UNIVERSITA‟ CA‟ FOSCARI VENEZIA
UNIVERSITA‟ CA‟ FOSCARI VENEZIA
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO PRIVATO EUROPEO
DEI CONTRATTI CIVILI, COMMERCIALI E DEL LAVORO, 22° CICLO (A.A. 2006/2007 - 2008/2009)
Le pratiche commerciali scorrette
Settore scientifico - disciplinare di afferenza: Diritto Civile
Tesi di dottorato di XXXXX XXXXXXX, matricola n. 955333
Coordinatore del dottorato Tutore del dottorato
Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxx Xx Xxxxxxx Xxxxx.xx Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxxxx
Ai miei genitori, per il loro costante sostegno
e a tutti coloro che hanno dato il loro prezioso contributo
per la realizzazione del presente scritto.
INDICE
1.1. La Direttiva 2005/29/CE: considerazioni preliminari 6
1.2. Scopi e ambito di applicazione 7
1.3. Libro verde sulla protezione dei consumatori nell‟Unione Europea 8
1.4 Comunicazioni della Commissione relative alla strategia per la politica dei consumatori 10
1.5 Direttiva 2006/114/CE sulla Pubblicità ingannevole e comparativa 13
1.6. Definizione di pratiche commerciali sleali 24
1.7. Definizione di consumatore medio 26
1.8. Definizione di comunicazioni commerciali 29
1.9. Definizione di professionista 32
1.10. Definizione di diligenza professionale e colpa 35
1.10.1. Diligenza Professionale 35
1.10.2. Colpa e profili di responsabilità 41
1.11 DEFINIZIONE DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI “INGANNEVOLI” 43
1.11.1 LE “AZIONI INGANNEVOLI” 44
1.11.2 LE “OMISSIONI INGANNEVOLI” 47
1.12 DEFINIZIONE DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI “AGGRESSIVE” 49
1.12.1 Le pratiche aggressive moleste 52
1.12.2 Le pratiche aggressive coercitive 53
1.12.3 Le pratiche aggressive condizionanti 55
2.1. Recepimento delle norme comunitarie: considerazioni preliminari 61
2.1.1 La posizione della giurisprudenza sulla prevalenza delle norme comunitarie direttamente applicabili sulle norme nazionali: breve excursus storico 61
2.1.2 Limiti al primato delle norme comunitarie 68
2.2. L‟attuazione della Direttiva 2005/29/CE nell‟ordinamento italiano 79
2.2.2 La scelta operata dal legislatore italiano in merito all‟autonomia della disciplina delle pratiche commerciali sleali rispetto a quella della pubblicità commerciale 82
2.2.3 Rapporto tra la disciplina delle pratiche commerciali scorrette (Titolo III della Parte II cod. cons.) e le altre discipline normative 85
2.2.4 Le conseguenze della violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette 88
2.2.5 Pubblicità ingannevole e pratiche commerciali scorrette 93
2.2.5.2 DISCIPLINA DELLA PUBBLICITÀ CONTENUTA NEL D.LGS 2 AGOSTO 2007 N. 145 96
2.2.5.3 DEFINIZIONE DI “PROFESSIONISTA” E “OPERATORE PUBBLICITARIO” 98
2.2.5.4 DEFINIZIONE DEGLI INTERESSI TUTELATI DAL D.LGS N. 145/2007 100
2.2.6 Gli elementi costitutivi delle pratiche scorrette 102
2.2.7 Le pratiche commerciali ingannevoli 106
2.2.8 Le pratiche commerciali aggressive 110
2.2.9 Gli strumenti di tutela individuale e collettiva 112
2.2.9.1. Procedimento avanti all‟Autorità Garante della concorrenza e del mercato 113
2.2.9.1. Procedimento avanti all‟Autorità giurisdizionale ordinaria e rimedi civili 121
2.2.9.2.1 La Tutela del consumatore 122
2.2.9.2.2 La Tutela dei concorrenti 129
2.2.10 Le forniture non richieste 130
2.2.10.1. Xxxxxx negoziale del silenzio, conclusione del contratto e problematiche connesse alla tutela del
CONSUMATORE IN MATERIA DI “FORNITURE NON RICHIESTE”. 132
2.2.10.2. LA NORMATIVA PRECEDENTE OVVERO LA DIRETTIVA 97/7/CE E IL D.LGS. 22 MAGGIO 1999, N. 185 136
2.2.10.3. L‟ARTICOLO 15 DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE 137
2.2.10.4 IL RECEPIMENTO DEI NUOVI ARTICOLI 9 DELLE DIRETTIVE 97/7/CE E 2002/65/CE 139
2.2.10.5 I SERVIZI NON RICHIESTI 141
CAPITOLO 3 144
Pratiche commerciali sleali: recepimento della Direttiva nel sistema inglese e prime pronunce giurisprudenziali 144
3.1 RECEPIMENTO DELLA DIRETTIVA NEL SISTEMA INGLESE: STATUTORY INSTRUMENT N. 1277/2008 144
3.1.1. Divieto generale di pratiche commerciali sleali (General prohibition of unfair commercial practices) 148
3.1.2 Glossario 148
3.1.3. Buona fede tra Common Law e Diritto Europeo 156
3.1.4 LISTA NERA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SLEALI (BANNED PRACTICES) 163
3.1.5 Misleading actions and misleading omissions 169
3.1.6 Rimedi 176
3.2. Prime pronunce e provvedimenti dell‟Autorità Garante in materia di pratiche commerciali scorrette 186
3.2.1 PROVVEDIMENTO 4 SETTEMBRE 0000 X. 00000 AVVERSO ENEL S.P.A 186
3.2.2 PROVVEDIMENTO 2 OTTOBRE 2008 N. 18950 189
3.2.3 PROVVEDIMENTO 23 NOVEMBRE 2008 N. 19223 191
3.3 CIRCOLARE ASSONIME N. 50 DEL 22 DICEMBRE 2009 193
Bibliografia 194
CAPITOLO 1.
Pratiche commerciali sleali: inquadramento generale e ordinamento interno
1.1. LA DIRETTIVA 2005/29/CE: CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
La Direttiva 2005/29/CE, relativa alle cd. “pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”1 (Unfair commercial practices directive), rappresenta un provvedimento di armonizzazione delle legislazioni nazionali dei Paesi membri, che ha lo scopo di “contribuire al corretto funzionamento del mercato interno” nonché, in virtù di quanto previsto dall‟articolo 153 CE, “al conseguimento di un livello elevato di tutela dei consumatori”. Infatti, come noto, tale Direttiva nasce dall‟esigenza di armonizzare la normativa a livello comunitario in un settore caratterizzato da differenze notevoli tra i vari stati membri, differenze che possono tradursi in distorsioni della concorrenza, come pure per promuovere la libera circolazione delle merci e dei servizi, nonché la libertà di stabilimento, sviluppando pratiche commerciali leali all‟interno dello spazio senza frontiere europeo.
Di tutta evidenza che l‟esistenza di regole e principi uniformi dovrebbe, almeno in linea di principio, impedire che una determinata prassi possa essere considerata lecita in un paese ed illecita in un altro, favorendo il cd. “forum shopping” ed inducendo i professionisti a sostenere costi e rischi connessi alle differenze tutt‟ora esistenti tra i diversi Paesi membri.
Si badi bene, però, che la Direttiva in esame, diversamente dalla prassi comunitaria, mira ad un‟armonizzazione completa delle varie disposizioni nazionali, introducendo essa stessa dei criteri immediatamente valevoli in tutti gli Stati al fine di valutare e identificare la slealtà di una pratica commerciale e di vietarne così la continuazione2.
Anche nel Libro Verde sulla tutela dei consumatori nell‟Unione Europea del 2 ottobre 2001 (che si avrà modo di analizzare infra) emerge chiaramente l‟intento della Commissione di
1 In Gazzetta Ufficiale dell‟Unione Europea del 11 giugno 2005; La Direttiva n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali.
2 Infatti, solitamente, nelle direttive comunitarie a tutela del consumatore è previsto il mantenimento di norme nazionali maggiormente garantiste rispetto ai provvedimenti europei; nella Direttiva in esame, invece, è espressamente prevista “l‟armonizzazione completa”. In particolare, nella proposta di Xxxxxxxxx, al paragrafo n. 48 si chiarisce che “il divieto generale costituisce l‟elemento essenziale della Direttiva che permette di realizzare l‟armonizzazione necessaria ai fini del superamento degli ostacoli al mercato interno e conseguire un elevato livello comune di tutela. Tale risultato verrà raggiunto sostituendo le clausole generali nazionali vigenti in materia di pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori e introducendo criteri più precisi rispetto a quelli contenuti nelle clausole generali nazionali per determinare ciò che è sleale. Se non fosse previsto un divieto generale, gli Stati membri potrebbero continuare ad applicare le rispettive divergenti clausole generali pregiudicando l‟effetto armonizzante della Direttiva”.
realizzare la piena armonizzazione della normativa comunitaria in relazione alla tutela del consumatore. In particolare, ha rilevato tre punti essenziali attorno ai quali si dovrà sviluppare la politica legislativa comunitaria a tutela dei consumatori: al primo punto, analizza gli ostacoli allo sviluppo del mercato interno; al secondo, le possibili soluzioni che potrebbero essere adottate per armonizzare la normativa comunitaria a tutela dei consumatori ed, infine, al terzo punto, sottolinea la necessità di migliorare la cooperazione tra le diverse autorità pubbliche perché la tutela dei consumatori possa trovare effettiva applicazione all‟interno dei singoli Stati membri.
Ebbene, prima di analizzare la struttura ed i contenuti della suddetta Direttiva, per altro già recepita nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 2 agosto 2007, n. 1463, appare opportuno verificare se effettivamente tale provvedimento comunitario sia necessario oppure se, alla luce della normativa interna preesistente, non possa essere considerato superfluo, dimostrando una “modernità” del nostro ordinamento giuridico, già ampiamente in linea con i principi comunitari.
Tale ultimo aspetto potrebbe altresì emergere, alla luce dei principi ispiratori della Direttiva nonché dei termini e delle definizioni utilizzati, con riferimento al richiamo alla cd. “diligenza professionale” ed ai principi generali di correttezza e buona fede.
1.2. SCOPI E AMBITO DI APPLICAZIONE
A differenza delle direttive precedenti in materia di concorrenza, la Direttiva in esame si distingue per le parti alle quali è indirizzata e, soprattutto, per la tutela che vuole approntare.
In particolare, il legislatore comunitario, pur mantenendo tra i propri scopi quello di garantire il mercato interno (“uno spazio senza frontiere interno, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci e dei servizi, nonché la libertà di stabilimento”4) non ha inteso tutelare i legittimi concorrenti, gli altri imprenditori (tutelati invece dalla Direttiva 1984/450/CEE sulla pubblicità ingannevole/comparativa, ormai relegata unicamente a tutela dei rapporti tra professionisti) ma ha rivolto la propria attenzione agli interessi economici dei consumatori5.
Infatti, come emerge dai Considerando, la Direttiva ha - come accennato nel punto precedente - come obiettivo quello di ravvicinare “le legislazioni degli Stati membri sulle pratiche commerciali sleali, tra cui la pubblicità sleale, che ledono gli interessi economici
3 In Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2007. Il presente Decreto legislativo ha sostituito gli articoli da 18 a 27 del Codice del Consumo, D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206.
4 Il Considerando n. 1 prosegue stabilendo che “lo sviluppo di pratiche commerciali leali all‟interno dello spazio senza frontiere interne è essenziale per promuovere le attività trasfrontaliere”.
5 Per consumatore si intende qualsiasi persona fisica che agisca per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale. Sulla definizione di consumatore, per completezza, si veda A. Gentili, Codice del consumo ed esprit de géométrie, in I Contratti, n. 2/2006, Ipsoa.
dei consumatori” (Considerando n. 6) e di introdurre “norme uniformi che prevedono un elevato livello di protezione dei consumatori”, tutelando la fiducia di questi ultimi nel mercato interno.
Inoltre, si può affermare che il bene giuridico protetto dalla disciplina in esame è la libertà di scelta del consumatore, il quale deve poter prendere una decisione di tipo commerciale liberamente e consapevolmente, senza subire influenze o indebiti condizionamenti.
Manifesta l‟attenzione per il consumatore.
Per quanto riguarda l‟aspetto oggettivo, l‟articolo 3 precisa che la Direttiva trova applicazione per tutte e solo quelle condotte che possano essere considerate “pratiche commerciali” (articolo 2, lett. d) ovvero qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale (ivi compresa la pubblicità e il marketing) che siano poste in essere “prima, durante e dopo un‟operazione commerciale relativa ad un prodotto”.
La Direttiva, tuttavia, chiarisce che la disciplina contenuta agli articoli 2-13 ha senz‟altro natura sussidiaria: infatti, trova applicazione solamente in quegli ambiti non ancora regolati da altre disposizioni di diritto comunitario, che disciplinino aspetti particolari delle pratiche sleali. In quest‟ultima ipotesi le norme specifiche dovranno essere preferite.
Non pregiudica, altresì, le eventuali condizioni relative allo stabilimento o i regimi di autorizzazione, i codici deontologici di condotta o altre norme specifiche che disciplinano le professioni regolamentate, tutti finalizzati a mantenere elevati livelli di integrità professionale.
Tuttavia, come si avrà modo di meglio argomentare nel prosieguo, la dottrina discute circa il ruolo ed i limiti di applicazione dei codici deontologici, soprattutto con riferimento alla clausola generale di buona fede.
Inoltre, non pregiudica l‟applicazione del diritto contrattuale, con particolare attenzione alle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto. In tale ultima materia, pertanto, varranno senz‟altro le norme interne ai singoli Paesi membri.
1.3. LIBRO VERDE SULLA PROTEZIONE DEI CONSUMATORI NELL’UNIONE EUROPEA
Se si considera che la Direttiva 2005/29/CE nasce dall‟esigenza sentita nel Libro Verde sulla protezione dei consumatori nell‟Unione Europea, di stabilire un divieto unico, comune e generale delle procedure che alterano il comportamento economico dei consumatori, pare opportuno analizzare brevemente i contenuti, gli scopi e gli sviluppi del Libro Verde stesso.
Obiettivo del Libro Verde è quello di analizzare i possibili orientamenti futuri della tutela dei consumatori nell‟Unione Europea, avviando un dibattito con le parti interessate. Esamina, altresì, i diversi ostacoli alla realizzazione del mercato interno a tale settore, la questione della tutela dei consumatori e le soluzioni da adottare in vista di quell‟armonizzazione a livello comunitario tanto agognata. Parimenti, il Libro Verde analizza la possibilità di migliorare la cooperazione tra le autorità pubbliche incaricate dell‟attuazione pratica di tutti quegli aspetti attinenti alla protezione dei consumatori.
La Commissione, dopo aver rilevato che le norme comunitarie a protezione dei consumatori non sono idonee ad adattarsi allo sviluppo naturale del mercato ed alle nuove prassi commerciali, propone, quale soluzione, la semplificazione delle norme nazionali (e conseguente armonizzazione della normativa nazionale) e il raggiungimento di una garanzia maggiore della protezione dei consumatori. Viene da sé come tale semplificazione normativa favorirebbe non solo i consumatori, ma anche gli stessi imprenditori, i quali potrebbero così ridurre gli oneri a loro carico con conseguente miglioramento della competitività sul mercato.
Per ottenere tale semplificazione il Libro Verde propone due possibili soluzioni: l‟adozione da un lato di una serie di direttive nuove, dall‟altro di una Direttiva-quadro completata da alcune direttive ancillari e specifiche.
Alcuni hanno ravvisato tutta una serie di vantaggi nell‟adozione della Direttiva-quadro, tra i quali la semplificazione della normativa comunitaria sopra prospettata e una maggior facilità nei negoziati.
Tuttavia, la Direttiva-quadro andrebbe ad integrarsi con il processo di autoregolamentazione interno e, ancor di più, con quello delle singole imprese attraverso i cd. codici di autoregolamentazione. Resta inteso che i suddetti codici di autoregolamentazione non potrebbero riguardare, per ovvie ragioni, i settori della sanità e della sicurezza né, tanto meno, questioni di politica sociale (tra i quali, a titolo meramente esemplificativo, l‟orario di apertura dei locali commerciali).
Come sopra accennato, uno degli obiettivi principali – e forse anche maggiormente ambiziosi – del Libro Verde è quello dell‟armonizzazione o della semplificazione in materia di protezione dei consumatori: infatti, il quadro nel quale ci si dovrebbe muovere è quello di circa 20 direttive comunitarie, alle quali si devono aggiungere la giurisprudenza a livello di Unione Europea e le normative dei diversi Stati membri.
Dopo il Libro Verde, la Commissione ha proseguito la propria attività in materia di protezione dei consumatori, mediante una consultazione pubblica terminata nel gennaio 2002, che è poi sfociata in una comunicazione ed è stata altresì tenuta in debita considerazione nel nuovo piano d‟azione sulla Protezione dei consumatori 2002-2006.
1.4 COMUNICAZIONI DELLA COMMISSIONE RELATIVE ALLA STRATEGIA PER LA POLITICA DEI CONSUMATORI
Successivamente all‟adozione del Libro Verde, la Commissione ha emesso una Comunicazione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo del 7 maggio 20026, contenente la Strategia per la tutela dei consumatori per gli anni 2002-2006. Gli obiettivi delineati dalla Commissione sono tre:
(i) un elevato livello di protezione dei consumatori;
(ii) l‟applicazione effettiva delle regole di protezione dei consumatori;
(iii) la partecipazione delle organizzazioni dei consumatori alle politiche comunitarie. Ebbene, tali obiettivi – a detta della Commissione – sono destinati a facilitare l‟integrazione degli interessi dei consumatori in tutte le altre politiche comunitarie, a massimizzare i vantaggi del mercato unico per i consumatori e a prepararli all‟ampliamento. Pertanto, al fine di agevolare in tal senso i consumatori, sono necessarie regole più semplici e uniformi, un grado di applicazione analogo all‟interno di tutta l‟Unione, misure di informazione e di educazione più accessibili nonché, infine, meccanismi di ricorso efficaci.
Non sfuggirà come la strategia ed i mezzi auspicati dal legislatore comunitario coincidano sempre con la semplificazione e chiarezza, oltre che l‟omogeneità, degli strumenti regolatori.
La strategia ravvisata dalla Commissione si applica ai seguenti campi:
- sicurezza dei consumatori;
- questioni economiche e giuridiche che li riguardano sul mercato;
- informazione e educazione dei consumatori;
- promozione delle organizzazioni dei consumatori e il contributo di queste ultime all‟elaborazione della politica dei consumatori.
Gli obiettivi della suddetta strategia possono essere riassunti in
(a) un elevato livello comune di protezione dei consumatori;
(b) l‟applicazione effettiva delle regole di protezione; e
(c) la partecipazione dei cittadini alle politiche dell‟Unione Europea attraverso le competenti organizzazioni dei consumatori.
A questo punto la Commissione ha chiarito come sia necessario un programma a breve termine (5 anni), soggetto a riesame periodico, per il raggiungimento dei suddetti obiettivi, programma che verrà di volta in volta, mediante proposte ad hoc, presentato al Consiglio ed al Parlamento.
6 COM (2002) 208 def. In Gazzetta Ufficiale C137/2 del 8 giugno 2002, intitolata “Strategia per la politica dei consumatori dell‟UE 2000-2006”.
Ma passiamo ad esaminare ogni singolo obiettivo individuato dalla Commissione.
(a) Un elevato livello comune di protezione dei consumatori
Il primo obiettivo consiste “nell‟armonizzare, attraverso i mezzi più appropriati (Direttiva-quadro, norme, migliori prassi) non soltanto la sicurezza dei beni e dei servizi, bensì gli aspetti di ordine economico e giuridico che danno ai consumatori la fiducia necessaria per effettuare transazioni dappertutto nel mercato interno. Nel quadro di questo obiettivo, le principali azioni consisteranno nel garantire un seguito alle questioni relative alle prassi commerciali esaminate nel Libro Verde sulla protezione dei consumatori nell‟Unione Europea e verteranno sulla sicurezza dei servizi”.
(b) Applicazione effettiva delle regole di protezione dei consumatori
Il secondo obiettivo, fondato sulla costante crescita dell‟integrazione economica nel mercato interno, si fonda sulla necessità dell‟elaborazione di un quadro di cooperazione amministrativo tra gli Stati membri nonché meccanismi di ricorso per i consumatori.
(c) Partecipazione delle organizzazioni dei consumatori alle politiche comunitarie Infine, con riferimento all‟ultimo obiettivo la Commissione, dopo aver rilevato che al fine di rendere effettivamente efficaci le politiche di protezione dei consumatori, è necessario che gli stessi consumatori abbiano la possibilità di contribuire alla definizione delle politiche che li riguardano, ha affermato che “i consumatori ed i loro rappresentanti devono avere la capacità e le risorse necessarie per promuovere i loro interessi su un piede di eguaglianza con le altre parti interessate”.
Pertanto, le istituzioni comunitarie, in primis, e quelle nazionali, in secundis, avranno il compito di garantire meccanismi partecipativi delle organizzazioni di consumatori alla formulazione delle politiche comunitarie e di istituire progetti di educazione e di rafforzamento delle suddette attività.
Successivamente, e al fine di garantire continuità con gli obiettivi e gli sforzi iniziati nel periodo 2002-2007, la Commissione ha emesso la Comunicazione al Consiglio, al Parlamento Europeo e al Comitato Economico e Sociale Europeo del 13 marzo 20077.
In particolare, in questa sede la Commissione8 ha rilevato che, proprio alla luce della sempre crescente complessità dei mercati, ormai legata alla tecnologia a banda larga (da qui il
7 COM (2007) 99 definitivo contenente la Strategia per la politica dei consumatori dell‟UE 2007-2013, e sottotitolato Maggiori poteri per i consumatori, più benessere e tutela più efficace.
8 La Commissione inizia rilevando come il mercato interno sia molto frammentato secondo linee nazionali e si componga di 27 minimercati. Pertanto, per migliorare il funzionamento del mercato dei consumatori si deve “non solo affrontare il problema della frammentazione del mercato interno, ma anche conferirgli un più deciso orientamento verso il consumatore. I risultati finali per i consumatori in termini economici e non solo saranno il metro di giudizio per stabilire se i mercati riescono a soddisfare le aspettative dei cittadini. I mercati che rispondono con maggiore efficienza alla domanda dei consumatori otterranno risultati migliori in
commercio elettronico), il commercio elettronico può migliorare il benessere del consumatore, mettendo a disposizione una più ampia gamma di prodotti, incrementando la concorrenza sul prezzo e sviluppando nuovi mercati.
Il commercio elettronico senza dubbio costituisce anche nuove sfide per i consumatori, le aziende e la tutela degli stessi consumatori, indebolendo, di fatto, l‟effetto della pubblicità tradizionale e dei canali di vendita al dettaglio sul mercato dei consumatori. In questo nuovo scenario si deve inserire la politica dei consumatori, affinché questi ultimi abbiano gli strumenti necessari per effettuare scelte informate e razionali. La politica dei consumatori, infatti, è volta a garantire la sicurezza dei prodotti e servizi, nonché l‟equità e la trasparenza dei mercati.
Infine, la fiducia dei consumatori nel mercato interno riveste un altro e decisivo ruolo: rendere l‟UE una destinazione affidabile per il commercio elettronico dal resto del mondo.
Nel periodo 2007-2013 la politica dei consumatori, per aiutare l‟UE nella creazione di posti di lavoro e nel ravvicinamento dei cittadini, si è posta tre obiettivi principali:
(i) dare maggiori poteri ai consumatori dell‟UE. Infatti, i consumatori, dotati di maggiori poteri, potranno incentivare sensibilmente la competitività. I consumatori consapevoli possono effettuare scelte libere, ma devono necessariamente disporre di informazioni accurate e di un mercato trasparente;
(ii) promuovere il benessere dei consumatori dell‟UE in termini di prezzi, scelta, qualità, diversità, accessibilità e sicurezza. Infatti, il benessere dei consumatori rappresenta il fulcro vitale dei mercati funzionanti;
(iii) proteggere efficacemente i consumatori da seri rischi e minacce che non possono essere affrontati dai singoli.
La Commissione ha stabilito una serie di priorità che devono essere attuate nel corso del periodo 2007-2013 al fine di portare a termine gli obiettivi sopra citati, che possiamo qui brevemente riassumere:
- monitoraggio migliore dei mercati dei consumatori e delle politiche nazionali a favore dei consumatori;
- migliore regolamentazione della protezione dei consumatori;
- maggiore rispetto delle norme e dei ricorsi;
- migliore informazione e più corretta educazione dei consumatori;
- mettere i consumatori al centro delle altre politiche e normative dell‟UE.
termini di competitività e innovazione […]. La politica comunitaria a favore dei consumatori […] può affrontare le insufficienze del mercato che nuocciono al benessere del consumatore […] e può anche contribuire a garantire i valori centrali europei di equità, apertura, solidarietà, sostenibilità e trasparenza e ad esportarli nel resto del mondo”. E ancora “nel periodo 2007-2013 la politica dei consumatori ha l‟opportunità di aiutare l‟UE ad affrontare le sfide di crescita, della creazione di posti di lavoro e del ravvicinamento dei cittadini”.
Ebbene, all‟interno dell‟ambizioso quadro di intervento disegnato dalla Commissione si pone anche la Direttiva 29/2005, sia con riferimento ai presupposti e obiettivi in questa perseguiti sia con riferimento alla tutela ivi prevista.
1.5 DIRETTIVA 2006/114/CE SULLA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE E COMPARATIVA
Ai fini dell‟analisi del valore e della necessità o meno della Direttiva 2005/29/CE, pare doveroso procedere all‟esame, anche se a grandi linee, della Direttiva 2006/114/CE concernente la pubblicità ingannevole e comparativa9.
Scopo della Direttiva qui in commento è quello di “tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”.
La normativa in materia di pubblicità ingannevole10 ha definito, all‟articolo 20, comma 1, lettera a), la pubblicità come “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell‟esercizio di un‟attività commerciale, industriale, artigianale, o promozionale, allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi, oppure la prestazione di opere o servizi”.
Non sfuggirà l‟ampiezza di tale definizione, tanto da abbracciare qualsiasi comunicazione commerciale11.
Ne consegue che un messaggio deve essere considerato pubblicitario, quando sia diffuso nell‟ambito di un‟attività economica e con una finalità evidentemente promozionale, anche indiretta. Resta inteso, tuttavia, che la comunicazione pubblicitaria si distingue da una generica comunicazione commerciale, quando sia destinata alla divulgazione, ossia alla diffusione.
Sotto il profilo soggettivo, l‟articolo 18, comma 2, indica come soggetto destinatario della comunicazione pubblicitaria qualunque persona, fisica o giuridica, cui sono dirette le comunicazioni o che, comunque, ne subisce le conseguenze. Invece, per operatore pubblicitario si intende “il committente del messaggio pubblicitario ed il suo autore nonché, nel caso di mancata identificazione dei primi due soggetti, il proprietario del mezzo con cui
9 Entrata in vigore il 12 dicembre 2007 (pubblicata nella G.U.U.E. n. L 376 del 27 dicembre 2006, pag. 21 e ss.), dettata per sostituire i contenuti precettivi quali risultanti dalle modifiche apportate prima dalla Direttiva 97/55/CE e successivamente dall‟articolo 4 della Direttiva 2005/29/CE, parzialmente modificando la distribuzione degli articoli ed adeguando la formulazione dei “considerando”.
10 Ora articoli n. 19 e 20 del Codice del Consumo, già disciplinata dal D.Lgs n. 74 del 1992; si veda, sul punto,
X. Xxxxxxxx, in Giur. Merito 2006, 3, 622.
11 Si tenga presente che le comunicazioni commerciali e pubblicitarie, pur avendo un ruolo ben diverso rispetto all‟informazione “educativa”, tuttavia è idonea ad orientare il consumatore ad una determinata percezione del mercato: di conseguenza, non può che essere palese, corretta e veritiera.
il messaggio pubblicitario è diffuso ovvero il responsabile della programmazione radiofonica o televisiva”.
Anche sotto l‟aspetto soggettivo, la suddetta normativa fornisce criteri alquanto ampi.
La ratio è sicuramente contenuta nell‟articolo 19 cod. cons., che indica che lo scopo è quello di “tutelare dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali i soggetti che esercitano l‟attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori ed in generale gli interessi del pubblico nella fruizione di messaggi pubblicitari, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”. Evidente la tutela non solo dei consumatori (e la cosa non stupisce), ma soprattutto dei concorrenti.
Infine, all‟articolo 20, comma 1, lettera b), il codice del consumo definisce la pubblicità ingannevole come “qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, sia idonea a indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente”.
Ormai è pacifico ritenere che la pubblicità ingannevole integri una fattispecie di concorrenza sleale e, in quanto tale, si può affermare che essa comprenda, nella propria struttura, due aspetti caratterizzanti:
(i) l‟idoneità a indurre in errore le persone fisiche e giuridiche;
(ii) la lesione potenziale dell‟interesse del concorrente, riconducibile allo sviamento di clientela, derivante dall‟ingannevolezza del messaggio pubblicitario.
L‟interesse leso, quindi, è quello distintivo.
Altresì è evidente come vittime della comunicazione ingannevole siano anche i consumatori, proprio in virtù dell‟impatto che le comunicazioni pubblicitarie hanno su di loro e sul processo decisionale che essi compiono.
In quest‟ottica è stato introdotto il D.Lgs 74 del 1992 e successivamente il D.Lgs. 281 del 1998 (inserito nel Codice del Consumo agli articoli 19-32).
L‟articolo 2 del Codice del Consumo riconosce il diritto del consumatore ad una corretta pubblicità, diritto strettamente connesso a quello ad avere un‟adeguata informazione. Ebbene, tali diritti – di fatto – mirano a sanzionare comportamenti confusori o ingannevoli e che, quindi, si rivolgono a favore del consumatore, pur senza ridurre il collegamento con gli atti ed i comportamenti previsti in materia di concorrenza sleale (si veda l‟articolo 2598 c.c.).
La dottrina, proprio alla luce di tale collegamento nonché dell‟omogeneità strutturale tra l‟illecito pubblicitario e l‟illecito concorrenziale, è divisa in merito alla legittimazione attiva all‟azione inibitoria di cui all‟articolo 2598 c.c., ovvero se tale azione competa unicamente agli imprenditori concorrenti oppure se possa essere iniziata anche dai consumatori.
La questione appare in tutta la sua complessità e di certo fino ad oggi non aveva trovato una soluzione univoca (nonostante la previsione della facoltà delle associazioni di categoria di procedere con lo strumento della cd. class action). Ma di questo tema si tratterà ampiamente infra.
Si tenga ben presente, tuttavia, che nonostante la sussistenza di rapporti tra i due ambiti coinvolti – pubblicità ingannevole e concorrenza – non vi è piena coincidenza tra la prima e la seconda, ovvero non vi è automaticità nella lesione del consumatore e del concorrente; infatti, non sempre la pubblicità ingannevole connota una concorrenza sleale né gli imprenditori concorrenti possono sempre avere interesse a reprimere singole ipotesi di pubblicità ingannevole.
La disciplina dettata per la pubblicità ingannevole ha una sua autonomia giuridica, finalizzata a creare chiarezza e trasparenza nei rapporti commerciali e professionali, anche senza che vi sia la necessaria qualifica di imprenditore tra le due parti.
Infatti, vi sono atti o attività pubblicitarie che, considerati in sé e per sé, non sono dannose per i consumatori, mentre lo sono (o possono esserlo) per gli imprenditori concorrenti, così come vi sono atti o attività pubblicitarie dannose per i consumatori, ma che esulano dalla disciplina della concorrenza.
Lo stesso discorso può essere fatto anche per la pubblicità comparativa.
Si consideri, infatti, che il consumatore non sempre ha interesse a reagire ad ogni forma di comunicazione pubblicitaria scorretta, dal momento che i suoi interessi – giuridicamente tutelati – possono venir lesi solo qualora tale comunicazione sia idonea ad indurlo in errore e ad alterare la sua libertà di scelta. Così avviene, per esempio, anche in presenza di una pubblicità ingannevole, ma che non si ponga contro le regole della concorrenza, dal momento che si riferisce a prodotti nuovi, per i quali ancora non esistono concorrenti nemmeno potenziali, oppure in caso di monopolio/oligopolio.
Infine, integra comunicazione pubblicitaria ingannevole ma non concorrenza sleale la violazione dell‟articolo 24 cod. cons., in materia di pubblicità di prodotti pericolosi.
Lo stesso articolo 19, sopra richiamato, sottolinea la separazione tra le due tutele: il consumatore è tutelato dalla pubblicità ingannevole, mentre gli imprenditori dalle conseguenze sleali della stessa.
Diversamente da quanto disciplinato dalla Direttiva in materia di pubblicità ingannevole, quella contenuta nella Direttiva 29/2005/CE si rivolge unicamente alle pratiche commerciali tra imprese e consumatori: evidente l‟intento del legislatore comunitario di prevedere un doppio binario di tutela. Infatti, la Direttiva 29/2005/CE, annoverando la pubblicità tra le pratiche commerciali sleali, si pone a tutela del consumatore, per garantire che quest‟ultimo possa operare una scelta consapevole e libera, non influenzata da rappresentazioni false o comunque non veritiere e chiare.
La Direttiva sulla pubblicità ingannevole, invece, avendo principalmente lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali, si pone su un piano parallelo a quello della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali.
Ne emerge un quadro – almeno in materia di pubblicità ingannevole – a 360 gradi, idoneo, almeno negli intenti, a tutelare entrambe le sfere di interessi, quelle dei consumatori e quelle dei professionisti/concorrenti.
Inoltre, diverso è, anche se solo in parte, il presupposto oggettivo ovvero l‟interesse che si vuole tutelare: in caso di pubblicità ingannevole si vuole tutelare esclusivamente l‟interesse imprenditoriale, con particolare attenzione ai segni distintivi e a non creare un ingiusto ed immotivato (ossia non fondato su informazioni veritiere) discredito nei confronti dei concorrenti. Diversamente, la Direttiva sulle pratiche commerciali sleali vuole difendere gli interessi collettivi dei consumatori, i quali hanno diritto di poter liberamente e consapevolmente assumere decisioni di natura commerciale12.
