rimane molto basso.
Sul piano economico, dobbiamo considerare che l’energia elettrica rappresenta tuttora, grazie alla tariffa incentivante, la principale fonte di entrata dell’impianto di cogenerazione, mentre la produ- zione del freddo non è conveniente, specie quando si ha a disposizione un’alternativa valida.
I sistemi ad assorbimento consentono infatti di ridurre i consumi elettrici interni ad un valore minimo – quello richiesto dall’azionamento delle pompe di circolazione – in quanto si avval- gono, come fonte di energia primaria, del calore residuo dell’impianto di cogenerazione.
Principio di funzionamento
Il sistema si fonda anch’esso sulla sottrazione di calore provocata dall’evaporazione di un liqui- do, con la differenza che questa non viene provocata dalla brusca espansione dopo una fase di compressione, ma da una forte depressione che provoca l’ebollizione del liquido refrigerante a temperatura relativamente bassa.
La rapida evaporazione avviene in un recipiente in forte depressione, ovviamente a tenuta ermetica (detto “evaporatore”), sulla superficie di un scambiatore di calore al cui interno scorre il liquido che si vuole raffreddare e che alimenta l’impianto di refrigerazione o di climatizzazio- ne; per effetto della rapida evaporazione la superficie dello scambiatore si raffredda, sottraen- do calore al liquido che circola al suo interno.
Nello stesso recipiente, tuttavia, il vapore formatosi deve essere rapidamente allontanato, per non fare aumentare troppo la pressione interna, che finirebbe per arrestare il ciclo: infatti la temperatura di ebollizione dei liquidi diminuisce con il diminuire della pressione (in pratica, è il processo inverso della pentola a pressione, grazie alla quale è possibile aumentare la tempe- ratura di ebollizione dell’acqua onde ridurre i tempi di cottura dei cibi).
L’allontanamento del vapore è possibile grazie ad una sostanza assorbente (da cui il nome di sistema ad assorbimento) che lo riporta allo stato liquido: se il fluido di lavoro è acqua, l’assor- bente è una soluzione concentrata di bromuro di litio, un sale fortemente igroscopico (assorbe e trattiene il vapore sotto forma di acqua).
L’uso dell’acqua come fluido di lavoro è possibile solo quando il liquido da raffreddare deve ali- mentare impianti frigoriferi a temperature di qualche grado sopra lo zero termico; per tempe- rature inferiori a 4°C è necessario impiegare ammoniaca pura, ed in questo caso si usa l’acqua come sostanza assorbente (in cui l’ammoniaca si scioglie con estrema facilità).
Mentre i refrigeratori ad acqua operano sempre in depressione, più o meno spinta, in quelli ad ammoniaca si lavora a pressioni molto simili a quelle impiegate nelle macchine frigorifere a compressione (da 270 a 2300 kPa, corrispondenti a circa 2,7-23 bar).
Per completare il ciclo, tuttavia, bisogna ritornare alla situazione di partenza ed ottenere ac- qua pura, da fare nuovamente evaporare, e soluzione concentrata di bromuro di litio, da riuti- lizzare come assorbente.
Per ottenere questo risultato bisogna portare ad ebollizione la soluzione di bromuro di litio – di- luita dal vapor d’acqua assorbito – ed a tal fine si utilizza la sorgente di energia termica derivata dall’impianto di cogenerazione: acqua calda (a temperatura superiore a 75°) oppure vapore.
Il processo avviene in un secondo recipiente ermetico, detto “generatore”, in cui si svolgono due processi complementari:
• evaporazione del fluido refrigerante, in modo da riportare la concentrazione della solu- zione assorbente al giusto titolo;
• condensazione del vapore acqueo così ottenuto, facendo attenzione che questo non torni ad “inquinare” la soluzione di bromuro di litio.
La condensazione del vapore richiede l’allontanamento del calore in eccesso, per mezzo di un secondo circuito di raffreddamento, simile per certi versi a quelli usati per i motori a combu- stione interna, anche se il liquido di raffreddamento non deve superare i 35° C.
