INDAGINE CONOSCITIVA SULL'APPLICAZIONE DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI
AUDIZIONE DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
in relazione all’
INDAGINE CONOSCITIVA SULL'APPLICAZIONE DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI
8ª Commissione permanente (Lavori pubblici, comunicazioni) SENATO DELLA REPUBBLICA
Roma, 11 aprile 2019
CONTRIBUTO DEL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
IN RELAZIONE ALL’INDAGINE CONOSCITIVA SULL'APPLICAZIONE DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI
Roma, 11 aprile 2019
Scheda US n. 18/2019 (1)
SOMMARIO
2. Le criticità del Codice dei contratti pubblici 3
2.1. Riorganizzazione normativa e abbandono soft law 3
2.2. Semplificazione procedure di verifica requisiti generali 4
2.3. Albo dei componenti delle commissioni giudicatrici 5
2.5. Contenzioso amministrativo derivanti dagli appalti pubblici 6
2.6. Divieto di prevedere procedure per l’affidamento di servizi professionali a titolo gratuito 7
3. L’affidamento dei servizi legali da parte della P.A 7
3.1. L’affidamento dei servizi legali da parte delle amministrazioni pubbliche, tra intuitu personae e regime vincolistico 7
3.2. Le direttive europee del 2014 in materia di appalti pubblici e l’approccio più liberale nella individuazione dei settori esclusi 9
3.3. Le linee guida ANAC in materia di affidamento dei servizi legali 11
3.4. Gli incarichi legali tra principi generali dell’azione amministrativa e procedure ad evidenza pubblica: i criteri individuati dall’ANAC 13
3.5. Linee guida ANAC e divieto di gold plating 15
4. Sulla esclusione degli ordini professionali dall’ambito di applicazione del codice dei contratti 16
4.1. La nozione di organismo di diritto pubblico 18
4.2. L’influenza pubblica dominante, e il principio europeo dell’“effetto utile” 20
4.3. Controllo pubblico sulla gestione e vigilanza ministeriale 23
4.4. Enti pubblici non economici e codice dei contratti pubblici: il divieto di gold plating 25
1. Premessa
Lo scopo dell’indagine conoscitiva in seno alla 8° Commissione, Lavori Pubblici, del Senato, è quello di fornire, per il tramite delle audizioni degli operatori coinvolti a vario titolo nel settore, un contributo avente ad oggetto i punti di forza e di debolezza del Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. n. 50/2016 e smi, da poter poi sottoporre al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti che ha istituito un apposito gruppo di lavoro in vista di una riforma organica del codice dei contratti pubblici; riforma già annunciata nell'ultima Legge di Xxxxxxxx -
L. 30 dicembre 2018, n. 145, nell'incipit del comma 912.
1 Scheda redatta da X. Xxxxxxxxx e X. Xx Xxxxxx
Il presente documento pertanto costituisce il contributo del Consiglio Nazionale Forense, quale istituzione apicale del sistema ordinistico dell’Avvocatura, nell’ambito della detta indagine.
Il contenuto del presente contributo si divide in tre parti: la prima è relativa ad un’analisi generale delle criticità riscontrate nell’attuale codice dei contratti pubblici, con l’indicazione di proposte potenzialmente utili per superarle o quantomeno mitigarle. La seconda invece attiene alle procedure di affidamento dei servizi legali da parte delle pubbliche amministrazioni e, nello specifico, alla necessità di dover superare l’incertezza, ingenerata dalle linee guida dell’Autorità di settore, che hanno di fatto introdotto procedure ad evidenza pubblica pur trattandosi di un settore escluso dall’applicazione del codice dei contratti. La terza infine attiene alla errata riconduzione degli ordini professionali e dei rispettivi consigli nazionali nell’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 50/2016 operata dall’ANAC con la delibera 28 giugno 2017, n. 687.
Ma andiamo con ordine.
2. Le criticità del Codice dei contratti pubblici
2.1. Riorganizzazione normativa e abbandono soft law
Nel corso del tempo la regolazione del settore dei contratti pubblici è stata oggetto di vari provvedimenti legislativi che hanno sostituito i precedenti testi normativi tramite l’abrogazione di questi e altresì hanno modificato il rapporto tra fonte primaria e secondaria, creando nuovi livelli di regolazione della materia.
Tutto ciò ha comportato inevitabilmente la creazione di un corpo normativo complesso e di non facile consultazione, a cui si sono aggiunte le numerose e non sempre univoche pronunce della giurisprudenza amministrativa e gli orientamenti dell’Autorità di settore.
L’ultima modifica legislativa in tema, ovvero quella adottata con il D.Lgs. n. 50/2016, aveva il fine di rendere più efficiente e trasparente il mercato della domanda pubblica nonché quello di contrastare i fenomeni corruttivi. Tutto ciò per il tramite dell’abrogazione del D.Lgs. n.163/2006 e del Regolamento di attuazione previsto dal D.P.R. n. 207/2010 e della contestuale introduzione di un nuovo codice con meno articoli nonché di un nuovo livello di regolazione per il tramite delle Linee Guida dell’ANAC.
Oggi, a distanza di quasi 3 anni dall’entrata in vigore, quel sistema che si era immaginato non ha prodotto i suoi effetti sia per alcune lacune legislative nella fonte primaria e sia per il mancato completamento della regolazione ministeriale e da parte dell’ANAC. Il problema è aggravato dalla controversa qualificazione giuridica e dai dubbi circa la conseguente cogenza o meno delle stesse Linee guida. In relazione a tale ultima circostanza si osserva da un lato che non tutte le Linee guida che l’ANAC sono state emesse e, dall’altro lato, che la vincolatività
delle stesse è da tempo dibattuta e oggetto di attenzione da parte del giudice amministrativo
2.
Per tali ragioni, al fine di superare le incertezze applicative a carico delle stazioni appaltanti e degli operatori economici, è sentita dalla quasi totalità degli operatori coinvolti la necessità di superare quel sistema.
Appare infatti indispensabile un ritorno al passato: recuperare il rapporto tra fonte primaria e secondaria e superare il sistema della soft law, prevedendo un testo semplificato accompagnato da un regolamento di attuazione e di esecuzione dotato di forza cogente. Quanto sin ora prodotto dall’Autorità di settore potrà essere recuperato per riempire di contenuto tale regolamento di attuazione.
Insomma, ciò che appare evidente, e del resto è un’esigenza ormai sentita in tutti i settori, è garantire la certezza del diritto agli operatori. Di ciò ne beneficeranno tutte le Stazioni Appaltanti e, in particolare, i Comuni di medio-piccole dimensioni che bandiscono una percentuale altissima di gare. Di conseguenza avere regole certe permetterà una maggiore e meglio ponderata partecipazione alle gare da parte degli operatori economici ed eviterà il profilarsi di contenziosi ed orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Infine, si evidenzia che il ruolo dell’ANAC non potrà che essere rivisto e anche per tale Autorità sarebbe auspicabile il ritorno allo scopo originario d’istituzione e cioè quello di vigilanza e di monitoraggio del settore degli appalti pubblici.
2.2. Semplificazione procedure di verifica requisiti generali
L’attuale art. 32 disciplina le fasi delle procedure di affidamento e prevede che l’aggiudicazione diventi efficace successivamente alla verifica del possesso dei requisiti generali. Secondo molti operatori è proprio in questo intervallo di tempo che si accumulano ritardi, dettati da una inerzia della Stazione appaltante ovvero dai tardivi riscontri da parte di altri soggetti alle richieste di verifica inoltrate. Al fine di evitare l’accumulo di ritardi si potrebbe immaginare che la Stazione appaltante, una volta avviata la procedura di verifica presso gli altri soggetti, possa, nel caso di omessa tempestiva ricezione del riscontro nei successivi trenta giorni, procedere alla stipulazione del contratto di appalto, riservandosi il potere di recedere per giusta causa del contratto ove venisse successivamente a conoscenza dell’assenza dei requisiti generali.
2 Le linee guida in materia di affidamento dei servizi legali sono state impugnate al TAR Lazio dalle Associazioni degli avvocati amministrativisti. Autonomo ricorso è stato inoltre proposto dal Consiglio nazionale forense, il cui procedimento risulta incardinato presso la sezione prima del Tar Lazio, con il numero di RG 15385/2018.
2.3. Albo dei componenti delle commissioni giudicatrici
Al fine di poter garantire efficienza e trasparenza all’azione amministrativa nonché la parità di trattamento dei diversi concorrenti alle gare appare opportuno che nel nuovo progetto di modifica del codice dei contratti sia mantenuta l’istituzione dell’albo nazionale dei commissari tenuto dall’ANAC.
Anche se allo stato attuale i lavori relativi alla istituzione dell’albo non sono ancora partiti, il Consiglio nazionale forense, nell’ottica di favorire la specializzazione e la competenza, ritiene che l’istituzione dell’albo nazionale possa essere un presidio di maggiore legalità nella valutazione delle offerte. Tuttavia non basta la mera conservazione della misura ma la stessa va riempita di contenuti, con riferimento alle professionalità e competenze richieste, e di adeguate risorse economiche che remunerino equamente i soggetti iscritti in tale albo.
Del resto una simile misura è prevista anche in altri settori del diritto: si pensi alle procedure concorsuali ove è stato istituito l’albo nazionale dei soggetti incaricati dall’autorità giudiziaria delle funzioni di gestione e di controllo nelle procedure di cui al codice della crisi e dell'insolvenza istituito presso il Ministero della Giustizia.
