LA BUONA FEDE AUSILIARIA DEL PROGRAMMA CONTRATTUALE
LA BUONA FEDE AUSILIARIA DEL PROGRAMMA CONTRATTUALE
Capitolo Primo
1. Acquisizioni e prospettive nel processo evolutivo della buona fede con- trattuale. – 2. La contesa tra i modelli di buona fede. – 3. Buona fede e in- tegrazione del regolamento contrattuale. – 4. Integrazione del contratto e lacune della convenzione. Rapporti e ordine tra le diverse fonti del regola- mento. – 5. La buona fede nel sistema delle fonti del regolamento contrat- tuale. – 6. Buona fede e convenzione tra interpretazione e integrazione. –
7. Buona fede e adattamento del contratto. – 8. Giustizia contrattuale. – 9. L’equilibrio contrattuale tra giustizia distributiva e commutativa. – 10. Ap- prezzamento di giustizia contrattuale indipendente da criteri economici. –
11. Criteri economici di valutazione dello scambio e sindacato giudiziario sull’equilibrio contrattuale. – 12. Opportunità pratiche e ragioni di policy relative al controllo giudiziario sulla giustizia del contratto. – 13. Xxxxxxxx generale di buona fede ed equilibrio contrattuale. – 14. Inderogabilità dell’art. 1375 c.c. e potenzialità cogenti della buona fede. – 15. Buona fede, autonomia privata e precetti costituzionali.
SOMMARIO
1. Acquisizioni e prospettive nel processo evolutivo della buona fede contrattuale
Dagli anni Settanta del secolo scorso una vicenda evolutiva di grande rilievo ha interessato la buona fede contrattuale. Sono state vinte le risa- lenti ostilità giuspositivistiche che essa, come tutte le clausole generali, su- scitava; sono state superate le resistenze al penetrante intervento del giu- dice nella regolamentazione del rapporto, che è da essa legittimato, così come le remore di una arroccata difesa della autonomia dei contraenti nella definizione delle regole dell’affare. Il processo di espansione del ri- corso alla buona fede nella risoluzione delle controversie contrattuali, de- lineato dalla dottrina e realizzato dalla giurisprudenza, ne ha allargato via via i confini e si sono moltiplicate le tipologie di conflitti che sono state riguardate alla stregua di tale criterio. Conseguentemente, si sono manife- state diffuse interferenze della buona fede con aree della disciplina gene- rale dei contratti, alle quali pur non si riferiscono gli enunciati normativi che ad essa si richiamano (si pensi soltanto alle problematiche della risolu-
zione e, in particolare, della sopravvenienza, e a quella della invalidità parziale). Ne è stata influenzata la stessa complessiva riflessione sul con- tratto e sui rapporti tra autonomia privata, ordinamento, ruolo del giudice nella risoluzione delle controversie contrattuali, valori costituzionali e me- tagiuridici.
Questo processo di espansione non poteva non misurarsi con le ragio- ni, non soltanto ideologiche ma anche pratiche, che erano alla base delle resistenze che ad esso si opponevano; mi riferisco, in particolare, a quelle concernenti la tensione, la problematica relazione, tra la risoluzione giudi- ziaria delle controversie contrattuali alla stregua della buona fede e il ri- spetto del programma negoziale definito dai contraenti nella convenzione, tra i valori propri di quest’ultimo e i valori metacontrattuali e metagiuridici evocati dalla buona fede. Pur con difficoltà, persistenti momenti di incoe- renza tra soluzioni pratiche e dicta, permanenti aree di dissenso, si è per- venuti ad una felice composizione. Una sintesi realistica degli orientamen- ti di decisione dei giudici può così delinearsi: la risoluzione dei conflitti di interesse alla stregua della buona fede – che è anche assunta come fedeltà al vincolo contrattuale – si desume in termini di coerenza, o quantomeno si controlla in termini di compatibilità, con il programma negoziale defini- to dai contraenti. Ciò non ha compromesso la ricchezza dei contenuti normativi con i quali i giudici integrano la disciplina convenzionale, né ha pregiudicato la loro discrezionalità valutativa circa la relazione tra equili- brio contrattuale stabilito dai contraenti e regole di buona fede di risolu- zione del conflitto insorto.
Negli ultimi anni sono andate però maturando nuove proposte di impiego della buona fede in campo contrattuale, che disegnano orizzon- ti ancora più vasti, ma lungo linee di sviluppo che non sembrano poter essere riallacciate a quelle del passato secondo una relazione di conti- nuità. Non solo si prospetta, subordinatamente alla ricorrenza di certi presupposti, un obbligo legale, formato sulla correttezza, di rinegoziare le condizioni contrattuali e un intervento giudiziale di adattamento. Al- cuni dicta giurisprudenziali – sviluppando alcuni spunti offerti da più ri- salenti enunciati dottrinali – alludono a un ruolo della buona fede non solidale, ma antagonistico all’autonomia privata ed al programma stabili- to dai contraenti; da fonte integrativa del regolamento contrattuale det- tato dalle parti, la buona fede sembra essere trasposta in criterio di con- trollo della validità delle pattuizioni private e financo di costruzione e inserzione di regole del rapporto sostitutive di quelle enunciate nella convenzione.
Per altro verso, alcune innovazioni normative di origine comunitaria hanno aperto una prospettiva di controllo di validità dei patti privati che attiene al sindacato sul loro contenuto alla stregua di valutazioni circa il corretto esercizio, ovvero l’abuso, da parte di un contraente in pregiudizio
dell’altro, delle condizioni di fatto in presenza delle quali l’accordo si è formato. Gli artt. 1469 bis e ss. c.c. 1 stabiliscono la «inefficacia» delle clausole dei contratti dei consumatori che determinino a carico di questi
«un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal con- tratto», purché esse non siano state oggetto di trattativa individuale. Nel- la legge 18 giugno 1998, n. 192 2 è stata introdotta, con l’art. 9, la com- minatoria di nullità dei patti attraverso i quali si realizzi, nei contratti tra imprese, «un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi» che sia il frutto dell’abuso che una parte faccia della situazione di dipendenza economi- ca in cui l’altra si trovi rispetto ad essa. Alla buona fede fa espresso rife- rimento l’art. 1469 bis c.c., mentre lo stesso abuso di dipendenza eco- nomica si presta ad una valutazione della condotta alla stregua della cor- rettezza.
Da questi e da altri indici evolutivi dell’ordinamento 3 si è preso spunto per costruire una direttiva comune ai contratti stipulati in situazione di a- simmetria di potere negoziale dei contraenti. E, pur problematicamente, viene delineata una prospettiva di generalizzazione di regole poste dalla normativa speciale circa i criteri di controllo di validità dei contratti, alla stregua della conformità a buona fede dei loro contenuti.
Ulteriore alimento ad un mutato orientamento della tendenza evoluti- va in tema di buona fede contrattuale è offerto dai «Principi dei contratti commerciali internazionali» Unidroit e dal corpo di norme in materia con- trattuale elaborato dalla Commissione Lando.
L’art. 3.10 dei Principi Unidroit (gross disparity) stabilisce che, qualora il regolamento pattizio determini ingiustificatamente un eccessivo vantag- gio a carico di una parte, l’altra possa impugnare la validità del contratto o di singole clausole, indicando, tra le altre circostanze alle quali deve avere riguardo il giudizio sull’impugnazione, varie ragioni, oggettive e soggettive, di dipendenza o debolezza negoziale della parte pregiudicata; e la norma consente al giudice di adattare il contratto, o singole clausole, al fine di rimediare allo squilibrio. L’esercizio del potere di annullamento può esse- re sollecitato dalla parte pregiudicata, ovvero da quella favorita dalla clau-
1 Introdotti dall’art. 25 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 in attuazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993.
2 Disciplina della subfornitura sulle attività produttive, emanata tenendo conto anche di rego- le elaborate in sede comunitaria, dalla disciplina antitrust relativa all’abuso di dipendenza eco- nomica, alla risoluzione del Consiglio del 26 settembre 1989 relativa allo sviluppo della subforni- tura nella Comunità, alla Raccomandazione della Commissione europea del 12 maggio 1995 05/198/CE sui termini di pagamento delle transazioni commerciali.
3 Si pensi alla legge 19 febbraio 1992, n. 142 sul credito al consumo; al d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 per i contratti di investimento finanziario; alla legge 7 marzo 1996, n. 108 in tema di usura; al d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni com- merciali; al d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427 sulla vendita di multiproprietà.
sola, che abbia ricevuto l’avviso di annullamento dalla controparte, e co- munque prima che questa abbia compiuto atti di esecuzione.
L’art. 4.109 dei Principi di diritto europeo dei contratti elaborati dalla Commissione Lando prevede che una parte possa annullare il contratto se, al momento della conclusione, essa si trovasse in uno stato di dissesto economico o di bisogno o di dipendenza rispetto all’altra, ovvero se intrat- tenesse con questa un rapporto di fiducia e qualora l’altro contraente fos- se a conoscenza di tali condizioni e ne abbia approfittato in modo ingiusto o per ricavarne un eccessivo guadagno.
Entrambi i testi normativi, dunque: legittimano un sindacato sull’equili- brio di benefici e sacrifici che il contratto originariamente comporta per i contraenti; riconoscono che, a certe condizioni, lo squilibrio possa costi- tuire causa di invalidità del contratto; attribuiscono al riguardo rilevanza a posizioni di dipendenza o debolezza negoziale della parte pregiudicata; prevedono un intervento del giudice di adattamento del contratto. Il testo della Commissione Lando esplicita un ruolo della buona fede e della cor- rettezza nella risoluzione della controversia.
Questi fermenti e tendenze evolutivi, pur nella eterogeneità delle fonti, degli enunciati, dei contenuti regolamentari che abbiamo considerato, creano un clima che sembra accreditare, anche al di là delle specifiche ipotesi già codificate nel nostro ordinamento, un sindacato giudiziario sull’equilibrio contrattuale stabilito dalle parti, che sia orientato dalla clau- sola generale di buona fede e che possa comportare l’invalidità totale o parziale del contratto e la stessa modificazione giudiziaria delle disposi- zioni pattizie.
La semplice enunciazione di queste prospettive innovative rende evi- dente quanto sia acuta la tensione tra le stesse e alcuni cardini della disci- plina generale dei contratti, pur interpretati nel senso evolutivo che è stato loro impresso dalla revisione di dogmi e dottrine della tradizione, nonché, specificamente, tra quelle e gli orientamenti consolidatisi negli ultimi trent’anni in tema di buona fede contrattuale. Ne risulta una domanda di ricerca che non può essere elusa.
Al riguardo occorre in particolare vagliare l’attendibilità della realizza- zione di nuovi equilibri tra autonomia privata e giustizia contrattuale, che sia affidata non già soltanto alla imposizione alla prima di definiti limiti le- gali a salvaguardia della seconda, sibbene anche ad una mediazione giu- diziale ispirata a parametri e riferita a fattispecie non legislativamente de- terminate. Non si pongono soltanto problemi di compatibilità sistematica, o di verifica della influenza evolutiva delle innovazioni legislative su regole e principi del contesto normativo preesistente nel quale esse si inserisco- no, ma anche interrogativi che attengono all’efficienza di un nuovo ordine dei rapporti contrattuali incentrato su un generalizzato sindacato giudizia- rio circa la conformità dello scambio a un modello di equilibrio economi-
co e normativo giusto; efficienza non soltanto rispetto a finalità di funzio- namento del mercato o a esigenze di razionalità economica, ma anche rispetto alle stesse ragioni di equità del rapporto, di salvaguardia della par- te debole e di attuazione di valori di solidarietà e di buona fede.
In primo luogo, viene in rilievo il problema della configurabilità, già nell’originario impianto codicistico ovvero in virtù delle direttive solidari- stiche espresse dalla costituzione, di una valenza della buona fede che consenta al giudice di desumerne regole cogenti che implichino la nullità di patti con esse contrastanti.
In secondo luogo, ci si deve interrogare sull’influenza che possano e- sercitare sulla stessa portata della clausola generale di buona fede contrat- tuale le innovazioni legislative in tema di contratto dei consumatori e di abuso di dipendenza economica tra imprese. L’introduzione di una nor- mativa specifica che, per contratti stipulati tra determinate categorie di contraenti, riconosce forza cogente a regole riconducibili alla buona fede costituisce un corpo di regole a carattere speciale e quindi implica la con- ferma di un diverso regime di diritto comune, secondo il quale la funzione della buona fede è meramente integrativa, e non modificativa, del conte- nuto convenzionale? O, invece, ne risultano direttive legali che, quanto- meno entro certi termini, sono generalizzabili? In particolare, comportan- do la natura stessa di clausola generale la sua sensibilità alla trama di nor- me che, costituendone il contesto, contribuiscono a determinarne il con- tenuto, in che modo l’innovazione di quel contesto può aver provocato l’evoluzione della portata della clausola generale?
Inoltre, ove si riconosca che il giudice può desumere dalla buona fede regole cogenti che comportino la nullità dei patti con esse contrastanti, ci si dovrà domandare se le prime debbano sostituirsi ai secondi secondo un meccanismo analogo a quello apprestato, per le norme imperative di in- serzione automatica, dagli artt. 1419, comma 2 e 1339 c.c., ovvero se possa solo discenderne l’applicazione del comma 1 dell’art. 1419 c.c. Nella prima ipotesi ne risulterebbe un intervento giudiziario sul regola- mento privato di tale intensità da implicare un ripensamento complessivo di principi e consolidate concezioni, relativi alla autonomia privata, alla portata della forza vincolante dei contratti, al ruolo del giudice nella riso- luzione delle controversie contrattuali; nella seconda ipotesi sarebbero messi a rischio gli stessi esiti protettivi del contraente debole ai quali sem- brerebbe esser teso il riconoscimento del valore cogente delle regole de- sumibili dalla buona fede: la drastica alternativa tra validità e nullità del contratto potrebbe infatti rivelarsi un rimedio inidoneo rispetto a tali finali- tà di salvaguardia.