Schema costruttivo e soluzioni tecniche
I sistemi di refrigerazione ad assorbimento, funzionanti ad acqua e bromuro di litio, possono essere schematicamente suddivisi in due diverse sezioni:
• Sezione a bassa pressione (figura 5.64): l’elemento fondamentale è costituito da un in- volucro metallico a perfetta tenuta, in cui viene mantenuta una forte depressione (circa 1/100 della pressione atmosferica). Il reattore è a sua volta diviso in due corpi fra loro comunicanti, l’evaporatore e l’assorbitore. Nel primo, il fluido refrigerante (acqua) viene nebulizzato sulla superficie di uno scambiatore, costituito da un fascio di tubi in rame piegati a serpentina, nel quale circola la soluzione da raffreddare. Data la bassissima pressione, l’acqua vaporizza all’istante sottraendo calore al liquido che circola nello scambiatore: il vapore formatosi sfugge dalla zona di evaporazione, entrando nell’as- sorbitore. Qui entra a contatto con la soluzione concentrata di bromuro di litio, che lo assorbe aumentando così la propria diluizione. L’impianto si completa con due diversi circuiti, di cui uno destinato al recupero dell’acqua non evaporata e l’altro che preleva la soluzione diluita per inviarla al generatore.
Fig. 5.64. Assorbitore-evaporatore. Sezione a bassa pressione.
A
6
1
7
9
8
3
Lato A - evaporatore
1. ingresso acqua nebulizzata nel vaso a depressione;
2. recupero acqua non evaporata dal fondo del vaso a depressione;
3. ingresso della soluzione frigorifera da raffreddare (11°C);
4. serpentina dell’evaporatore;
5. uscita della soluzione frigorifera raffreddata (6°C);
6. setto di separazione che consente al vapore di entrare nell’assorbitore;
Lato B - assorbitore
7. ingresso soluzione concentrata e nebulizzata di bromuro di litio;
8. uscita soluzione diluita di bromuro di litio;
9. ingresso acqua di raffreddamento dell’assorbitore;
10. assorbitore, ove la soluzione concentrata assorbe il vapore acqueo diluendosi;
11. uscita acqua di raffreddamento dell’assorbitore;
12. recupero della soluzione diluita di bromuro di litio.
• Sezione ad alta pressione (figura 5.65): consiste in un altro reattore a tenuta ermetica posto in depressione, ma meno spinta rispetto a quella dell’evaporatore (circa 10 kPa), anch’esso diviso in due diversi dispositivi.
- Il primo, detto generatore, è riscaldato dalla fonte di energia termica per mezzo di una serpentina (percorsa da acqua calda o vapore), che ha la funzione di far “bollire” la solu- zione di bromuro di litio diluita: perdendo acqua sotto forma di vapore, la soluzione si concentra e può così essere inviata – previo raffreddamento – all’assorbitore e ricomin- ciare il ciclo.
- Il vapore così formatosi passa, attraverso un setto poroso che ne impedisce il ritorno, all’adiacente dispositivo – il condensatore – nel quale viene condensato: il passaggio allo stato liquido avviene a contatto con un altro scambiatore a serpentina, a sua volta raffreddato da un proprio circuito di raffreddamento; l’acqua così ottenuta viene allon- tanata dal reattore e poi – previo raffreddamento fino a temperatura ambiente – viene nuovamente pompata nell’evaporatore e ritorna in circolo.
Fig. 5.65. Generatore-condensatore. Sezione ad alta pressione.
B
7
5
A
8
Sezione A – generatore
1. sorgente di energia termica (vapore, acqua calda, bruciatore ecc.);
2. ebollizione della soluzione diluita di bromuro di litio;
3. soluzione concentrata di bromuro di litio;
4. passaggio del vapore dal generatore al condensatore.
Sezione B - condensatore
5. condensazione del vapore a contatto con lo scambiatore;
6. immissione liquido di raffreddamento dello scambiatore;
7. uscita liquido di raffreddamento dallo scambiatore;
8. uscita acqua di condensazione (ritorno in circolo).
