Edizione di martedì 16 ottobre 2018
Edizione di martedì 16 ottobre 2018
Procedimenti di cognizione e ADR
I confini tra mutatio ed emendatio libelli
di Laura Baccaglini
Procedimenti cautelari e monitori
È inammissibile il ricorso straordinario per Cassazione avverso l’ordinanza pronunciata in sede di reclamo cautelare
di Maddalena De Leo
Obbligazioni e contratti
La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico
di Martina Mazzei
Responsabilità civile
La fisionomia della compensatio lucri cum damno dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2018
di Stefano Gatti
Comunione – Condominio - Locazione
Il diritto di abitazione sulla casa coniugale in caso di successione ab intestato
di Saverio Luppino
Diritto successorio e donazioni
Conferma di disposizioni testamentarie nulle, possesso di beni assegnati a titolo di legato e rinuncia all’azione di riduzione
di Matteo Ramponi
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
La revocatoria delle rimesse su conto corrente scoperto
di Massimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati
Diritto Bancario
Alcune questioni sui mutui
di Fabio Fiorucci
Diritto del Lavoro
Legittimo il licenziamento del dirigente che tollera fondi neri
di Evangelista Basile
Privacy
Privacy in azienda: ripensare il modello organizzativo per minimizzare i costi e creare valore aggiunto
di Ludovica De Benedetti
Procedimenti di cognizione e ADR
I confini tra mutatio ed emendatio libelli
di Laura Baccaglini
Cass. civ., Sez. Un., 13 settembre 2018, n. 22404– Pres. Rordorf – Rel. Scrima
Processo civile – Domanda giudiziale – Mutatio libelli – Diversità di petitum e/o causa petendi –
Connessione per incompatibilità – Ammissibilità
(cod. proc. civ., art. 183 – cod. civ. 2041)
[1] È ammissibile la domanda di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. proposta, in via subordinata, con la prima memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, nel corso del processo introdotto con domanda di adempimento contrattuale, qualora si riferisca alla medesima vicenda sostanziale dedotta in giudizio, trattandosi di domanda comunque connessa (per incompatibilità) a quella inizialmente formulata.
CASO
Un professionista concludeva con un Comune un contratto d’opera intellettuale, eseguito il quale, domandava al giudice la condanna di controparte al pagamento del corrispettivo pattuito. A fronte dell’eccezione di nullità del contratto, che il convenuto sollevava in ragione della nullità delle deliberazioni di affidamento dell’incarico, l’attore, con memoria ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c., svolgeva, in via subordinata, domanda di condanna al pagamento dell’indennizzo, per arricchimento senza causa.
Nel giudizio di appello, promosso dal Comune contro la sentenza di accoglimento della domanda principale dell’attore, quest’ultimo riproponeva ex art. 346 c.p.c. quella rimasta assorbita, di arricchimento senza causa. Il giudice di seconde cure, accoglieva il gravame, ritenendo nullo il contratto ma escludeva di poter decidere nel merito la domanda ex art. 2041
c.c. riproposta dall’appellato: essa veniva giudicata inammissibile, in quanto domanda nuova, essendo stata proposta con memoria proposta ex art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c. e, perciò, tardivamente.
Nel ricorrere in Cassazione l’appellato soccombente prospettava, tra gli altri motivi, la violazione degli artt. 183 c.p.c. e 2041 c.c., contestando che la domanda di indebito arricchimento dovesse considerarsi “nuova” e dovesse perciò introdursi, in via subordinata alla domanda di adempimento contrattuale, già con atto di citazione.
Dando atto di un potenziale contrasto giurisprudenziale, la seconda sezione della Cassazione,
investita dell’impugnazione, rimetteva gli atti al Primo Presidente, prospettando la seguente questione “se nel giudizio promosso nei confronti di una Pubblica Amministrazione per l’adempimento di un’obbligazione contrattuale la parte possa modificare la propria domanda in una richiesta di indennizzo per arricchimento senza causa con la memoria ex art. 183, comma 6, n.1 c.p.c.”.
SOLUZIONE
[1] Le Sezioni Unite, nell’accogliere il ricorso, si conformano a un recente e noto precedente di legittimità che, pur riconoscendo che si ha mutamento della domanda quando variano il petitum e/o la causa petendi, ha però ammesso la proposizione della domanda nuova con la memoria ex art. 183, comma 6, n.1, quand’essa a) sia inerente alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio; b) sia connessa per incompatibilità a quella in origine proposta, c) non comporti la compressione del diritto di difesa avversario o un allungamento eccessivo dei tempi processuali (il riferimento è a Cass. sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310, ex multis in Corr. giur., 2015, 965, nt. C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”: ammissibili in primo grado ancorché (chiaramente e irriducibilmente) diverse da quella originaria cui si cumuleranno; in Riv. dir. proc., 2016, 807, nt. E. Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli da “alternatività sostanziale” nel giudizio di primo grado). La pronuncia in epigrafe, dando applicazione a quel principio e riconoscendo nel caso di specie la ricorrenza di tutti i presupposti indicati nel precedente, cassa la sentenza impugnata con rinvio e ammette la proposizione, in via subordinata, della domanda di arricchimento senza causa nella prima memoria ex art. 183, comma 6 c.p.c.
QUESTIONI
[1] La questione affrontata inerisce al tema dell’individuazione della domanda giudiziale ed in specie del ruolo assunto dalla causa petendi in questo contesto (per tutti, A. Cerino Canova, La domanda giudiziale e il suo contenuto, in E. Allorio, Commentario al cod. proc. civ. II, Torino, 1980, 15 ss.; C. Consolo, voce Domanda giudiziale, in Dig. disc. priv., VII, Torino, 1991; A. Chizzini, L’art. 2907 c.c. La tutela giurisdizionale dei diritti, Milano, 2018, spec. 451 ss.). La soluzione accolta dalla Cassazione è frutto di un confronto analitico dei due opposti orientamenti in dottrina e giurisprudenza formatisi in subiecta materia (in arg. E. D’Alessandro, L’oggetto del giudizio di cognizione, Torino, 2016, passim, spec. 230 ss.).
Da un lato, infatti, si colloca l’indirizzo giurisprudenziale più restrittivo, che ha trovato espressione in Cass. sez. un., 27 dicembre 2010, n. 26128, in Riv. dir. proc., 2011, 1573, con nota di S.A. Villata, secondo cui le domande di arricchimento senza causa e di adempimento contrattuale riguarderebbero diritti etero-determinati; esse si distinguerebbero per petitum (nel primo caso, il semplice indennizzo, nel secondo, il corrispettivo pattuito) e per causa petendi (l’impoverimento di chi agisce a fronte dell’altrui locupletazione, da una parte, e il contratto, dall’altra); trattandosi di domande tra loro non interscambiabili, non essendo “articolazioni diverse di un’unica matrice”, il passaggio dall’una all’altra determinerebbe una vera e propria mutatio libelli, consentita all’attore solo se provocata da una iniziativa avversaria che abbia introdotto un nuovo tema di indagine; ne deriverebbe l’ammissibile
mutatio libelli solo entro la prima difesa utile successiva all’attività di controparte: all’udienza ex art. 183 c.p.c., se si tratta di replicare alla domanda riconvenzionale del convenuto o alla proposizione di un’eccezione; oltre questi termini, l’introduzione di una domanda nuova sarebbe inammissibile, e la sua tardività sarebbe soggetta a rilievo officioso del giudice, indipendentemente dall’atteggiamento processuale assunto dalla parte.
Dall’altro lato, a questa rigorosa lettura (inerente oltretutto ad un caso identico a quello affrontato dalla Cassazione in epigrafe) se ne contrappone un’altra, formulata più di recente e con valenza sistematica ben più ampia della precedente, sopra menzionata, nella quale la fattispecie riguardava il passaggio da una domanda costitutiva ex art. 2932 c.c. ad una di accertamento del diritto di proprietà che è considerato ammissibile, anche quando lo svolgimento della seconda domanda, in via subordinata alla prima si abbia con memoria ex art. 183, comma 6, n.1 c.p.c.
Questa diversa ricostruzione non rinnega certo la tradizionale impostazione secondo cui nelle domande eterodeterminato il petitum e la causa petendi concorrono all’esatta identificazione della domanda sì che la variazione, dell’uno o dell’altro elemento, comporta una domanda nuova. Ciononostante, si ammette la mutatio libelli anche con la memoria ex art. 183, comma 6,
n. 1 qualora: a) la domanda modificata si ponga in via alternativa a quella iniziale; b) riguardi la medesima vicenda sostanziale, ossia la stessa fattispecie da un punto di vista economico- fattuale; c) sia salvaguardato il diritto di difesa della controparte. Si pone dunque l’accento sull’identità del bene della vita domandato dall’attore (così già C. Gamba, Domande senza risposta, Padova, 2008, 250). Oltretutto, se è vero che la causa petendi è funzionale all’identificazione del diritto fatto valere, sono frequenti i casi in cui alla variazione dei fatti principali non corrisponde la diversità del diritto fatto valere (E. Merlin, Ammissibilità della mutatio libelli, cit., 821; anche M. Bove, Individuazione dell’oggetto del processo e mutatio libelli, nt. a Cass. 9 maggio 2016 n. 9333, in Giur. it., 2016, 1607). Alle predette condizioni, la novità della domanda è considerata legittima, anche alla luce del principio di conservazione degli atti e di quello di economia processuale, per garantire un’interpretazione delle norme processuali, tesa alla ricerca della verità sostanziale (C. Consolo, Le S.U. aprono alle domande “complanari”, cit., 972; M. Monnini, Le Sezioni Unite ammettono la modificazione della domanda sino alla prima memoria ex art. 183, 6°comma, c.p.c., in Giusto proc. civ., 2017, 402).
Questa conclusione (da ultimo sposata da Cass. 25 maggio 2018, n. 13091; Cass. 11 dicembre 2017, n. 29619; Cass. 28 novembre 2017, n. 28385; Cass. 21 novembre 2017, n. 27565; Cass. 31.7.2017 n. 18956), è fatta propria anche dalla sentenza in epigrafe, la quale ritiene che il rapporto di incompatibilità, logica prima che normativa, che lega le domande di adempimento e, rispettivamente, di indebito arricchimento inerisca alla medesima vicenda sostanziale (così già E. D’Alessandro, L’oggetto, cit., 242). L’identità del bene della vita domandato è tale, perciò, da giustificare, anche in sede di memoria ex art. 183, comma 6, n.1 c.p.c. il passaggio dall’una all’altra o la deduzione della seconda, in via subordinata al rigetto della prima.
Procedimenti cautelari e monitori
È inammissibile il ricorso straordinario per Cassazione avverso l’ordinanza pronunciata in sede di reclamo cautelare
di Maddalena De Leo
Corte di Cassazione, sentenza n. 9830/2018
Ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. – Procedimento cautelare in materia civile – Ordinanza emessa in sede di reclamo cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c. – Inammissibilità del ricorso straordinario (cod. proc. civ. artt. 669 octies, 669 nonies, 669 terdecies, 700; Cost. art. 111 co. 7)
[1] È inammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza pronunciata in sede di reclamo cautelare ex art. 669-terdecies c.p.c. (nella specie, avente ad oggetto la conferma di un provvedimento emesso ex art. 700 c.p.c.), essendo la stessa destinata a perdere efficacia e vigore a seguito della decisione di merito e, pertanto, inidonea a produrre effetti sostanziali e processuali con autorità di giudicato.