Rispetto alle previsioni della disciplina comunitaria l’attuale Codice dei contratti ha regolamentato il subappalto in maniera meno liberale ed è noto che la Commissione Europea ha inviato nel mese di febbraio al Governo italiano una formale lettera di costituzione in mora (2018/22273) per la non conformità di alcune parti della legislazione nazionale di recepimento rispetto le direttive europee. Proprio in relazione all’istituto del subappalto la Commissione ha avanzato varie critiche. La prima è relativa al limite per il quale, nell’ambito di un contratto pubblico, l’esecuzione dell’opera o la prestazione di servizi non può eccedere il 30% del totale visto che nelle direttive non è presente un corrispondente limite. La seconda invece riguarda l’obbligo dell’operatore economico che partecipa alla gara di indicare una terna di subappaltatori. Proprio in relazione a tale circostanza, al fine di snellire le procedure di affidamento e velocizzare le verifiche relative alla sussistenza dei requisiti generali dei partecipanti alla gara, potrebbe essere utile eliminare l’obbligo del partecipante alla gara di dichiarare ed indicare al momento della presentazione dell’offerta la terna dei subappaltatori.
Difatti tale obbligo impone alla Stazione appaltante di verificare preventivamente la sussistenza dei requisiti generali in capo alle dette tre subappaltatrici, a prescindere dall’esito della gara. Inoltre, nel caso in cui un subappaltatore non abbia i requisiti generali, la conseguenza che deriva è l’esclusione del concorrente, senza possibilità di sostituzione, come invece avviene nell’istituto dell’avvalimento, con una evidente differenziazione non giustificata tra i due istituti.
2.5. Contenzioso amministrativo derivanti dagli appalti pubblici
Per quanto riguarda il contenzioso amministrativo scaturente dagli appalti pubblici si ritiene che la riduzione del contenzioso non possa ottenersi frapponendo degli ‘ostacoli’ all’accesso alla giustizia, siano essi economici e temporali.
Infatti non appare assolutamente opportuno prevedere, come proposto dall’ANAS nella propria audizione dinanzi codesta Commissione, un ulteriore aumento, allo stato già molto ingente, dei costi di accesso alla giustizia per il tramite dell’elevazione del contributo unificato, e cioè della tassa che si paga per esercitare il diritto di azione.
Così come appare lecito dubitare della ragionevolezza di alcuni aspetti del c.d. rito degli appalti. Tale rito, previsto in base al combinato disposto dell’art. 29 del D.Lgs. n. 50/2016 e dell’art. 120, commi 2-bis e 6-bis D.Lgs. n.104/2010 (introdotti dall’art. 204 del D.Lgs. n.50/2016), onera l’operatore economico ad impugnare i provvedimenti di esclusione o di ammissione dalla procedura di affidamento emessi all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali nel termine di trenta giorni, decorrenti dalla pubblicazione del provvedimento sul profilo della Stazione appaltante. Con la conseguenza che l’omessa impugnazione preclude la facoltà di far valere l'illegittimità derivata dei successivi atti delle procedure di affidamento, anche con ricorso incidentale.
Le problematiche che tale procedura comporta sono evidenti: innanzitutto si onera il concorrente ad impugnare giudizialmente un provvedimento di ammissione senza che tale provvedimento abbia una portata lesiva, immediata e concreta, dei propri interessi, così ribaltando l’orientamento consolidato, per il quale il ricorso giurisdizionale è sempre stato considerato un rimedio non dato nell’interesse astratto della giustizia o per ottenere la mera enunciazione dei parametri di legalità dell’azione amministrativa, disancorati da un effettivo e non ipotetico vantaggio derivante all’attore nel caso in contestazione.
In secondo luogo la compressione dei termini non solo incide sul diritto di azione ma anche sul diritto di difesa visto che l’altro concorrente, ove volesse proporre una impugnativa incidentale avverso l’ammissione alla gara del ricorrente principale, dovrebbe sempre effettuarla nel medesimo termine di trenta giorni. Con la conseguenza che ove un concorrente notifichi all’altro il ricorso avverso l’ammissione di questo il trentesimo giorno, il resistente non avrebbe alcuna possibilità di procedere ad un ricorso incidentale avverso l’altrui ammissione.
Le dette problematiche sono state da ultimo sollevate dal Tar Puglia, con l’ordinanza 20 luglio 2018 n. 1097 di rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 120, comma 2-bis primo e secondo periodo cod. proc. amm. (comma aggiunto dall’art. 204, comma 1, lettera b) D.Lgs n.50/2016), limitatamente all’onere di immediata impugnazione dei provvedimenti di ammissione, nella parte in cui onera l’impresa partecipante alla gara ad impugnare immediatamente le ammissioni delle altre imprese partecipanti alla stessa gara, pena altrimenti l’incorrere nella preclusione di cui al secondo periodo della disposizione per contrasto con gli artt. 3, comma 1, 24, commi 1 e 2, 103, comma
1, 111, commi 1 e 2, 113, commi 1 e 2 e 117, comma 1 della Costituzione e 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, recepita con legge 4 agosto 1955, n. 848. Peraltro, e solo per completezza, si osserva che il medesimo articolo è stato già oggetto di esame pregiudiziale da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea con ordinanza del 14 febbraio 2019 nella causa C-54/18.
2.6. Divieto di prevedere procedure per l’affidamento di servizi professionali a titolo gratuito
Si evidenzia che vi sono stati dei casi, non poco diffusi, in cui le Stazioni appaltanti hanno bandito procedura di gara per l’affidamento di servizi professionali in assenza di corrispettivo ovvero con corrispettivo irrisorio. Tali procedure appaiono manifestamente illegittime per la violazione della disciplina sull’equo compenso, al cui rispetto è chiamata anche la pubblica amministrazione. Difatti la L. n. 172/2017, nel convertire il D.L. n. 148/2017, ha inserito l’art. 19-quaterdecies, il quale, al comma 3, stabilisce che la pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell'equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti. Il compenso si intende equo, ai sensi del comma 2 dell’art. 13-bis L. n. 247/2012 (che proprio il citato art. 19-quaterdecies ha introdotto e reso applicabile a tutti i professionisti), se è proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alle caratteristiche della prestazione. Pertanto dalle dette disposizioni emerge come nell’ordinamento vi sia un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, considerato altresì che l’art. 35 Cost. tutela il lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”, mentre il successivo art. 36, nell’occuparsi del diritto alla retribuzione, non discrimina tra le varie forme di lavoro.
Pertanto nel progetto di riforma del codice dei contratti pubblici appare utile che venga inserito il rispetto della normativa sull’equo compenso nell’affidamento di incarichi professionali.
3. L’affidamento dei servizi legali da parte della P.A.
Nella vigenza della normativa precedente all’attuale codice dei contratti pubblici, in relazione alla disciplina dell’affidamento di incarichi legali da parte delle amministrazioni pubbliche, si sono confrontati due approcci molto diversi tra loro, l’uno tendente a valorizzare la specialità del rapporto intercorrente tra amministrazione e difensore di fiducia, nonché il rilievo dell’intuitu personae quale carattere ineliminabile del contratto d’opera professionale
anche in presenza di una parte pubblica, e l’altro invece teso a considerare l’incarico legale come una fornitura di servizi che, seppur afferenti all’amministrazione della giustizia, non dovrebbero comportare, almeno dal lato degli oneri incombenti sul settore pubblico, procedure o logiche diverse da quelle praticate per altri tipi di forniture. Secondo quest’ultimo approccio, l’esigenza di garantire la par condicio tra gli avvocati e l’uso corretto delle risorse pubbliche dovrebbe in ogni caso condurre le amministrazioni ad utilizzare procedure ad evidenza pubblica anche nei casi in cui le norme sembrano lasciare il campo ad un esercizio responsabile di un maggior grado di discrezionalità. Contribuiva ad alimentare il dibattito un assetto delle regole vigenti non scevro da oscurità, sia in sede comunitaria, che in sede nazionale.
Nel 2012, una importante sentenza del Consiglio di Stato (n. 2730 dell’11.05.2012) sembrava però fare il punto sulla vexata quaestio se non con ambizioni risolutive quantomeno con un notevole ed apprezzabile sforzo di precisazione. La decisione postula la distinzione concettuale e giuridica tra appalto di servizi legali e conferimento di singolo incarico di difesa legale e incardina su questa distinzione una conseguente differenziazione sul piano della disciplina delle forme di scelta del legale. Nel primo caso ci troveremmo di fronte ad un affidamento di servizio, inteso come insieme di attività articolate e complesse che richiedono un certo livello di organizzazione dell’affidatario e che possono anche comprendere la difesa in giudizio, ma non si esauriscono in essa; nel secondo caso ci troveremmo invece di fronte ad un contratto d’opera professionale, e cioè ad un tipo particolare del genere del contratto di lavoro autonomo, caratterizzato da una stretta relazione fiduciaria. Solo nel primo caso rientreremmo nel campo di applicazione delle norme sugli appalti pubblici, e conseguentemente l’avvocato, o gli avvocati andrebbero scelti sulla base di procedure ad evidenza pubblica. Nel secondo caso, invece, non vi sarebbe tale necessità, ben potendo l’amministrazione scegliere il legale senza particolari formalità. In aggiunta, il Consiglio di Stato segnalava altresì la specialità del settore dell’amministrazione della giustizia rispetto agli altri ambiti di amministrazione che ricadono nel campo di applicazione oggettivo del codice dei contratti pubblici: la prestazione professionale di assistenza e difesa in giudizio va dunque correttamente inquadrata in questo contesto, e comporta una “scelta fiduciaria” da parte dell’amministrazione, anche se ovviamente tale scelta resta soggetta “ai principi generali dell’azione amministrativa in materia di imparzialità, trasparenza e adeguata motivazione”. Diversamente dal privato, che non ha bisogno evidentemente di motivare alcunché, il committente pubblico deve comunque realizzare un’azione amministrativa che renda possibile la verifica della congruità delle determinazioni assunte, rispetto a quello che il giudice definisce il “bisogno di difesa da appagare”.