L’assorbimento del vapore acqueo da parte del bromuro di litio è una reazione fortemente esotermica; dato che l’assorbitore è adiacente all’evaporatore è indispensabile rimuovere il calore generatosi, pena una drastica riduzione della capacità refrigerante. Per questo motivo la vasca di raccolta della soluzione diluita di bromuro di litio è occupata da uno scambiatore di calore, raffreddato ad acqua con un proprio circuito. Il problema del calore da smaltire è rilevante anche nella sezione a minore depressione: oltre al raffreddamento del condensatore
– indispensabile perché il vapore acqueo possa tornare allo stato liquido – bisogna raffreddare l’acqua ad una temperatura accettabile, prima di poterla reimmettere nell’evaporatore.
Per questo motivo i sistemi ad assorbimento hanno bisogno di un circuito di raffreddamento
di capacità pressochè doppia rispetto agli impianti frigoriferi a compressione: mentre in questi ultimi bisogna smaltire solo il calore sottratto alla parte fredda dell’impianto, nei primi si deve smaltire anche il calore primario, impiegato per far funzionare il generatore, che restituisce l’assorbitore in soluzione concentrata e l’acqua allo stato liquido.
Considerazioni finali
Il rendimento energetico del processo è molto buono: per ogni kWh di energia termica intro- dotta nel sistema, si produce circa il 70% di energia “frigorifera”.
Una variante del sistema descritto riguarda gli impianti ad assorbimento a “doppio effetto”, realizzabili solo quando la sorgente termica derivata dall’impianto di cogenerazione è costi- tuita da acqua calda ad almeno 150° C (in pressione, perché altrimenti bollirebbe), oppure da vapore acqueo a pressione di almeno 4 bar.
In questo caso l’alta temperatura della fonte energetica consente di abbinare due generatori in serie: anche il secondo avrà infatti a disposizione un salto termico sufficiente per rigenerare l’assorbente, seppure con una portata inferiore al primo.
La somma dei due generatori consente però di aumentare la potenza dell’impianto di circa il 50-60%, a parità di energia fornita al sistema frigorifero; questo significa che il rendimento energetico aumenta in misura corrispondente, portandosi a valori davvero favorevoli, supe- riori al 100%. Ecco spiegato il duplice vantaggio dei sistemi ad assorbimento rispetto alle mac- chine frigorifere a compressione, quando si ha a disposizione l’energia termica di recupero di un impianto di cogenerazione. Poiché l’incremento del rendimento energetico corrisponde ad una migliore utilizzazione del calore fornito all’impianto, il sistema di raffreddamento di un gruppo frigorifero a doppio effetto abbisogna di una superficie radiante proporzionalmente inferiore a quella necessaria per un gruppo a generatore monostadio.
Dove è necessario raggiungere temperature del circuito freddo inferiori a 4-5° C, il sistema ad assorbimento può essere integrato con una macchina frigorifera a compressione, sia per raggiungere il livello di temperatura richiesto, sia per la prerefrigerazione del prodotto prima di portarlo alla temperatura di conservazione.
In alternativa si può ricorrere ad un gruppo frigorifero ad assorbimento di altra natura, come quelli che usano l’ammoniaca anidra come fluido di lavoro e come assorbente l’acqua.
Benché il principio di funzionamento sia simile agli impianti descritti, le soluzioni impianti- stiche sono diverse, dato che l’ammoniaca, se non ha limitazioni legate alla temperatura di raffreddamento, ne manifesta altre dovute a quella della sorgente termica.
L’ammoniaca, che viene prodotta facendo reagire l’azoto atmosferico ed il vapor d’acqua ad alta temperatura e pressione, in presenza di adatti catalizzatori, tende parimenti a dissociarsi quando si superano i 180° C: per questo non si può usare negli impianti a doppio effetto, che richiedono per l’appunto sorgenti termiche ad alta temperatura.
