Edizione di martedì 15 dicembre 2020
Edizione di martedì 15 dicembre 2020
Esecuzione forzata
Effetti dell’estinzione dell’espropriazione forzata sulla divisione endoesecutiva
di Xxxxx Xxxxxxxx
Impugnazioni
Al fine del decorso del "termine breve" di impugnazione, la notificazione della sentenza alla Pubblica Amministrazione deve indicare le generalità del difensore ove l’ente è domiciliato
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx
Obbligazioni e contratti
Nullità del contratto preliminare di immobile da costruire con polizza rilasciata in ritardo: tra meritevolezza degli interessi sottesi e abuso del diritto
di Xxxxxxxx Xxxxx
Proprietà e diritti reali
Quando il diritto reale di superficie si insinua tra proprietari confinanti: ius ad aedificandum e nozione di "costruzione"
di Xxxxxx Xxxxxxxx
Diritto e procedimento di famiglia
I criteri per la ripartizione della reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Diritto e reati societari
Nullità dell’opzione put in violazione del divieto del patto leonino
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Spunti sull’applicabilità degli artt. 135 - 184 L.F. agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182bis L.F.
di Xxxx Xxxxx Xxxxxxxx
Diritto Bancario
Cenni sul limite di finanziabilità dei mutui fondiari
di Xxxxx Xxxxxxxx
Soft Skills
Tre strumenti per gestire i collaboratori con efficacia: riunioni, delega e feedback
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Business Coach e Formatore
Esecuzione forzata
Effetti dell’estinzione dell’espropriazione forzata sulla divisione endoesecutiva
di Xxxxx Xxxxxxxx
Cass. civ., sez. VI, 2 ottobre 2020, n. 21218 – Pres. Cosentino – Rel. Xxxxxxxxx
Poiché la divisione endoesecutiva, sebbene strumentale alla liquidazione del compendio immobiliare pignorato per la quota indivisa, resta una parentesi cognitiva autonoma, oggettivamente e soggettivamente distinta dalla procedura espropriativa che ne ha cagionato l’introduzione e di cui non costituisce una fase, quanto ivi disposto non viene immediatamente travolto per effetto delle vicende del processo esecutivo e, in caso di sentenza che abbia dichiarato l’estinzione di quest’ultimo, il giudice è legittimato a disporre la sospensione del giudizio di divisione ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c., in attesa della definitività di tale sentenza.
CASO
Nell’ambito dell’espropriazione forzata della quota indivisa di un immobile, il processo esecutivo veniva sospeso per dare corso al giudizio di divisione, conclusosi con sentenza che, accertata la non comoda divisibilità del bene, ne disponeva la vendita, cui seguivano l’aggiudicazione e l’emissione dei decreti di trasferimento.
A quel punto, il giudice dell’esecuzione veniva investito della richiesta di declaratoria di estinzione del processo esecutivo, in quanto, dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado nell’ambito del giudizio di divisione, era stato riassunto quest’ultimo, anziché quello di esecuzione.
L’istanza veniva rigettata, così come il successivo reclamo; la Corte d’appello di Ancona, tuttavia, riformava il provvedimento, dichiarando l’estinzione del processo esecutivo.
Xxxxxx, quindi, chiesta l’adozione dei provvedimenti conseguenti a tale pronuncia, ma poiché quest’ultima era stata – nel frattempo – fatta oggetto di ricorso per cassazione, il giudice sospendeva il processo di divisione fino al suo passaggio in giudicato ai sensi dell’art. 337, comma 2, c.p.c.
L’ordinanza così emessa veniva impugnata con ricorso per regolamento di competenza, lamentandosi che la norma richiamata consente di sospendere il processo quando è invocata l’autorità di una sentenza resa in altro giudizio, mentre quella emessa nel
procedimento di divisione endoesecutiva – proprio in quanto tale – appartiene pur sempre al processo esecutivo.
SOLUZIONE
La Corte di cassazione ha respinto il ricorso, ritenendo che, stanti i rapporti tra espropriazione forzata e divisione endoesecutiva (la quale, pur essendo funzionale alla prima, non ne costituisce una fase, ma rimane una parentesi cognitiva autonoma), il giudice dell’esecuzione avesse correttamente fatto applicazione dell’art. 337, comma 2, c.p.c., anziché degli artt. 336 e 295 c.p.c.
QUESTIONI
L’inquadramento sistematico della divisione che venga disposta nel corso del processo di esecuzione forzata per fare cessare lo stato di comunione e potere disporre la vendita della quota attribuita al debitore esecutato, che rappresenta lo sviluppo normale di ogni procedura espropriativa riguardante un bene in comproprietà, è stato operato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 20817 del 20 agosto 2018.
In tale arresto è stato affermato che il giudizio di divisione endoesecutiva costituisce una parentesi di cognizione nell’ambito dell’esecuzione forzata e, pur ponendosi in rapporto di funzionalità rispetto a essa, assume i connotati di un procedimento incidentale integrante un vero e proprio giudizio di cognizione, autonomo e distinto dal processo di esecuzione, di cui non costituisce né una continuazione, né una fase, sebbene si svolga dinanzi al medesimo giudice dell’esecuzione, nella veste e in funzione di giudice istruttore civile. Sintomatico, da questo punto di vista (anche se – di per sé – non decisivo), è il fatto che il giudizio di divisione deve comunque essere iscritto a ruolo e assume un numero identificativo diverso da quello del processo esecutivo.
Poiché, dunque, il rapporto di funzionalità esistente tra i due giudizi non ne fa venire meno l’autonomia, è giocoforza ritenere, secondo i giudici di legittimità, che le vicende che interessano l’uno non esplicano immediatamente effetti nell’altro.
Nel caso di specie, era stata disposta la sospensione del processo esecutivo per effetto di quanto previsto dall’art. 601 c.p.c.: allorché, trattandosi dell’espropriazione forzata di bene indiviso, non sia possibile la separazione della quota in natura spettante al debitore e il giudice ritenga improbabile che la quota indivisa possa essere venduta a un prezzo pari o superiore al valore della stessa, si deve procedere alla divisione, con conseguente sospensione ex lege dell’esecuzione.
Venuta meno la causa della sospensione, il processo esecutivo deve riprendere il proprio corso: un tanto avviene non già automaticamente, bensì, giusta quanto prevede l’art. 627 c.p.c., mediante la riassunzione su iniziativa della parte interessata, tramite ricorso depositato nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione e, in ogni caso, entro
sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado o dalla comunicazione della sentenza d’appello che rigetta l’opposizione (qualora, evidentemente, si tratti di sospensione disposta ai sensi dell’art. 624 c.p.c.).
La norma dell’art. 627 c.p.c. è espressamente richiamata dall’art. 601 c.p.c., sicché, nel caso di sospensione disposta al fine di dare corso al giudizio di divisione endoesecutiva, dal passaggio in giudicato della sentenza di primo grado emessa nell’ambito dello stesso ovvero – ove questa sia stata impugnata – dalla comunicazione della sentenza di appello, scatta il termine semestrale entro cui dev’essere presentato il ricorso in riassunzione, salvo che, al limite, sia il giudice della causa divisoria a indicare, nella sentenza, il termine per la riassunzione del processo esecutivo sospeso.
Dall’autonomia dei procedimenti (esecutivo e di divisione) discende che la riassunzione dell’uno non produce sull’altro gli effetti previsti dall’art. 627 c.p.c.; di conseguenza, qualora manchi l’atto d’impulso – ovvero di riattivazione – del processo esecutivo, quest’ultimo si estingue, per effetto di quanto stabilito dall’art. 630 c.p.c.
Proprio su queste basi, nella fattispecie esaminata nella sentenza che si annota, era stata chiesta (e, dopo l’iniziale rigetto dell’istanza, dichiarata) l’estinzione del processo esecutivo, avendo il ricorso in riassunzione riguardato il giudizio di divisione endoesecutiva (nel quale era poi avvenuta la vendita del bene di cui era stata originariamente pignorata la quota), anziché il processo di esecuzione.
Stante l’impugnazione della sentenza che tale xxxxxxxxxx aveva dichiarato, il giudice dell’esecuzione, in funzione di giudice del giudizio di divisione – nel cui ambito l’immobile era stato aggiudicato, con conseguente emissione dei decreti di trasferimento – aveva deciso di sospendere il procedimento, in attesa del passaggio in giudicato della pronuncia, avvalendosi della previsione recata dall’art. 337 c.p.c., che, al comma 2, stabilisce che quando l’autorità di una sentenza è invocata in un diverso processo, questo può essere sospeso se tale sentenza è impugnata.
Alla luce dei delineati rapporti – di funzionalità, da un lato, ma di autonomia, dall’altro lato – tra processo esecutivo e giudizio di divisione endoesecutiva, i giudici di legittimità:
hanno escluso l’applicabilità dell’art. 336, comma 2, c.p.c., che estende gli effetti della sentenza agli atti e ai provvedimenti che dalla stessa dipendono, ovvero che trovano in essa il proprio fondamento (cosiddetto effetto espansivo esterno), dovendosi escludere che la vendita disposta in sede di divisione sia atto esecutivo direttamente ricollegabile alla procedura esecutiva di cui era stata dichiarata l’estinzione;
hanno escluso, altresì, l’applicabilità dell’art. 295 c.c., dal momento che, fatti salvi i casi nei quali la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione specifica e in modo che debba attendersi che sulla causa
pregiudicante sia pronunciata sentenza passata in giudicato, quando fra due giudizi esiste rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 c.p.c.;
xxxxx, dunque, affermato la correttezza dell’operato del giudice dell’esecuzione, che, ravvisando l’opportunità di attendere l’esito della causa pregiudiziale (ossia la conferma o la cassazione della sentenza che aveva dichiarato l’estinzione del processo esecutivo), aveva sospeso il processo di divisione richiamando proprio l’art. 337, comma 2, c.p.c.