FATTO
Le società Alfa e Beta hanno agito con ricorso ex art. 700-669 bis c.p.c., congiuntamente o alternativamente, quali lessor e lessee, per il rilascio dell’immobile occupato illegittimamente dalla società Gamma, essendo stato risolto il contratto di locazione finanziaria a causa dell’inadempimento della società Delta, la quale aveva affittato l’azienda alla società Gamma a insaputa della società di leasing.
Il ricorso cautelare ante causam è stato accolto dal Tribunale di Ancona per quanto concerne la pretesa della sola società di leasing, unica legittimata ad agire in quanto proprietaria del bene. Contro l’ordinanza cautelare è stato proposto reclamo dalla società Gamma ai sensi dell’art.
669 terdecies c.p.c., il quale è stato respinto dal Tribunale di Ancona in composizione collegiale.
Avverso l’ordinanza emessa in sede di reclamo cautelare la società Gamma ha proposto ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost., deducendo che tale provvedimento aveva carattere definitivo e decisorio, come si desumeva dalla condanna alle spese processuali della fase cautelare contenuta nell’ordinanza, nonché dal fatto che l’introduzione del giudizio di merito rappresentava una mera facoltà per le parti e non un obbligo, stante l’efficacia anticipatoria del provvedimento. Inoltre, Gamma ha rilevato che l’ordinanza, incidendo sul terreno di diritti soggettivi, è idonea a causare un pregiudizio irreparabile alla società
ricorrente e a divenire cosa giudicata.
SOLUZIONE
Per la Suprema Corte il ricorso straordinario per cassazione è inammissibile, perché il provvedimento impugnato non ha carattere definitivo, costituendo una misura cautelare e provvisoria anche per gli effetti che può produrre in via anticipata nel momento in cui viene portato ad esecuzione perché, pur coinvolgendo diritti soggettivi e contenendo statuizioni di condanna alle spese processuali in via anticipata rispetto al giudizio di merito, non statuisce su detti diritti a definizione di una controversia, né ha attitudine ad acquistare autorità di giudicato sostanziale, a fronte della facoltà della parte di attivarsi per avviare il giudizio di merito al fine di accertare l’infondatezza dei presupposti di diritto posti a fondamento della pronuncia cautelare.
QUESTIONI
L’art. 669 terdecies c.p.c. prevede che contro l’ordinanza che decide il ricorso cautelare, concedendo o negando il provvedimento cautelare richiesto, si possa proporre, entro il termine perentorio di quindici giorni dalla pronuncia in udienza ovvero dalla comunicazione o dalla notificazione se anteriore, reclamo al collegio, il quale – precisa il quinto comma – “convocate le parti, pronuncia, non oltre venti giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la quale conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare”. Del collegio non può far parte il giudice della prima fase cautelare, che ha emesso il provvedimento impugnato mediante reclamo.
Nel caso di specie, il soccombente ha proposto ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso l’ordinanza emessa dal collegio in sede di reclamo, deducendo la definitività e la decisorietà di tale ordinanza, poiché, da un lato, incideva sul terreno dei diritti soggettivi, potendo causare un danno irreparabile e, dall’altro, condannando alle spese processuali, decideva definitivamente sulla situazione giuridica controversa, essendo meramente facoltativa l’introduzione del giudizio di merito, stante l’efficacia anticipatoria del provvedimento, secondo quanto prevede in proposito l’art. 669 octies c.p.c.
La Suprema Corte, soffermandosi pregiudizialmente sull’ammissibilità o meno del ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111, co. 7, Cost., avverso l’ordinanza emessa in sede di reclamo cautelare, lo ha ritenuto giustamente inammissibile.
Infatti, sebbene il provvedimento giudiziale emesso in forma di decreto o di ordinanza possa essere oggetto di ricorso straordinario per cassazione quando abbia contenuto sostanziale di sentenza, lo stesso, ai fini dell’impugnabilità con ricorso straordinario per cassazione, deve comunque possedere i caratteri della decisorietà e della definitività, cioè deve incidere sui diritti e sulle posizioni soggettive delle parti con attitudine al giudicato, non essendo suscettibile di modifiche né soggetto ad alcun mezzo di impugnazione.
Con riferimento ai provvedimenti resi in sede di reclamo cautelare ex art. 669 terdecies c.p.c. e ai provvedimenti cautelari in genere, la Corte, ribadendo un principio consolidato nella giurisprudenza, non ravvisa la sussistenza di tali caratteri, trattandosi di provvedimenti destinati a perdere efficacia e vigore a seguito della decisione di merito e, pertanto, inidonei a produrre effetti di diritto sostanziale e processuale con autorità di giudicato (Cass. n.
19720/2016; Cass. n. 4904/2015; Cass. n. 896/2015; Cass., Sez. Un., n. 824/95).
Infatti, il tipico carattere strumentale del provvedimento cautelare rispetto al giudizio di merito non è venuto meno a seguito della riforma del 2005-2006, la quale ha introdotto una distinzione tra provvedimento cautelare anticipatorio e conservativo ed ha altresì inciso sulla provvisorietà tipica del provvedimento cautelare, attenuandola notevolmente con riferimento ai provvedimenti cautelati anticipatori, come quelli emessi ex art. 700 c.p.c.
Infatti, l’art. 669 octies, co. 6, c.p.c. prevede che il provvedimento cautelare anticipatorio non perda efficacia nel caso in cui non venga introdotto o si estingua il giudizio di merito, non trovando applicazione l’art. 669 ocites co. 1 e 2 c.p.c. e l’art. 669 nonies c.p.c. La disciplina sull’inefficacia del provvedimento cautelare per mancata o tardiva introduzione del giudizio di merito o per estinzione dello stesso trova applicazione soltanto nel caso di provvedimenti cautelari conservativi. Tuttavia, precisa l’art. 669 octies co. 6 c.p.c., ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito. Pertanto, a fronte di tale modifica, la parte destinataria del provvedimento cautelare anticipatorio che voglia far rivedere la decisione cautelare contenuta nell’ordinanza confermata in sede di reclamo, è gravata dell’onere di proporre l’azione di merito volta ad accertare l’infondatezza della pretesa fatta valere nell’azione cautelare.
Sebbene, quindi, per i provvedimenti anticipatori, la fase di merito sia divenuta una fase eventuale, con conseguente indebolimento del carattere strumentale, non è comunque ammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso l’ordinanza cautelare che conceda tali misure anticipatorie, non essendo un provvedimento definitivo. Invero, l’ultimo comma dell’art. 669 octies c.p.c., precisando che “l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo”, stabilisce a chiare lettere che l’ordinanza cautelare ad effetti anticipatori non è idonea a divenire cosa giudicata.
Obbligazioni e contratti
La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico
di Martina Mazzei
Cass. civ., sez. III, 10 luglio 2018, n. 18047 – Pres. Chiarini – Rel. Di Florio
[1-2] Obbligazioni e contratti – Causa in concreto – Impossibilità sopravvenuta della prestazione
– Risoluzione del contratto – Contratto sinallagmatico – Rimedi restitutori
(Cod. civ., artt. 1463, 1345, 1256, 1325)
[1] La causa in concreto – intesa quale scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato
– conferisce rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra.
[2] La risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella in cui la prestazione sia rimasta possibile. In particolare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione.
CASO
[1-2] Tizio e Caia convennero in giudizio, dinanzi al Giudice di pace di Bologna, una società di tour operator e, premesso di aver acquistato dalla stessa un pacchetto turistico all inclusive al quale avevano dovuto rinunciare a causa della grave e improvvisa patologia che aveva colpito Tizio, domandarono la condanna alla restituzione della somma pagata. Il Giudice di prime cure accolse la domanda e, il Tribunale di Bologna, adito dalla società in sede d’appello, confermò la sentenza.
Il tour operator ricorreva, quindi, alla Suprema Corte deducendo, in particolare, la violazione degli artt. 1463, 1256, 1325 e 1345 c.c. e contestando l’erronea interpretazione degli artt. 1463 e 1345 c.c. assumendo che il giudice d’appello aveva confuso la causa del contratto con i motivi di esso. Nella specie, la parte ricorrente lamenta lo spostamento del rischio imprevisto interamente a proprio carico.
SOLUZIONE
[1-2] La terza sezione della Corte di Cassazione, rigettando il ricorso e dichiarando taluni motivi infondati ed altri inammissibili, conferma la sentenza d’appello, in accoglimento delle pretese risarcitorie sulla base della norma generale contenuta nell’art. 1463 c.c.
La Suprema Corte afferma, in primo luogo, che il Tribunale aveva fatto corretta applicazione delle norme richiamate, inquadrando la fattispecie in esame nell’ipotesi in cui la causa del contratto, consistente nella fruizione di un viaggio con finalità turistica, diviene inattuabile per una causa di forza maggiore, non prevedibile e non ascrivibile alla condotta dei contraenti. In secondo luogo, chiarisce la portata dell’istituto della risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, specificando che può essere invocato da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico (e, cioè, sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile) con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori.
QUESTIONI
[1] Nella pronuncia in commento vengono affrontate due importanti questioni giuridiche. In primo luogo, la Cassazione ha modo di ribadire, come si desume dalla massima sopra riportata, il concetto di causa in concreto sottolineandone sia la portata sia la correlazione con i motivi del contratto.
La teoria della causa in concreto (FERRI, Causa e tipo del negozio giuridico, Milano, 1965; BIANCA, Diritto civile, vol. 3, Il contratto, Milano, 1987, 425 ss; GAZZONI, Manuale di diritto privato, Napoli, 2006, 808), sorta, in dottrina, per arginare i limiti delle precedenti teorie, intende la causa come la funzione economico-individuale del negozio: la causa in concreto diviene, infatti, la sintesi ultima non solo degli elementi essenziali del contratto ma di tutti gli indici costitutivi del negozio, sia primari che secondari, assumendo il ruolo di giustificazione razionale della convenzione. Tale teoria fu accolta formalmente dalla Corte di Cassazione con una nota sentenza (Cass. 8 maggio 2006, n. 10490) che, definendo la causa come funzione economico-individuale del contratto, riconduce la funzione economico-sociale, propria di tutti i contratti di uno stesso tipo, alla concretezza del singolo contratto e alla funzione realmente perseguita dalle parti nella singola fattispecie contrattuale. In tal modo la funzione da apprezzare è quella che le parti intendono concretamente realizzare ricorrendo o ad uno schema tipo, delineato dall’ordinamento, o ad uno schema originale elaborato dalle stesse per il caso concreto.
Nella sentenza in commento, pertanto, la III Sezione ha ribadito un orientamento che, sebbene recente, si è oramai consolidato in sede di legittimità (cfr. Cass. 16 maggio 2017, n. 12069; Cass. 3 aprile 2013, n. 8100; Cass. 12 novembre 2009, n. 23941) ovvero quello secondo il quale la causa in concreto va intesa come scopo pratico del contratto, in quanto sintesi degli interessi che il singolo negozio è concretamente diretto a realizzare, al di là del modello negoziale utilizzato. Tale prospettiva consente di conferire rilevanza ai motivi, sempre che questi abbiano assunto un valore determinante nell’economia del negozio, assurgendo a presupposti causali, e siano comuni alle parti o, se riferibili ad una sola di esse, siano comunque conoscibili dall’altra. Il Tribunale, nella specie, nella congiunta valutazione della causa e dei motivi che avevano indotto all’acquisto del pacchetto turistico, aveva dato forma al concetto di causa concreta del contratto attinente all’aspetto della funzione economico – sociale del negozio giuridico posto in essere.