Rispetto a questo quadro giuridico, le direttive del 2014 pongono alcune novità significative, e ridefiniscono il contesto in termini più chiari. L’art. 10 della direttiva 2014/24/UE e l’art. 21 della direttiva 2014/25/UE escludono infatti espressamente taluni servizi legali dal campo di applicazione, ed in particolare quelli che consistono nella difesa in giudizio, nella consulenza legale cosiddetta precontenziosa, o comunque collegata ad un giudizio concretamente possibile, nonché “altri servizi legali che, nello Stato membro interessato, sono connessi, anche occasionalmente, all’esercizio dei pubblici poteri”. Le prime due fattispecie sono facilmente individuabili, e tra l’altro trovano una corrispondenza diretta nel vigente ordinamento forense (legge 247 del 2012), che all’atto di individuare le attività riservate all’avvocato, richiama all’art. 2, “l’assistenza, la rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali” (comma 5), e “l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale”. Il possibile collegamento tra le attività difensive e quelle di consulenza non è dunque solo un dato di fatto che appartiene all’esperienza concreta della professione forense, ma è anche recepito nella legge che oggi disciplina l’esercizio della professione.
Meno chiaro è il terzo caso contemplato, e cioè quello residuale, relativo ad “altri servizi legali” connessi anche occasionalmente all’esercizio di pubblici poteri. La fattispecie potrebbe riferirsi ai casi in cui l’amministrazione pubblica assume preventivamente il parere di un legale allo scopo di orientarsi sul quadro giuridico conferente in occasione dell’esercizio dei propri poteri. Accogliendo questa prospettiva, dovremmo dedurne che si possa trattare di un caso particolare di consulenza legale; il legislatore europeo ed italiano (nell’articolo che traspone nel diritto interno i servizi legali esclusi, la formula è riportata in maniera identica) si sarebbe qui spinto ad individuare selettivamente un tipo particolare di consulenza in base al suo oggetto, l’esercizio di pubblici poteri. Secondo l’Autorità di settore, rientrerebbe nella fattispecie in questione l’affidamento di un incarico di collaborazione per la stesura di proposte di elaborati normativi di competenza dell’amministrazione. Entrambe le ipotesi appaiono scarsamente persuasive. Ed infatti la connessione all’esercizio dei pubblici poteri potrebbe essere intesa in modo diverso, e riferirsi piuttosto ad una condizione soggettiva di chi rende il servizio legale e/o alla presenza di un interesse pubblico preminente allo svolgimento del predetto servizio o prestazione che dir si voglia.
In ogni caso, quale che sia il significato da dare all’espressione in questione, quello che qui conta sottolineare è che, oggi, allo stato attuale del diritto positivo europeo e nazionale in materia, esiste certamente un’area materiale propria delle prestazioni rese dagli avvocati che è espressamente ricompresa nei cosiddetti servizi esclusi. Si tratta dell’area che consiste nelle prestazioni di difesa e rappresentanza in giudizio, nonché nelle attività di consulenza e
assistenze ad esse connesse. Si tratta di attività che, sia per ragioni legate alla natura strettamente fiduciaria del rapporto che lega avvocato alla parte assistita, sia per ragioni oggettive legate alla necessità di procedere rapidamente alla cura dell’interesse dedotto in giudizio, sono incompatibili con le logiche e con gli automatismi propri delle procedure ad evidenza pubblica, e soprattutto con i suoi tempi. Basti pensare al caso dell’impugnazione di un provvedimento dell’amministrazione che sia corredata da una domanda di sospensione cautelare dell’efficacia del provvedimento impugnato. L’ipotesi di affidare l’incarico per la difesa in giudizio dell’ente tramite una procedura ad evidenza pubblica sarebbe evidentemente impraticabile.
Completano il quadro giuridico conferente l’allegato IX del codice che include i servizi legali diversi da quelli che abbiamo qui esaminato tra quelli sottoposti al regime alleggerito di cui all’art. 140 e seguenti del codice stesso. Si tratta di un regime concepito per i servizi sanitari e sociali, nonché per quelli a loro connessi, che prevede sia la possibilità di riservare a taluni soggetti la partecipazione alla gara, sia forme speciali di pubblicità delle procedure.
In sintesi, dunque, la scelta del contraente avvocato cui affidare un incarico professionale è per un’amministrazione pubblica una scelta da compiersi sulla base di una responsabile valutazione della professionalità del legale e della sua attitudine a curare la vicenda in questione, quando si tratta appunto di assumere le difese dell’ente in un qualsiasi tipo di giudizio, o di prestare attività di consulenza legale connessa ad un procedimento giurisdizionale in corso o che abbia una probabilità elevata di verificarsi. Mentre rimane soggetta alle procedure semplificate di cui all’art. 140 e seguenti del codice degli appalti, quando le prestazioni legali si realizzano in contesti diversi da quelli qui indicati: coniugando questo esito con i risultati dell’elaborazione giurisprudenziale precedente al vigente codice dei contratti pubblici, possiamo concludere che ci si trovi di fronte in questi casi ad attività complesse o comunque plurime di consulenza legale da svolgersi in un dato orizzonte temporale, che richiedono anche un certo livello di organizzazione da parte del fornitore. Dovrebbe comunque trattarsi di consulenza non collegata e non collegabile a possibili giudizi (in corso o da instaurarsi), perché altrimenti rientreremmo in un servizio escluso ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. d). Ovviamente, la scelta del legale nei casi in cui la prestazione è chiaramente esclusa dalle procedure ad evidenza pubblica deve rispettare i principi generali di cui al richiamato art. 4 del codice.
Che questo sia un assetto regolatorio efficiente e chiaro è peraltro tutt’altro che scontato. Il confine tra la consulenza connessa ad un giudizio e consulenza che non presenti tale connessione appare invero particolarmente labile. Soprattutto se il giudizio rispetto al quale l’attività di consulenza presenta o presenterebbe un profilo di connessione è addirittura eventuale, come nelle norme in esame. È vero che la fonte europea (e quella italiana identica) richiede la necessità che la probabilità del giudizio sulla questione oggetto di consulenza sia elevata, ma questa caratteristica accompagna quasi sempre l’azione dei pubblici poteri,
quando essi incidono su posizioni giuridiche soggettive di un certo rilievo, e/o su interessi economici consistenti.
In questo quadro, può essere molto difficile valutare quale sia la consulenza legale attratta nei settori esclusi in quanto collegata ad un rischio elevato di contenzioso e quale non lo sia. È piuttosto probabile invece, che se l’amministrazione si rivolge ad un legale per verificare il corso di azione prescelto per l’esercizio delle proprie funzioni in un caso concreto, o invero per una serie potenzialmente aperta di casi, lo fa proprio perché vuole evitare di incorrere in azioni legali dei destinatari dei provvedimenti . Ché se così non fosse, e cioè se si trattasse solo di confezionare correttamente i provvedimenti di competenza, l’amministrazione potrebbe (o forse più precisamente dovrebbe) ricorrere alle proprie competenze interne, e, ove non le avesse, procedere a dotarsene, o al limite ricorrere alla possibilità di avvalersi di soggetti esterni (non necessariamente avvocati) nelle forme e secondo quanto stabilito dal Testo unico sul pubblico.
Il quadro giuridico in materia di soggezione o meno dell’affidamento di incarichi legali alle procedure ad evidenza pubblica si presenta dunque oggi - al netto della zona d’ombra qui rilevata e relativa alla difficoltà di distinguere la consulenza connessa a rischi giudiziari da quella che non lo è – più chiaro che in passato, e nel suo complesso orientato in una direzione di maggiore liberalizzazione: l’area dei servizi legali esclusi è infatti significativamente ampia, e corrisponde a quella delle prestazioni giudiziali e stragiudiziali connotate più marcatamente da un affidamento necessariamente fiduciario, basato sull’intuitu personae, di impossibile riduzione entro le logiche e le tempistiche delle procedure ad evidenza pubblica.
3.3. Le linee guida ANAC in materia di affidamento dei servizi legali.
In questo contesto, l’ANAC ha varato le linee guida n. 12 che, pur non potendo disconoscere il dato giuridico dell’inserimento dei servizi legali predetti tra i servizi esclusi, tuttavia finiscono per riespandere le procedure ad evidenza pubblica, e ritenere le amministrazioni obbligate ad esperire procedure di una certa complessità anche in quei casi, esperendo in particolare valutazioni di ordine comparativo.
La leva motivazionale principale dell’indirizzo espresso dall’ANAC è la soggezione ai principi dell’art. 4 del codice. Da questi principi l’ANAC ricava regole ritenute “minime”, e come tali indispensabili. Queste regole consisterebbero nella necessità di pubblicare un bando o un invito ad offrire, nella verifica dei requisiti di partecipazione previsti dall’art. 80 del codice degli appalti, e nella valutazione comparativa delle offerte pervenute. Un vero e proprio procedimento ad evidenza pubblica, dunque.
Secondo ANAC, il diritto europeo avrebbe definitivamente superato la linea distintiva che informava il previgente sistema, e che, come abbiamo visto, era fondata sulla possibilità di distinguere l’affidamento di un singolo incarico, segnato da carattere strettamente fiduciario, dall’affidamento di un vero e proprio servizio continuativo che richieda un certo livello di
organizzazione di mezzi e personale. In particolare, la nozione comunitaria di appalto sarebbe così lata da non consentire alcuna distinzione interna, e da ricomprendere qualsiasi tipo di incarico legale, compreso il singolo mandato a difendere in giudizio l’amministrazione. Sarebbe dunque stata superata la distinzione civilistica tra contratto d’opera professionale e appalto di servizi, o, in altre parole, tale distinzione, ove rilevante per il diritto interno, non assumerebbe alcun rilievo per il diritto europeo e per il diritto nazionale che di esso costituisce trasposizione diretta, come il codice dei contratti pubblici. Seppur espressamente esclusi, anche i singoli incarichi di rappresentanza e difesa in giudizio sarebbero comunque appalti di servizi, anche in virtù della rubrica stessa dell’art. 17 del codice, che appunto recita “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”.