Quanto alle possibili conseguenze della dichiarata estinzione del processo esecutivo sul giudizio di divisione endoesecutivo (nell’ambito del quale era avvenuta la vendita dell’immobile di cui era stata pignorata la quota di proprietà del debitore esecutato), va osservato che, nel caso di specie, erano già intervenuti l’aggiudicazione e l’emissione dei decreti di trasferimento: in ogni caso, dunque, la posizione degli aggiudicatari risulterebbe al riparo dall’eventuale propagazione al giudizio di divisione degli effetti pregiudizievoli ascrivibili all’estinzione del processo esecutivo, se, come sostenuto da alcuni autori, il principio di stabilità della vendita forzata codificato dall’art. 187-bis disp. att. c.p.c. (a mente del quale, una volta intervenuta l’aggiudicazione – anche provvisoria – o l’assegnazione, l’acquisto del terzo è definitivamente fatto salvo anche in caso di estinzione o di chiusura anticipata del processo esecutivo) deve trovare applicazione pure nell’ipotesi di vendita avvenuta in sede di divisione incidentale, che partecipa della medesima esigenza di stabilizzare l’acquisto in buona fede del terzo – in funzione della credibilità del sistema delle vendite giudiziali – sottesa alla citata disposizione.
Impugnazioni
Al fine del decorso del "termine breve" di impugnazione, la notificazione della sentenza alla Pubblica Amministrazione deve indicare le generalità del difensore ove l’ente è domiciliato
di Xxxxxxxxx Xxxxxxx
Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20866, Pres. Tirelli – Rel. De Stefano
Impugnazioni civili – Impugnazioni in generale – Xxxxxxx – Decorrenza – Termine breve per impugnare – Notifica della sentenza di primo grado nei confronti del procuratore della parte o della parte presso il suo procuratore – Espressa menzione del procuratore quale destinatario – Necessità – Fondamento – Notifica ad una pubblica amministrazione – Elezione di domicilio dell’ente presso la propria sede – Rappresentanza da parte di un avvocato facente parte dell’avvocatura interna dell’ente – Notificazione della sentenza all’ente presso tale domicilio senza riferimento nominativo all’avvocato – Inidoneità ad innescare il decorso del termine breve (C.p.c., artt. 170, 325, 327)
[1] Non è idonea a far decorrere il termine di cui all’art. 325 c. p.c. la notifica della sentenza di primo grado effettuata ad una pubblica amministrazione, genericamente e senza contestuale indicazione del difensore domiciliatario, nella sua sede quando tale luogo sia, contemporaneamente, sede dell’ente, della sua avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio.
[2] A garanzia del diritto di difesa della parte destinataria della notifica in ragione della competenza tecnica del destinatario nella valutazione dell’opportunità della condotta processuale più conveniente da porre in essere ed in relazione agli effetti decadenziali derivanti dall’inosservanza del termine breve di impugnazione, la notifica della sentenza finalizzata alla decorrenza di quest’ultimo, ove la legge non ne fissi la decorrenza diversamente o solo dalla comunicazione a cura della cancelleria, deve essere in modo univoco rivolta a tale fine acceleratorio e percepibile come tale dal destinatario, sicché essa va eseguita nei confronti del procuratore della parte o della parte presso il suo procuratore, nel domicilio eletto o nella residenza dichiarata; di conseguenza, la notifica alla parte, senza espressa menzione – nella relata di notificazione – del suo procuratore quale destinatario anche solo presso il quale quella è eseguita, non è idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, neppure se eseguita in luogo che sia al contempo sede di una pubblica amministrazione, sede della sua avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio, non potendo surrogarsi l’omessa indicazione della direzione della notifica al difensore con la circostanza che il suo nominativo risulti dall’epigrafe della sentenza notificata, per il carattere neutro o non significativo di tale sola circostanza
CASO
Il caso in esame è estremamente specifico ed il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte va circoscritto, nella sua applicazione, all’ambito che viene, di seguito, enunciato.
Un allevatore proponeva, nei confronti di una ASL, domanda di risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’illegittimo ordine di abbattimento di alcuni capi di bestiame.Le sue pretese venivano accolte dal Tribunale, nonostante le contestazioni della convenuta, che si era costituita a ministero di un avvocato interno, domiciliato, ai fini del giudizio, presso la sede dell’Ente.
La sentenza di primo grado veniva notificata all’ASL in quella stessa sede, senza che fosse indicato il nominativo del difensore che aveva rappresentato l’ente in primo grado. In particolare, la relazione di notificazione dichiarava che la sentenza veniva notificata all’ASL soccombente, domiciliata in … (luogo nel contempo sede istituzionale della P.A. e domicilio eletto dal suo difensore nel precedente grado di giudizio).
Poiché era già decorso il termine breve (di 30 giorni), l’appello dell’ASL veniva dichiarato inammissibile, in quanto tardivo. La Corte d’Appello riteneva, infatti, che la notifica della sentenza, eseguita con le modalità descritte, fosse pienamente valida e che l’ASL avrebbe dovuto impugnarla nel termine breve previsto dall’art. 325 c.p.c. Il mancato rispetto di tale termine determinava la tardività del gravame e, quindi, la sua inammissibilità.
L’Ente pubblico ricorreva in cassazione, la quale si è pronunciata a Sezioni Unite, risolvendo il contrasto giurisprudenziale sulle due seguenti questioni:
(a) se la notifica della sentenza di primo grado, effettuata (direttamente) ad una pubblica amministrazione presso la propria sede (e senza menzione del procuratore costituito), sia idonea a far decorrere il termine breve di cui all’art. 325 c.p.c., quando tale luogo è anche sede della sua avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio;
(b) se, in questa ipotesi, all’omessa indicazione del difensore dell’ente, nell’atto notificato, possa sopperire il fatto che il nominativo del legale compaia comunque nell’intestazione della sentenza.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, stabilisce che la notifica della sentenza di primo grado, senza alcuna menzione del difensore, deve ritenersi inidonea a far decorrere il termine breve per impugnare, con conseguente erronea declaratoria di inammissibilità dell’appello.
QUESTIONI
Sul tema in esame si fronteggiano due distinti orientamenti giurisprudenziali.
Il primo, numericamente prevalente, afferma che, quando un ente è patrocinato dalla propria
avvocatura interna ed ha eletto domicilio presso la propria sede, la notifica ivi compiuta senza l’indicazione del procuratore domiciliatario non è idonea a far decorrere il termine breve per proporre impugnazione. La sola identità del luogo di domiciliazione non sarebbe, infatti, sufficiente ad assicurare che la sentenza giunga a conoscenza della parte tramite il suo rappresentante processuale. Ciò principalmente a causa della complessità di organizzazione dell’ente destinatario della notifica, delle sue dimensioni e delle prassi locali (Cass. 8 luglio 2016 n. 14054; Cass. 22 novembre 2003 n. 17790; Cass. 27 aprile 2010 n. 10026; Cass. 5 luglio
2017, n. 16590).
L’altro orientamento, dopo aver ricordato che la notifica della sentenza al procuratore costituito (art 170 c.p.c.) ha lo stesso effetto della notifica alla parte presso il procuratore, sostiene che, quando (1) una P.A. disponga di un servizio di avvocatura interna, (2) questa abbia la stessa sede dell’ente e (3) ivi la P.A. abbia eletto domicilio, vi è “una presunzione assoluta di irredimibile collegamento tra la parte, il suo procuratore costituito e il domicilio di quest’ultimo”, tale da creare una “assoluta identità, logistica e funzionale, del domicilio (del rappresentante dell’ente) e del domicilio eletto presso il suo difensore e procuratore costituito” (così, Xxxx. 12 settembre 2011 n. 18640, seguita da Cass. 19 aprile 2015 n. 14891). In tale ipotesi, la notifica della sentenza nel luogo che è, al contempo, sede dell’ente, della sua avvocatura e domicilio eletto, produce gli effetti di cui all’art. 325 c.p.c. Ciò anche se non è indicato il nome del legale che ha patrocinato l’ente in giudizio, quando, comunque, risulti dall’epigrafe della sentenza notificata.Secondo una recentissima giurisprudenza, inoltre, l’indicazione del nominativo del procuratore non è elemento formale espressamente richiesto dalla legge a pena di nullità. La notifica della sentenza presso lo studio del procuratore domiciliatario, senza l’indicazione del nominativo del legale, non è, quindi, nulla, a patto che il nominativo del destinatario dell’atto si evinca dalla pronuncia notificata (Cass. 3 febbraio 2020, n. 2396).Le Sezioni Unite, componendo il contrasto giurisprudenziale in atto, ritengono la soluzione espressa dall’indirizzo giurisprudenziale prevalente (il primo), la più idonea a bilanciare correttamente i vari interessi in gioco: l’esigenza primaria di un sollecito conseguimento di una pronuncia definitiva, il principio di certezza del diritto (la notifica eseguita alla parte personalmente non ha effetti sollecitatori ad esercitare il diritto di impugnazione) e il diritto di difesa di tutte le parti, compresa quella contro cui si vuole formare il giudicato.
A fondamento della propria decisione, la Suprema Corte specifica che, solo qualora l’atto sia dotato di tutti i requisiti formali minimi univoci sopra enunciati, la notificazione si perfeziona e sollecita validamente un’eventuale impugnazione entro il termine breve.
E’, quindi, indispensabile che il procuratore sia menzionato nella notifica, o che sia, con immediatezza, percepibile come destinatario dell’atto, pur senza necessità che il notificante usi formule sacramentali o sia assoggettato a formalismi eccessivi.
Al contrario, la notifica errata, fatta personalmente alla parte, senza alcuna menzione dell’univoca direzione a quel procuratore, non può avere il medesimo effetto, neppure nel caso in cui la stessa sia eseguita in un luogo che sia, al medesimo tempo, sede di una pubblica
amministrazione, sede della sua avvocatura interna e domicilio eletto per il giudizio. In tale ipotesi opera, quindi, l’ordinario termine semestrale, che si applica in assenza di notificazione.
Il nominativo del difensore nell’intestazione della sentenza non comporta che la notifica sia diretta univocamente a quest’ultimo e, quand’anche il titolo sia dal medesimo ricevuto, non attiva il suo onere di impugnazione. Questo principio di diritto pare non operare, invece, nel caso più generale in cui, ferma la mancanza di indicazione del nominativo del procuratore nella relazione di notifica, l’atto sia diretto presso il suo studio professionale, diverso dalla sede o residenza del cliente.