Alla luce di quanto sopra analizzato, pare di poter affermare che la tutela precedentemente prevista in caso di pubblicità ingannevole e comparativa era più indirizzata ad integrazione di quella di cui all‟articolo 2598 c.c. e, quindi, a tutela dei segni distintivi nonché della concorrenza, mentre gli utenti/consumatori vedevano una tutela solo riflessa o comunque slegata dal proprio diritto una libera e consapevole libertà nel prendere decisioni di natura commerciale. Probabilmente in un‟ottica di riordino per materia (rectius per soggetti) oltre che per motivi di maggiore incisività, il legislatore comunitario ha preferito far confluire la tutela dei consumatori contro le comunicazioni ingannevoli all‟interno della più ampia normativa contro le pratiche commerciali sleali.
Da qui la Direttiva 29/2005/CE e la conseguente modifica della Direttiva 84/450/CE e della normativa di recepimento in materia di pubblicità ingannevole e comparativa.
12 Cfr. G. Casuburi, La tutela civilistica del consumatore avverso la pubblicità ingannevole dal D.lg. n. 74/1992 al codice del consumo, in Giur. Merito 2006, 3, 622, nota a Giudice di Pace di Avellino, 4 febbraio 2005.
1.5.1. Modifiche apportate alla Direttiva 84/450/CE sulla pubblicità ingannevole e comparativa
A questo punto, per maggior rigore e chiarezza, pare opportuno procedere ad una breve
analisi delle modifiche apportate alla Direttiva 84/450/CE, modifiche trasposte anche nella “versione codificata” di cui alla Direttiva n. 2006/11/CE.
Come supra accennato, la disciplina della pubblicità ingannevole contenuta nella Direttiva 84/450/CE diviene adesso una regolamentazione finalizzata alla tutela dei soli professionisti13, anche se sussistono ancora dubbi circa la reale portata di tali destinatari ovvero se la norma si riferisca ai soli professionisti che vengano raggiunti da messaggi finalizzati ad indurli ad acquistare un determinato bene/prodotto/servizio oppure anche ai professionisti che offrono sul mercato beni o servizi del medesimo genere di quelli pubblicizzati, trovandosi in rapporto di concorrenza con il professionista che commercializza questi ultimi14.
Come accennato nel paragrafo 1.5 che precede, la tutela dei consumatori nei confronti dei messaggi pubblicitari lesivi dei loro interessi economici adesso è affidata integralmente ed in via esclusiva alla Direttiva 2005/29/CE e, precisamente, agli articoli 2-13, finalizzata alla protezione dei consumatori dalle pratiche commerciali sleali: in tal senso, la pubblicità è considerata e, conseguentemente, trattata come una pratica commerciale posta in essere da un professionista e, in quanto tale, non dovrà mai essere “sleale” né “ingannevole” né, infine, “aggressiva”.
A questo punto si deve delineare il perimetro di applicazione della normativa in materia di pubblicità, soprattutto dal punto di vista soggettivo. Infatti, posto che la definizione di “pubblicità ingannevole” non ha subito modifiche, continuandosi a definire come “ingannevole” qualsiasi pubblicità che “in qualsiasi modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, dato il carattere ingannevole, possa pregiudicare il comportamento economico di dette persone o che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente”. È di tutta evidenza come che il dato normativo si riferisce genericamente alle persone, non facendo cenno invece ai soli professionisti.
Si noti, inoltre, che l‟articolo 2, n. 1, della Direttiva 84/450/CE, non modificato dalla Direttiva in materia di pratiche commerciali, nella definizione di “pubblicità” ricomprende qualsiasi messaggio che venga diffuso al fine di promuovere la fornitura di beni o servizi,
13 Nel punto 3 dell‟articolo 2 della Direttiva 84/450/CE (adesso lettera d ) dell‟articolo 2 della Direttiva 2006/114/CE) è stata riportata la definizione di “professionista”, esattamente corrispondente a quella di cui all‟articolo 2, lett. B) della Direttiva 2005/29/CE, che verrà analizzata nel successivo paragrafo 1.8.
14 Per un‟analisi approfondita sul punto, si veda G. De Cristofaro in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori – La Direttiva 2005/29/Ce e il diritto italiano, Giappichelli Editore, 2007, pagg. 36 e ss.
senza limitare i possibili acquirenti (e quindi destinatari del messaggio pubblicitario) ai soli professionisti e non richiede l‟esistenza di una “diretta connessione” tra il messaggio pubblicitario e la conclusione – tra professionisti – di contratti aventi ad oggetto il bene o servizio cui il messaggio si riferisce.
Per di più, nonostante le modifiche apportate dalla Direttiva 2005/29/CE, la disciplina contenuta nella Direttiva 84/450/CE all‟articolo 3 bis (ora trasposta in quella 2006/117/CE, articolo 4) è e rimane una disciplina esaustiva della pubblicità comparativa, alla quale sono soggetti tutti i messaggi pubblicitari: sia quelli rivolti ai consumatori sia quelli indirizzati ai soli professionisti sia quelli, infine, destinati ad entrambe le categorie di soggetti, senza distinzione.
De Cristofaro15, sul punto ed alla luce delle considerazioni sopra esposte, è giunto a ritenere possibile che “nell‟ambito di applicazione dell‟intera Direttiva 84/450/CE (e ora della Direttiva 2006/114/CE) – e quindi non soltanto nei precetti relativi alla pubblicità comparativa, ma anche nei precetti concernenti la pubblicità ingannevole – ricadano tutti i messaggi pubblicitari finalizzati alla promozione di beni o servizi offerti sul mercato da professionisti, a prescindere dalla circostanza che si tratti di (messaggi relativi a) beni o servizi destinati a persone fisiche o a enti collettivi, nonché della circostanza che si tratti di beni o servizi suscettibili o meno di essere impiegati, in via prevalente o esclusiva, nell‟ambito di un‟attività imprenditoriale o di una libera professione”. E ancora, proseguendo, propone di riconoscere che “gli ambiti di operatività delle direttive 2006/114/CE e 2005/29/CE – lungi dall‟essere rigidamente contrapposti – sono semplicemente individuati e delimitati come parametri di natura diversa (oggettivi nella prima e soggettivi nella seconda), e proprio in ragione di ciò, seppure soltanto in parte, coincidono e si sovrappongono”.
Infatti, la Direttiva 2006/114/CE detta una disciplina generale in materia di pubblicità commerciale, che può essere applicata a qualsiasi messaggio pubblicitario, a prescindere dalle caratteristiche del prodotto o servizio pubblicizzato, dalla tipologia (professionale o meno) di utilizzazione del suddetto bene/servizio, dell‟identità dei soggetti cui esso viene offerto, nonché dalle finalità in virtù delle quali i soggetti destinatari del messaggio pubblicitario potrebbero essere interessati ad acquistare il bene o servizio cui esso si riferisce.
Invece, la Direttiva 2005/29/CE disciplina le pratiche commerciali sleali tra professionisti e consumatori, in generale, e tutte le condotte (anche la diffusione di messaggi pubblicitari) che presentino un qualche legame con un rapporto giuridico, attuale o solo potenziale, tra un professionista ed un consumatore.
15 De Cristofaro, cit., pag. 39.
Ebbene, come accennato nel precedente paragrafo 1.5, esistono fattispecie che saranno soggette alla prima Direttiva (messaggi pubblicitari che non mostrino una diretta connessione con – attuali o anche solo potenziali – rapporti contrattuali tra impresa e consumatore), fattispecie soggette solo alla seconda (comportamenti diversi dai messaggi pubblicitari tenuti dai professionisti primo o dopo la stipulazione di contratti con i consumatori e direttamente correlati con i suddetti contratti) e, infine, fattispecie che rientrino nell‟area di applicazione di entrambe le direttive (quali messaggi pubblicitari diffusi da professionisti che siano “direttamente connessi alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”).
Resta inteso che in tali ultime ipotesi, al fine di stabile se il messaggio pubblicitario abbia o meno natura “ingannevole” (alla luce della Direttiva 2006/114/CE), si dovrà inevitabilmente far ricorso ai parametri previsti negli articoli 6 e 7 della Direttiva 2005/29/CE.
Secondo Xx Xxxxxxxxxx, conseguenza di quanto sopra è che i messaggi pubblicitari che abbiano una diretta connessione con eventuali rapporti contrattuali tra professionisti e consumatori sono e rimangono soggetti alla disciplina della pubblicità ingannevole/comparativa; tuttavia, questi ultimi potranno essere considerati “ingannevoli” - ai fini di tale Direttiva - solo se e nella misura in cui mostrino i requisiti richiesti per essere catalogati sotto la definizione di “pratica commerciale ingannevole” nel senso di cui agli articoli 6 e 7 della Direttiva 2005/29/CE (ponendosi come pubblicità suscettibile di indurre in errore i destinatari e per questo idonea a ledere gli interessi dei concorrenti).
L‟Autore - in maniera assolutamente chiara e condivisibile - ha sottolineato come la distinzione tra le due direttive e, conseguentemente, tra i presupposti (soggettivi) per l‟applicabilità dell‟una piuttosto che dell‟altra, è concretamente e nella maggior parte dei casi superflua e decisamente labile. Di tutta evidenza, infatti, che il divieto di diffondere messaggi pubblicitari ingannevoli tuteli contemporaneamente gli interessi dei potenziali destinatari di tali messaggi e quelli dei concorrenti del professionista che potrebbe far ricorso a tali messaggi per promuovere beni o servizi: artificiosa e concretamente poco utile la distinzione, quindi, tra tutela “diretta ed immediata” dell‟interesse dei secondi e tutela meramente “indiretta e mediata” degli interessi dei primi (così come, ormai dai più, riconosciuto che la tutela dei consumatori non sia un mero riflesso della tutela della concorrenza). Tale obiezione ha ragion d‟essere sia nel caso di messaggio pubblicitario indirizzato solamente ai professionisti sia nel caso di messaggio pubblicitario indirizzato unicamente ai consumatori sia nel caso di messaggio indirizzato agli uni e agli altri, in quanto in tutte e tre le ipotesi la diffusione di un messaggio pubblicitario ingannevole contrasta con “l‟interesse della generalità dei consociati alla regolarità e alla lealtà della concorrenza”.
A sostegno troviamo la stessa Direttiva 2005/29/CE che, con il proprio articolo 11, dopo aver previsto l‟obbligo per gli Stati membri di disporre di mezzi adeguati ed efficaci per garantire l‟osservanza delle previsioni della nuova Direttiva nell‟interesse dei consumatori, chiarisce che i suddetti mezzi debbano prevedere anche disposizioni idonee a garantire a tutti i soggetti che abbiamo un interesse a contrastare le pratiche commerciali sleali, “compresi anche i concorrenti”, di agire in giudizio nei confronti del professionista che le ponga in essere.
Per quanto attiene, invece, la pubblicità comparativa, l‟articolo 14, n. 3 della Direttiva 2005/29/CE ha modificato la disciplina dell‟articolo 3bis della Direttiva 84/450/Cee (poi trasfuso senza modifiche nell‟articolo 4 della Direttiva 2006/114/CE), senza tuttavia incidere sulla sostanza, avendo unicamente adeguato la previsione di cui alla lettera a) al mutato scenario normativo (di fatto, adesso la norma prevede che la pubblicità comparativa non crei confusione anche “fra i professionisti”, non solo fra operatore pubblicitario e un concorrente). Non muta nemmeno la funzione dell‟articolo 3-bis di vera a propria “norma di armonizzazione”: l‟articolo 7, paragrafo 1 (che consente agli Stati membri di mantenere o introdurre disposizioni rivolte ad ampliare la tutela già garantita a professionisti e concorrenti rispetto a quella assicurata dalla Direttiva) fa espresso riferimento solo alla “pubblicità ingannevole”, non a quella comparativa, con conseguente divieto per gli Stati membri di discostarsi (né in melius né in peius) dalla previsione del novellato articolo 3-bis della Direttiva 84/450/Cee (ora articolo 4 della Direttiva 2006/114/CE).
Diversamente, invece, per quanto attiene al recepimento della normativa per la pubblicità ingannevole; qualora gli Stati membri lo ritengano opportuno, potranno prevedere regole divergenti rispetto al provvedimento comunitario, purché queste integrino una maggiore tutela degli interessi in gioco.
Si noti, tuttavia, che tale libertà di azione a favore degli Stati membri è fortemente ridimensionata dal limite posto dalla Direttiva 2005/29/CE, ossia, dal limite della mancanza di diretta connessione alla promozione, alla vendita o alla fornitura di beni o servizi a consumatori: infatti, l‟ingannevolezza delle comunicazioni commerciali tra imprese e consumatori (ai sensi dell‟articolo 2, lett. d) della Direttiva 2005/29/CE) potrà essere valutata esclusivamente a seguito dell‟applicazione degli articoli 6 e 7 della Direttiva in materia di pratiche commerciali sleali.
Riassumendo quanto sopra argomentato, per maggior chiarezza ed in conclusione, si riportano per intero le modifiche introdotte dalla Direttiva 2005/29/CE:
“Articolo 1
La presente Xxxxxxxxx ha lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa.";
2) all'articolo 2,
- il punto 3) è sostituito dal seguente:
"3) "professionista": qualsiasi persona fisica o giuridica che agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale; e chiunque agisca in nome o per conto di un professionista;";
- è aggiunto il punto seguente:
"4) "responsabile del codice": qualsiasi soggetto, compresi un professionista o un gruppo di professionisti, responsabile della formulazione e della revisione di un codice di condotta e/o del controllo del rispetto del codice da parte di coloro che si sono impegnati a rispettarlo.";
3) l'articolo 3 bis è sostituito dal seguente:
"Articolo 3 bis
1. Per quanto riguarda il confronto, la pubblicità comparativa è ritenuta lecita qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: che essa a) non sia ingannevole ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 2, e degli articoli 3 e 7, paragrafo 1 della presente Direttiva o degli articoli 6 e 7 della Direttiva 2005/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno;
b) confronti beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;
c) confronti obiettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali beni e servizi;
d) non causi discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente;
e) per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisca in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione;
f) non tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o ad altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;
g) non rappresenti un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati;
h) non ingeneri confusione tra i professionisti, tra l'operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell'operatore pubblicitario e quelli di un concorrente.
4) l'articolo 4, paragrafo 1, è sostituito dal seguente:
"1. Gli Stati membri assicurano che esistano mezzi adeguati ed efficaci per combattere la pubblicità ingannevole e garantire l'osservanza delle disposizioni in materia di pubblicità comparativa nell'interesse sia dei professionisti sia dei concorrenti. Tali mezzi includono disposizioni giuridiche ai sensi delle quali persone od organizzazioni che secondo la legislazione nazionale hanno un legittimo interesse a contrastare la pubblicità ingannevole o la regolamentazione della pubblicità comparativa possano:
a) promuovere un'azione giudiziaria contro tale pubblicità o b) sottoporre tale pubblicità al giudizio di un'autorità amministrativa competente a giudicare in merito ai ricorsi oppure a promuovere un'adeguata azione giudiziaria.
Spetta a ciascuno Stato membro decidere a quali di questi mezzi si debba ricorrere e se sia opportuno che l'organo giurisdizionale o amministrativo sia autorizzato ad esigere che si ricorra in via preliminare ad altri mezzi previsti per risolvere le controversie, compresi quelli di cui all'articolo 5.
Spetta a ciascuno Stato membro decidere:
a) se le azioni giudiziarie possano essere promosse singolarmente o congiuntamente contro più professionisti dello stesso settore economico e b) se possano essere promosse nei confronti del responsabile del codice allorché il codice in questione incoraggia a non rispettare i requisiti di legge."
5) l'articolo 7, paragrafo 1, è sostituito dal seguente:
"1. La presente Xxxxxxxxx non si oppone al mantenimento o all'adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo di garantire una più ampia tutela, in materia di pubblicità ingannevole, dei professionisti e dei concorrenti".
1.5.2. Modifiche apportate ad altri atti normativi comunitari
La Direttiva 2005/29/CE è intervenuta a modificare altri atti normativi comunitari, seppur in misura minore e, come si avrà modo di argomentare, non chiara.
In particolare, l‟articolo 15 ha riformulato l‟articolo 9 della Direttiva 97/7/CE e dell‟articolo 9 della Direttiva 2002/65/CE, dettate per disciplinare, rispettivamente, la regolamentazione della fornitura di beni mobili o servizi (diversi dai servizi finanziari) non richiesti e della prestazione di servizi finanziari non richiesti.
Nel nuovo testo di entrambe le direttive, si legge che “considerato il divieto delle pratiche di fornitura non richiesta stabilito dalla Direttiva 2005/29/CE […]”. Tuttavia, in quest‟ultima Direttiva non vi è traccia di alcuna disposizione che preveda un divieto di effettuare forniture non richieste, quanto meno paragonabile a quello in precedenza contenuto negli articoli 9 delle Direttive 97/7/CE e 2002/65/CE: pertanto, la questione che
adesso si pone è se il suddetto divieto sia tuttora esistente in quanto implicitamente presupposto del generale divieto di pratiche commerciali sleali o se, piuttosto, la fornitura non richiesta sia adesso vietata non in quanto tale, ma se e nella misura in cui in concreto si presenti come “pratica sleale” ai sensi degli articoli 5 - 9 della Direttiva 2005/29/CE.
Tale ultima Xxxxxxxxx non ha però toccato la previsione, per gli stati, dell‟obbligo di adottare delle misure necessarie per esonerare il consumatore da qualsiasi “prestazione corrispettiva” o da “qualsiasi obbligo” di fronte e forniture non richiesta, fermo restando che “l‟assenza di risposta non implica consenso”.
Infine, l‟articolo 16 integra gli allegati alla Direttiva 98/27/CE (con riferimento agli strumenti di inibitoria a tutela degli interessi collettivi dei consumatori16) e al Regolamento CE n. 2006/2004 (sulla “cooperazione per la tutela dei consumatori”17) al fine di aggiornare i contenuti dell‟intervenuta novità normativa.
Per quanto riguarda l‟allegato alla Direttiva 98/27/CE - che contiene l‟elenco di quelle direttive la cui violazione può giustificare l‟esperimento di un‟azione inibitoria collettiva nei confronti del professionista responsabile, qualora ne sia derivato un pregiudizio agli interessi collettivi dei consumatori - la Direttiva 2005/29/CE è stata inserita, sostituendo quella 84/450/Cee (come modificata dalla Direttiva 97/55/CE) in materia di pubblicità ingannevole e comparativa (supra analizzata).
Pertanto, i provvedimenti inibitori previsti dalla Direttiva 98/27/CE potranno essere chiesti e irrogati nei confronti di quei professionisti che pongano in essere pratiche commerciali sleali (ai sensi degli articoli 2-13 della Direttiva 2005/29/CE) lesive degli interessi collettivi dei consumatori, non invece nei confronti dei professionisti che facciano uso di messaggi pubblicitari ingannevoli, così come definiti negli articoli 2 e 3 della Direttiva 84/450/Cee ovvero di pubblicità comparativa illecita, in quanto contrastante con le condizioni previste dall‟articolo 3-bis di quest‟ultima Direttiva.
Al contrario, l‟inserimento nell‟allegato del Regolamento “sulla cooperazione per la tutela dei consumatori” da parte della Direttiva 2005/29/CE non è stato seguito dall‟eliminazione del richiamo, quali “norme sulla protezione degli interessi dei consumatori”, della Direttiva 84/450/Cee e della Direttiva 97/55/CE.
16 Direttiva 98/27/CE del 19 maggio 1998 relativa ai provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori, in G.U.C.E. n. 166 del 11 giugno 1998, pagg. 51 e ss.
17 Regolamento CE n. 2006/2004 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 ottobre 2004, sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell‟esecuzione della normativa che tutela i consumatori (“Regolamento sulla cooperazione per la tutela dei consumatori”), in G.U.U.E n. 364 del 9 dicembre 2004, pag. 1.
1.6. DEFINIZIONE DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI
La Direttiva, per chiarire i concetti giuridici di maggiore importanza, procede ad elencare la definizione dei termini utilizzati, tra i quali troviamo quelli di consumatore, di professionista, di prodotto, di codice di condotta e, soprattutto, di pratiche commerciali tra imprese e consumatori.
Quanto a quest‟ultimo profilo, senza dubbio di portata centrale, la Direttiva definisce le “pratiche commerciali sleali” utilizzando una disciplina, per così dire, a piramide: infatti, da subito, dà una definizione di carattere generale, che troviamo nei considerando e, soprattutto, nell‟articolo 2 (“pratiche che limitano considerevolmente la libertà di scelta del consumatore [..], pratiche che comportano il ricorso a molestie, coercizione, compreso l‟uso di forza fisica e indebito condizionamento”). Successivamente, procede ad un‟analisi maggiormente dettagliata, attraverso le due norme generali di divieto (articoli 6 e 8) ed, infine, a chiusura, troviamo una cd. “lista nera” di pratiche che sono da considerare in ogni caso vietate, perché ingannevoli o aggressive (si veda l‟elenco non tassativo contenuto nell‟allegato I della Direttiva, di cui si avrà modo di meglio argomentare infra).
Ne emerge da subito una definizione ad ampio respiro, comprendente qualsiasi azione od omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale posta in essere da un professionista e diretta ai consumatori. Quali siano le caratteristiche della condotta tenuta dal professionista è irrilevante18. Infatti, si può trattare di dichiarazioni (con o senza natura negoziale), atti materiali o addirittura mere omissioni; può anche trattarsi di condotte tenute nei confronti di una cerchia indeterminata di destinatari ovvero nei confronti di singoli consumatori. Ciò che conta è la condotta del professionista, ossia che questa sia direttamente connessa alla promozione di un bene o di un servizio offerto da un professionista ad un consumatore.
Sul punto, si precisa che restano escluse le pratiche commerciali sleali che interessano unicamente le imprese, ovvero sono senz‟altro esclusi i comportamenti rilevanti sotto il profilo dell‟antitrust, fra i quali gli accordi tra imprese contrari alla concorrenza, l‟abuso di posizione dominante, le fusioni, ecc19.
La Direttiva, agli articoli 6, 7, 8 e 9, chiarisce i criteri definitori e gli elementi caratterizzanti una pratica commerciale come sleale, sia negli aspetti attivi sia in quelli omissivi. In particolare, una pratica può essere o ingannevole (azioni od omissioni) o aggressiva.
18 Si veda “La difficile attuazione della Direttiva 2005/29/CE concernente le pratiche commerciali sleali nei rapporti fra imprese e consumatori: proposte e prospettive” in Contratto e Impresa/Europa 2007, pagg.8 e ss.
19 Parimenti sono esclusi sia il boicottaggio sia il diniego di fornitura, in quanto rappresentano pratiche commerciali sleali che riguardano esclusivamente i rapporti di concorrenza tra imprese. In tali ultimi casi, troverà invece applicazione la disciplina generale di cui all‟articolo 2598 c.c. (Atti di concorrenza sleale).
Ma procediamo con ordine.
L‟articolo 6 definisce come ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false o, in qualsiasi modo ed anche nella presentazione complessiva, l‟informazione non risulti corretta, inducendo il consumatore, destinatario dell‟informazione, in errore su uno degli elementi ivi elencati.
Il successivo articolo 7 prende in considerazione le omissioni ingannevoli, mettendo evidentemente sullo stesso piano le comunicazioni mendaci o false e le “informazioni reticenti”, qualora queste ultime siano rilevanti per il consumatore che voglia prendere una decisione consapevole in merito alla conclusione o meno di un contratto commerciale con il professionista. In particolare, sono da considerare senz‟altro ingannevoli le comunicazioni quando non sia indicato l‟intento commerciale o comunque siano presentate dal professionista in modo oscuro le informazioni maggiormente rilevanti, elencate al paragrafo 1 del precedente articolo 620.
Di tutta evidenza l‟attenzione del legislatore per la comunicazione nei confronti del consumatore: si potrebbe, addirittura, affermare che il principio di trasparenza ispiri anche la presente Direttiva.
Preme sottolineare, come tale principio non sia estraneo al nostro legislatore, il quale ha già provveduto a farlo proprio e a recepirlo nel nostro ordinamento con riferimento ai contratti conclusi a distanza. In particolare, in virtù di tale normativa, prima della conclusione del contratto, l‟imprenditore ha l‟obbligo di fornire informazioni utili, in modo chiaro e comprensibile, con ogni mezzo adeguato, nel rispetto dei principi di lealtà in materia di transazioni commerciali e secondo buona fede; è richiesto altresì – come del resto anche secondo la Direttiva in esame – che lo scopo commerciale sia inequivocabile21.
Inoltre, la trasparenza contrattuale è stata definita come “l‟esatta determinazione e l‟effettiva comprensibilità delle clausole contrattuali da un punto di vista giuridico ed economico, senza che si rendano necessarie competenze tecniche o uno studio attento, che per la sua situazione peculiare (conclusione rapida) e per la normale complessità e articolazione dei regolamenti predisposti, all‟aderente è precluso”22. Pertanto, secondo il principio di
20 L‟articolo 6 elenca le informazioni che devono senz‟altro essere contenute ed espresse in modo chiaro dal professionista: “a) l‟esistenza o la natura del prodotto, b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l‟esecuzione, la composizione, gli accessori, l‟assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l‟idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, ecc.”.,
21 Si veda, ex multis, P.M. Putti L‟invalidità nei contratti del consumatore, in Trattato di diritto privato europeo, Vol. III, L‟attività e il contratto a cura di X. Xxxxxx, CEDAM, 2003, pagg. 527 e ss.
22 A. Xxxxxxxx, I contratti per adesione e le clausole vessatorie, in Trattato di diritto privato europeo, Vol. III,
L‟attività e il contratto a cura di X. Xxxxxx, CEDAM, 2003, pagg. 344 e ss.
trasparenza, l‟imprenditore/professionista ha l‟obbligo di rendere edotta la controparte (nel caso di contratti per adesione o, comunque, in genere nei contratti conclusi dal consumatore), della portata, diretta ed indiretta, dei diritti e degli obblighi assunti, sia dal punto di vista giuridico sia da quello economico.
Per quanto attiene alle pratiche commerciali aggressive, il legislatore comunitario ne dà una definizione generale all‟articolo 8 e una più specifica e dettagliata al successivo articolo 9.
Secondo l‟articolo 8, è considerata aggressiva una pratica commerciale che, naturalmente sempre secondo una valutazione del caso concreto, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, limiti o sia idonea a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto, inducendolo così a prendere una decisione di natura commerciale che, in condizioni diverse, non avrebbe preso.
Il successivo articolo 9, a completamento e specificazione dell‟articolo 8, considera come rilevanti, ai fini della determinazione di una pratica sleale aggressiva, che faccia ricorso a molestie, coercizione o indebito condizionamento, rispettivamente:
a) tempi, il luogo, la natura o la persistenza;
b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale;
c) lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza comunque talmente grave da condizionare la capacità di valutazione del consumatore;
d) qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso e sproporzionato, imposto dal professionista in capo al consumatore, qualora quest‟ultimo voglia esercitare i propri diritti contrattuali;
e) qualsiasi minaccia di promuovere un‟azione legale ove tale azione non sia giuridicamente ammessa.
Ebbene, da una lettura delle norme sopra riportate, emerge chiaramente – come già ampiamente sottolineato – il tentativo di proteggere la libertà contrattuale del consumatore, libertà condizionata sia dalla trasparenza delle informazioni sia dalla mancanza di qualsivoglia elemento coercitivo comunque in grado di limitarla od escluderla.
1.7. DEFINIZIONE DI CONSUMATORE MEDIO
Altro aspetto, che pare di dover analizzare al fine di meglio comprendere il significato ed il valore innovativo o meno della Direttiva (e conseguentemente del successivo Decreto Legislativo di recepimento, di cui si tratterà ampiamente nel secondo capitolo), è senz‟altro
quello connesso alla definizione di “consumatore medio” ovvero del soggetto cui è prevalentemente dedicata la tutela contro le pratiche commerciali sleali23.
Sul punto occorre premettere che il concetto di “consumatore medio” è stato mutuato dalla letteratura in materia di marketing24, che ormai da tempo non fa più uso di tale terminologia.
Infatti, dopo il boom della concorrenza degli anni „60 ed il suo incremento che ha minacciato gli equilibri di efficienza fondati sulla massa, pian piano l‟attenzione delle imprese si è spostata dalla massa ai cd. “segmenti di massa” ovvero alle caratteristiche individuali dei singoli consumatori o categorie di consumatori, esaminandone, pertanto, le differenze e le caratteristiche peculiari. Senza con questo voler intraprendere un cammino non di nostra competenza circa le regole seguite dagli esperti di marketing e lo sviluppo di tale materia, pare opportuno, ai fini di una migliore comprensione, sottolineare come ormai si sia arrivati alla cd. “mass customization”, ovvero alla logica della personalizzazione anche con riferimento a fenomeni di massa.
In tale ambito, non può che emergere il passo indietro operato dal legislatore comunitario, il quale continua a fare riferimento ad un concetto ormai superato, quale quello di consumatore medio, soprattutto ove si tenga conto della tendenza delle imprese a dirigere la propria attenzione e i propri sforzi di comunicazione e di marketing nei confronti degli individui, più che della massa.
23 Definizione decisamente più specifica di quella di “consumatore” di cui al Codice del Consumo. Su tale ultimo punto, si richiama l‟ampia letteratura tra la quale E. Xxxxxxxxx, Xxxxx nozione di consumatore, in Riv. trim. dir. proc. civ. 2003, 4, 1149. Qui l‟autore analizza la definizione di consumatore alla luce dell‟applicazione delle norme in materia di clausole vessatorie ai sensi degli articoli 1469 bis e ss. In particolare, si concentra sullo scopo che muove il consumatore a contrarre ovvero allo scopo estraneo all‟esercizio della professione (ne consegue, che se l‟atto soddisfa interessi professionali, chi lo ha realizzato non potrà essere considerato consumatore). Poi l‟Autore si sofferma sul cd. “uso promiscuo” del bene o servizio oggetto del contratto, sottolineandone le problematiche connesse, e prosegue analizzando le differenze tra atti della professione e atti relativi alla professione.
Trib. Roma, 20 ottobre 1999 in Contratti, 2000, pagg. 442 e ss. con nota di Xxxxxxx, Ambito soggettivo di applicazione degli articoli 1469 bis e ss. c.c., in tema di nozione di “consumatore” e contratti a scopi professionali; qui il giudice di merito rileva come la nozione di consumatore non dipenda né da condizioni personali di svantaggio sotto il profilo socio-economico né dal tipo di attività svolta dal soggetto, ben potendo trattarsi (l‟avverbio “eventualmente” chiarisce l‟irrilevanza della circostanza in sé considerata) di un imprenditore o di un professionista; diversamente, deve considerarsi determinante il fatto che egli “agisca per scopi estranei”, da leggersi come “al di fuori dell‟esercizio di attività imprenditoriali o professionali”, come d‟altronde si ricava dalla definizione di professionista (figura senza‟altro speculare a quella di consumatore) ovvero di colui che “agisce nel quadro”.
Si vedano, per completezza, anche Alpa-Chiné, Consumatore (protezione del) nel diritto civile, in Enc. Dir. XV, pag. 540 e ss.; X. Xxxxxxxxx, Xxxxxxxxxxx ed imprenditore (..futuro) nel diritto comunitario: luci ed ombre di due nozioni dai confini incerti in Resp. civ. e prev. 1998, 1, 62.
24 Sul punto, si veda M. Addis “Le pratiche commerciali sleali” in Le pratiche commerciali sleali, cit., pagg. 72 e ss.
Tornando alla Direttiva, questa, al Considerando n. 18, precisa che il consumatore medio, secondo la valutazione effettuata dalla Corte di Giustizia, è quello “normalmente informato e ragionevolmente25 attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici”.
Quest‟ultima definizione, derivante dalla giurisprudenza comunitaria26 rappresenta una vera e propria novità, quanto meno all‟interno di un provvedimento comunitario.
Sul punto, la Commissione, nella relazione illustrativa della proposta di Xxxxxxxxx, ha precisato che “questo criterio, che è un‟espressione del principio di proporzionalità, si applica, quando una pratica commerciale si rivolge a o raggiunge la maggior parte dei consumatori”27.
Tuttavia, la Direttiva non si ferma alla tutela del consumatore medio, ma estende la propria portata anche a consumatori che, per le loro caratteristiche, risultino particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali, pertanto, ove una pratica commerciale sia specificamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, ogni valutazione circa la slealtà o meno di una pratica sarà effettuata tenendo conto del membro medio di tale
25 E‟ stato puntualmente osservato da X. Xxxxxx, in Il consumatore ragionevole e pratiche commerciali sleali, in Contratto e Impresa, n. 3/2008, CEDAM, che “l‟aspettativa ragionevole presuppone un soggetto ragionevole” e che, al fine di definire quando la suddetta aspettativa sia ragionevole, si deve capire se il legislatore comunitario abbia inteso tale aspettativa come un‟aspettativa normale, legata ad un uomo normale, perciò astratto, oppure un‟aspettativa ragionevole se adeguata a circostanze esterne e alla capacità critica dell‟uomo medio. Su tale distinzione, di non poco momento, l‟autrice ha rilevato che “se l‟aspettativa fosse l‟aspettativa normale, il consumatore ragionevole sarebbe un uomo normale, perciò astratto, senza qualità e difetti particolari: la ragionevolezza sarebbe un criterio in misura fisso, ripetitivo, statistico. Ragionevole significherebbe conforme al mercato Rileverebbero solo le aspettative misurabili in termini statistici […] il rinvio alla ragionevolezza servirebbe a ridurre il livello di diligenza richiesto in concreto al professionista per la salvaguardia dell‟interesse del consumatore, cioè della sua libertà di decisione. Se invece il consumatore è l‟uomo reale, la sua aspettativa è ragionevole se è adeguata alle circostanze esterne e alla sua concreta capacità critica. […]La ragionevolezza sarebbe allora un criterio cognitivo del reale: una misura che si adegua alle circostanze esterne secondo la capacità critica del soggetto raggiunto in concreto. La ragionevolezza come criterio cognitivo del reale è una misura idonea a recepire anche la novità, la marginalità o l‟emergenza. […] Il professionista dovrebbe allora tenere conto non solo della prassi del mercato, ma anche delle persone con cui entra in contatto sul mercato, vale a dire della capacità di percezione dell‟uomo e della donna, del bambino e dell‟anziano, della persona sana e della persona malata, della persona esperta e di quella inesperta. […]Il legislatore comunitario adotta, quindi, una definizione mista, in parte realistica e in parte statistica … si assume che il professionista sia autorizzato a supporre nel consumatore che raggiunge sul mercato un livello normale di informazione. Non sarà, dunque, tutelato il consumatore disadattato, che resta vittima di un errore evitabile sulla base di un livello normale di informazione. Tuttavia, poiché informazione non significa né conoscenza né capacità di comprensione, il legislatore precisa che per valutare l‟ingannevolezza di una pratica commerciale o la sua aggressività occorre far riferimento alla “ragionevole attenzione ed avvedutezza” del consumatore raggiunto in concreto, “tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso”.