Le pressioni in gioco, nel ciclo ad ammoniaca, sono sempre superiori a quella atmosferica: tuttavia, poiché la funzione assorbente è svolta dall’acqua, può capitare che all’interno del ge- neratore non evapori solo l’ammoniaca, ma anche una piccola frazione di acqua, che potrebbe così “inquinare” il fluido di lavoro riducendo il rendimento del sistema.
Per ovviare a tale inconveniente si deve inserire – fra il generatore ed il condensatore – un dispositivo di separazione fra ammoniaca ed acqua, che prende il nome di rettificatore.
Il condensatore, lavorando a pressione positiva ed a temperatura più bassa rispetto agli im- pianti ad acqua e bromuro di litio, può essere raffreddato con un semplice scambiatore ad aria, evitando un circuito a liquido. I sistemi ad ammoniaca non sembrano per il momento partico-
larmente diffusi, rispetto a quelli ad acqua e sali di litio, specie nel settore della trigenerazione al servizio di reti di teleriscaldamento e climatizzazione.
Un’applicazione innovativa potrebbe essere quella che prevedesse un ulteriore recupero ter- mico dall’acqua di raffreddamento – in luogo del semplice smaltimento attraverso le torri di evaporazione – per alimentare un impianto di riscaldamento a bassa temperatura, con pan- nelli radianti o serpentine per riscaldamento basale di bancali, semenzai, germinatoi, nell’am- bito delle colture protette, ovvero per il riscaldamento di ambienti destinati all’allevamento. Né va dimenticata, per quanto realizzabile solo in situazioni particolari (presenza di una sor- gente fredda) la possibilità di impiegare un gruppo frigorifero ad assorbimento in pompa di calore: rispetto alla soluzione più semplice, quella di inviare direttamente il calore in eccesso al teleriscaldamento, è possibile aumentare considerevolmente il già ottimo rendimento ener- getico, fino a valori ben superiori al 100%.
5.7 Sistemi per la produzione di vettori energetici
Premessa
Fra i vettori energetici si comprendono tutti quei prodotti che possono essere utilizzati come carburanti o combustibili per gli impianti di cogenerazione che si avvalgono di motori primi a combustione interna e che possono usufruire di reti di distribuzione già esistenti senza dover apportare loro modifiche significative.
Possono quindi essere inquadrati fra i vettori energetici gli oli vegetali puri, in grado di sosti- tuire – seppure in motori Diesel o turbogas modificati – i combustibili fossili, così come altri carburanti liquidi di prima o di seconda generazione (alcool e grassi).
Per gli oli vegetali puri si rimanda all’apposita sezione, ove vengono trattati i processi di pro- duzione e le tecniche oggi disponibili anche per impianti di tipo aziendale o interaziendale (o, per meglio dire, decentralizzato).
Allo stato attuale la tecnologia per la produzione di bioetanolo non sembra destinata ad im- pianti riconducibili ad un contesto agricolo, quanto ad un processo industriale piuttosto sofi- sticato, in grado di garantire un sufficiente rendimento energetico ed economico.
Ancora assente in Italia, anche per ragioni normative, la produzione di metano di origine bio- logica (biometano) rappresenta forse la più moderna evoluzione del biogas, dal quale deriva direttamente: il metano puro può infatti essere immesso nella normale rete distributiva, ovve- ro essere utilizzato come carburante per autotrazione.
La produzione di biometano
Il metano rappresenta il principale costituente del biogas, e di certo il più nobile: i biogas sono infatti miscele di metano con altre sostanze, alcune delle quali sono combustibili, altre sono inutilizzabili, altre ancora possono provocare danni ai motori o agli impianti.