Obbligazioni e contratti
Nullità del contratto preliminare di immobile da costruire con polizza rilasciata in ritardo: tra meritevolezza degli interessi sottesi e abuso del diritto
di Xxxxxxxx Xxxxx
Cass. civ. Sez. Seconda, Ordinanza 18/09/2020, n. 19510, Pres. Lombardo, Est. Giannacari
Immobili da costruire – Contratto preliminare – Fideiussione – Ritardo – Polizza rilasciata per importo inferiore – Abuso del diritto – Nullità del contratto preliminare
[1] Una volta che sia stata rilasciata la garanzia prescritta per legge in data successiva alla stipula del preliminare, e senza che nelle more si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore ovvero che risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente, la proposizione della domanda di nullità di protezione prevista dal D.Lgs. n. 122 del 2005, art. 2 costituisce abuso del diritto. In caso di rilascio della fideiussione in un momento successivo alla conclusione del contratto, va verificato se l’immobile oggetto del preliminare sia stato ultimato e sia agibile perché, in tale ipotesi, verrebbe meno la necessità della tutela in favore del soggetto debole, che non è più in pericolo.
Disposizioni applicate
Art. 2 del d. lgs. n. 122/2005
CASO
Le parti hanno stipulato un contratto preliminare avente ad oggetto un immobile da costruire. Dopo aver rinviato la data per la stipula del definitivo perché l’acquirente avrebbe dovuto vendere un altro immobile di sua proprietà per poter ricavare il prezzo di acquisto del nuovo bene.
Con successiva comunicazione l’acquirente ha comunicato di non voler più procedere con l’acquisto perché non aveva venduto la propria casa e per assenza della polizza fideiussoria, che veniva quindi rilasciata qualche mese dopo dalla promittente venditrice.
Con atto di citazione il promissario acquirente ha convenuto in giudizio la controparte per chiedere la dichiarazione di nullità del preliminare per violazione dell’art. 2 d. lgs. 155/2005 e per ottenere la restituzione di quanto versato.
In primo grado il Tribunale di Lodi ha dichiarato la nullità del contratto preliminare, condannando la promittente venditrice alla restituzione delle somme versate dall’attore. La Corte d’Appello confermò la sentenza impugnata.
Avverso tale sentenza la promittente venditrice ha quindi proposto ricorso in Cassazione.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione afferma che qualora la polizza fideiussoria venga rilasciata successivamente alla stipula del contratto preliminare avente ad oggetto un immobile da costruire, il giudice deve verificare caso per caso se sussista la necessità attuale e concreta di tutelare il soggetto più debole attraverso la nullità di protezione prevista dall’art. 2 del d. lgs. 122/2005. Se la garanzia non è più necessaria perché l’immobile è costruito ed è agibile, l’azione giudiziaria dell’acquirente volta a far dichiarare la nullità del preliminare costituirà abuso del diritto. Diversamente, il contratto preliminare dovrà essere dichiarato nullo.
QUESTIONI
La sentenza in commento pone l’attenzione sull’operatività della nullità ex art. 2 d. lgs. 122/2005 nell’ipotesi in cui la fideiussione sia rilasciata in un momento successivo rispetto la stipula del contratto preliminare di vendita di immobile da costruire.
L’art. 2, comma 1 del d. lgs. n. 122 del 2005 prevede che “all’atto della stipula di un contratto che abbia come finalità il trasferimento non immediato della proprietà o di altro diritto reale di godimento su un immobile da costruire o di un atto avente le medesime finalità, ovvero in un momento precedente il costruttore è obbligato, a pena di nullità del contratto che può essere fatta valere unicamente dall’acquirente, a procurare il rilascio e a consegnare all’acquirente una fideiussione, anche secondo quanto previsto dall’art. 1938 c.c., di importo corrispondente alle somme e al valore di ogni altro eventuale corrispettivo che il costruttore ha riscosso e, secondo i termini e le modalità stabilite nel contratto, deve ancora riscuotere dall’acquirente prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento”.
Si tratta di una nullità di protezione avente carattere relativo, che può essere proposta o eccepita dal solo acquirente.
Si osserva preliminarmente che all’interno del sistema di cui al d. lgs. n. 122/2005 non si rinviene una specifica norma che preveda la convalida o la conferma del contratto nullo, per cui la fattispecie deve ritenersi regolata direttamente dalla generale previsione di cui all’art. 1423 c.c., la quale, tuttavia, limita la convalida, e comunque la conservazione del negozio nullo, ai soli casi espressamente previsti dalla legge. Tale circostanza tuttavia non sussiste nel caso di specie, posto che la normativa in commento non prevede espressamente tale facoltà.
La sentenza in commento conferma peraltro un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità che riconosce la nullità del preliminare qualora non venga consegnata o venga
rilasciata in ritardo la polizza prescritta dalla normativa speciale sopra richiamata, a meno che gli interessi sottesi alla garanzia (ovvero la costruzione definitiva e l’agibilità dell’immobile oggetto di vendita) non siano stati comunque realizzati. La Corte infatti, con sentenza n. 30555/2019, ha già avuto modo di affermare che nel caso in cui la garanzia prescritta dalla legge sia rilasciata dopo la stipula del preliminare e senza che nelle more si sia manifestata l’insolvenza del promittente venditore ovvero che risulti altrimenti pregiudicato l’interesse del promissario acquirente, la proposizione della domanda di nullità di protezione costituisce abuso del diritto.
La verifica che deve costituire il vaglio dell’interprete è costituita dalla meritevolezza dell’interesse del promissario acquirente a far valere tale nullità anche laddove manchi l’interesse da proteggere e, quindi, venga vanificata l’utilità e la funzione della garanzia stessa.
Infatti nell’ipotesi in cui non sussista più l’interesse che la norma in esame mira a proteggere, l’azione di nullità eventualmente promossa dal promissario acquirente a causa del tardivo rilascio della polizza fideiussoria costituirebbe abuso del diritto.
A sostegno di tale ricostruzione vi è anche una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, che si sono occupate di nullità di protezione e di abuso del diritto. Ci si riferisce in particolare alla sentenza n. 898/2018, la quale ha avuto modo di affermare che ove venga istituita dal legislatore una nullità relativa, come tale intesa a proteggere in via diretta e immediata un interesse particolare, l’interprete deve essere attento a circoscrivere l’ambito della tutela privilegiata nei limiti in cui viene davvero coinvolto l’interesse protetto dalla nullità.
Tale principio costituirebbe espressione del canone generale di buona fede; diversamente si tratterebbe di abuso del diritto, fattispecie che si crea allorquando il titolare eserciti il suo diritto con modalità non necessarie e irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, e al fine di conseguire risultati diversi.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto fondata la domanda di nullità ex art. 2 del d. lgs. 122/2005, considerato che all’esito della verifica in concreto della meritevolezza degli interessi sottesi alla domanda giudiziale, è emerso sussistente l’interesse dell’acquirente posto che l’immobile oggetto di vendita non era ancora stato ultimato.
Proprietà e diritti reali
Quando il diritto reale di superficie si insinua tra proprietari confinanti: ius ad aedificandum e nozione di "costruzione"
di Xxxxxx Xxxxxxxx
Cassazione civile, sezione II, 13 novembre 2020 n. 25786, Est. Xxxxxxx
Proprietà e diritti reali – problematiche tra immobili confinanti – preesistenza, su uno dei due immobili, di diritto reale di godimento a favore di terzi – tipologia: diritto di superficie – trasferimento dello ius ad aedificandum – validità del contratto di transazione – sussiste – qualificazione giuridica di costruzione – legittimità di copertura metallica (tipo orsogril) – sussiste – eccezione per non uso ventennale del diritto ad edificare – infondata.
Riferimenti normativi: art. 952, co. 1, c.c. – art. 954, u.c., c.c. – art. 1376 c.c.
“… Ai fini dell’esercizio dello ius aedificandi ai sensi dell’art. 952 x.x., xxxxx 0 x xxx. 000 x.x. x.x., x qualificabile come costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal materiale impiegato per la sua realizzazione, purché determini un ampliamento della superficie e della funzionalità dell’immobile …”
CASO
La sentenza in commento riguarda il caso in cui i rapporti tra proprietà confinanti siano insidiati dalla preesistenza, in favore di uno dei due vicini, di un diritto di superficie.
La vicenda è la seguente: gli attori, proprietari di un immobile con cortile situato al piano terreno, contestavano ai proprietari dell’appartamento posto al piano superiore che la copertura dello spazio sovrastante il cortile determinava, a loro danno, la riduzione di luce, di aria e la caduta di frammenti di materiale e di ruggine; situazione complicata dal fatto che il precedente proprietario aveva iniziato a coprire lo spazio sovrastante il cortile mediante travi in ferro e lamiere e che successivamente, costituito da costui un diritto di superficie in favore degli attuali proprietari (e convenuti), tali strutture erano state sostituite da grate metalliche tipo orsogril.
Su tali presupposti gli attori adivano il Tribunale, chiedendo l’accertamento dell’inesistenza del diritto dei convenuti di mantenere il piano di calpestio sovrastante il cortile (con conseguente rimozione della copertura e risarcimento del danno), rappresentando altresì che un eventuale diritto di superficie si sarebbe comunque estinto per prescrizione, in ragione del non uso ultraventennale
(inteso come mancato esercizio del diritto di sopraelevazione).
Si costituivano i proprietari convenuti contestando la domanda avversaria ed eccependo la conformità della copertura realizzata ad un accordo transattivo, siglato anni prima tra i danti causa delle odierne parti, in cui si dava atto della costituzione di un diritto di superficie in favore altrui; detto contratto aveva ad oggetto la realizzazione – tra le altre opere – di una soletta (in cemento) estesa sino a copertura totale del cortile.
Il Tribunale rigettava la domanda dando atto che il contratto di transazione (che aveva costituito il diritto di superficie) era noto agli attori, in quanto versato anche nell’atto di compravendita stipulato dai medesimi con il precedente proprietario. Né in primo grado assumeva rilievo il fatto che il materiale utilizzato dai convenuti per la copertura fosse una semplice struttura metallica anziché una soletta cementizia, non incidendo sulla funzione di piano di calpestio.
Veniva quindi interposto appello da parte degli attori soccombenti, a cui resistevano i convenuti appellati; la Corte d’Appello, riformando la sentenza impugnata, dichiarava prescritto il diritto di superficie di questi ultimi, con condanna alla rimozione della copertura del cortile degli appellanti: veniva infatti accertata in tale sede la violazione degli articoli 952, comma 1, x.x. x 000, xxxxxx xxxxx, x.x., xxxxxx che per oltre vent’anni non era stata realizzata sulla superficie concessa in godimento alcuna costruzione, non potendosi ritenere tali delle travi di ferro, sostituite in un secondo momento da una struttura metallica tipo orsogril.