Non può mancarsi di cogliere la distinzione, anzi l’antagonismo, tra il significato della formula dell’«equilibrio contrattuale», che designa l’assetto di interessi stabilito dai contraenti nell’esplicazione dell’autonomia privata,
e il significato della medesima formula che designa il modello di affare, conforme alla «giustizia del rapporto», che si assuma destinato ad imporsi con forza cogente, e in virtù dell’intervento del giudice, sulle determina- zioni dei contraenti. Rispetto al primo, la buona fede ha consolidato il suo ruolo di salvaguardia, costituendo criterio di integrazione, con regole ad es- so coerenti, del contenuto della convenzione. Ma, rispetto al secondo signi- ficato, quale ruolo la buona fede può assolvere? Si tratta di giudicare la con- formità a correttezza della condotta tenuta dalle parti nelle trattative e nella formazione del contratto? così che il regolamento negoziale possa essere riconosciuto xxxxxxxx, e meritevole della sanzione di invalidità e dell’inter- vento di adattamento del giudice in quanto frutto di condotte formative non corrette? o il ricorso a tali rimedi deve prescindere, o non necessariamente deve fondarsi, sulla valutazione del comportamento tenuto dalle parti nella formazione dell’accordo? e allora, in tal caso, la buona fede costituirà il cri- terio della valutazione, anche indipendente dalla considerazione della con- dotta formativa, della conformità o meno del contratto ad un modello di equilibrio economico normativo e, in ultima analisi, il parametro alla stregua del quale costruire il modello del giusto affare?
Ma quali direttive possono trarsi da un precetto di buona fede che sia disgiunto dal suo significato di regola e criterio di valutazione della con- dotta dei contraenti? In che senso possono trarsene elementi di determi- nazione di un equilibrio contrattuale giusto?
«Giustizia contrattuale» è formula suggestiva quanto generica; efficace, seppur in vario senso fuorviante. Le sue ambiguità si manifestano quando, anziché essere impiegata per descrivere interventi legislativi che, per ra- gioni di solidarietà sociale o di tutela di contraenti deboli, limitano l’autonomia privata secondo definite direttive cogenti, essa è assunta a va- lore di riferimento alla stregua del quale il giudice debba sindacare le pat- tuizioni dei contraenti, decretarne l’invalidità, dettare regole sostitutive. Implica essa che i parametri di giudizio debbano essere ricercati nelle condizioni contrattuali correnti sul mercato e negli standards economici e normativi che possono desumersene? ovvero in considerazioni di efficien- za e razionalità economica e di ottimale allocazione delle risorse? ovvero, ancora, nei sentimenti di giustizia che il giudice coglie nella sua interpre- tazione della «coscienza sociale»?
Potrebbe al riguardo supporsi che indicazioni meno ambigue possano desumersi, anziché direttamente dalla formula della giustizia contrattuale, dalla buona fede e, segnatamente, da ulteriori implicazioni che essa possa trarre dalla evoluzione del contesto normativo e, in particolare, dalla di- sciplina dei contratti del consumatore e dal divieto di abuso della dipen- denza economica tra imprese. Ma anche rispetto a questa prospettiva si pone l’alternativa tra un sindacato che necessariamente muova dalla valu- tazione della correttezza della condotta delle parti nelle trattative e nella
formazione del contratto, giudicandosi l’assetto e le condizioni dell’affare in quanto frutto di tale condotta, e un sindacato che, invece, da tale valu- tazione prescinda e assuma la buona fede a criterio di definizione del modello cogente di giusto equilibrio contrattuale.
Rispetto a questa seconda eventualità non può trascurarsi la problema- tica compatibilità con i consolidati orientamenti che assumono la buona fede a strumento di salvaguardia dell’equilibrio economico e normativo stabilito dai contraenti. Xxxxxxx comporsi, nella clausola generale di buo- na fede, una valenza solidale e una valenza antagonistica rispetto all’equi- librio contrattuale risultante dalle pattuizioni delle parti? l’opzione in favo- re della seconda non conduce al dissolvimento della prima? con quali conseguenze sulla disciplina dei rapporti contrattuali?
Il proposito di sondare le nuove prospettive di impiego della buona fede contrattuale quale strumento di un sindacato giudiziario orientato alla rea- lizzazione di valori di giustizia contrattuale, anche in un senso antagonistico alle pattuizioni private, non può, dunque, andare disgiunto da una rinnova- ta riflessione sulla funzione della buona fede quale direttiva di salvaguardia dell’equilibrio contrattuale stabilito dai contraenti. In tal senso, si dovrà in- dagare sull’attendibilità di una siffatta ambivalenza della clausola generale, divisa tra tale salvaguardia e la realizzazione di un modello di giusto equili- brio contrattuale. E un ulteriore ambito di operatività della buona fede potrà rivelarsi cruciale nella verifica di compatibilità dei compiti eterogenei di cui essa può venir gravata: quello della valutazione della condotta delle parti nelle trattative e nella formazione del contratto, che anch’esso investe l’equi- librio economico e normativo del rapporto, quale in concreto può stabilirsi anche a causa di comportamenti negoziali scorretti.
2. La contesa tra i modelli di buona fede
La vicenda evolutiva della quale ho disegnato alcuni tratti salienti rivela come il tema della buona fede contrattuale costituisca un crocevia tra dif- ferenti modelli delle relazioni che possono stabilirsi tra: convenzione au- tonomia privata; ruolo e poteri del giudice nella risoluzione delle contro- versie contrattuali; disciplina legale dei rapporti contrattuali.
La buona fede sterilizzata. Secondo un primo modello, la regolamenta- zione dei rapporti contrattuali è tendenzialmente ricondotta alla sola inte-
razione tra contenuto regolamentare della convenzione e disciplina legale. I conflitti di interesse, i casi che si manifestano nel corso dell’attuazione del rapporto, che non siano espressamente regolati dalla convenzione, so- no risolti dal giudice in virtù della interpretazione delle pattuizioni, ovve- ro, in caso di esito infruttuoso di questa, mediante la qualificazione del contratto ed il conseguente ricorso a norme dispositive.
La buona fede non costituisce fonte di integrazione del regolamento contrattuale e le sue potenzialità vengono, in vario modo, sterilizzate. Es- sa, secondo una dottrina della quale non è agevole cogliere le pratiche implicazioni, non costituisce fonte di regole del rapporto, ma solo criterio di valutazione in concreto delle condotte esecutive.
Il modello è ispirato ad esigenze di rispetto delle scelte dei contraenti, di certezza dei rapporti e di prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Esso prelude alla risoluzione di conflitti di interessi, che non sono regolati spe- cificamente dai contenuti convenzionali, nel senso del rigetto di pretese o eccezioni che non siano corrispondenti a specifiche clausole.
Tuttavia, l’espansione del ruolo riservato all’interpretazione del con- tratto favorisce operazioni ermeneutiche estensive o analogiche, che, sotto l’apparenza della ricognizione di volontà implicite o presunte o ipotetiche, celano la costruzione da parte del giudice di regole inespresse dai contra- enti. E la stessa operazione di qualificazione al fine del ricorso al diritto dispositivo non è immune da rischi di tradimento delle scelte dei contra- enti. L’ossequio all’autonomia non scongiura, dunque, l’eventualità di manipolazione giudiziaria della disciplina contrattuale.
La buona fede ausiliaria del programma contrattuale. Secondo un altro modello, anche la buona fede – oltre alle norme dispositive e prima degli usi e dell’equità – è fonte di integrazione del regolamento contrattuale. Essa opera quando si tratta di risolvere un conflitto di interessi che non è stato regolato dalla convenzione e, dunque, quando il caso non può esse- re deciso con un’interpretazione genuina, non manipolatrice.
Poiché la buona fede implica il valore di fedeltà dei contraenti al vin- colo che hanno reciprocamente assunto, il giudice, nel decidere la con- troversia alla stregua di essa, deve ermeneuticamente ricostruire l’assetto complessivo di interessi stabilito dalle parti nella convenzione, il «pro- gramma contrattuale», e risolvere il caso mediante la costruzione di una regola, non espressa dalla convenzione, che sia coerente, o quantomeno compatibile, con la «economia del contratto», con la pattuita composizio- ne degli interessi antagonisti.
Ancorando il giudizio a un vincolo di congruenza con le direttive con- venzionali, pur non specificamente regolatrici del conflitto concretamente insorto, si tende a temperare i rischio di arbitrio, e l’inconveniente di im- prevedibilità, di decisioni fondate su di una «clausola generale» che, in quanto tale, attribuisce al giudice ampi ambiti di discrezionalità.
Tuttavia il giudizio sintetico di ricostruzione della «economia del con- tratto», e le valutazioni di coerenza o compatibilità con essa della regola concreta formulata dal giudice per la risoluzione del conflitto, non sono, evidentemente, immuni dal rischio di tradimento delle scelte contrattuali delle parti. Il modello però, implicando esigenze di giustificazione motiva- zionale dell’apprezzamento del giudice riguardo a quegli elementi, offre
una certa garanzia di trasparenza e controllabilità delle argomentazioni dei giudici circa la relazione tra il programma contrattuale stabilito dai contra- enti e la decisione del caso. La gran parte della giurisprudenza in tema di buona fede contrattuale dagli anni Settanta agli anni Novanta del Nove- cento è riconducibile a questo modello.
La buona fede solidale. Un altro modello muove dalla stessa premessa
del secondo circa la funzione della clausola generale di buona fede di in- tegrazione del regolamento contrattuale, ma svaluta la sua implicazione di fedeltà al vincolo e, per contro, pone in risalto valori metacontrattuali, di giustizia ed equità.
Esso si ispira ad una visione cooperativa della relazione contrattuale che tende a temperare l’antagonismo tra gli interessi dei contraenti. È in- fatti ricorrente nella giurisprudenza – anche in molte decisioni che pur, in effetti, si conformano al secondo modello – la recitazione della formula secondo la quale, in virtù della buona fede, «ciascuno dei contraenti è te- nuto a salvaguardare l’interesse dell’altro, se ciò non comporti un apprez- zabile sacrificio dell’interesse proprio». Ma essa, poiché omette ogni rife- rimento all’equilibrio stabilito dai contraenti nella convenzione, sembra aprire al giudice la possibilità di proteggere interessi «non contrattualizza- ti», anche in pregiudizio di contrastanti interessi pur contrattualmente pro- tetti (al di là della problematica misurazione dell’intensità del sacrificio di questi ultimi che è implicata dall’aggettivo «apprezzabile»).
Questo modello sembra, dunque, aprire prospettive, dai confini e dal- le conseguenze indefiniti, di evasione dalla regolamentazione convenzio- nale del rapporto. Esso è ambiguo in ordine all’equilibrio tra l’istanza di solidarietà reciproca tra i contraenti e la composizione convenzionale de- gli interessi antagonisti.
La buona fede imperativa. Un quarto modello sviluppa la potenzialità
del terzo di affrancazione dalla disciplina convenzionale dell’uso giudizia- rio della clausola generale di buona fede. Ciò secondo una direzione che può porsi anche in contrasto con le pattuizioni delle parti, prevalendo sul- le stesse e implicandone, nella misura del conflitto, la nullità.
La premessa è costituita dall’affermazione dell’inderogabilità del pre- cetto di buona fede in un senso che non si limita al riconoscimento della nullità del patto di inapplicabilità al rapporto della clausola generale, ma che comporta l’appartenenza all’ordine pubblico degli stessi contenuti at- tribuibili, di volta in volta ed in concreto, alla buona fede. In tal modo si legittima un intervento giudiziale correttivo della convenzione che sostitui- sca le regole desunte dalla buona fede a patti che si ravvisino con questa contrastanti.
Un’attenta analisi della giurisprudenza, nella quale si riscontrano dicta che accreditano questo modello, porta tuttavia ad escludere che essi si siano tradotti in rationes decidendi e che il modello abbia fino ad oggi assunto
pratica effettività. Deve però segnalarsi la tendenza di alcuni commentatori ad accreditare i dicta come effettivo revirement giurisprudenziale.
Il modello tende a saldare la revisione della portata della buona fede con gli orientamenti di pensiero che valorizzano finalità di giustizia contrattuale nella ricostruzione della disciplina dei contratti; e tende a collocarsi sulle linee evolutive di innovazioni normative che, sia pur per determinati settori e tipologie contrattuali e per anomalie relative alla disparità di posizioni ne- goziali dei contraenti, stabiliscono un controllo sull’equilibrio contrattuale e conseguenti rimedi correttivi (clausole abusive nei contratti dei consumatori, dipendenza economica nei contratti tra imprese, usura).
Il modello è volto, in definitiva, a realizzare un regime che generalizzi la soggezione ad omologazione giudiziaria dei contenuti contrattuali, impli- cando un controllo di congruità, di equità, delle condizioni pattuite dai con- traenti. La pertinenza al riguardo della clausola generale pare dover essere ricondotta alla formula secondo cui non è conforme a buona fede la con- dotta del contraente che consegua, a proprio vantaggio, la pattuizione di condizioni inique; e non lo è la sua pretesa che tali condizioni siano attuate. La buona fede, in tal modo, sembra implicare un modello imperativo di e- quilibrio contrattuale giusto, generalizzando l’interpretazione in tal senso del richiamo della disciplina dei contratti dei consumatori alla clausola generale. È superfluo descrivere le conseguenze dell’applicazione di questo modello rispetto all’ambito effettivo dell’autonomia privata e alla certezza dei rap- porti (anche riguardo ai riflessi nei confronti dei terzi).
3. Buona fede e integrazione del regolamento contrattuale
L’art. 1374 c.c. definisce come «integrazione» il fenomeno del concor- so, con la fonte convenzionale del regolamento contrattuale, di quella le- gale e di quelle, sussidiarie, degli usi e dell’equità 4. Non essendo la buona fede menzionata nella norma, ci si domanda se essa concorra alla deter- minazione del regolamento, e la risposta positiva è affidata al rilievo che, pur dovendosi riconoscere la tassatività delle fonti di integrazione elencate nell’art. 1374 c.c., rimane «aperta la possibilità di individuare altre norme di legge, contenenti ulteriori indicazioni relative all’integrazione», tra le quali, appunto, gli artt. 1175 e 1375 c.c.; e si osserva che il richiamo alla legge espresso dall’art. 1374 c.c. si estende alla buona fede attraverso la previsione dell’art. 1375 c.c. (oltre che dell’art. 1175 c.c. e delle altre norme che la richiamano rispetto a più specifici ambiti di applicazione). L’interrelazione che in tal modo si stabilisce tra gli artt. 1374 e 1375 (e
4 Un’organica ricostruzione del sistema delle fonti di integrazione del contratto è stata dap- prima prospettata da X. Xxxxxx, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 1 ss.
1175) c.c. non implica peraltro che l’integrazione del contratto alla stre- gua della buona fede sia assimilabile all’integrazione mediante «puntuali previsioni normative»: la natura di clausola generale e il conseguente ruo- lo del giudice comportano peculiari modalità di attuazione del precetto e, in tal senso, un’operazione integrativa giudiziale 5, pur legalmente fondata e orientata da criteri desumibili dal contesto normativo al quale la clausola inerisce.