Lo stesso organo giudicante, pertanto, avendo valutato come gravissimo l’impedimento che non aveva consentito ai contraenti di fruire della prestazione, aveva fatto corretta applicazione delle norme di cui agli artt. 1463 e 1345 c.c., inquadrando la fattispecie in esame nell’ipotesi in cui la causa del contratto, consistente nella fruizione di un viaggio con finalità turistica, diviene inattuabile per una causa di forza maggiore, non prevedibile e non ascrivibile alla condotta dei contraenti. (Sulla responsabilità della prestazione come inidoneità della prestazione a soddisfare l’interesse del creditore BIANCA, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1992, 383; MINERVINI, Pacchetto turistico e rinuncia del viaggiatore per calamità naturale, in Il civilista, 2008, n. 3).
[2] L’ulteriore passaggio compiuto dalla Corte per giustificare la corretta applicazione dell’art 1463 c.c. riguarda il fatto che la causa concreta sia criterio di adeguamento allo scopo di verificare l’incidenza di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo svolgimento del rapporto. Il pregio di questa sentenza è, infatti, quello di aver sottolineato, nuovamente, l’incidenza del concetto di causa in concreto sul piano funzionale del contratto. L’attenzione ricade sul sinallagma funzionale e quindi sugli effetti dell’irrealizzabilità della causa in concreto sul rapporto tra le prestazioni corrispettive.
L’impossibilità di utilizzazione della prestazione da parte del creditore è, in particolare, un’autonoma causa di estinzione dell’obbligazione. L’art. 1463 c.c., secondo la Corte, assume una funzione di protezione in relazione alla parte impossibilitata a fruire della prestazione pattuita ed è, dunque, funzionale, proprio alla ricostituzione del sinallagma compromesso, non spostando l’ambito contrattuale della responsabilità bensì dovendosi interpretare – come correttamente fatto dal Tribunale – tenendo conto sia del rischio generale connaturato all’attività imprenditoriale sia del dovere di solidarietà sociale universalmente applicabile.
La Suprema Corte chiarisce, infatti, che l’impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico. Tale impossibilità non ricorre solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l’esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l’utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al
creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell’obbligazione. (Cass. 20 dicembre 2007, n. 26958 in Contratti, 2008, 786, con nota di BARBIERA, Risoluzione per impossibilità sopravvenuta e causa concreta del contratto a confronto; nello stesso senso anche Cass. 24 luglio 2007, n. 16315. In dottrina v. IZZI, Causa in concreto e sopravvenienze nel contratto di viaggio vacanza tutto compreso, in Giur. It., 2008, 1133 e ss; FEDE, Sopravvenuta inutilizzabilità della prestazione, in Studium iuris, 2008, 877 ss; ROLFI, Funzione concreta, interesse del creditore ed inutilità della prestazione: la Cassazione e la rielaborazione del concetto di causa in concreto, in Corr. Giur., 2008, 921 ss)
Ne deriva, infine, quale ulteriore conseguenza, l’esclusione della validità dell’assunto per cui l’impossibilità sopravvenuta debba essere necessariamente ricollegata al fatto di un terzo: la non imputabilità al debitore (ex art. 1256 c.c.) non restringe il campo delle ipotesi ma, per quanto sopra argomentato, consente di allargare l’applicazione della norma a tutti i casi, meritevoli di tutela, in cui sia impossibile, per eventi imprevedibili e sopravvenuti, utilizzare la prestazione oggetto del contratto.
Responsabilità civile
La fisionomia della compensatio lucri cum damno dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2018
di Stefano Gatti
Abstract
La regola che la nota espressione latina “compensatio lucri cum damno” (d’ora in avanti abbreviata con l’acronimo c.l.c.d.) sintetizza è stata oggetto, nell’anno in corso, di un’importante risistemazione giurisprudenziale, grazie all’opera, che risulta coordinata negli esiti, del massimo consesso della giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Ad. plen., 23 febbraio 2018, n. 1) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. un., 22 maggio 2018, nn. 12564, 12565, 12566, 12567: d’ora in avanti anche ricordate, per brevità, come “le Sezioni Unite del 2018”). L’ammodernamento dello statuto giurisprudenziale della c.l.c.d. ha trovato impulso e apporto significativo – ma non già la soluzione – nelle ordinanze di rimessione alle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. civ., Sez. III, 22 giugno 2017, nn. 15534, 15535, 15536, 15537: d’ora in avanti anche ricordate, per brevità, come “le ordinanze di rimessione”), le quali si pongono in linea di continuità con le dirompenti sentenze cc.dd. “Rossetti” (dal nome del Consigliere Relatore) del 2014 (Cass. civ., Sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233 e Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537) e del 2016 (Cass. civ., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7774) oltre che con Cass. civ., Sez. III, 5 marzo 2015, n. 4447, precedente ordinanza di rimessione della questione della c.l.c.d. alle Sezioni Unite (le quali – Cass. civ., Sez. Un., 30 giugno 2016, n. 13372 – non si pronunciarono però sul punto: sulla questione, in relazione alla vicenda concreta, cfr. ampiamente, i tre “atti” e le “conclusioni” del saggio di U. Izzo, È nato prima il danno o la sicurezza sociale?, rispettivamente in Resp. civ. e prev., 2015, p. 1816 e, in Resp. civ. e prev., 2016, pp. 40, 399 e 759, nonché Id, Surrogarsi nel nulla? Le Sezioni unite (per ora?) non toccano i fondamenti della compensatio lucri cum damno, in Resp. civ. e prev., 2016, p. 1224).
1. Il fondamento della “compensatio lucri cum damno”.
L’espressione “compensatio lucri cum damno” indica, in via di prima approssimazione, la necessità che, ai fini della determinazione del risarcimento del danno, in ipotesi tanto di responsabilità contrattuale quanto di responsabilità extracontrattuale, si tenga conto non solo dei pregiudizi subiti dal danneggiato, ma anche dei vantaggi che il medesimo abbia eventualmente conseguito in ragione del fatto illecito o dell’inadempimento.
Sulla bontà, sempre in via generale, di questa indicazione, residuano ben pochi dubbi in dottrina (le voci contrarie sono rimaste nettamente minoritarie) e non si registrano incertezze
in giurisprudenza, se si fa eccezione di qualche isolata pronuncia.
Nel dibattito, tuttavia, i problemi sorgono già sul piano dell’inquadramento della c.l.c.d, ossia allorché ci si chieda se si tratti di un principio, di una regola o di un istituto dell’ordinamento giuridico. Si è d’accordo, in ogni caso, nel ricordare la matrice dottrinale e giurisprudenziale della figura e nell’affermare che essa nulla ha a che vedere con la compensazione di cui agli artt. 1241 ss. cod. civ., modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento (una conseguenza si rinviene nell’orientamento, generalmente accettato, della rilevabilità d’ufficio dei vantaggi da “diffalcare” dal danno, mentre la compensazione ex art. 1241 ss. cod. civ. deve essere eccepita, giusta l’art. 1242, co. 1°, cod. civ.: cfr., ex aliis, Cass. civ., Sez. III, 20 gennaio 2014, n. 992 e le ordinanze Cass. civ., Sez. III, 22 giugno 2017, nn. 15534, 15535, 15537; cfr., sul punto, M. Ferrari, La compensatio lucri cum damno come eccezione rilevabile d’ufficio, in Resp. civ. e prev., 2015, p. 666). Diversi autori, peraltro, ritengono che la c.l.c.d. non costituisca una figura autonoma, risolvendosi la relativa questione nella corretta applicazione dell’art.
1223 cod. civ. (cfr. M. Franzoni, Il danno risarcibile, II, in Trattato della responsabilità civile dal medesimo diretto, Milano, 2010, p. 39 ss.).
Le Sezioni Unite della Suprema Corte, nelle menzionate pronunce del 2018, seppure incidentalmente, hanno accolto la tesi secondo cui la c.l.c.d. costituisce una «regola di evidenza operativa per la stima e la liquidazione del danno» e ne hanno rinvenuto il fondamento «nell’idea del danno risarcibile quale risultato di una valutazione globale degli effetti prodotti dall’atto dannoso». Il discorso può quindi ricondursi all’art. 1223 cod. civ., da cui si ricava il principio secondo il quale il risarcimento deve comprendere tutto (e solo) il danno, garantendo alla vittima dell’illecito un ristoro del pregiudizio tale da riportarla in una situazione di indifferenza rispetto alle conseguenze dell’illecito, senza che quest’ultimo si tramuti in un’occasione di arricchimento. Come si dirà subito, tuttavia, perché operi la compensatio, a fianco della causalità giuridica (ex art. 1223 cod. civ.), devono ricorrere ulteriori requisiti, il cui vaglio richiede un’analisi necessariamente casistica.
2. L’ambito di operatività della compensatio lucri cum damno.
A prescindere dal suo inquadramento, è sul piano della operatività della c.l.c.d. che si sono registrate le maggiori incertezze.
Le Sezioni Unite hanno difatti confermato l’esistenza di un «contrasto occulto» (come lo hanno definito le ordinanze di rimessione e ancora prima Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537) in seno alla giurisprudenza di legittimità sul problema, più specifico, del campo di applicazione della c.l.c.d.
Sul piano pratico, l’orientamento giurisprudenziale tradizionale maggioritario aveva sovente relegato alla irrilevanza la c.l.c.d., poiché, mentre da un lato si affermava l’indubbia vigenza della regola, dall’altro lato se ne subordinava l’applicazione a presupposti alquanto stringenti, nei fatti di rado sussistenti (cfr. ad es., G. Giusti, voce «Compensatio lucri cum damo», in Dig. disc. priv. Sez. civ., Agg., 2011, p. 202 ss.; M. Franzoni, ibidem).
In particolare, ai fini dell’operatività del diffalco, in numerose pronunce si è precisato che il lucro dovesse essere “immediatamente e direttamente” riconducibile al fatto illecito (ad es., Cass. civ., Sez. III, 20 maggio 2013, n. 12248) e che quest’ultimo, quindi, non dovesse costituire una semplice “occasione” del vantaggio (ad es. Cass. civ., 30 luglio 1987, n. 6624); in altre sentenze si è invocata la necessità di un’omogeneità dei titoli da cui discendono pregiudizi e vantaggi (cfr., ad es., Cass. civ., Sez. III, 10 febbraio 1999, n. 1135)
A queste così rigide concezioni, si sono mosse due critiche di fondo. Per un primo verso, la regola eziologica della derivazione “immediata e diretta” non terrebbe conto dell’evoluzione giurisprudenziale nel campo della causalità (in senso ampio) giuridica, ormai stabilmente approdata alla teoria della regolarità causale, sicché non si vedrebbe ragione per trattare diversamente le conseguenze pregiudizievoli e quelle vantaggiose (si tratta della
«interpretazione asimmetrica» dell’art. 1223 cod. civ. criticata dalle ordinanze di rimessione); per un secondo verso, come le Sezioni Unite del 2018 hanno osservato, condividendo un rilievo delle stesse ordinanze di rimessione del 2017, «è assai raro che le poste attive e passive abbiano entrambe titolo nel fatto illecito».