I proprietari superficiari, soccombenti in appello, ricorrevano dunque in Cassazione sulla scorta di un unico motivo (violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 952, comma 1,
c.c. e all’art. 954, comma 4, c.c.): in sintesi, veniva prospettato che il contratto di transazione non poneva vincoli o limitazioni circa le modalità di costruzione o i materiali da utilizzare, sicché la copertura realizzata – non già “opera intermedia ma struttura finita” – costituiva legittimo esercizio dello ius aedificandi. Resistevano con controricorso i proprietari confinanti, vittoriosi in appello.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso e, per l’effetto, cassava con rinvio la sentenza di secondo grado, ordinando alla Corte di Appello di conformarsi al seguente principio di diritto: “Ai fini dell’esercizio dello ius aedificandi ai sensi dell’art. 952 x.x., xxxxx 0 x xxx. 000 x.x. x.x., x qualificabile come costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal materiale impiegato per la sua realizzazione, purché determini un ampliamento della superficie e della funzionalità dell’immobile”.
QUESTIONI GIURIDICHE
La particolarità della decisione in commento è data dal fatto che uno dei proprietari confinanti beneficia di un diritto di superficie, precisamente sulla copertura dello spazio sovrastante il cortile di
proprietà dei vicini: a fronte del sorgere di un conflitto (si rammenta che all’origine della lite vi erano le lamentele degli attori a causa della riduzione di luce e di aria, nonché della caduta di ruggine e di frammenti di materiale metallico), i rapporti giuridici non sono regolati dalle norme sulla proprietà tout court (artt. 832 e ss. c.c.), bensì dalle norme relative ai diritti reali di godimento (art. 952 e ss. c.c.), a cui appartiene – fra gli altri – il diritto di superficie1.
In via generale, il diritto di superficie rappresenta una deroga al principio dell’accessione immobiliare (art. 934 c.c.), a cui tenore “Qualunque piantagione, costruzione od opera esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo …”.
In effetti, in alternativa a tale condizione “fisiologica”, il proprietario può decidere – com’è nel caso di specie – di rimanere proprietario del solo fondo e di “… costituire il diritto di fare e mantenere al disopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà” (art. 952, comma 1, c.c.), o di alienare la proprietà di una costruzione già esistente “… separatamente dalla proprietà del suolo” (comma 2)2.
Ebbene, sulla scorta della disciplina codicistica di cui agli artt. 952 e ss. c.c., gli attori, proprietari dell’immobile sito al piano terreno, hanno tentato – alfine senza fortuna – di “scardinare” dapprima la valida costituzione dello ius ad aedificandum tra originario xxxxx causa e convenuti (questione di merito che esauritasi entro il secondo grado di giudizio), in seguito la riconducibilità giuridica dell’opera, da questi ultimi realizzata sul fondo altrui, alla nozione di “costruzione” ex art. 952, comma 1, c.c., a cui è connessa – nella prospettazione degli attori (divenuti controricorrenti in Cassazione) – la dedotta estinzione (prescrizione) per effetto del non uso ultraventennale, ex art. 954, comma 4, c.c. (questione di legittimità definitivamente decisa in Cassazione).
1) Costituzione del diritto ad edificare
Sotto il primo profilo, rileva il contratto di transazione, siglato negli anni addietro dai rispettivi danti causa delle parti: in primo grado, gli attori avevano sostenuto l’”… inesistenza del diritto dei convenuti di mantenere il piano di calpestio realizzato in maglia metallica …”, tesi a cui i convenuti avevano opposto il suddetto contratto, mediante il quale era stata espressamente attribuita agli acquirenti (vale a dire agli stessi convenuti) la “… facoltà di demolire la soletta del tetto di copertura dello stabile del venditore, al fine di costruire una nuova soletta a livello di quella del primo piano dello stabile e di estendere la costruzione della soletta sino a copertura totale del cortiletto annesso allo stabile”.
Senza contare – sottolinea il Xxxxx Xxxxxxx – che “… Di tale circostanza erano a conoscenza gli attori come risultante dal relativo atto di compravendita stipulato …”.
La validità della costituzione dello ius ad aedificandum riposa dunque nella sussistenza di un contratto, contenente l’oggetto del diritto di superficie e idoneo a soddisfare la condizione della forma scritta ad substantiam del momento costitutivo del diritto, ai sensi dell’art. 1350, comma 1, n. 2, c.c.3.
L’origine contrattuale del diritto di superficie, del resto, è conforme al dato normativo secondo il quale i contratti ad effetti reali “… si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato” (art. 1376 c.c.)4.
Altro aspetto da annotare, connesso all’esistenza di un contratto validamente concluso, è quello del
c.d. diritto di seguito o di sequela: i diritti di superficie (in generale, i diritti reali, sia in re propria che in re aliena) seguono il bene, sicché è irrilevante, di per sé, la circolazione del bene stesso tra diversi proprietari (come del resto è ben evidente anche nel caso in commento).
A ciò si aggiunga che, atteso il collegamento dei diritti in questione al bene e non al proprietario, per il principio di assolutezza essi sono opponibili erga omnes, salvi gli oneri di trascrizione in caso di trasferimento di beni immobili o mobili registrati (art. 2643, n. 2 e n. 4 c.c.)5.
2) Nozione di “costruzione” nel diritto di superficie
Si è detto che, già in primo grado, falliva il tentativo degli attori di dimostrare l’inesistenza dello ius ad aedificandum.
Pertanto, le successive impugnazioni hanno ad oggetto l’interpretazione del concetto di costruzione, di cui all’art. 952 c.c.: premesse le posizioni diametralmente opposte, sul punto, della Corte di Appello di Cagliari (restrittiva) e della Suprema Corte (estensiva), l’obiettivo degli attori (e controricorrenti in Cassazione) resta quello codificato nel comma 4 dell’art. 954 c.c., vale a dire provare l’estinzione del diritto di superficie per effetto della non edificazione (“non uso”), protratto per vent’anni.
Sul punto, tuttavia, l’orientamento dei Giudici di legittimità “ribalta” la sentenza di secondo grado e, attraverso una serie di argomentazioni logico-sistematiche, cristallizza una nozione ampia di costruzione – idonea cioè a ricomprendere anche la struttura metallica del tipo “orsogril”, effettivamente realizzata quale copertura sovrastante il cortile -, in tal modo escludendo la prescrizione del diritto di superficie per non uso ultraventennale (non pare del resto che, nel caso, si faccia questione circa la temporaneità del diritto di superficie – art. 953 c.c.6 -, sicché è dato ritenere che, realizzata la costruzione a norma di legge, il superficiario ne abbia acquisito la piena proprietà, con facoltà di mantenimento su suolo altrui senza limiti di tempo).
Le argomentazioni poste a fondamento della decisione sono le seguenti:
il diritto di fare e mantenere una costruzione, di cui all’art. 952 c.c., è temporalmente limitato, in quanto entro venti anni il superficiario deve effettuare l’opera, al fine di divenirne proprietario; in caso di mancata edificazione, il diritto di superficie si xxxxxxxx0;
ciò premesso, la Suprema Corte richiama espressamente la recentissima sentenza delle Sezioni Unite8, la quale a sua volta riunisce orientamenti anche risalenti che già avevano aderito ad una nozione estensiva di costruzione: “Al riguardo va sottolineato come la
giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che costituisce bene immobile qualsiasi costruzione, di qualunque materiale formata, che sia incorporata o materialmente congiunta al suolo, anche se a scopo transitorio (Cass. n. 679/1968); che deve considerarsi costruzione qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità e immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso a corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, e ciò indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera, dai caratteri del suo sviluppo volumetrico esterno, dall’uniformità o continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua funzione o destinazione (Cass. n. 20574/2007); che, ai fini delle norme codicistiche sulla proprietà, la nozione di costruzione non è limitata a realizzazioni di tipo strettamente edile, ma si estende ad un qualsiasi manufatto, avente caratteristiche di consistenza e stabilità, per le quali non rileva la qualità del materiale adoperato (Cass. n. 4679/2009); che la nozione di “costruzione” comprende qualsiasi opera, non completamente interrata, avente i caratteri della solidità ed immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. n. 22127/2009 che ha ritenuto che integrasse la nozione di “costruzione” una baracca di zinco costituita solo da pilastri sorreggenti lamiere, priva di mura perimetrali ma dotata di copertura)”.
Pertanto – conclude la Suprema Corte – la qualità del materiale utilizzato non rileva in alcun modo ai fini della qualificazione siccome costruzione della copertura realizzata sul cortile dei proprietari confinanti, sicché “… l’opera presenta tutti i requisiti propri della costruzione … quali la solidità, stabilità e immobilizzazione … oltre ad aumentare la superficie del bene immobile ed essere funzionale ad aumentare il piano di calpestio”.
1 TORRENTE X.-XXXXXXXXXXX P., Manuale di diritto privato, Milano, 1999, pagg. 322-324 e pagg. 295-297, che divide i diritti reali in re aliena – contrapposti alla piena proprietà (ius in re propria) – in diritti reali di godimento (superficie, uso, usufrutto, abitazione, enfiteusi e servitù) “… se attribuiscono al titolare il diritto di conseguire direttamente dal bene determinati vantaggi …” e in diritti reali di garanzia (pegno e ipoteca), “… se attribuiscono al titolare il potere di farsi assegnare con prelazione rispetto agli altri creditori il ricavato dell’alienazione forzata del bene, in caso di mancato adempimento dell’obbligo garantito”; GAZZONI F., Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, pag. 247 e ss., secondo il quale i diritti su cosa altrui (tra cui rientrano i diritti reali di godimento) sono “… non già traslativi ma derivativi-costitutivi … il diritto su cosa altrui si costituisce ex novo, ma in modo non originario quanto piuttosto derivativo, dipendendo in sostanza la sua legittimità da quella del diritto di proprietà: tale derivatività, tra l’altro, giustifica l’applicazione dei principi della trascrizione, qualora il diritto abbia ad oggetto beni immobili o mobili registrati …”.