Più semplicemente, se la buona fede è, ai sensi dell’art. 1375 c.c., re- gola dell’esecuzione del contratto, come potrebbero i doveri che essa im- plica non inerire all’area delle conseguenze del medesimo, ulteriori rispet- to a quanto espresso dalla convenzione, alle quali si riferisce l’art. 1374 c.c., pur omettendo il richiamo alla buona fede? E, d’altra parte, la fun- zione di quest’ultima di integrazione della convenzione costituisce ele- mento di continuità della nostra tradizione storica, penetrata nella codifi- cazione con l’unitaria contemplazione, nell’art. 1124 c.c. del 1865, del precetto di esecuzione secondo buona fede e delle regole di integrazione. La funzione integrativa della buona fede è diffusamente riconosciuta dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Ma non mancano voci discordi e si riscontrano formulazioni giurisprudenziali (almeno apparentemente) inco- erenti. La questione investe il cuore del problema, che attiene alla natura di clausola generale della regola di correttezza, ai rapporti tra quest’ultima e il connesso ruolo determinativo del giudice, la disciplina legale del con- tratto e dei tipi contrattuali, l’autonomia privata e il regolamento conven-
zionale.
Secondo una corrente convenzione di linguaggio e di modello di ra- gionamento, ogni concreto giudizio di illiceità di una condotta, e così di inadempimento contrattuale, implica la presupposizione di una regola di cui quel giudizio assume la violazione nel caso concreto. Indipendente- mente da una valutazione di fondatezza dogmatica di tale convenzione, non sembra vi sia ragione di abbandonarla; e ciò neanche nell’ipotesi in cui la regola presupposta non corrisponda ad un precetto legale generale ed astratto, ma, invece, ad una clausola generale e sia il frutto dell’espli- cazione del ruolo determinativo del giudice. La consapevolezza della pe- culiarità dell’articolazione del procedimento di formazione della regola sarà sufficiente ad evitare il rischio di svuotare il ruolo del giudice e di pregiudicare la concretezza del suo apprezzamento, senza però che oc- corra scardinare quella convenzione.
Se la regola di condotta presupposta dal giudizio di conformità o meno a buona fede di un dato comportamento si concreta e consegue effettività giuridica nel momento in cui il giudice formula quel giudizio, ciò non e-
5 X. Xxxxx, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di X. Xxxxxx e X. Xxxxx, Milano, 2001, p. 487; e v. già X. Xxxxxx, Le fonti, cit., p. 131.
sclude, ovviamente, che essa possa presupporsi come preesistente. Se, in- fatti, deve escludersi l’arbitrarietà della valutazione rimessa al giudice, i criteri desumibili dall’ordinamento che escludono tale arbitrarietà consen- tono di formulare la regola già al di fuori del giudizio. E se la buona fede ha una funzione, che lo stesso enunciato dell’art. 1375 c.c. inequivoca- mente esprime, di orientamento della condotta dei contraenti, deve pur supporsi che si possano e debbano già preventivamente compiere valuta- zioni analoghe a quella che il giudice dovrà compiere a posteriori in sede processuale. Che possa non esservi corrispondenza tra i risultati delle due valutazioni e che l’ordinamento riconosca effettività solo a quella che sarà determinata dalla pronuncia del giudice, non esclude la legittimità della presupposizione della regola di condotta.
In tal senso si comprende il significato dell’opinione che riconosce nel- le clausole generali, e così in quella di buona fede, precetti rivolti sia ai consociati, in quanto regole di comportamento, che al giudice, in quanto modelli di decisione 6. Ne risulta così sdrammatizzata la stessa contrappo- sizione tra la concezione della buona fede quale fonte di regole che inte- grano il regolamento contrattuale e quella che la assume a criterio di un giudizio in concreto a posteriori.
Non sembra lecito circoscrivere il significato che la legge attribuisce al- la buona fede all’ambito della valutazione da parte del giudice, negandole la valenza di regola di condotta imposta ai contraenti: lo stesso tenore dell’art. 1375 c.c., che esprime proprio la prescrizione alle parti di un comportamento doveroso, sembra legittimare la descritta convenzione di linguaggio e il correlato modello di ragionamento, che appaiono così risa- lire alla formulazione normativa. E lo stesso art. 1374 c.c. riferisce al fe- nomeno integrativo l’operatività di vincoli doverosi ulteriori rispetto a quanto espresso nella convenzione, mentre l’art. 1175 c.c. esplicitamente si riferisce a «regole» di correttezza.
La valorizzazione del ruolo del giudice nell’attuazione della clausola ge- nerale conduce dunque a qualificare l’integrazione come giudiziale, non già a negare che di integrazione si tratti. Naturalmente, la qualificazione dell’in- tegrazione secondo buona fede come operazione del giudice non risolve, ma anzi sottolinea, i problemi di relazione tra fonti del regolamento: legale, convenzionale e giudiziale, sui quali dovremo ancora soffermarci.
Una volta rimosso, mediante il riconoscimento del ruolo determinativo del giudice, il rischio di un’attuazione della buona fede omologata al mo-
6 X. Xxxxxxx, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, 1969, p. 340 ss.; e v. X. Xxxxxxxx- na, Intervento statale e autonomia privata nella disciplina dei rapporti economici, Milano, 1966, p.
155. Xxx X. Xxxxxxx, L’interpretazione dei contratti (1906), in Scritti giuridici, Vol. 5, Milano, 1948, p. 169, riconosceva nelle disposizioni dell’art. 1124 del codice del 1865, oltre che «un precetto rivolto al giudice, anche la struttura di una norma materiale, rivolta alle parti contraenti».
dello della applicazione delle norme generali e astratte a fattispecie defini- ta, l’adozione della formula dell’integrazione appare adeguatamente rap- presentativa del fenomeno e rispettosa delle stesse esigenze di riferimento del giudizio alla concretezza dei casi e dei comportamenti esecutivi effet- tivamente tenuti dai contraenti.
4. Integrazione del contratto e lacune della convenzione. Rapporti e ordine tra le diverse fonti del regolamento
Il significato di integrazione secondo buona fede che abbiamo fin qui presupposto indica che da essa si desumono regole del rapporto ulteriori rispetto a quelle che scaturiscono da altre fonti del regolamento. Possono però prospettarsi differenti configurazioni del concorso della buona fede alla disciplina del rapporto in correlazione a diverse concezioni della inte- grazione del contratto.
Nello studio al quale si deve la più organica trattazione e la più argo- mentata sistemazione dell’integrazione del contratto 7, è evidente la pre- occupazione e l’intento di valorizzare, rispetto alla convenzione, le altre fonti del regolamento, anche non cogenti ed anche extralegali. Esse ope- rerebbero, con modalità non derogabili dai contraenti e attraverso l’opera del giudice, secondo criteri «ricavabili dall’ordine normativo». E, sul pre- supposto di una netta separazione tra interpretazione e integrazione, si assegna alla seconda un ruolo che prescinde dalla ricognizione della esi- stenza di lacune nella convenzione, così come, tendenzialmente, dalla subordinazione a valutazioni di coerenza o compatibilità con indici desu- mibili dal contenuto delle pattuizioni; e ciò anche quando non si tratti di integrazione in virtù di norme imperative. Le regole tratte dalle fonti di integrazione diverse dall’accordo negoziale sarebbero, in tal senso, «crea- te» e non in esso «trovate», così che sarebbero «eteronome» secondo un significato che non si limita a designare la derivazione da una fonte diver- sa da quella convenzionale, ma implica anche l’orientamento dell’opera- zione integrativa verso valori esterni al regolamento pattizio.
In senso solidale a tale impostazione, riconoscendosi l’ambiguità del termine integrazione, si nega che esso significhi completamento della convenzione e presupponga la ricognizione di lacune della medesima, at- tribuendosi piuttosto alla stessa il significato di interazione tra regole di va- ria fonte, in un sistema nel quale deve disconoscersi alla volontà pattizia un ruolo preminente.
Nella diversità di concezioni dogmatiche circa il rapporto tra legge e
7 X. Xxxxxx, Le fonti, cit., part. pp. 76-101.
autonomia privata, si contrappongono orientamenti che, in vario modo, riconoscono che la convenzione possa rivelare lacune e riservano a tale ipotesi l’intervento integrativo di norme dispositive, ed altri che negano legittimità alla stessa ipotesi e, unificando la costruzione del regolamento contrattuale in virtù del concorso delle diverse fonti, prospettano un inter- vento di quelle non convenzionali, e anche di direttive non cogenti e- spresse dall’ordinamento, su materie che pur siano state direttamente re- golate dai contraenti.
Che le parti possano non aver previsto ogni evenienza e quindi non aver regolato ogni conflitto, non costituisce soltanto un’eventualità atten- dibile, ma un fenomeno normale ed inevitabile a ragione della infinita va- rietà delle circostanze che possono verificarsi nello svolgimento del rap- porto e dei conflitti che possono conseguentemente insorgere. Sembra dunque naturale, e frutto di una considerazione realistica dei rapporti contrattuali, pensare le regole di integrazione della disciplina dei contratti come correlate alla carenza di regolamentazione convenzionale. Ed è al riguardo significativo lo sviluppo che, nell’analisi economica del diritto dei contratti, hanno assunto temi e dottrine espressi in termini di «contratti incompleti» 8.
Ma il dibattito sulle «lacune» del contratto è stato caricato di implicazioni costruttive molto ampie e generali circa i rapporti tra fonte privata e fonte legale (e spesso indebitamente influenzato dall’improprio modello offerto dalla tematica delle lacune dell’ordinamento), in un senso che non ha con- tribuito a favorire una ricostruzione pragmatica e realistica delle operazioni logiche e valutative che il giudice è chiamato a compiere per la soluzione dei concreti conflitti di interesse insorti tra i contraenti. E, dietro le differenti opzioni costruttive, traspaiono preoccupazioni e intenti di segno opposto in ordine al concorso regolamentare tra la fonte convenzionale e le altre, e cir- ca le relazioni reciproche di subordinazione o prevalenza.
Certo vi sono ipotesi di integrazione del regolamento convenzionale che operano in mancanza di lacune: le norme imperative impositive, o conformative, si applicano indipendentemente da esse o, se si vuole, col- mano quelle che esse stesse creano, come accade nel caso di inserzione automatica ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c. E in tal senso deve ricono- scersi che la sola integrazione suppletiva è subordinata alla ricognizione di lacune nella regolamentazione convenzionale 9.
8 X. Xxxxxxxxxxx, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, Padova, 2000, ne riferisce in modo esauriente, con ampia informazione bibliografica, economica e giuridica, segnatamente nordamericana, e si sofferma sulle implicazioni giuridiche che investono il tema della qualifica- zione e delle clausole generali; e, sulle regole di default, v. X. Xxxxxxxxx, Regole di «default» e ra- zionalità limitata per un (diverso) approccio di analisi economica al diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 451 ss.
9 X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 487.
La vera questione rilevante è piuttosto quella di riconoscere quale sia l’ordine, legalmente stabilito, di operatività delle diverse fonti. Ed è rispetto ad essa che il tema delle lacune rivela implicazioni pratiche. Affermare infat- ti che possa ricorrersi ad una regola desumibile da una fonte diversa della convenzione solo in presenza di una lacuna di questa equivale a dire che quella fonte è suppletiva rispetto a quella pattizia. E, per converso, ricono- sciuto che una fonte è suppletiva, ad essa potrà ricorrersi soltanto se si ri- scontra che il conflitto che occorre risolvere non è regolato dal contratto.
Certo, l’ordine secondo il quale le diverse fonti del regolamento contrat- tuale operano è legalmente stabilito; e sembra attendibile l’opinione secon- do la quale le disposizioni che lo determinano non sono derogabili 10. Ma che non siano suppletive queste norme, che non lo sia l’art. 1374 c.c., non comporta certo che, entro quell’ordine legalmente e inderogabilmente sta- bilito, la convenzione non possa, esprimendo regole pattizie, escludere, per la soluzione dei conflitti così disciplinati, il ricorso ad altre fonti, le quali, se- condo quel regime legale sono, rispetto ad essa, suppletive.
Tutto ciò non significa certo riproporre la «antica veduta che poneva la volontà unica «padrona del contratto» 11, o seguire il «tradizionale modo di configurare il contratto come frutto esclusivo del volere dei privati» 12. Né è in questione la relazione gerarchica tra legge e convenzione, essendo fuori discussione, quale che sia l’opinione cui si aderisca sul problema del- le lacune e sulla concezione complessiva del fenomeno dell’integrazione, che la fonte convenzionale è subordinata alle direttive cogenti dell’ordina- mento, mentre alle norme dispositive o suppletive può ricorrersi solo se il conflitto che occorre risolvere non sia già regolato dalla convenzione. Di ciò neanche si occupa l’art. 1374 c.c., risultando già esaurienti le indica- zioni che si desumono, da un lato, dagli artt. 1418, comma 1 e 1419 c.c. e, dall’altro, dal contenuto delle norme dispositive e suppletive, nonché dalla sintesi che è al riguardo ricompresa nella formula dell’art. 1322, comma 1, c.c.
Ecco allora che le implicazioni pratiche dell’orientamento che esclude la subordinazione all’esistenza di lacune anche dell’integrazione con fonti diverse dalle norme imperative si manifestano essenzialmente rispetto alle fonti non convenzionali extralegali. Ed è proprio a questo proposito che si manifesta come problema positivo, e non di mera nomenclatura, quello che attiene alla distinzione tra il significato di integrazione che designa il completamento della convenzione lacunosa e quello che designa il con- corso tra diverse fonti del regolamento, indipendentemente dall’esistenza
10 X. Xxxxxx, Le fonti, cit., p. 101 s.; X. Xxxxx, X. Xx Xxxx, Il contratto, Vol. 2, in Trattato di diritto civile, diretto da X. Xxxxx, Vol. 2, Torino, 1993, p. 404.
11 X. Xxxxxx, Le fonti, cit., p. 100.
12 Ivi, p. 94.
di lacune. Infatti, a seconda che l’integrazione alla quale si riferisce l’art. 1374 c.c. – e alla quale partecipa, per le ragioni esposte nel precedente paragrafo settimo, la buona fede – corrisponda all’uno o all’altro significa- to, ne discenderanno diverse conseguenze circa il contenuto precettivo della norma e, quindi, circa l’ordine secondo il quale deve riconoscersi operatività alle diverse fonti del regolamento contrattuale (nonché, come vedremo, circa la rilevanza che i contenuti convenzionali possano assume- re, ancorché essi siano muti rispetto alla specifica soluzione di un concreto conflitto di interesse, rispetto alla decisione di quest’ultimo alla stregua di regole desumibili da altra fonte).