Tab. 5.24. Nella tabella sottostante sono evidenziate le caratteristiche di due tipi di bio- gas e la relativa composizione
Composti/elementi | Unità di misura | Biogas di discarica | Xxxxxx xx xxxxxxxxx |
Xxxxxx (XX0) | % in volume | 40 - 65 | 55 - 70 |
Idrogeno (H2) | % in volume | 0 - 3 | 0 |
Anidride carbonica (CO2) | % in volume | 20 - 50 | 30 - 45 |
Azoto (N2) | % in volume | 10 - 35 | 0 - 0,2 |
Ossigeno (O2) | % in volume | 0 - 5 | 0 |
Idrogeno solforato (H2S) | ppm | 0 - 100 | 0 - 10.000 |
Ammoniaca (NH3) | ppm | 5 | 0 - 100 |
Cloro (Cl-) | ppm | 15 - 150 | 0 - 4 |
Il riferimento al biogas estratto dalle discariche di rifiuti solidi urbani è importante sia per com- prendere come si sono evolute le tecnologie di separazione dei vari composti chimici inutili o dannosi, sia perché a livello mondiale la maggior parte del biometano viene ricavata proprio dai gas di discarica.
Analizzando le specifiche in vigore nei vari Paesi ove è ammessa l’immissione in rete del me-
tano derivante dal processo di arricchimento e depurazione del biogas, possiamo osservare quali debbano essere le caratteristiche minime medie del biometano:
Tab. 5.25. Confronto tra la composizione del biogas e il biometano
Composti/elementi | Unità di misura | Biogas grezzo | Biometano |
Metano (CH4) | % in volume | 55 - 70 | 95 |
Anidride carbonica (CO2) | % in volume | 30 - 45 | 0 - 5 |
Idrogeno solforato (H2S) | ppm | 0 - 10.000 | 0 - 4 |
Ammoniaca (NH3) | ppm | 0 - 100 | 0 - 15 |
Cloro (Cl-) | ppm | 0 - 4 | 0 - 0,8 |
Si noti che il titolo in metano richiesto dai gestori per l’immissione in rete è spesso superiore a quello che caratterizza il gas naturale, che può contenere – nei giacimenti più poveri – una percentuale di metano inferiore al 90%.
Una concentrazione tanto alta presuppone innanzi tutto l’allontamento dell’anidride carboni- ca, che rappresenta il secondo componente in volume del biogas; ma bisogna togliere anche quelle sostanze che, ancorché presenti in quantità modeste (come i composti del cloro, del- l’azoto e dello zolfo), peggiorano la qualità del gas e possono danneggiare i motori a combu- stione interna.
Tecnologie per l’arricchimento in metano
L’incremento del titolo in metano (upgrading) può essere ottenuto applicando diverse solu- zioni tecniche, tutte finalizzate a rimuovere i composti indesiderati; fra queste si ritiene utile accennare ai processi che sembrano godere di maggior favore, sia da parte della comunità scientifica, sia nelle realizzazioni pratiche.
1. Assorbimento chimico: è efficace soprattutto contro i composti solforati (H2S);
2. lavaggio del gas con acqua (scrubbing): lavorando ad alta pressione è possibile elimina- re sia l’anidride carbonica sia l’idrogeno solforato;
3. assorbimento selettivo a pressione variabile: si fonda sulla proprietà di alcune sostanze di trattenere (adsorbire) le varie impurità a livello molecolare ma di lasciare passare il metano;
4. separazione criogenica: raffreddando opportunamente il biogas è possibile allontanare i vari composti, in relazione alla loro temperatura di ebollizione;
5. separazione con membrane: alcuni composti possono essere trattenuti da una membra- na, mentre altri possono attraversarla, in relazione alle proprie caratteristiche chimiche ed alla differenza di pressione.
1 - Assorbimento chimico
Si tratta di una tecnica già consolidata, in grado di rimuovere selettivamente l’idrogeno solfo- rato grazie ad un processo di ossidazione dal quale si originano acqua e zolfo.
Il processo di ossidazione dell’idrogeno solforato si avvale di un composto di ferro, che opera come agente chelante separando lo zolfo (S) dall’idrogeno (H): mentre quest’ultimo si combi- na con l’ossigeno per dare acqua, il primo si deposita sul fondo del reattore come zolfo ele- mentare. Non vengono quindi ottenuti né sottoprodotti di difficile eliminazione né alcun tipo di rifiuto, ma solo un prodotto chimico estremamente puro e di elevato valore commerciale.