2 Analoga alternativa vale per le costruzioni al disotto del suolo (art. 955 c.c.) ma è esclusa per le
piantagioni (art. 956 c.c.), che al contrario non possono essere separate dalla proprietà del suolo. In giurisprudenza, sul diritto di superficie, si vada, ex multis, Cass. civ., sez. II, 24/01/2018 n. 1750: “Il preliminare di compravendita di un terreno su cui insistano delle costruzioni ha ad oggetto, per il principio dell’accessione, il trasferimento anche di tali immobili, ancorché non espressamente menzionati nell’atto, salvo che il promittente venditore, contestualmente alla cessione, riservi a sé stesso o ad altri la proprietà del fabbricato, costituendo formalmente sul terreno un diritto di proprietà superficiaria ex art. 952 c.c.”; sulla cessione del diritto di superficie a titolo oneroso si veda Cass. civ., sez. VI, 07/06/2018 n. 14847: “Il proprietario del fondo può costituire il diritto di fare e mantenere al di sopra del suolo una costruzione a favore di altri, che ne acquista la proprietà, ex art. 952 c.c., con ciò mantenendo distinta la proprietà del suolo dalla proprietà della costruzione, applicandosi al corrispettivo conseguito dalla cessione a titolo oneroso del diritto di superficie, l’art. 9, comma 5, del TUIR, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nel quale si stabilisce che le disposizioni relative alle cessioni a titolo oneroso si applicano anche nei confronti degli atti che importano la costituzione o il trasferimento di diritti reali di godimento”.
3 Cass. civ, sez. II, 21/11/2006 n. 24679: “In caso di trasferimento di un terreno su cui insistono dei fabbricati, al fine del superamento del generale principio dell’accessione, è necessario pervenire alla individuazione di una specifica volontà delle parti di scindere il contenuto del diritto di proprietà con la creazione di un diritto di superficie per la cui costituzione è necessaria la forma scritta “ad substantiam” (conforme: Cass. civ., 16/03/1984 n. 1811).
4 Cass. civ., 06/12/1983 n. 7269: “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di un fondo determinato, gli effetti reali, di cui all’art. 1376 c. c. e che derivano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato, possono essere impediti, con riferimento ad un locale costruito nel sottosuolo del bene compravenduto, solo qualora le parti abbiano provveduto a costituire, nella prescritta forma ad substantiam (art. 1350, n. 2 c. c.), un rapporto di superficie mediante o l’alienazione di una già esistente costruzione separatamente dalla proprietà del suolo (art. 952, 2° comma, c. c.) o la concessione del diritto di fare e di mantenere una costruzione al di sotto del suolo (art. 956 c. c.)” (conforme anche Cass. civ., sez. II, 02/04/1999 n. 3220). Sulla facoltà dei diritti reali di godimento di essere acquistati per usucapione, di vedano Cass. civ., sez. II, 15/11/2006 n. 24302; Cass. civ., sez. II, 20/07/2007 n. 16085; Cass. civ., 16/09/1981 n. 5130.
5 Cass. civ., sez. II, 14/11/1997 n. 11250: “Il negozio con il quale il costruttore di uno stabile, nell’alienare la costruzione, riservi a sè il diritto di proprietà del lastrico di copertura e il relativo “ius inaedificandi”, essendo finalizzato ad incidere sul regime dominicale della res e, in particolare, su diritti considerati dall’ordinamento inerenti al bene immobile oggetto della convenzione negoziale (e, pertanto, in assenza di contrario titolo, appartenenti al proprietario – o ai proprietari – dell’immobile medesimo), è soggetto a trascrizione, ai sensi del disposto dell’art. 2645 c.c., la cui mancanza, a mente del combinato disposto degli art. 2644 e 2645 c.c., rende detto negozio inopponibile ai terzi e, in particolare, ai successori del primo acquirente dell’edificio, qualora, di tale riserva di proprietà, non venga fatta menzione nei successivi negozi traslativi stipulati in loro favore”.
6 “Se la costituzione del diritto è stata fatta per un tempo determinato, allo scadere del termine il diritto di superficie si estingue e il proprietario del suolo diventa proprietario della costruzione”.
7 Cass. civ., sez. II, 07/12/1994 n. 10498.
8 Cass. civ., Sez. Unite, 30/04/2020 n. 8434 (conformi anche Cass. civ., sez. II, 22/02/2011 n. 4277; Cass. civ., sez. II, 27/10/2008 n. 25837).
Diritto e procedimento di famiglia
I criteri per la ripartizione della reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite
di Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
Cassazione civile sez. VI, 13 novembre 2020, n. 25656
Reversibilità coniuge divorziato – criteri di ripartizione coniuge superstite (Art. 5, e art. 9, comma 3 L. n. 898/970)
Ai fini della suddivisione della reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, il criterio legale della durata dei matrimoni deve essere utilizzato ponderando gli ulteriori elementi quali l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge e le condizioni economiche degli aventi diritto.
Anche la convivenza prematrimoniale assume un distinto e autonomo rilievo giuridico, ove il coniuge interessato dimostri la stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale.
CASO
Nel giudizio di appello per la ripartizione della quota di pensione di reversibilità tra coniuge divorziato e coniuge superstite, l’ex moglie ottiene il 40% delle somme, mentre il rimanente 60% è attribuito al coniuge attuale e al figlio.
La decisione è impugnata in Cassazione per la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, e art. 9, comma 3.
Secondo la ricorrente coniuge divorziata, la Corte territoriale non avrebbe correttamente applicato i criteri previsti dalla legge sul divorzio, non tenendo conto della lunga durata del suo matrimonio e dando invece rilevanza alla convivenza “more uxorio” intrapresa dall’ex marito prima di sposarsi in seconde nozze.
L’art. 9 comma 2° della legge sul Divorzio prevede che in caso di morte dell’ex coniuge sorge il diritto a percepire la pensione di reversibilità, se il rapporto pensionistico è anteriore alla sentenza di divorzio. Nel caso in cui tale diritto concorre con quello del coniuge superstite, è il giudice a stabilire la quota da attribuire all’ex coniuge titolare di assegno di divorzio, tenuto conto della durata del matrimonio.
SOLUZIONE
La Corte di Cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso, poiché tendente ad una rivalutazione nel merito di una decisione che è apparsa corretta e motivata.
La giurisprudenza di legittimità ritiene rilevanti al fine della ripartizione delle quote di pensione di reversibilità – oltre alla durata dei rispettivi matrimoni – le condizioni dei coniugi, i redditi, il contributo personale ed economico dato nel corso della vita matrimoniale. Si tratta di elementi correlati alla finalità solidaristica dell’istituto.
Nello specifico della rilevanza della convivenza prematrimoniale, secondo la Cassazione, correttamente i giudici di merito hanno ponderato tutti gli elementi utili ai fini della giusta ripartizione.
La Corte ribadisce l’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui la convivenza “more uxorio” non ha una semplice valenza correttiva dei risultati derivanti dall’applicazione del criterio della durata del rapporto matrimoniale, ma un distinto e autonomo rilievo giuridico, in presenza di stabilità ed effettività della comunione di vita prematrimoniale (Cass. Civ. n. 5268/2020 e Cass. Civ. n. 8263/2020).
La Corte d’appello ha correttamente valutato anche gli altri criteri, come l’entità dell’assegno divorzile e la condizione reddituale ed economica degli aventi diritto.
QUESTIONI
Il criterio legale della durata dei matrimoni individuato dal 3° comma dell’art. 9 Legge Div. deve essere necessariamente contemperato dagli altri parametri che la norma testualmente non prevede. L’utilizzo del solo criterio temporale potrebbe portare a situazioni di iniquità non suscettibili di correzione, privando delle risorse necessarie il coniuge superstite che venga a trovarsi in stato di bisogno, mentre l’ex coniuge potrebbe beneficiare di un trattamento superiore allo stesso assegno di divorzio.
Anche la giurisprudenza di merito ha precisato che il meccanismo di divisione non mira alla perequazione economica fra le posizioni degli aventi diritto, ma è preordinato alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei beni economici da parte dei coniugi conviventi (cfr. Trib. Salerno sez. I, 3 gennaio 2020).
Diritto e reati societari
Nullità dell’opzione put in violazione del divieto del patto leonino
di Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Tribunale di Milano, Sezione Specializzata in materia di Impresa, sentenza n. 4628 del 23 luglio 2020
Parole chiave: contratto di opzione – opzione put – opzione call – nullità – bilanciamento tra l’opzione put e l’opzione call – patto leonino – rischio di impresa –
Massima: È nulla, per violazione del divieto del patto leonino ai sensi dell’art. 2265 c.c., l’opzione di vendita che preveda un corrispettivo predeterminato, comprensivo anche degli esborsi medio tempore eseguiti dal socio avente diritto di opzione, laddove tale pattuizione determini nella concretezza l’esclusione del socio dalla partecipazione al rischio di impresa.
Disposizioni applicate: articoli 2265 x.x., 0000-xxx x.x., 0000-xxx x.x.
Xx xxxxxxxxxxxx in esame riguarda la validità del contratto di opzione stipulato dalle società Alfa e Beta relativamente alle partecipazioni nella società Gamma.
In particolare, le parti hanno convenuto un’opzione di vendita irrevocabile ed incondizionata, in forza della quale Xxxx ha assunto il diritto di vendere ad Alfa, in un dato lasso di tempo, le proprie partecipazioni in Gamma per il corrispettivo di euro 250.000,00; corrispettivo da incrementarsi nel caso di eventuali esborsi sopportati nello stesso periodo da Beta in esecuzione di qualsiasi operazione societaria (a titolo esemplificativo, aumenti di capitale, finanziamenti soci, etc.) idonea a preservare il valore patrimoniale della sua quota.
La società Alfa ha agito in giudizio chiedendo in via principale la dichiarazione di nullità di detto contratto ed eccependo la strumentalità dell’opzione che, manifestandosi diretta ad escludere Beta dalle perdite della partecipata, si è posta in violazione con il divieto del patto leonino ex art. 2265 c.c.. Dall’altra parte, invece, Xxxx ha negato l’invalidità del contratto di opzione in ragione del bilanciamento tra la suddetta opzione put e la speculare opzione call pattuita a favore dell’attrice nel medesimo contratto.
Con riferimento alle opzioni put a prezzo predefinito, la giurisprudenza non è tuttavia univoca nel ritenere se queste integrino o meno la previsione ex art. 2265 x.x. xx xxxxxxx xxx xxxxx xxxxxxx, xxxxx di nullità del patto con il quale “uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite”.
Nel caso in esame, il Tribunale di Milano ha dato seguito all’orientamento della Cass. n.8927/1994, secondo la quale il divieto ex art.2265 c.c. vige anche nel settore delle società di capitali e in relazione a patti tra soci estranei allo statuto sociale, tale divieto riguardando “le condizioni essenziali del tipo contratto di società” nell’ambito del quale tutti i membri della compagine sociale devono essere “partecipi del rischio di impresa al fine di garantire, nell’interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri” (cfr. in tal senso anche Trib. Milano 30 dicembre 2011, XxX Xxxxxx 00 xxxxxxxxx 0000 x XxX Xxxxxx 19 febbraio 2016).