Sulla scorta di queste critiche, con le citate pronunce Cass. civ., Sez. III, 11 giugno 2014, n. 13233 (in tema di indennizzi assicurativi), Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537 (in tema di pensione di reversibilità), Cass. civ., Sez. III, 20 aprile 2016, n. 7774 (in tema di indennità di accompagnamento), mercé una serrata argomentazione, aveva preso una certa consistenza un orientamento, prima sostenuto più sporadicamente e in alcuni settori (è richiamata ad esempio la questione – invero ricondotta dalla dottrina al di fuori del problema della c.l.c.d.: cfr. De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, I, Milano, 1979, p. 326 – della cumulabilità del risarcimento del danno da incapacità lavorativa con lo stipendio che il lavoratore continui eventualmente a percepire, risolta in senso negativo dall’orientamento più recente della Suprema Corte, cfr. già Cass. civ., Sez. III, 11 luglio 1978, n. 3507), più favorevole, in concreto, allo scomputo dell’emolumento ricevuto da un terzo. Secondo il cardine “logico”, “dogmatico” e “sistematico” (per riprendere i tipi dei “vulnera” dell’orientamento tradizionale restrittivo enucleati nella motivazione della citata Cass. civ., Sez. III, 13 giugno 2014, n. 13537 e ripresi dalle ordinanze di rimessione) di tale indirizzo, la regola dello scomputo (solo apparentemente riconducibile ad un istituto autonomo, ma in realtà derivazione del principio di indifferenza del risarcimento) deve essere emancipata da presupposti estranei alla causalità giuridica; a ciò si aggiunge la considerazione che il cumulo priverebbe, in concreto, il terzo che abbia erogato il beneficio, della possibilità di esercitare il diritto di surrogazione, normalmente concessogli dalla legge.
L’avere riscontrato nella c.l.c.d. niente più che una manifestazione del principio del danno effettivo candidava la soluzione avanzata dall’orientamento appena ricordato a risolvere ogni problema di concorso tra danno e benefici erogati da soggetti terzi, pubblici o privati.
Va segnalato che l’angolo prospettico da cui le ordinanze di rimessione della Cassazione si sono mosse non è tanto giungere ad una soluzione dogmaticamente ineccepibile, quanto, piuttosto fornire agli operatori una regola certa e il più possibile prevedibile negli esiti della
sua applicazione (è in particolare richiamato l’art. 65 ord. giud.).
Le Sezioni Unite della Cassazione, così come prima già l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, hanno però preferito evitare generalizzazioni.
In particolare, la seconda, chiamata a decidere se fosse detraibile dal risarcimento del danno alla salute, spettante ad un dipendente pubblico (un magistrato) per una malattia contratta in seguito ad esposizione all’amianto presente negli uffici in cui lavorava, quanto ricevuto a titolo di indennità per l’infermità riconosciuta come dipendente da causa di servizio (cfr. art. 68 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 ratione temporis vigente), ha premesso che la questione generale della c.l.c.d. non può trovare una soluzione «unitaria», essendo «strettamente correlata alla specificità delle fattispecie concrete».
Le Sezioni Unite, impegnate a risolvere la questione dello scomputo di alcune prestazioni erogate da soggetti terzi (v. infra par. 4), hanno precisato che il più ampio e generale interrogativo posto dalle ordinanze di rimessione è stato esaminato «nei limiti della sua rilevanza: fino al punto, cioè, in cui esso rappresenta un presupposto o una premessa sistematica indispensabile per l’enunciazione, a risoluzione del contrasto in giurisprudenza, di un principio di diritto legato all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta».
Entrambi gli organi giurisdizionali, tuttavia, hanno fornito all’interprete alcune indicazioni di sistema che meritano di essere evidenziate (v. parr. 3 e 4). Rispetto ad esse si riporteranno anche alcune tra le prime critiche mosse nei primi commenti in dottrina (v. par. 5).
3. La soluzione dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato: tre “categorie” di fattispecie
Il caso al vaglio dall’Adunanza plenaria, sopra ricordato, rientra, secondo la ricostruzione adottata dalla stessa pronuncia, in una delle tre possibili categorie di fattispecie (la “terza”) in cui può presentarsi il problema della c.l.c.d., per come prospettato dall’ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato, 6 giugno 2017, n. 2719.
Si tratta, in particolare, delle ipotesi in cui vi sia un unico soggetto che, in presenza di un’unica condotta responsabile, è obbligato, in base a titoli differenti, al risarcimento e ad un diverso emolumento. Se l’emolumento ha la finalità di compensare lo stesso pregiudizio oggetto dell’obbligo risarcitorio (come ritenuto, in superamento dell’orientamento tradizionale, nel caso dell’indennità ex art. 68 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, in relazione al bene “salute”), le due obbligazioni (risarcimento e indennità), pur se formalmente distinte – perché distinti sono i titoli da cui esse sorgono, ossia la legge e l’illecito – dovrebbero essere intese come “sostanzialmente unitarie”, mirando entrambe le rispettive prestazioni a «reintegrare la sfera personale della parte lesa» da un’unica condotta dannosa. In sostanza, quindi, sotto il profilo funzionale, anche la prestazione sarebbe “sostanzialmente unitaria”: ne deriva, secondo la motivazione della pronuncia, che la detrazione dell’indennità, in questo caso, è il frutto non dell’applicazione della regola della c.l.c.d., ma piana conseguenza della determinazione del
danno risarcibile, avuto riguardo all’insegnamento di Cass. Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, secondo cui un risarcimento ultracompensativo e sanzionatorio (quale sarebbe quello che compensasse l’intero originario pregiudizio senza tenere conto dell’indennità), richiede un esplicito riconoscimento legislativo (a conferma del proprio ragionamento la pronuncia richiama alcune fattispecie in cui si è giunti a soluzioni legislative o interpretative analoghe: quanto alle prime, v. art. 2-bis legge 241/1990; quanto alle seconde, v. Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584, in relazione ai danni da vaccinazioni obbligatorie, trasfusione di sangue e somministrazione di emoderivati). La conclusione, allora, può ritenersi sostanzialmente analoga a quella proposta per la “prima” categoria di fattispecie («presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e obbligato a una prestazione derivante da un unico titolo»): ciò che si chiama c.l.c.d. descrive, in queste ipotesi, solo l’effetto della corretta determinazione del risarcimento del danno.
Il Consiglio di Stato non ha preso invece posizione in relazione alla eterogenea categoria di ipotesi (la “seconda”), caratterizzata dalla presenza di un soggetto tenuto al risarcimento del danno e di un soggetto diverso obbligato in base ad un titolo differente (es. indennizzo assicurativo privato o sociale), riscontrando, in primo luogo, «complicazioni ricostruttive connesse al funzionamento della surrogazione» che nella fattispecie al suo vaglio non sussistevano e, in secondo luogo, che le quattro vicende su cui la Sezione terza della Cassazione aveva sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite inerivano proprio questa categoria.
4. La soluzione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: una valutazione per “classi di casi”
Secondo il ragionamento delle Sezioni Unite, non si può ricercare una risposta universale al problema della c.l.c.d., ma occorre procedere per «classi di casi».
La questione, per la Corte, si pone invero solo nelle ipotesi in cui non vi sia coincidenza tra il soggetto obbligato al risarcimento e quello tenuto all’attribuzione patrimoniale avente una finalità compensativa dello stesso pregiudizio, poiché in tal caso opererebbe senz’altro, come affermato dall’A. plen. Cons. Stato 1/2018, la regola del diffalco.
Nella motivazione della Sezioni Unite, si conferma il superamento del tradizionale requisito della formale coincidenza tra titoli, ma si ritiene la regola, pur evoluta e simmetrica, della causalità (il c.d. «test eziologico unitario» prospettato dalle ordinanze di rimessione) da sola insufficiente: se, infatti, per un verso, costituisce un primo «argine» utile per individuare i vantaggi rilevanti, essa, per altro verso, vi riconduce, inammissibilmente, anche quei benefici che nell’illecito rinvengono un mero «coefficiente causale» (ad esempio l’acquisto di lasciti successori) o che costituiscono «il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato».
Accogliendo la prospettiva di una parte della dottrina (C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, p. 310; v. pure G. De Nova, Intorno alla compensatio lucri cum damno, in Jus civile, 2018, p. 58) e dei principi provenienti dal
diritto privato europeo (cfr., in particolare, art. 10:103 dei PETL e art. 6:103, libro VI, DCFR), le Sezioni Unite indicano nell’analisi (per classi di casi) della funzione dell’emolumento ricevuto dal terzo, il requisito essenziale (ma non sufficiente) per l’operatività della regola della c.l.c.d.
Ci si deve chiedere, in sostanza, se l’attribuzione patrimoniale abbia o meno la finalità di compensare, anche pro quota, il pregiudizio patito dal beneficiario (ad esempio, non avrebbe tale funzione l’indennità sorgente dal contratto di assicurazione sulla vita, essendo in questo negozio prevalente la finalità di risparmio).
In caso positivo, ciò non basta: lo scomputo del vantaggio dal risarcimento è subordinato alla previsione legislativa di un meccanismo di surroga o rivalsa, che permetta al terzo di recuperare dal danneggiante le somme erogate al danneggiato – essendo irrilevante, invece, l’effettivo esercizio di tale diritto.
Anche alla luce dell’insegnamento della citata Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601, si ritiene preminente, infatti, evitare che il beneficio erogato dal terzo finisca per arricchire il danneggiante anziché il danneggiato («apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato»).
5. Le fattispecie concretamente esaminate
Applicando tale ragionamento, in una valutazione necessariamente casistica, la Suprema Corte risolve i contrasti giurisprudenziali sulla questione della c.l.c.d. nelle fattispecie sottoposte al suo vaglio, forgiando principi di diritto ad esse strettamente legati, evitando quindi
«l’enunciazione di principî generali e astratti o di verità dogmatiche sul diritto».
a) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12564: «Dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui non deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità accordata dall’Inps al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto».
L’attribuzione patrimoniale – osservano le Sezioni Unite – non ha infatti la funzione di compensare l’avente diritto del danno economico conseguente alla perdita del congiunto: la pensione di reversibilità, che è erogata a prescindere dalla causa della morte, trova la propria giustificazione nel «rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge» e, quindi, in un sacrificio economico imposto al lavoratore, dietro la “promessa” di garantire ai congiunti un «trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno». Per di più, a differenza di quanto sostenuto dalla citata Cass. civ. n. 13537/2014, non è normativamente previsto, in questo caso, un meccanismo che consenta all’Inps di recuperare dall’autore dell’illecito le somme erogate.
b) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12565: «Il danno da fatto illecito deve essere liquidato sottraendo dall’ammontare del danno risarcibile l’importo dell’indennità assicurativa derivante da assicurazione contro i danni che il danneggiato-assicurato abbia riscosso in
conseguenza di quel fatto».
Secondo la Corte, infatti, se è vero che, da un punto di vista formale, indennizzo e risarcimento sorgono da titoli diversi (rispettivamente l’assicurazione contro i danni e il fatto illecito), i due diritti risultano tuttavia «concorrenti», perseguendo la stessa funzione (ristoro del pregiudizio subito). Inoltre, l’assicuratore che versi l’indennizzo al danneggiato-assicurato, nella misura di quanto erogato, è surrogato ope legis (automaticamente, per effetto del pagamento, ex art.