La reazione avviene all’interno di un reattore cilindrico nel quale il biogas viene insufflato sotto forma di piccole bollicine e viene investito – dall’alto verso il basso – dal chelato di ferro (EDTA, un acido organico che trova impiego in numerosi settori): grazie ad un ulteriore reattore in cui viene inserita aria, l’agente chelante viene rigenerato ed il ciclo può proseguire indefinitamen- te. L’unico svantaggio di questo processo – in grado di rimuovere completamente i composti solforati – consiste nel fatto di doverlo accoppiare ad un sistema per l’eliminazione dell’ani- dride carbonica.
2 - Lavaggio del gas con acqua (scrubbing)
Questa tecnica si fonda su un principio esclusivamente fisico, quello della soluzione in acqua delle sostanze gassose, senza quindi determinare alcuna reazione chimica; infatti i vari com- posti che costituiscono il biogas sono caratterizzati da una diversa solubilità in acqua, che è massima per l’anidride carbonica e l’idrogeno solforato, mentre è minima per il metano.
La solubilità dei gas in acqua aumenta, a livello generale, con la pressione: per questo il reat- tore (scrubber), viene alimentato con biogas fortemente compresso. Il lavaggio del gas con acqua avviene facendola percolare dall’alto verso il basso: per aumentare la superficie di con- tatto fra acqua e gas il reattore viene riempito con particolari sostanze in forma di granuli o di cilindretti. L’altezza dello scrubber dipende da molteplici fattori, fra i quali possiamo citare la pressione di esercizio, la percentuale di metano contenuta nel biogas, la temperatura di eser- cizio, il materiale di riempimento ecc.
Fra le varie tecnologie per l’arricchimento e la depurazione del biogas, questa è certamente la più semplice, oltre ad offrire numerosi vantaggi sul piano dell’efficienza: il biogas infatti, oltre ad essere privato dell’anidride carbonica, viene refrigerato, depurato di eventuali composti (come quelli di zolfo, cloro e azoto) potenzialmente corrosivi, oltre che liberato da particolati solidi (come i silossani) destinati a provocare incrostazioni nei motori a combustione interna. Il processo, nei suoi sviluppi iniziali, aveva il difetto di richiedere moltissima acqua: oggi esi- stono tecnologie che consentono di rigenerare l’acqua, o facendo evaporare i gas assorbiti (in depressione), oppure “lavando” l’acqua stessa mediante insufflazione di aria in un reattore analogo a quello usato per la depurazione del biogas.
3 - Adsorbimento selettivo (PSA: pressure swing adsorption)
Questa tecnica si fonda sulla particolare proprietà di alcune sostanze altamente porose – come le zeoliti, il carbone attivo o gel di silice – di trattenere alcune molecole e di lasciarne passare altre, in particolare quelle di metano.
Il processo, noto come “adsorbimento”, non configura una combinazione chimica fra la sostan- za adsorbente ed il composto che si vuole rimuovere, quanto piuttosto una sorta di “intrappo- lamento” delle molecole indesiderate nella sua struttura superficiale.
Il biogas viene introdotto sotto pressione in un reattore riempito con il materiale adsorbente, che trattiene tutte le impurità, come anidride carbonica, idrogeno solforato, acqua, azoto ed ossigeno, ottenendo un gas contenente almeno il 97% di metano, titolo più che sufficiente per l’immissione in rete. Il processo è reversibile, nel senso che i composti trattenuti per adsorbi- mento possono essere facilmente rimossi, rigenerando la sostanza adsorbente che può essere utilizzata per un nuovo ciclo: chiudendo la valvola di immissione del biogas e mettendo il reattore in depressione è infatti possibile estrarre la miscela di sostanze di rifiuto sopra descrit- te. A livello impiantistico i reattori sono disposti in batteria (solitamente in numero di 4), onde consentire la rigenerazione dell’adsorbente e le eventuali operazioni di manutenzione, senza dover fermare l’impianto o limitarne troppo le prestazioni.