A me sembra che l’integrazione di cui tratta l’art. 1374 c.c., e alla quale partecipa la buona fede contrattuale, concerna il contenuto della conven- zione. L’art. 1374 c.c., sia nella rubrica che nel testo, parla di «contratto» e non di «convenzione»; ma sappiamo che, nella polisemia del primo termi- ne, tra i vari significati di uso comune, vi è quello di «complesso delle pat- tuizioni». Questo significato è implicato dalla norma laddove recita «non solo a quanto è nel medesimo espresso», riferendosi all’evidenza al conte- nuto convenzionale. Certo la norma allude anche al valore vincolante («Il contratto obbliga …»), ma tale carattere non contraddice quel significato, sposandosi il senso di contenuto dichiarativo con quello della sua attitudine precettiva. Ed è significativo che il modello originario degli artt. 1374 e 1375
c.c. siano gli artt. 1134 e 1135 code civil, che entrambi impiegano il termine conventions, mentre numerose altre norme del codice usano il termine con- trat (secondo scelte lessicali che sarebbe interessante approfondire).
Ecco allora che ne risulta una lettura della disposizione secondo la quale le regole vincolanti che conseguono alla integrazione sono ulteriori, si aggiungono senza eliderle («non solo a quanto … ma anche a …»), a quelle che già corrispondono al contenuto della convenzione. Tale lettura non sembra, dunque, compatibile con l’inscrizione nell’ambito precettivo dell’art. 1374 c.c. del concorso alla costruzione del regolamento contrat- tuale di fonti cogenti che implichino l’elisione di regole pattizie (la cui o- peratività è del resto già esaurientemente disciplinata, come si è detto, dagli artt. 1339 e 1419 c.c.). Xxx può descriversi tale concorso mediante l’uso del termine integrazione riferito alla relazione tra fonti nella compo- sizione del regolamento, ma non è questo il senso dell’espressione nel contesto dell’art. 1374 c.c., così che la regola che questo pone, rispetto all’ordine di operatività delle fonti alle quali esso si riferisce, non può e- stendersi alle fonti cogenti; la «legge» alla quale esso si riferisce è, dunque, quella dispositiva suppletiva; e, per converso, non può attribuirsi forza co- gente alle fonti che la norma contempla.
Un punto di interferenza tra incidenza di direttive cogenti e integra- zione ai sensi dell’art. 1374 c.c. può solo cogliersi rispetto all’eventualità che le prime comportino la nullità parziale delle pattuizioni senza offrire
esse stesse regole sostitutive, nel qual caso potrà operare una fonte inte- grativa, quale l’equità; si tratterà allora di una lacuna creata non dalla mancanza, ma dalla invalidità di un patto.
5. La buona fede nel sistema delle fonti del regolamento contrat- tuale
Si disegna in tal modo un ordinato sistema di integrazione suppletiva della convenzione alla quale contribuiscono la norme dispositive, anche di fonte comunitaria, gli usi, l’equità e la buona fede: a tutte queste fonti può ricorrersi solo per la risoluzione di conflitti di interesse non regolati dal contratto 13; il ricorso all’equità è subordinato alla mancanza di regole legali o di usi 14, mentre quello agli usi normativi è subordinato alla caren- za di norme dispositive legali 15.
La posizione rispettiva delle norme dispositive e della buona fede nell’ordine di operatività suppletiva non sembra poter essere stabilita nel senso della parità gerarchica, alla stregua della mera considerazione della appartenenza di entrambe alla fonte legale, essendo la correttezza fondata sulla previsione del l’art. 1375 c.c., che, a differenza di quanto accade per gli usi e l’equità, non dà indicazione di priorità.
Deve avvertirsi – come si dirà più avanti, indagando le relazioni tra in- terpretazione e integrazione – che il ricorso a norme dispositive presup- pone un giudizio di coerenza delle stesse al programma stabilito dai con- traenti. Poiché si tratta di applicare regole poste dalla legge con riguardo a modelli tipologici (contrattuali legali o di categorie di prestazioni o di rap- porti obbligatori), il giudizio di coerenza è fondato sulla comparazione con essi della concreta e singolare realtà negoziale del rapporto che oc- corre disciplinare, e non può darsi per scontata l’adeguatezza del modello alla specificità del rapporto. La ricerca di regole suppletive alla stregua del- la buona fede è invece più immediata, in quanto direttamente concernen- te il singolo contratto e il conflitto di interessi che occorre dirimere.
13 In giurisprudenza, x. Xxxx. civ., 14 marzo 1983, n. 1884 e Cass. civ., 17 giugno 1994, n. 5862. In dottrina v. X. Xxxxx e X. Xx Xxxx, Il contratto, Vol. 2, cit., pp. 403 ss. e 413; X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 487; diverso è il problema dell’imputazione dell’onere di prova della mancan- za di una regola convenzionale: C.M. Xxxxxx, Il contratto, II ed., Milano, 2000, p. 512; e v. X. Xxxxxxx, Degli effetti del contratto, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di X. Xxxxxxx, Bologna e Roma, 1993, p. 65 ss.
14 X. Xxxxx e G. De Nova, Il contratto, Vol. 2, cit., p. 413; X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 490. Cfr. Cass. civ., 4 giugno 1992, n. 6809; Cass. civ., 16 giugno 1989, n. 2908, in Foro it., 1989, I, c.
2447; Cass. civ., 8 luglio 1983, n. 4626.
15 X. Xxxxxxx, Xxxxx xxxxxxx xxx xxxxxxxxx, xxx., x. 00; C.M. Xxxxxx, Il contratto, cit., p. 518; contra,
X. Xxxxx, G. De Nova, Il contratto, Vol. 2, cit., p. 411 e X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 489.
Poiché tra l’integrazione mediante norme dispositive e quella median- te regole desunte dalla buona fede sussiste una evidente relazione di al- ternatività, ma poiché entrambe, sia pure in diverso modo, sono governa- te dal valore di fedeltà al vincolo contrattuale, che è, come si è detto, in- trinsecamente proprio della buona fede, la risoluzione dell’alternativa può descriversi riconoscendo che è la stessa buona fede che, alla stregua di quel valore, presiede anche al giudizio di coerenza delle norme dispositi- ve. Se insorge un conflitto di interessi rispetto al quale la convenzione ri- veli una lacuna, la ricerca della regola dovrà essere guidata da quel valore, in un processo unitario nel cui ambito saranno considerate sia proposte di soluzione che siano offerte da norme dispositive, sia diverse ipotesi desu- mibili da criteri di congruità rispetto al programma dei contraenti. Il rilievo che le prime sono poste dalla legge non assicura loro una priorità rispetto alle seconde, trovando anche queste, sia pure in diverso senso, fonda- mento legale nell’art. 1375 c.c. Se alla buona fede non può attribuirsi for- za cogente, neanche può ad essa imputarsi una maggior debolezza rispet- to alle norme dispositive: la prima infatti, pur fondata sulla legge, ripete dalla convenzione la sua specifica proprietà regolamentare, rispetto alla quale le norme dispositive sono, nel senso che si è precisato, suppletive, così come lo sono rispetto alla convenzione. Deve però avvertirsi che tali conclusioni, per le ragioni che le sostengono, si riferiscono alla disciplina dispositiva dei tipi contrattuali, mentre non ritengo possano attagliarsi a norme, pur derogabili, della «parte generale» contenute nel titolo II del libro IV del codice.
In rapporto all’ordine suppletivo stabilito dall’art. 1374 c.c., la buona fede, dunque, assume una posizione prioritaria che presiede allo stesso giudizio circa il ricorso alle norme dispositive di disciplina legale dei tipi contrattuali (e quindi agli usi normativi): queste troveranno applicazione soltanto ove se ne possa trarre una regola coerente con il programma con- trattuale stabilito dai contraenti, dovendosi diversamente costruirsi un cri- terio di decisione desumibile dalla stessa buona fede e solidale a quel programma. All’equità si potrà fare ricorso in caso di insuccesso di ogni altra operazione integrativa.
6. Buona fede e convenzione tra interpretazione e integrazione
La riflessione sulla collocazione della buona fede nell’ordine di opera- tività delle fonti integrative suppletive e sulla sua funzione solidale al pro- gramma dei contraenti ci ha portato a lambire il tema della relazione tra interpretazione e integrazione, che investe il delicato fronte problematico della compatibilità con l’autonomia privata di un intervento integrativo del contratto alla stregua della buona fede. L’inserimento nel regolamento
contrattuale di regole non stabilite dai contraenti, ma poste dal giudice alla stregua della buona fede, nell’esplicazione del suo ruolo determinati- vo, pur con le avvertenze che sono state anticipate, comporta la conside- razione della salvaguardia dell’autonomia dei contraenti dal rischio che il giudice interferisca con essa sovrapponendo il proprio giudizio alle deci- sioni negoziali delle parti.
L’avversione al riconoscimento della funzione integrativa della buona fede appare, in alcune posizioni della dottrina, originata proprio dalla preoccupazione di scongiurare interventi genuinamente «correttivi» del regolamento convenzionale. Peraltro tali timori, e il fondamento normati- vo e sistematico che si oppone all’intervento sul contratto che essi paven- tano, valgono, come già si è anticipato e come meglio si dirà, a contestare la legittimità dell’integrazione correttiva, ma non inducono a disconoscere tout court che dalla buona fede si traggano elementi integrativi della con- venzione. Non possono confondersi e sovrapporsi le ragioni di salvaguar- dia dell’autonomia contrattuale con quelle di negazione della natura e funzione integrativa del giudizio di buona fede.
I rischi temuti non si esorcizzano negando che le regole desunte dalla buona fede integrino la disciplina contrattuale. Si tratta invece di appresta- re idonei criteri di controllo della compatibilità dell’intervento integrativo con i valori espressi dalla convenzione. E deve ribadirsi che, proprio in considerazione di tale problematica di compatibilità, appare più appro- priato parlare di integrazione della convenzione, piuttosto che del contrat- to: l’arricchimento della disciplina convenzionale mediante una regola che risolva, alla stregua della buona fede, un determinato concreto conflit- to di interessi non originariamente previsto e disciplinato non implica che la stessa non appartenga al contratto, non sia cioè coerente con la sua e- conomia, ricostruibile, secondo buona fede, dal complessivo assetto ne- goziale espresso dal contenuto dell’accordo, che pur sia muto rispetto alla soluzione di quel determinato conflitto. Talché, la buona fede può essere qualificata fonte eteronoma eminentemente nel senso che da essa si de- sumono regole non enunciate nella convenzione.
Queste precisazioni, in consonanza con le indicazioni espresse prece- dentemente, già delineano il confine e i rapporti dell’operazione di integra- zione secondo buona fede rispetto a quella interpretativa: la seconda è vol- ta a identificare il significato dell’enunciato della convenzione, delle singole clausole, e il complessivo assetto di interessi che esso esprime; la prima as- sume come dato tale significato ed è volta a determinare, per la soluzione di conflitti non risolti dalla convenzione, regole che questa non ha disposto ma che siano coerenti, o quantomeno compatibili, con il contenuto della me- desima, risultando in tal modo la relazione di continuità e complementarie- tà tra le due operazioni; pur senza che ciò legittimi quella commistione che è evocata dall’ambigua formula della interpretazione integrativa.
Peraltro, tali indicazioni comportano l’esigenza di stabilire volta a volta se la regola da applicarsi per la soluzione del conflitto rimesso alla deci- sione del giudice sia o meno rinvenibile nel regolamento convenzionale; cioè se quest’ultimo sia lacunoso rispetto al conflitto di interessi che oc- corre dirimere. Deve innanzitutto escludersi che possa, nell’ambito del- l’interpretazione, pervenirsi alla costruzione di una regola pattizia di riso- luzione del conflitto di interessi insorto qualora questa non sia riconduci- bile ad alcuno dei significati che, attraverso il ricorso ai canoni ermeneuti- ci legali, anche oggettivi, possa essere attribuito ad alcuna delle clausole del contratto. Ma la circostanza che tutte le pattuizioni siano mute rispetto allo specifico conflitto, non esclude che il contenuto pattizio offra argo- menti per una soluzione che, pur non enunciata, appaia coerente e soli- dale con il programma contrattuale che da quel contenuto risulta. Opera- zioni logiche, e analogiche, di tal fatta, muovono dall’interpretazione, ma non sono propriamente ermeneutiche. Tuttavia può non essere sempre agevole distinguere nei singoli casi concreti se un conflitto di interessi sia o meno già esplicitamente disciplinato dalla convenzione, e deve essere raccomandata estrema cautela al riguardo per scongiurare il rischio di
«finzioni di completezza» della medesima che imputino alla determina- zione dei contraenti regole poste dal giudice, impropriamente confon- dendo ragionamenti e operazioni ermeneutici e integrativi, con gravi peri- coli di distorsioni e manipolazioni.
Non è invero agevole prefigurare in astratto la varietà delle relazioni che possono prospettarsi tra il contenuto dell’enunciato di clausole con- trattuali e i conflitti di interessi che possono insorgere nella esecuzione dei rapporti; relazioni rispetto alle quali ha ragione di porsi il problema della riconducibilità o meno della soluzione della vertenza al disposto negoziale e quindi, secondo la ricordata, controversa, terminologia, il problema del- la ricognizione dell’esistenza o meno di «lacune» del regolamento con- venzionale.
Sotto le spoglie di ragionamenti ermeneutici possono celarsi finzioni di completezza della convenzione, e l’artificiosa imputazione al suo enuncia- to di regole poste dal giudice. L’apparente valorizzazione delle volontà dei contraenti mediante l’espansione del ruolo dell’interpretazione può dun- que aprire la strada al loro tradimento. E, quando l’interpretazione si svol- ge nella identificazione di intenzioni inespresse, il giudizio che le concer- ne si rivela precario e incontrollabile. Mentre la manifestazione e motiva- zione di un’operazione integrativa, che pur muova dalla ricognizione er- meneutica del programma contrattuale, rende palese e controllabile il ra- gionamento attraverso il quale il giudice perviene alla formazione della regola del caso.