Sul punto l‟Autorità Garante Italiana è intervenuta con diverse pronunce, delle quali parleremo infra.
26Ex multis, Corte di Giustizia Europea, sentenza 13 dicembre 1990, C-238/89; CGE sentenza 2 febbraio 1994, C-315/92; CGE sentenza 16 luglio 1998, C-210/96; CGE sentenza 13 gennaio 2000, C-220/98.
27 Cfr. Commissione delle Comunità Europee, Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio Relativa alle Pratiche Commerciali Sleali tra Imprese e Consumatori nel Mercato Interno, COM (2003) 356 def.
gruppo. Nel successivo considerando 19 aggiunge che “qualora talune caratteristiche, quali l‟età, infermità fisica o mentale o ingenuità, rendano un gruppo di consumatori particolarmente vulnerabile ad una pratica commerciale o al prodotto a cui essa si riferisce, e il comportamento soltanto di siffatti consumatori sia suscettibile di essere distorto da tale pratica”, la tutela dovrà investire senz‟altro il membro medio di tale gruppo.
Sul punto, troviamo anche una Sentenza delle Corte di Giustizia del 16 luglio 1998 che ha affermato che “per stabilire se una dicitura destinata a promuovere le vendite sia idonea a indurre in errore l‟acquirente, il giudice nazionale deve riferirsi all‟aspettativa presunta connessa a tale dicitura di un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto” (CGE, sentenza 16 luglio 1998, C-210/96).
Si noti bene, però, che l‟attenzione del consumatore può variare in funzione ed in virtù della categoria dei prodotti o dei servizi offerti dal professionista28.
In pratica, il grado di percezione da parte del consumatore medio, da un punto di vista commerciale, della comunicazione operata dal professionista dipende ed è influenzato dalla presentazione, dalla natura, dalla disponibilità, dalla diffusione e dal target del prodotto, soprattutto in considerazione del marketing e del luogo di vendita e/o fornitura.
Pertanto, come in effetti anche riconosciuto dallo stesso legislatore comunitario nel Considerando n. 7, in sede di applicazione della Direttiva, in particolare delle clausole generali, occorre tenere conto delle circostanze di ogni singolo caso, in altre parole in concreto.
In conclusione, nel valutare la lealtà o meno di una pratica, si dovrà tener presente l‟influenza sul consumatore medio comune o sul consumatore medio del gruppo nella particolare situazione concreta. Ne consegue che se in una circostanza concreta il consumatore reale agisse in maniera difforme da come avrebbe fatto il consumatore medio, non troverebbe applicazione la Direttiva (rectius, il D.Lgs n. 146/2007), non potendosi ravvisare una pratica commerciale sleale. Resta inteso, comunque, che il consumatore, qualora ne ricorressero i presupposti, potrebbe tutelare i propri interessi e/o diritti secondo le altre tutele a lui garantite.
1.8. DEFINIZIONE DI COMUNICAZIONI COMMERCIALI
A questo punto si rileva come la Direttiva 2005/29/CE dia particolare rilievo alla cd. “comunicazione commerciale”, uno di pilastri sui quali l‟Unione Europea sta cercando di
28 Cfr. Tribunale di Primo Grado delle Comunità Europee, sentenza 6 ottobre 2004, T-117/03, T-118/03, T- 119/03 e T-171/03. Sul punto, per una trattazione più approfondita, si veda A. Xxxxxxxxx, Le nozioni di consumatore e di consumatore medio nella Direttiva 2005/29/CE, in Le pratiche commerciali sleali, cit. pagg. 142 e ss.
fondare il mercato unico, in quanto “potente fattore di integrazione dei mercati nazionali”, promovendo l‟identità di un marchio, informando potenziali clienti sul prodotto o servizio offerto29.
Tenendo ben presente che la locuzione “comunicazione commerciale” è stata mutuata dal linguaggio aziendale e che, inizialmente, si riferiva solo al marketing ed alle vendite, si può a buon diritto affermare che la Commissione ne ha ampliato il significato, facendovi rientrare “tutte le forme di comunicazione volte a promuovere i prodotti, i servizi, o l‟immagine di un‟impresa o di un‟organizzazione presso i consumatori finali o i distributori”30. Non sfuggirà la poliedricità di tale definizione, non riconducibile a fattispecie univoche e catalogabili: tuttavia, si dovrebbero tenere ben presenti gli obiettivi ed i destinatari, essendo tali comunicazioni intese per promuovere la circolazione dei beni e dei servizi, in modo tale da incidere sul “comportamento di consumo”, ossia sul cd. “mercato finale”.
Di tutta evidenza, comunque, come tra tutte queste attività maggior rilievo debba essere accordato alla pubblicità31, indubbio mezzo per raggiungere i consumatori. Il Libro Verde, proprio nell‟ottica di definire il ruolo della comunicazione commerciale, si sofferma, principalmente, sulla pubblicità.
In particolare, il Libro Verde si pone, almeno all‟interno della comunicazione commerciale, come punto di partenza per l‟eliminazione delle diversità tra le legislazioni dei diversi paesi europei, pur non cercando di costruire un diritto privato europeo unico, un sistema efficiente ed in grado esso stesso di superare le diversità ed incongruenze.
La libera circolazione della comunicazione commerciale transfrontaliera viene considerata essenziale e funzionale al raggiungimento di altri obiettivi, tra i quali, come noto, la politica di protezione dei consumatori, la politica industriale, la politica della concorrenza, la politica in materia di audiovisivi e la politica culturale.
29 COM (96) 192 def. Come ripreso da X. Xxxxx Xxxxxx, in “Dalla comunicazione commerciale alle pratiche commerciali sleali”, in “Le pratiche commerciali sleali”, cit., pagg. 1 e ss. L‟autrice, dopo aver ripercorso l‟iter seguito dal legislatore comunitario dal Libro Verde alla Direttiva 2005/29/CE, nonché le politiche ispiratrici, procede ad un‟analisi della Direttiva stessa, soffermando l‟attenzione sull‟ambito di applicazione.
30 Secondo il Libro Verde sulla comunicazione commerciale, “il termine comunicazione commerciale si riferisce a tutte le forme di pubblicità, marketing diretto, sponsorizzazione, promozione delle vendite e relazioni pubbliche. Riguarda inoltre l‟uso di tali servizi di comunicazione commerciale da parte di tutte le imprese parastatali, degli istituti di beneficenza e delle organizzazioni politiche”.
31 Corasaniti in La regolamentazione della pubblicità, in Diritto della comunicazione pubblicitaria a cura di Xxxxxxxxxx e Vasselli, Torino, 1999, 6, chiarisce che “il messaggio pubblicitario [..] è il modo, sempre più costante e ormai accettato universalmente, in cui il soggetto che la esercita comunica e quindi si esprime, presentando collettivamente un prodotto o una linea produttiva o semplicemente affermando socialmente il proprio marchio [..]”.
In particolare, come si può leggere nel Considerando n. 5 della Direttiva in esame, “in assenza di norme uniformi a livello comunitario, gli ostacoli alla libera circolazione di servizi e di merci transfrontaliera o alla libertà di stabilimento potrebbero essere giustificati, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, purché volti a tutelare obiettivi riconosciuti di interesse pubblico e purché proporzionati a tali obiettivi”. Per superare i suddetti ostacoli, il legislatore comunitario propone di introdurre a livello comunitario “norme uniformi che prevedono un elevato livello di protezione dei consumatori e chiarendo alcuni concetti giuridici, nella misura necessaria per il corretto funzionamento del mercato interno e per soddisfare il requisito della certezza del diritto”. Un difficile cammino per raggiungere quell‟equilibrio tanto aspirato tra concorrenza e protezione dei consumatori, cammino che coinvolge anche le comunicazioni tra professionisti e consumatori, attraverso la tutela diretta di ciascuna politica, caratterizzante la strutturazione del mercato integrato comunitario.
A questo punto, si rende necessario procedere ad una precisazione in merito all‟ambito di applicazione della presente Direttiva e della sua eventuale integrazione o completa sostituzione della disciplina previgente. Ebbene, tenendo ben presente che la Direttiva 2005/29/CE si applica nei rapporti tra professionisti (imprese) e consumatori32, di tutta evidenza come la disciplina previgente in tema di pubblicità, comunque modificata, non viene sostituita. Per di più, la stessa Direttiva all‟articolo n. 3, punto 2, chiarisce – come sopra accennato - che non verrà pregiudicata l‟applicazione del diritto contrattuale, con particolare riguardo delle norme sulla formazione, validità o efficacia di un contratto, ovvero alla normativa di cui al Codice del Consumo (D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206), che armonizza e riordina le normative in materia di acquisto e consumo.
Non sfuggirà di certo lo sviluppo che hanno subito e stanno subendo le contrattazioni e le comunicazioni prodromiche alla conclusione di contratti tra i consumatori e i professionisti, non più caratterizzate da immediatezza del rapporto interpersonale: ormai, ruolo fondamentale per le suddette comunicazioni risulta affidato all‟intera operazione commerciale33. Così come è cambiato lo scenario dei mezzi di comunicazione utilizzati: l‟uso di internet, che rende più veloci e diffuse le comunicazioni commerciali, di fatto indebolendo le difese e la percezione delle reali intenzioni degli offerenti nei consumatori. Di conseguenza, con il mutare dei rapporti tra produttori/imprese/professionisti e consumatori, muta anche la posizione dei consumatori, ora sempre più parti attive nel mercato anche se, non per forza, soggetti più consapevoli ed informati.
32 Cfr. Considerando n. 8 che precisa “la presente Direttiva tutela direttamente gli interessi economici dei consumatori delle pratiche sleali tra imprese e consumatori. Essa, quindi, tutela indirettamente le attività legittime da quelle dei rispettivi concorrenti che non rispettano le regole previste dalla presente Direttiva e, pertanto, garantisce nel settore da esso coordinato una concorrenza leale”.
33 Come rilevato da X. Xxxxx Xxxxxx, cit., pag. 12.
In questo contesto è stata pensata la Direttiva ed in questo contesto si dovrebbe cercare di valutare la portata innovativa e utile di questa stessa Direttiva, cercando di superare gli inevitabili limiti che pone a carico degli Stati membri.
1.9. DEFINIZIONE DI PROFESSIONISTA
La Direttiva, sempre al fine di raggiungere quell‟armonizzazione completa nel campo delle pratiche commerciali sleali, dà una definizione che vorrebbe essere univoca, alla quale per altro possiamo dire di essere già abituati, di “professionista”. In particolare, l‟articolo 2, lett.
b) identifica il professionista come “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto della presente Direttiva, agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisca in nome o per conto di un professionista”.
Di tutta evidenza la netta contrapposizione tra la figura del professionista e quella di consumatore, contrapposizione resa particolarmente manifesta a seguito di una lettura sistematica del Codice del Consumo, nonché, a fini di rigore scientifico, della normativa precedente in materia (ora ricompresa nel Codice del Consumo stesso).
L‟ormai abrogato articolo 1469 bis c.c. definiva il professionista come “la persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che utilizza il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale”.
Ebbene, come noto e rilevato da molti, la sopraccitata nozione faceva sorgere da subito una questione in merito alle soggettività non personificate. In particolare, l'interrogativo si poneva, essenzialmente, per le associazioni non riconosciute che esercitano attività d'impresa34. Sul punto è stato rilevato che “premesso che la soluzione negativa, privilegiando un'interpretazione formalistica del dato normativo, sottrarrebbe un gran numero di contratti alla tutela del consumatore, si può ritenere che anche tali organizzazioni siano ricomprese nella nozione di professionista. Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata, gli enti non personificati possono svolgere attività d'impresa; e se la esercitano in via principale o esclusiva, si applica loro lo statuto dell'imprenditore commerciale, comprensivo della disciplina fallimentare35. Se invece la conducono in via accessoria, si applica loro lo statuto dell'imprenditore in generale, ossia la normativa dei contratti formulata in riferimento a questa figura, come, ad esempio, gli articoli 1330; 1341
34 F. Xx Xxxxxx, Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore: Prime riflessioni sulla previsione generale di vessatorietà, in Gius. Civ. 1996, 11, 513.
35 Si vedano Corte Cass. 18 settembre 1993, n. 9589, in Giust. Civ. 1994, I, 65, con nota di Lo Xxxxxx; Cass. 9 novembre 1979, n. 5770, in Dir. fall. 1980, II, 279, con nota di Farenga.
e 1342; 1368, comma 2; 1400; 1510, comma 1; 1824, comma 2, c.c.36. Gli articoli 1469-bis e ss. rientrano nella categoria dei contratti dell'imprenditore, quindi possono ritenersi applicabili agli enti, anche non personificati, che esercitano, anche solo in via accessoria, attività imprenditoriale. La stessa conclusione vale, a maggior ragione, per le altre imprese collettive non personificate: società di persone e consorzi con attività esterna”.
Per quanto attiene alla natura privatistica o pubblicistica del soggetto ritenuto professionista, il Tribunale di Palermo37 ha sottolineato la precisa scelta operata in tal senso dal legislatore comunitario ovvero di ricomprendere nella nozione di professionista tanto il soggetto privato quanto quello pubblico, richiedendo come requisito necessario e sufficiente lo svolgimento di una prestazione economica o intellettuale in forma stabile e durevole, in netta contrapposizione con il concetto di occasionalità ovvero escludendo espressamente quei soggetti che svolgono l‟attività di prestazione di servizi e cessione di beni senza un apparato organizzativo durevole.
La giurisprudenza38 ha inoltre affermato che “nella figura del professionista il legislatore ha quindi ricompreso espressamente sia colui che esercita un‟attività imprenditoriale, caratterizzata dal fine primario di produrre reddito, sia colui che svolge un‟attività professionale, cioè un‟attività di prestazione di servizi e cessione di beni non necessariamente finalizzata alla produzione di utili ma che in ogni caso si avvale di un‟organizzazione stabile e duratura”.
Altro aspetto centrale può essere raffigurato nell‟antitesi “esigenze di consumo privato” e “attività professionale” o comunque “uso per scopi professionali/non di consumo”: pertanto, di importanza fondamentale sarà definire – per quanto possibile – la natura degli scopi perseguiti dal contraente, alla luce di una propria eventuale attività professionale o imprenditoriale.
In tale quadro si pone, quindi, la questione (che ci limiteremo solamente ad accennare) attinente alla definizione dei cd. “atti a scopi professionali” (ovvero gli atti che il professionista utilizza nel quadro della propria attività professionale)39.Ebbene questi sono stati individuati esclusivamente negli atti della professione, cioè gli atti che rientrano nel genere di quelli compiuti dal soggetto nell'esercizio della professione che gli è propria.
36 In questo senso, Xxxxxxx, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma 1967, sub articoli 36-38, 100 ss. Altro orientamento dottrinale contesta la differenziazione prospettata sostenendo l'applicabilità in ogni caso dello statuto dell'imprenditore commerciale. Fra gli altri, Campobasso, Associazioni e attività di impresa, in Riv. dir. civ. 1994, II, 589 e ss.
37 Trib. Palermo, ord. 4 luglio 2000, in Danno e resp., 2000, 181.
38 Trib. Palermo 3 febbraio 1999, in Foro It. 1999, 2085.
39 Criteri di logica ermeneutica inducono a credere che l'espressione “atto a scopo non professionale” non possa che considerarsi equivalente a quella di atto utilizzato nel quadro della propria attività professionale e che, perciò entrambe le espressioni si riferiscano al professionista.
Infatti, non ogni atto compiuto dal soggetto è in grado di soddisfare scopi (in senso oggettivo) professionali, ma tecnicamente solo l'atto con cui il soggetto esplica la propria professione di qualunque genere essa sia, perché soltanto ponendo in essere tale atto il soggetto realizza i propri interessi professionali40.
Secondo la dottrina maggioritaria41, conforme anche alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, l‟indagine sulla natura degli scopi del contraente in relazione all‟attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta, deve essere eseguita alla luce di parametri oggettivi, non dell‟intenzione soggettiva (ovvero dei motivi) che lo ha indotto a contrarre.
Tuttavia, sorgono problematiche di non poco momento in merito alla applicabilità della tutela prevista per il consumatore nei casi di “uso promiscuo” (professionale e non) dei beni di consumo. Più specificamente, la questione di particolare interesse è se l‟acquisto di un
40 Si vedano L. Gatt in “L'ambito soggettivo di applicazione della normativa sulle clausole” vessatorie, in Giust. civ. 1998, 9, 2341, nota a Giudice di pace, 3 novembre 1997; “contrae come professionista l'imprenditore quando vende i prodotti della sua azienda; l'avvocato quando stipula il contratto d'opera intellettuale con il proprio cliente; l'artigiano quando vende l'opera da lui prodotta, ecc”. Parte della dottrina italiana che ha affrontato il problema dell'individuazione del soggetto consumatore in relazione ad altri provvedimenti normativi appare mossa dalla medesima concezione sostenuta nel testo. Cfr. Biscontini, sub. articolo 5, in Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Roma 19 giugno 1980), Commentario, a cura di X.X. Xxxxxx e Xxxxxxxx, in Le nuove leggi civile commentate 1995, 972: “se consumatore è chi acquista il prodotto finito, anche il produttore intermedio è "consumatore" allorché reperisce gli elementi da utilizzare nel proprio ciclo produttivo. Non esistono prodotti finiti per definizione in quanto essi possono essere finiti e allo stesso tempo beni strumentali per la produzione di un altro bene di differente natura. Si pensi ad un pneumatico che è certamente un prodotto finito per l'automobilista ma non lo è altrettanto per l'industria automobilistica”. Cfr. anche Xxxxxxxx, Trasparenza bancaria credito al consumo e tutela del contraente debole, in Foro it. 1992, II, c. 361; Xxxxx, Bürgschaft (e fideiussione) "a prima richiesta" tra diritto comune e disciplina delle condizioni generali di contratto, in Banca, borsa, 1993, 538: "allo scopo di escludere l'applicabilità della Direttiva occorre verificare se rientri nel quadro dell'attività professionale non l'utilizzazione del bene acquistato, se il contratto riguarda l'acquisto di beni, ovvero le ragioni dell'assunzione dell'obbligazione, quando dal contratto derivi un effetto, ma la stessa attività di stipula di contratti del genere di quelli in cui sia contenuta la clausola onerosa o abusiva. Del resto è evidente che il soggetto da tutelare debba essere considerato come contraente e non come utilizzatore di beni o servizi. Quindi, procedendo ad una esemplificazione, dovrà ritenersi rientrante nell'area di competenza della Direttiva l'acquisto di un'automobile da parte di un rappresentante di commercio anche se l'auto sarà utilizzata (almeno prevalentemente) per l'esercizio dell'attività professionale, senza che possano sorgere dubbi circa l'applicazione della Direttiva in considerazione di un eventuale uso promiscuo". Tra i commentatori delle nuove norme codicistiche sembrano andare verso la direzione indicata: Astone, sub. articolo1469- bis, comma 2°, in Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori, a cura di Xxxx e S. Xxxxx, cit, I, 106, 111, 116-121. Favorevole ad un ampliamento della sfera soggettiva di applicazione è anche Xxxxxxx, Le "clausole vessatorie", "abusive", "inique" e la ricodificazione negli articoli 1469-bis - 1469-sexies c.c., in Clausole "vessatorie" e "abusive", a cura di Xxxxxxx, cit. 27. V., “occorre accertare lo scopo per cui è stato concluso il contratto, onde valutarne il collegamento con l'attività professionale (..)".
41 Cian, Il nuovo capo XIV bis (Titolo II, Libro IV) del Codice Civile sulla disciplina dei contratti dei consumatori, in Studium iuris 1996, 414; Alpa e Chiné, Consumatore (protezione del) nel diritto civile, in Digesto disc. Priv. Xxx. Xxx., XX, Xxxxxxxxx, Xxxxxx 0000, 541. Per un‟analisi approfondita in merito ai contratti a scopi professionali, si veda Corea, Xxxxx nozione di “consumatore”: il problema dei contratti stipulati a scopi professionali, in Giust. Civ. 1999, 1, 13; dello stesso autore, Ancora in tema di nozione di “consumatore” e contratti a scopi professionali: un intervento chiarificatore, in Giust. Civ., 2000, 7-8, 2117;
bene o un servizio strumentale debba essere ricompreso tra gli atti rientranti nella propria attività professionale ovvero stipulati per scopi ad essa non estranei.
La questione è stata analizzata dalla dottrina maggioritaria e da parte della giurisprudenza, alla quale si xxxxxxx00.
Adesso, con il Codice del Consumo, all‟articolo 3 lett. c), per professionista43 intende “il soggetto che utilizza il contratto con il consumatore nel quadro della sua attività imprenditoriale44 o professionale45 ovvero un suo intermediario”.
Non sfuggirà che la definizione di professionista, oggi contenuta nel Codice del Consumo, non si discosta da quella prevista precedentemente nella normativa in materia di clausole vessatorie, ma ne rappresenta unicamente una modifica formale e non sostanziale: il professionista è e rimane la controparte del consumatore.
Unica novità pare essere il riferimento all‟intermediario, anche se già in precedenza la giurisprudenza aveva ritenuto che dovessero essere considerati professionisti quei soggetti che svolgano un‟attività economica o intellettuale in forma stabile e durevole (in netta contrapposizione con il concetto di “occasionalità46”) e che agiscano, piuttosto che direttamente, tramite loro intermediari.
1.10. DEFINIZIONE DI DILIGENZA PROFESSIONALE E COLPA
1.10.1. DILIGENZA PROFESSIONALE
Non sfuggirà il tentativo del legislatore comunitario di mantenere un ampio raggio di applicazione della norma in esame, facendo sovente ricorso a clausole generali, quali, appunto, il concetto di “buona fede”, “correttezza” e“diligenza professionale”.
42 Ex multis, si veda Xxxxxxxxx, Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato: i contraenti, in Giust. civ. 2005, 5, 183. L‟Autore sottolinea come, sul punto, l‟alternativa che si pone sia tra l‟adozione del criterio dell'uso prevalente e l‟esclusione in ogni caso della qualifica di professionista. Sul punto si vedano, tra gli altri, Astone, Le clausole vessatorie nei contratti con i consumatori a cura di Xxxx e Patti, I, Milano 1997, sub. articolo 1469-bis, comma 2, pag. 110, il quale conclude nel senso della natura professionale dell'acquirente; Xxxxxxxxx E., Tutela del consumatore e clausole vessatorie, Napoli 1999, 42, il quale, diversamente, accoglie il criterio della prevalenza.
43 Dal francese “professionel” per definire la controparte del consumatore.
44 Come già osservato supra, si deve far riferimento alla nozione civilistica di impresa che muove dall‟articolo 2082 c.c. precisando, tuttavia, che deve essere ricompreso sia il soggetto pubblico sia quello privato.
45 Tale termine è stato utilizzato in senso ampio, tanto da includere qualsiasi attività economica, ivi comprese le prestazioni intellettuali, d‟opera, di lavoro autonomo: si ricorda, infatti, come l‟ordinamento italiano tenga distinte (anche se in rapporto di species a genus) attività imprenditoriale ed attività economica.
00 Xxx. Xxxx. Xxxxxxx, xxx. 18 settembre 2000, in Danno e resp., 2001, 177.
Il legislatore comunitario, proprio nel tentativo di evitare che gli Stati membri si nascondessero dietro l‟interpretazione di tale clausola generale, ha cercato – almeno nei suoi intenti - di dare un‟interpretazione il più possibile uniforme di “diligenza professionale”. In particolare, l‟articolo 2, lett. h) definisce “diligenza professionale” come il “rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista, il normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori”47.
Tuttavia, non si possono che sollevare dubbi circa la rilevanza di una tale definizione, soprattutto tenendo come riferimento il concetto di “normalità”, un concetto senz‟altro “statico” come è stato definito da alcuni48. Infatti, il far riferimento alla normale diligenza, connaturata con elementi definiti nel tempo (passato), non pare possa educare i professionisti nella ricerca di standard di diligenza sempre più elevati, adottando atteggiamenti e comportamenti innovativi.
Ma non solo.
In passato si è dibattuto non poco in dottrina circa la corretta definizione e l‟ambito nel quale trovava riscontro la diligenza professionale e il concetto, naturalmente correlato di “colpa”, alla cui trattazione infra si rinvia.
Ebbene, il legislatore italiano, nell‟attuazione della Direttiva di cui in argomento, ha preferito procedere ad una propria definizione di diligenza professionale, indicandola nel “normale grado della specifica competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto a principi generali di correttezza e di buona fede nel settore dell‟attività del professionista”.
Ebbene, le regole di diligenza professionale null‟altro sono se non regole di condotta corrispondenti ad un particolare grado di conoscenze ed abilità specialistiche, di attenzione e di cura che ogni professionista ha l‟obbligo di osservare nel porre in essere pratiche commerciali indirizzate ai consumatori.
Senz‟altro non di facile applicazione ed identificazione tale diligenza, se non con riferimento al caso concreto ed, in particolare, della specifica attività esercitata dal professionista, proprio in virtù del richiamo operato dal legislatore al grado di cura e
47 La Commissione Europea (Direzione Generale Salute e Tutela dei Consumatori), in un opuscolo informativo, finalizzato a spiegare ai consumatori ed ai cittadini europei in genere la portata della Direttiva 29/2005/CE, ha definito la diligenza professionale come “la misura della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente ci si deve aspettare da parte di un professionista conformemente ai requisiti dell‟onesta pratica di mercato e/o del principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista”.
48 Cfr. M. Addis in Le pratiche commerciali sleali e le risorse di fiducia delle imprese: aspetti positivi e questioni irrisolte in Le pratiche commerciali sleali, Xxxxxxx, 2007, pagg. 71 e ss.
competenza che ci si può “ragionevolmente attendere”. Tali ultime aspettative sono state collegate da un lato alle “pratiche di mercato oneste” e dall‟altro al principio generale di buona fede.
Resta inteso che i suddetti parametri operano cumulativamente e non alternativamente. Pertanto, una pratica commerciale che rispetti i requisiti di cura e competenza richiesti dalle “pratiche di mercato oneste”, potrebbe invece non rispettare quelli richiesti dalla “diligenza professionale”, se il grado di competenza e cura non sia in linea al principio di buona fede (oggettiva). In altre parole, laddove la buona fede oggettiva imponga al professionista un livello di competenza e cura superiore a quello che potrebbe sembrare sufficiente ed adeguato secondo le pratiche di mercato oneste in uso presso il proprio settore di attività, il professionista agirà in maniera “leale” solo qualora si conformi al grado di cura e competenza dovuto in virtù del principio di buona fede.
Non sfuggirà, tuttavia, come il richiamo a questi principi generali comporti problemi di non poco momento qualora si cerchi una definizione univoca e chiarificatrice del concetto di “contrarietà alle norme di diligenza professionale”.
Per quanto attiene il principio generale di buona fede49 è indubbio che il legislatore intendesse riferirsi alla “buona fede oggettiva”, con conseguente richiamo degli articoli 1337, 1175 e 1375 c.c., dettati, rispettivamente, in tema di trattative precontrattuali e di esecuzione del contratto.
49 La “buona fede” è stata definita recentemente dalla Suprema Corte, la quale ha chiarito, anche se con riferimento all‟esecuzione del contratto che “la buona fede si atteggia come un impegno ed obbligo di solidarietà – imposto tra l‟altro dall‟articolo 2 della Costituzione – tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, ed a rescindere altresì dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei (senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico) a preservare gli interessi dell‟altra”, con la precisazione che si può parlare di violazione del principio di buona fede in sede di esecuzione del contratto “non solo nel caso in cui una parte abbia agito con il doloso proposito di recare pregiudizio all‟altra, ma anche qualora il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociali, che integrano, appunto, il contenuto della buona fede” (Cass. Civ. 16 ottobre 2002, n. 14726, in Danno e responsabilità, 2003, 16, con nota di X. Xxxxxxxxx, L‟integrazione del contratto come correttivo delle disfunzioni sinallagmatiche prodotte dall‟inosservanza della clausola di buona fede.
In dottrina, recentemente si veda X. Xxxxxxxxxxxx, il quale identifica la buona fede con la diligente correttezza ed al senso di solidarietà - Il nuovo diritto dei contratti: buona fede e recesso dal contratto, in Europa e diritto privato, Xxxxxxx, 2003, pagg. 798 e ss.
Con riferimento, invece, alla “diligenza professionale”, non si può che richiamare50 la “diligenza nell‟adempimento delle obbligazioni inerenti l‟esercizio dell‟attività professionale” prevista all‟articolo 1176, 2° comma, x.x. (xxxxxx xx “xxxxxxxxx xxx xxxx xxxxx xx xxxxxxxx”).
Tale ultima norma, tutt‟altro che lineare e semplice, nasconde una lunghissima elaborazione. Per diligenza del buon padre di famiglia s‟intende l‟impegno adeguato di energie e di mezzi utili al soddisfacimento dell‟interesse del creditore, tipico dell‟uomo medio. Tuttavia, l‟articolo 1176 c.c., che si presenta come il riferimento normativo del dovere di diligenza, persegue l‟ulteriore fine di indicare i criteri di valutazione della colpa51.
Il legislatore, nel tentativo di dare una definizione di colpa, si richiama a quella prevista dall‟articolo 43 c.p. qualificandola come “negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline”; ebbene, dal confronto delle due norme, ovvero tra l‟articolo 43 c.p. e l‟articolo 1176 c.c., emerge chiaramente il collegamento della seconda rispetto alla prima.
L‟articolo 1176 c.c. si pone in ulteriore relazione con l‟articolo 1218 c.c. che, in tema di inadempimento, prevede la responsabilità del debitore nel caso in cui l‟impossibilità sopravvenuta derivi da causa a lui imputabile.
Secondo parte della dottrina e della giurisprudenza il criterio dell‟imputabilità si identifica con quello della colpa52, benché l‟idea della colpa come fondamento della responsabilità per inadempimento sia stata oggetto, in dottrina, di accesi dibattiti.
Un‟ampia parte di studiosi ha, in passato, sostenuto la tesi cd. soggettiva, alla luce della quale l‟articolo 1176 c.c. avrebbe una portata sistematica in quanto indica la diligenza dovuta in caso di adempimento, ponendosi, anche se in maniera indiretta, quale fondamento della responsabilità per inadempimento sulla violazione di tale obbligo. Il codice, infatti,
50 Sul punto, si veda G. De Cristofaro, Il divieto di pratiche commerciali sleali. La nozione generale di pratica commerciale “sleale” e i parametri di valutazione della “slealtà” in “Le pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, Giappichelli, 2007, pagg. 119 e ss.
Le prime pronunce in materia di pratiche commerciali scorrette adottate dall‟Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato si sono soffermate sulla definizione dei limiti della “diligenza professionale” intesa alla luce dei principi stabiliti dalla Direttiva 2005/29/CE, articolo 2, lettera h. Si veda, in particolare, AGCM Provvedimento 13 novembre 2008, n. 19223.
51 Cfr. Xxxxxxx, Le obbligazioni in generale in Trattato di diritto privato diretto da X. Xxxxxxxx, 1999, op. cit.,
p. 57 nel quale si dà conto del passaggio logico giuridico che ha visto affermarsi la norma in esame come metro di valutazione della colpa.
52 Sul punto, si vedano, ex multis, Xxxxxxx, L‟impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955; Xxxxxx Xxxx‟inadempimento delle obbligazioni, in Comm. del cod. civ. a cura di Xxxxxxxx e Branca, articolo 1218 e 1229, Bologna Roma, 1979.
presenta una serie di norme che richiedono la diligenza definita dall‟articolo 1176 c.c. che, se violate, sono fonte della responsabilità.
A mero titolo esemplificativo si ricordano le norme relative al mandato, all‟esecutore testamentario, alla gestione di affari altrui, all‟amministrazione di società.
Di recente, la dottrina ha preferito abbracciare l‟interpretazione oggettiva degli articoli 1176 e 1218 c.c., considerando l‟inadempimento come un fatto oggettivo e, di conseguenza, attribuendo all‟articolo 1218 c.c. un ruolo prevalente rispetto a quella dell‟articolo 1176 c.c.53.
In conclusione, qualcuno ha sostenuto che, in sede di diritto applicato, la norma di cui all‟articolo 1176 c.c. sarebbe stata, di fatto, abrogata, trovando applicazione unicamente la norma di cui all‟articolo 1218 c.c., proprio in virtù del fondamento oggettivo riconosciuto alla responsabilità del debitore (come si avrà modo di meglio argomentare nel paragrafo successivo)54.
Infine, nel tentativo di analizzare sotto molteplici profili la norma in apparenza così lineare, ma nei fatti decisamente problematica, contenuta nell‟articolo 1176 c.c., pare opportuno spendere ancora poche parole in merito al possibile significato, contenuto nel secondo comma, della diligenza del cd. “buon professionista”, con riferimento all‟attività particolare prestata.
Qui si pongono numerosi problemi in merito al grado di colpa per la quale il professionista sia chiamato a rispondere.
Ebbene, in merito alle obbligazioni alle quali sia tenuto il professionista si suole distinguere tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato55: nel primo caso, al debitore viene
53 Cfr per la teoria soggettiva in base alla quale è necessario il requisito soggettivo, si vedano, tra gli altri, Giorgianni, Lezioni di diritto civile (a.a. 1955- 56), Bologna p. 163 e ss.; Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Xxxxxxx, II, p. 235; Xxxxxxx, Sistema istituzionale di diritto privato, II, Torino, 1951; Bianca, Dell‟inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Cod. Civ., a cura di Xxxxxxxx e Branca, Bologna Roma, 1979; Bianca, La colpa in Diritto civile – V La responsabilità, Xxxxxxx, 1994, pagg. 575 e ss.
Per la concezione oggettiva in base alla quale è ritenuto sufficiente il solo requisito oggettivo dell‟inadempimento ovvero “l‟obiettiva in attuazione o difettosa attuazione della prestazione contrattuale”, si vedano Gorla, Sulla cd. causalità giuridica: fatto dannoso e conseguenze, in Studi in onore di A. Xxxx, I, Xxxxxxx, 1951; Xxxxxxx, voce “Responsabilità contrattuale”, Enc. Dir., Milano, 1988, p. 1072 e ss.; Xxxxxxx, in Rivista di diritto commerciale, 1954, pagg. 185-209, pagg. 280-304 e pagg. 305-320; Xxxxxxx, La responsabilità contrattuale: i contrasti giurisprudenziali, in Contratto ed impresa, 1989, p. 32 e ss.
54 Xxxxxx, Dell‟inadempimento delle obbligazioni in Commentario del cod. civ. a cura di Scialoja - Branca, op. cit.; Xxxxxx, La colpa in Diritto civile – V La responsabilità, op. cit.; Xxxxxx, La responsabilità, pagg. 11 e ss.