Inoltre, il giudice milanese ha dato rilievo all’orientamento secondo il quale l’esclusione totale e costante di uno o di alcuni soci dalla partecipazione al rischio di impresa deve essere valutata in senso sostanziale, e non formale, sussistendo quando nella concretezza vi sia un’effettiva esclusione, diretta o indiretta, da dette partecipazioni (cfr. orientamento contrario in Cass. n.17498/2018).
È stato pertanto dichiarato nullo ex art.2265 c.c. il contratto di opzione stipulato dalle società Alfa e Beta poiché: (i) l’opzione put a favore della convenuta prevedeva un corrispettivo predeterminato di per sé superiore al versamento in conto capitale eseguito dalla convenuta al momento dell’ingresso nella compagine sociale ed era comprensivo anche degli esborsi medio tempore eseguiti dalla convenuta in favore di Gamma; e (ii) pertanto, realizzava in via indiretta l’esclusione di Beta dal sopportare le perdite che hanno intaccato il capitale di Gamma in misura rilevante ex artt. 2482-bis e 2482-ter c.c..
Infine, a nulla rileva la contestuale previsione di opzione call a favore dell’attrice e nemmeno la circostanza che la convenuta abbia effettivamente eseguito esborsi in favore della società medio tempore, poiché la nullità in discussione deve essere valutata nel momento genetico del negozio.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
Spunti sull’applicabilità degli artt. 135 - 184 L.F. agli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182bis L.F.
di Xxxx Xxxxx Xxxxxxxx
Cass. Civ., sez. VI – 5, Ord., 2 ottobre 2020, n. 21181 – Pres. Mocci – Rel. Delli Priscoli
Parole chiave: Concordato fallimentare, concordato preventivo, effetto esdebitatorio, coobbligati, fideiussori, obbligati in via di regresso, accordi di ristrutturazione dei debiti.
Massima: Gli artt. 135 – 184 L.F., i quali prevedono che, a seguito dell’omologa del concordato fallimentare o preventivo, i creditori conservano i loro diritti nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso, rappresentano una deroga sia sostanziale che processuale alla disciplina comune prevista dagli artt. 1239 e 1301 c.c., deroga che si giustifica in virtù della natura pubblicistica del concordato e del relativo favor legislativo. Per effetto di tale deroga, da ritenersi a sua volta inderogabile, i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso sono tenuti a rispondere dell’intero debito e a subire le conseguenze, per loro negative, della falcidia concordataria o degli effetti modificativi favorevoli al debitore.
Disposizioni applicate: X.X. 00 marzo 1942, n. 267: art. 135 comma 2 e art. 184 comma
1.
CASO
Il provvedimento in esame è stato pronunciato all’interno di un contenzioso tributario che ha visto l’Agenzia delle Entrate soccombente sia avanti alla Commissione Tributaria Provinciale che Regionale. Tale controversia è stata introdotta mediante ricorso avverso avvisi di accertamento IVA ed IRES proposto da un soggetto responsabile in solido con la società Alfa per il pagamento di dette imposte.
In particolare, nel proporre ricorso, il contribuente ha sostenuto che nulla era da lui dovuto, avendo egli beneficiato degli effetti esdebitatori derivanti dal concordato fallimentare concluso, ex artt. 124 s. L.fall., dalla Società Alfa con i suoi creditori e omologato dal Giudice. Il ricorso è stato accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale.
L’Agenzia delle Entrate ha successivamente deciso di appellare la pronuncia di primo grado avanti alla Commissione Tributaria Regionale. Anche quest’ultima, però, con pronuncia favorevole al ricorrente, ha rigettato l’appello promosso dall’Agenzia delle
Entrate sostenendo che: i) l’appellante avesse fondato la sua impugnazione sull’art. 184 L.fall., norma operante in materia di concordato preventivo. La sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale era invece incentrata sul fatto che tra la società fallita ed i suoi creditori era intercorso un concordato fallimentare ex artt. 124 s. L.fall., ipotesi distinta, pertanto, dal contesto di applicabilità dell’invocato art. 184 L.fall.; inoltre ii) il concordato fallimentare, stipulato tra le parti ed omologato dal Giudice, avrebbe determinato una remissione parziale dei debiti d’imposta per gli importi oggetto di falcidia concordataria, liberando così non solo la società debitrice, ma anche i relativi coobbligati.
A fronte della pronuncia di secondo grado, l’Agenzia delle Entrate si è vista costretta a proporre ricorso avanti alla Corte di Cassazione sulla base di due diversi motivi di impugnazione. Con il primo motivo l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto di aver invocato solo erroneamente in sede d’appello la norma di cui all’art. 184 L.fall., essendo evidente dal tenore dell’atto di gravame il reale riferimento all’art. 135 L.fall., norma che pone in ambito di concordato fallimentare una disciplina analoga e sovrapponibile a quella dettata dall’art. 184 L.fall. in materia di concordato preventivo. Inoltre, con il secondo motivo di impugnazione, l’Agenzia delle Entrate ha affermato che, proprio in ragione della disciplina dettata dall’art. 135 L.fall., la Commissione Tributaria Regionale ha errato nel ritenere che la parziale remissione del debito di cui al concordato fallimentare omologato avesse effetto esdebitatorio anche nei confronti dei coobbligati, dal momento che è proprio il citato art. 135, c. 2, L.fall., a prevedere che “i creditori conservano la loro azione per l’intero credito contro i coobbligati, i fideiussori del fallito e gli obbligati in via di regresso”.
SOLUZIONE
Entrambi i suddetti motivi sono stati accolti dalla Suprema Corte.
In primo luogo, i Giudici di legittimità hanno affermato che dall’atto di appello, nel suo complesso, ben si riconosce l’errore commesso dall’Agenzia delle Entrate nel richiamare l’art. 184 L.fall., posto che il principio dedotto da parte appellante a fondamento dell’impugnazione (ovverosia il fatto che i creditori, malgrado l’omologa del concordato, conservano impregiudicati i diritti verso i coobbligati del debitore) è comunemente previsto sia dall’art. 184 L.fall. (xxxxx erroneamente invocata dall’Agenzia delle Entrate) sia dall’art. 135 L.fall. (norma che l’Agenzia delle Entrate avrebbe invece dovuto invocare). Conseguentemente, la Commissione Tributaria Regionale avrebbe dovuto autonomamente procedere “all’esatta qualificazione giuridica delle questioni dedotte in giudizio sostanziali, attinenti al rapporto, o processuali, attinenti all’azione e all’eccezione”.
Per quanto attiene poi al secondo motivo d’impugnazione, la Cassazione ha parimenti accolto le ragioni addotte dall’Agenzia delle Entrate, ribadendo che l’art. 135 L.fall. (parimenti all’art. 184 L.fall.), nel prevedere che a seguito dell’omologa del concordato preventivo i creditori conservano i loro diritti nei confronti dei coobbligati del debitore, dei suoi fideiussori e degli obbligati in via di regresso, rappresenta una deroga alla disciplina comune prevista dagli artt. 1239 e 1301 c.c. Per effetto di tale deroga, che trova sua
giustificazione nella natura pubblicistica del concordato e del relativo favor legislativo, i coobbligati, i fideiussori e gli obbligati in via di regresso sono tenuti a rispondere dell’intero debito e a subire le conseguenze, per loro negative, della falcidia concordataria o degli effetti modificativi favorevoli al debitore.
Sulla base di detti principi la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate e cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale.
QUESTIONI
La pronuncia della Corte di Cassazione appena esaminata assume rilevanza per gli spunti riflessivi che conseguono al principio di diritto espresso dai Giudici di legittimità nel decidere sul secondo motivo di impugnazione.
Come noto, e come ricordato dalla Suprema Corte, l’art. 135 L.fall. (per quanto attiene al concordato fallimentare) e l’art. 184 L.fall. (per quanto attiene al concordato preventivo) costituiscono leggi speciali che derogano alle regole di diritto comune previste dagli artt. 1239 e 1301 c.c., disposizioni, quest’ultime, espressive di un principio generalmente operante in materia di obbligazioni, secondo cui l’estinzione (totale o parziale) dell’obbligazione principale determina, normalmente, anche l’estinzione (totale o parziale) di quella accessoria. In particolare, l’art. 1239 c.c., in materia di fideiussione, è norma che estende gli effetti liberatori della remissione del debito principale anche al fideiussore. Allo stesso modo l’art. 1301 c.c., in materia di obbligazioni in solido, prevede che la remissione a favore di uno dei debitori in solido libera anche gli altri condebitori, salvo il caso in cui il creditore abbia fatto riserva del suo diritto verso gli altri coobbligati.
Diversamente, in ambito concordatario, proprio in ragione della disciplina posta dagli artt. 135 e 184 L.fall., l’obbligazione gravante in capo ai soggetti coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso non segue le sorti del debito principale. Xxxxxxx, infatti, anche a seguito dell’omologa del concordato, continuano a rispondere per il debito originario, rimanendo vincolati per l’intero ammontare dovuto e a prescindere da effetti modificativi/esdebitatori eventualmente disposti dal piano di concordato.
Detta deroga trova suo fondamento sia nella natura pubblicistica della procedura concordataria sia nel relativo favor legislativo. Infatti, nel concordato sia fallimentare che preventivo, in forza del c.d. principio maggioritario, tutti i creditori (aderenti e non aderenti) sono sottoposti alle disposizioni del piano omologato, con conseguente deroga al principio di relatività del contratto di cui all’art. 1372 c.c. Da qui la necessità normativa di prevedere, quantomeno, la salvaguardia dei diritti dei creditori verso i terzi coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso, così da rendere fortemente appetibile, con minor sacrificio possibile in capo alle ragioni creditorie, la procedura di gestione concordata della crisi d’impresa.
Il principio di diritto sopra riportato, prontamente richiamato dalla pronuncia della Suprema Corte in esame, consente di dare ragionata risposta ad un ulteriore quesito che ha coinvolto vari commentatori, ma che allo stato non pare aver trovato occasione di esame in giurisprudenza (quantomeno in quella edita). Ci si deve chiedere, infatti, se la disciplina derogatoria rinvenibile nei citati artt. 135 – 184 L.fall. operi anche in materia di accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182bis L.fall.