L’identificazione del contenuto della regola alla stregua della quale ri- solvere il conflitto di interessi non disciplinato dalla convenzione implica
un giudizio di xxxxxxxx e compatibilità della soluzione con l’assetto nego- ziale, il quale è, a sua volta, il frutto di una valutazione sintetica conse- guente all’interpretazione. Ma ciò non esclude che quella regola sia posta in virtù di una operazione integrativa, non essendo essa già contenuta nell’enunciato della convenzione. Ciò, semplicemente, conferma il rilievo della continuità e complementarietà tra le due operazioni.
La realistica considerazione dell’ambito dell’apprezzamento che il giu- dice deve in concreto compiere al fine della soluzione di conflitti di inte- ressi non contemplati nell’enunciato della convenzione conduce dunque a riconoscere che il risultato delle sue valutazioni consiste nella determi- nazione di regole ulteriori rispetto a quelle rinvenibili nel contenuto della dichiarazione negoziale; e a riconoscere altresì che il ruolo determinativo del giudice non è estraneo alla stessa definizione dei conflitti in virtù del concorso di norme legali e convenzionali. Ed al riguardo la formula della integrazione sembra appropriata alla rappresentazione di operazioni siffat- te, sia che si tratti di applicare al rapporto la disciplina stabilita da norme di legge a fattispecie analitica, sia che si tratti di ricostruire regole alla stre- gua della clausola generale di buona fede.
I rischi la cui considerazione sembra essere all’origine delle tendenze contrarie al riconoscimento della funzione integrativa della buona fede paiono invero scongiurati se si avverte che l’apprezzamento del giudice non muove dalla presupposizione di astratte regole di correttezza, ma in- veste la concreta considerazione dei singoli conflitti di interessi; e se si ri- conosce che l’intervento integrativo è connesso e complementare all’inter- pretazione del contratto e alla ricostruzione dell’assetto economico del rapporto che da essa si desume. E, in tal senso, l’equilibrio tra le tensioni di cui interpretazione e integrazione sono state caricate può ritrovarsi nel ripudio, da un lato, di mistificanti operazioni di ricerca di una supposta volontà inespressa (presunta, implicita, ipotetica) di regolamentazione di conflitti non contemplati dalla convenzione, e, dall’altro, di interventi giu- diziali volti ad immutare il programma negoziale stabilito dai contraenti, omettendo il controllo di coerenza e compatibilità rispetto ad esso delle regole adottate per la soluzione del caso. Di tali vincoli dovrà tenersi ade- guato conto nella ricostruzione dei criteri di orientamento dell’apprezza- mento del giudice nell’esplicazione del suo ruolo determinativo alla stre- gua della buona fede.
7. Buona fede e adattamento del contratto
Si è visto come la regola di buona fede e la sua funzione integrativa della convenzione sia correlata all’attuazione di valori intrinseci al contrat- to, desumibili dagli enunciati negoziali e dal complessivo assetto econo-
mico del rapporto che ne risulta. E si è detto come la stessa interferenza, alla stregua della correttezza, di valori metacontrattuali sia, salvo il caso di loro inerenza a norme imperative o all’ordine pubblico, subordinata alla compatibilità con i valori intrinseci (pur nell’ambito di un apprezzamento del giudice, la cui discrezionalità si esercita in un delicato compito di comparazione e mediazione). È in tal senso che la funzione integrativa della buona fede si concilia con il rispetto della disciplina stabilita dai con- traenti e della loro autonomia, mentre non può ammettersi una sua valen- za correttiva, modificativa del contratto in attuazione di valori esterni al programma negoziale e con questo contrastanti.
Può però accadere che nella fase esecutiva del rapporto si manifesti un conflitto di valori che sia, in certo senso, interno al contratto. Essendo il programma negoziale fondato su un determinato contesto di circostanze, l’evolversi di queste, la sopravvenienza di eventi non previsti possono rendere l’applicazione della disciplina convenzionale non più idonea ad assicurare la compatibilità tra equilibrio contrattuale e realtà effettiva.
Ci si deve allora chiedere se la salvaguardia dell’equilibrio economico negoziale (di vantaggi, svantaggi, responsabilità, oneri e rischi), quale valo- re intrinseco al contratto, possa fondare, alla stregua della buona fede, un intervento modificativo di contenuti convenzionali volto a realizzare quel valore nonostante il mutamento delle circostanze, ad assicurare egual- mente le finalità contrattuali, in vista di esse adattando agli eventi le dispo- sizioni convenzionali. Operazioni siffatte, pur correttive della convenzio- ne, non sarebbero in realtà conservative del contratto e del programma economico stabilito dalle parti nell’esplicazione della loro autonomia? O la rottura della coerenza tra enunciati pattizi e valori inerenti all’equilibrio negoziale può condurre solo, alternativamente, all’attuazione dei primi ovvero allo scioglimento del rapporto, ma in nessun caso alla revisione da parte del giudice delle condizioni stabilite dai contraenti? Ma sono poi davvero nettamente distinguibili i confini tra legittima integrazione della convenzione alla stregua della buona fede e inammissibile revisione del contratto?
Il problema, sul quale si manifesta da tempo una crescente attenzione nell’ambito delle diverse esperienze giuridiche 16, nonché di proposte di ricodificazione a carattere privato del diritto dei contratti 17, non riguarda
16 È sufficiente qui richiamare l’indagine e le informazioni comparative di X. Xxxxx, Sopravve- nienza contrattuale e problemi di gestione del contratto, Milano, 1992; i risultati della ricerca so- no ripresi e sintetizzati in Id., voce Revisione del contratto, in Digesto civ., Vol. 17, Torino, 1998, part. p. 436. E v. anche X. Xxxxxxx, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996.
17 Le soluzioni di rinegoziazione e di adeguamento del contratto sono, come è noto, espres- samente considerate dai Principi Unidroit (art. 6.2.3), dai Principi della Commissione Lando (art. 6:11), dal Codice europeo dei contratti (art. 157).
soltanto le potenzialità proprie della clausola generale di buona fede, ma investe anche, nella sua generalità, da un lato le direttive che si desumono dalla disciplina dell’eccessiva onerosità sopravvenuta e, dall’altro, l’area di applicazione di una serie di norme che, con riferimento a diversi tipi con- trattuali legali, regolano ipotesi di sopravvenienza, e rispetto alle quali si delineano prospettive di coordinamento onde desumerne più vaste indi- cazioni normative. I limiti e l’economia di questa indagine non consento- no una complessiva e approfondita disamina dell’intera materia rispetto a queste complesse ed estese interferenze. Può solo offrirsi un contributo alla soluzione di alcune questioni, dalla specifica angolazione di una gene- rale trattazione sulla buona fede, avvalendosi delle opportunità, che al ri- guardo possono cogliersi, di svolgimento dei risultati raggiunti e di appli- cazione dei criteri di correttezza enucleati.
Una necessaria delimitazione di campo esclude dall’indagine le possi- bilità di esplicazione della buona fede nell’area interessata dalle direttive desumibili dall’art. 1467 c.c. La dottrina 18 ha prospettato un’interpreta- zione della norma che valorizza obblighi di rinegoziazione secondo buona fede nell’ambito del rimedio della reductio ad aequitatem, e, pur ricono- scendo che non può desumersene un «obbligo legale di rinegoziazione generalizzato», ritiene che non ne risulti preclusa una diversa soluzione del problema dell’adeguamento dei contratti di lunga durata qualora non si tratti del «fenomeno delle sopravvenienze produttive della maggiore (o eccessiva) onerosità della prestazione». E si delinea, per tali contratti, un’area di operatività dell’adeguamento e di obblighi di rinegoziazione, in virtù della clausola generale di buona fede e della ricostruzione della mancata previsione negoziale delle parti circa l’allocazione dei rischi, qua- le «clausola in bianco» destinata ad accogliere interventi di adeguamento del contratto alle circostanze non previste 19.
Certo, al di là dell’interferenza della buona fede rispetto ad obblighi di rinegoziazione che possano trovare spazio nell’ambito della disciplina dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, quest’ultima sembra segnare il con- fine entro il quale l’adattamento del contratto secondo correttezza può operare nel nostro ordinamento. Se le circostanze sopravvenute determi- nano una sproporzione tra i valori economici delle prestazioni, l’art. 1467
c.c. consente alla parte onerata il solo rimedio risolutorio, essendo subor- dinata alla libera iniziativa dell’altra parte la revisione delle condizioni contrattuali (salvi i vincoli di buona fede che possano insorgere nella fase successiva in ordine alla determinazione della reductio). Mentre, se il ri- medio non è esperibile perché la sproporzione sopravvenuta si mantiene
18 X. Xxxxxxx, Adeguamento e rinegoziazione, cit., pp. 312-331.
19 Xxx, p. 319 ss.
nei limiti della «alea normale», non potrà ricorrersi a rimedi perequativi che sarebbero in contrasto con l’allocazione dei rischi contrattualmente stabilita: essi non adatterebbero il contratto al mutamento delle circostan- ze, ma ne modificherebbero l’originario equilibrio.
Nell’ambito invece in cui operano i rimedi corrispondenti alla formula della presupposizione, un problema di adattamento neanche si pone, trat- tandosi di ipotesi di sopravvenienza che implicano la perdita di senso dell’operazione rispetto ai presupposti dai quali essa muoveva. Se, ad e- sempio, la sopravvenienza rende il bene o la prestazione del tutto inido- nei a sovvenire al bisogno il cui soddisfacimento era a fondamento dell’affare, solo la rimozione del vincolo potrà costituire rimedio alla situa- zione di squilibrio creatasi.
Ecco allora che l’appropriato ambito di esplicazione della buona fede in funzione di adattamento del contratto non può che essere quello atti- nente ai conflitti di interesse indotti da mutamenti di circostanze che non determinino una sproporzione economica tra le prestazioni né frustrino radicalmente l’operazione contrattuale. In questi limiti, non essendo in questione la compatibilità con i rimedi risolutori, non sembrano potervi essere serie obiezioni ad interventi giudiziali alla stregua della buona fede che implichino l’adattamento del contratto a circostanze sopravvenute. Si pensi all’influenza dell’andamento del mercato di riferimento rispetto ai programmi operativi convenuti nell’ambito di contratti di cooperazione commerciale di varia natura; ovvero a prescrizioni dell’autorità che im- pongano nuove modalità di esplicazione di attività connesse all’esecuzio- ne del rapporto; o, ancora, alle evoluzioni tecnologiche che consentano l’adozione di più efficaci misure di sicurezza relativamente alle attività de- dotte nel contratto; e così via 20.
Il trattamento di siffatte o analoghe evenienze mediante la formazione di regole integrative alla stregua della buona fede non sembra, invero, as- sumere una criticità specifica rispetto alle tipologie di intervento giudizia- rio sul contratto che abbiamo già più volte incontrate.
Già si è detto della problematica contrapposizione tra modifica e inte- grazione del contratto, in rapporto alla questione delle lacune della con- venzione ed alla identificazione delle operazioni valutative che preludono e presiedono all’intervento integrativo. E al riguardo, riconoscendo che quest’ultimo può esplicarsi non solo nel senso della soluzione dei conflitti di interesse insorti mediante regole ulteriori rispetto a quelle espresse nella convenzione, ma anche in quello della loro definizione mediante regole speciali che implicano la disapplicazione di clausole negoziali, ho chiarito
20 Per qualche ulteriore esemplificazione v. X. Xxxxx, G. De Nova, Il contratto, Vol. 2, cit., p. 86, che parlano al riguardo, in senso generale, di «sopravvenienza di esigenze nuove e di nuovi criteri di opportunità».
che in entrambi i casi non ne risulta una modificazione del contratto. A quest’ultimo infatti, alla sua economia ricostruibile secondo buona fede, dal complessivo assetto negoziale risultante dal contenuto dell’accordo, sono riconducibili quelle regole ulteriori. L’attinenza del giudizio di buona fede a valori intrinseci al contratto assicura infatti l’appartenenza ad esso delle stesse soluzioni secondo buona fede di conflitti non previsti nella convenzione; e ciò anche nel caso di disapplicazione di clausole e di ado- zione di regole speciali derogatorie, che potrebbero apparire modificative della convenzione, e tuttavia non del contratto quale operazione econo- mica, programma negoziale, disegnato ma non esaurientemente discipli- nato dal contenuto normativo dell’accordo.
Tali rilievi valgono per ogni ipotesi di conflitto di interessi emerso nel corso dell’esecuzione del contratto, e così, oltre che per quelli suscitati da circostanze non contemplate dalla convenzione, ma preesistenti o con- comitanti all’atto della stipulazione, anche per quelli conseguenti al so- pravvenuto mutamento di circostanze. Essi valgono quindi anche con spe- cifico riguardo al tema dell’adattamento qui considerato.
Pertanto, anche rispetto alla sopravvenienza possono configurarsi, oltre che rimedi risolutori corrispondenti alle ipotesi di impossibilità o eccessiva onerosità sopravvenute o di presupposizione, anche legittimi interventi integrativi della convenzione nel senso già indicato; ciò qualora non sussi- stano le condizioni per l’operatività dei rimedi risolutori e la buona fede imponga, nella salvaguardia dei valori propri del programma negoziale, l’applicazione di regole ulteriori o speciali e derogatorie rispetto a quelle enunciate nella convenzione.
Naturalmente, operazioni integrative di adattamento potranno essere legittime solo in quanto non siano volte a sollevare una parte dalle conse- guenze di evenienze corrispondenti a rischi che su di essa gravano alla stregua dell’equilibrio contrattuale. In tal caso non si tratterebbe, infatti, di adattare il regolamento al fine di preservare l’equilibrio contrattuale, ma di modificarlo.
Né interventi di adattamento alla stregua della buona fede sembra pos- sano trovare un limite in un supposto principio di intangibilità delle pre- stazioni. Una volta escluso che essi possano incidere su queste ultime per rimediare alla sproporzione tra di esse, non vi è ragione per escludere che possano invece farlo quando si tratta di assicurare il raggiungimento delle finalità dell’operazione e la salvaguardia del programma e dell’equilibrio contrattuale. Molte decisioni giurisprudenziali implicano proprio la con- formazione a regole di buona fede delle condotte esecutive, e ciò anche per quelle coincidenti con le prestazioni contrattuali (in particolare di fa- cere). Certo, le prestazioni monetarie non saranno di per sé modificabili – che altrimenti si tratterebbe di una perequazione che rimedierebbe, ad iniziativa dell’onerato, a squilibri economici sopravvenuti, in contrasto con
le direttive espresse dall’art. 1467 c.c. – ma potrebbero esserlo se si trat- tasse di stabilire, con un ricorso all’equità di supporto alla buona fede, la compensazione di una rettifica di adattamento della prestazione caratteri- stica che comporti maggiori oneri per la parte obbligata.