Il paradosso più evidente consiste però nell’affermazione per cui la scelta di un avvocato esterno per la difesa di un’amministrazione pubblica sarebbe priva di carattere fiduciario. Si tratta di una affermazione palesemente contraria non solo al diritto positivo italiano, ma anche al quadro europeo: la direttiva 98/5/CE sulla libertà di stabilimento degli avvocati europei e quella sulla libera prestazioni di servizi richiamano invece non solo le fonti interne ma anche i codici deontologici dei Paesi membri; notoriamente, il rapporto che lega parte assistita - pubblica o privata che sia - al proprio difensore è interamente e normativamente – non solo culturalmente – basato sulla relazione fiduciaria. Solo questa relazione giustifica e legittima i particolari poteri processuali dell’avvocato, e la sua funzione procuratoria che configurano il rapporto contrattuale tra avvocato e assistito nei termini di un contratto del tutto speciale, forse neanche ascrivibile al genus dei contratti d’opera professionale, tanto che, secondo la Corte costituzionale, “gli avvocati … si trovano in una posizione che ha aspetti di peculiarità che oggettivamente la differenziano da quella di tutti gli altri prestatori d’opera intellettuale ” . E difatti, con la procura alle liti, che è atto unilaterale, l’assistito affida all’avvocato difensore una serie di poteri che, una volta conferiti, rimangono disciplinati dalla legge processuale, e configurano il cosiddetto ius postulandi, che anzi deve necessariamente prescindere dalle (eventuali) istruzioni del mandante, e vanno piuttosto esercitati in condizioni di piena autonomia e indipendenza, in quanto diretta espressione del diritto di difesa protetto dall’art. 24 della Costituzione. Diritto che, insegna la Corte costituzionale fin dai primi anni di attività, è diritto alla difesa tecnica, cioè appunto all’assistenza ed alla rappresentanza in giudizio ad opera di un difensore abilitato al patrocinio nelle forme di legge. Rispetto a questo contesto, la normativa comunitaria del 2014 non pare produrre alcun cambiamento di sorta. Né tantomeno fornire spunti per sostenere, come fa ANAC, il presunto superamento della distinzione tra appalti di servizi e contratti d’opera professionale. E tuttavia tale affermazione appare strumentale a sostenere, nella logica dell’Autorità di settore, un intervento di regolazione che è basato a ben vedere sulla espansione dei principi generali di cui al richiamato articolo 4, i quali finiscono per essere dettagliati in una vera e propria procedura ad evidenza pubblica. È
questo il passaggio più delicato delle linee guida in esame. Nonché quello più problematico rispetto al principio del divieto di gold plating.
Va infatti ribadito che la direttiva del 2014 non contiene una norma quale quella di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici. Nelle fonti comunitarie, cioè, non trova copertura positiva la regola per cui nei settori esclusi l’affidamento di contratti da parte delle amministrazioni pubbliche dovrebbe comunque essere assoggettato ai principi generali dell’azione amministrativa. È pur vero che, anche nei settori oggettivamente esclusi, il soggetto che agisce è un’amministrazione pubblica, ma questo potrebbe non dover comportare sempre e comunque il trascinamento delle regole sull’evidenza pubblica e più in generale una procedimentalizzazione severa delle forme di azione. Ché anzi, sempre a livello dei principi generali, pare deporre in senso diverso l’art. 1-bis della legge 241 del 1990, in forza del quale “La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Già l’articolo 4, in buona sostanza, potrebbe di per sé presentare profili di criticità rispetto ai vincoli comunitari, che, come noto, in forza del recepimento espresso e diretto del divieto di gold plating tra i criteri direttivi della delega all’origine del vigente codice dei contratti pubblici, integrano anche limiti costituzionali della normativa delegata. Ma ancor di più appare forzata una interpretazione dell’art. 4 dalla quale si finisca per far scaturire un obbligo di seguire formalità e procedure che invece l’art. 17 espressamente esclude.
Dal principio di economicità infatti l’ANAC fa discendere la necessità di una valutazione comparativa tra più preventivi, pur riconoscendo che “il risparmio di spesa non dovrebbe essere il criterio di guida nella scelta che deve compiere l’amministrazione”. Tale opzione appare disallineata rispetto alle norme vigenti dell’ordinamento forense, che pure rendono oggi
– dopo le modifiche della legge per la concorrenza (legge n. 124 del 2017) – obbligatoria e non più a richiesta la previa comunicazione “in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale della (ndr) prevedibile misura del costo della prestazione” (art. 13, comma 5, l. 247 del 2012). Ma appunto trattasi di misura “prevedibile”, e tale disposizione va coordinata con quella che precede, in base alla quale “il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell’incarico”. In buona sostanza, il preventivo non può che essere, per le prestazioni legali, che un preventivo di massima, relativo agli oneri ipotizzabili, mentre è frequente il caso in cui vi siano oneri appunto non ipotizzabili previamente. Ragione per cui apparirebbe invero decettivo utilizzare il metodo del confronto comparativo tra preventivi che invece l’ANAC ritiene necessario. Insomma, la valutazione comparativa tra preventivi appare invero nel caso delle
prestazioni legali un metodo di scelta che non privilegia una seria assunzione di responsabilità da parte dell’amministrazione procedente, e che rischia di condurla alla scelta più facile, ma magari meno efficiente, rispetto al “bisogno di difesa” da soddisfare.
Dal principio di efficienza l’ANAC fa discendere inoltre un criterio di scelta che dia rilievo alla “presenza di un pregresso contenzioso nella materia oggetto di affidamento che si è concluso con esito positivo per l’amministrazione medesima”. Anche se l’evenienza è richiamata a titolo di esempio, e in termini non del tutto chiari, sembra potersi dire che l’ANAC ritenga efficiente una scelta del difensore che abbia in passato vinto cause nell’interesse dell’amministrazione nella stessa materia. È anche questo un criterio insolito, che segnala una scarsa conoscenza delle dinamiche di settore. Un ottimo difensore può perdere una causa in cui è parte l’amministrazione, se questa ha agito in violazione di legge o facendo un cattivo uso del potere amministrativo. Del pari un pessimo difensore può vincere la causa se l’amministrazione il cui atto è stato impugnato ha invece operato in modo legittimo e ragionevole.
E ancora. L’ANAC richiama i principi di imparzialità e parità di trattamento, e li declina come necessaria “valutazione equa e imparziale dei concorrenti”, e “assoluto divieto di favoritismi e di discriminazione”, con il rispetto di “regole procedurali fissate all’inizio”. Da essi ANAC deriva anche la necessità di rotazione degli incarichi tra i professionisti inseriti negli elenchi che l’Amministrazione dovrebbe formare. Ferma restando l’assoluta (anzi ovvia) condivisibilità dei principi di equità ed imparzialità, nonché del divieto di favoritismi, si determinano comunque alcune forzature: si postula infatti la necessità di concorrenti; si postula in ogni caso la fissazione all’inizio di regole procedurali; si configura una best practice (la formazione preventiva di elenchi) come presupposto necessario per effettuare la rotazione degli incarichi, e quindi di fatto la si impone come modalità procedimentale ordinaria per l’affidamento dei servizi legali. In pratica, abbiamo la sostanza di una vera e propria procedura ad evidenza pubblica in un settore escluso.
Compreso nel principio di trasparenza l’ANAC ritiene sussistere un obbligo di garantire ad “ogni potenziale offerente” “un adeguato livello di conoscibilità delle procedure di gara”, ma non impedisce di “limitare il numero di candidati invitati a presentare un’offerta”. Ancora una volta, siamo di fronte alla declinazione di un principio generale nelle forme di una procedura ad evidenza pubblica, e più specificamente nell’invito ad offrire.
Singolare anche il modo di declinare il principio di proporzionalità. Per ANAC esso “impone quindi di formulare requisiti di partecipazione proporzionati all’oggetto e al valore dell’appalto, nonché di predisporre procedure la cui complessità sia proporzionata alla tipologia di contratto che si intende affidare”. Ci troviamo di fronte alla conferma dell’imposizione (questo il termine impiegato nelle linee guida) di una procedura ad evidenza pubblica con specifici requisiti di partecipazione. E addirittura all’onere di aggravare la
procedura in funzione del valore e dell’oggetto dell’appalto, quasi che la complessità delle procedure sia un valore di per sé.
Quanto alla pubblicità, essa non può che comportare, secondo ANAC, la pubblicazione sul sito istituzionale dell’Ente. Si può derogare all’avviso pubblico solo nei casi in cui il codice degli appalti consente specifiche deroghe. Con il che, potremmo dire, abbiamo la chiusura del cerchio: per un incarico manifestamente afferente al novero dei settori esclusi, è stabilità una forma di pubblicità necessaria dell’atto di impulso alla selezione dell’affidatario, l’avviso pubblico, e se ne può fare a meno solo nei casi indicati dal codice dei contratti pubblici. Vi sarebbe da chiedersi in cosa consista la sottrazione al codice stesso pur espressamente disposta dal legislatore all’articolo 17.
Corona la reimmissione dei servizi legali esclusi tra quelli inclusi “l’obbligo di verificare in concreto il possesso da parte dei concorrenti dei requisiti generali di cui al citato art. 80 ”, e la possibilità per le amministrazioni di richiedere, oltre agli ovvi requisiti minimi di idoneità professionale, anche quelli di “capacità economica e finanziaria”. Per essi le linee guida richiamano gli stessi requisiti previsti per gli appalti di servizi legali non esclusi, cioè quelli di cui all’allegato IX del codice, tra cui il fatturato globale che deve essere proporzionato al valore dell’affidamento. Con il che, ogni distinzione tra servizi legali esclusi e servizi legali inclusi, è di fatto azzerata. E l’assimilazione dell’avvocato all’impresa è piena: basta una rapida lettura dei requisiti di cui all’art. 80 per verificare come essi siano costruiti manifestamente con riferimento a imprese di lavori o servizi.