1916 cod. civ.) nel diritto risarcitorio di quest’ultimo: così, per un verso, in forza del principio indennitario da un lato e del principio di indifferenza del risarcimento dall’altro, il danneggiato non si arricchisce per effetto dell’illecito e, per altro verso, il danneggiante risponde dell’intero danno arrecato, in ossequio al principio di responsabilità. Né avrebbe valore contrario, infine, l’argomento a guisa del quale i premi versati dall’assicurato in costanza del rapporto sarebbero sine causa se l’assicurato non potesse cumulare le due poste: a parere delle Sezioni Unite, essi, infatti, si pongono «in sinallagma con il trasferimento del rischio, non con il pagamento dell’indennizzo».
c) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12566: «L’importo della rendita per l’inabilita? permanente corrisposta dall’INAIL per l’infortunio in itinere occorso al lavoratore va detratto dall’ammontare del risarcimento dovuto, allo stesso titolo, al danneggiato da parte del terzo responsabile del fatto illecito».
Anche in questo caso, la soluzione positiva poggia su una duplice considerazione: i) l’identica funzione perseguita, nonostante i diversi criteri di calcolo, dall’erogazione del beneficio e dal risarcimento del danno, in ipotesi di infortunio del lavoratore sulle vie del lavoro; ii) la previsione di un meccanismo di raccordo tra le prestazioni, che assicura al danneggiato di ricevere niente più che l’integrale riparazione del danno e al danneggiante di rispondere per l’intero delle conseguenze pregiudizievoli cagionate con la propria condotta (in virtù degli artt. 1916 cod. civ. e 142 cod. ass. priv. [d.lgs., 7 settembre 2005, n. 209]).
d) Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12567: «Dall’ammontare del danno subito da un neonato in fattispecie di colpa medica, e consistente nelle spese da sostenere vita natural durante per l’assistenza personale, deve sottrarsi il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento che la vittima abbia comunque ottenuto dall’Inps in conseguenza di quel fatto».
La soluzione positiva, anche in questo caso, è giustificata dalla coincidenza funzionale delle due prestazioni (indennità e risarcimento del danno in questione) e dalla previsione legislativa di un meccanismo di recupero, a nulla rilevando che questo non abbia qui la struttura della surroga (viene in particolare rilievo l’art. 41, l. 4 novembre 2010, n. 183: si badi, a conferma della “coessenzialità” di tale meccanismo ai fini dell’operatività della c.l.c.d., che il diffalco «è da intendersi limitato al valore capitale delle prestazioni indennitarie corrisposte successivamente all’entrata in vigore di detta legge».
6. Accoglienza della dottrina nei primi commenti
Le sentenze dell’Adunanza plenaria e delle Sezioni Unite qui esaminate sono state apprezzate dai commentatori per lo spostamento del baricentro della questione della c.l.c.d. dal titolo alla funzione del vantaggio. Con riguardo alle Sezioni Unite, inoltre, è stato valutato positivamente l’approccio legato alla dimensione concreta delle fattispecie.
L’impostazione adottata dalle esaminate pronunce è stata però oggetto anche di alcune critiche in dottrina. In questa sede, per completezza del discorso, si riportano le principali.
Sul piano generale, anzitutto, alcuni hanno osservato che la struttura soggettiva della fattispecie (in particolare: l’identità o la diversità del soggetto che eroga il vantaggio e di quello obbligato al risarcimento) dovrebbe rimanere irrilevante ai fini della soluzione della questione della c.l.c.d. (la critica è stata formulata, sulla scorta delle osservazioni di G. De Nova, op.. cit., p. 58, dapprima con riguardo ad Ad. plen. 1/2018 [E. Bellisario, Divieto di cumulo fra equo indennizzo e risarcimento del danno, in Corr. giur., 2018, p. 528 ss. e S. Monti, Il Consiglio di Stato e la c.d. compensatio lucri cum damno, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, p. 1071 ss., le quali hanno altresì espresso perplessità di ordine tecnico-giuridico sulla “fusione dei rapporti obbligatori” operata dal Consiglio di Stato: v. supra, par. 3] e poi con riguardo alle Sezioni Unite [E. Bellisario, Compensatio lucri cum damno: il responso delle Sezioni Unite, Danno e resp., 2018, p. 446 ss. e S. Monti, La compensatio lucri cum damno e il “compromesso innovativo” delle Sezioni Unite, in Danno e resp., 2018, p. 451 ss.]).
Alcuni autori hanno inoltre criticato la rilevanza attribuita dalle Sezioni Unite alla previsione normativa di un meccanismo di surroga o rivalsa, principalmente sulla scorta della considerazione che, in alcune ipotesi, il beneficio previsto dalla legge, pur senza tale meccanismo, è indubbiamente finalizzato a compensare in tutto o in parte lo stesso pregiudizio da cui sorge il diritto risarcitorio (E. Bellisario, ult. op. cit., p. 446 ss.; S. Monti, ibidem).
Non è stato poi da tutti apprezzato l’aggancio della motivazione alla prospettiva polifunzionale della responsabilità civile, come disegnata dalle Sezioni Unite sui “danni punitivi” (cfr. E. Bellisario, ult. op. cit., p. 446; v. anche M. Franzoni, La compensatio lucri cum damno secondo il Consiglio di Stato, in Danno e resp., 2018, p. 166).
Critiche significative hanno investito infine due delle singole fattispecie vagliate dal giudice di legittimità.
Con riguardo a Cass. civ., Sez. Un., n. 12565/2018, si è osservato che la motivazione non terrebbe conto, da un lato, dell’incompatibilità del principio indennitario con le polizze infortuni (attesa l’intrinseca indeterminabilità del valore del bene assicurato) e, dall’altro lato, della prassi del mercato assicurativo che, con riguardo a queste polizze, prevede – per renderle appetibili sul mercato – la rinuncia dell’assicuratore alla surroga, allo scopo di rendere possibile il cumulo tra indennizzo e risarcimento. Su tali clausole, sulla loro validità e sugli effetti del loro inserimento non si è però soffermata la sentenza (cfr. R. Pardolesi, P. Santoro, Sul nuovo corso della compensatio, in Danno e resp., 2018, p. 427 ss.).
Di segno contrario, infine, è la critica mossa da altra dottrina in relazione all’unica fattispecie in cui le Sezioni Unite hanno ammesso il cumulo, ossia la pensione di reversibilità: attesa la finalità compensativa di tale trattamento, si è detto, in particolare, che il mancato scomputo determina un arricchimento del beneficiario difficilmente giustificabile (P. Gallo, La compensatio lucri cum damno e i suoi confini, in Giur. it., 2018, p. 1347 ss.
Comunione – Condominio - Locazione
Il diritto di abitazione sulla casa coniugale in caso di successione ab intestato
di Saverio Luppino
Cass. Civ., Ord., Sez VI^-2^ civile, 5 giugno 2018, n. 14406/18 –Pres. Lombardo – Rel. Cons. Criscuolo
Sussistenza del diritto di abitazione in favore del coniuge del de cuius. Riserva a favore del coniuge anche in caso di successione ab intestato. (Art. 540, 2.co.; c.c.; art. 1022 c.c.; art. 1026 c.c.);
“Sebbene la disciplina dell’usufrutto e quella del diritto di abitazione divergano in parte, per attribuire il legislatore all’usufruttuario facoltà maggiori rispetto a quelle assegnate al titolare del diritto di abitazione, tuttavia la divergenza di valore tra i due diritti non può non tenere conto anche delle peculiarità del bene sul quale viene a costituirsi il diritto di abitazione”.
“…La sussistenza del diritto di abitazione costituiva titolo legittimante il godimento del bene, senza che nulla fosse dovuto agli altri coeredi per la fruizione della casa coniugale anche dopo la morte”.
CASO
L’ordinanza in questione riguarda la successione mortis causa e la conseguente assegnazione dei beni del de cuius, in capo agli eredi legittimi tra i quali, per quanto di interesse al presente commento, la casa coniugale, nella quale il coniuge ha il diritto di abitazione.
La complicazione sorge per effetto della circostanza che due degli eredi ab intestato donano ad un terzo cessionario quanto Loro pervenuto in eredità e, tale soggetto chiede lo scioglimento della comunione di tutti i ridetti beni compresa la casa coniugale.
Nel corso dei giudizi di merito veniva attribuita alla moglie del de cuius, la quota dell’appartamento, previo pagamento di un conguaglio al terzo, derivante dalla somma corrispondente alla quota dei frutti dovuti per il godimento esclusivo dell’appartamento.
Il giudizio perviene all’ultimo grado in ragione del contrasto in punto di diritto sull’entità del conguaglio e sulla natura del diritto di abitazione sulla casa coniugale.
SOLUZIONE
La Corte rigetta il ricorso proposto dal terzo cessionario, prendendo in esame la natura del bene ereditato, la casa coniugale, e del suo “godimento” dopo la morte del de cuius, da parte del coniuge superstite, ritenendo, ai fini della quantificazione delle quote di conguaglio, che:“risulta evidente che le utilità ritraibili dall’usufruttuario appaiono sostanzialmente identiche a quelle che può trarre l’abitatore, di modo che nel caso in esame, le pur sussistenti differenze di disciplina, non appaiono tali da indurre a ravvisare anche una differente valutazione del diritto dal punto di vista della sua quantificazione economica, risultando quindi non irrazionale e non contestabile la scelta della Corte d’Appello di avvalersi dei criteri usati per determinare il valore dell’usufrutto, per pervenire al valore del prelegato spettante alla convenuta”.
QUESTIONI
Sotto il profilo squisitamente procedurale, la decisione che si commenta interessa, in quanto, secondo l’indirizzo di una giurisprudenza costante di legittimità, la Corte rimarca l’inesistenza della qualità di litisconsorte necessario in capo all’erede ab intestato del de cuius che abbia successivamente donato i propri diritti successori ad un terzo, competendo solo al cessionario della quota e non all’erede originario la qualifica di litisconsorte necessario, nel giudizio di impugnazione delle quote[1].
Tuttavia, attira l’interesse e la curiosità del giurista, del perché la Corte intenda ulteriormente giustificare la non necessità dell’integrazione del contraddittorio, “scomodando”, anche “i principi della ragionevole durata del processo, il rispetto delle sostanziali garanzie di difesa, etc…”, per poi concludere che l’infondatezza del ricorso, renda “superflua la fissazione di un termine per l’integrazione del contraddittorio nei confronti della parte” esclusa (erede ab intestato) e ciò in quanto: “ si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti”.
Laddove il principio giustificativo applicato dalla Corte venisse dilatato ed esteso ad altre analoghe situazioni, i richiamati principi del “giusto processo e della ragionevole durata” entrerebbero in irrimediabile conflitto, con quanto più volte rimarcato dalla Corte EDU in materia di rispetto del principio del contraddittorio e del diritto di difesa: “per la giurisprudenza della Corte EDU, nel rispetto dell’art. 6 paragrafo 3 lett. d, vi è la necessità di un contraddittorio effettivo”[2].