55 Tra i massimi esponenti in merito alla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato troviamo Mengoni, in Rivista di diritto commerciale, 1954. L‟Autore, ripercorrendo la ricostruzione fatta dai più autorevoli giuristi in merito alla distinzione tra “obbligazioni di mezzo” ed “obbligazioni di risultato”, arriva a ridefinire le fattispecie, le differenze ed i limiti tra le due macro categorie nelle quali possono essere
richiesta soltanto l‟osservanza del comportamento pattuito, indipendentemente dal raggiungimento di determinati obiettivi (ovvero alla sua fruttuosità) rispetto allo scopo perseguito dal creditore, nell‟obbligazione di risultato, invece, nella quale il soddisfacimento effettivo dell‟interesse di una parte è assunto come contenuto essenziale della prestazione, l‟adempimento coincide con la piena realizzazione dello scopo perseguito dal creditore, indipendentemente dall‟attività e dalla diligenza spiegate dall‟altra parte per conseguirlo. Ne consegue che l‟obbligazione di risultato può considerarsi adempiuta solo quando si sia realizzato l‟evento previsto, in forza dell‟attività e dalla diligenza impiegate dal debitore; al contrario, non può ritenersi adempiuta dal debitore, anche se diligente, se la sua attività non sia valsa all‟ottenimento del risultato previsto.
Le obbligazioni inerenti l‟esercizio di attività professionale sono considerate, generalmente, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l‟incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per il raggiungimento del risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Pertanto, l‟inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal proprio cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell‟attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza (valutato alla luce della diligenza media ossia del professionista di preparazione professionale e di attenzioni medie).
Dopo la breve (e non di certo esaustiva) analisi della normativa codicistica e delle maggiori teorie sorte in dottrina per definire a livello generale il concetto di “diligenza”, torniamo alla Direttiva in materia di pratiche commerciali sleali.
Ebbene, attualmente emergono ben quattro criteri alternativi di individuazione di una pratica come sleale, riconducibili, rispettivamente, agli usi del settore commerciale, oppure alla cd. best practice del settore stesso, alle norme di deontologia professionale ed, infine, a regole oggettive “esterne” di valutazione dei comportamenti imprenditoriali.
Occorre precisare che la giurisprudenza comunitaria, sul punto, ha chiarito e definito l‟ambito di applicazione delle regole deontologiche: queste, in particolare, in caso di conflitto con regole dettate in materia di concorrenza, dovranno cedere il passo a queste ultime. Volendo indicare un ordine gerarchico tra questi criteri, senza dubbio primaria importanza deve essere concessa al criterio oggettivo “esterno”, ovvero al criterio di tutela della libertà di scelta del consumatore. Non sfuggirà, infatti, come gli altri criteri siano idonei a fornire un‟indicazione presuntiva e che questi non siano in grado di meglio tutelare,
fatte rientrare le obbligazioni facenti capo al debitore. Sul punto, tuttavia, non pare opportuno spendere ulteriori parole data la complessità della materia e l‟impossibilità, nel presente scritto, di trattare compiutamente ed esaustivamente l‟argomento.
appunto, la libertà di scelta del consumatore, in linea con gli scopi della Direttiva 29/2005/CE.
1.10.2. Colpa e profili di responsabilità
Al fine di meglio comprendere la definizione, i confini e il valore della diligenza professionale, pare opportuno spendere alcune parole – senza avere tuttavia la presunzione di voler trattare approfonditamente ed esaustivamente il tema – sulla concezione di “colpa”56.
Doveroso, sul punto, ripercorrere brevemente le teorie più importanti57.
Una parte autorevole della dottrina58 ha dato una definizione obiettiva di colpa, individuandola come “la deficienza dello sforzo diligente dovuto nell‟interesse altrui. La colpa extracontrattuale è l‟inosservanza della diligenza dovuta nei rapporti della vita di relazione”. Inoltre, la colpa è “l‟inosservanza della diligenza dovuta secondo adeguati parametri sociali o professionali di condotta”.
Ne consegue che ciò che influisce sulla colpevolezza o meno di un soggetto non è tanto la circostanza che questi abbia fatto del suo meglio per evitare il danno, senza tuttavia riuscirci a causa della sua inettitudine personale, ma il fatto che abbia tenuto un comportamento non conforme ai canoni oggettivi della diligenza59. Qui le qualità soggettive/personali del
56 Per un‟approfondita ricostruzione storica del concetto di “colpa”, si rimanda a Xxxxxxxxx, Il requisito della colpa, in La risoluzione per inadempimento artt. 1453-1459, in Commentario Codice Civile, Xxxxxxx, pagg. 160 e ss., Talamanca, alla voce Colpa civile. A) Diritto Romano e intermedio, in Enciclopedia del diritto – VII
– Xxxxxxx, 1960, pagg. 517 e ss., dove l‟autore inizia ad analizzare le fonti giustinianee, per poter ricostruire il significato del concetto di colpa, mettendolo poi in relazione alla responsabilità, analizzando gli elementi costitutivi della colpa e i diversi gradi di quest‟ultima.
57 Osti, rilevando una confusione in letteratura tra la nozione oggettiva e quella soggettiva di responsabilità (legata sin dai codici ottocenteschi alla concezione di colpa), definì la prima come “l‟impossibilità costituita da un impedimento inerente all‟intrinseca entità di tale contenuto della prestazione, da un impedimento, cioè, che si opponga all‟eseguimento di una prestazione in sé e per sé considerata, astrazion fatta da ogni elemento estrinseco alla medesima e in specie, in quanto sia tali, dalle condizioni particolari del soggetto obbligato; impossibilità subiettiva, all‟incontro quella che dipenda da queste condizioni particolari del debitore, da un impedimento insorto nella sua persona o nella sfera della sua economia individuale, senza essere necessariamente collegato al contenuto intrinseco della prestazione”, in Revisione Critica della teoria dell‟impossibilità della prestazione, in Riv. Dir. Civ., 1918, pagg. 313 e ss. Da qui ne discende:
la necessità che il debitore organizzi la propria attività al fine di adempiere ai propri obblighi;
il rifiuto dell‟idea che la mera mancanza di colpa, intesa come prova della diligenza media, sia idonea ad escludere la responsabilità;
la rilevanza di eventi che incidono direttamente sulla possibilità di eseguire la prestazione;
l‟incapacità sopravvenuta del debitore;
la perdita non imputabile della prestazione infungibile;
l‟intervento violento dei terzi, ecc.
58 Xxxxxx, La colpa in Diritto civile – V La responsabilità, op. cit., pagg. 575 e ss.
59 Maiorca, Colpa civile (teoria gen.), in Enciclopedia del diritto – VII – Xxxxxxx, 1960, pagg. 575 e ss. definisce la diligenza come la “valutazione che opera la trasposizione dal piano naturale (ove la diligenza si
soggetto agente rivestono una rilevanza solo qualora integrino una capacità di intendere e volere del soggetto stesso o se causate da infermità improvvise idonee – per le modalità, la gravità e l‟insorgenza repentina – ad impedire l‟adozione di cautele sufficienti per evitare il danno.
Altri60, aderendo a tale ricostruzione oggettiva, rectius obiettiva, di colpa ed analizzando le fonti giustinianee, ha ritenuto di poter ravvisare la colpa nella mancanza di diligenza dovuta secondo adeguati parametri sociali e professionali.
Altra parte della dottrina61, invece, rimane ancorata ad una visione decisamente soggettiva di colpa, legata ad un giudizio morale di condanna del soggetto. In particolare, la colpa viene ravvisata in un atteggiamento psicologico carente: tale ultima concezione, tuttavia, ha trovato poco seguito nella pratica ed in particolare non è stata accolta in giurisprudenza.
Infatti, la giurisprudenza rimane legata ad un giudizio di colpa basato su standard obiettivi di adeguatezza, misurati su criteri sociali e tecnici, senza tener in considerazione la buona o cattiva volontà del soggetto.
In tale ottica, come rilevato da Bianca62, “la rilevanza della colpa ha ragione nell‟esigenza di delimitare il dovere di rispetto altrui entro limiti di normalità e ragionevolezza, e nella idoneità della diligenza ad offrire modelli di condotta improntati a tali limiti”. E, ancora, la colpa “fa riferimento alla deficienza dello sforzo diligente quale criterio di responsabilità, ossia allo sforzo diligente inteso a salvaguardare l‟interesse altrui nelle concrete circostanze del contatto sociale. La mancanza di colpa così intesa esclude la responsabilità del soggetto, ma non esclude l‟obiettiva antigiuridicità del comportamento se questo contrasti col modello di comportamento astrattamente appropriato alla salvaguardia dell‟interesse altrui”. In conclusione, secondo l‟autore, la colpa è considerata criterio di responsabilità (o imputabilità nel diritto penale) in quanto il soggetto agente risponde del fatto dannoso dal momento che questi non ha usato la diligenza dovuta per salvaguardare
definisce come una realtà psicologica) al piano giuridico. Anche nel comune linguaggio la diligenza richiede una determinazione quantitativa e qualitativa. [..] Appare quindi ovvia la necessità di un “modello”. [..] è in colpa chi poteva prevenire l‟evento con la diligenza occorrente; diligenza che è quella che fa capo al modello, e viene valutata con riguardo ad un certo ambito e alle circostanze del caso”.
L‟autore procede con un‟analisi dettagliata delle diverse teorie in merito alla definizione di colpa, tra le quali ricordiamo la concezione normativa imperativistica e quella, contrapposta, normativa causalistica.
60 Talamanca, Cit., pag. 519.
61 Cfr. Xxxx, Antigiuridicità e colpevolezza, Xxxxxx per una teoria dell‟illecito civile, Padova, 1966, 169: l‟autore sostiene che “la nozione psicologica della colpa discende dall‟idea imperativa della legge: intanto si può parlare di un dovere di diligenza e di una sua violazione, in quanto si tenga conto delle concrete capacità del soggetto, se è vero che la legge può comandare solamente atti di volontà”.
Tale momento psicologico, per l‟autore, può essere rinvenuto nella “colpa cosciente”, nella quale si trova “colui il quale, intraprendendo un‟azione, ha sì coscienza della probabilità dell‟evento, ma si è deciso ad agire solo in quanto sperava che questo non avesse a verificarsi”.
62 Bianca, Diritto Civile -, La responsabilità, cit., pag. 577.
l‟interesse altrui. E salvaguardare l‟interesse altrui null‟altro significa se non prevenire il danno63.
La colpa è stata distinta secondo i diversi gradi di diligenza violata ovvero in lieve o grave: la colpa lieve è la violazione della diligenza ordinaria, mentre quella grave è la violazione della diligenza minima. Inoltre, la colpa può avere ulteriori graduazioni a seconda della sua maggiore o minore gravità64.
Ai sensi dell‟articolo 1176 c.c. – come supra anticipato – per realizzare un illecito è ritenuta sufficiente la colpa lieve, ossia una condotta non conforme alla normale diligenza, alla diligenza del buon padre di famiglia.
Si consideri che la normale diligenza, pur senza raggiungere la diligenza massima, rappresenta pur sempre un livello elevato di diligenza. Il riferimento al buon padre di famiglia (e in campo professionale al buon professionista) non si riferisce ad un livello di mediocrità ma ad uno standard considerato quale modello di condotta.
Tuttavia, vi sono casi eccezionali (e specifici) in cui la responsabilità viene limitata alle ipotesi di colpa grave, ossia ai casi di inosservanza delle elementari regole di prudenza o delle elementari regole tecniche di una data professione. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla responsabilità a favore dei professionisti intellettuali, i quali si trovino a dover prestare la propria attività a soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà: la responsabilità è limitata ai casi di dolo o colpa grave.
Infine, si ricorda che, qualora la tutela degli interessi altrui non rivesta carattere di ordine pubblico, la responsabilità del soggetto può essere preventivamente esclusa per il caso di colpa lieve.
1.11 DEFINIZIONE DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI “INGANNEVOLI”
La Direttiva 2005/29/CE definisce, oltre alle clausole generali delle pratiche generali definite all‟articolo 2 (supra analizzate), le clausole che possiamo definire di “specie”, tra le quali, agli articoli 6 e 7, i due tipi di pratiche commerciali sleali ingannevoli: le azioni e le omissioni ingannevoli65.
63 Cfr. Maiorca, cit., pag. 572, il quale semplicemente conclude che “è in colpa chi è in grado di prevenire il danno usando una certa diligenza (e non lo previene)”.
64 Per un‟analisi approfondita della problematica dei gradi della colpa, si veda Xxxxxxxxx, in op. cit., pag. 520. 65 Sul punto, si vedano X. Xxxxx, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune” in Contratto e Impresa/Europa, n. 1/2007, pagg. 63 e ss.; lo stesso autore, anche in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, cit., pagg. 147 e ss.
1.11.1 LE “AZIONI INGANNEVOLI”
Ai sensi dell‟articolo 6, comma 1, “è considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua rappresentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l‟informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Ebbene, gli elementi costitutivi della fattispecie possono essere riassunti in:
a) la falsità dell‟informazione;
b) la sua capacità recettiva, ossia l‟idoneità a trarre in errore il consumatore di media diligenza.
Si noti che l‟elemento fondamentale dell‟articolo 6 è, senza dubbio, il riferimento al consumatore medio, nel senso che le informazioni non veritiere devono essere idonee ad ingannare una persona di normale avvedutezza: tale riferimento è segno di un‟attenzione del legislatore alla tutela della generalità dei consumatori, tutela attuabile attraverso il ricorso ad azioni inibitorie da parte delle associazioni di categoria, a prescindere dall‟episodio isolato. Si noti, infatti, come la Direttiva in esame non si preoccupi di tutelare individualmente il consumatore, prediligendo, invece, una tutela collettiva della categoria dei consumatori.
Non sfuggirà, tuttavia, come il singolo consumatore, ingannato da un‟informazione commerciale, potrà sempre agire alla luce degli articoli 1439 e 1440 c.c. dettati in materia di annullamento del contratto per errore.
Partendo dai principi generali previsti in materia di dolo, al fine di verificare la natura illecita (o sleale) di una pratica commerciale, si deve preliminarmente verificare la sussistenza del cd. xxxxx causale tra la falsità della notizia e il convincimento del consumatore all‟adozione della decisione di natura commerciale.
A questo punto, ci si domanda se il legislatore comunitario si riferisca al solo dolo-vizio determinante oppure se ricomprenda anche il dolo incidente.
La lettera della norma ritiene ingannevole una pratica quando il consumatore, per effetto dell‟inganno, abbia assunto una decisione che “non avrebbe altrimenti preso”.
Sembrerebbe che il legislatore comunitario abbia voluto escludere il cd. dolo incidente.
Ma la dottrina ritiene di non condividere tale ultima lettura, proprio alla luce del significato da attribuire alla “decisione di natura commerciale”. Infatti, qui ravvisa non solo il “se” concludere il contratto, ma anche “il come” ovvero le condizioni alle quali concluderlo (anche se pare a dir poco fantasioso che un singolo consumatore abbia forza e influenza tali
da poter autonomamente decidere le sorti del proprio contratto, incidendo sulle previsioni contenute in contratti predisposti in serie).
Pare opportuno sottolineare come il destinatario della tutela qui apportata non sia solamente il consumatore, ma anche il professionista concorrente, il quale viene compromesso dal deficit informativo in cui si trovano i consumatori a seguito delle pratiche commerciali disoneste.
L‟esame dell‟articolo 6 fa emergere un altro interrogativo ossia se integri o no un‟azione sleale il cd. dolus bonus, la semplice millanteria o l‟iperbolica esagerazione, inidonea ad ingannare il consumatore di media diligenza (ma che, in concreto, abbia fatto cadere in errore un consumatore sprovveduto e non attento).
Ebbene, la teoria in base alla quale il dolus bonus, per le sue caratteristiche di millanteria ed esagerazione talmente grossolane ed evidentemente esagerate, è tale da non far cadere in errore il consumatore sufficientemente avveduto ed attento e, pertanto, non può essere considerato come elemento idoneo ad invalidare il contratto eventualmente concluso dal consumatore “credulone”, è stata recentemente criticata e superata, sulla base di una serie di ragioni.
In particolare, è stato sostenuto che il dolo rilevi in sé e per sé, in quanto vi sia un nesso eziologico tra il raggiro e l‟effetto dello stesso sul consumatore, a prescindere dal fatto che quest‟ultimo appartenga o meno alla categoria ipotetica del soggetto di ordinaria diligenza. È stato, tuttavia, precisato che non qualsiasi vanteria può essere considerata come integrante il presupposto per l‟annullabilità del contratto per vizio del consenso, ma vengono considerate prive di valore giuridico le affermazioni basate su canoni di valutazione personali, non basate su criteri oggettivi66. Pertanto, il dolo, rilevando in sé e per sé, dovrebbe suscitare la disapprovazione dell‟ordinamento perché nel singolo caso concreto ha tratto in errore la vittima del raggiro. La variabile del grado di vulnerabilità della “vittima” del raggiro diventa irrilevante negli stessi termini in cui non assume significato l‟eventuale inescusabilità dell‟errore provato.
Per quanto attiene alle pratiche sleali, tuttavia, pare evidente come l‟articolo 6 della Direttiva in esame non prenda in considerazione il cd. dolus bonus, dal momento che, tra gli elementi costituivi la fattispecie, vi è l‟idoneità dell‟azione ingannevole di trarre in errore il consumatore mediamente accorto, il quale pertanto non è influenzabile dalle suggestioni esercitate e dalle iperboliche vanterie, prive di ragionevole attendibilità.
66 Esempio chiarificatore è senz‟altro quello fatto da X. Xxxxxx, BGB, Allgemeiner Teil, 23ª Edizione, Xxxxxxx, 0000, pag. 146, in base al quale non può essere considerato viziato da dolo il contratto di acquisto di un capo di abbigliamento, nel caso in cui l‟acquirente sia stata indotta a stipulare il contratto sulla base delle rassicurazioni provenienti dalla commessa, la quale affermò che lo indossava benissimo, se in seguito il marito abbia manifestato il proprio disappunto per la scelta, ritenendola di dubbio gusto.
Ciò detto, si procede con l‟analisi dell‟articolo 7 della Direttiva, che non prevede espressamente la categoria del dolo, ma la condotta (attiva o omissiva) ingannevole.
Secondo un‟opinione ormai radicata nel diritto europeo, il dolo-vizio ha come presupposto la coscienza e volontà dell‟azione illecita o, quanto meno, la sua rappresentazione (dolo eventuale). Di conseguenza, per integrare l‟illecito precontrattuale, si deve accertare la sussistenza dell‟elemento soggettivo, del cd. animus decipiendi, che altro non è se non la coscienza e volontà di distorcere il vero e simulare il falso per indurre in errore il soggetto passivo della frode67, a prescindere dalla malignità dell‟azione o dei sentimenti che hanno guidato il soggetto agente.
Contro tale teoria è stato obiettato 68che la nozione civilistica di dolo non deve per forza essere ricompressa nella truffa contrattuale (fattispecie che per definizione è caratterizzata dall‟elemento soggettivo dell‟animus decipiendi).
Ebbene, secondo la generale definizione data in diritto civile, per dolo si deve intendere il raggiro, ossia la condotta che ha indotto in errore il soggetto passivo della macchinazione, viziandone così il consenso.
L‟intenzione di manipolare l‟altrui volontà mediante artificiosi espedienti perde peso nell‟integrazione degli elementi costituitivi del dolo-vizio, mentre risalto viene attribuito ad un elemento oggettivo, ossia all‟obiettiva idoneità della condotta ad ingannare i terzi.
Ammettendo che la condotta ingannatrice lede l‟interesse generale alla formazione della volontà negoziale, si deve per forza di cose far ricorso a criteri interpretativi idonei a separare la definizione civilistica di dolo da quella penalistica di truffa. Alla luce di questa ricostruzione, però, per integrare gli elementi strutturali dell‟inganno sembrerebbe sufficiente la semplice colpa, con la conseguenza dell‟annullabilità del contratto a prescindere dall‟effettiva conoscenza delle circostanze di fatto, punendo così la mancanza di cautela del soggetto agente69. Ne consegue che la coscienza e la volontà dell‟azione ingannatrice finalizzata a trarre in errore la vittima perde la qualifica di elemento costitutivo del dolo (nell‟accezione civilistica).
La Direttiva 2005/29/CE semplifica la questione, abbandonando la categoria del dolo per considerare la condotta ingannevole.
67 Cfr. Xxxxxxxxx, voce Dolo (diritto civile), in Noviss. Dig. It., Vol. VI, pag. 150, il quale ritiene che, per potersi parlare di “intenzione di ingannare è necessaria la conoscenza della falsità delle rappresentazioni che si producono nella vittima, e la credenza che sia possibile determinare con quegli artifizi la volontà”.
68 Cfr. Xxxxx xx Xxxxxxx xx Xxxxxx, 00 marzo 1995, in Gius., 1995, pag. 3986; X. Xxxxx, cit, pagg. 68 e ss.
69 Parte della dottrina condivide questa chiave di lettura, ammettendo il raggiro colposo: si xxxxxx Xxxxxxx, voce Dolo (diritto civile), in Enc. Giur., Vol. XII, Roma, 1989, pag. 2; Roppo, Il contratto, Milano, Xxxxxxx, 2001 - XLI, pag. 818; Xxxxx, in Sacco e De Nova, Il contratto, cit., pag. 550 e ss.
1.11.2 LE “OMISSIONI INGANNEVOLI”
L’Articolo 7, comma 1, della Direttiva in esame considera ingannevole anche quella pratica che “nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, ometta informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induca o sia idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Elementi costitutivi della fattispecie sono sicuramente:
a) omissione di informazioni rilevanti;
b) l‟idoneità dell‟omissione ad indurre il consumatore a prendere una decisione di natura contrattuale che non avrebbe preso.
Il comma 4 prosegue elencando una serie di informazioni che sono fondamentali al fine di superare l‟asimmetria informativa in capo al consumatore, la cui omissione integra una pratica commerciale sleale.
Si badi bene che anche lo sfruttamento (doloso o colposo) della situazione preesistente di errore non provocato dal professionista può essere considerata un‟omissione ingannevole.
Pertanto, la sleale “chiusura del canale informativo”70, che incrementa l‟ignoranza della vittima della condotta scorretta, può essere ravvisata quando induca la vittima stessa alla conclusione di un contratto che non avrebbe mai stipulato oppure a concluderlo a condizioni diverse rispetto a quello che avrebbe accettato nel caso in cui fosse stato reso edotto delle circostanze chiarificatrici (in quanto fondamentali) ai fini della corretta rappresentazione della realtà.
L‟articolo 7, comma 2, prescrive che una pratica commerciale è considerata un‟omissione ingannevole quando “un professionista occulta o presenta in modo oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo le informazioni rilevanti di cui al paragrafo 1, tenendo conto degli aspetti di cui a detto paragrafo, o non indica l‟intento commerciale della pratica stessa, qualora non risultino già evidenti dal contesto e quando, in uno o nell‟altro caso, ciò induce o è idoneo ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Si premette che in questo caso non si fa riferimento al cd. dolo omissivo, dal momento che la disposizione appena riportata si fonda su una condotta attiva, che in quanto tale porta
70 Cfr. X. Xxxxx, Le azioni e le omissioni ingannevoli: il problema della loro sistemazione nel diritto patrimoniale comune, cit., pag. 73.
all‟occultamento o alla presentazione in maniera oscura, ambigua o intempestiva delle informazioni necessarie per garantire che il consumatore presti il proprio consenso informato.
In quest‟ottica, occultare significa porre in essere un comportamento finalizzato a nascondere determinate informazioni oppure l‟informazione è sì divulgata, ma in maniera tale da sfuggire all‟attenzione del consumatore medio (proprio in ragione degli accorgimenti usati dal professionista). Un esempio può essere ravvisato nel riportare un‟informazione - utile a condizionare o determinare il consenso del consumatore - all‟interno del contratto o del messaggio pubblicitario con caratteri grafici di dimensioni ridotte rispetto alle restanti clausole, così da ridurre l‟attenzione del consumatore su tali previsioni.
Si consideri che il professionista può indurre in errore il consumatore utilizzando, altresì, un linguaggio tecnico o un lessico comprensibile solo per gli “iniziati” oppure può riportare le clausole in maniera sconnessa o disorganica, allo scopo di creare confusione.
La confusione, così creata, a sua volta genera il cd. effetto sorpresa, che diviene percepibile quando il consumatore, resosi conto tardivamente del reale contenuto contrattuale, è ormai vincolato ad obbligazioni diverse rispetto a quelle che si era inizialmente rappresentato.
Xxxxx pratica omissiva ingannevole è senz‟altro la mancata illustrazione della natura commerciale della pratica posta in essere dal professionista, sempre che tale natura non fosse comunque conoscibile dal consumatore medio.
A questo punto, ci si domanda se il silenzio possa essere considerato quale pratica omissiva, quanto meno in presenza di un obbligo di svelare il vero stato delle cose.
Il codice civile prevede diverse ipotesi di obbligo d‟informazione (e.g. gli articoli 1482, 1489, 1490, comma 2, 1167, comma 1, 1749, comma 1, 1892, 1893 e 1894, oltre alla Legge
n. 129 del 2004 in tema di franchising, che prevede tutta una serie di obblighi di disclosure, proprio per superare o quanto meno ridurre le asimmetrie informative di potere informativo dall‟affiliante all‟affiliato/i).
Resta inteso che, in assenza di norme specifiche, opera sempre e comunque l‟articolo 1337 c.c.: la mancata comunicazione di circostanze utili per creare il consenso della parte che non ha materialmente la disponibilità delle informazioni costituisce senz‟altro contrarietà ai canoni di buona fede nelle trattative.
La giurisprudenza di maggioranza, che abbraccia la tesi equiparante il dolo-vizio al reato di truffa contrattuale, ritiene che il mero silenzio sia irrilevante quando non sia accompagnato da elementi tali da rilevare l‟intenzione del reticente di indurre in errore la vittima del
silenzio. Infatti, tale giurisprudenza71 ha più volte ritenuto il dolo quale “vizio della volontà e causa di annullamento del contratto, può consistere nell‟ingannare con notizie false la parte interessata, ma il mendacio configura un comportamento doloso soltanto se, valutato in relazione alle circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni dell‟altra parte, sia accompagnato da una condotta costituita da malizie ed astuzie volte a realizzare l‟inganno voluto e idonee in concreto a sorprendere una persona di normale diligenza”.
1.12 DEFINIZIONE DI PRATICHE COMMERCIALI SLEALI “AGGRESSIVE”
La Direttiva, oltre alle clausole generali delle pratiche generali definite all‟articolo 2, nonché a quelle di specie di cui al precedente paragrafo 1.12, prevede – all‟articolo 8 - una terza ed innovativa72 clausola di specie. In particolare, considera aggressiva una pratica commerciale che, in concreto e tenuto conto di tutte le circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, limiti o sia idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induca o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso73.
Si noti che qui elemento centrale è la libertà di scelta del consumatore, che null‟altro è se non il bene giuridico protetto dalla Direttiva.
La tipologia di pratica sleale prevista dall‟articolo 8 pone l‟accento sull‟autodeterminazione del consumatore, anche su un piano non negoziale: qui, più che altrove, è sentita la necessità di garantire al consumatore di poter scegliere liberamente, senza condizionamenti. Infatti, mentre nelle pratiche ingannevoli hanno una portata decettiva rispetto alla decisione commerciale, quelle aggressive invece hanno una valenza estorsiva più generale della libertà di scelta. Mediante le pressioni psicologiche e/o fisiche, le pratiche ingannevoli sfruttano le debolezze caratteriali, emotive e culturali del consumatore per costringerlo a prendere certe decisioni positive o negative che altrimenti non avrebbe preso.
71 Cfr. Cass. Civ., 28 ottobre 1993, n. 10718, in Foro It., 1994, I, c. 423 ss.
72 Il “considerando” n. 11, dopo aver precisato che “la Direttiva introduce un unico divieto generale di quelle pratiche commerciali sleali che falsano il comportamento economico dei consumatori”, sottolinea la circostanza che la stessa “stabilisce inoltre norme riguardanti le pratiche commerciali aggressive, che attualmente non sono disciplinate a livello comunitario”.
73 Per una prima analisi comparatistica, anche se solo a livello formale, si riportano le principali versioni codificate dagli altri paesi: “A commercial practice shall be regarded as aggressiv if, in its factual context, taking account of all its features and circumstances, by harassment, coercion, including the use of physical force, or undue influence, it significantly impairs or is likely to significantly impair the average consumer‟s freedom of choice or conduct with regards to the product and thereby causes him or is likely to cause him to take a transactional decision that he would not have taken otherwise”; “Una pratique commercial est réputée aggressive si, dans son contexte factuel, compte tenu de toutes ses caractéristiques et des circumstances, elle altère ou est susceptible d‟altèrer de manière significative, du fait du harcélement, de la contrainte, y compris le recours à la force physique, ou d‟un influence injustifiée, la liberté de choix ou de conduite du consumateur moyen à l‟égard d‟un produit, et, par conséquent, l‟amène ou est susceptible de l‟amener à prendre une décision commerciale qu‟il n‟aurait pas prise autrement”:
Si noti che le pratiche aggressive74 del professionista possono addirittura consistere nel limitare la libertà personale del consumatore, ad esempio impedendogli di uscire dai locali commerciali o rifiutandosi di lasciare l‟abitazione del consumatore stesso, se non previa sottoscrizione del contratto.
Alla luce dell‟importanza di tali pratiche, in realtà mai disciplinate prima nel dettaglio, si è reso indispensabile una tutela ad hoc contro tali forme “aggressive”, idonee a limitare la libera determinazione, negoziale e non, dei consumatori.
Le pratiche aggressive possono essere divise in tre diverse tipologie, ossia (a) le pratiche moleste, (b) quelle coercitive e (c) quelle condizionanti. Tali ultime fattispecie sono costituiti da due elementi: il primo è caratterizzato da quegli atti che consistono in molestie, coercizioni tra le quali il ricorso alla forza fisica o, comunque, lo sfruttamento di una posizione di potere nei confronti del consumatore, al fine di esercitare pressioni fisiche o psicologiche, e che nella loro portata limitino o siano idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta consapevole o di comportamento del consumatore medio per quanto attiene il bene o servizio offerto, alla luce delle circostanze del caso concreto; il secondo, invece, è caratterizzato dalla capacità di indurre attualmente o anche solo potenzialmente il consumatore medio a prendere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
Pare opportuno spendere alcune parole sulle caratteristiche che le pratiche commerciali “aggressive” devono avere per poter essere considerate tali e, pertanto, vietate.
Una pratica è “aggressiva” quando ha una portata limitativa della sua capacità di auto- determinarsi liberamente tale da indurre in potenza o in atto il consumatore medio a scegliere.
La disciplina di cui all‟articolo 8 della Direttiva in esame elenca anche gli elementi che caratterizzano l‟aggressività o meno di una pratica.
Come primo riferimento, la norma si richiama espressamente alla “fattispecie concreta” in cui si esplica la pratica e indica quale criterio imprescindibile per la sua qualificazione il tener conto “di tutte le caratteristiche e circostanze del caso”. Sulla scia di tale riferimento concreto si pone il successivo articolo 9, che stabilisce che “nel determinare se una pratica commerciale comporti molestie, coercizione compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento” (integrando appunto una pratica aggressiva, ai sensi dell‟articolo 8) “sono presi in considerazione i seguenti condizionamenti:
a) i tempi, il luogo, la natura o la persistenza;
74 per un‟analisi senz‟altro approfondita della materia, si veda L. Di Nella, in Le “pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, a cura di G. De Cristofaro, cit., pagg. 215 e ss.
b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale;
c) lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto;
d) qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista;
e) qualsiasi minaccia di promuovere un‟azione legale ove tale azione non sia giuridicamente ammessa”.
La sopraccitata elencazione di elementi che indicano l‟aggressività di una condotta tenuta dal professionista dà la possibilità di procedere ad una precisazione relativa al numero di pratiche aggressive effettivamente previste dalla normativa in esame.
È stato sostenuto75 che la figura dell‟ostacolo non contrattuale potrebbe non essere un indice della ricorrenza delle tre tipologie di pratiche aggressive, supra definite, ma integrerebbe una quarta fattispecie, autonoma rispetto alle prime.
Infatti, la fattispecie in esame si verifica quando il professionista frappone un qualsiasi ostacolo defatigante di natura non contrattuale, gravoso o comunque sproporzionato, all‟esercizio da parte del consumatore dei suoi poteri negoziali o di fonte legale.
L‟espressione “natura non contrattuale” si riferisce a qualsiasi comportamento materiale o giuridico connesso all‟attuazione di diritti e doveri contrattuali: non sfuggirà come tale accezione distingue nettamente queste pratiche dalle clausole vessatorie, introdotte dalla Direttiva 93/13/Cee, in quanto queste ultime sono vere e proprie pattuizioni, contenute nel testo del contratto, che determinano un significativo squilibrio tra i rispettivi diritti ed obblighi delle parti.
L‟ostacolo frapposto dal professionista può consistere nell‟esigere l‟esibizione di documenti quantitativamente eccessivi, non pertinenti, inutili o difficili da reperire, quale condizione per ottenere la prestazione cui ha diritti il consumatore, oppure la semplice inerzia nei confronti delle richieste del cliente.
Evidente che in tali ultime fattispecie non vi sono molestie, coercizioni o indebito condizionamento; tuttavia, una siffatta condotta ha la capacità e/o l‟idoneità di limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio sia di indurlo attualmente o potenzialmente ad assumere decisioni favorevoli al professionista. Infatti, l‟impedimento attivo o passivo posto in essere dal professionista all‟esercizio dei
75 L. Di Nella, cit., pagg. 234 e ss.
diritti facenti capo al consumatore rappresenta decisamente un deterrente contro le pretese
di quest‟ultimo, tanto da indurlo a rinunciare alla realizzazione dei suoi intenti.
Ne consegue che il legislatore comunitario ha di fatto previsto e regolato una quarta fattispecie di pratiche sleali aggressive, distinta dalle altre. A sostegno di quest‟ultima chiave di lettura si pone il punto n. 27 della seconda parte dell‟Allegato I, che, tra le pratiche aggressive, prevede l‟imporre al consumatore che intenda presentare una richiesta di risarcimento in virtù di una polizza d‟assicurazione di esibire documenti che non potrebbero ragionevolmente essere considerati pertinenti per stabilire la validità della richiesta o omettere sistematicamente di rispondere alla relativa corrispondenza, al fine di dissuadere una consumatore dall‟esercizio dei suoi diritti contrattuali.