Ne deriva, in conclusione, che l’affidamento diretto e opportunamente motivato, che, in base all’esclusione espressa dei servizi legali predetti, dovrebbe essere la regola, diventa secondo ANAC l’eccezione, praticabile solo per ragioni di urgenza (peraltro non addebitabili all’amministrazione) o nei casi di incarichi consequenziali (i diversi gradi di giudizio) o complementari (rispetto ad altri incarichi sulla medesima materia).
3.5. Linee guida ANAC e divieto di gold plating.
Le linee guida ANAC in materia di affidamento dei servizi legali finiscono infatti inesorabilmente per aumentare sensibilmente il livello di regolazione della materia, in netto contrasto non solo con le conferenti fonti europee ma anche con la legislazione nazionale. Ed infatti la delega per l’attuazione delle direttive europee sugli appalti pubblici è stata conferita dal Parlamento con la legge 28 gennaio 2016, n. 11, il cui art. 1, comma 1, lett. a) ha autorizzato il Governo a recepire le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE ponendo come specifico e puntuale criterio direttivo il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall'articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246”.
Nell’applicare ad un settore escluso procedure di evidenza pubblica per la scelta del contraente, l’Autorità di settore italiana finisce per introdurre un livello di regolazione superiore a quello europeo.
Il legislatore italiano non poteva dunque, senza violare il divieto di gold plating, aggiungere ulteriori ambiti oggettivi di applicazione del codice a quelli già previsti in sede europea, ed ampliare così il novero dei settori inclusi. Il fatto che, nel caso di specie, il divieto di gold plating sia stato espressamente richiamato nella legge delega, comporta che la violazione del divieto si traduca in un vizio di eccesso di delega e quindi in una violazione dell’articolo 76 della Costituzione. Interpretate nel modo in cui pretende l’ANAC, le conferenti norme del codice italiano dei contratti pubblici appaiono assunte in violazione del divieto di gold plating, laddove includono l’affidamento dei servizi legali tra i settori soggetti a procedure ad evidenza pubblica. Giacché il necessario rispetto di tale divieto è incorporato come criterio di delega dalla legge che ha autorizzato il Governo ad adottare il codice degli appalti, ne deriva l’incostituzionalità delle previsioni de quibus. Insomma delle due, l’una: o le norme del codice, e più specificamente, il combinato disposto degli artt. 4 e 17, comma 1, lett d), non pretendono affatto che l’affidamento dei servizi legali fuoriesca dal novero dei settori esclusi, oppure abbiamo a che fare con una norma incostituzionale, perché non era nel potere del Governo recepire le direttive europee allargandone indebitamente l’area oggettiva di applicazione.
L’impressione che se ne ricava è che l’Autorità di settore utilizzi leve interpretative varie, ma finisca inevitabilmente per concludere sempre nel senso della maggiore espansione possibile del regime vincolistico, o sotto il profilo soggettivo degli enti ricompresi, o sotto quello oggettivo dei settori considerati. In entrambi i casi, il risultato è una rilevante compressione degli spazi di autonomia degli enti che subiscono tali indirizzi interpretativi. Nel caso dell’espansione in senso oggettivo del codice dei contratti pubblici agli incarichi aventi ad oggetto prestazioni legali, sono le amministrazioni pubbliche ad essere fortemente limitate nella loro autonomia e nella loro responsabile discrezionalità, con una torsione burocratica che finisce per sostituire ad un serio obbligo di motivazione l’esperimento di procedure formali.
Da quanto sopra esposto appare evidente che, come già anticipato in linea generale nel precedente par. 2.1., l’introduzione di nuovi livelli di regolazione della materia per il tramite delle Linee guida da parte dell’ANAC ha avuto l’effetto opposto rispetto lo scopo originario, finendo per aggravare la incertezza normativa nel settore e rallentare i procedimenti decisionali della pubblica amministrazione.
4. Sulla esclusione degli ordini professionali dall’ambito di applicazione del codice dei contratti pubblici
La questione relativa all’inclusione degli ordini professionali e dei relativi consigli nazionali nell’ambito di applicazione del codice dei contratti, e di conseguenza la soggezione
di questi alle procedure ad evidenza pubblica ai fini dell’affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, si è posta a seguito della delibera dell’ANAC n. 687 del 28 giugno 2017, la quale, interloquendo con la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi ed odontoiatri, ma affermando principi valevoli per l’intero comparto ordinistico, ha ritenuto che “gli ordini professionali hanno natura giuridica di enti pubblici non economici e in quanto tali sono anche in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla disciplina di settore per la configurabilità dell’organismo di diritto pubblico”.
Con il detto parere l’ANAC ha radicalmente mutato il proprio precedente orientamento in materia (parere ANAC prot. 0187466 del 19 dicembre 2016); orientamento che trovava la propria fonte principale su un precedente specifico della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Corte di giustizia 12 settembre 2013, in causa C-526/2011) che aveva recisamente escluso la possibilità di ricondurre gli ordini professionali al novero degli organismi di diritto pubblico ai sensi delle direttive europee sugli appalti, giacché tali enti non soddisfano “né il criterio del finanziamento maggioritario da parte dell’autorità pubblica né il criterio relativo al controllo della gestione da parte dell’autorità pubblica”.
Nello specifico l’ANAC aveva stabilito che gli Ordini professionali “non possono essere considerati amministrazioni aggiudicatrici, ai fini dell’applicazione del Codice dei contratti pubblici, poiché non possiedono i requisiti previsti per essere classificati come organismi di diritto pubblico”. Conseguentemente, precisava l’Autorità, “i contratti di appalto di tali enti sono disciplinati dal diritto privato, non rientrando essi tra i soggetti obbligati all’applicazione della direttiva europea in materia di appalti pubblici” e “la nozione di organismo di diritto pubblico attualmente prevista dall’art. 1, comma 1, lett. D) del d.lgs. n. 50 del 2016 … ricalca pedissequamente la definizione già delineata dalle direttive 2004/17/CE, 2004/18/CE e recepita, nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 3, comma 26, d. lgs. 12 aprile 2006, n. 163”. Di conseguenza, concludeva, “si deve ritenere che – rebus sic stantibus – anche nel vigore del nuovo codice non perde efficacia quanto statuito nella sentenza della Corte di Giustizia Ue”.
Come detto l’ANAC ha ribaltato tale posizione, basando il mutamento su due riferimenti motivazionali: la riconducibilità degli ordini agli organismi di diritto pubblico, e la loro natura di enti pubblici non economici, alla luce del richiamo espresso a tali figure soggettive che il codice dei contratti pubblici effettivamente presenta all’art. 3.
Al di là del risultato concreto, che è quello di assoggettare diverse centinaia di enti che non impiegano risorse pubbliche ad un regime vincolistico nato e sviluppatosi – come è noto
– per esigenze di tutela della efficienza della spesa pubblica, l’indirizzo da ultimo intrapreso dall’ANAC colpisce anche per il percorso argomentativo, e per la sua diretta incidenza proprio su quella sfera di autonomia organizzativa e gestionale che contrassegna, nell’ordinamento vigente, le peculiari figure soggettive di diritto pubblico qui considerate. Ed infatti, per sostenere la riconducibilità anche degli ordini professionali alla nozione di organismo di diritto pubblico
elaborata in sede europea, l’ANAC finisce proprio per azzerare lo statuto autonomico di tali enti, interpretando la vigilanza ministeriale su di essi come una forma di vero e proprio “controllo di gestione”. Si tratta di una semplificazione evidente, che non è supportata affatto dalla disamina del diritto positivo conferente, ma questo è il dato che emerge.
Travisare il contenuto ed il senso della vigilanza ministeriale ed asserire che essa consista nella capacità di influenzare ed orientare permanentemente l’esercizio delle funzioni dell’ordine professionale equivale a rovesciare l’assetto delle relazioni giuridiche tra Stato e comunità professionali, per come l’ordinamento giuridico italiano lo ha conformato storicamente nella legislazione di settore. Ancora una volta sembra del tutto sfuggire all’ANAC che l’Ordine professionale è la comunità degli iscritti negli albi, che si autogovernano mediante organi eletti democraticamente. Secondo forme e regole previste dalla legge, che assicura la garanzia dell’assolvimento delle funzioni di pubblico interesse ad essi affidate. E con la possibilità di intervento dello Stato, grazie appunto alla vigilanza ministeriale, nei casi in cui tali enti non siano in grado di funzionare regolarmente, ma non certo con un potere statale di controllo ed ingerenza stabile e continuativa, che evidentemente finirebbe per svuotarne l’autonomia e confliggerebbe con il principio democratico che informa le procedure di elezione degli organi direttivi.
Colpisce altresì il disallineamento dell’orientamento ANAC rispetto agli esiti ormai saldamente consolidati del diritto europeo in tema di organismi di diritto pubblico.
4.1. La nozione di organismo di diritto pubblico.
In base alle ultime direttive in materia le amministrazioni aggiudicatrici sono “lo Stato, le autorità regionali o locali, gli organismi di diritto pubblico o le associazioni costituite da uno o più di tali autorità o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico”3. E per organismo di diritto pubblico, già in base alla direttiva del 2004, “(…) s'intende qualsiasi organismo:
a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale,
b) dotato di personalità giuridica, e
c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d'amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”4.