All’interno dell’ordinanza in commento risulta essere interessante l’analisi effettuata riguardo la disciplina dell’usufrutto e del diritto d’abitazione. Il brocardo successio ab intestato letteralmente sta ad indicare il caso in cui il de cuius non abbia lasciato disposizioni testamentarie alla sua morte, per cui i diritti sul suo patrimonio ricadono direttamente sui suoi famigliari superstiti, in questo caso: moglie, mamma e fratello. I problemi nel caso in questione sorgono all’apertura della successione e quindi del riconoscimento del diritto d’abitazione alla moglie, per l’appartamento da lei e dal defunto coniuge utilizzato, e per il conguaglio della somma corrispondente alla quota dei frutti dovuti per il godimento esclusivo dell’appartamento[3]. La natura dell’immobile in questione e la sua contestuale destinazione
d’uso, è il perno intorno al quale ruota la decisione della Cassazione, portando gli ermellini ad essere ferrei, citando perfino la granitica sentenza di Cassazione a Sezioni Unite n.4847/2013 ove si dettano le regole per riconoscere il diritto, presente al secondo comma del 540 c.c., anche in caso di successione ab intestato. Questo nel rispetto della paritarietà introdotta dalla legge di riforma del diritto di famiglia, infatti al coniuge è riservato, anche quando concorrono altri legittimari il diritto reale di abitazione sulla casa destinata a residenza familiare e dei mobili che la compongono. Nulla più infatti doveva essere contestato alla moglie, nonché controricorrente dinanzi alla Cassazione, una volta estinto il pagamento del conguaglio del valore del 45% della piena proprietà nei confronti dell’altro condividente terzo cessionario.
L’art. 540 2^co c.c. assicura al coniuge del defunto, il diritto di abitazione nella casa adibita a residenza familiare. Vero è che l’uso e l’abitazione, come l’usufrutto, appartengono alla categoria dei diritti reali minori, anche se a differenza dell’ultimo, i primi presentano carattere più limitato.
Il diritto di abitazione si differenzia dagli altri poiché poiché riguarda un usus domus
limitatamente ai bisogni del titolare del diritto e della sua famiglia.
Di assoluto interesse e convincenti appaiono le considerazioni giuridiche della motivazione fornite dalla Corte, al fine di equiparare – finanche a statuire che esse sono “identiche” – “le utilità ritraibili dell’usufruttuario rispetto a quelle del titolare del diritto di abitazione”, ai fini della valutazione della quota da attribuirsi al valor del diritto di abitazione in una causa di scioglimento della comunione dei beni.
La Suprema Corte, con decisione inedita ed ove non constano precedenti, rimarca l’assoluta specificità del caso in esame e giustificando il decisum della corte d’appello (“ non irrazionale e non contestabile”), ribadisce che appare corretto fare uso dei criteri di valutazione dell’usufrutto al fine di pervenire alla valorizzazione della quota di uso ed abitazione; tanto in ragione della obiettiva natura del bene a soddisfare esigenze abitative primarie del coniuge superstite, quanto in ragione che trattandosi di bene ad uso abitativo le utilità ritraibili dall’usufruttuario appaiono identiche a quelle dell’abitatore.
[1] Ex plurimis Cass. Civ. 12242/2011.
[2] Altalex: http://www.altalex.com/documents/news/2018/06/12/equo-processo-le-garanzie- previste-dall-art-6-cedu.
[3] Ord. Cass. n.14406/18
Diritto successorio e donazioni
Conferma di disposizioni testamentarie nulle, possesso di beni assegnati a titolo di legato e rinuncia all’azione di riduzione
di Matteo Ramponi
Cassazione Civile, Sezione 2, Sentenza n. 168 del 5 gennaio 2018
Successioni “Mortis Causa” – Successione Necessaria – Reintegrazione Della Quota Di Riserva Dei Legittimari – Azione Di Riduzione (Lesione Della Quota Di Riserva) – In Genere Diritto ad agire per la riduzione delle disposizioni lesive della quota di legittima – Rinunzia – Ammissibilità – Condizioni – Comportamento concludente – Fattispecie.
[1] La conferma delle disposizioni testamentarie o la volontaria esecuzione di esse non opera rispetto a quelle lesive della legittima, in quanto gli effetti convalidativi di cui all’articolo 590 cod. civ. si riferiscono alle sole disposizioni testamentarie nulle: ne deriva che in dette ipotesi non è preclusa al legittimario l’azione di riduzione, salvo che egli non abbia manifestato in modo non equivoco la volontà di rinunciare a far valere la lesione mediante un comportamento concludente incompatibile con la stessa.
Disposizioni applicate
Codice Civile, articoli 551, 557, 564 e 590
[1] Tizio Rossi conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Primo grado, Caietto Rossi, Sempronio Rossi, Mevio Rossi e Caia Bianchi, quali eredi del di lui fratello Caio Rossi, affinché fosse dichiarata la nullità ovvero accertata la rescissione per lesione della divisione contenuta nel testamento di Caiona Rossi (madre di Tizio e Caio), dichiarando pertanto che i beni relitti andavano assegnati ai due figli in quote eguali, ovvero disporre in via subordinata la riduzione delle disposizioni testamentarie, in quanto lesive della quota di legittima spettante all’attore.
L’attore evidenziava che la madre Caiona aveva disposto per testamento dei suoi beni in favore dei figli Tizio e Caio, dividendo gli immobili in parti eguali, ma previa assegnazione in proprietà esclusiva di alcuni cespiti in favore dell’attore ed altri in favore del dante causa dei convenuti, lasciando altri beni in comunione indivisa.
Era tuttavia sorta controversia tra le parti circa la corretta interpretazione delle volontà testamentarie, in quanto i convenuti sostenevano che le assegnazioni dei singoli immobili si configuravano alla stregua di legati, così che l’istituzione in quote eguali tra i fratelli Rossi concerneva solo i terreni.
Ad avviso dell’attore invece, la de cuius aveva inteso, previa determinazione della quota di ognuno dei due figli in misura pari alla metà dell’asse relitto, predisporre una divisione testamentaria, senza che potesse avere rilievo l’utilizzo, in relazione all’assegnazione dei singoli cespiti, di espressioni quali “lascio e lego”.
Aggiungeva che, in ogni caso, la divisione era rescindibile ex articolo 763, 2° comma, cod. civ., in quanto i beni attribuiti all’attore erano di valore inferiore di oltre un quarto rispetto alla quota ereditaria, deducendo altresì, in via subordinata, che le disposizioni testamentarie avevano leso la sua quota di riserva.
I convenuti si costituivano in giudizio deducendo l’infondatezza della domanda attorea, ribadendo che le assegnazioni dei singoli immobili erano da intendersi quali legati.
Il Giudice di primo grado rigettava integralmente le domande attoree, ed a seguito di gravame proposto dagli eredi di Rossi Tizio, anche la Corte di Appello rigettava l’impugnazione, confermando la sentenza impugnata.
Secondo la Corte distrettuale doveva ritenersi corretta l’interpretazione del testamento offerta dal giudice di primo grado, non potendosi accedere alla tesi dell’appellante secondo cui l’istituzione di eredi in quote eguali aveva ad oggetto l’intero patrimonio ereditario. La Corte rafforzava tale sua conclusione con la considerazione circa la forma pubblica del testamento: un documento, dunque, redatto con l’assistenza di un professionista da presumersi particolarmente esperto della materia successoria, dovendosi quindi escludere un utilizzo dei termini in maniera impropria.
Quanto alla domanda di rescissione, riteneva che la stessa non fosse meritevole di accoglimento, in quanto l’attore aveva tenuto comportamenti concludenti che implicavano l’accettazione dei legati. A giudizio della Corte d’Appello, poi, la condotta dell’attore, anche in relazione all’azione di riduzione, equivaleva ad una inequivoca rinunzia alla stessa, attesa l’esecuzione volontaria delle disposizioni testamentarie.
[2] Avverso la sentenza di secondo grado, uno dei figli di Tizio Rossi (nel frattempo venuto a mancare) ha proposto ricorso in Cassazione e la Corte, alla luce dei ragionamenti che si andranno in appresso a richiamare, ha accolto le istanze del ricorrente, cassando la sentenza impugnata.
In particolare, per quanto di nostro interesse e premesso che appare condivisibile l’interpretazione del testamento come contenente attribuzioni di beni a titolo di legato che si affiancano alla istituzione di eredi, il secondo motivo di ricorso è quello che preme analizzare.
Il ricorrente, con tale motivo, ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 547 e 590 c.p.c..
A giudizio della Corte d’Appello, ad impedire l’accoglimento dell’azione di riduzione era, come
anticipato, anche la circostanza che il ricorrente aveva tenuto una serie di condotte che implicavano l’accettazione dei legati disposti in suo favore, e dalle quali era possibile ricavare in maniera inequivoca la volontà di rinunciare a far valere la lesione, anche alla luce di quanto prevede l’articolo 590 cod. civ.: “la nullità della disposizione testamentaria, da qualunque causa dipenda, non può essere fatta valere da chi, conoscendo la causa della nullità, ha, dopo la morte del testatore, confermato la disposizione o dato ad essa volontaria esecuzione”.
Il ricorrente riteneva, invece, che il proprio dante causa avesse reiteratamente, anche nell’immediatezza dell’apertura della successione, manifestato una volontà contraria all’attuazione delle volontà testamentarie. Inoltre, sottolineava come una volta qualificate le attribuzioni dei singoli immobili in termini di legati, non deve dimenticarsi che i legati si acquistano di diritto, così che il conseguimento degli stessi non può essere valutato alla stregua di una spontanea esecuzione delle disposizioni testamentarie, trattandosi di condotta che si connota per la sua equivocità.
La Corte di Cassazione, nella sentenza de qua, ribadisce il proprio costante orientamento, ritenendo “del tutto inappropriato il richiamo compiuto dalla Corte distrettuale alla previsione di cui all’articolo 590 cod. civ., che non è invocabile, al fine di escludere la tutela dei diritti del legittimario”.
Infatti, “la conferma della disposizione testamentaria o la volontaria esecuzione di essa non opera rispetto alle disposizioni lesive della legittima, in quanto gli effetti convalidativi di cui all’articolo 590 cod. civ. si riferiscono alle disposizioni testamentarie nulle, mentre tali non sono quelle lesive della legittima, essendo soltanto soggette a riduzione (cioè, suscettibili di essere dichiarate inefficaci nei limiti in cui sia necessario per integrare la quota di riserva). Pertanto, l’esecuzione volontaria di per sé non preclude al legittimario l’azione di riduzione, salvo che egli abbia manifestato anche tacitamente la volontà di rinunziare all’integrazione della legittima, potendosi però desumersi l’esistenza di una rinunzia tacita attraverso un complesso di elementi concordanti da cui emerga che la parte interessata abbia avuto la consapevolezza dell’esorbitanza della disposizione testamentaria dai limiti della porzione disponibile e tuttavia abbia eseguito integralmente la disposizione medesima”.
Viene, dunque, ribadito il principio secondo cui “il diritto, patrimoniale (e perciò disponibile) e potestativo, del legittimario di agire per la riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva, dopo l’apertura della successione, è rinunciabile anche tacitamente, sempre che detta rinuncia sia inequivocabile, occorrendo a tal fine un comportamento concludente del soggetto interessato che sia incompatibile con la volontà di far valere il diritto alla reintegrazione”.
[3] La Suprema Corte non poteva, tuttavia, limitarsi a tali rilievi, dovendo verificare se, nel caso di specie, il comportamento del dante causa del ricorrente potesse rientrare in quella inequivocabile manifestazione della volontà di rinunciare all’azione di riduzione. In particolare, occorre interrogarsi se l’entrare in possesso del bene legato possa configurare una volontà di rinuncia ad agire per ottenere la quota che la legge riconosce a titolo di legittima.