Ad un siffatto interrogativo la dottrina maggioritaria1 ha dato risposta negativa. In particolare, si è sostenuto che la ratio legis alla base del regime d’eccezione dettato dagli
artt. 135 – 184 L.fall. non sia riscontrabile nella normativa dettata in ambito di accordi di ristrutturazione del debito. Diversamente da quanto accade nella procedura concordataria, gli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis L.fall. non contemplano il principio maggioritario e la conseguente soggezione dei creditori non aderenti. Infatti, affinché un accordo di ristrutturazione del debito possa essere omologato, devono essere soddisfatti i seguenti requisiti:
a) l’accordo deve essere stipulato con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti;
b) l’accordo deve prevedere il pagamento dei creditori non aderenti nel termine di 120 giorni decorrenti dall’omologa (nel caso di crediti già scaduti a quella data) ovvero dalla rispettiva scadenza (in caso di crediti non ancora scaduti alla data di omologazione dell’accordo di ristrutturazione).
È quindi evidente che, mentre nel concordato i creditori non aderenti sono costretti a sottostare agli effetti modificativi/esdebitatori previsti dal piano omologato, negli accordi di ristrutturazione dei debiti “nessun creditore subisce invito domino limitazioni del suo
diritto”2. I creditori non aderenti, infatti, subiscono (solo) una moratoria legale di 120 giorni dall’omologa o dalla scadenza del credito, ma il pagamento di quanto a loro dovuto viene
comunque assicurato per l’intero, a pena di inammissibilità dell’accordo. I creditori aderenti, invece, accettano negozialmente di dilazionare, ridurre o rinunciare ai loro crediti, modificando in tal modo consapevolmente i rispettivi rapporti obbligatori. Ma dal momento che dette modifiche o limitazioni sono la conseguenza diretta della volontà contrattuale dei creditori aderenti, non vi è motivo di prevedere un’estensione analogica della disciplina derogatoria dettata in materia di concordato.
Pertanto, a fronte dell’inapplicabilità degli artt. 135 – 184 L.fall., e a fronte dell’applicabilità delle norme di diritto comune in materia di obbligazioni, si deve ritenere che, in caso di omologa dell’accordo di ristrutturazione ex art. 182bis L.fall.:
a) ai creditori aderenti dovranno applicarsi gli artt. 1239 e 1301 c.c. Ne consegue che, qualora l’accordo di ristrutturazione preveda un’estinzione parziale o totale del debito, tale pattuizione non potrà che estendersi ad eventuali coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso. I creditori, infatti, nell’aderire alla rideterminazione del rapporto obbligatorio ne accettano le conseguenze anche rispetto a quest’ultimi;
b) per quanto riguarda, invece, i creditori estranei all’accordo (c.d. non aderenti), potrebbe condividersi la soluzione adottata da certa dottrina la quale ha sostenuto che tali creditori conservano impregiudicato ogni diritto verso i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso, con l’esclusivo limite di non poter agire verso costoro per l’intero, ma eventualmente solo pro quota, nel periodo di moratoria legale di 120 giorni dall’omologazione dell’accordo o dalla scadenza del credito. Ciò in ragione del principio di diritto comune per cui “gli effetti favorevoli verificatisi nella sfera giuridica di uno dei
condebitori sono destinati ad estendersi, almeno pro quota, anche a tutti gli altri”3. Tale tesi, però, lo si precisa, potrebbe venire meno qualora si ritenesse la temporanea
inesigibilità del credito, di cui al periodo di moratoria legale di 120 giorni, un’eccezione personale opponibile dal solo debitore. Ne conseguirebbe, così, l’applicabilità dell’art. 1297 c.c., il quale prevede che “uno dei debitori in solido non può opporre al creditore le eccezioni personali agli altri debitori”.
La soluzione sopra proposta sembra aver trovato conferma nell’art. 59 del D.lgs. 14/2019 (CCII), la cui entrata in vigore è stata posticipata, come noto, al 1° settembre 2021. In particolare, il 1° comma della citata disposizione prevede che “ ai creditori che hanno concluso gli accordi di ristrutturazione si applica l’articolo 1239 del codice civile”. Pertanto, se l’accordo di ristrutturazione dispone una remissione parziale o totale del debito, i fideiussori del debitore potranno, secondo il CCII, beneficiare degli effetti modificativi/estintivi dell’obbligazione principale derivanti dall’accordo omologato. Per quanto riguarda, inoltre, non i fideiussori, ma più genericamente i coobbligati del debitore, pare potersi sostenere che, pur non essendo l’art. 1301 c.c. espressamente richiamato dall’art. 59 del CCII, sia comunque a loro applicabile la disciplina di cui all’art. 1239 c.c. Quest’ultima norma (in materia di fideiussione) e l’art. 1301 c.c. (in materia di obbligazioni solidali) condividono, infatti, la medesima identità di ratio e un regime giuridico del tutto analogo. Ciò si evince, peraltro, dal tenore della Relazione Illustrativa al D.lgs. 14/2019 in cui, con riferimento all’art. 59 del CCII, si è affermato che “la disposizione disciplina gli effetti dell’accordo sui coobbligati ed i soci illimitatamente responsabili. I creditori aderenti sono assoggettati alla disciplina dettata dall’art. 1239 codice civile; disciplina che non si applica, in forza del comma 2, ai creditori non aderenti cui siano estesi gli effetti dell’accordo, i quali conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati”4.
Infine, si conclude precisando che il citato art. 59 del CCII, al 2° comma, dispone altresì che “nel caso in cui l’efficacia degli accordi sia estesa ai creditori non aderenti, costoro conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso”. Tale disciplina derogatoria, del tutto analoga a quella dettata dai citati artt. 135-184 L.fall., si giustifica per il fatto che il CCII, accanto all’ordinario tipo di accordi di ristrutturazione ex art. 182bis L.fall. (art. 57 CCII), prevede un’ulteriore e diversa specie di accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa (con portata ben più ampia rispetto a quella oggi prevista dall’art. 182septies L.fall., cfr. art. 61 CCII) nei quali, in applicazione del principio maggioritario, l’efficacia delle pattuizioni inserite nell’accordo di ristrutturazione omologato si estende a tutti i creditori, siano essi aderenti o non aderenti. Da qui la necessità di richiamare in toto il regime d’eccezione, ex artt. 135-184 L.fall., ad oggi limitato,
come sopra visto, alle sole ipotesi di concordato fallimentare o preventivo.
1 Xxxxxxx, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. “182bis” l.fall., in Foro. it., 2006, I, 2563 ss.; Xxxxxxxx, Il concordato preventivo: il ruolo dei fideiussori e dei coobbligati, 2007, consultabile sul sito xxxxxx.xx, v. in particolare pp. da 29 a 31. Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Xxxxxxx Kluwer, Milano, 2012, pp. 331 ss.; Id., Piano attestato di risanamento e accordi di ristrutturazione dei debiti, Xxxxxxx Kluwer, Milano, 2016, p. 196; Delle Monache, Profili dei “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, in Judicium, 2013, v. in particolare pp. 20 ss. In senso contrario x. Xxxxxxxxxx Xxxxx, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 182bis legge fallim.) e gli effetti per coobbligati e fideiussori del debitore, in Dir. Fall., 2005, I, pp. 845 ss.
2 Così Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 332.
3 Delle Monache, Profili dei “nuovi” accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 19. In termini generici, cfr. Xxxxxxx, Trattato di diritto civile, II, Xxxxxxx Kluwer, Milano, 2015, p. 24, in cui l’A. afferma che “il codice civile dà, in linea di massima, questa risposta: si propagano agli altri debitori in solido o agli altri creditori in solido le conseguenze favorevoli, non si propagano quelle sfavorevoli”.
4 Cfr. in tal senso la Relazione Illustrativa consultabile al seguente link xxxx://xxxxxxxxx.xxxxxx.xx/xxxx/xxxxxxxxx/xxxxxxxxxxx/Xxxxxxxxxxxx/xxxXxxxx.xxxx?xxxxx0000_ F001.pdf&leg=XVIII#pagemode=none, v. in part. p. 71.
Diritto Bancario
Cenni sul limite di finanziabilità dei mutui fondiari
di Xxxxx Xxxxxxxx
Parte della giurisprudenza di merito ha rilevato che, nell’ambito delle operazioni di credito fondiario (art. 38 TUB), ai fini della determinazione del valore dell’immobile e dunque dell’accertamento del carattere fondiario del finanziamento, occorre avere a riferimento il valore commerciale del bene e non il suo (ridotto) valore cauzionale, non potendosi all’atto del finanziamento determinare in modo adeguato quale sarà il valore del cespite cauzionale al momento della (eventuale) vendita (Trib. Monza 12.10.2018; Trib. Grosseto 15.2.2020). L’interesse a sopravvalutare i cespiti, è osservato, più che in capo alla banca erogante si manifesta in capo al soggetto finanziato, sicché il sospetto di un allontanamento dal sano criterio estimativo prudenziale dettato dalla professionalità del banchiere non può essere gratuitamente enunciato, ma va suffragato da serie risultanze probatorie (App. Firenze 18.9.2012).
Il valore cauzionale del cespite ipotecato, determinato sul «prudente apprezzamento della futura negoziabilità dell’immobile», è stato invece da altri giudici preso a riferimento ai fini dell’applicazione del limite di finanziabilità (80%) previsto dall’art. 38 TUB (App. Venezia 20.5.2019; Trib. Sciacca 6.5.2019; Trib. Xxxxxx 00.0.0000; Trib. Pescara 2.12.2020 ). Dello stesso tenore sono le conclusioni della giurisprudenza di legittimità, che valorizza il valore cauzionale del bene, ossia, come detto, la sua futura negoziabilità (Cass. n. 11201/2018, che richiama i precedenti di Cass. n. 9219/1995 e Cass. n. 267/2006 nonché la Direttiva CE n. 2000/12).
È stato affermato (Xxxxxxxxx, Gli atti unilaterali di mutuo nel credito bancario, 2002, p. 168) che il contratto sarà soggetto alla speciale normativa del credito fondiario quando la documentazione acquisita (ad es. una perizia sul valore dell’immobile) abbia indotto l’ente creditizio a confidare, senza sua colpa, in un valore dell’immobile tale da garantire il rispetto del rapporto con la somma concessa in prestito, pur se in concreto tale rapporto non sia stato osservato.