Gli organismi di diritto pubblico sono dunque gli enti dotati di personalità giuridica, istituiti per tutelare interessi pubblici (“esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale
3 Cfr. art. 6, direttiva 2014/23/UE; art. 2, direttiva 2014/24/UE; art. 3, direttiva 2014/25/UE.
4 Cfr. art 1, par. 9, direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004 relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi. Definizione identica compare nelle tre direttive del 2014 e nel codice italiano dei contratti pubblici vigente (art. 3, comma 1, lett. d), d. lgsl. 18 aprile 2016, n. 50).
o commerciale”, recita la norma), e assoggettati ad una influenza pubblica dominante. Le caratteristiche alla cui presenza è dunque condizionata l’integrazione della figura soggettiva dell’organismo di diritto pubblico debbono intendersi come requisiti cumulativi, che debbono tutti e tre essere contemporaneamente soddisfatti; diversamente non ci si trova di fronte ad un organismo di diritto europeo, e la normativa sugli appalti pubblici non può essere applicata, giacché non ci si trova in presenza di un’amministrazione aggiudicatrice5. In questi casi, siamo al di fuori di quel perimetro allargato della nozione di Stato che è alla base dell’“invenzione” della figura dell’organismo di diritto pubblico, e pertanto non ci sono ragioni per applicare la disciplina dei contratti pubblici ed il pesante regime vincolistico ivi previsto.
La personalità giuridica non solleva particolari problemi interpretativi, consistendo nella soggettività di diritto, ovvero nella capacità di essere titolari di situazioni giuridiche soggettive attive o passive, e può porre tutt’al più delle criticità sul piano dell’accertamento in fatto, allorquando non sia semplice apprezzare la consistenza di determinati centri di imputazione di interessi ed il loro rilievo giuridico. Quello che è certo è che soggetti privati, anche costituiti nella forma di società commerciali, secondo i tipi previsti dai vari ordinamenti, ben possono costituire organismi di diritto pubblico ed essere assoggettati al regime dei contratti pubblici, se soddisfano i requisiti previsti6. Rispetto all’originaria formulazione della direttiva del 1971, che si riferiva invece alle persone giuridiche di diritto pubblico, l’allargamento ad enti anche formalmente privati costituisce anzi una delle ragion d’essere del percorso qui descritto; da qui la indicazione della mera personalità giuridica, senza ulteriori specificazioni (pubblica o privata), nel quadro come detto di un approccio mirante a ricostruire l’area statale (o pubblica che dir si voglia) secondo criteri funzionalisti e sostanzialisti.
Merita un approfondimento il requisito che abbiamo sintetizzato nella preposizione dell’ente alla tutela di interessi pubblici. La fonte europea (recepita puntualmente nell’ordinamento italiano) pretende la sussistenza di un requisito positivo, il soddisfacimento di esigenze di interesse generale, e quella di un requisito negativo, e cioè l’assenza di carattere industriale o commerciale di tali bisogni. È ancora una volta la giurisprudenza europea a fornire le coordinate di inquadramento. Secondo la Corte di giustizia, infatti, le esigenze di interesse generale sono una nozione autonoma di diritto comunitario che non può dipendere dalle decisioni degli Stati membri, e corrisponde a bisogni “di regola, soddisfatti in modo diverso dall'offerta di beni o servizi sul mercato. In linea generale, presentano tale carattere quei bisogni al cui soddisfacimento per motivi connessi all'interesse generale lo Stato preferisce provvedere direttamente o con riguardo ai quali intende mantenere un'influenza determinante”. L’esempio paradigmatico è quello della raccolta e del trattamento dei rifiuti domestici. “Atteso che l'offerta dei servizi di raccolta, totale o parziale, dei rifiuti fatta ai singoli da operatori
5 Corte di giustizia 10 aprile 2008, in causa C-393/06, spec. punti 29 e 30; Consiglio di Stato, sez. V, 30 gennaio 2013, n. 570; Tar Veneto, sez. III, 20 marzo 2017, n. 278.
6 Corte di giustizia 15 maggio 2003, in causa C-214/00.
economici privati può non risultare sufficiente a soddisfare tale bisogno nella misura ritenuta necessaria per ragioni di salute pubblica e di tutela dell'ambiente, tale attività rientra fra quelle che lo Stato può decidere di far svolgere da autorità pubbliche o in ordine alle quali intende mantenere un'influenza determinante”7. La Corte si riserva comunque la facoltà di valutare caso per caso se ricorra o meno il requisito qui indicato: ed infatti, la circostanza per cui il bisogno di interesse generale viene soddisfatto mediante l’offerta di servizi di più operatori in regime concorrenziale, se in linea di massima potrebbe condurre a ritenerci al di fuori dell’ambito di applicazione della disciplina dei contratti pubblici, in altri casi non lo consente. Del pari, “pretendere che non vi siano imprese private che possano soddisfare i bisogni per i quali è stato creato un organismo finanziato o controllato dallo Stato, dagli enti locali o da altri organismi di diritto pubblico rischierebbe di svuotare di sostanza la nozione di organismo di diritto pubblico”8. Più semplicemente, “il fatto che l'organismo interessato agisca in situazione di concorrenza sul mercato, può costituire un indizio a sostegno del fatto che non si tratti di un bisogno di interesse generale avente carattere non industriale o commerciale”9. E che quindi non ci trovi di fronte ad un organismo di diritto pubblico tenuto ad applicare le procedure ad evidenza pubblica per la scelta dei contraenti. In ultima analisi, pur a fronte di indizi indicati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia e consistenti nel carattere concorrenziale del mercato di riferimento, nella natura imprenditoriale della gestione, o nell’assunzione del rischio di impresa, spetta al giudice nazionale l’ultima parola circa la natura dell’esigenza (o del bisogno che dir si voglia) soddisfatto dall’ente in questione, ed il giudice dovrà tener conto “di tutti gli elementi di diritto e di fatto pertinenti, quali i fatti che hanno presieduto alla creazione dell'organismo interessato e le condizioni in cui quest'ultimo esercita la sua attività”10. Sembra dunque che sul punto il diritto europeo si sia attestato in termini relativamente elastici, in correlazione peraltro con la platea inevitabilmente mutevole e varia degli interessi pubblici e con le modalità differenziate (pubbliche e private) che gli ordinamenti scelgono per la loro protezione.
4.2. L’influenza pubblica dominante, e il principio europeo dell’“effetto utile”.
È invece sul versante della precisazione del requisito della cd. influenza pubblica dominante che il diritto europeo offre una regolazione diretta molto chiara e rende agli interpreti degli strumenti inequivocabili di interpretazione delle norme e binari certi per la conseguente applicazione dei regimi vincolistici considerati.
Come abbiamo già visto, secondo le norme vigenti, l’influenza dominante dello Stato (o di altro livello di governo previsto dall’ordinamento) può passare attraverso il profilo finanziario (l’origine statale delle risorse gestite), attraverso quello organizzativo (la nomina statale di più
7 Corte di giustizia, 10 novembre 1998, in causa C-360/96.
8 Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, in causa C-373/00, punto n. 59.
9 Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, in causa C-373/00, punto n. 60.
10 Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, in causa C-373/00, punto n. 66.
della meta dei componenti gli organi direttivi), o attraverso quello del controllo gestionale. È, infatti, consolidata nella giurisprudenza della Corte di Giustizia la conclusione che, per essere definibile come tale, l’organismo di diritto pubblico deve essere “dipendente strettamente dallo Stato, da enti pubblici, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”11. A ben vedere, infatti, i tre criteri alternativi del finanziamento, della nomina, e del controllo, non sono altro che l’indice di una “una situazione di stretta dipendenza di un organismo nei confronti dello Stato, di enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico”12. In coerenza con l’approccio sostanzialista più volte evidenziato, deve trattarsi di una situazione di stretta dipendenza “che permetta ai poteri pubblici di influenzare le decisioni del suddetto organismo in materia di appalti pubblici”13. Ebbene, due degli indici della influenza pubblica dominante sono legati a parametri quantitativi, e quindi risultano di tutta evidenza. Il finanziamento maggioritario è infatti integrato quando le risorse provenienti dallo Stato, da altro ente di governo territoriale, o da altro organismo di diritto pubblico superino la metà delle risorse complessive gestite dall’ente14. Del pari dicasi per i poteri di nomina degli organi direttivi; si tratti di consigli di amministrazione, di consigli di gestione o vigilanza, qualsiasi sia, in buona sostanza, la denominazione dell’organo che esercita il potere di indirizzare le attività dell’ente e le modalità di spesa delle risorse, perché si abbia influenza pubblica dominante è necessario che il potere di nomina o designazione di tali organi sia in mano allo Stato per oltre la metà dei componenti.
Più delicata la precisazione del terzo indice rivelatore dell’influenza statale dominante, quello che le norme già richiamate indicano in una “gestione soggetta al controllo” dello Stato, di altri livelli di governo o di altri organismi di diritto pubblico.