L’Organo Giudicante non ha ritenuto di ravvisare una simile volontà in quanto “posto che, in caso di legittimario non integralmente pretermesso, come nel caso in esame, il diritto all’integrale soddisfacimento della riserva deve essere attuato mediante il riconoscimento, secondo le modalità previste dalla legge in tema di azione di riduzione, di una quantità di beni ovvero del loro controvalore economico in misura tale da perequare quanto già ricevuto con l’ammontare della quota di riserva, l’avere goduto di quei beni già assegnati per testamento, e che per legge sono destinati a comporre la sua quota di riserva, comunque necessitante delle dovute integrazioni, non può in alcun modo essere ritenuta una condotta idonea a concretare una rinuncia tacita alla tutela delle ragioni successorie, ove il comportamento de quo non si accompagni ad altre manifestazioni di volontà espressa ovvero per facta concludentia, che consentano di ravvisare effettivamente una volontà abdicativa del legittimario”.
Infine, la Corte analizza anche l’ultimo dei punti portati a sostegno delle proprie posizioni dai controricorrenti, i quali sostenevano che, per poter agire in riduzione, il legittimario beneficiato da un legato avrebbe dovuto previamente rinunciare a detto lascito. Per la Cassazione tale regola opera, ai sensi dell’articolo 551 cod. civ., solo ed esclusivamente nel caso di legato in sostituzione di legittima. Il legittimario potrebbe, invece, trattenere i legati già ricevuti, e pretendere solo il conseguimento della differenza tra quanto già ricevuto per testamento (ovvero per donazione) e quanto invece riservatogli dalle norme in tema di successione necessaria.
Al di là della logicità del ragionamento della Suprema Corte, sarebbe stato sufficiente il richiamo ad una delle disposizioni fondamentali in tema di azione di riduzione: l’articolo 564, secondo comma, cod. civ.. In base a tale norma il legittimario, che domanda la riduzione di donazioni o di disposizioni testamentarie, deve imputare alla sua porzione legittima le donazioni e i legati a lui fatti, salvo che ne sia stato espressamente dispensato. Orbene, è di tutta evidenza come il conseguimento di un legato non possa di certo costituire (se non in presenza di ulteriori elementi) una manifestazione di volontà abdicativa: se così fosse, il legislatore non avrebbe disposto che, nell’agire in riduzione, il legittimario dovesse imputare i legati ricevuti. E, portando agli estremi la opposta tesi, si dovrebbe arrivare alla (assurda) conclusione che l’esser beneficiato con un legato ed ottenere il possesso del bene oggetto di esso, comporterebbe l’impossibilità di agire in riduzione: questo sarebbe un troppo semplice strumento per aggirare le norme poste a tutela dei legittimari.
Procedure concorsuali e Diritto fallimentare
La revocatoria delle rimesse su conto corrente scoperto
di Massimo Di Terlizzi - Studio Pirola Pennuto Zei e Associati
Corte di Cassazione Ordinanza n. 21694 del 6 settembre 2018
Parole chiave: Revocatoria fallimentare – Rimesse bancarie – Anticipo su fatture – Mandato all’incasso – Cessione del credito
“Deve ritenersi legittima la revocatoria fallimentare delle rimesse effettuate nel periodo sospetto in quanto aventi natura solutoria laddove l’anticipazione dell’importo delle fatture da parte della banca non è stata accompagnata dalla cessione dei crediti a garanzia dei relativi finanziamenti ma solo dal conferimento di un mandato all’incasso: la carenza di ritrascrizione, almeno per punti essenziali, delle singole pattuizioni consente di ritenere che quegli incassi da terzi in realtà siano stati direttamente utilizzati dalla banca per ridurre l’esposizione generale ed unitaria raggiunta dal cliente e contabilizzata in altra sede, dunque a prescindere dalla vicenda della singola sovvenzione di provvista.”
Disposizioni applicate: art 67 L.F. – artt. 1260, 1264, 1265 c.c.
La Sesta Sezione della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 21694 del 6 settembre 2018, ha deciso sul ricorso proposto da un istituto bancario avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bari n. 1700/2015 che aveva dichiarato l’inefficacia ex art. 67 l.f. delle rimesse compiute nel biennio precedente da una S.a.s. poi fallita, resistente in sede di ricorso per cassazione, sul proprio conto corrente non assistito da affidamento.
Nella parte motiva dell’ordinanza la Suprema Corte ha osservato, accogliendo favorevolmente il ragionamento della Corte d’Appello di Bari, che: i) la Banca non ha dato prova dell’esistenza di un rapporto di conto corrente, ii) ai fini della loro revocabilità, i pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili prescindono dai negozi giuridici sottostanti i pagamenti stessi, iii) ancora, ai fini della revocatoria, bisogna considerare anormali le operazioni di anticipazioni su fatture non in quanto tali, ma per lo scopo da queste perseguito, ovvero l’eliminazione della scopertura del c/c, iv) infine, l’istituto bancario non ha dato prova di non essere a conoscenza dello stato di crisi della società successivamente fallita (c.d. scientia decoctionis).
L’istituto bancario ha proposto ricorso per due motivi, entrambi dichiarati infondati dalla Corte di Cassazione, in base ai quali ha sostenuto che, da un lato, le rimesse in pagamento delle anticipazioni costituiscono mezzi normali di pagamento di contestuali cessioni di credito e, dall’altro, la Corte di Appello di Bari non si è pronunciata sulla revocabilità dei negozi di cessione, ma ha provveduto solo a revocare le rimesse per le anticipazioni contro cessioni di
credito.
Quanto al primo motivo di ricorso la Corte di Cassazione ha sostenuto che la banca ricorrente ha introdotto solo innanzi ad essa, per la prima volta, la tesi per la quale le rimesse dovrebbero esser qualificate come adempimenti di cessioni di credito, peraltro non indicando quando avrebbe introdotto la questione innanzi ai giudici di merito.
Quanto al secondo motivo del ricorso, la Corte di Cassazione ha ritenuto corretta la ricostruzione del rapporto compiuta dai giudici di merito, i quali escludendo la sussistenza di un rapporto di conto corrente tra la banca e la società, nel quale la prima era tenuta ad eseguire operazioni di credito passive in favore della seconda, tenendo ferma la disponibilità per un dato periodo di tempo, ed hanno preferito altresì un’interpretazione del rapporto come orientato alla restituzione ad nutum delle somme. D’altronde, lo ribadisce la Corte stessa, l’istituto bancario ricorrente non trascrivendo nuovamente la regolamentazione pattizia del rapporto, o anche solo una sua parte, con la precisa indicazione circa la reale natura dei pagamenti, non ha fatto altro che convincere i giudici che quegli incassi siano stati direttamente utilizzati dalla banca per ridurre l’esposizione debitoria generale, a prescindere dalla singola sovvenzione di provvista sottostante.
Rebus sic stantibus, gli Ermellini non hanno potuto che constatare come tali pagamenti siano stati utilizzati per ridurre l’esposizione debitoria generale del soggetto fallendo nei suoi confronti, obbligando alla rigida applicazione dell’art. 67 l.f.
Ancora, la Corte di Cassazione, concordando con l’interpretazione dei giudici di merito, ha individuato uno dei punti chiave del proprio ragionamento nel mancato conferimento dell’idonea garanzia della cessione del credito da affiancarsi all’anticipazione degli importi su fatture, non ritenendo sufficiente, a tal fine, il solo conferimento di mandato all’incasso.
Ebbene, la differenza tra la figura del mandato all’incasso e la cessione del credito è da individuarsi nella sostanziale titolarità del credito, la quale, nel caso della cessione del credito, trasla in capo al soggetto cessionario, con conseguente legittimazione di questo di pretendere la prestazione del debitore ceduto, mentre nel caso del mandato all’incasso la titolarità del credito resta unicamente in capo al mandante ed al mandatario spetta la sola legittimazione alla riscossione del credito.
Ancora, la Corte precisa che nel caso del mandato all’incasso la funzione di garanzia comunque si realizza, seppur in via unicamente empirica, in virtù del fatto che al momento dell’incasso della fattura, l’istituto bancario trattiene le somme riscosse mettendo in atto una semplice differenza tra l’anticipo su fattura concesso e la somma appena incassata.
Pertanto la Cassazione, richiamando il proprio consolidato orientamento, ha concluso che “le rimesse effettuate sul conto corrente scoperto del fallito, nel periodo in cui questi era ‘in bonis’, da parte di terzi debitori del medesimo sono revocabili anche qualora siano inerenti ad anticipazioni su fatture esibite dal fallito in quanto, in mancanza della cessione di detti crediti alla banca e
dell’assunzione da parte del terzo di obbligazioni nei confronti della medesima, le rimesse hanno funzione satisfattoria, in quanto riducono l’esposizione debitoria del cliente nei confronti della banca” (Cass. n. 23261/2014 e Cass. n. 9387/2011).
Infatti la Suprema Corte ha ritenuto che tali pagamenti, ancorché fondati su obbligazioni preesistenti, non fossero qualificabili “né come adempimento da parte del terzo di obbligazioni del correntista verso la banca, né come adempimento di obblighi di garanzia” (Cass. n.
7074/2005), integrando invece la fattispecie di atto revocabile ai sensi dell’art. 67 l.f., in quanto tali versamenti sono stati utilizzati dall’istituto bancario per ridurre l’esposizione debitoria del cliente.
In conclusione, la funzione ultima svolta da tali versamenti in virtù del mandato all’incasso, individuata nella natura satisfattiva e solutoria di tali pagamenti, integra il requisito dell’anormalità del pagamento attraverso quei “mezzi diversi dal denaro”, idoneo a configurare la revoca di tali atti ai sensi dell’art. 67 l.f., in quanto considerabili pregiudizievoli per il ceto creditorio. La Corte ha chiarito che la revocabilità di tali atti solutori non necessita della contestuale revoca del mandato, ma è necessaria una attenta indagine della funzione effettiva del negozio impiegato, che in questo caso non può non integrare gli estremi della fattispecie revocatoria.
L’ordinanza in commento conferma l’orientamento evolutivo della Cassazione in fatto di interpretazione della funzione autentica o “ratio economico sociale” sottostante i negozi giuridici. Solo un’indagine condotta in tal senso può, infatti, condurre ad una corretta qualificazione del negozio ai fini dell’applicabilità o meno dell’art. 67 l.f.
Le rimesse bancarie così come sono state considerate dall’interpretazione dei giudici di merito prima e della Corte di Cassazione poi, hanno ridotto nei fatti in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria della società fallita, violando così il requisito richiesto dalla legge fallimentare per evitare l’assoggettabilità di tali atti al regime della revocatoria.
Diritto Bancario
Alcune questioni sui mutui
di Fabio Fiorucci
Il Trib. Lecce 19.6.29018, nell’allegato provvedimento (QUI ALLEGATO), ha svolto alcune interessanti considerazioni in tema di mutuo fondiario maturate nell’ambito di un giudizio di opposizione all’esecuzione, si seguito sintetizzate:
– il mutuo fondiario ex art. 38 TUB non è un mutuo di scopo, poiché non è elemento essenziale la destinazione della somma mutuata a determinate finalità;
– non è ravvisabile una mancanza o nullità della causa concreta del mutuo – per asserita mancanza della traditio – dal momento che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, questa può anche realizzarsi mediante il raggiungimento del relativo scopo pratico; invero, il contratto di mutuo si perfeziona con la consegna di una determinata quantità di danaro o con il conseguimento da parte del mutuatario della giuridica disponibilità della medesima, che può ritenersi sussistente allorquando, con apposita pattuizione, il mutuatario abbia incaricato il mutuante di impiegare la somma mutuata (in tutto o in parte) per soddisfare un suo interesse;
– in presenza di un contratto di fideiussione, ai fini dell’applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore di cui agli artt. 1469 bis e segg. c.c., nel testo vigente “ratione temporis‘, il requisito soggettivo della qualità di consumatore deve riferirsi all’obbligazione garantita, cui quella del fideiussore è accessoria;
– è fondata l’eccezione di violazione dell’art. 603 c.p.c., per essere stato notificato il precetto soltanto al terzo datore d’ipoteca e non anche al debitore, dovendo invece il creditore notificare il titolo esecutivo e il precetto anche al debitore, nei cui confronti è certamente rivolta la intimazione ad adempiere, e che ha per l’appunto la funzione di avvertire anche questi dell’espropriazione in corso, sul diverso presupposto che il debitore è tenuto ad adempiere mentre il terzo a rispondere con il proprio bene dell’inadempimento del primo.