Ricondotto in tal modo il tema dell’adattamento alle comuni opera- zioni giudiziali attuative della buona fede, non sembra che costituisca im- prescindibile requisito al riguardo la lunghezza del tempo di durata del rapporto. Certo, tanto più le operazioni contrattuali sono per loro natura destinate a prolungarsi nel tempo, tanto più esse saranno esposte al mu- tamento di circostanze rilevanti, e più si rivelerà necessaria la disponibilità di rimedi di adattamento, sempre peraltro nella salvaguardia della coeren- za con l’equilibrio contrattuale risultante dalla convenzione e con la distri- buzione dei rischi ad esso inerenti. Appare peraltro precaria la stessa co- struzione dei contratti di lunga durata come definita categoria giuridica, l’appartenenza alla quale possa costituire un attendibile requisito di appli- cabilità di un rimedio. E, del resto, le illustrate ragioni che inducono a ri- comprendere nei comuni rimedi integrativi anche l’adattamento non sembrano tollerare una discriminazione al riguardo dei rapporti di breve o media durata, quale che possa essere al riguardo l’idoneo criterio di misu- razione.
La peculiarità dell’intervento si manifesta invero nella sua più delicata interferenza con gli enunciati convenzionali e nelle esigenze di cautela che ne conseguono. Deve infatti riconoscersi che la giurisprudenza non sembra incline a ricorrere apertamente a interventi di adattamento che interferiscano con il contenuto di clausole negoziali. Ma è pur vero che, nel riconoscere la generale adesione della giurisprudenza al rispetto dell’autonomia negoziale ed al rifiuto di un ruolo del giudice modificativo del contratto, si riscontrano soluzioni giudiziali spregiudicate che sono solo
«labialmente» e «ipocritamente» ossequiose di tali precetti 21.
La remora può imputarsi all’idea che l’intervento integrativo non possa operare là dove implicherebbe una modifica di verba della convenzione. In realtà, la nozione di lacune del regolamento convenzionale non implica che l’intervento integrativo debba rispettare, oltre che il requisito sostanziale del- la compatibilità con l’equilibrio contrattuale, anche un requisito formalistico di compatibilità con i verba della convenzione. Eventuali sovrapposizioni con essi o rettifiche degli stessi potranno rivelarsi coerenti con la specialità della regola integrativa rispetto a quelle enunciate nei patti.
Certo il problema di compatibilità si avverte più acutamente quando le esigenze di adattamento investono le stesse attività inerenti o connesse
21 Così X. Xxxx, Introduzione alla nuova giurisprudenza, in X. Xxxxxxx, X. Xxxx (a cura di), I contratti in generale, Vol. 1, Torino, 1991, p. 1 ss.; e v. G. De Nova, Il contratto ha forza di legge, in Scritti in onore di X. Xxxxx, Vol. 2, Milano, 1994, p. 353 ss.
alla prestazione caratteristica; e ciò soprattutto quando non si tratti di ag- giungerne a quelle contemplate negli enunciati pattizi, ma di rettificare queste ultime. Non può disconoscersi che è questo il punto più critico di interferenza tra intervento giudiziario e contenuti convenzionali. E sono certo generici i criteri che distinguono «modifiche sostanziali», «modifiche dell’affare», dal mutamento di «modalità esecutive». Non sarà, tuttavia, nella codificazione delle formule che queste tensioni potranno trovare u- nivoci criteri di composizione; solo nel concreto esercizio della funzione di integrazione giudiziale, e nel prudente apprezzamento delle circostanze sopravvenute in rapporto all’equilibrio contrattuale e agli enunciati pattizi, potranno trovarsi risposte che salvaguardino la sostanza del vincolo senza frustrare le aspettative dei contraenti all’attuazione dei contenuti conven- zionali.
L’adattamento è stato prospettato come materia di un’obbligazione ul- teriore dei contraenti, desumibile dalla regola di correttezza, avente ad oggetto la rinegoziazione di quelle condizioni che non appaiano compati- bili con l’equilibrio del rapporto e con le circostanze occorse 22. A me sembra, invece, che il fondamento del rimedio consistente nella clausola generale di buona fede non richieda la mediazione della costruzione di un’obbligazione di rinegoziare. Se si identifica la sanzione dell’inadempi- mento all’obbligazione di rinegoziare nell’intervento diretto del giudice sulla disciplina del contratto che surroghi il mancato accordo, il passaggio logico che giustifica questo intervento mediante quell’inadempimento ap- pare invero un artificio volto ad attutire l’impatto della tesi sul rispetto dell’autonomia dei contraenti. Inoltre, l’affermazione di un’obbligazione di rinegoziazione sembra possa riguardare solo un genuino problema di modificazione, mentre la soluzione che ho prospettato implica un adat- tamento integrativo al programma contrattuale.
Ma, che l’adattamento non si configuri come rimedio all’obbligazione di rinegoziare, non comporta che quest’ultima debba essere negata o, meglio, che debba essere esclusa un’obbligazione di negoziare l’adatta- mento integrativo. È certo, infatti, che se al ricorso al giudice si accompa- gna una stasi nell’esecuzione del contratto, il pregiudizio che da essa deri- va avrebbe potuto essere evitato da un negoziato che la reciproca corret- tezza avesse condotto ad un esito concordato. In tal senso, in caso di rifiu- to ingiustificato di una parte di negoziare o di sua condotta di mala fede nell’ambito del tentativo di accordo, essa dovrà risarcire all’altra parte il danno che questa abbia sofferto per effetto della inesecuzione del contrat- to nelle more del giudizio.
22 X. Xxxxxxx, Adeguamento e rinegoziazione, cit., p. 311 ss.; X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 1046 s.; e v. già X. Xxxxxx, Lehrbuch des Schuldrechts, 13. Aufl., Xx. 0, Xxxxxxx, 0000, p. 130;
Y. Xxxxx, Le devoir de loyauté dans l’exécution du contrat, Paris, 1989, p. 202.
Rispetto alle clausole di rinegoziazione (hardship), le quali potranno opportunamente investire anche l’area della sopravvenuta sproporzione economica tra le prestazioni, la buona fede potrà interferire con la loro attuazione come criterio di valutazione della condotta tenuta nel negozia- to e della responsabilità, delle parti.
8. Giustizia contrattuale
«Giustizia contrattuale» è formula divenuta ormai di uso corrente nella dottrina civilistica italiana, con significative relazioni, di corrispondenza o di derivazione, con analoghe espressioni usate da giuristi di altri paesi. Es- sa è certo stimolante e suggestiva, ma, nella sua genericità, può implicare significati differenti, evocare valori ed esprimere direttive non agevolmen- te riducibili a termini univoci. Il suo impiego è spesso ambiguo anche ri- spetto allo stesso ordine di riferimento delle proposizioni che la contengo- no: etico, ideologico, economico, sociologico, giuridico. Così, nel discorso che su di essa svolgono i giuristi, non è agevole discernere, l’una dalle al- tre: la pura e semplice rivendicazione di un primato dei valori etici rispet- to alle soluzioni del diritto positivo; la sintesi descrittiva di regole legali del diritto contrattuale; la proposta ermeneutica, costruttiva di una più ampia direttiva dell’ordinamento; la critica ideologica di tendenze dominanti, presentate come, a loro volta, ideologicamente orientate; l’indicazione di linee di politica legislativa ovvero di politica giudiziaria.
L’argomento interessa lo studio della buona fede in quanto questa è spesso considerata come possibile strumento di attuazione, in ambito con- trattuale, di valori di giustizia. È questa l’interferenza tra i due temi ed esu- lano dalla nostra trattazione approfondimenti di più vasta portata. Si tratta, in particolare, di discernere i significati della formula che possono assume- re, ai nostri fini, rilievo, e di identificare l’ambito propriamente giuridico dei problemi ai quali essa allude.
Conviene tuttavia soffermarsi su alcune considerazioni preliminari che, per la stessa ricchezza di implicazioni della formula e per la complessità delle connessioni tematiche, non potranno essere circoscritte in termini di stretta aderenza alle indicate finalità.
Si riduce ad un mero esercizio retorico, è sterile o, peggio, distorsivo, ogni impiego della formula che vada disgiunto dalla identificazione dei problemi di disciplina dei rapporti cui essa dovrebbe pur riferirsi, la varietà dei quali non consente alcun serio e attendibile discorso o ragionamento indifferenziato. Si pensi soltanto all’ineludibile articolazione problematica che riguarda i diversi aspetti di un ipotetico sindacato di giustizia da eser- citarsi dai giudici sul contratto; e così, il suo stesso oggetto, che potrebbe consistere nelle condizioni economiche dello scambio, in quelle normati-
ve del rapporto, ovvero in entrambe, nella loro integrata correlazione, ov- vero anche nella valutazione di compatibilità del contenuto del contratto con i valori della persona 23; i termini e i criteri del controllo, che potreb- bero concernere valori etici di giustizia, commutativa o distributiva, e di solidarietà sociale, ovvero essere desunti da parametri economici e nor- mativi consistenti negli stessi indici offerti dal mercato e dalle prassi con- trattuali; gli elementi e le circostanze rilevanti, rispetto al giudizio, che po- trebbero consistere nello stesso assetto economico normativo risultante dalla convenzione in rapporto a un ideale modello di equilibrio giusto, ovvero potrebbero essere identificati nella relazione causale che possa es- sere intercorsa tra le condizioni soggettive e oggettive in cui ciascuna delle parti si trovava e le condotte da esse tenute nella fase negoziale e formati- va, da un lato, e, dall’altro, il contenuto delle pattuizioni che ne sia stato l’effetto; l’ambito dei rapporti rispetto al quale il controllo di giustizia pos- sa esperirsi, e cioè quello corrispondente a determinate categorie di con- tratti e di contraenti, ovvero quello, illimitato, della generalità dei rapporti contrattuali.
Pur con queste avvertenze, ed anzi proprio in vista delle indispensabili articolazioni problematiche, può cogliersi un significato unitario e com- prensivo di «giustizia contrattuale». Questa, nella sua letteralità, potrebbe ricomprendere la stessa forza vincolante del contratto e le regole che la assicurano, assumendosi lo stesso pacta sunt servanda quale precetto etico espressivo di valori di giustizia. Ma il significato che appare implicato dall’uso corrente della formula sembra piuttosto esprimere una contrap- posizione, o quantomeno una tensione, una conflittualità potenziale, tra vincolo contrattuale e giustizia, tra osservanza del contenuto delle pattui- zioni e salvaguardia di interessi che sono da esse pregiudicati e che sia in- vece giusto proteggere.
Questo ampio significato è tale da accogliere la stessa descrizione sin- tetica – e un loro comune fondamento – delle regole, e delle esigenze che le ispirano, che in vario modo limitano o escludono la forza vincolante dei patti in presenza di determinate situazioni tipiche previste dalla legge; e ciò con riguardo a settori tradizionali della disciplina dei contratti: regime delle incapacità, dei vizi della volontà, della rescissione, regole che im- pongono lo scioglimento del vincolo a ragione di circostanze sopravvenute considerate con esso incompatibili. Questi rimedi sono tutti volti alla ri- mozione del vincolo su iniziativa del contraente da essi protetto, il quale però spesso non dispone di strumenti che gli consentano di soddisfare, invece, il suo positivo interesse alla realizzazione dell’operazione contrat- tuale a condizioni ricondotte a giustizia. Solo il regime della rescissione
23 X. Xxxx, Nuove frontiere del diritto contrattuale, in Trattato di diritto privato, diretto da X. Xxxxxxx, Vol. 26.1, Torino, 2000, p. 699.
implica un sindacato sul contenuto del contratto, che è invece estraneo alla disciplina degli altri rimedi; ma anche per la rescissione occorrono presupposti ulteriori rispetto alla considerazione dell’equilibrio economico contrattuale.
A ragione di questi caratteri, non ha avuto modo di affermarsi nella no- stra tradizione la costruzione, dall’insieme di queste regole, di un princi- pio generale, di una portata che le trascendesse, sul quale fondare un controllo circa la conformità del contratto a un modello ideale di giusto equilibrio economico normativo e un conseguente controllo e adegua- mento giudiziale delle condizioni convenute dalle parti. Al contrario, se ne è tratto argomento – in particolare dalla disciplina della rescissione – per negare l’ammissibilità di operazioni siffatte. Pertanto, rispetto a tali regimi, la formula «giustizia contrattuale» non sembra possa avere altro significato che quello di una loro sintesi descrittiva.
Più problematico appare il contenimento della formula nei limiti di un significato descrittivo di regole e rimedi specifici stabiliti dall’ordinamento riguardo alle direttive evolutive che si sono affermate con la disciplina del- le clausole abusive dei contratti dei consumatori 24, dell’abuso di dipen- denza economica nei contratti tra imprese 25, dei termini di pagamento dei corrispettivi contrattuali 26. Questi nuovi regimi implicano infatti, a dif- ferenza dei rimedi tradizionali, un sindacato sull’equilibrio contrattuale. E, seppur esso è circoscritto a determinati contenuti pattizi e non è per lo più di per sé rilevante, disgiunto dalla considerazione delle condizioni dei contraenti e della loro condotta nella fase negoziale e formativa, tuttavia appare legittimo l’interrogativo se sia ricostruibile una direttiva di più ge- nerale portata, o mutuabile al diritto comune dei contratti, e in quali ter- mini 27.
La verifica dell’esistenza di un fondamento di diritto positivo di un supposto principio di giustizia contrattuale, e di sindacabilità e modificabi- lità giudiziaria, alla stregua di esso, dei contenuti delle private convenzio-
24 Si vedano gli artt. 1469 bis ss. c.c., introdotti dall’art. 25, legge 6 febbraio 1996, n. 52, in attuazione della direttiva 93/13/CEE.
25 Si veda l’art. 9, legge 18 giugno 1998, n. 192, così come modificato ed integrato dall’art. 11, legge 5 marzo 2001, n. 57. Anche la legge sulla subfornitura deve essere inquadrata in un contesto europeo volto a contrastare i ritardi nei pagamenti e gli abusi a danno delle piccole e medie imprese: si ricordano al riguardo la Raccomandazione della Commissione n. 95/198 del 12 maggio 1995, riguardante i termini di pagamento nelle transazioni commerciali (in GUCE L 127/19 del 10 giugno 1995), la Comunicazione della Commissione del 18 dicembre 1978 relati- va alla valutazione dei contratti di subfornitura alla luce dell’art. 85.1 del Trattato CE (in GUCE C 1/2 del 3 gennaio 1979).