Anche in questo caso, però, una consolidata giurisprudenza europea soccorre l’interprete ed evita dubbi interpretativi, o, meglio ancora, evita che i margini della nozione di controllo sulla gestione possano essere rimessi all’apprezzamento delle autorità nazionali, siano esse autorità politiche, amministrative o giudiziarie. Nel terreno che ci occupa infatti, la primazia del diritto vivente europeo è infatti dato incontrovertibile, legato ancora una volta alla difesa del principio dell’effetto utile. È acquisizione pacifica che l'interpretazione del diritto europeo resa dalla Corte di giustizia abbia efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali, sia emesse in sede di verifica della validità di una norma UE, va attribuito “il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell'ambito della Comunità”15. Viene così riconosciuto che l'interpretazione di una norma di diritto dell’Unione fornita dalla Corte di giustizia chiarisce e
11 Corte di giustizia, 1 febbraio 2001, in causa C-237/99, punto n. 39.
12 Corte di giustizia, 1 febbraio 2001, cit., punto 44; Corte di giustizia 27 febbraio 2003, C-373/00, punto 68.
13 Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, cit., 29; Corte di giustizia, 1 febbraio 2001, cit., punto 48
14 Corte di giustizia 3 ottobre 2000, in causa C-390/98.
15 Ex multis, cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 22577 del 11 dicembre 2012; cfr. Cass. 2.3.2005 n. 4466 e Cass. 30.08.2004 n. 17350.
precisa per tutti il significato e la portata della norma stessa, così come essa avrebbe dovuto essere interpretata sin dal momento della sua entrata in vigore
Ora, in materia di definizione di controllo di gestione rilevante ai fini che qui ci occupano, la giurisprudenza europea ha posto dei paletti molto chiari: il controllo sulla gestione deve “creare una dipendenza … equivalente a quella che esiste allorché uno degli altri due criteri alternativi è soddisfatto, vale a dire il finanziamento che provenga in modo maggioritario dai poteri pubblici oppure la nomina da parte di questi ultimi di più della metà dei membri che compongono gli organi dirigenti” dell’organismo16. Ciò significa che un “mero controllo a posteriori” non può soddisfare il criterio del controllo di gestione “perché, per definizione, un tale controllo non consente alle pubbliche autorità di influenzare le decisioni dell'organismo interessato in materia di appalti pubblici”17. Un controllo sulla gestione, ci dice la Corte di giustizia, implica piuttosto non solo il potere di verificare i conti annuali, ma, più in profondità, quello di verificare l’esattezza, la regolarità, l’economicità, la redditività e la razionalità dell’amministrazione18. Ancora più significativi risultano poi, in positivo, gli elementi al ricorrere dei quali la Corte di Giustizia condiziona la realizzazione del controllo di gestione sull’organismo. Occorre infatti, a tali fini, che sia prevista normativamente un’incidenza stringente sull’attività dell’organismo, come quella del potere di imposizione “di un profilo di gestione determinato” sia costringendo l’organismo “a un minimo di dinamismo, sia limitandone” l’attività “ove considerata eccessiva”19. Ovvero ancora che l’autorità controllante abbia il diritto “non solo di controllare il bilancio di esercizio” ma altresì di accertarsi che
«l'amministrazione corrente sia esatta, regolare, improntata a risparmio, redditizia e razionale»20. Alla luce di tali criteri, sono state ad esempio considerate organismi di diritto pubblico, e quindi soggette alla disciplina europea in materia di procedure ad evidenza pubblica per la scelta dei fornitori, le società operanti nel campo dell’edilizia popolare21.
I giudici italiani si sono mossi in questo ambito in termini per lo più coerenti con i risultati della elaborazione giurisprudenziale europea. Per la Cassazione, quando l’organismo di diritto pubblico rivesta le forme di una società per azioni, occorrerà applicare la nozione di controllo prevista dall’art. 2359 del codice civile22. Con la significativa precisazione che la nozione europea di controllo rilevante ai fini dell’integrazione della cd. influenza pubblica dominante non si riduce al controllo amministrativo o alle regole di diritto pubblico con le quali le leggi assicurano spesso al socio statale poteri speciali sull’organizzazione e sulla gestione dell’attività di una società, ma comprende anche l’ipotesi dell’acquisizione del pacchetto di
16 Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, cit., punto 69; Corte di giustizia, 1 febbraio 2001, cit., punto 49.
17 Cortx xx Xxxxxxxxx, 00 xxxtembre 2013, C-526/11, p. 29; Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, cit., punto 70.
18 Cfr. Corte di giustizia 27 febbraio 2003, cit., punto 73; ma anche, sul versante nazionale, Consiglio di Stato, sez. VI, 23 gennaio 2006, n. 182.
19 Corte di giustizia, 1 febbraio 2001, cit., punto 57.
20 Corte di giustizia, 27 febbraio 2003, cit., punto 73.
21 Corte di giustizia 1 febbraio 2001, in causa C-237/99.
22 Cfr. Corte di cassazione, sez. un., 12 aprile 2005, n. 9940.
maggioranza del capitale sociale o comunque della quota di capitale idonea in concreto ad assicurare il controllo23.
In buona sostanza il controllo sulla gestione che qui rileva corrisponde ad una situazione nella quale l’organismo di diritto pubblico si pone rispetto allo Stato in termini serventi e/o strumentali. I pubblici poteri devono avere la possibilità di incidere permanentemente e stabilmente sulla vita dell’organismo, e devono avere il potere di conformarne l’attività ed orientarla agli obiettivi di pubblico interesse che non sono rimessi all’autonomia dell’ente stesso. In altre parole, deve trattarsi di una tipologia di controllo che permetta allo Stato di orientare l’attività dell’ente controllato verso le finalità individuate dall’autorità controllante.
4.3. Controllo pubblico sulla gestione e vigilanza ministeriale.
Se questo è lo stato dell’arte in materia di precisazione dei contenuti della nozione di influenza pubblica dominante, e se, come detto, questa precisazione non compete alle autorità nazionali, che semmai debbono far proprie queste indicazioni nell’esercizio delle loro funzioni, a meno di non voler travolgere il principio dell’effetto utile, ebbene a questo quadro di riferimento dovrebbe ispirarsi l’ANAC nello svolgimento delle sue funzioni di Autorità di settore per i contratti pubblici. E invece, nella decisione citata poco sopra, proprio al fine di estendere l’applicazione del codice degli appalti oltre i confini suoi propri, l’ANAC accede ad una nozione di controllo comprensiva anche della vigilanza ministeriale. In altre parole, considera la vigilanza ministeriale che la legge affida al Ministero competente nel quadro degli ordinamenti professionali vigenti una forma di controllo sulla gestione tale da integrare l’influenza statale dominante. Con il che finisce per affermare, applicando gli esiti sopra richiamati della giurisprudenza europea, che gli Ordini professionali dipendono “strettamente dallo Stato, da enti pubblici, da enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”24.
È una affermazione che, come già anticipato, suscita più di una perplessità.
Ed invero, se in capo agli Ordini professionali è facilmente riconoscibile la personalità giuridica, così come la cura di interessi pubblici, che convive invero con la cura degli interessi di categoria, e dunque possono essere considerati soddisfatti due dei requisiti previsti dalle fonti europee e nazionali per aversi un organismo di diritto pubblico, ebbene, è del tutto assente il terzo indispensabile requisito della influenza pubblica dominante. Non ricorre alcuno dei tre elementi ritenuti alternativamente necessari per potersi considerare integrata la fattispecie. Per ciò che concerne il requisito finanziario, è pacifico che gli ordini professionali non ricevano contributi dallo Stato né da altri enti pubblici, e siano finanziati esclusivamente con i contributi degli iscritti negli albi. A ciò va aggiunto che, per espressa disposizione di legge, come si è visto, non afferiscono al sistema della finanza pubblica. Quanto al requisito
23 Cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 22 agosto 2003, n. 4748.
24 Corte di Giustizia, sentenza 1 febbraio 2001, C-237/99, punto n. 39.
organizzativo, gli organi direttivi degli ordini non sono emanazione diretta o indiretta dello Stato, ma sono eletti dagli iscritti negli albi.
Ma è sul terreno dell’apprezzamento del terzo indice di influenza pubblica dominante che giova soffermarsi.
Nell’ordinamento forense, dopo aver precisato l’autonomia patrimoniale, finanziaria ed organizzativa del Consiglio nazionale e degli Ordini circondariali (art. 24, legge 247/2012), sono riportati i casi tassativi che possono condurre allo scioglimento ministeriale dei Consigli dell’ordine, ed alla sostituzione dell’organo eletto democraticamente con un commissario. L’art. 33 dispone infatti che il Consiglio dell’ordine possa essere sciolto se non è in grado di funzionare regolarmente, se non adempie agli obblighi previsti dalla legge, o se ricorrono altri motivi di rilevante interesse pubblico. Anche in questo caso il provvedimento è comunque adottato secondo forme giuridiche che bilanciano l’esercizio della funzione di vigilanza con lo statuto di autonomia della categoria professionale: il decreto di scioglimento è infatti assunto dal Ministro su proposta del Consiglio nazionale. Va anche notato che il commissariamento è sempre configurato come un momento eccezionale nella gestione dell’ente. La gestione commissariale è infatti ontologicamente provvisoria, e tra i compiti del commissario vi è anche quello di convocare l’assemblea degli iscritti per l’elezione di un nuovo Consiglio entro un termine di centoventi giorni che la legge definisce espressamente improrogabile. È improrogabile proprio perché la dinamica ordinaria di amministrazione dell’ente è quella per cui le funzioni gestorie sono appunto esercitate da un organo collegiale eletto democraticamente dagli iscritti, che opera in condizioni di autonomia. Siamo lontanissimi dai caratteri del controllo di gestione elaborati dalla Corte di giustizia, ai sensi del quale, come si è visto, lo Stato dovrebbe esercitare sull’organismo di diritto pubblico un controllo permanente in grado di influenzarne sistematicamente lo svolgimento delle funzioni. La vigilanza ministeriale sugli ordini e i collegi professionali è – in altre parole – un rimedio previsto dall’ordinamento per il caso di impossibilità di funzionamento, o tutt’al più di funzionamento irregolare e/o illegittimo: non è certo una forma di relazione giuridica che consente una influenza dominante, atteggiandosi piuttosto il rapporto tra Stato e comunità professionali in termini di necessaria autonomia. La vigilanza ministeriale è dunque un istituto di garanzia che consente comunque lo svolgimento di funzioni di pubblico interesse allorquando le stesse non sono esercitate, o non sono esercitate in modo legittimo; funzioni che tuttavia normalmente la legge affida alla stessa comunità dei professionisti, per il tramite di organi eletti democraticamente.