(Segnalazione a cura dell’avv. Livio Ziani, Foro di Lecce)
Diritto del Lavoro
Legittimo il licenziamento del dirigente che tollera fondi neri
di Evangelista Basile
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 3 luglio 2018, n. 17356
Licenziamento – giusta causa – dirigente – fondi occulti – tolleranza della prassi – lesione del vincolo fiduciario – sussistenza
MASSIMA
La creazione in azienda di fondi extra bilancio utilizzati per liberalità d’uso come regalie ai clienti più affezionati si pone al di fuori della conformità all’ordinamento giuridico. Una tale condotta illecita del dirigente non solo contrasta con le norme ed i valori dell’ordinamento, ma ha compromesso anche l’elemento fiduciario essenziale nel rapporto dirigenziale, rendendo così legittimo il licenziamento per giusta causa intimato dalla azienda.
COMMENTO
Nel caso di specie, la Cassazione ha respinto il ricorso del dirigente che impugnava la sentenza della Corte territoriale la quale aveva ritenuto legittimo il suo licenziamento per giusta causa. In particolare, il dirigente avrebbe tollerato una prassi già preesistente in azienda di istituire fondi neri fuori bilancio per “regalie” ai clienti, senza intervenire per farla cessare ed, anzi, contribuendo ad alimentarla. La Corte territoriale ha ritenuto che una tale pratica, che si concretizzava in emissione delle fatture false, era di carattere illegale e non giustificabile in nome dell’interesse dell’impresa. Infatti, le dette attività, rappresentavano una violazione delle regole di contabilità, di buona amministrazione, di trasparenza, di rispetto della legalità e di etica che, in definitiva, hanno legittimato il licenziamento per giusta causa del dirigente. La Suprema Corte, nel ritenere corretta la motivazione della corte territoriale, ha precisato che le attività che contrastano con l’ordinamento giuridico devono ritenersi illegittime, a prescindere dal valore penale del singolo comportamento e che il lavoratore ben può essere licenziato anche per condotte manifestamente contrarie all’etica comune o ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro. Nel caso specifico è stata ritenuta irrilevante sia la mancata adozione da parte della società di codici etici o disciplinari sia la disciplina delle liberalità d’uso contenuta nell’art. 770 c.c. richiamata dal ricorrente per legittimare i comportamenti antigiuridici finalizzati alle erogazioni extra-bilancio. Dunque, la creazione dei fondi extra- bilancio è indubbiamente contraria agli impegni derivanti alle aziende dalle regole rigorose nella amministrazione delle società e nella tenuta della contabilità. La Cassazione ha altresì ribadito che sono irrilevanti le allegazioni del dirigente di aver agito in conformità coi voleri dei suoi vertici proprietari, perché la condotta sarebbe comunque in contrasto con
l’ordinamento e la società i cui interessi non possono essere considerati identici ai voleri dei suoi vertici proprietari. Considerando tutto quanto sopra, la Cassazione ha respinto il ricorso del dirigente ed ha confermato la sentenza della Corte territoriale.
Privacy
Privacy in azienda: ripensare il modello organizzativo per minimizzare i costi e creare valore aggiunto
di Ludovica De Benedetti
Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) è pienamente in vigore in tutta Europa da diversi mesi. Per garantire la conformità alla nuova normativa, le organizzazioni hanno dovuto affrontare costi anche molto elevati. Questi costi potrebbero essere ridotti e potrebbero essere massimizzati i benefici derivanti dal trattamento di dati personali, attraverso un’adeguata divisione dei compiti.
Partiamo da un presupposto: nominare un DPO e delegargli l’attività di adeguamento alla nuova normativa è un approccio che si pone in contrasto con il dettato del GDPR per due ragioni. La prima è di natura pratica: se il DPO si deve occupare di tutte le attività di
adeguamento alla normativa – spesso con scarse risorse – non può riuscire a svolgere le attività proprie della sua funzione quali la gestione delle richieste degli interessati o la sorveglianza sulla corretta gestione dei dati. La seconda è di natura giuridica: al DPO che, in base a quanto stabilito dal GDPR, è una figura (anche) di controllo, deve essere garantita l’indipendenza rispetto all’ente controllato. Se gli fossero demandate tutte le attività legate all’adeguamento
e mantenimento degli obblighi previsti dal Regolamento, controllore e controllato finirebbero per coincidere.
Un DPO, da solo, soprattutto nelle realtà più ampie e complesse, non potrebbe gestire in modo efficiente tutti gli obblighi previsti dal GDPR. È allora particolarmente importante pensare ad un diverso modello organizzativo che possa venire incontro alla triplice esigenza di garantire l’indipendenza e l’effettività del ruolo del DPO, garantire l’efficienza nell’utilizzo dei dati e abbattere, quanto più possibile, i costi di adeguamento alla nuova normativa.
Al fine di raggiungere tali finalità risulta fondamentale procedere in due direzioni: da un lato prevedere una suddivisione ragionata dei compiti e delle responsabilità, dall’altro creare meccanismi che permettano una visione d’insieme dei trattamenti effettuati ed un continuo dialogo fra tutti i soggetti che trattano dati all’interno di un’organizzazione.
Quattro sono le azioni che, se integrate fra loro, possono aiutare un’organizzazione a raggiungere i massimi risultati per quanto riguarda l’adempimento degli obblighi privacy e un utilizzo efficiente dei dati:
1. la creazione di un ufficio che affianchi il DPO;
2. la riorganizzazione aziendale;
3. la creazione di un comitato privacy;
4. il coinvolgimento del DPO in tutte le attività afferenti al trattamento di dati personali.
La prima azione, la creazione di un ufficio dedicato (che, per semplicità, chiameremo Ufficio) che affianchi il DPO nello svolgimento dei suoi compiti, serve a garantire a quest’ultimo un supporto effettivo per lo svolgimento dei suoi compiti. A tale fine è fondamentale un’approfondita conoscenza della realtà aziendale in cui si opera ed è necessario creare una sinergia fra anima giuridica e tecnica per analizzare i possibili rischi sottesi ad un trattamento di dati personali. All’interno dell’ufficio devono, allora, coesistere più professionalità: giuristi, informatici, ingegneri, professionisti in ambito risk management; inoltre una parte dei membri dell’Ufficio dovrebbe essere scelta fra i dipendenti interni all’azienda (Ufficio Legale, IT Security).
La creazione di un Ufficio Data Protection non risolve, però, il problema dell’indipendenza del DPO (controllore e controllato continuerebbero a coincidere). Inoltre delegare tutti gli adempimenti privacy al DPO e al suo Ufficio non è una soluzione efficiente: ogni ente è suddiviso in aree funzionali (Ufficio Legale, Marketing, Credito). Ognuna di tali aree effettua determinati trattamenti di dati che possono, dunque, essere conosciuti in modo approfondito solo da chi lavora quotidianamente all’interno dell’area stessa. Solo questi ultimi soggetti, hanno la possibilità di tenere costantemente sotto controllo le particolarità ed inefficienze dei trattamenti operati e, di conseguenza, posso proporre soluzioni pratiche per garantire performance migliori per l’azienda.
È allora consigliabile ripensare i vecchi modelli organizzativi aziendali e prevedere una ripartizione dei compiti di data protection a livello delle singole aree funzionali richiedendo al responsabile di ogni area di coordinare le attività di data protection e di individuare i soggetti (uno o più anche in base alla complessità dell’area), fra coloro che lavorano con lui, che, in base alla conoscenza dei trattamenti ed al tempo a disposizione, possano operare quali punti di riferimento privacy. I referenti scelti dovrebbero adempiere operativamente a quanto previsto dal GDPR e interfacciarsi sia con il DPO, sia con il proprio responsabile di area, riferendo a entrambi la propria attività. In tal modo, è garantito un controllo costante e diffuso sull’adempimento degli obblighi privacy e si una divisione dei ruoli fra controllore (DPO) e controllato (Titolare del trattamento) in quanto le attività operative di data protection non verrebbero effettuate dall’Ufficio del DPO, ma da soggetti interni al titolare stesso.
Abbiamo, inizialmente, detto che oltre a un’efficiente divisione dei compiti è necessario muoversi anche in una seconda direzione: garantire un dialogo fra tutti i soggetti che trattano dati personale nello stesso ente. La ragione sta nel fatto che raramente i trattamenti di dati personali si esauriscono in un singolo dipartimento e per tale ragione, può non essere sufficiente che ogni area tratti i dati nel modo più corretto perché il trattamento finale garantisca i risultati migliori all’azienda.
Attraverso la condivisione delle “best practices” e la partecipazione del DPO si possono garantire modalità di utilizzo dei dati più efficienti e conformi a quanto richiesto dalla
normativa. Per garantire questo dialogo e migliorare le performance aziendali sarebbe utile prevedere una struttura di raccordo collettiva che possa valutare le problematiche connesse ai diversi trattamenti, individuare collegialmente le migliori modalità per affrontarle e prendere decisioni sulle questioni più impattanti per l’organizzazione, come la notifica agli interessati di un data breach o la decisione di procedere ad una consultazione preventiva all’Autorità.
Infine bisogna tener presente che il DPO rimane una figura di importanza fondamentale e non solo perché in alcuni casi la sua nomina è obbligatoria, ma soprattutto per la possibilità che ha di ad evitare inefficienze comunicative, aiutando le funzioni di business ad estrarre valore dai dati raccolti e trattati. A tal fine il DPO deve sempre mantenere una visione ampia e globale delle attività di trattamento di dati personali che si svolgono nella realtà in cui opera attraverso un dialogo costante con i responsabili e i referenti di ogni area che devono tenerlo aggiornato sull’attività che svolgono riguardante i trattamenti di dati e devono richiedere la sua consulenza in tutti i casi in cui ritengano necessario il suo supporto (formazione specifica, risposte agli interessati, valutazioni di impatto, violazioni dei dati, uso di nuove tecnologie…).
In conclusione, è importante comprendere come il GDPR non debba essere visto solo come un costo per le organizzazioni, ma anche come un’opportunità. La nuova normativa richiede una maggiore conoscenza e consapevolezza riguardo alle modalità con cui si trattano dati personali. E proprio questa consapevolezza si può rivelare un’inestimabile risorsa, permettendo un utilizzo più efficiente dei dati e performance, anche economiche, migliori.
Perché ciò sia possibile, però, come visto, sono necessari due fattori: una ragionata condivisione e suddivisione di compiti e responsabilità che permetta un controllo, aggiornamento e verifica costante e diffusa dei trattamenti e delle loro possibili inefficienze e un dialogo fra tutte le parti che trattano dati che garantisca una condivisione delle migliori soluzioni e pratiche e una risoluzione più efficiente delle problematiche legate ai trattamenti.