1.12.1 LE PRATICHE AGGRESSIVE MOLESTE
Ma passiamo ad analizzare, seppur brevemente, le singole categorie nelle quali sono state divise le pratiche commerciali aggressive.
Per quanto riguarda le pratiche aggressive moleste, si noti come queste consistono in quei comportamenti che, per modalità, tempo, luogo e durata devono essere potenzialmente o attualmente idonei a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio, con riferimento al prodotto o al servizio, ed essere idoneo ad indurlo, in potenza o in atto, a prendere decisioni non volute.
Come ampiamente sottolineato, la portata limitativa di queste pratiche deve essere considerevole con riferimento al consumatore medio, escludendo dal novero delle pratiche aggressive quelle – seppur insistenti – che vengano comunemente tenute dal professionista per convincere il consumatore ad acquistare. Pertanto, si potrà parlare di pratiche sleali solo ove tale soglia di normale insistenza sia superata.
Alcuni esempi di pratiche moleste si trovano nella seconda parte dell‟allegato I, dove si trova l‟elencazione delle pratiche che devono sempre essere considerate aggressive (articoli 24-31). Vi rientrano, tra le altre, le visite presso l‟abitazione del consumatore, ignorando gli inviti del consumatore a lasciare la sua residenza o a non ritornarvi (articolo 26) oppure le ripetute e sgradite sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza (articolo 25), attività perpetuate almeno finché il consumatore, esasperato, non decida di acquistare o concludere il contratto proposto.
Si precisa che; dal momento che le pratiche moleste possono essere attuate con le modalità sopra accennate, tali fattispecie devono senz‟altro essere lette alla luce di e coordinate con le
previsioni di cui all‟articolo 13 della Direttiva 2002/58/CE relativa alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche76 (attuata con il D.Lgs n. 196/2003).
1.12.2 LE PRATICHE AGGRESSIVE COERCITIVE
Le pratiche coercitive consistono in minacce verbali o costrizioni fisiche dirette al consumatore con lo scopo di “estorcergli” una decisione (di tipo contrattuale). Le minacce verbali possono riguardare, ad esempio, la prospettazione di mali ingiusti inflitti dal professionista o derivanti dal non avere acquistato anche altri prodotti rivolti a ridurre o evitare determinati rischi definiti come gravi oppure umiliazioni fronte agli altri consumatori in contesti pubblici di vendita oppure di presentazione dei prodotti. Le minacce rivolte possono riferirsi alla vita privata del consumatore o di altre persone a quest‟ultimo legate, e non solo da vincoli di parentela, nel caso in cui non faccia quanto richiesto. Resta inteso che le minacce devono essere di tale intensità da fare impressione sul consumatore medio, tanto da indurlo a prendere determinate scelte per evitare il verificarsi degli eventi prospettati.
Le costrizioni fisiche, invece, consistono in comportamenti materiali rivolti contro il consumatore e diretti ad ottenere quanto desiderato dal professionista. Alcuni esempi sono elencati nell‟allegato I, che considera pratiche aggressive coercitive il creare l‟impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto (n. 24) oppure l‟effettuare visite presso l‟abitazione del consumatore, ignorando le richieste di quest‟ultimo di lasciare la sua residenza, fino a quando quest‟ultimo (esasperato) non presti il proprio consenso. Da qui la classica scelta tra il male minore, ovvero l‟adozione della scelta o la realizzazione del male minacciato.
76 L‟articolo 13 della Direttiva 2002/58/CE dispone che l‟uso di sistemi automatizzati di chiamata senza intervento di un operatore, del telefax o della posta elettronica a fini di commercializzazione diretta è consentito soltanto nei confronti degli abbonati che abbiano preliminarmente espresso il proprio consenso in tal senso (articolo 1). Ciò detto, allorché una persona fisica o giuridica ottiene dai propri clienti l‟indirizzo e- mail nel contesto della vendita di un prodotto o servizio – ai sensi della Direttiva 95/46/CE relativo alla tutela dei dati personali delle persone fisiche – la medesima persona fisica o giuridica potrà utilizzare tale dato a scopi di commercializzazione dei propri prodotti o servizi, similari a quelli già forniti, a condizione, però, che ai clienti sia offerta in modo chiaro e distinto al momento della raccolta dei dati e ad ogni messaggio la possibilità di opporsi, gratuitamente ed in maniera agevole, l‟uso del suddetto indirizzo di posta elettronica (articolo 2).
Naturalmente gli Stati membri devono garantire, adottando le misure ritenute idonee, che le comunicazioni diverse da quelle permesse ai sensi degli articoli 1 e 2, non siano permesse in caso di mancato espresso consenso dei clienti oppure qualora questi ultimi abbiano dichiarato di non essere interessati a ricevere chiamate di questo genere (articolo 3).
In ogni caso, la Direttiva in questione vieta la prassi di inviare messaggi di posta elettronica con lo scopo di commercializzazione diretta camuffando o celando l‟identità del mittente da parte del quale la commercializzazione è effettuata, o senza fornire l‟indirizzo valido cui il destinatario possa inviare la richiesta di cessazione di tali comunicazioni (articolo 4).
Resta inteso che le disposizioni di cui agli articoli 1 e 3 si applicano agli abbonati che siano persone fisiche (articolo 5).
Non sfuggirà un richiamo ai vizi del consenso (conosciuto sia a livello di ordinamento italiano - che verrà meglio analizzato nel prosieguo - sia a livello comunitario), dal quale discende il diritto di impugnare il contratto a favore del soggetto che lo abbia concluso sotto l‟effetto di una costrizione, provocata da una minaccia, dalla creazione di un timore fondato, dalla violenza, dalla coazione morale, dalla situazione nella quale l‟incolumità fisica, morale, l‟onore o il patrimonio del soggetto minacciato o di persone a questo vicine siano in pericolo.
L‟articolo 1438 del codice civile italiano richiede, ai fini dell‟annullamento del contratto per violenza (morale, mentre in caso di violenza fisica il contratto sarà nullo), che le minacce siano dirette a conseguire vantaggi ingiusti.
Si tenga ben presente che le coercizioni possono consistere anche nella minaccia di promuovere un‟azione legale che non sia giuridicamente ammessa: il problema che qui si pone è di individuare la portata effettiva di “non giuridicamente ammessa”.
Una soluzione potrebbe essere ravvisata nel senso di (a) non esistente nell‟ordinamento interno o comunque non pertinente con riferimento alla situazione concreta (ad esempio, la minaccia di procedere alla richiesta di fallimento di un consumatore, evidentemente in assenza dei requisiti previsti ex lege dall‟articolo 1 della Legge Fallimentare, oppure di farlo condannare per truffa qualora non paghi un determinato bene o servizio) oppure (b) un‟azione sostanzialmente infondata (ad esempio la risoluzione per inadempimento di un contratto non ancora concluso) o, ancora, in assenza della legittimazione ad agire.
Se si sposasse la prima tesi (lettera a), allora si ridurrebbe notevolmente l‟effettiva tutela del consumatore; diversamente avviene alla luce della soluzione prospettata alla lettera (b), che pertanto merita di essere accolta77. Infatti, la minaccia di agire legalmente sembrerebbe indirizzata non tanto a prospettare la facoltà di esercitare un diritto, del quale il professionista potrebbe essere astrattamente titolare, ma ad ottenere illegittimamente una decisione da parte del consumatore a seguito di una pressione psicologica (di doversi difendere in un processo, sopportandone i costi e il rischio di essere condannato).
77 Si veda sul punto Cass, Civ. 23 luglio 1997, n. 6900, in Foro It., 1998, I, c. 1582 e ss., in base alla quale non può ritenersi conforme a buona fede il comportamento del creditore che, attraverso il frazionamento delle azioni giudiziarie, prolunghi arbitrariamente il vincolo coattivo cui deve sottostare il debitore, sacrificando ingiustamente l‟interesse di quest‟ultimo a liberarsi del vincolo assunto nella sua interezza.
In particolare, la suprema Corte ha stabilito che deve essere considerato contrario a buona fede e, quindi inammissibile in quanto illegittimo per abuso del diritto, il comportamento del creditore il quale, potendo agire per l‟adempimento di tutta l‟obbligazione, frazioni, senza alcuna ragione evidente, la richiesta di adempimento in una serie di giudizi davanti a diversi giudici, ciascuno competente per ogni singola parte. Tale giudizio di sfavore non può essere superato dalla circostanza che il creditore non tragga alcun vantaggio economico. Infatti, quello che conta è l‟esistenza di un qualsivoglia pregiudizio per il debitore, non giustificato da un corrispondente vantaggio - meritevole di tutela - per il creditore.
In conclusione, caratteristica peculiare delle pratiche coercitive è il creare consapevolmente una situazione di costrizione e il relativo sfruttamento da parte del professionista al fine unico di indurre il consumatore a concludere il dato contratto.
1.12.3 LE PRATICHE AGGRESSIVE CONDIZIONANTI
Le pratiche condizionanti, così come definite nell‟articolo 2, lett. J) della Direttiva 2005/29/CE, sono quelle che integrano lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, pur senza il ricorso alla forza fisica o alla minaccia, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione libera e consapevole (cd. “indebito condizionamento”78). Si badi bene che lo sfruttamento della posizione di potere avviene su un duplice piano: su quello giuridico ma, prima ancora, su quello di mero fatto. Tale ultima posizione di supremazia del professionista nei confronti del consumatore dipende, senza dubbio, dalle circostanze concrete, dalle asimmetrie informative a suo vantaggio, dagli eventuali rapporti giuridici e di fatto in cui si trova il consumatore concreto, nonché dalle qualità e caratteristiche del consumatore medio, soggetto alla pressione indebita.
L‟approfittamento del professionista avviene sul piano dei sentimenti, delle emozioni, delle caratteristiche cognitive, del livello culturale, del profilo linguistico o addirittura delle paure del cliente.
In via esemplificativa, possono ritenersi pratiche indebitamente condizionanti quei comportamenti posti in essere dal professionista che sfruttano un qualunque evento tragico o circostanza di particolare gravità, tale da indurre ad alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di indurlo a prendere una determinata decisione in merito al bene e/o servizio offerto.
1.12.4 La cd. “lista nera”
Passando alla cd. “lista nera” contenuta nella seconda parte dell‟allegato I – con numerazione progressiva rispetto alla prima parte – relativa all‟elencazione delle pratiche ritenute comunque aggressive, ossia quelle moleste, quelle coercitive e quelle condizionanti, troviamo:
“24) creare l‟impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto.
25) Effettuare visite presso l‟abitazione del consumatore, ignorando gli inviti del consumatore a lasciare la sua residenza o a non ritornarvi, fuorché nelle circostanze
78 Le diverse traduzioni indicano come indebito condizionamento “exploiting a position of power in relation to the consumer so as to apply pressure, even without using or threatening to use physical force, in a way which significantly limits the consumer‟s ability to make an informed decision” e “l‟utilisation d‟une position de force vis-à-vis du consummateur de manière à faire pression sur celui-ci, même sans avoir recours à la force physique ou menacer de la faire, de telle manière que son aptitude à prendre une décision en connaissance de cause soit limite de maniére significative”.
e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell‟esecuzione
di un‟obbligazione contrattuale.
26) Effettuare ripetute e sgradite sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza, fuorché nelle circostanze e nella misura in cui siano giustificate dalla legge nazionale ai fini dell‟esecuzione di un‟obbligazione contrattuale, fatti salvi l‟articolo 10 della Direttiva 97/7/CE e le direttive 95/45/CE79 e 2002/58/CE.
27) Imporre al consumatore che intenda presentare una richiesta di risarcimento in virtù di una polizza di assicurazione di esibire documenti che non potrebbero ragionevolmente essere considerati pertinenti per stabilire la validità della richiesta, o omettere sistematicamente di rispondere alla relativa corrispondenza, al fine di dissuadere un consumatore dall‟esercizio dei suoi diritti contrattuali.
28) Includere in un messaggio pubblicitario un‟esortazione diretta ai bambini affinché acquistino o convincano i genitori o altri adulti ad acquistare loro i prodotti reclamizzati. Questa disposizione non osta all‟applicazione dell‟articolo 16 della Direttiva 89/552/Cee, concernente delle attività televisive.
29) Esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o la custodia di prodotti che il professionista ha fornito, ma che il consumatore non ha richiesto, salvo nel caso di beni di sostituzione di cui all‟articolo 7, paragrafo 3, della Direttiva 97/7/CE (fornitura non richiesta).
30) Informare esplicitamente il consumatore che se non acquista il prodotto o il servizio sarà in pericolo il lavoro o la sussistenza del professionista.
31) Xxxx la falsa impressione che il consumatore abbia già vinto, vincerà o vincerà compiendo una determinata azione un premio o una vincita equivalente, mentre in effetti:
non esiste alcun premio né vincita equivalente; oppure
qualsiasi azione volta a reclamare il premio o altra vincita equivalente è subordinata al versamento di denaro o al sostenimento di costi da parte del consumatore”.
Alla luce di tutto quanto argomentato supra, possiamo concludere che – nonostante le varie tipologie di pratiche aggressive e le differenze tra le stesse – emergono alcune linee generali che caratterizzano la base dell‟istituto.
Ebbene, in tutte le fattispecie analizzate emerge una qualche manifestazione di pressione psicologica o fisica creata dal professionista o preesistente e da quest‟ultimo sfruttata.
79 Direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riferimento al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati (G.U. L. 281 del 23 novembre 1995, pag. 31). Direttiva modificata dal regolamento CE n. 1882/2003 (G.U. L 284 del 31 ottobre 2003, pag. 1).
È evidente come la pressione presenti diverse gradazioni e attuazioni nei casi di molestie, coercizione, di ostruzionismo e di undue influence, ma ogni caso è in grado di influenzare negativamente la libertà di autodeterminazione, di scelta da parte del consumatore. Caratteristica comune per la ricorrenza delle pratiche non è di certo la circostanza che il contratto sia particolarmente svantaggioso per il consumatore.
Il principio alla base della norma di cui all‟articolo 9 della Direttiva in esame – come di tutta la Direttiva – è senza dubbio quello di lealtà; accanto a questo, vi sono i principi di equilibrio contrattuale e del divieto di abuso del diritto (rectius, di abuso del potere contrattuale da parte del contraente strutturalmente forte).
Ne consegue che le pratiche aggressive possono concretarsi nei modi più svariati. Le pratiche aggressive – come è stato notato da Di Nella – costituiscono una nuova figura di illecito, che racchiude in sé parte dei caratteri di altri istituti, quali gli illeciti extracontrattuali, la rescissione, l‟inadempimento e i vizi della volontà. Da qui la complessa normativa appena analizzata.
In concreto, potremo trovare fattispecie sia nuove sia riconducibili a figure non nuove al nostro sistema.
1.13 I CODICI DI CONDOTTA
La Direttiva 2005/29/CE attribuisce un ruolo centrale ai codici di autodisciplina80 che, nei singoli settori di applicazione delle pratiche commerciali, dettino regole deontologiche rivolte ai professionisti.
80 Il rinvio a regole deontologiche e la sollecitazione a che vengano create, ove non esistenti, è ormai presente in numerosi interventi del legislatore comunitario: sulle vendite a distanza (cfr. Direttiva 97/7/CE, ove il Considerando 18 stabilisce che “è importante che le regole fondamentali vincolanti della presente Direttiva siano completate, ove opportuno, da regole di autodisciplina professionale conformemente alla raccomandazione 92/295/Cee della Commissione, del 7 aprile 1992, relativa ai codici di comportamento per la tutela dei consumatori in materia di contratti negoziati a distanza”, il Considerando 19 dichiara che “ai fini di una tutela ottimale dei consumatori, è importante che il consumatore sia sufficientemente informato sulle disposizioni della presente Direttiva e sugli eventuali codici di comportamento esistenti in materia” e, infine, l‟articolo 16 recita che “gli Stati membri adottano misure appropriate per informare il consumatore della legge nazionale che recepisce la presente Direttiva ed incoraggiano, se del caos, le organizzazioni professionali ad informare i consumatori dei loro codici di autoregolamentazione”.
Sul tema, si veda anche la Direttiva sul commercio elettronico, 2000/31/CE, con particolare attenzione al Considerando 32 (“i codici di condotta a livello comunitario sono lo strumento privilegiato per enunciare regole deontologiche sulla comunicazione commerciale. Occorre incoraggiare la loro elaborazione, o il loro eventuale aggiornamento, fatta salva l‟autonomia delle organizzazioni ed associazioni professionali”), al Considerando 49 (“gli Stati membri e la Commissione incoraggiano l‟elaborazione di codici di condotta; ciò lascia impregiudicati il carattere volontario di siffatti codici e la possibilità per le parti interessate di decidere liberamente di aderirvi”), l‟articolo 8 (“fatta salva l‟autonomia delle associazioni e organizzazioni professionali, gli Stati membri e la Commissione le incoraggiano a elaborare codici di condotta a livello comunitario che precisino le informazioni che possono essere fornite a fini di comunicazioni commerciali, nel rispetto del paragrafo 1”), l‟articolo 10 (“gli Stati membri provvedono affinché, salvo diverso accordo tra parti diverse dai consumatori, il prestatore indichi gli eventuali codici di condotta pertinenti cui aderisce nonché come accedervi per via elettronica”) e, infine, l‟articolo 16, intitolato “codici di condotta”.
L‟opportunità di adottare tali codici è espressa nel “considerando” n. 2081 e si fonda su due considerazioni.
La prima consiste nella convinzione che, ponendo regole di autodisciplina, si permette ai professionisti di applicare in maniera efficace i principi della Direttiva negli specifici settori economici.
La seconda, invece, si fonda su basi di tipo preventivo, ossia l‟autodisciplina - con il conseguente controllo effettuato da parte dei soggetti titolari dei diversi codici, a livello nazionale o comunitario - “può evitare la necessità di esperire azioni giudiziarie o amministrative”.
Il considerando 20 accenna anche alla procedura di formazione dei codici di condotta, che prevede il coinvolgimento, nella formulazione, delle associazioni dei consumatori proprio per poter raggiungere quel livello tanto agognato di tutela dei consumatori stessi.
Il testo della Direttiva fa diversi cenni ai codici deontologici:
l‟articolo 2 (“definizioni”) fa riferimento al “codice di condotta” e al “responsabile del codice”;
l‟articolo 3, comma 8, stabilisce che “la presente Xxxxxxxxx non pregiudica […] i codici deontologici di condotta o altre norme specifiche che disciplinano le professioni regolamentate, volti a mantenere livelli elevati di integrità dei professionisti, che gli Stati membri possono, conformemente alla normativa comunitaria, imporre a questi ultimi”;
l‟articolo 6, lettera b), considera “il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta che il medesimo si è impegnato a rispettare” come indice di ingannevolezza della pratica, nella misura in cui “i) non si tratti di una semplice aspirazione ma di un impegno fermo e verificabile; e ii) il professionista indichi in una pratica commerciale che è vincolato al codice”. Sempre su questo
Oggi stiamo anche assistendo ad un intensificarsi della creazione di normative di formazione negoziale - accanto a quelle legali - predisposte ed approvate dalle categorie interessate. Si pensi, in materia societaria, al codice di autodisciplina delle società quotate. Per un approfondimento sul punto, in dottrina, si vedano Conte, Codici etici e attività d‟impresa nel nuovo spazio globale del mercato in Contr. Impresa, 2006, pagg. 108 e ss., Zanardo, La nuova versione del Codice di autodisciplina delle società quotate: alcune osservazioni alla luce delle contestuali esperienza nazionali in materia di corporate governance, in Contr. Impr., 2004, pagg. 391 e ss., N. Xxxxxxxx, Codici di comportamento e società quotate, in Giur. Comm. 2007, Vol. 2, pagg. 236 e ss.; X. Xxxxxx, I codici di condotta nella disciplina delle pratiche commerciali sleali, in Giur. Comm., 2008, pagg. 706/I e ss.
81 Il considerando n. 20 recita che “è opportuno prevedere un ruolo per i codici di condotta che consenta ai professionisti di applicare in modo efficace i principi della presente Direttiva in specifici settori economici. Nei settori in cui vi siano obblighi tassativi specifici che disciplinano il comportamento dei professionisti, è opportuno che questi forniscano altresì prove riguardo agli obblighi di diligenza professionale in tale settore. Il controllo esercitato dai titolari dei codici a livello nazionale o comunitario per l‟eliminazione delle pratiche commerciali sleali può evitare la necessità di esperire azioni giudiziarie o amministrative e dovrebbe pertanto essere incoraggiato. Le organizzazioni dei consumatori potrebbero essere informate o coinvolte nella formulazione dei codici di condotta, al fine di conseguire un elevato livello di protezione dei consumatori”.
punto, l‟allegato I considera come pratica senz‟altro sleale ingannevole l‟affermazione, da parte del professionista, di essere firmatario di un codice di autodisciplina oppure che un certo codice ha l‟approvazione di un organismo pubblico o di altra natura, qualora tali affermazioni sono assolutamente false;
l‟articolo 10 consente agli Stati membri di incoraggiare il controllo da parte dei responsabili dei codici sulle pratiche commerciali sleali e non esclude che “le persone o le organizzazioni di cui all‟articolo 11 (ossia che secondo la legislazione nazionale hanno un legittimo interesse a contrastare le pratiche commerciali sleali, compresi i concorrenti) possano ricorrere a tali organismi qualora sia previsto un procedimento dinanzi ad essi, oltre a quelli giudiziari o amministrativi di cui al medesimo articolo”. Si noti come il ricorso agli organi di autodisciplina non integri affatto rinuncia al ricorso alle forme di tutela giurisdizionale o amministrativa, garantite dai singoli Stati membri;
l‟articolo 14, n. 2, aggiunge la nozione di responsabile del codice alle definizioni già contenute nella Direttiva sulla pubblicità ingannevole e, al n. 4, coordina la disciplina preesistente con quella nuova prevista per gli aspetti meramente processuali;
infine, l‟articolo 17 sottolinea come i codici di condotta abbiano anche un valore informativo; infatti, agli Stati membri è richiesto di predisporre “misure appropriate per informare il consumatore” ed, eventualmente, di “incoraggiare i professionisti e i responsabili del codice ad informare i consumatori in merito ai propri codici di condotta”.
A questo punto, pare doveroso procedere, seppur brevemente, ad un‟analisi delle definizioni date dal legislatore comunitario, recepite sic et simpliciter dal legislatore nazionale, come si avrà modo di argomentare nel prossimo capitolo.
Il legislatore comunitario definisce “codice di condotta” come “un accordo o una normativa che, pur non imposta da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, i professionisti si sono impegnati a rispettare in relazione a una o più pratiche commerciali o a uno o più settori imprenditoriali o professionali” e come “responsabile del codice” “qualsiasi soggetto, compresi un professionista o un gruppo di professionisti, responsabile della formulazione e della revisione di un codice di condotta e preposto al controllo del rispetto di tale codice da parte di coloro che si sono impegnati a sottostarvi”.
Dalla lettera della Xxxxxxxxx si può ammettere che il legislatore comunitario voglia suggerire agli Stati membri di incoraggiare il controllo delle pratiche commerciali sleali da parte dei responsabili dei codici nonché che i codici siano predisposti da parte delle associazioni di categoria di volta in volta interessate.
Non sfuggirà come, a conti fatti, ben poca autonomia sia lasciata alle associazioni di categoria nella redazione dei codici di condotta, codici che devono necessariamente riprendere principi stabiliti per legge, se non addirittura abbracciare una cd. “linea dura”, dal
momento che il legislatore comunitario fa espressamente salvi quei codici che siano volti “a mantenere livelli elevati di integrità dei professionisti”.
Inoltre, la violazione delle regole deontologiche, oltre ad avere implicazioni all‟interno dell‟ordinamento di appartenenza, ha senz‟altro valenza per quanto concerne l‟individuazione di una pratica commerciale come sleale.
Infatti, la circostanza che una determinata condotta commerciale non sia vietata dal codice di autodisciplina non è indice sufficiente ad escluderne la slealtà, potendo ben ricadere nella previsione di cui all‟articolo 5 della Direttiva.
Diversamente, il mancato rispetto da parte del professionista delle previsioni del codice deontologico, da quest‟ultimo sottoscritto, rappresenta una vera e propria presunzione di slealtà (rectius di ingannevolezza) della pratica. Tuttavia, affinché ciò avvenga, si devono verificare due circostanze:
(i) l‟impegno assunto dal professionista al rispetto della pratica deve essere fermo e verificabile e deve indicare - in una pratica commerciale - che aderisce ad un codice di condotta;
(ii) la pratica commerciale, nel caso concreto e alla luce di tutte le circostanze del caso. Deve indurre o essere idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale, che non avrebbe altrimenti preso.
Pertanto, il rispetto delle disposizioni contenute nei vari codici di condotta è sicuramente presupposto essenziale per la valutazione della lealtà di una pratica commerciale, ma non è mai condizione sufficiente82.
82 Tale tema è stato analizzato da E. Bargelli I codici di condotta, in Le “Pratiche commerciali sleali” tra imprese e consumatori, cit., pagg. 261 e ss.
CAPITOLO 2.
Pratiche commerciali sleali: recepimento della Direttiva
2.1. RECEPIMENTO DELLE NORME COMUNITARIE: CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
La Direttiva 29/2005/CE è stata recepita nell‟ordinamento italiano attraverso tre distinti provvedimenti normativi: i decreti legislativi n. 145 e 146 del 2 agosto 200783 e gli articoli 2, 4 e 8 del 23 ottobre 2007, n. 221.
Prima di procedere all‟analisi delle norme di recepimento, pare opportuno fare alcune brevi premesse, seppure senza presunzione di voler trattare l‟argomento in maniera esaustiva ed approfondita, in merito al recepimento della normativa comunitaria all‟interno dell‟ordinamento italiano, con particolare attenzione al primato della prima84, nonché alle eventuali conseguenze nel caso in cui il legislatore italiano a) non ottemperasse nei termini prescritti o lo facesse in maniera parziale; b) successivamente, abrogasse o modificasse la normativa interna.
2.1.1 LA POSIZIONE DELLA GIURISPRUDENZA SULLA PREVALENZA DELLE NORME COMUNITARIE DIRETTAMENTE APPLICABILI SULLE NORME NAZIONALI: BREVE EXCURSUS STORICO
Il diritto prodotto dalle fonti comunitarie è destinato principalmente a produrre i propri effetti all‟interno degli Stati membri, inserendosi direttamente - e con effetto dirompente - negli ordinamenti giuridici nazionali: di conseguenza le norme comunitarie si trovano ad operare accanto - spesso addirittura in conflitto - con le norme interne dei singoli Stati.
A livello normativo non vi sono specifiche disposizioni ad hoc per dirimere tali conflitti tra norme comunitarie e norme nazionali: è spettato così ai giudici e a tutti gli operatori del diritto, con il supporto della dottrina, affrontare e risolvere tale aspetto essenziale dei rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno (italiano).
83 Sui quali, oltre ai commenti in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, IV Edizione ed Appendice di aggiornamento, a cura di L.C. Ubertazzi, Xxxxx, 2008, si vedano, ex multis, Battelli, Nuove norme in materia di pratiche commerciali sleali e pubblicità ingannevole, in Contratti, 2007;
A. Leone, Pubblicità ingannevole e pratiche commerciali scorrette fra tutela del consumatore e delle imprese, in Il Diritto Industriale, n. 3 del 2008, pagg. 255 e ss.; A. Genovese, La normativa sulle pratiche commerciali scorrette, in Giur. Comm., Luglio-Agosto, 2008, Vol. I, pagg. 763 e ss.; De Cristofaro, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori, in Le nuove leggi civili commentate, n. 5, Cedam, 2008, pagg. 1057 e ss.
84 Per una trattazione approfondita del tema, si rimanda a X. Xxxxxxxx, Istituzioni di diritto comunitario e dell‟Unione Europea, Cedam, 2006; sempre P. Xxxxxxx, Casi e materiali di Diritto Comunitario e dell‟Unione Europea, Cedam, 2006; A. Xxxxxxx, “L‟efficacia delle fonti comunitarie nell‟ordinamento italiano
- normativa giurisprudenza e prassi”, Utet, 2003; Tesauro, Diritto Comunitario, Cedam, 2008.
Come si avrà modo di ripercorrere infra, i percorsi seguiti dalla giurisprudenza italiana “sono stati tortuosi, disagevoli e, talora, confusi, scontando una resistenza di fondo del nostro ordinamento nazionale ad una apertura incondizionata al sistema comunitario, resistenza che ha complicato non poco il rinvenimento di soluzioni plausibili per tali antinomie”85. Del resto, gli operatori nazionali potevano agire solamente tenendo presente l‟esigenza di garantire la diretta ed immediata efficacia delle norme comunitarie, con conseguente prevalenza di queste ultime sulle norme interne incompatibili. Infatti, se non fosse garantito il primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, si consentirebbe a ciascuno Stato membro di potersi sottrarre, con il proprio diritto interno, al diritto comunitario e al legale cui si sono voluti sottoporre con l‟adesione ai Trattati.
Ma procediamo con ordine alla ricostruzione del percorso giurisprudenziale.
Prima di analizzare gli orientamenti della giurisprudenza italiana sul contrasto tra norma comunitaria e norma interna, pare opportuno evidenziare la caratteristica principale dell‟ordinamento comunitario ovvero l‟autonomia di quest‟ultimo rispetto agli ordinamenti dei Stati membri: questo principio è stato elaborato dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, già nel 1963 con la famosa sentenza Xxx Xxxx en Xxxx c. Amministrazione olandese delle imposte86, ha dichiarato che “lo scopo del Trattato CEE […] implica che il trattato è più che un accordo creante obbligazioni reciproche tra le parti contraenti […] la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini; pertanto il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emanate dagli Stati membri, nello stesso modo in cui pone ai singoli degli obblighi attribuisce loro dei diritti soggettivi”.
In successive sentenze la Corte ha avuto modo di precisare meglio la portata del principio dell‟autonomia del diritto comunitario, ormai divenuto uno dei principi cardine su cui si regge tutta la costituzione comunitaria.
Sul punto, è intervenuta la celebre sentenza Costa c. Enel87 nella quale è precisato che “differentemente dagli ordinari accordi internazionali, il trattato istitutivo della Comunità
85 Cfr. A. Xxxxxxx, cit., pag. 195.
86 Sentenza Van Gend en Loss c. Amministrazione olandese delle imposte, 5 febbraio 1963, causa 26/62, Racc. 1963, pag. 3.
87 Sentenza Costa c. Enel, 15 luglio 1964, causa 6/64, Racc. 1129. In particolare, la Corte ha affermato e ribadito con forza il principio dell‟autonomia del diritto comunitario al fine di impedire che quest‟ultimo potesse essere svuotato nei suoi contenuti da disposizioni nazionali e garantire così un‟uniforme applicazione su tutto il territorio comunitario. La Corte, infatti, prosegue dichiarando che “il diritto nato dal trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità”.
Economica Europea ha creato il suo proprio sistema giuridico quando il Trattato è entrato in vigore e come tale è vincolante per essi […] Gli Stati membri hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro diritti sovrani e creato quindi un complesso di diritti vincolante per i loro cittadini e per loro stessi. L‟integrazione nel diritto di ciascuno degli Stati membri di disposizioni aventi la loro fonte nella Comunità, e più in generale lo spirito e i termini del trattato, hanno come conseguenza l‟impossibilità per gli Stati di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità un provvedimento unilaterale ulteriore il quale pertanto non potrà essere opponibile all‟ordine comune”.
Con il susseguirsi delle proprie decisioni, la Corte ha sviluppato il proprio pensiero configurando sempre di più il diritto comunitario come un sistema indipendente, creando situazioni giuridiche soggettive per i singoli e affermando, altresì, l‟impossibilità per gli Stati membri di far prevalere un provvedimento unilaterale posteriore rispetto ad una norma di diritto comunitario precedente.
Nelle prime decisioni, la Corte ha mostrato un atteggiamento prudente, che faceva riferimento alla prevalenza del diritto comunitario in senso negativo, ossia sottolineando come gli Stati non potessero far prevalere un provvedimento unilaterale su una norma comunitaria (ma senza assumere la prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale).
Con il tempo, la Corte di Giustizia ha superato tale atteggiamento prudente, tanto che ha preso posizione sui seguenti temi:
a) ha ritenuto direttamente applicabili, e quindi invocabili da individui ed imprese davanti a giudici nazionali, anche disposizioni comunitarie che non lasciavano direttamente trasparire la volontà di creare situazioni giuridiche attive anche sui singoli individui;
b) ha rilevato la diretta applicabilità di dette disposizioni comunitarie in quanto prevalenti sul diritto nazionale - precedente o successivo - prevalenti anche sulle norme costituzionali nazionali;
c) ha precisato - sin dal 1976 - che la suddetta prevalenza vale non soltanto per gli Stati membri ma anche per i relativi organi, tanto da imporre (con sentenza del 22 giugno 198988) di “disapplicare” le norme poste dal legislatore nazionale in contrasto con il diritto comunitario non solo ai giudici nazionali, ma a “tutti gli organi dell‟amministrazione, compresi quelli degli enti locali territoriali”.
Dopo tale precisazione da parte della Corte di Giustizia, non ha tardato a farsi sentire la riposta dei giudici nazionali. La nostra attenzione a questo punto deve volgere alla Corte Costituzionale Italiana, che ha modificato il proprio atteggiamento in due fasi: la prima va
88 Sentenza della Corte del 22 giugno 1989, Fratelli Xxxxxxxx S.p.A. c. Comune di Milano, Causa 103/89,
Racc. 1989, pag. 1839.
dal 1973 al 1975, la seconda è identificata con la sentenza Granital (8 giugno 1984, della quale si tratterà nel prosieguo).
Durante la prima tappa, la Corte Costituzionale ha affermato:
a) l‟illegittimità costituzionale, per indiretto contrasto con l‟articolo 11 della Costituzione, di atti normativi statali meramente ripetitivi di regolamenti comunitari non bisognosi di integrazione da parte dei singoli legislatori nazionali (ovvero in quanto in contrasto con il principio di uniforme applicazione del diritto comunitario);
b) l‟illegittimità costituzionale, sempre per indiretto contrasto con l‟articolo 11 della Costituzione, di qualunque legge ordinaria dello Stato che, pur essendo successiva ad una norma comunitaria, risulti con quest‟ultima del tutto incompatibile (e ciò alla luce della violazione degli impegni comunitari dello stato italiano che deriverebbero da detta incompatibilità).