26 Si veda l’art. 7, d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, attuativo della Direttiva 2000/35/CE.
27 Cfr. X. Xxxxx, Contratto di diritto comune, contratto del consumatore, contratto con a- simmetria di potere contrattuale, in Riv. dir. priv., 2000, p. 786 ss. (da cui le citazioni), ora in Id., Il contratto del duemila, Torino, 2002, p. 23 ss.
ni, può prospettarsi, oltre che riguardo all’attendibilità di una generalizza- zione di regole e rimedi specifici stabiliti dalla legge, anche nel senso della ricerca di enunciati normativi da cui possa direttamente desumersi, in via ermeneutica, costruttiva, una direttiva siffatta. Ed è naturale che i fautori di tendenze innovative, in mancanza di precetti più definiti dai quali trar- re il principio, si siano volti al valore costituzionale di solidarietà economi- ca e sociale (art. 2 Cost.) e alla clausola generale di buona fede, onde frui- re di più estesi spazi di argomentazione.
Di questi profili giuridici ci occuperemo più avanti, nella specifica loro connessione con la prospettiva della buona fede. Conviene però breve- mente intrattenerci su altri aspetti, anche non propriamente giuridici, che di quelli costituiscono in certo senso il contorno e in vario modo possono con essi interferire.
Innanzitutto, la stessa formulazione dell’interrogativo circa la sussisten- za nel nostro ordinamento di un principio di giustizia contrattuale impone di discernere diversi possibili significati del medesimo. Si ricerca un pre- cetto di contenuto etico, pur destinato ad essere trasferito nell’ordine giu- ridico, ovvero un precetto da mutuarsi dall’ordine economico? ovvero un valore etico destinato ad essere attuato mediante il riferimento a parame- tri economici? E – secondo la distinzione aristotelica, che nei discorsi dei giuristi, oltre che in quelli degli studiosi di filosofia morale e di teoria della giustizia, mostra una persistente attualità – vuole assumersi una qualifica- zione di giustizia in senso distributivo o commutativo?
Rispetto a queste alternative si prospettano differenti problematiche con riguardo: alla stessa teorica legittimità e attendibilità di un sindacato sul con- tratto in termini di sua conformità a giustizia, a seconda che esso attenga soltanto all’oggettiva valutazione dell’equilibrio contrattuale o si estenda an- che all’apprezzamento delle circostanze e delle condotte inerenti alla fase delle trattative e della formazione del vincolo; alle considerazioni circa le condizioni, i modi e i criteri di pratica esperibilità di un intervento del giudi- ce di controllo e conformazione dell’affare privato; alle ragioni di policy che possono rispettivamente sostenere l’affermazione o la negazione del princi- pio, o, nel primo caso, orientarne i criteri di attuazione.
9. L’equilibrio contrattuale tra giustizia distributiva e commutativa
L’esigenza di salvaguardare un giusto equilibrio economico e normati- vo tra le prestazioni e tra le prerogative e i vincoli rispettivi dei contraenti è certo più attendibile e di più immediata comprensione se ricondotta alla formula della giustizia commutativa. Non pare invero sensato assumere il contratto, e il suo controllo e adeguamento giudiziale, a strumento per modificare gli assetti distributivi della ricchezza in senso perequativo. In
primo luogo, si affiderebbe la funzione distributiva alla spontaneità, occa- sionalità dei contatti contrattuali, alla varietà delle loro circostanze, anche relative alle consistenze patrimoniali dei singoli contraenti e alla dimensione economica dei singoli scambi, oltre che alla natura dei beni che ne costitui- scono l’oggetto, e ne deriverebbero quindi effetti redistributivi casuali, non uniformi, disordinati, e quindi in senso generale iniqui oltre che inefficien- ti 28. Inoltre, poiché la salvaguardia di valori di giustizia commutativa si riflet- te in effetti conservativi della consistenza patrimoniale dei contraenti ante- riore alla stipulazione, piegare indiscriminatamente il contratto al persegui- mento di finalità redistributive implicherebbe il paradosso di interventi im- positivi di effetti economici contrattuali in senso commutativo sperequati.
Naturalmente, la specifica inidoneità del sindacato giudiziale sul con- tratto all’attuazione di finalità di giustizia distributiva non significa che a queste ultime non possano servire – oltre che normative di ordine fiscale, previdenziale o simili, anche – regole di diritto dei contratti che imponga- no imperativamente prezzi e condizioni normative. Non mancano tuttavia tentativi di stabilire connessioni tra giustizia contrattuale commutativa e distributiva e di valorizzare la seconda anche rispetto a un sindacato giu- diziale sui contenuti del contratto.
Certo, l’effetto cumulativo di una indefinita pluralità di contratti sperequati può nuocere a una giusta distribuzione della ricchezza tra i consociati, parti- colarmente a ragione della probabilità statistica che le singole sperequazioni si manifestino in pregiudizio di soggetti e ceti già penalizzati dall’assetto distribu- tivo preesistente alle operazioni contrattuali. Ma tale considerazione può solo indurre ad assumere che la salvaguardia della giustizia commutativa possa contrastare il deterioramento ulteriore delle sperequazioni distributive, non già che essa sia strumento efficace per correggere queste ultime 29.
In tal senso, dunque, il perseguimento di finalità di realizzazione di va- lori di giustizia distributiva sembra poter essere attendibilmente demanda- to solo a interventi legislativi e di governo che, in materia contrattuale, possono esprimersi in termini di definizione autoritativa dei corrispettivi di beni e servizi ovvero in limitazioni dell’autonomia in ordine alla pattuizio- ne di determinate tipologie di clausole. Xxxxxxx, a quest’ultimo riguardo, configurarsi ambiti valutativi del giudice definiti dalla stessa disciplina au- toritativa, come accade nella legislazione in materia di contratti dei con-
28 M.J. Xxxxxxxxxx, The Limits of Freedom of Contract, Cambridge (Mass.), 1993, p. 249. In senso generale, sulla «asistematicità» dell’attribuzione di funzioni redistributive a regole dei rap- porti tra privati, anziché a strumenti fiscali o simili, v. A.M. Xxxxxxxx, Una introduzione all’analisi economica del diritto, II ed., Roma, 1992, p. 163 s.
29 In tal senso, salvaguardie giuridiche dell’equilibrio commutativo incidono indirettamente sul welfare system, altrimenti strutturato, contenendone i costi sociali che le ingiustizie commuta- tive potrebbero incrementare, inducendo situazioni di bisogno delle parti pregiudicate: v. E.A. Xxxxxx, Contract Law in the Welfare State, in 24 JLS, 1995, p. 283 ss.
xxxxxxxx; ma, per le ragioni già accennate, non sembra attendibile – per- ché non realistico, non efficace, casuale, non omogeneo, e quindi in defi- nitiva non equo – un sindacato giudiziario, generalizzato e svincolato da direttive legislative, volto a piegare il contratto a strumento di realizzazio- ne di valori di giustizia distributiva interpretati e attuati secondo un’auto- noma valutazione del giudice.
Se ci si volge all’eventualità di un sindacato giudiziario sul contenuto del contratto orientato all’attuazione di valori di giustizia commutativa, sorge innanzitutto un’alternativa: si tratta di valutare la conformità a giusti- zia del l’equilibrio economico e normativo considerato di per se stesso, ovvero in rapporto a circostanze del negoziato, a condizioni dei contraenti e alla loro condotta nella fase precontrattuale e formativa? è, in tal senso, in questione una substantive fairness o una procedural fairness 30? Interessa qui soffermarsi sulla prima alternativa, essendo la seconda meno proble- matica rispetto ai profili che andiamo ora considerando, perché più age- volmente riconducibile a un più solido terreno di valutazioni giuridiche, orientate da definizioni normative di fattispecie o, quantomeno, da col- laudate clausole generali riferite a comportamenti.
10. Apprezzamento di giustizia contrattuale indipendente da criteri economici
Riguardo alla valutazione di conformità a giustizia (commutativa) del- l’equilibrio economico normativo stabilito dai contraenti, considerato in- dipendentemente dalle circostanze della formazione dell’accordo e dalle inerenti condizioni e condotte dei contraenti, può, alternativamente, as- sumersi a criterio di giudizio o il parametro costituito da valori e standard economici e normativi espressi dal mercato, ovvero quello squisitamente etico equitativo costituito da un ideale modello di equilibrio contrattuale giusto, che ben potrebbe contrastare con i dati rilevabili dal mercato.
Nel primo caso – sul quale mi soffermerò più diffusamente fra beve – risulterebbe impoverita la stessa giustificazione etica, solidaristica, del per- seguimento della giustizia contrattuale: «è il mercato che fa da metro allo squilibrio, e perciò anche alla giustizia, alla morale che vengono chiara- mente a fondarne la repressione» 31. E verrebbero sottratte a un sindacato di conformità a giustizia le condizioni rilevabili nel mercato, a loro volta espresse da una pluralità di singole contrattazioni il cui assetto è determi- nato dalle posizioni socio economiche, di potere e di bisogno, dei contra-
30 Così M.J. Xxxxxxxxxx, The Limits, cit., p. 116 s.
31 Così, efficacemente, M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale del contratto, in
X. Xxxxxxxxx (a cura di), Il contratto e le tutele, Torino, 2002, p. 305 ss.
enti, da circostanze cioè che i valori di giustizia richiederebbero fossero controllate o modificate piuttosto che omologate. Per altro verso, un sin- dacato giudiziario sul contratto che lo conformi alle condizioni rilevabili nel mercato introdurrebbe in quest’ultimo un elemento di interna con- traddizione: se esso è il luogo di spontanea formazione delle condizioni dello scambio, come possono queste essere rese coercitive assumendosi lo stesso mercato a criterio della loro imposizione? Come può questo ele- mento di fissazione essere compatibile con un fenomeno la cui spontanea dinamicità è assunta come suo carattere naturale?
Altri, non meno delicati, problemi si pongono se il criterio del sindaca- to giudiziario sul contratto è identificato con la conformità a un ideale modello di equilibrio contrattuale giusto, non mediato dai dati offerti dal mercato, né da altri criteri di ordine economico. Anche a voler accantona- re ogni considerazione specificamente attinente al trattamento giuridico dei contratti e alle opportunità che lo concernono, è lecito dubitare della stessa legittimità etica e della intrinseca attendibilità di una valutazione di giustizia che sia avulsa tanto dalla considerazione dei comportamenti dei contraenti nella fase precontrattuale e formativa e delle circostanze ad es- sa inerenti (dalla cosiddetta procedural fairness), quanto dall’apprezza- mento delle condizioni di scambio alla stregua di criteri economici. In tal caso, infatti, il giudizio non potrebbe che avere un fondamento e un crite- rio «intuizionistici». La materia dell’apprezzamento, così depurata, ne ri- sulterebbe inerte e amorfa, inespressiva rispetto a qualsiasi principio di giustizia volesse adottarsi, a qualsiasi regola di priorità e comparazione ponderale tra diversi principi di giustizia volesse assumersi, e alla cui stre- gua volessero svilupparsi argomentazioni razionali 32.
Tali elementi di precarietà della valutazione sono esaltati nella traspo-
sizione dalla dimensione morale a quella giuridica, la quale implica un de- finito intervento coercitivo nella soluzione dei conflitti di interessi. In tal caso, infatti, la stessa evanescenza del parametro di giudizio, la difficoltà di tradurlo in concreti riferimenti a dati empirici, la sua indipendenza ri- spetto ad ogni altra più circostanziata indicazione normativa, lascerebbero al giudice spazi indefiniti di apprezzamento soggettivo, che neanche le clausole generali, in virtù della loro inserzione nella trama di norme che ne costituiscono il contesto, gli attribuiscono.
In tal senso risulterebbe precaria la stessa giustificabilità motivazionale del sindacato, e, quindi, la sua controllabilità, non solo endoprocessuale in termini di impugnazione, ma anche in senso sociale e politico. E si porreb-
32 Questi sono essenziali strumenti di apprezzamento offerti da una teoria della giustizia che non si fondi su concezioni aprioristiche o intuizionistiche (e che pur ritenga ineliminabile una componente intuizionistica, che essa tende però a contenere e a inserire in un sistema razional- mente organizzato): X. Xxxxx, A Theory of Justice, II ed., Xxxxxx, 0000, spec. pp. 30 ss. e 36 ss.
bero al riguardo problemi molto gravi di legalità di un sistema di generale soggezione degli affari privati ad una omologazione, ed eventuale ridefini- zione, giudiziaria, i criteri della quale non sarebbero legalmente fondati.
11. Criteri economici di valutazione dello scambio e sindacato giu- diziario sull’equilibrio contrattuale
Non possono dunque sottovalutarsi le gravi obiezioni che – già in linea di principio e astraendo dal diritto positivo – incontra il tentativo di co- struire attendibili e fruibili criteri di un sindacato giudiziario sulla confor- mità a giustizia dell’equilibrio contrattuale, che sia avulso dalla considera- zione delle circostanze della contrattazione, delle condizioni dei contra- enti e delle condotte relative alla formazione dell’accordo negoziale, e che nel contempo non si avvalga di criteri economici di apprezzamento. Mentre l’ausilio che tale sindacato potrebbe trarre dal riferimento ai valori e alle pratiche del mercato appare, come si è detto, di ardua conciliazione con un fondamento etico o di solidarietà sociale che non sembra, invece, possa mancare all’affermazione di un principio di giustizia contrattuale.
Ci si può tuttavia chiedere se non siano identificabili criteri economici scientificamente fondati che consentano di determinare, prescindendo dai dati offerti dal mercato, valori oggettivi dei beni e dei servizi, e delle con- dizioni normative che accompagnano il loro scambio, così che lo scosta- mento rispetto a tali valori possa dirsi contrario a giustizia in senso sia e- conomico che etico; e se tali criteri possano tradursi in attendibili e fruibili parametri di un sindacato giudiziario sull’equilibrio economico del singolo contratto, di per sé considerato indipendentemente dalle circostanze e dalle condotte attinenti alla fase formativa.