Si può dunque concludere con sicurezza che gli Ordini professionali non sono organismi di diritto pubblico. E non a caso, proprio a questa conclusione era giunta la Corte di giustizia nel già richiamato caso del 2013 relativo all’Ordine dei medici tedesco. Precedente espressamente richiamato nei provvedimenti ANAC, ma inaspettatamente disatteso. E difatti le conclusioni che la Corte affermò in quel caso per l’Aertze Xxxxxx germanico sono del tutto
replicabili per gli Ordini italiani. Un ordine professionale con personalità giuridica di diritto pubblico non soddisfa il requisito del finanziamento maggioritario da parte dell’Autorità pubblica, quando è invece finanziato dai contributi degli iscritti, anche se il potere impositivo è fissato dalla legge, giacché la legge non stabilisce “la portata e le forme delle attività che tale organismo deve svolgere nell’ambito dell’esercizio delle sue funzioni istituzionali”; e non soddisfa neanche il requisito del controllo di gestione “per il solo fatto che la decisione con cui lo stesso organismo fissa l’importo dei suddetti contributi deve essere approvata da un’autorità di controllo”25. La Corte è andata al cuore della questione e ha escluso la “dominanza pubblica” proprio perché la legge tedesca non consente allo Stato di influenzare lo svolgimento delle funzioni degli ordini professionali, anche se fissa per legge il potere impositivo.
Lo stesso accade nel panorama italiano. Anzi, per gli ordini professionali italiani, l’approvazione statale della misura del contributo è un’eccezione, e non la regola, come accade in Germania. La maggior parte degli ordinamenti professionali non conoscono un’approvazione ministeriale del contributo dovuto dagli iscritti, fermo restando ovviamente la impugnabilità della delibera di fronte al giudice amministrativo, in caso di vizi. Si direbbe dunque, che almeno sotto questo profilo, il grado di autonomia vantato dagli ordini professionali sia più profondo di quello goduto dai corrispondenti organismi tedeschi. Una ragione in più per non poterli qualificare come organismi di diritto pubblico.
4.4. Enti pubblici non economici e codice dei contratti pubblici: il divieto di gold plating.
Come già evidenziato, la motivazione della delibera che ritiene gli Ordini professionali inclusi nella sfera di applicazione soggettiva del codice dei contratti pubblici non passa solo per la qualificazione di tale figura soggettiva come organismo di diritto pubblico, in ragione del controllo sulla gestione che lo Stato, grazie alla vigilanza ministeriale, eserciterebbe su di esso. Forse consapevole della debolezza della tesi, e del fatto che l’ultima parola in tema spetta alla Corte di giustizia, e non alle autorità degli Stati membri, l’ANAC appoggia invero la propria determinazione anche su di un altro argomento. E cioè sulla espressa menzione, nel codice dei contratti pubblici, degli “enti pubblici non economici” nel novero delle amministrazioni aggiudicatrici (art. 3, comma 1, lett. a, D. lgs. n. 50/2016). Essendo gli Ordini professionali certamente enti pubblici non economici – afferma ANAC - gli stessi devono ritenersi amministrazioni aggiudicatrici ai sensi e per gli effetti del codice degli appalti. Ancora una volta compare qui una propensione al metodo dell’interpretazione letterale. Ove invece fosse stata tentata la via dell’interpretazione sistematica, ben avrebbe potuto l’Autorità interpretare il riferimento agli enti pubblici non economici contenuto nel codice come un richiamo a quegli enti pubblici che siano anche organismi di diritto pubblico ai sensi delle fonti europee. Diversamente ritenendo, infatti, il legislatore italiano avrebbe violato non solo le direttive
25 Corte di giustizia 12 settembre 2013, in causa C-526/2011.
europee, ma anche la legge delega italiana e più in generale il divieto di cd. gold plating, che integra un principio cardine per la corretta trasposizione del diritto europeo negli ordinamenti nazionali. Si tratta di una sorta di regola aurea che presidia i livelli di regolazione pubblica dei mercati e delle attività economicamente rilevanti: tale principio si concretizza nel divieto per il legislatore nazionale di introdurre obblighi ed oneri amministrativi che non hanno base nella conferente fonte europea. Ma andiamo con ordine.
Come si è visto le direttive europee del 2014 in materia di appalti e concessioni pubbliche individuano il proprio campo di applicazione soggettivo identificando le amministrazioni aggiudicatrici con “lo Stato, le autorità regionali o locali, gli organismi di diritto pubblico, o le associazioni costituite da uno o più di tali autorità o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico”26. Il legislatore italiano ha invece aggiunto tra i soggetti ricompresi nella nozione di amministrazioni aggiudicatrici, oltre a Stato, enti pubblici territoriali e organismi di diritto pubblico, nonché le loro unioni e consorzi, anche “gli altri enti pubblici non economici”. Tale aggiunta, a meno di non integrare una vera e proprio violazione di un espresso criterio direttivo della delega, non può essere intesa se non nel senso di includere nel campo di applicazione della normativa de qua solo gli enti pubblici non economici che siano anche organismi di diritto pubblico.
Ed infatti, come già evidenziato al precedente par. 3.53., la delega per l’attuazione delle direttive europee sugli appalti pubblici è stata conferita dal Parlamento con la legge 28 gennaio 2016, n. 11, il cui art. 1, comma 1, lett. a) ha autorizzato il Governo a recepire le direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE ponendo come specifico e puntuale criterio direttivo il “divieto di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive, come definiti dall'articolo 14, commi 24-ter e 24-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246”. La legge 246 del 2005 – richiamata espressamente dalla legge delega qui descritta - aveva già introdotto in via generale nell’ordinamento italiano l’accennato divieto di gold plating, cioè il divieto di introdurre forme di regolazione più gravose di quelle previste in sede europea, poi confermato dall’art. 32 della legge 24 dicembre 2012 n. 234, ovvero la legge che definisce le “norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”. Nell’aggiungere una nuova categoria di soggetti (gli enti pubblici non economici) a quelli previsti dalle direttive come amministrazioni aggiudicatrici, il legislatore italiano ha certamente introdotto un livello di regolazione superiore a quello europeo. Ove alcun dubbio possa sorgere al riguardo, basti ricordare che è la legge stessa a chiarire che per livello di regolazione superiore a quello minimo della direttiva si intende proprio l’estensione dell’ambito soggettivo di applicazione: l’art. 14, comma 24 ter, della legge n. 246 del 2005 stabilisce infatti che, tra gli altri parametri, “costituiscono livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive comunitarie
26 La stessa definizione di amministrazioni aggiudicatrici si trova infatti nell’art. 6 della direttiva 2014/23/UE, nell’art. 2 della direttiva 2014/24/UE, e nell’art. 3 della direttiva 2014/25/UE.
(…) l'estensione dell'ambito soggettivo o oggettivo di applicazione delle regole rispetto a quanto previsto dalle direttive, ove comporti maggiori oneri amministrativi per i destinatari” (lett. b).
Non v’è bisogno di dimostrare il rilievo per cui l’estensione dell’obbligo di ricorrere alle procedure ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori o forniture di servizi costituisce certamente un appesantimento non irrilevante degli oneri amministrativi. Nulla vieta anche ad un soggetto privato di ricorrere liberamente a tali procedure, ove ad esempio ritenga opportuno un alto livello di formalizzazione delle procedure di scelta del contraente, ma non vi è dubbio che una tale scelta rechi con sé un notevole allungamento dei tempi ed una complicazione assai significativa di tutta l’attività che precede la manifestazione di volontà contrattuale. Attività che normalmente, per un privato, assume forme libere, nell’ambito dell’autonomia negoziale che spetta alle persone fisiche ma anche alle persone giuridiche di diritto privato.
Il legislatore italiano non poteva dunque, senza violare il divieto di gold plating, aggiungere ulteriori figure soggettive a quelle già previste in sede europea, ed ampliare così il novero delle amministrazioni pubbliche in senso lato tenute a seguire queste gravose procedure. Il fatto che, nel caso di specie, il divieto di gold plating sia stato espressamente richiamato nella legge delega, comporta che la violazione del divieto si traduca in un vizio di eccesso di delega e quindi in una violazione dell’articolo 76 della Costituzione. A meno che, si ripete, il significato del richiamo agli enti pubblici non economici nell’art, 3, lett. a) del codice dei contratti pubblici non vada piuttosto inteso come una specificazione della concreta tipologia di enti che nel nostro ordinamento possono rivestire la qualifica di organismo di diritto pubblico. In altre parole, così come ha precisato che le associazioni tra autorità regionali o locali di cui alla fonte europea assumono nel diritto nazionale la denominazione di unioni, e consorzi tra enti pubblici territoriali, così il legislatore delegato ha forse voluto precisare che spesso gli organismi di diritto pubblico assumono in Italia la denominazione di enti pubblici non economici.
Al di là delle intenzioni del legislatore delegato, la conclusione è certa: come interpretato dall’ANAC - che include tra le amministrazioni aggiudicatrici anche soggetti come gli ordini professionali, e cioè enti pubblici non economici privi della qualità di organismo di diritto pubblico europeo - il riferimento agli enti pubblici non economici nell’art. 3 del codice dei contratti pubblici integra una violazione del divieto di gold plating. E giacché il necessario rispetto di tale divieto è incorporato come criterio di delega dalla legge che ha autorizzato il Governo ad adottare il codice degli appalti, ne deriva l’incostituzionalità della previsione. Insomma delle due, l’una: o la norma intende solo richiamare quegli enti pubblici non economici che sono anche organismi di diritto pubblico, e tutt’al più chiarire che gli organismi di diritto pubblico possono assumere nell’ordinamento italiano la denominazione di enti pubblici non economici; oppure abbiamo a che fare con una norma incostituzionale, perché
non era nel potere del Governo recepire le direttive europee allargandone indebitamente l’area soggettiva di applicazione.