Tuttavia, nonostante tale atteggiamento non si era ancora giunti alla realizzazione della effettiva prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale, come invece ritenuto necessario dalla Corte di Giustizia. Infatti, richiedendosi ai giudici nazionali ordinari (i quali si trovassero di fronte ad una legge ordinaria incompatibile con una precedente norma comunitaria) di rimettersi alla Corte Costituzionale e attendere una pronuncia di illegittimità per poter poi applicare la norma comunitaria, non si assicurava di certo al diritto comunitario l‟uniforme applicazione anche temporalmente.
Per risposta, la Corte di Giustizia, con la causa Simmenthal del 197889, ha precisato che “il giudice nazionale incaricato di applicare, nell‟ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l‟obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme disapplicando, all‟occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Il principio di cooperazione di cui all‟articolo 5 del Trattato CEE (attualmente 10 CE)90 è visto dalla Corte come idoneo a conferire direttamente al giudice nazionale un ruolo nuovo che essa identifica con la “liberazione” di quest‟ultimo, quando deve interpretare e applicare il diritto comunitario, dalle regole costituzionali interne, sia dalle regole costituzionali che
89 Causa Simmenthal, 9 marzo 1978, causa 106/77, Racc. 629 e Casi e mat. 540). Nel caso in esame, il Pretore di Susa, promovendo una pronuncia pregiudiziale ai sensi dell‟articolo 234 CE, aveva domandato alla Corte di Giustizia di precisare se i giudici nazionali possono garantire i diritti attribuiti ai singoli da norme comunitarie in presenza di norme statali successive con esser incompatibili senza che, come all‟epoca ritenuto dalla Corte Costituzionale italiana, “si debba attendere la loro rimozione ad opera dello stesso legislatore nazionale (abrogazione) o di altri organi costituzionali (dichiarazione di incostituzionalità)”.
90 Tale norma prevede che gli Stati membri facilitino la Comunità nell‟adempimento dei propri compiti e si astengano da qualsiasi misura che rischi di compromettere gli scopi del Trattato.
presiedono al suo rapporto con il Parlamento nazionale sia da quelle che disciplinano il giudizio di legittimità costituzionale.
La seconda tappa dell‟evoluzione della posizione della Corte Costituzionale italiana è rappresentata dalla sentenza Granital dell‟8 giugno 198491, nella quale la Corte, rivedendo la propria posizione, ha ammesso in via generale la possibilità per i giudici ordinari di procedere - di fronte ad un contrasto tra un regolamento comunitario e una norma statale successiva - all‟applicazione del primo senza dover attendere una pronuncia di illegittimità costituzionale della seconda. E‟ evidente come, di conseguenza, la Corte Costituzionale abbia attribuito all‟operare congiunto dell‟articolo 11 della Costituzione e della legge che ha dato esecuzione ai Trattati istitutivi delle Comunità effetti giuridici rilevanti. In altre parole, la Corte ha configurato la diretta applicabilità del diritto comunitario (all‟interno degli spazi lasciati liberi da sistemi nazionali e come non destinato a integrarsi nel sistema delle fonti del diritto nazionale) come caratteristica intrinseca di gran parte delle sue norme, così che il giudice nazionale, nell‟applicare il diritto comunitario, non deve fare i conti con il principio della sovranità del Parlamento e con quelli che disciplinano i conflitti di legge nel tempo92.
La differenza tra l‟atteggiamento della Corte di Giustizia e quello della Corte Costituzionale93 italiana risiede nel fatto che, mentre la prima ritiene il diritto nazionale incompatibile con quello comunitario (pur rimanendo integro e valido) è inapplicabile ipso iure, la seconda fonda la suddetta inapplicabilità sulla convinzione che l‟ordinamento nazionale, per effetto dell‟articolo 11 della Costituzione e della legge che ha dato esecuzione a ciascuno dei Trattati istitutivi, lasci che le norme comunitarie abbiano vigore nel territorio italiano in quanto emanate dagli organi competenti.
91 Sentenza Granital, 8 giugno 1984, 170/84, Casi e mat. 913. In tale occasione, la Corte Costituzionale si è pronunciata su una questione di legittimità costituzionale, che era sollevata dal Tribunale di Genova sulla base dell‟assunto che in conformità alla precedente giurisprudenza costituzionale i giudici non potevano mai “disapplicare” le disposizioni di legge inequivocabilmente contrarie ad un regolamento comunitario posto in essere precedentemente, ma dovevano sottoporle al sindacato di costituzionalità.
92 Concludendo, la sentenza della Corte Costituzionale ha subito l‟influenza della Corte di Giustizia la quale ha ritenuto che vigesse il principio della “preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili hanno l‟effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso iure” e indipendentemente dall‟intervento del giudice “inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente”, ma anche - in quanto le suddette disposizioni e atti formano parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell‟ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri - “di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con le norme comunitarie”.
93 La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 389/89, 4-11 settembre 1989 (Casi e mat. 922) ha fatto accidentalmente riferimento alla “disapplicazione” e ha precisato che l‟appartenenza del nostro paese al processo di integrazione europea ha avuto per effetto che “tutti i soggetti competenti nel nostro ordinamento a dare esecuzione alle leggi (e agli atti aventi forza di legge) sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili” con il diritto comunitario direttamente applicabile.
Successivamente, con la sentenza n. 168/91 8-18 aprile 1991 (Giampaoli, Casi e mat. 928) ha parlato di “non applicazione” delle norme interne in contrasto con quelle comunitarie.
Ulteriore passo in avanti compiuto dalla giurisprudenza costituzionale è rappresentato dalla sentenza 10 novembre 1994, n. 38494, che, al fine di garantire la prevalenza del diritto comunitario, ha operato una differenziazione tra i vari meccanismi di possibile intervento nella soluzione dell‟antinomia: infatti, oltre alla tradizionale disapplicazione/non applicazione da parte di ciascun operatore (salva la successiva abrogazione), alla quale si ricorre nei casi di norme nazionali già vigenti in contrasto con il diritto comunitario, introduce anche la diretta dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte, per le ipotesi di norme interne non ancora in vigore. Tale ultimo intervento rappresenta un ulteriore passo verso il massimo adeguamento del diritto interno al diritto comunitario.
Ebbene, nella sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha dichiarato l‟illegittimità costituzionale della delibera legislativa regionale sottoposta al suo controllo e configgente con il diritto comunitario, così ha dovuto implicitamente ammettere che la norma nazionale fosse viziata, in quanto la potestà di annullamento della Corte è espressione dell‟operare dei criteri gerarchico e/o della competenza che comportano l‟invalidità della norma e quindi un suo vizio.
Una volta riconosciuta l‟invalidità e, quindi, il vizio della norma interna non ancora vigente in contrasto con il diritto comunitario, è diventata una scelta obbligata l‟ammettere che anche la norma interna, già in vigore, confliggente con il diritto comunitario sia viziata: pertanto, ne consegue che il singolo giudice ordinario deve eliminarla mediante disapplicazione.
Questa soluzione è stata tuttavia messa in crisi nell‟arco di pochi mesi.
Infatti, con la sentenza 30 marzo 1995 n. 9495, la Corte Costituzionale riprende e sviluppa le affermazioni contenute nella sentenza n. 384 del 1994 sulla possibilità di un controllo della Corte sul contrasto tra norme comunitarie e norme interne nell‟ambito del giudizio di legittimità instaurato in via principale, estendendola anche al caso in cui l‟impugnativa sia
94 Xxxxx Xxxxxxxxxxxxxx 00 novembre 1994, n. 384, in GiC. 1994, 3449 e ss. Nel caso in esame, la Corte è chiamata ad esaminare un contrasto tra il diritto comunitario ed una deliberazione legislativa di un consiglio regionale, in forza di un ricorso governativo in via principale. In particolare, si tratta di una norma non ancora in vigore per la quale non vi può essere un giudizio di legittimità in via incidentale e, di conseguenza, un potenziale giudice a quo che possa direttamente far prevalere il diritto comunitario mediante la cd. non applicazione. In questo caso, pertanto, la Corte deve risolvere la questione facendo ricorso ad argomentazioni e ricostruzioni diverse, affermando così che, volendo perseguire “l‟esigenza di assicurare l‟immediata ed uniforme efficacia del diritto comunitario […] nel caso delle leggi regionali impugnate in sede di controllo governativo, la declaratoria di illegittimità costituzionale produrrebbe l‟effetto di interdire l‟entrata in vigore delle leggi in questione configgenti con il diritto comunitario. E quindi sarebbe proprio la declaratoria d‟incostituzionalità pronunciata nei confronti di leggi regionali ad assicurare l‟effettiva vigenza delle norme comunitarie non rispettate”.
95 La Corte Costituzionale, nella sentenza 30 marzo 1995 n. 94, in GiC, 1995, 788 e ss., ha esaminato nuovamente un caso di conflitto tra diritto comunitario ed una norma interna non ancora in vigore, ugualmente arrivando a dichiararne l‟illegittimità costituzionale (nella specie, una delibera legislativa siciliana in materia di aiuti alle imprese).
mossa da una ragione avverso una legge statale (trattandosi quindi di norma nazionale già in vigore).
Nel far ciò la Corte ribadisce che nei giudizi in via incidentale non può essere la Corte Costituzionale ad intervenire, in quanto si tratta di questioni irrilevanti dal momento che non si applica la norma nazionale antinomia. Abbandonando la distinzione tra norme interne già vigenti e norme interne non ancora in vigore, ne fa discendere rispettivamente la disapplicazione o l‟illegittimità costituzionale nel contrasto con le norme comunitarie. Inoltre, distingue le modalità di ricorso alla Corte:
a) giudizi in via principale: è possibile un controllo accentrato con eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma interna;
b) giudizi in via incidentale: il conflitto deve essere risolto dallo stesso giudice a quo mediante la non applicazione delle norme interne.
In sintesi, si può ritenere che, alla luce della giurisprudenza costituzionale italiana, i conflitti tra norme comunitarie direttamente applicabili (che possono derivare da regolamento, da Direttiva, da sentenza o da decisione) e norme interne sono risolti da tutti gli operatori giuridici, in primo luogo dai giudici “comuni”, facendo prevalere le prime in sede di interpretazione mediante la “non applicazione” (o la disapplicazione) delle seconde, cui deve comunque seguirne l‟abrogazione legislativa96. Unica “eccezione” in tale procedura di prevalenza del diritto comunitario è rappresentata dal caso in cui il singolo giudice abbia dubbi sulla portata applicativa della norma comunitaria oppure sulla sua diretta applicabilità: in questo caso, il giudice investirà della questione la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sollevando la cd. pregiudiziale comunitaria ai sensi dell‟articolo 234 (già articolo 177) del Trattato CE97.
96 Si vedano anche C. Cost. 16 giugno 1995, n. 249 in GiC, 1995, 1827 e ss., dove si qualifica la prevalenza in termini di “non applicazione”, anche se una volta utilizza il termine “disapplicazione”; C. Cost. 7 novembre 1995, n. 482, GiC, 1995, spec. 4419, secondo la quale “il rapporto fra fonti comunitarie e fonti nazionali è di competenza e non di gerarchia o di successione nel tempo, con l‟effetto che la norma nazionale diviene non applicabile se e nei limiti in cui contrasti con le disposizioni comunitarie precedenti o sopravvenute”.
97 Accanto alla modalità generale di prevalenza del diritto comunitario, se ne sono poste altre ipotesi in cui la Corte Costituzionale ha comunque affermato la propria competenza nella soluzione dei conflitti in commento:
a) antecedentemente alla riforma del Titolo V della Costituzione - attuata con la L. Cost. n. 3 del 2001 - un‟ipotesi riguardava i casi in cui, in sede di controllo preventivo, il Governo eccepiva il contrasto di delibere legislative regionali con il diritto comunitario (cfr. C. Cost. 23 marzo 1999, n. 85, GiC, 1999, 856 ss.). Oggi la previsione del novellato articolo 127 della Costituzione prevede la possibilità da parte del Governo o della Regione di proporre una questione di legittimità costituzionale entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge regionale;
b) quando le Regioni impugnino leggi dello Stato che, contravvenendo al diritto comunitario, allo stesso tempo ledano o invadano le proprie competenze (cfr. le già richiamate sentenze della C. Cost. n. 94, 482 e 520 del 1995);
In conclusione, i rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale tendono al cd. “monismo”, anche se la nostra Corte Costituzionale cerca ancora di salvaguardare in un certo senso l‟impostazione dualistica, per resistere ad una definitiva apertura verso il sistema comunitario, da cui discenderebbe inevitabilmente una “degradazione” del suo ruolo.
Ogni dubbio sulla prevalenza delle norme comunitarie direttamente applicabili sulle norme interne incompatibili è stato fugato; i giudici ordinari configurano quale disapplicazione la prevalenza delle norme comunitarie su quelle interne in caso di contrasto.
2.1.2 LIMITI AL PRIMATO DELLE NORME COMUNITARIE
La prevalenza delle norme comunitarie direttamente applicabili sulle norme nazionali incompatibili ormai si può considerare un dato acquisito del nostro ordinamento, proprio alla luce del consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali sopra accennati.
Tuttavia, da una lettura più attenta dei suddetti orientamenti giurisprudenziali emerge che il primato del diritto comunitario non è assoluto ed incondizionato, ma si possono avere ipotesi in cui dovrebbero prevalere le norme interne: ciò dovrebbe accadere quando (si noti che il concreto verificarsi di tali ipotesi è assai remoto) le norme comunitarie si pongano in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inviolabili della persona umana.
In queste ipotesi si parla dei cd. “controlimiti”alle limitazioni di sovranità accettate in forza dell‟articolo 11 della Costituzione e, quindi, all‟ingresso delle norme comunitarie.
Gli orientamenti della Corte Costituzionale in merito alla salvaguardia dei principi e dei diritti fondamentali nei confronti della Comunità Europea si sono originati dalla sentenza 27 dicembre 1965 n. 9898. L‟accenno all‟esistenza di un nucleo di norme costituzionali italiane che comunque resistono alle norme comunitarie è sviluppato anche nella sentenza n.
c) quando le norme nazionali violino norme comunitarie non direttamente applicabili (direttive) oppure recependole in maniera impropria o errata (cfr. C. Cost. 16 giugno 1993 n. 285, GiC, 1993, 2026 e ss.);
d) quando una legge interna impedisca o pregiudichi la perdurante osservanza dei Trattati, in relazione al sistema o al nucleo essenziale dei loro principi (cfr. C. Cost. 23 dicembre 1986 n. 286 in GiC, 1986, I, 2309 e ss.).
In tutte queste ipotesi (alle quali si devono anche aggiungere i casi dei cd. “controlimiti” alla prevalenza del diritto comunitario di cui si dirà infra) la Corte Costituzionale, se ritiene fondato il contrasto, risolve l‟antinomia dichiarando l‟illegittimità costituzionale della norma confliggente con quella comunitaria.
98 C. Cost. 27 dicembre 1965 n. 98, in GiC, 1965, 1322, spec. 1339 (par. 2, Cons. diritto). La Corte, chiamata a pronunciarsi sulle attribuzioni giurisdizionali della Corte di Giustizia della Comunità Europea, ha ammesso che anche in quest‟ambito possano essere attribuite alle Comunità competenze nazionali, purché ciò avvenga “senza pregiudizio del diritto del singolo alla tutela giurisdizionale, [in quanto] questo diritto è tra quelli inviolabili dell‟uomo, che la Costituzione garantisce all‟articolo 2 Cost.”.
183 del 197399, la quale afferma che “in base all‟articolo 11 della Costituzione sono state consentite limitazioni di sovranità unicamente per il conseguimento delle finalità ivi indicate; e deve comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana. Xx è ovvio che qualora dovesse mai darsi all‟art. 189 (ora articolo 249) una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i predetti principi fondamentali”.
Tale riserva all‟apertura dell‟ordinamento italiano a quello comunitario è confermata anche nella successiva sentenza n. 170 del 1984100, che stabilisce che “le osservazioni fin qui svolte non implicano, tuttavia, che l‟intero settore dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno sia sottratto alla competenza della Corte, [la quale] ha, nella sentenza n. 183 del 1973, già avvertito come la legge di esecuzione del Trattato possa andar soggetta al suo sindacato, in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana”.
Questa posizione assunta dalla Corte si giustifica sul timore (remoto) che una norma comunitaria possa intaccare il nucleo fondamentale dei valori del nostro ordinamento e, forse, anche dalla volontà della Corte Costituzionale italiana di non spogliarsi completamente di ogni potere relativamente all‟immissione del diritto comunitario nel nostro ordinamento, anche nel tentativo di mantenere un‟impostazione dualista nei rapporti tra ordinamenti. Tale posizione, naturalmente, ha evidenziato problemi sostanziali soprattutto con riguardo agli effetti di un‟eventuale pronuncia di incostituzionalità: infatti, il sindacato della Corte - non potendosi riferire direttamente al regolamento comunitario - dovrebbe vertere sulla legge italiana di esecuzione del Trattato CE, nella parte in cui ammette l‟articolo 249 (già 189) del Trattato, che a sua volta ha dato efficacia diretta a quel regolamento comunitario confliggente con i principi fondamentali o i diritti inviolabili101.
Dall‟ammissione della Corte Costituzionale che le norme comunitarie direttamente applicabili devono essere considerate - almeno in linea teorica - recessive rispetto ai principi fondamentali della Costituzione e ai diritti inviolabili dell‟uomo se ne desume che le norme comunitarie possono prevalere su norme interne di rango formalmente costituzionale che non appartengano al gruppo dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell‟uomo. Pertanto, le norme comunitarie direttamente applicabili, in caso di contrasto, prevalgono non solo sulle norme di rango legislativo ma anche su quelle di rango costituzionale, salvo le limitazioni appena sottolineate.
99 C. Cost. 183 del 1973, in GiC, 1973, specie 2420 (par. 9, Cons. diritto).
100 C. Cost. 170 del 1984, GiC, 1984, specie 1116 (par. 7, Cons. diritto).
101 Tale ipotesi è stata esaminata dalla Corte Costituzionale unicamente in un‟ipotesi, ossia con la sentenza 21 aprile 1989 n. 232 (in GiC., 1989, I, 1001 e ss.).
Tale forza è stata confermata dalla giurisprudenza costituzionale con particolare riguardo soprattutto alle norme costituzionali relative al riparto di competenze tra Stato e Regioni102. Anche la dottrina ha fatto propria questa ricostruzione, rilevando come le fonti comunitarie avessero “una efficacia sostanziale pari a quella di cui sono provviste le norme costituzionali o […] un‟efficacia quodammodo “assimilabile” a quelle espressa dalle norme costituzionali”103.
Ebbene, dal riconoscimento dell‟idoneità a derogare a disposizioni costituzionali interne (sempre che non ledano i principi fondamentali dell‟ordinamento) sembra che ne consegua che le norme comunitarie abbiano forza costituzionale in senso attivo, ossia quella stessa forza che avrebbe una legge costituzionale nazionale.
A questa ricostruzione però si contrappongono due considerazioni.
La prima precisa come la stessa Corte Costituzionale abbia negato che le norme comunitarie entrino a far parte del sistema normativo italiano e che quindi debbano essere valutate secondo i canoni propriamente interni.
La seconda ricorda come le norme comunitarie abbiano unicamente la capacità di derogare alle norme costituzionali e non anche di abrogarle, interpretarle, decostituzionalizzarle e sospenderle.
Ci si domanda se le norme comunitarie possano derogare anche a norme interne di rango costituzionale che non rientrino nel Titolo V della Parte II della Costituzione (appunto riguardanti il riparto di competenze tra Stato e Regioni).
Nella sentenza n. 117 del 1994 la Corte, pur trattando una questione inerente il riparto di competenze tra Stato e Regioni, ha affermato, in xxx xxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxx, x‟xxxxxxxx xxxxx xxxxx comunitarie a “derogare a norme interne di rango costituzionale (purché non contenenti principi fondamentali o diritti inalienabili della persona umana)”, lasciando
102 Sentenza C. Cost. 19 novembre 1987 n. 399, afferma che “si sostituiscono a quelle della legislazione interna e, se hanno derogato a disposizioni di rango costituzionale, debbono ritenersi equiparate e queste ultime, in virtù del disposto dell‟articolo 11 Cost., il quale consente la limitazione di sovranità nazionale al fine di promuovere e favorire organizzazioni internazionali tra cui, com‟è ius receptum, le Comunità europee” e che quindi le norme costituzionali relative alla potestà regionali (articoli 117 e 118, comma 1, Cost.) “valgono ai fini interni ed è perciò consentito alla disposizione comunitaria, sulla base del già citato articolo 11 Cost., di distribuire in modo diverso le competenze per singoli casi da essa considerati”. In più occasioni la Corte ha ribadito il concetto di cui alla sentenza n, 399/87, precisando l‟idoneità del diritto comunitario ad incidere sulla distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni (cfr. ex multis, C. Cost. 10 giugno 1988 n. 632, FI, 1988, I, 1018 ss; C. Cost. 16 luglio 1991 n. 349, GI, 1992, I, 1, 1232 ss; C. Cost. 10 febbraio 1997 n. 20, GiC., 1997. 147 ss.; C. Cost. 11 dicembre 1998 n. 398, GiC., 1998, 3389 ss.).
103 Xxxxxxx, Continuo e discontinuo nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sent. n. 170 del 1984, in tema di rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno: dalla “teoria” della separazione alla “prassi” dell‟integrazione intersistemica, GiC, 1991, 1589.
quindi supporre che, almeno in linea di principio, il diritto comunitario possa incidere su norme di rango costituzionale non solo nella ristretta materia regionale.
Infine, pur senza pretesa di aver trattato l‟argomento in maniera approfondita ed esauriente, pare opportuno spendere poche ulteriori parole in merito all‟impatto che possono avere le norme comunitarie nel nostro ordinamento nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi104.
Ebbene, il giudizio di legittimità costituzionale, come qualsiasi altro giudizio di legittimità, comporta un confronto tra le norme oggetto del giudizio e le norme alla stregua delle quali deve essere verificata la legittimità o l‟illegittimità. L‟articolo 134 della Costituzione delinea l‟oggetto di tale giudizio e, precisamente “la Corte Costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Le norme cd. norme parametro (ovvero le norme di raffronto) non possono che essere quelle contenute nella Costituzione (o le leggi costituzionali che si assumono violate). La giurisprudenza, del resto, ha fissato ulteriori parametri, avendo fatto riferimento anche alla cd. violazione indiretta della Costituzione, laddove una norma formalmente costituzionale affidi ad una norma non formalmente costituzionale il compito di fissare criteri di validità di successive leggi ed atti aventi forza di legge (qui le norme che integrano il parametro di legittimità costituzionale sono definite “norme interposte”).
A seguito degli ulteriori passi compiuti dalla giurisprudenza, è intervenuto lo stesso legislatore di revisione costituzionale, precisando nel nuovo articolo 117 Cost., comma 1, che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto […] dei vincoli derivanti dall‟ordinamento comunitario”.
2.1.3. L’attuazione delle norme comunitarie non direttamente applicabili
Come noto, le direttive - tralasciando le ipotesi di efficacia diretta - si rivolgono agli Stati membri della Comunità, fissando dei principi, più o meno generali, cui i singoli legislatori nazionali si devono adeguare: conseguentemente, sono necessari atti di recepimento e di esecuzione.
In particolare, le direttive comunitarie comportano solamente un‟obbligazione di risultato, dal momento che è lasciata al singolo Stato la discrezionalità sulle forme e le modalità con le quali perseguire il risultato prestabilito. Qualora l‟attuazione della Direttiva incidesse su leggi preesistenti, allora sarebbe necessaria una norma, puntuale e completa, idonea a risolvere i problemi di successione cronologica tra norme.
104 Per una trattazione esauriente della materia si vedano, ex multis, A. Xxxxxxx, cit., pagg. 220 e ss.; X. Xxxxxxxx, cit.
In Italia il sistema attuativo delle direttive - non è certamente un mistero - è sempre apparso tortuoso e scoordinato, tanto che si sono avuti ritardi e numerose inadempienze, con conseguenti ripetute condanne a livello comunitario.
Tralasciando di ripercorrere l‟iter105 che ha portato allo stato corrente, procederemo - seppure brevemente - ad analizzare l‟impianto attuale, che permette al nostro ordinamento di avviarsi verso una concreta integrazione europea: la legge comunitaria annuale, introdotta dalla cd. “legge La Pergola” (L. 9 marzo 1989, n. 86).
La legge La Pergola rappresenta senza dubbio il primo intervento del legislatore italiano in materia comunitaria con cui non si provvede tout court all‟attuazione di un certo numero di direttive, ma si detta la disciplina degli strumenti di recepimento delle disposizioni comunitarie: in breve, essa rappresenta una legge sulla produzione.
Tale sistema si fonda su una legge annuale (la “legge comunitaria”) con la quale verificare periodicamente lo stato di conformità dell‟ordinamento interno a quello comunitario e disporre, così, le necessarie attuazioni. In tale contesto, lo stesso Parlamento viene maggiormente coinvolto anche nella fase di formazione del diritto comunitario, con accentuazione dei doveri informativi del Governo106.
Caratteristica peculiare della legge comunitaria è rappresentata dal suo essere solo in parte un provvedimento attuativo degli obblighi comunitari, ma piuttosto il punto di riferimento per tutti i soggetti coinvolti nel progetto di attuazione.
Tuttavia, si fa presente come la Legge La Pergola sia stata abrogata e sostituita dalla Legge 4 febbraio 2005 n. 11 (detta anche “Legge Buttiglione”, dettata per disciplinare le procedure di esecuzione degli obblighi comunitari nonché di partecipazione al processo normativo), la quale ha però conservato lo strumento della legge comunitaria.
In particolare, gli articoli 8 e 9 della Legge 11 del 2005 prevede che il Governo presenti annualmente alle Camere, entro il 31 gennaio, un disegno di legge in grado di disciplinare le modalità di attuazione della normativa comunitaria nell‟ordinamento italiano. Tale disegno deve recare la dicitura “Disposizioni per l‟adempimento degli obblighi derivanti dall‟appartenenza dell‟Italia alle Comunità europee”, completata dall‟indicazione “legge comunitaria” seguita dall‟anno di riferimento.
Con la legge comunitaria si provvede soprattutto a dare attuazione alle direttive attraverso:
105 Dall‟iniziale amplissimo uso della delega legislativa alla Legge Xxxxxx (L. 16 aprile 1987 n. 183, che ha formalizzato e dettato la disciplina degli Organi per il coordinamento delle politiche comunitarie, nonché ha coinvolto maggiormente gli organi nazionali nel circuito comunitario, mediante la previsione della comunicazione degli atti comunitari alle Camere, alle Regioni ed alle Province autonome, sia in sede di progetto sia una volta approvate).
106 Lo scopo è quello di far recuperare alle Camere un ruolo centrale nei rapporti comunitari.
la normazione diretta. In questo caso si abrogano o si modificano le norme interne in contrasto con quelle comunitarie direttamente attraverso la legge comunitaria (questo metodo viene solitamente utilizzato per il recepimento di disposizioni di non rilevante complessità);
la delega al governo. In questa ipotesi, dopo aver ricevuto le necessarie autorizzazioni, l‟esecutivo emana disposizioni di attuazione delle direttive comunitarie tramite decreto, regolamento o altro atto amministrativo, a seconda della materia oggetto della norma comunitaria.
Tutte le direttive contenute nelle leggi comunitarie sono suddivise in diversi allegati in base al tipo di provvedimento utilizzato per la loro attuazione, distinguendo tra:
a) direttive da attuare con delega legislativa;
b) direttive da attuare con delega legislativa, previo parere delle commissioni parlamentari competenti per materia;
c) direttive da attuare in via regolamentare;
d) direttive da attuare in via regolamentare, previo parere delle commissioni parlamentari competenti per materia;
e) direttive da attuare in via amministrativa (cfr. delegificazione).
L‟ultimo comma dell‟articolo 8 della Legge Buttiglione prevede che il Governo presenti, in allegato alla legge comunitaria, una relazione annuale nella quale:
a) riferisce sullo stato di conformità dell‟ordinamento interno al diritto comunitario e sullo stato delle eventuali procedure di infrazione (meglio descritte infra) dando conto, in particolare, della giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee relativa ad eventuali inadempienze e violazioni degli obblighi comunitari da parte della Repubblica italiana;
b) elenca le direttive attuate o da attuare in via amministrativa;
c) indica le ragioni dell‟eventuale omesso inserimento delle direttive il cui termine di recepimento è già scaduto e di quelle il cui termine di recepimento scade nel periodo di riferimento, in relazione ai tempi previsti per l‟esercizio della delega legislativa;
d) elenca le direttive attuate con regolamento, nonché indica gli estremi degli eventuali regolamenti di attuazione già adottati;
e) elenca gli atti normativi con i quali le singole Regioni hanno provveduto a fare attuazione nelle materie di loro competenza. Tale elenco deve essere preparato dalla Conferenza dei presidenti delle Regioni e delle Province autonome e trasmesso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri non oltre il 25 gennaio di ogni anno.
2.1.4 Il mancato ottemperamento all’obbligo di recepire le norme comunitarie non direttamente applicabili
Prima di procedere all‟analisi delle conseguenze della mancata ottemperanza all‟obbligo per il legislatore nazionale di recepire le norme comunitarie non direttamente applicabili (le direttive), si rende opportuno premettere che le direttive stesse spesso pongono a carico degli Stati membri obblighi specifici: l‟obbligo di comunicare periodicamente, a scadenze prestabilite, alla Commissione le misure di attuazione adottate e, in alcuni casi, anche valutazioni e precisazioni in merito alla stato di attuazione. In questo modo, si permette alla Commissione di esercitare il proprio controllo e, in caso di inadempimento, promuovere un procedimento di cd. infrazione107 avanti la Corte di Giustizia, ai sensi dell‟articolo 226.
A questo punto si pone il problema di stabilire se le norme comunitarie non direttamente applicabili (e in quanto tali hanno un‟efficacia mediata) siano idonee a produrre effetti diretti nel caso in cui non fossero tempestivamente o adeguatamente attuate.
La Corte di Giustizia ha affrontato il tema in diverse sentenze, nelle quali ha cercato di garantire la maggiore efficacia possibile alle norme comunitarie.
107 Il testo dell‟articolo 226 Trattato CE (ex art. 169) recita che “la Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente Trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni. Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di Giustizia”. Ebbene, la procedura di inadempimento- delineata dall‟articolo 226 Trattato CE - distingue due fasi:
a) una fase pre-contenziosa, che si instaura avanti alla Commissione e che termina, una volta ricevute le osservazioni e in assenza di alcun accordo tra le parti, con un parere motivato della Commissione. Attraverso tale parere, la Commissione sottolinea l‟inadempimento ed invita lo Stato a conformarsi agli obblighi del Trattato, al fine di eliminare il comportamento illecito. Qualora lo Stato, invece, non si conformi al parere motivato, allora avrà inizio la fase contenziosa;
b) una fase contenziosa, avanti alla Corte di Giustizia, avente ad oggetto l‟inadempimento dello Stato agli obblighi del Trattato.
Si badi bene che il ricorso per inadempimento può essere promosso anche da uno Stato membro, ai sensi dell‟articolo 227 Trattato CE. In questo caso, tuttavia, lo Stato membro agente dovrà prima rivolgersi alla Commissione, pena l‟irricevibilità del ricorso.
Riconoscimento della potenziale efficacia diretta delle direttive è stato sostenuto dalla Corte di Giustizia sulla base delle disposizioni del Trattato. La Corte, nella propria sentenza 41/74108 nel caso Xxx Xxxx, ha rilevato che:
a) l‟articolo 249 non esclude in assoluto che le direttive abbiano efficacia diretta;
b) “sarebbe in contrasto con la forza obbligatoria attribuita all‟articolo 249 alla Direttiva escludere, in generale, la possibilità che l‟obbligo da essa imposto sia fatto valere da eventuali interessati”;
c) “l‟articolo 234 autorizzando i giudici nazionali a domandare alla corte di giustizia di pronunciarsi sulla validità e sulla interpretazione di tutti gli atti compiuti dalle istituzioni, senza distinzione, implica il fatto che i singoli possano far valere tali atti dinanzi a detti giudici”.
Pertanto, la Corte ha affermato la necessità di esaminare caso per caso se un obbligo posto a carico di uno Stato o di più Stati membri - pur non essendo contenuto in una disposizione avente forza diretta - possa porre di per sé in capo ai singoli diritti invocabili in giudizio in quanto “sufficientemente preciso ed incondizionato”.
Tale posizione è stata ribadita in una successiva pronuncia (causa C-246/94 e C-249/94109) ove si legge che una disposizione di una Direttiva è
a) incondizionata “allorché enuncia un obbligo che non è accompagnato da alcuna condizione né subordinato nella sua esecuzione o nei suoi effetti all‟intervento di alcun atto sia delle istituzioni della Comunità sia degli Stati membri” e
b) precisa quando “enuncia un obbligo in termini non equivoci”.
Inoltre, sempre in questa pronuncia, la Corte ha chiarito che il fatto che disposizioni di una Direttiva concedano un certo margine di discrezionalità ai legislatori nazionali “non incide sul carattere preciso ed incondizionato del loro disposto”.
Tra le varie pronunce, si deve menzionare il famoso caso Marshall110, dove la Corte ha effettuato la distinzione tra effetti verticali ed effetti orizzontali di una Direttiva non attuata da uno Stato che di essa sia destinatario. Per effetti verticali ha inteso quelli che si possono produrre nei rapporti tra uno Stato membro e le persone fisiche o giuridiche, mentre per effetti orizzontali quelli eventualmente idonei a prodursi nei confronti dei rapporti tra queste ultime.
108 Sentenza 4 dicembre 1974, causa 41/4, Racc. 1337 e Casi e mat. 649.
109 Corte di Giustizia, sentenza 17 settembre 1996, causa C-246/94 e C-249/94, Cooperativa agricola zootecnica S. Xxxxxxx x. Amministrazione delle Finanze dello Stato, Racc. I-4373.
110 Causa 152/84, 26 febbraio 1986, Racc. 723 e Casi e mat. 546.
La Corte mentre ha ritenuto impossibile riconoscere effetti orizzontali ad una Direttiva perché questa non può, di per sé, essere invocata fino a che non sia stata attuata, invece ha ammesso che disposizioni della stessa sufficientemente chiare, precise e determinate possono essere invocate ad effetti verticali111.
In pratica, la Corte ha aumentato l‟efficacia diretta ad effetti verticali di disposizioni di una Direttiva, ammettendo la possibilità di una loro invocazione nei confronti di imprese pubbliche operanti in regime di monopolio, di autorità fiscali, di enti territoriali, di autorità indipendenti, incaricate di mantenere l‟ordine pubblico e la pubblica sicurezza, nonché di pubbliche autorità che prestano servizi di sanità pubblica.