Resta comunque inteso che il mancato rispetto della percentuale di concessione potrà verificarsi solo quando si realizzi una significativa, oggettiva differenza di valutazioni che esulino da « quel margine di soggettività che tutte le tecniche estimative implicano » (Xxxxx, Il credito fondiario nel nuovo TU bancario, 1996, p.28).
La mancata indicazione nel contratto di mutuo fondiario del valore dell’immobile ipotecato non costituisce causa di nullità del contratto medesimo, non essendoci nessuna norma che lo preveda (Cass. n. 29745/2018; Trib. Monza 21.7.2017; vedi anche Trib. Benevento 5.8.2016);
peraltro, ai fini della verifica della violazione del limite di finanziabilità, il ‘valore’ di un immobile non si identifica necessariamente con il prezzo pagato per il suo acquisto (Trib. Vicenza 5.11.2018; Trib. Grosseto 15.2.2020).
La Cassazione, infine, ha valorizzato il dato rappresentato dall’ammontare del mutuo concesso per l’acquisto dell’immobile quale indizio della esistenza di un corrispettivo maggiore di quello dichiarato ed ha attribuito particolare valore alla presunzione semplice costituita dall’ammontare del mutuo concesso; tale presunzione, per cui il corrispettivo versato per l’acquisto dell’immobile non può essere inferiore alla entità del mutuo concesso dalla banca, è stata ritenuta rafforzata dalle disposizioni sul limite massimo di finanziabilità stabilito con deliberazione 22 aprile 1995 del CICR (Cass. n. 16951/2019).
Soft Skills
Tre strumenti per gestire i collaboratori con efficacia: riunioni, delega e feedback
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Business Coach e Formatore
Anche per gli studi professionali, come accaduto per le aziende, si apre la necessità di costruire team di collaboratori affiatati, di formarli e motivarli costantemente. Sono queste le tematiche del team building, del team working e del team coaching. Lavorare in team è diventata per tutti i professionisti un’esigenza imprescindibile, ancora di più alla luce dei cambiamenti epocali che stiamo assistendo. Lo studio legale che si affaccerà sul mercato nei prossimi anni è con ogni probabilità uno studio strutturato, con professionisti e staff, organizzato in forma di impresa, con logiche di business molto vicine a quelle aziendali. La conseguenza è che le risorse umane rappresenteranno la colonna portante dello studio, nessuna esclusa, dai professionisti alle segretarie. Scegliere le persone giuste e ottimizzarne il lavoro, formare i collaboratori e tenerli costantemente aggiornati nell’epoca del Life Long Learning, curare il clima di studio con riunioni ad hoc e attività di team building come i retreat sarà imprescindibile. Tutto questo per garantire allo studio performance eccellenti grazie alla motivazione e dedizione delle persone e alla loro preparazione professionale.
TRE STRUMENTI MANAGERIALI
Per poter gestire efficacemente il proprio team ci sono tre strumenti principali da utilizzare:
– Riunioni
– Deleghe
– Feedback
Dopo aver costruito un team e averlo dotato di organizzazione, mediante altri tre strumenti manageriali fondamentali – organigramma, funzionigramma e procedure – ecco che lo stesso potrà funzionare grazie alle riunioni, alle deleghe e ai feedback. Questi sono tre strumenti diversi come finalità e funzione, vediamoli sinteticamente.
RIUNIONI
Le riunioni sono lo strumento manageriale ideale per lavorare sulla motivazione del team, per lavorare sul clima di studio, per organizzare le attività e per condividere informazioni e opinioni. Esistono 5 diversi tipologie di riunioni, a seconda della finalità:
– Riunioni organizzative, che servono a definire chi fa che cosa;
– Riunioni informative, che servono a trasmettere informazioni al team in modo centralizzato, quali, ad esempio, i nuovi collaboratori che entrano nel team, oppure che escono, o nuovi clienti acquisiti dallo studio;
– Riunioni formative, utili per fare knowledge sharing, cioè condividere il sapere formando tutti in modo costante e omogeneo, evitando così che alcuni si continuino a formare e altri restino
indietro; inoltre, con la formazione interna si possono ottimizzare anche gli investimenti formativi, per esempio perché si manda un collaboratore a fare un corso con l’impegno che poi farà da relatore interno allo studio, condividendo con i colleghi quanto appreso; in questo modo avremo investito una sola quota, lavoreremo sul team building e sul public speaking;
– Riunioni decisionali, dove verranno prese decisioni circa questioni strategiche per lo studio;
– Riunioni di brainstorming, dove le persone potranno esprimersi liberamente, in modo da conoscere le loro difficoltà, esigenze e opinioni.
Considerate che la riunione ha per uno studio la stessa funzione dello spogliatoio per una squadra sportiva: serve a compattare il gruppo. Tutto questo ad una condizione: le riunioni devono essere ben organizzate e gestite (per approfondire l’argomento vi rinvio al mio libro GESTIRE IL TEMPO NELL’ATTIVITA’ PROFESSIONALE, Alpha Test editore, ed. giugno 2020).
Ma come si organizzano le riunioni? Vediamo i punti fondamentali da non perdere:
– Fissate le riunioni sempre in un luogo dedicato, la sala riunioni (non davanti alla macchinetta del caffè o a pranzo);
– Definite con chiarezza le regole della riunione, di cui la principale è il divieto assoluto di portare i cellulari in riunione; altra regola è il rispetto dell’orario di inizio e di fine;
– Fate parlare tutti e il capo o il più alto gerarchicamente parla per ultimo, per non condizionare gli altri;
– Preparate un ordine del giorno e seguitelo con cura;
– Per le riunioni periodiche è consigliabile far redigere un report finale e inviarlo a tutti i partecipanti;
– Anticipate l’ordine del giorno via email, in modo che ciascuno sia informato sui contenuti e possa prepararsi e preparare la documentazione opportunamente;
– Date un titolo alla riunione, in modo che sia chiaro lo scopo della stessa e l’argomento trattato.
Ricordate che le riunioni non sono scocciature o perdite di tempo, ma utilissimi strumenti di ottimizzazione del tempo; la condizione perché ciò avvenga è che la riunione sia ben organizzata e gestita, in caso contrario sì che diventa un momento collettivo di dispersione di tempo, ma non perché lo strumento non sia utile, ma perché mal utilizzato. In questo periodo di pandemia, con l’obbligo del distanziamento sociale, lo smart working e il turnover dei collaboratori le riunioni avvengono prevalentemente a distanza, mediante strumenti elettronici, come le piattaforme di videoconference; proprio perché è più difficile lavorare in sinergia data la distanza è ancora più necessario fare riunioni se non quotidiane, almeno settimanali; tali riunioni non solo hanno scopo organizzativo, ma anche motivazionale, comunicativo e relazionale. Quindi fate in modo di colmare la distanza fisica con un maggior utilizzo dei meeting on line interni allo studio.
DELEGHE
Altro strumento manageriale fondamentale sono le deleghe. Attraverso la delega, infatti, si può moltiplicare il proprio tempo a disposizione. Delegare le attività vuol dire ottimizzare le risorse e razionalizzare le energie. La delega deve seguire la regola in base alla quale tutti i risultati che possono raggiungere miei collaboratori il cui costo orario è inferiore al mio dovrebbero essere delegati; in questo modo si ottengono due vantaggi rilevanti: il primo, è che mi si libera tempo per svolgere attività a valore aggiunto e il secondo è che il costo per lo
studio di quell’attività è inferiore rispetto al costo che verrebbe sostenuto facendo io in prima persona l’attività stessa, con conseguente aumento della marginalità.
Perché tutto ciò accada è necessario che anche la delega segua delle regole ben precise, vediamole:
– I soggetti a cui delegare devono essere scelti in base alle competenze professionali e alle attitudini personali e non solo in base alla disponibilità o al carico di lavoro;
– Ciò che viene delegato deve essere chiarito e perimetrato in modo che non ci siano equivoci; in altri termini, va definito con concretezza cosa deve fare il delegato e, quindi, qual è la vostra aspettativa di risultato;
– La delega deve sempre avere con sé le specifiche della dead line, cioè del termine entro il quale l’attività deve essere compiuta; deleghe con “appena hai tempo”, “è urgente”, “quando riesci” non sono ammissibili, perché creano ansia e confusione;
– Quando si delega, bisogna anche verificare che il delegato abbia tutte le risorse necessarie per poter adempiere alla delega, altrimenti tali risorse vanno procurate: conoscenze, denaro, persone, strumenti, informazioni;
– Se volete che il delegato si applichi al massimo dovete motivarlo, in particolare spiegando lo scenario in cui la delega si inserisce;
– Se volete che il delegato sia particolarmente responsabile, dovete chiarire i rischi e la delicatezza del compito, nonché le conseguenze per errori o ritardi;
– Fate seguire al compimento della delega il feedback, in modo da far crescere il delegato e gratificarlo per lo sforzo compiuto.
La delega ricordate che è uno strumento d’oro per migliorare le performance di uno studio professionale e dimenticate la frase “faccio prima a fare io”.
FEEDBACK
Ultimo strumento manageriale è il feedback, strumento utilissimo per far crescere le persone. Sia che io esegua correttamente la delega, sia che commetta degli errori, se non seguisse al mio comportamento un feedback non saprei dove ho sbagliato e dove devo migliorare. La delega, quindi, serve a dare un parere, un’opinione per far crescere il delegato. Attraverso il feedback dato correttamente la persona riceve altri punti di vista, opinioni e punti prospettici da cui guardare le cose, che gli permettono di crescere velocemente e rinforzare i comportamenti efficaci. Il feedback per essere efficace deve essere dato nell’interesse di chi lo riceve e deve sempre riguardare il futuro, cioè partire da ciò che si è visto e proiettarsi al futuro su come migliorare la prossima volta. Altra cosa, invece, è la polemica e il criticismo, cioè il continuare a rimestare nel passato, voler avere ragione, giudicare la persona: quello non è un feedback, ma polemica.
Infine, ricordate che il feedback deve sempre avere come oggetto il fatto, la situazione e mai la persona; non colpite mai l’identità dell’altro, il “chi sei tu”, ma rimanete sempre sul “cosa hai fatto”.
In conclusione, anche lo studio legale e l’avvocato oggi hanno bisogno di inserire nelle dinamiche relazionali di studio e nella mentalità dei suoi componenti questi elementi perché il team funzioni in modo performante e i risultati sia economici che morali siano eccellenti. Saranno queste le organizzazioni che avranno successo nel nuovo mercato legale 4.0.