Mentre l’eliminazione dei composti inerti – come l’anidride carbonica, l’acqua, l’ossigeno o l’azoto – è pressoché completa, il processo non elimina del tutto l’idrogeno solforato: per que- sto è opportuno far passare il biogas greggio in un reattore ad assorbimento chimico (vedasi il punto 1), prima di immetterlo nell’impianto.
4 - Separazione criogenica
Il processo è del tutto assimilabile ad una distillazione frazionata, come quella utilizzata, per esempio, nella raffinazione del petrolio: ma dato che si parte da una miscela gassosa, bisogna prima portarla allo stato liquido.
Poiché la miscela è costituita da diverse sostanze, tutte gassose a temperatura ambiente, il biogas deve essere portato a bassissima temperatura, al di sotto dei 170°K (-110°C) e ad alta pressione (circa 80 bar), in modo da consentirne il passaggio alla fase liquida.
Il raggiungimento di tali temperature avviene per gradi: a -45°C, per esempio, condensa l’ani- dride carbonica, poi si hanno raffreddamenti successivi, fin sotto i -110°C; ad ogni passaggio è possibile allontanare i composti che via via condensano; infine, al termine del processo di depurazione, il biometano deve essere riscaldato fino alla temperatura ambiente per potere essere immesso nella rete.
L’insieme di tutte queste operazioni di compressione e di espansione rendono il processo di separazione criogenica piuttosto dispendioso, sia in termini energetici che economici, dato che comportano una notevole complessità costruttiva (le macchine frigorifere usano il ciclo Stirling), oltre ad un certo apporto di energia.
Per contro è il sistema più efficiente, in quanto permette di ottenere metano assolutamente puro, rimuovendo tutte le sostanze indesiderate, senza fare uso di reagenti chimici né di so- stanze con caratteristiche particolari (come gli adsorbenti).
5 - Separazione su membrane
Il processo di separazione si attua per mezzo di particolari membrane semipermeabili, in grado di lasciare passare alcuni sostanze e di trattenerne altre, secondo il principio della permeabilità selettiva. Aumentando la scala delle dimensioni fino ad un livello macrosco- pico, possiamo dire che le membrane utilizzate in tali processi (costituite da un polimero organico), si comportano come una sorta di filtro, lasciando passare gli oggetti più minuti e trattenendo i più voluminosi. In realtà parliamo di molecole: i composti con molecole mol- to leggere (come l’idrogeno) o facilmente solubili (come l’anidride carbonica e l’idrogeno solforato) passano con facilità, mentre le molecole più pesanti e meno solubili (come gli idrocarburi, e quindi il metano), vengono trattenuti.
Esattamente come nei filtri, la velocità di passaggio dei gas attraverso la membrana è dovuta alla differenza fra la pressione a monte e quella a valle; questo richiede, specialmente nei siste- mi a stadi multipli, ripetuti cicli di compressione del biogas.
In pratica, a diverse caratteristiche della membrana corrisponde una diversa permeabilità a questo o a quel composto. Per tale motivo si utilizzano moduli multipli, ognuno dei quali è specifico per lasciare sfuggire una determinata sostanza indesiderata, eliminandola dal biogas. Con passaggi successivi è possibile rimuovere dal biogas greggio tutto ciò che non è metano, ottenendo un prodotto con un buon grado di purezza (fino al 94% su un singolo stadio).
L’arricchimento del biogas con i separatori a membrana sembra destinato a godere di note- vole popolarità, almeno in prospettiva, per effetto della grande semplicità impiantistica e del fatto di non richiedere manodopera specializzata; per contro queste membrane sono ancora
piuttosto costose, mentre la compressione del biogas richiede un sensibile consumo di ener- gia; non rilevano, per l’arricchimento del biogas derivante da biomasse di origine agricola, altri difetti di questi impianti dovuti alla presenza di solventi organici o di solidi in sospensione, che ne limitano l’uso per la depurazione del biogas di discarica.
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