Tenendo ben presente, del resto, l‟assunto secondo il quale devono essere accordati effetti verticali ad una Direttiva al fine di “evitare che uno Stato possa trarre vantaggi dalla sua trasgressione del diritto comunitario”, la Corte ha puntualizzato che una Direttiva non può avere l‟effetto, di per sé e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni.
Successivamente, la Corte ha ulteriormente ampliato il rilievo che può essere attribuito alle direttive non attuate (nel caso Marleasing, sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Racc. I-4135), precisando che nelle materie interessate da una Direttiva non tempestivamente o non adeguatamente attuata, il giudice nazionale, nell‟applicare le disposizioni del proprio ordinamento, è tenuto ad interpretarle “alla luce della lettera e dello scopo della Direttiva”.
Tuttavia, si sono avuti anche casi nei quali non è stato possibile attuare i criteri stabiliti nelle sentenze Xxxxxxxx e Marleasing. Ebbene, il cittadino comunitario che si trovi ad avere un rapporto con uno Stato membro potrà comunque far valere la diretta applicabilità di tali disposizioni quando risultino sufficientemente chiare, precise e determinate; tuttavia, lo stesso trattamento non sarà riservato al cittadino che abbia rapporti con altri cittadini di Stati membri. Per risolvere quest‟ultimo problema, la Corte, nel famoso caso Francovich112, ha stabilito un principio generale di responsabilità dello Stato membro nei confronti dei privati per violazione del diritto comunitario. In particolare, ha chiarito che “sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro. La possibilità di risarcimento a carico dello Stato membro è particolarmente indispensabile qualora […] la piena efficacia delle norme comunitarie sia
111 Questo è il principio cd. clean hands secondo il quale chi si sia sporcato le mani trasgredendo ad una regola di diritto non può trarre vantaggio dalla propria trasgressione.
112 Xxxx Xxxxxxxxxx, sentenza 19 novembre 1991, cause C-6/90 e C-9/90, Racc. I-5357 e Casi e mat. 556.
subordinata alla condizione di un‟azione da parte dello Stato, di conseguenza, i singoli in mancanza di tale azione, non possano far valere dinanzi ai giudici nazionali i diritti loro riconosciuti dal diritto comunitario”. Secondo la Corte, l‟applicazione di tale principio è compito dei singoli giudici nazionali. La Corte ha precisato altresì, proprio al fine di evitare possibili elusioni, che esiste un obbligo di “prendere tutti i provvedimenti necessari a conseguire il risultato prescritto da una Direttiva, la piena efficacia di questa norma di diritto comunitario esige che sia riconosciuto un diritto di risarcimento” qualora ricorrano le seguenti condizioni:
a) “il risultato prescritto dalla Direttiva implichi l‟attribuzione di diritti a favore di singoli”;
b) “il contenuto di tali diritti possa essere individuato sulla base delle disposizioni della Direttiva”; e
c) esista “un nesso di causalità tra violazione dell‟obbligo a carico dello Stato e il danno subito dai soggetti lesi”.
Successivamente, in data 5 marzo 1996, la Corte di Giustizia si è pronunciata in merito ai procedimenti riuniti “Brasserie du pêcheur SA” e “Queen c. Secretary of State for Transport ex parte: Factortame Limited e altri”113. In tale occasione, la Corte di Giustizia, dopo aver chiarito che il principio della responsabilità dello Stato “trova applicazione allorché l‟inadempimento contestato e riconducibile al legislatore nazionale”, ha precisato che “nell‟ipotesi in cui una violazione del diritto comunitario da parte di uno Stato membro sia imputabile al legislatore nazionale che operi in un settore nel quale esso disponga di un ampio potere discrezionale in ordine alle scelte normative, i singoli hanno diritto al risarcimento qualora la normativa comunitaria violata sia preordinata ad attribuire loro diritti, la violazione sia manifesta e grave e ricorra un nesso causale diretto tra violazioni e il danno subito dai singoli”. La Corte ha continuato poi affermando che anche con riferimento a violazioni del diritto comunitario non risultanti dalla mancata attuazione di direttive, il giudice nazionale deve riconoscere ai singoli un “risarcimento adeguato al danno subito”. Ebbene, l‟esclusione totale del lucro cessante dal danno risarcibile non può essere ammessa in caso di violazione del diritto comunitario rilevando che, soprattutto con riferimento a controversie in materia di diritto commerciale o comunque economica, una tale esclusione totale del lucro cessante di fatto rende impossibile il risarcimento del danno. A maggior ragione questo vale nel caso di mancata attuazione di una Direttiva comunitaria.
113 Rispettivamente, sentenza C-46/93 e C-48/93, Racc. I-1029 e Casi e mat. 562. in queste sentenze, la Corte si è trovata a dover precisare il regime di responsabilità dello Stato nei confronti dei privati, risultante dal caso Xxxxxxxxxx in merito a violazioni di disposizioni sostanziali del Trattato (articoli 28 e 43 CE). In prima battuta, la Corte si è dovuta pronunciare sull‟an.
Infine, la Corte di Giustizia, proprio per porre rimedio alle gravi conseguenze che sarebbero derivate agli Stati membri con l‟applicazione tout court della liquidazione del lucro cessante in caso di risarcimento dei danni, ha previsto114 che questo avvenga solo a fronte di una “grave e manifesta” violazione del diritto comunitario (ovvero a fronte della circostanza che uno Stato membro non adotti provvedimenti necessari per il raggiungimento del risultato prescritto da una Direttiva entro il termine fissato da quest‟ultima). In caso di inadeguata attuazione della Direttiva, onere della prova per ottenere il risarcimento in questione incomberà sul soggetto che pretenda di essere risarcito.
2.1.5 Considerazioni conclusive
Alla luce delle considerazioni svolte in questa prima parte, possiamo affermare che lo Stato membro, che non prenda alcun provvedimento necessario per il raggiungimento del risultato prescritto da una Direttiva entro il termine fissato da quest‟ultima, viola in modo grave e manifesto i limiti imposti all‟esercizio dei suoi poteri. Di conseguenza, in risposta al quesito formulato all‟inizio del paragrafo 2.1, possiamo riassumere le conseguenze per il legislatore inadempiente agli obblighi di recepimento delle normative non direttamente applicabili come segue:
a) sottoposizione dello Stato italiano al giudizio di infrazione;
b) tutela dei singoli cittadini nei confronti dello Stato, qualora dal mancato recepimento di una determinata Direttiva derivino dei danni per i primi;
c) nell‟ultimo caso, obbligo per lo Stato italiano di risarcire i danni, nelle misure e con i limiti supra analizzati.
Discorso analogo per il caso in cui il legislatore italiano decidesse di abrogare o modificare (in peius) la normativa di attuazione delle direttive comunitarie. Infatti, a meno che, tale abrogazione o modificazione sia diretta conseguenza dell‟introduzione di una norma comunitaria successiva, lo Stato italiano si renderebbe inadempiente all‟obbligo previsto dall‟articolo 249 del Trattato CE non solo con riferimento all‟Unione Europea ma anche nei confronti dei cittadini italiani (che si vedrebbero trattati in maniera diversa rispetto agli altri cittadini europei), con le conseguenze sopra analizzate.
114 Sentenza Dillenkofer, 8 ottobre 1996, causa C-178/94, Racc. I-4845 e Casi e mat. 570.
2.2. L’ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA 2005/29/CE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
2.2.1 GLI ATTI NORMATIVI
Come già anticipato supra, la Direttiva in commento è stata recepita nel nostro ordinamento attraverso i decreti legislativi n. 145 e 146 del 2 agosto 2007 e gli articoli 2, 4 e 8 del 23
ottobre 2007, n. 221115.
La legge comunitaria del 2005116 aveva conferito delega al Governo di adottare, entro i successivi 18 mesi dall‟entrata in vigore, i decreti legislativi contenenti le disposizioni necessarie per attuare una serie di direttive comunitarie, elencate negli allegati A e B alla legge medesima, tra le quali anche la Direttiva 2005/29/CE.
Si fa presente come la legge comunitaria del 2005 non abbia provveduto a dettare principi e criteri direttivi specifici per il recepimento della Direttiva 2005/29/CE, così che il Governo ha dovuto rispettare unicamente i principi ed i criteri direttivi generali previsti dall‟articolo 3 della Legge 29/2006 (con particolare riferimento a quelli di cui alle lettere b), c) ed e117). In particolare, la legge delega non forniva indicazione alcuna in merito ai contenuti che avrebbe dovuto riportare il Governo nell‟attuazione della Direttiva: non chiariva se, a quali condizioni e in quale modo il legislatore italiano avrebbe potuto operare nei limiti dei margini di discrezionalità concessi con riferimento alla disciplina sostanziale delle pratiche commerciali sleali così come non aveva definito le modalità con le quali colmare le lacune relative ai procedimenti nei confronti dei professionisti di cui agli articoli 11 e 12 della Direttiva 2005/29/CE, né dettava i criteri cui gli Stati membri si sarebbero dovuti ispirare
115 Sul punto, si rinvia a De Cristofaro, Il “cantiere aperto” codice del consumo: modificazioni e innovazioni apportate dal D.Lgs 23 ottobre 2007 n. 221, in Studium iuris, 2008, pagg. 265 e ss. L‟autore procede ad una sapiente ed approfondita analisi critica della materia anche in Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori, in Le nuove leggi civile commentate, Cedam, 2008, pagg. 1057 e ss.; Le pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, il recepimento della Direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), Giappichelli, 2008.
116 Legge 25 gennaio 2006 n. 29, pubblicata in Supplemento ordinario n. 34 alla G.U. n. 32 dell‟8 febbraio 2006.
117 Nella lettera b) si prevedeva che “ai fini di un migliore coordinamento con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare” il legislatore avrebbe dovuto apportare le dovute modifiche alle discipline preesistenti al fine di poter dare attuazione alle direttive da recepire.
Nella lettera e) si prevedeva che “all‟attuazione di direttive che modificano precedenti direttive già attuate con legge o con decreto legislativo” si sarebbe dovuto procedere, se la modifica non avesse implicato un “ampliamento della materia regolata”, “apportando le corrispondenti modificazioni alla legge o al decreto legislativo di attuazione della Direttiva modificata”.
La lettera c) autorizzava il Governo a comminare nei confronti di quelli che avessero violato le disposizioni dei decreti legislativi attuativi delle direttive comunitarie cui si riferiva la legge delega, sia sanzioni amministrative sia sanzioni penali. Tale norma precisava che le sanzioni penali sarebbero dovute essere previste solamente per le infrazioni che “ledano o espongano a pericolo interessi costituzionalmente protetti”, mentre nel caso di infrazioni idonee a ledere o ad esporre a pericolo interessi non protetti a livello costituzionale, si sarebbero dovute prevedere unicamente sanzioni amministrative aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro di ammontare “non inferiore a euro 150 e non superiore ad euro 150.000”. Conseguentemente, il Governo poteva punire i soggetti che avessero posto in essere pratiche commerciali sleali solamente per mezzo di sanzioni amministrative, dal momento che gli interessi tutelati dalla Direttiva 2005/29/CE non rientravano di certo tra quelli costituzionalmente garantiti.
(ossia - per esempio - tra controllo giudiziario e controllo amministrativo) né, infine, chiariva se le sanzioni pubblicistiche destinate ad essere comminate nei confronti dei professionisti sarebbero state affiancate o meno da sanzioni di natura privatistica.
Questa delega quasi “in bianco”, conferita dalla Legge comunitaria 2005, è stata esercitata dal Governo con i D.Lgs. n. 145 e n. 146 del 2 agosto 2007. Il primo decreto118 contiene la disciplina generale della pubblicità ingannevole e comparativa e, quindi, anche le norme di recepimento della Direttiva 84/450/CEE (con le modifiche apportate dalla Direttiva 97/55/CE e dall‟articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE, come si è avuto modo di meglio argomentare nel capitolo precedente). Il secondo decreto119, invece, contiene le disposizioni di recepimento degli articoli 1-13 e 15-17 della Direttiva sulle pratiche commerciali sleali. Si fa presente come entrambi i suddetti decreti siano entrati in vigore il quindicesimo giorno successivo alla relativa data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale - avvenuta il 6 settembre 2007 - dal momento che il legislatore italiano ha deciso di non avvalersi della facoltà di differire l‟entrata in vigore della normativa attuativa fino al 12 dicembre 2007.
Il D.Lgs. 145/2007 contiene non solo le norme indispensabili per recepire le norme contenute nell‟articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, ma anche l‟intero corpus normativo originariamente inserito nel D.Lgs. 74 del 28 gennaio 1992 (con il quale era stata inizialmente recepita la Direttiva concernente la pubblicità ingannevole) e successivamente trasfuso negli articoli 18-27 del Codice del Consumo (che ha abrogato il D.Lgs. 74/92), il tutto alla luce delle modifiche introdotte dall‟articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE.
Il D.Lgs. 146/2007, invece, è composto da 5 articoli.
L‟articolo 1 ha sostituito completamente il Titolo III della Parte II del codice del consumo (ovvero gli articoli da 18 a 27) inserendo le previsioni di cui agli articoli 1-13 della Direttiva 2005/29/CE nonché i contenuti dell‟allegato 1 alla Direttiva stessa.
Gli articoli 2 e 3 del D.Lgs. 146/2007 hanno apportato agli articoli 57 del codice del consumo e all‟articolo 14 del D.Lgs. 19 agosto 2005 n. 190, le modifiche necessarie per adeguare tali norme a quanto introdotto dall‟articolo 15 della Direttiva 2005/29/CE (contenente le modifiche delle direttive 97/7/CE e 2002/65/CE in materia di forniture non richieste).
118 D.Lgs. 145 del 2 agosto 2007 recante l‟”Attuazione dell‟articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE che modifica la Direttiva 84/450/CE sulla pubblicità ingannevole”:
119 D.Lgs. 146 del 2 agosto 2007 contenente la normativa in materia di “Attuazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/Ce, 98/27/CE, 2002/65/CE e il Regolamento (CE) n. 2006/2004”.
L‟articolo 4 ha stabilito che il regolamento destinato ad essere adottato, ai sensi del nuovo articolo 27, comma 11, del codice del consumo (in materia di tutela amministrativa e giurisdizionale), dall‟Autorità Garante della concorrenza e del mercato per la disciplina istruttoria di competenza dell‟autorità stessa, sarebbe dovuto essere emanato entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo120.
Infine, l‟articolo 5 contiene una previsione che, al fine di coordinare la disciplina delle vendite piramidali con il nuovo regime delle pratiche commerciali scorrette (e quindi con la nuova previsione dell‟articolo 23, n. 14 del codice del consumo), stabilisce l‟abrogazione dell‟articolo 5, comma 1, della L. 17 agosto 2005 n. 173.
L‟attuazione della Direttiva 2005/29/CE è stata successivamente completata con il D.Lgs. 23 ottobre 2007, n. 221 relativo alle “disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 6 settembre 2005 n. 206, recante Codice del consumo”121. Gli articoli 2, 4 e 8 del D.Lgs. 221/2007 hanno introdotto nel codice del consumo innovazioni indirizzate all‟integrazione del corpus normativo già inserito nel codice del consumo stesso dal D.Lgs. 146/2007.
In particolare, questo decreto legislativo per così dire “correttivo” ha, di fatto, introdotto le seguenti modifiche/integrazioni al testo del codice del consumo:
(a) L‟articolo 4 del D.Lgs n. 221/2007 ha modificato la rubrica del Titolo III della Parte II del codice del consumo, che adesso è intitolato “Pratiche commerciali”, pubblicità e altre comunicazioni commerciali;
(b) L‟articolo 8 del D.Lgs n. 221/2007 ha sostituito il comma 2 dell‟articolo 57 (fornitura non richiesta), rendendo omogenei i richiami normativi nonché la stessa formulazione testuale ai quali si considerano soggette sia le forniture previste dall‟articolo 57 cod. cons. sia quelle previste dall‟articolo 67 quinquies - decies cod. cons. (Servizi non richiesti);
(c) L‟articolo 2 del D.Lgs n. 221/2007 ha inserito nell‟elenco dei diritti riconosciuti ai consumatori e agli utenti “come fondamentali”, contenuti nell‟articolo 2, comma 2, del cod. cons., il diritto “all‟esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di buona fede, correttezza e lealtà”, ora contenuto nella lettera c-bis) del medesimo articolo, anche se - non si comprende per quale motivo - non ha eliminato dalla lettera c le previsione del “diritto ad una corretta pubblicità” (ormai divenuta superflua alla luce dell‟introduzione della lettera c-bis).
120 Il termine è stato effettivamente rispettato. Infatti, tale regolamento è stato emesso mediante deliberazione dell‟Autorità Garante della concorrenza e del mercato n. 17589 del 15 novembre 2007 - Procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette in G.U. n. 283 del 5 dicembre 2007.
121 Il D.Lgs. 23 ottobre 2007 n. 221 è stato pubblicato nella G.U. n. 278 del 29 novembre 2007.
2.2.2 La scelta operata dal legislatore italiano in merito all’autonomia della disciplina delle pratiche commerciali sleali rispetto a quella della pubblicità commerciale
Ebbene, il legislatore italiano, nel recepimento della normativa in materia di pratiche commerciali sleali nonché di pubblicità commerciale, ha optato per una netta separazione e distinzione delle relative discipline, che sono state appunto affidate a due provvedimenti normativi distinti.
Tuttavia, mentre la parte sostanziale delle discipline delle pratiche commerciali sleali (rectius scorrette, come si avrà modo di argomentare infra) e della pubblicità ingannevole e comparativa risultano pienamente in linea con i contenuti delle due direttive e presentano, così, le medesime differenze nonché il grado di autonomia che caratterizzano appunto le rispettive direttive, invece non può essere sostenuto anche per quanto concerne la parte procedimentale (contenuta nell‟articolo 27 cod. cons. e nell‟articolo 8 del D.Lgs. 2 agosto 2007 n. 145). Infatti:
la competenza ad accertare la violazione di entrambe le discipline e ad adottare i conseguenti provvedimenti sanzionatori ed inibitori fa capo, in via esclusiva, all‟Autorità garante della concorrenza e del mercato;
entità, natura e tipologia delle sanzioni amministrative (che si avrà modo di analizzare infra) comminate ai professionisti che pongano in essere pratiche commerciali sleali o diffondano pubblicità ingannevole o comparativa illecita sono state definite e regolate con le medesime modalità;
la disciplina del procedimento seguito dall‟Autorità garante per accertare le infrazioni, per irrogare le sanzioni e adottare gli opportuni provvedimenti inibitori e/o sanzionatori è la medesima per le due discipline;
quasi identici sono anche i regolamenti attuativi adottati dall‟Autorità garante della concorrenza e del mercato rispettivamente per i procedimenti di cui all‟articolo 27 cod. cons.122 e per i procedimenti di cui all‟articolo 8 del D.Lgs n. 145/2007123.
Nonostante il mantenimento dell‟autonomia formale e contenutistica delle due discipline, il legislatore ha concentrato in capo alla medesima autorità la competenza a portarne a termine l‟esecuzione, superando così ogni problema attinente alla delimitazione dei rispettivi ambiti di operatività nonché all‟individuazione degli interessi tutelati dalle due discipline.
122 Delibera n. 17589 del 15 novembre 2007 - Procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette - in G.U. n. 283 del 5 dicembre 2007, commentata da Falce in Dir. Ind., 2008, pagg. 57 e ss.
123 Delibera n. 17590 del 15 novembre 2007 - Procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa illecita - in G.U. n. 283 del 5 dicembre 2007, commentata da Falce in Dir. Ind., 2008, pagg. 57 e ss.
Per quanto attiene alla delimitazione sostanziale della disciplina delle pratiche commerciali sleali (rectius, scorrette) e di quella della pubblicità ingannevole e comparativa illecita, si rinvia a quanto argomentato nel capito 1.
Tornando alla disciplina delle pratiche commerciali ed, in particolare, alla relativa collocazione all‟interno del codice del consumo, sono state sollevate perplessità124 in merito alla collocazione che è stata data alle disposizioni attuative degli articoli 1-13 della Direttiva 2005/29/CE.
È stato fatto notare come “la nozione di “pratica commerciale” includa qualsiasi condotta rivolta a promuovere l‟acquisto di beni o servizi offerti ai consumatori o comunque correlata a contratti stipulati (o da stipularsi) da professionisti con consumatori”, pertanto, da un punto di vista sistematico e contenutistico, le nuove norme in materia di pratiche commerciali scorrette sarebbero dovute essere inserite nella parte III del codice del consumo (intitolata appunto “Il rapporto di consumo”), che appunto disciplina i contratti (anche nella fase precontrattuale nonché lo svolgimento vero e proprio del rapporto contrattuale fino al suo eventuale scioglimento) conclusi da consumatori con professionisti.
Ebbene, proprio in virtù dello stretto rapporto tra l‟instaurazione e l‟attuazione di rapporti contrattuali (sempre tra consumatore e professionista) ed il divieto di porre in essere pratiche commerciali sleali, il legislatore avrebbe dovuto propendere per introdurre le nuove norme attuative degli articoli 1-13 della Direttiva 2005/29/CE all‟interno del Titolo II della Parte III del codice del consumo (articolo 39) e per eliminare le regole relative al credito al consumo (che meriterebbe una trattazione unitaria nel T.U.B.).
Alla luce delle valutazioni appena espresse, è stato proposto, altresì, di collocare il Titolo dedicato alle pratiche commerciali sleali all‟inizio della Parte III, inserendo in un Titolo II le disposizioni attuative della Direttiva 92/13/Cee. Quest‟ultima proposta è stata ritenuta preferibile “non solo perché più coerente con l‟intitolazione stessa della Parte III (la quale si sarebbe in tal modo aperta proprio con l‟individuazione dei principi generali cui i professionisti debbono uniformare la propria condotta nei “rapporti di consumo”, id est nei rapporti contrattuali che promuovono, instaurano ed intrattengono coi consumatori), ma anche perché idonea ad evitare una “censura” fra le disposizioni concernenti “i contratti dei consumatori in generale” e quelle relative alle “modalità contrattuali”, incluse nel Titolo III”125.
124 Si veda G. De Cristofaro, L‟attuazione della Direttiva 2005/29/CE nell‟ordinamento italiano: profili generali, op. cit., Xxxxxxxxxxxx, pagg. 73 e ss.; sempre De Cristofaro, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti fra professionisti e consumatori, cit., pagg. 1067 e ss.
125 De Cristofaro, L‟attuazione della Direttiva 2005/29/CE nell‟ordinamento italiano: profili generali, in op. cit., Xxxxxxxxxxxx, pag. 75.
Il legislatore, invece, ha preferito inserire la nuova disciplina delle pratiche commerciali scorrette nella Parte II del codice del consumo, ove erano situate le norme in materia di pubblicità ingannevole e comparativa. L‟Autore, più volte citato, ha ritenuto “errata e fuorviante” tale scelta perché “incoerente con i restanti contenuti della Parte II del codice del consumo, la quale impone ai professionisti un insieme di regole di condotta (da rispettare in sede di predisposizione ed effettuazione dell‟offerta di beni e servizi a consumatori, nonché promozione della stipulazione di contratti con questi ultimi) che attengono esclusivamente alla fase che precede la (possibile) stipulazione di contratti con consumatori, laddove per contro le disposizioni attuative degli artt. 2-13 della Direttiva 2005/29/CE si applicano a qualsiasi pratica commerciale posta in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente alla instaurazione di rapporti contrattuali intercorrenti fra professionisti e consumatori”.
L‟articolo 1 del D.Lgs n. 146/2007 ha integralmente sostituito i contenuti del Titolo III della Parte II del codice del consumo, che adesso risulta suddiviso in tre capi:
i. il primo (“disposizioni generali” articoli 18 e 19) contiene una serie di definizioni e individua l‟ambito di applicazione e la portata del nuovo corpus normativo, definendone anche i rapporti con le altre discipline e sottolineandone (come già visto nel testo della Direttiva) la natura sussidiaria;
ii. il secondo (“pratiche commerciali scorrette” articoli 20-26) contiene le disposizioni attuative degli articoli da 5 a 9 della Direttiva e riproducono il contenuto del suo Allegato I;
iii. il terzo (“applicazione” articoli 27-27 quater) contiene le norme di recepimento degli articoli 10-13 della Direttiva 2005/29/CE.
Si fa presente come - e la cosa non stupisce - la lettera delle disposizioni previste negli articoli sopraccitati quasi sempre riproduce pedissequamente il testo italiano delle corrispondenti disposizioni della Direttiva, senza cercare di risolvere e/o chiarire le questioni tutt‟ora aperte per il nostro ordinamento; nei pochi casi in cui ha cercato di innovare il testo, il legislatore ha spesso operato scelte non chiare e che hanno sollevato non poche perplessità (si pensi, per esempio, alla sostituzione dell‟aggettivo “sleali” con quello “scorrette”).
Anche all‟interno delle definizioni si sono rinvenute non poche scelte opinabili, soprattutto alla luce del fatto che le nozioni “generali” del codice del consumo non sono state raccordate e coordinate con quelle “speciali” contenute nella parte relativa alle pratiche commerciali scorrette.
Ma di tutto questo si avrà modo di parlare più avanti.
2.2.3 RAPPORTO TRA LA DISCIPLINA DELLE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
(Titolo III della Parte II cod. cons.) e le altre discipline normative
Leggendo i lavori preparatori dei due decreti legislativi n. 145 e 146 del 2007 emerge come il Governo non abbia rivisto attentamente la legislazione previgente al fine di non violare il divieto, imposto ai Paesi membri dalla Direttiva 2005/29/CE, di mantenere disposizioni interne idonee ad assicurare ai consumatori un livello di tutela diverso (sia in pieus sia in melius) rispetto a quello garantito dalla stessa Xxxxxxxxx.
Si sottolinea come nessuna modifica sia stata operata dai decreti legislativi n. 146/2007 e 221/2007 a provvedimenti diversi dal codice del consumo già presenti nel nostro ordinamento ed idonei ad interferire con la disciplina della pratiche commerciali.
Si pensi, in particolare, alla disciplina delle “vendite piramidali” contenuta negli articoli 5, 6 e 7, comma 1, della Legge 17 agosto 2005 n. 173126 (“Disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali”) che è rimasta intatta, anche se solo dal punto di vista formale, dal momento che la sua operatività è stata considerevolmente ridotta dall‟abrogazione parziale operata dall‟articolo 5 del D.Lgs. 146/2007 (Disposizioni finali)127.
Inoltre, nessuna modifica è stata apportata alla disciplina generale della concorrenza sleale contenuta nel codice civile, alla legge sul diritto d‟autore (L. 22 aprile 1941 n. 633) o al codice della proprietà industriale (D.Lgs 10 febbraio 2005 n. 30) e non vi sono state nemmeno inserite apposite disposizioni di coordinamento.
Naturalmente questo non significa che alle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori non si applicheranno le sopraccitate normative, dal momento che l‟articolo 27, comma 15, del cod. cons. fa comunque salva la giurisdizione ordinaria in materia di atti di concorrenza sleale, nonché di atti compiuti in violazione del diritto d‟autore, dei marchi, delle denominazioni d‟origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi.
Pertanto, una pratica commerciale compiuta da un imprenditore nei confronti di consumatori che sia idonea ad integrare anche un “atto di concorrenza” ai sensi dell‟articolo 2598 c.c., dovrà essere qualificata come “atto di concorrenza sleale” ogni qualvolta integri
126 Legge 17 agosto 2005 n. 173 intitolata Disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali, pubblicata in G.U. n. 204 del 2 settembre 2005.
127 L‟articolo 5 recita “dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo gli articoli 5, comma 1, e 7, della legge 17 agosto 2005, n. 173, recante disciplina della vendita diretta a domicilio e tutela del consumatore dalle forme di vendita piramidali, sono abrogati nella parte in cui riguardano forme di vendita piramidali tra consumatori e professionisti come definite all'articolo 23, comma 1, lettera p), del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, recante Codice del consumo in cui e' previsto o ipotizzabile un contributo da parte di un consumatore come definito dall'articolo 18, comma 1, lettera a), del predetto codice. I suddetti articoli 5, comma 1, e 7, restano applicabili pertanto alle forme di promozione piramidale che coinvolgano qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale”.
una delle fattispecie elencate nello stesso articolo 2598 c.c. Conseguentemente, in tali casi, qualora nel comportamento del professionista/imprenditore sia ravvisabile anche “una pratica commerciale scorretta” ai sensi dell‟articolo 20 cod. cons., il professionista/imprenditore - oltre che davanti all‟Autorità garante della concorrenza e del mercato - potrà anche essere convenuto davanti al giudice ordinario con un‟azione inibitoria promossa da un concorrente, da una associazione di professionisti o da una camera di commercio, così come previsto agli articoli 2599 e 2601 c.c., oltre ad un‟eventuale azione risarcitoria ai sensi dell‟articolo 2600 c.c. da parte di un concorrente che asserisca di essere stato danneggiato dalla pratica commerciale scorretta.
L‟articolo 19, comma 2, cod. cons. prosegue alla lettera a) dicendo che il Titolo III possa pregiudicare “l‟applicazione delle disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare delle norme sulla formazione, validità ed efficacia del contratto”. Da qui sorgono i primi dubbi: infatti, dal tenore letterale della norma, tutt‟altro che chiara, si potrebbe desumere che l‟interpretazione e l‟applicazione, ai contratti conclusi dai consumatori con professionisti, delle regole contenute nel codice civile in materia di conclusione, validità ed efficacia del contratto non potrà essere influenzata dalle nuove norme; diversamente, si potrebbe anche desumere che il nuovo Titolo III non intenda apportare direttamente modifiche o deroghe alle regole generali sul contratto dettate dal codice civile, le quali continueranno ad essere applicate ai contratti con i consumatori senza che si creino antinomie con le norme in materia di pratiche commerciali scorrette.
L‟articolo 19, comma 2, cod. cons. alla lettera b) prosegue chiarendo che il Titolo III non pregiudica nemmeno “l‟applicazione le disposizioni normative, comunitarie o nazionali, in materia di salute e sicurezza dei prodotti”128: ebbene, se pensiamo alle norme contenute negli articoli 102-113 cod. cons.129, attuative della Direttiva 2001/95/CE relativa alla sicurezza dei prodotti, è evidente come queste debbano continuare a trovare applicazione anche a seguito del D.Lgs n. 146/2007 (che non le ha modificate né derogate). Tuttavia, ci si domanda quali sanzioni debbano essere irrogate nel caso in cui una pratica commerciale posta in essere in violazione delle norme di cui agli articoli 102-113 cod. cons. sia anche “scorretta” (se solamente le sanzioni speciali di cui all‟articolo 112 cod. cons. oppure anche le sanzioni generali di cui all‟articolo 27 cod. cons.).
Con riferimento alla disposizione di cui alla lettera c) della norma in esame, non si può che sottolineare come tale richiamo sia del tutto superfluo con riferimento alla “giurisdizione internazionale”, dal momento che nelle disposizioni in materia di pratiche commerciali scorrette non si fa riferimento alcuno di qualsivoglia regola ad hoc dettata per individuare il
128 Pare opportuno sottolineare come il legislatore, nel richiamare all‟articolo 19, comma 2, lett. b) il concetto di “salute” abbia manipolato, arbitrariamente, il testo della Direttiva, ove si faceva invece riferimento alle disposizioni “relative agli aspetti sanitari e di sicurezza dei prodotti”.
129 Parte IV, Titolo I, Sicurezza e qualità, dettata per garantire che i prodotti immessi nel mercato siano sicuri.
giudice nazionale competente in caso in cui vi fossero elementi di collegamento con due o più Stati; nel caso in cui avesse voluto far riferimento invece alla giurisdizione italiana su controversie meramente interne, il riferimento sarebbe assolutamente poco chiaro a meno che non lo si voglia leggere come anticipazione del contenuto dell‟articolo 27, comma 15, cod. cons. 130.
Con riferimento alla disposizione di cui alla lettera d)131 sembra che questa debba essere letta nel senso che le norme giuridiche italiane dettate in materia di stabilimento, di regimi di autorizzazione e di attività relativa ad una professione regolamentata nonché disposizioni dei codici deontologici eventualmente adottati per l‟esercizio di una professione trovano applicazione, anche se le relative regole divergono rispetto a quelle previste dagli articoli
20.16 cod. cons., purché le prime “garantiscano livelli elevati di correttezza professionale” ossia assicurino il rispetto di livelli di correttezza dell‟attività del professionista (e quindi del consumatore) superiori rispetto a quelli la cui osservanza sarebbe sufficiente a consentire ad una pratica di non essere considerata “scorretta” alla luce dell‟articolo 20 cod. cons. Resta inteso che la lettera d) trova applicazione solamente con riferimento alle norme italiane in materia di professioni regolamentate che non siano attuazione di direttive comunitarie.
Il terzo comma dell‟articolo 19 prosegue stabilendo che “in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici” ossia il cd. criterio di specialità per risolvere l‟eventuale conflitto tra le nuove disposizioni generali sulle pratiche commerciali scorrette e le regole speciali dettate da altre normative comunitarie per singole fattispecie di pratiche commerciali.
Sul piano sostanziale, si pongono una serie di quesiti, assolutamente legittimi, in merito alle conseguenze nel caso in cui una pratica commerciale “scorretta” - ai sensi dell‟articolo 20 cod. cons. - si ponga in contrasto anche di norme specifiche contenute in discipline settoriali di derivazione comunitaria.
Inoltre, in caso di conflitto tra le disposizioni contenute nel Titolo III del cod. cons. e quelle speciali già vigenti nel nostro ordinamento, che non siano però attuative di norme
130 L‟articolo 27, comma 15, cod. cons. recita che “è comunque fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell‟art. 2568 c.c., nonché, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d‟autore protetto dalla L. 22 aprile 1941 n. 633, e successive modificazioni e dei marchi d‟impresa protetto a norma del D.Lg. 10 febbraio 2005 n. 30, e successive modificazioni, nonché delle denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e altri segni distintivi di imprese, beni e servizi concorrenti”.
131 La norma di cui all‟articolo 19, comma 2, cod. consumo continua stabilendo che il Titolo III “[…] non pregiudica: d) l‟applicazione delle norme relative allo stabilimento, o ai regimi di autorizzazione, o i codici deontologici o altre norme specifiche che disciplinano le professioni regolamentate, per garantire livelli elevati di correttezza professionale”.
comunitarie e non attengano a “professioni regolamentate”, in mancanza di indicazioni specifiche in tal senso, è stato proposto132 di risolvere i suddetti conflitti dando sempre la prevalenza alle norme generali del codice del consumo riguardanti le pratiche commerciali scorrette. In questo modo, si favorirebbe la necessaria rilettura delle disposizioni “speciali” in conformità con il diritto comunitario ed interpretandole in maniera tale da non mantenere nel nostro ordinamento disposizioni (non di derivazione comunitaria) in conflitto con la Direttiva 2005/29/CE.
2.2.4 LE CONSEGUENZE DELLA VIOLAZIONE DEL DIVIETO DI PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
A questo punto, ci si domanda quali siano le conseguenze per il professionista, sia sul piano pubblicistico sia sul piano privatistico, della violazione del divieto di porre in essere pratiche commerciali scorrette.
Tutte le volte in cui la violazione abbia carattere “collettivo” (ossia non si esaurisca in un comportamento isolato nei confronti di un singolo consumatore), ci sarà il legittimo intervento “a tutela degli interessi collettivi dei consumatori” delle associazioni dei consumatori iscritte nell‟elenco di cui all‟articolo 137 cod. cons., le quali agiranno avanti il giudice ordinario, ai sensi dell‟articolo 140 cod. cons.133, per ottenere la pronuncia, da parte del tribunale, di un provvedimento che inibisca al professionista di continuare la pratica ritenuta scorretta e adotti le misure idonee a correggere o eliminare, ove possibile, gli effetti dannosi che abbia prodotto.
È stato sottolineato come la prevenzione e la repressione delle pratiche commerciali scorrette, di fatto, saranno affidate in via prevalente all‟Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Infatti, il legislatore ha ritenuto opportuno incrementare le competenze dell‟Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di pubblicità ingannevole e comparativa anche al settore delle pratiche commerciali scorrette, facendo sì che queste siano combattute nell‟ambito di procedimenti disciplinati con le stesse modalità. Qualche dubbio, tuttavia, è stato sollevato in merito all‟esclusività di competenza dell‟Autorità garante nell‟irrogazione
132 Cfr. De Cristofaro, L‟attuazione della Direttiva 2005/29/CE nell‟ordinamento italiano: profili generali, in cit. pag. 83.
133 L‟articolo 140 cod. cons., disciplinante la procedura per agire nei confronti dei professionisti a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti, stabilisce che le associazioni dei consumatori e degli utenti potranno richiedere al tribunale:
a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti;
b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate;
c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”.“
di sanzioni amministrative, non solo per motivazioni di carattere preminentemente pratico (l‟AGCM a fronte del potenziale incremento d attività potrebbe risultare sommersa dalle richieste di intervento) soprattutto alla luce della maggior complessità che caratterizza le pratiche commerciali rispetto ai messaggi pubblicitari.
Si precisa, però, che la disciplina del procedimento per l‟accertamento della scorrettezza o meno di una pratica commerciale e per l‟eventuale adozione di misure inibitorie e sanzionatorie appare molto diversa rispetto a quella che era inizialmente prevista per i procedimenti in materia di pubblicità ingannevole e comparativa illecita (così come disciplinata dal vecchio testo dell‟articolo 26 cod. cons.).
La prima novità si riferisce ai presupposti per instaurare il procedimento: infatti, mentre da un lato la legittimazione a presentare l‟istanza all‟Autorità garante viene adesso riconosciuta ad “ogni soggetto o organizzazione” che vi abbia interesse, estendendo così di gran lunga la categoria dei soggetti abilitati a richiedere l‟intervento dell‟Autorità, dall‟altro lato, è adesso prevista l‟iniziativa d‟ufficio dell‟AGCM.
Il secondo comma dell‟articolo 22 prosegue prevedendo che l‟AGCM, nello svolgimento della sua attività, si può avvalere della Guardia di Finanza, la quale agisce coi poteri ad essa assegnati per l‟accertamento dell‟imposta sul valore aggiunto e di quella sui redditi. Inoltre, l‟intervento dell‟Autorità è indipendente dal fatto che i consumatori interessati si trovino nel territorio della Stato membro in cui è stabilito il professionista o in un altro Stato membro.
Altra novità è l‟estensione dei poteri adesso concessi all‟AGCM, la quale può disporre con provvedimento motivato la sospensione provvisoria delle pratiche commerciali scorrette, richiedere informazioni non solo al professionista e al committente, ma anche al proprietario del mezzo che ha diffuso la pratica commerciale nonché a imprese, enti o persone che siano in possesso di informazioni e documenti rilevanti; può altresì disporre ispezioni al fine di controllare i documenti aziendali e acquisirne copia, disporre la realizzazione di perizie ed analisi economiche e statistiche nonché la consultazione di esperti in merito a qualsiasi elemento potenzialmente rilevante; può avvalersi inoltre dei poteri investigativi ed esecutivi garantiti dal Regolamento 2006/2004/CE134 (sulla cooperazione tra le autorità nazionali
134Il Paragrafo 1 del Regolamento “definisce le condizioni in base alle quali le autorità competenti dello Stato membro designate in quanto responsabili dell'esecuzione della normativa sulla tutela degli interessi dei consumatori collaborano fra di loro e con la Commissione al fine di garantire il rispetto della citata normativa e il buon funzionamento del mercato interno e al fine di migliorare la protezione degli interessi economici dei consumatori”.
I Paragrafi 3 e 4 del Regolamento prevedono che i poteri investigativi ed esecutivi di cui le Autorità nazionali dispongono comprendano almeno:
a) poter accedere a qualsiasi documento pertinente, in qualsiasi forma, relativo all‟infrazione intracomunitaria;
b) richiedere che qualsiasi persona sia tenuta a fornire le informazioni pertinenti, relative all‟infrazione intracomunitaria;
c) effettuare le necessarie ispezioni in loco;
responsabili dell‟esecuzione della normativa che tutela i consumatori) anche per le pratiche commerciali che non rappresentano “infrazioni transfrontaliere”135 (ovvero che siano state poste in essere da un professionista che abbia sede in Italia e ledano interessi di consumatori residenti in Italia).
Si precisa che adesso, con il nuovo comma 4 dell‟articolo in commento, il legislatore ha previsto che le sanzioni possano essere comminate nei confronti non solo del proprietario dei mezzi di diffusione del messaggio (che non avesse permesso l‟identificazione del committente del messaggio) e dell‟operatore pubblicitario o del proprietario del mezzo di diffusione, che si fossero rifiutati di fornire copia del messaggio richiesta dall‟Autorità, ma anche nei confronti di chiunque non ottemperi a quanto richiesto o disposto dall‟Autorità nell‟esercizio dei suoi poteri. Tra l‟altro, la sanzione amministrativa pecuniaria prevista è pari ad una somma che varia da Euro 2.000,00 ad Euro 20.000,00. Qualora le informazioni o la documentazione fornite non siano veritiere, l'Autorità applica una sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 4.000,00 ad Euro 40.000,00.
Si sottolinea, altresì, la notevole entità delle sanzioni amministrative pecuniarie previste nei confronti dei professionisti che violino il divieto di pratiche commerciali scorrette: infatti, l‟Autorità dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 5.000,00 ad Euro 500.000,00 , tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Nel caso di pratiche commerciali scorrette ai sensi dell'articolo 21, commi 3 e 4136, la sanzione non può essere inferiore a Euro 50.000,00. Per quanto attiene invece alle sanzioni previste per l‟inottemperanza ai provvedimenti d'urgenza e a quelli inibitori o di rimozione degli effetti, queste possono raggiungere un massimo di Euro 150.000.
Tuttavia, a fronte di un tale inasprimento delle sanzioni pecuniarie, il legislatore ha previsto una nuova forma di “conciliazione”: infatti, il comma 7 dell‟articolo 27 cod. cons. stabilisce che “ad eccezione dei casi di manifesta scorrettezza e gravità della pratica commerciale, l'Autorità può ottenere dal professionista responsabile l'assunzione dell'impegno di porre
d) chiedere per iscritto che il venditore o fornitore interessato ponga fine all‟infrazione intracomunitaria;
e) ottenere dal fornitore o venditore responsabile delle infrazioni intracomunitarie l‟impegno di porre fine
all‟infrazione intracomunitaria e, laddove opportuno, disporre la pubblicazione delle relative decisioni;
f) esigere la cessazione o vietare qualsiasi infrazione intracomunitaria e, laddove opportuno, disporre la pubblicazione delle relative decisioni;
g) richiedere alla parte incriminata di effettuare il versamento di un indennizzo allo stato o a un beneficiario designato o previsto dalla legislazione nazionale, nel caso di mancata osservanza della decisione.
135 Ad essere precisi, i poteri elencati nel Regolamento 2006/2004/CE si riferiscono unicamente alle infrazioni intracomunitarie ossia a condotte in violazione delle norme a tutela dei consumatori che ledano o possano ledere gli interessi collettivi dei consumatori che risiedono in uno o più Stati membri diversi da quello in cui hanno avuto origine o si sono verificati l‟atto o l‟omissione in questione o, ancora, in cui è stabilito il venditore o il fornitore se responsabile o in cui si rinvengano prove o beni riconducibili all‟atto o all‟omissione.
136 Ovvero rispettivamente, per le pratiche che, riguardando prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei consumatori, omettano di darne notizia così che i consumatori siano indotti a trascurare le normali regole di prudenza e vigilanza; nonché per quelle che, in quanto suscettibili di raggiungere bambini ed adolescenti, possano - anche indirettamente - minacciarne la sicurezza.
fine all'infrazione, cessando la diffusione della stessa o modificandola in modo da eliminare i profili di illegittimità. L'Autorità può disporre la pubblicazione della dichiarazione dell'impegno in questione a cura e spese del professionista. In tali ipotesi, l'Autorità, valutata l'idoneità di tali impegni, può renderli obbligatori per il professionista e definire il procedimento senza procedere all'accertamento dell'infrazione”. Il comma 12 dell‟articolo in commento stabilisce che “in caso di mancato rispetto degli impegni assunti ai sensi del comma 7° l'Autorità applica una sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 150.000 euro. Nei casi di reiterata inottemperanza l'Autorità può disporre la sospensione dell'attività d'impresa per un periodo non superiore a trenta giorni”.
Dubbi sono stati sollevati137 in merito alla stessa scelta di introdurre la procedura conciliativa di cui al comma 7: infatti, è stato osservato come la possibilità di poter far ricorso ad una procedura che eviti l‟accertamento dell‟infrazione (e di conseguenza l‟irrogazione della sanzione amministrativa) da parte dell‟Autorità garante attraverso l‟assunzione dell‟impegno di cui al comma 7, potrebbe indurre i professionisti a violare di continuo - anche se con condotte non ritenute “di manifesta scorrettezza e gravità” - il divieto di pratiche commerciali scorrette, senza il timore inoltre di incorrere nelle pesanti sanzioni amministrative sopra elencate né tanto meno di veder accertata la natura scorretta di una pratica commerciale da un provvedimento dell‟AGCM, che potrebbe ben essere successivamente utilizzato da parte dei consumatori e/o delle associazioni dei consumatori all‟interno di un eventuale giudizio risarcitorio ex articolo 140 bis cod. cons. avanti all‟autorità giudiziaria ordinaria.
A questo punto, occorre procedere all‟analisi delle eventuali conseguenze privatistiche della violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette.
De Cristofaro ha addirittura parlato di “assordante” silenzio del legislatore italiano davanti alla mancata previsione di sanzioni di tipo privatistico in caso di violazione del divieto di cui all‟articolo 20, comma 1, cod. cons.
Ebbene, come osservato in maniera sapientemente critica dall‟Autore, l‟articolo 19, comma 2, lett. (a), cod. cons. fa espressamente salve le disposizioni normative in materia contrattuale, in particolare quelle sulla formazione, validità o efficacia del contratto; tuttavia, rimane oscura la effettiva portata di tale previsione.
A fronte del silenzio del legislatore interno pare di doversi escludere che la natura scorretta di una pratica, di per sé sola, possa portare alla nullità del contratto eventualmente concluso dal consumatore a seguito della suddetta pratica né quest‟ultimo sarà legittimo a recedere ad nutum dall‟accordo contrattuale. Stesso discorso potrebbe essere fatto con riferimento al
137Si veda il commento di De Cristofaro, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, cit., pag. 90.
rimedio dell‟annullamento, dal momento che - come noto - le cause di invalidità del contratto sono unicamente quelle previste per legge.
A questo punto, si può solo auspicare che quanto meno le nozioni tradizionali di “raggiri” e di “minacce” vengano rilette alla luce delle ipotesi previste dagli articolo 21 - 26 cod. cons., con particolare attenzione alla questione del dolo omissivo, proprio per poter almeno permettere l‟annullamento dei contratti conclusi dai consumatori che siano stati influenzati da pratiche commerciali scorrette.
Ulteriore problema sorge con riferimento al diritto del consumatore di agire per ottenere il risarcimento dei danni derivanti da una pratica scorretta.
De Cristofaro ha cercato di ricostruire tale diritto al risarcimento come derivante dal “diritto fondamentale” all‟esercizio delle pratiche commerciali secondo principi di “buona fede, correttezza e lealtà” previsti dall‟articolo 2, comma 2, lett. (c bis), un interesse giuridicamente rilevante e tutelato a favore di consumatori uti singuli. Di conseguenza, ravvisando gli estremi del danno ingiusto ex articolo 2043 c.c. nella violazione delle norme previste dagli articoli 20 e 39 cod. cons. Tuttavia, il consumatore che volesse chiedere il risarcimento del danno ai sensi dell‟articolo 2043 c.c. si vedrebbe costretto a dover provare
(i) la natura scorretta della pratica, (ii) la colpevolezza del professionista convenuto, (iii) le conseguenze dannose da lui subite e, soprattutto, (iv) il nesso di causalità tra la condotta ed i danni.
L‟articolo 27 ter, comma 2, cod. cons. prevede espressamente che in ogni caso il ricorso - proposto dai consumatori, anche tramite le loro associazioni o organizzazioni - nei confronti del professionista, a prescindere dall‟esito della procedura, “non pregiudica il diritto del consumatore di adire l‟Autorità, ai sensi dell‟articolo 27, o il giudice competente” (ossia del giudice ordinario). I rimedi esperibili avanti all‟autorità giudiziaria ordinaria potrebbero essere quelli risarcitori.
L‟articolo 140 bis cod. cons. (Azione collettiva risarcitoria) legittima le associazioni dei consumatori “ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al Tribunale del luogo in cui ha sede l‟impresa l‟accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori o utenti” “in conseguenza delle pratiche commerciali scorrette”.
Tuttavia, sarà la giurisprudenza a dover stabilire se le ricostruzioni sopra formulate siano idonee a fondare gli estremi del danno ingiusto ex articolo 2043 c.c.
Fatte salve le considerazioni sopra espresse, si potrebbe ritenere che il riconoscimento di una pratica commerciale come “scorretta” avrà una notevole influenza sulle valutazioni cui l‟interprete sia chiamato (tra i quali con ogni probabilità il giudice ordinario al quale il
consumatore si sia rivolto), con particolare attenzione al fatto che il professionista, nel corso di una trattativa, si sia comportato “secondo buona fede”, ai sensi dell‟articolo 1337 c.c., ovvero, nel caso in cui la pratica sia stata posta in essere a contratto già concluso, se il professionista abbia eseguito il contratto “secondo buona fede”, ai sensi dell‟articolo 1375 c.c.
2.2.5 PUBBLICITÀ INGANNEVOLE E PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE
2.2.5.1. INTRODUZIONE
Come si è più volte sottolineato, la Direttiva 29/2005/CE e le norme di recepimento hanno apportato diverse modifiche alla normativa in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, individuando altresì un nuovo ambito soggettivo di applicazione delle norme in materia di pubblicità ingannevole e comparativa illecita.
Infatti, le nuove disposizioni “hanno lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa”: ne emerge uno spostamento dal piano Business to Consumer a quello Business to Business.
Si può affermare che esista un doppio binario di tutela in materia ovvero:
i. il divieto di pratiche commerciali scorrette rilevante esclusivamente nei rapporti tra imprese e consumatori (regolato dal D.Lgs. n. 146/2007);
ii. il divieto di pubblicità ingannevole e comparativa illecita rilevante nei rapporti fra imprese disciplinato dal D.Lgs. 145/2007 (che abroga tutte le norme contenute precedentemente nel codice del consumo in materia di pubblicità ingannevole e comparativa).
La disciplina in materia di pubblicità esce così dal Codice del Consumo e torna ad essere, come del resto era inizialmente, una legge speciale, collocata fuori del Codice stesso.
Sono state sollevate138 diverse perplessità in merito alla nuova collocazione da chi ha dato un‟interpretazione che vuole le norme contenute in un Codice come leggi generali (nel nostro caso sul rapporto di consumo) e, in quanto tali, suscettibili di interpretazione analogica anche a fattispecie non rientranti in quelle codicistiche, mentre ciò non sarebbe possibile alle leggi speciali (di per sé non suscettibili di applicazione analogica). Tuttavia, tale ultimo discorso pare non possa essere fatto per il Codice del Consumo, che non si è rivelato come un vero e proprio codice, ma semmai come un testo unico.
138 Si veda X. Xxxxx, Codice del Consumo, commentato articolo per articolo con dottrina e giurisprudenza, Casa Editrice La Tribuna, 2008, pagg. 204 e ss.
Altri139, invece, hanno salutato con favore la nuova collocazione della normativa in materia di pubblicità commerciale, esprimendo tale scelta del legislatore italiano come il “rimedio ad un errore commesso due anni xxxxxx, quando inopinatamente si decise di introdurre nel D.Lgs. 206/2005 […] un complesso di disposizioni dichiaratamente finalizzate a tutelare, oltre ai consumatori, anche i professionisti nonché, più in generale, “gli interessi del pubblico nella fruizione dei messaggi pubblicitari”.
Tornando al rapporto tra disciplina delle pratiche commerciali sleali e disciplina sulla pubblicità, si precisa come tra le prime si possano rinvenire molte pratiche pubblicitarie di induzione all‟acquisto. Si precisa, però, richiamando le valutazioni svolte nel precedente capitolo 1, che tale ultimo collegamento pare essere stato superato: la Direttiva sulle pratiche commerciali si riferisce alle pratiche commerciali sleali (tra le quali anche quelli di pubblicità ingannevole) e come tali lesive degli interessi dei consumatori e, contestualmente anche se indirettamente, lesive anche degli interessi dei concorrenti leali. Tuttavia, l‟interesse di questi ultimi viene tutelato solo in via mediata, in quanto e nella misura in cui coincida con quello dei consumatori, unici veri destinatari della protezione normativa.
A protezione dei concorrenti, invece, è posta in via esclusiva la tutela della disciplina di cui al D.Lgs. 145/2007 sulla pubblicità: il relativo scopo è quello di tutelare “i professionisti” dalla pubblicità ingannevole, nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa. Dalla disciplina della pubblicità che, prima, era rivolta a proteggere gli interessi di tutti i soggetti (utenti) coinvolti, è stata adesso estromessa la tutela dei consumatori e, più in generale, la tutela degli interessi di coloro che non sono concorrenti.
Il comma 3 dell‟articolo 19 cod. cons., come già anticipato, stabilisce che “in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano gli aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”: ciò implica il prima di ogni disciplina speciale rispetto a quella generale del Codice del Consumo sulle pratiche commerciali scorrette, che rimane applicabile solo in caso di assenza di altre disposizioni speciali - sempre ovviamente di derivazione comunitaria - ossia relative ad “aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette”.
Tuttavia, tale ultimo primato appare difficilmente applicabile alla normativa in materia di pubblicità proprio a causa della separazione tra gli interessi dei consumatori e quelli dei professionisti, separati in maniera artificiosa e tutt‟altro che agevole. Sembrerebbe non
139 Cfr. G. De Cristofaro, La disciplina “generale” della pubblicità contenuta nel D.Lgs. 145/2007, in op. cit. pag. 490. L‟Autore sostiene come la disciplina della pubblicità ingannevole e comparative rappresenti un “corpo estraneo” al codice del consumo, non tanto perché rivolta a proteggere anche i professionisti (ovvero rilevi dal punto di vista soggettivo), ma piuttosto perché, indipendentemente dalla qualità dei soggetti, essa “è disciplina dell‟attività, mai dei rapporti”, mentre - al contrario - la disciplina trasposta nel codice del consumo ha lo scopo di disciplinare i rapporti tra consumatori e professionisti.
possibile la sovrapposizione tra le due discipline, che devono invece rimanere distinte e separate sulla base del criterio distintivo dell‟interesse tutelato: qualora si tratti di interesse del consumatore, si applicherà la disciplina delle pratiche commerciali, mentre quando si tratti dell‟interesse dei concorrenti, si applicherà la disciplina sulla pubblicità, così come modificata dall‟articolo 14 della Direttiva 29/2005/CE. Del resto, è stato giustamente sottolineato come sia possibile una integrazione/permeabilità delle due discipline (ed in particolare dei rispettivi principi), in quanto la Direttiva in materia di pratiche sleali è di armonizzazione massima, mentre quella in materia di pubblicità è una Direttiva di armonizzazione minima (facendo emergere come il legislatore italiano abbia avvertito l‟esigenza di disciplinare tale materia anche con una disciplina più puntuale e di dettaglio). Naturalmente ne emerge l‟esigenza di procedere ad una valutazione caso per caso che misuri i precetti contenuti nella legge speciale, secondo le regole di interpretazione ed applicazione seguite dall‟Autorità preposta al controllo nella prospettiva di una tutela più generale ossia, in sintesi, se la normativa speciale corrisponda a quanto regolato nella disciplina quadro di armonizzazione massima.
Ebbene, si precisa come l‟Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha sempre espresso un orientamento secondo il quale, nell‟ambito della pubblicità ingannevole e/o trasparente, non si può parlare di ingannevolezza se non c‟è lesione degli interessi dei consumatori, con espressa esclusione di uno spazio residuale di alcuna pubblicità ingannevole in cui possano risultare lesi solamente gli interessi dei professionisti. E, infatti, l‟Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, una volta accertata la portata ingannevole del messaggio pubblicitario verso i consumatori, ha ritenuto in re ipsa il pregiudizio economico nei confronti dei concorrenti: questi ultimi, infatti, risentono “dello sviamento di clientela provocato dall‟errore in cui dovessero incorrere i destinatari al momento di orientare le proprie scelte”140.
A questo punto ci si domanda quando la normativa speciale prevalga sulle norme generali in materia di pratiche sleali, se tale eventuale prevalenza si ponga solo in caso di contrasto tra la normativa speciale e quella generale oppure se sia ammessa anche nel caso in cui le due normative concordino tra di loro.
Partendo dalla considerazione della normativa sulle pratiche sleali come disciplina generale e sussidiaria da applicarsi in caso di mancanza di una disciplina specifica, si arriva alla logica conclusione che la normativa in materia di pubblicità, in quanto speciale, debba prevalere. Ciò a maggior ragione ove si ipotizzi una “permeabilità” tra le due discipline in commento. Tuttavia, si consideri che tale prevalenza non può di certo mettere in pericolo il principio di massima armonizzazione, che ha imperniato tutta la Direttiva 2005/29/CE. Pertanto, almeno in materia di pubblicità, ogni volta si rende necessaria una valutazione in
140 Cfr. Caso Chiusini Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxxx, PI/2144, Provv. 12175, in Boll. 27/2003.
concreto141. Si consideri, inoltre, come l‟Autorità Xxxxxxx abbia sempre operato tenendo ben presente gli orientamenti espressi in tema di pubblicità dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione Europea e, comunque, come gli indirizzi sono, ad oggi, espressi dalla stessa Autorità Garante possano essere utilizzati per eventualmente interpretare le numerose clausole generali in tema di valutazione della slealtà e/o ingannevolezza e/o diligenza professionale cui fa espresso rinvio la disciplina delle pratiche sleali (rectius, scorrette).
2.2.5.2 DISCIPLINA DELLA PUBBLICITÀ CONTENUTA NEL D.LGS 2 AGOSTO 0000 X. 000
Xx D.Lgs 2 agosto 2007 n. 145, già più volte citato, contiene sicuramente le norme indispensabili per recepire nell‟ordinamento interno l‟articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE, ma contiene inoltre previsioni decisamente più ampie. In tale decreto legislativo, infatti, è riportato l‟intero corpus normativo inizialmente contenuto nell‟ormai abrogato D.Lgs. 28 gennaio 1992, n. 74 (per l‟analisi maggiormente approfondita si veda il precedente Capitolo 1) e successivamente trasfusa negli articoli 18-27 cod. cons.
E‟ stato rilevato come la disciplina in materia di pubblicità, oggi contenuta negli articoli 1-7 del D.Lgs. 145/2007, sarebbe dovuta essere inserita all‟interno del codice civile, Capo I (“della disciplina della concorrenza”) del Titolo X del Libro V, nella stessa sezione dedicata alla concorrenza sleale oppure in un‟apposita sezione creata ad hoc: in questo modo, la disciplina generale della pubblicità avrebbe potuto essere integrata (e coordinata) con la disciplina della concorrenza sleale. Tuttavia, a fronte della ristrettezza dei tempi concessi al legislatore per esercitare la delega nonché in assenza di norme esplicite che autorizzassero tale intervento sul codice civile, hanno indotto il Governo alla creazione di un provvedimento ad hoc, esterno rispetto al codice civile e al codice del consumo.
Il D.Lgs. 145/2007 si divide in due parti:
(a) la prima per così dire sostanziale prevede un insieme di precetti comportamentali e di divieti imposti ai professionisti che predispongono, utilizzano e diffondono messaggi pubblicitari per promuovere i beni e i servizi che offrono sul mercato;
141 Pare opportuno procedere ad un‟esemplificazione: si consideri la “lista nera” delle pratiche comunque sleali di cui all‟allegato della Direttiva 2005/29/CE. Il punto 10 fa riferimento al “presentare i diritti conferiti ai consumatori dalla legge come una caratteristica dell‟offerta fatta dal professionista” (poi trasposta nell‟articolo
23 cod. cons., lett. l). A tale previsione può essere affiancata la regola, già precedentemente espressa dall‟Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, relativa alla “pubblicità trasparente” e più specificamente all‟utilizzo di termini come “garanzia” e “garantito” secondo la quale le garanzie “non possono mai essere le garanzie che per legge sono collegate al contratto (i.e., garanzia di buon funzionamento, recesso obbligatorio presentato come garanzia, ecc.), ma solo quelle particolari garanzie specifiche aggiuntive offerte volontariamente dall‟operatore pubblicitario, produttore dei beni e servizi oggetto di pubblicità come un quid pluris” (Autorità Garante, Provv., 4674, in Boll. 7/1997, 9129, in Boll. 3/2001).
(b) la seconda, invece, procedurale prevede la regolamentazione dei procedimenti speciali (di competenza dell‟Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) in virtù dei quali si svolge l‟accertamento della natura ingannevole o comunque illecita di un messaggio pubblicitario e sono adottati, di conseguenza, i provvedimenti inibitori, ripristinatori e sanzionatori nei confronti dei professionisti che abbiano predisposto e diffuso tra il pubblico tale messaggio (articolo 8).
La parte sostanziale, a sua volta, si suddivide in tre parti:
i. un gruppo di previsioni generali in materia di pubblicità (articolo 1, comma 2, e articoli 5-7 del decreto), stabilite dal legislatore italiano anche se non rappresentano il recepimento di alcuna normativa comunitaria;
ii. i precetti che si riferiscono specificatamente alla pubblicità ingannevole (articolo 2, lettera b) e articolo 3 del decreto) e recepiscono gli articoli 2, lettera b) e 3 della Direttiva 2006/114/CE;
iii. la disposizione che individua i requisiti di liceità della pubblicità comparativa (articolo 4 del decreto) e attua l‟articolo 4 della Direttiva 2006/114/CE.
Si noti che l‟ambito di applicazione di tutti e tre i gruppi di regole di cui ai precedenti punti i), ii) e iii) è il medesimo: infatti, unico comune denominatore dei tre gruppi è la definizione di “pubblicità” contenuta nell‟articolo 2, lettera a) del decreto in oggetto.
Requisiti necessari perché un messaggio possa qualificarsi come “pubblicità” (e di conseguenza essere assoggettato alla disciplina di cui al D.Lgs. 145/2007) sono le seguenti circostanze:
(1) il messaggio deve essere destinato alla “diffusione” ossia rivolto ad una cerchia più o meno ampia di soggetti che potrebbero - almeno in potenza - essere interessati al bene o al servizio cui il messaggio fa riferimento;
(2) la diffusione del messaggio deve essere strumentale alla promozione di beni o servizi ossia essere finalizzata allo stimolo ed induzione dei destinatari a concludere contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà dei beni (mobili ed immobili) cui il messaggio si riferisce o la costituzione di diritti reali o personali su tali beni, ovvero contratti aventi ad oggetto le prestazioni di facere funzionali alla realizzazione delle opere o alla fornitura dei servizi previsti nel messaggio;
(3) la diffusione del messaggio deve avvenire nell‟esercizio di un‟attività imprenditoriale o professionale (intendendosi sia l‟attività di diffusione del messaggio esercitata
direttamente dal professionista/imprenditore sia quella svolta su commissione di un professionista/imprenditore).
Irrilevante, invece, è il contenuto e la forma del messaggio, così come lo sono le modalità con le quali il messaggio è stato formulato ed i mezzi di comunicazione attraverso i quali esso è stato diffuso. Del pari sono irrilevanti la natura e le caratteristiche del bene (mobile o immobile, materiale o immateriale, ecc.) o del servizio cui il messaggio si riferisce, così come la tipologia di utilizzazioni cui esso si presta ad essere adibito; ancora, è irrilevante la circostanza che sia diretto ad un pubblico generico e indistinto oppure ad una cerchia di destinatari più limitata ed individuata e, in quest‟ultima ipotesi, la tipologia e la connotazione dei soggetti destinatari del messaggio.
Ne consegue che tutte le disposizioni previste dal D.Lgs. 146/2007, comprese quelle concernenti la pubblicità ingannevole (salvo quanto si preciserà nel prosieguo), saranno applicabili a qualsiasi messaggio pubblicitario: a prescindere dalla natura dei beni, dei servizi o dei diritti dei quali venga promosso l‟acquisto o il trasferimento, la natura dei soggetti cui è indirizzato e/o che ne siano raggiunti, nonché la natura (professionale o privata) degli scopi in vista dei quali tali beni o servizi si prestano ad essere impiegati, ogni messaggio pubblicitario, comunque formulato e diffuso, ricade sotto la disciplina del D.Lgs. 145/2007.
Evidente come nel nostro ordinamento vi sia un‟unica disciplina generale in materia di pubblicità commerciale, anche se vi è comunque la presenza di alcune discipline più specifiche caratterizzate da una limitazione del relativo ambito di applicazione (ossia per i messaggi pubblicitari sono indirizzati a soggetti qualificabili come “consumatori” ovvero per i soli messaggi diffusi attraverso determinati mezzi di comunicazione - ad esempio attraverso la radiotelevisione).
2.2.5.3 DEFINIZIONE DI “PROFESSIONISTA” E “OPERATORE PUBBLICITARIO”
Novità introdotta dal D.Lgs. 145/2007 è la previsione della definizione di “professionista”. A quest‟ultimo soggetto, adesso, si fa riferimento all‟interno della disciplina dei procedimenti avanti all‟Autorità Garante (cfr. articolo 8) ed alla tutela dei professionisti è finalizzata la disciplina del D.Lgs. 145/2007.
Per quanto riguarda la portata della definizione, quest‟ultima ricalca quella generale contenuta nell‟articolo 3, lettera c) cod. cons., identificando il professionista con la persona fisica o giuridica (nell‟accezione più ampia del termine, comprensivo anche degli enti collettivi non riconosciuti) che agisce nell‟ambito della propria attività imprenditoriale o professionale. Tuttavia, si precisa che rispetto alla definizione generale vi sia una differenza di un certo peso: l‟articolo 3, lettera c) cod. cons., infatti, include nella definizione di
“professionista” anche “l‟intermediario” del soggetto che agisce nell‟esercizio della propria attività professionale o imprenditoriale, mentre l‟articolo 2, lettera c) del D.Lgs 145/2007 prevede, accanto alla persona fisica o giuridica che agisce nell‟esercizio della propria attività professionale, anche la persona che agisce “in nome o per conto di un professionista”.
Si noti come il riferimento all‟”agire” operato dal legislatore, di fatto, renda la definizione di “professionista” particolarmente elastica e idonea ad essere adattata a seconda del contesto normativo nel quale sia di volta in volta impiegata; tuttavia, non si possono escludere alcune difficoltà interpretative.
Infatti, negli articoli 1 e 4, lettera g), è evidente come i “professionisti” siano gli imprenditori (individuali e collettivi) e liberi professionisti destinatari di messaggi pubblicitari relativi a beni o servizi suscettibili di essere utilizzati nell‟ambito delle rispettive attività professionali od imprenditoriali; tale evidenza non è invece riscontrabile nell‟accezione di cui all‟articolo 8 del decreto.
È pacifico che tale debba essere ritenuto il professionista o imprenditore (individuale o collettivo) che abbia commissionato e finanziato la realizzazione e la divulgazione del messaggio pubblicitario. Tale qualificazione può essere adattata anche alla persona fisica che, agendo in nome e per conto di una società o di un ente collettivo, abbia stipulato coi terzi i contratti necessari? Oppure si può forse dire che l‟agenzia pubblicitaria che, dietro incarico del professionista, abbia creato il messaggio pubblicitario e lo abbia successivamente diffuso, abbia agito “in nome e per conto del professionista”, rientrando così nella definizione di cui all‟articolo 8 del decreto?
La risposta a tali quesiti avrebbe risvolti di non poco momento nella prassi: infatti, se fosse affermativa, farebbe sì che anche i soggetti sopramenzionati possano essere considerati come parti nei procedimenti di competenza dell‟Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e, di conseguenza, destinatari dei provvedimenti da quest‟ultima adottati.
La definizione di “operatore pubblicitario” - rimasta immutata dal vecchio articolo 20, lett.
d) del codice del consumo - pone diversi problemi, soprattutto alla luce della sua ampiezza. Invero, tali problemi sarebbero stati superati nel caso in cui il Governo avesse eliminato - cosa che invece non ha fatto - la definizione di “operatore pubblicitario” in fase di redazione del D.Lgs n. 145/2007. Infatti, lo stesso articolo 8 relativo alla disciplina del procedimento davanti all‟Autorità Garante non fa più riferimento all‟“operatore pubblicitario” ma unicamente al “professionista”, facendo così venir meno qualsiasi necessità di mantenere una previsione così ampia. Ciò è tanto più vero se si considera che il Decreto Legislativo in commento prende in considerazione l‟“operatore pubblicitario” solamente nell‟articolo 3 lettera c) (Elementi di valutazione) e nell‟articolo 4 lettera d)