Senza pretendere di avventurarci nel campo proprio delle discipline eco- nomiche, ai nostri fini è sufficiente rilevare che sembra invero appartenere a risalenti fasi storiche dell’analisi economica il tentativo di ricercare un fon- damento unitario e stabile del valore dei beni, inteso quale intrinseco agli stessi ed oggettivo, indipendente dalla considerazione del mercato, dei mol- teplici fattori influenti sullo stesso e sugli scambi, e delle inerenti fluttuazioni. La moderna analisi economica non offre certo al riguardo indicazioni alla stregua delle quali possa fondarsi la solida costruzione su dati scientifici extra- giuridici di una dottrina giuridica che professasse un generalizzato sindacato giudiziario sull’equilibrio contrattuale alla stregua di criteri indipendenti dal mercato e dai fattori molteplici influenti sullo stesso e sugli scambi 33.
33 Du. Xxxxxxx, Distributive and Paternalist Motives in Contract and Tort Law, in 41 Md. L. Rev., 1982, p. 578, invocando «the support of modern economics», esclude la stessa esistenza di
«natural or real values for commodities».
La relazione tra criteri economici e sindacato giudiziario di giustizia contrattuale appare in diverso senso problematica se si considera il più consueto e attendibile riferimento ai valori rilevabili dal mercato.
Già si è detto della precarietà di una prospettiva di perseguimento di va- lori etici e solidaristici mediante l’assunzione a parametro di giustizia dei da- ti offerti dal mercato, essendo quest’ultimo influenzato da condizioni di di- suguaglianza e da pratiche ispirate alla massima realizzazione di interessi individualistici 34. Si pensi, in particolare, che rispetto a certe tipologie di contratti e di contraenti, a certi assetti di mercato, le parti possono rispetti- vamente appartenere alle contrapposte categorie dei cosiddetti price makers e dei cosiddetti price takers, così che il criterio del prezzo corrente non con- sentirebbe la correzione di ingiustizie ma le convaliderebbe. In tal senso lo scambio a condizioni conformi ai dati del mercato può dirsi giusto solo im- propriamente, nel limitato senso cioè che esso non soffre di quegli specifici fattori di iniquità che possano dirsi rimossi o prevenuti da norme regolatrici del mercato, né di quelli che deriverebbero da scostamenti dai valori da quest’ultimo espressi; ma esso non può dirsi giusto in quanto soffre di fattori di iniquità non rimossi o prevenuti da quella normativa 35.
Vediamo allora se, in questo limitato (e invero molto angusto) significa- to di giustizia dello scambio, il riferimento ai valori rilevabili dal mercato possa tradursi in attendibili e fruibili criteri di un sindacato giudiziario sull’equilibrio contrattuale, che sia avulso dalla considerazione di circo- stanze e condotte attinenti alla fase formativa.
Innanzitutto, poiché quei valori si desumono dalla comparazione con una pluralità di contrattazioni che siano, quanto ai beni e servizi scambia- ti, omogenee a quella da giudicarsi, si pone un problema preliminare ri- spetto al giudizio: la diversità di condizioni di quella operazione non è es- sa stessa una risultanza del mercato che comporti una rettifica o, quanto- meno, una reinterpretazione dei dati, ovvero implica di per se stessa il ri- conoscimento dell’ingiustizia dello scambio? I parametri di giustizia sono meramente statistici ovvero investono l’apprezzamento delle ragioni speci- fiche dello scostamento del singolo equilibrio contrattuale rispetto ai dati statisticamente più ricorrenti?
La difformità delle condizioni rispetto a quelle correnti può dipendere da un’ampia gamma di cause; tra le altre, da quelle anomalie della contrat-
34 X. Xxxxxxxxxxx, Mercato, solidarietà e diritti umani, in Rass. dir. civ., 1995, p. 112, ammoni- sce che non si può proporre un uso normativo del mercato.
35 Anche laddove le regole giuridiche del mercato implicano momenti di protezione da cause o risultati di iniquità, si rivela molto problematica l’armonizzazione tra finalità strumentali al mi- gliore funzionamento del mercato e genuine istanze solidaristiche di protezione di individui o di ceti; x. X. Xxxxx, X’xxxxxxxxx xxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 102 ss.; e X. Xxxxx, Autonomia privata e struttura del consenso contrattuale, Milano, 2000, p. 405 ss., e Id., Il diritto privato liberista, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, p. 263 ss.
tazione per le quali gli ordinamenti tradizionalmente offrono specifici rimedi giuridici; dall’ignoranza di un contraente circa i valori e le condizioni di mercato e circa fattori che su di essi possono incidere; dalla particolare in- tensità e urgenza del bisogno di una parte; dal peculiare beneficio che un contraente si proponga e sia in grado di trarre dallo scambio; dalle previsio- ni dei contraenti circa l’evoluzione futura delle condizioni di mercato. Que- ste diverse tipologie di fattori potrebbero fondare differenziate valutazioni di giustizia che sarebbero certo arricchite dalla specifica considerazione di condotte tenute dai contraenti e di circostanze in vario senso rilevanti. Non solo: la conoscenza e l’apprezzamento di condotte e circostanze ulteriori rispetto alla mera rilevazione dell’equilibrio economico normativo potrebbe far emergere elementi di specificità dell’operazione che comportino una correzione dell’assunto della sua omogeneità rispetto agli scambi e alle con- dizioni contrattuali dai quali si sono tratti i dati di comparazione offerti dal mercato. In tal senso, lo stesso giudizio preliminare di omogeneità e compa- rabilità non sembra poter essere circoscritto all’oggetto dello scambio.
Lo squilibrio contrattuale è, dunque, fenomeno ambiguo; le sue ragio- ni e le sue cause possono essere le più varie, alla molteplicità delle quali non possono adattarsi un giudizio e una reazione indifferenziati. Queste considerazioni non segnalano soltanto la difficoltà e delicatezza che a vol- te può presentare il giudizio comparativo con i dati di mercato, e la neces- sità che esso tenga conto di tutti gli elementi rilevanti. Esse mostrano co- me, anche assumendo quei dati a parametro di giustizia, il giudizio non possa circoscriversi all’equilibrio contrattuale (pur inteso nell’ampio senso che ricomprende ogni elemento economico e normativo dello scambio), ma debba estendersi alla considerazione di tutte le circostanze e condotte che dell’operazione costituiscono il contesto e, in particolare, di quelle attinenti alle trattative e alla formazione del contratto, risultandone ancora una volta screditato il perseguimento di una substantive justice avulsa dall’indagine circa la procedural justice.
Alle gravi obiezioni relative alla complessità, attendibilità e fruibilità di criteri di apprezzamento della giustizia contrattuale fondati sulla compara- zione con valori di mercato, si aggiunge una considerazione che pare in- vesta in modo radicale la stessa legittimità teorica di un procedimento sif- fatto. Questo presuppone, ed è volto a realizzare, un ipotetico sistema di controllo e coercizione giudiziale della conformità a giustizia del contrat- to; ma se i valori ai quali conformare le condizioni dello scambio sono quelli di mercato, questi ultimi, per definizione, non scontano l’influenza del sistema coercitivo, ma risultano da valutazioni che, al contrario, muo- vono dall’assunto di un carattere di spontaneità coessenziale al mercato 36.
36 L’espressione «spontaneità» è qui impiegata secondo un significato convenzionale che oc- corre precisare. Essa non vuole restaurare il mito, ormai sfatato, della «naturalità» e «apoliticità»
In tal senso, i criteri adottati per realizzare l’intervento giudiziale risulte- rebbero incompatibili con un sistema economico giuridico che lo con- templi: le condizioni contrattuali correnti non potrebbero essere quelle di un mercato libero perché non giudizialmente coercito, ma sarebbero quelle stesse risultanti dagli interventi giudiziari di conformazione. Ne ri- sulterebbero inutilizzabili, perché non corrispondenti ad una realtà effetti- va, i supposti valori di mercato, mentre si stabilirebbe un circolo vizioso tra condizioni correnti da assumere a riferimento del giudizio e condizioni giudizialmente coercite.
In conclusione, dunque, l’ipotesi di un sindacato giudiziario sull’equi- librio contrattuale da condursi alla stregua di criteri economici e normativi fondati su dati di mercato mostra la sua precarietà già sul piano della legit- timità teorica e rivela intrinseche contraddizioni; appare comunque stru- mento non generalizzabile e anzi di una potenziale portata molto circo- scritta. Inoltre, come già si è osservato con riguardo all’utilizzo di altri cri- xxxx economici di giudizio, anche se il rimedio fosse programmaticamente limitato alla considerazione dell’intrinseco equilibrio dello scambio, assun- to come indipendente dalla considerazione di definite fattispecie attinenti a ulteriori circostanze e condotte, non potrebbe comunque escludersi l’apprezzamento di elementi ulteriori, a pena di mortificare le stesse ra- gioni di giustizia dalle quali muovono le proposte di controllo giudiziario del contenuto del contratto.
del mercato: questo «in quanto ordine degli scambi, ha bisogno di norme ordinatrici», «ogni mer- cato è quale viene disegnato dal suo proprio statuto giuridico» (X. Xxxx, L’ordine giuridico del mer- cato, Bari, 1998, p. 11 ss. e v. X. Xxxxxx, Diritto e economia, Bologna, 1985, p. 67 ss.; e, anche per più ampie indicazioni bibliografiche, v. X. Xxxxxxxx, La proporzione fra le prestazioni contrat- tuali, Padova, 2003, p. 169 ss.), risultandone dunque, piuttosto, una sua «artificialità»; ma quest’ultimo carattere «nulla ha che vedere con il maggior o minor grado di libertà, lasciata ai soggetti dello scambio», la cui misura è quella «storicamente definita dallo statuto» (N. Irti, L’ordine giuridico del mercato, cit., p. 13). L’ordine giuridico del mercato è però «diritto di mezzi, e non di scopi (o del solo scopo di offrire alla scelta delle parti le strutture più idonee)» (ivi, pp. 56 e 69 s.). Certo le regole possono espandere o comprimere l’autonomia privata, ma, perché possa riconoscersi l’esistenza di un mercato nell’ambito di un dato ordinamento, in una determinata epoca, per certi beni, occorre che sia lasciata un’area di libertà a coloro che scambiano quei beni in ordine alla scelta del contraente e delle condizioni dell’operazione; ove ciò non accada non potrà dirsi che vi sia, quantomeno per quei beni, mercato, né potrà discorrersi di condizioni di mercato dello scambio di quei beni. Non si tratta al riguardo di esprimere opzioni ideologiche, di operare scelte politiche (che sono invece il motore delle regole che dosano il grado di espansione o compressione dell’autonomia): si tratta soltanto di evitare equivoci nella comunicazione e vizi nel ragionamento. Il termine «spontaneità», riferito ad un carattere del mercato, esprime dunque soltanto l’assunzione che, per gli scambi che si considerano, l’ordine giuridico preservi un’area di autodeterminazione nel senso indicato.
12. Opportunità pratiche e ragioni di policy relative al controllo giudiziario sulla giustizia del contratto
Non è nel dibattito – etico, ideologico, politico – sulla scelta dei fini che intendo inoltrarmi. Ma, assumendo che si voglia orientare la regola- mentazione dei contratti nel senso della realizzazione di finalità di giusti- zia (distributiva, commutativa), mi domando se il controllo giudiziario sulle condizioni convenute dai contraenti sia strumento convenientemente pra- ticabile ed efficacemente idoneo allo scopo. In tal senso, l’eventualità del sindacato del giudice sull’equilibrio contrattuale non sarà qui vagliata sul terreno dei consueti argomenti propri della contesa tra orientamenti liberi- sti ed efficientisti, da un lato, e solidaristi dall’altro. Né si tratta di rinnova- re argomentazioni, ormai scontate, circa l’attendibilità o la precarietà dei tentativi di contrastare interventi autoritativi sui contratti mediante le bar- riere di sovrastrutture dogmatiche solidali a certe concezioni della libertà contrattuale e a certe teorie volontaristiche. Né, una volta elette finalità di giustizia, potrebbero assumere rilievo considerazioni di analisi economica del diritto orientate al perseguimento di obiettivi di efficienza economica complessiva, che sono programmaticamente indipendenti dall’apprezza- mento equitativo dell’allocazione dei benefici e sacrifici individuali di cia- scuno dei contraenti.
La riflessione circa le implicazioni pratiche di un sindacato giudiziario sul contenuto del contratto, le difficoltà che possono condizionarne l’effet- tiva operatività e gli elementi positivi e negativi che incidono sulla stessa sua idoneità ad assolvere i programmati fini di giustizia, evidenzia innanzi- tutto l’attendibile previsione di una esplosione di contenzioso in materia contrattuale.
Il pentimento di un contraente che voglia liberarsi dal vincolo contrat- tuale incontra, nel sistema tradizionale del diritto dei contratti, il filtro co- stituito dalle regole proprie dei diversi rimedi di impugnazione (invalidità, rescissione, risoluzione). La definizione legale delle diverse fattispecie di anomalie, originarie o sopravvenute, alle quali è subordinata l’esperibilità di quei rimedi, costringe in corrispondenti limiti (quale che sia il giudizio che possa darsi sulla adeguatezza della loro estensione) la difesa giudizia- ria di chi voglia pretestuosamente avvalersene, ed espone i suoi tentativi alle conseguenti difficoltà di prova e di argomentazione.
Al contrario, la possibilità di accedere ad un generale rimedio fondato sull’ingiustizia dell’equilibrio contrattuale e non subordinato alla ricorren- za di fattispecie attinenti alla formazione del contratto o a definite circo- stanze che di esso costituiscano il contesto, originario o sopravvenuto, consentirebbe al contraente pentito di limitarsi ad affermare che il contrat- to è ingiusto e di avvalersi di un’ampia libertà di argomentazione, svinco- lata da specifici oneri di prova di circostanze o condotte inerenti a definite
fattispecie, ed esaltata dalla stessa pluralità e vaghezza dei criteri di giudi- zio invocabili, delle quali si è detto nei precedenti paragrafi. La stessa pro- gnosi circa l’esito della lite sarebbe per il contraente pentito meno pessi- mistica di quella relativa al ricorso pretestuoso ai rimedi tradizionali, po- tendo egli consegnare la sorte della sua iniziativa processuale alla discre- zionalità, non solo amplissima, ma in molti casi del tutto imponderabile, del giudice. La scelta di non osservare e denunciare il contratto ne risulte- rebbe, dunque, incoraggiata 37.
Ben fondata appare, pertanto, nell’ipotesi contemplata, la previsione di un’esplosione di controversie contrattuali e, prima ancora, di una proli- ferazione di inadempienze e di crisi dei contratti. Nell’alternativa, in cui il contraente pentito si troverebbe, tra l’esecuzione di un contratto che gli appaia svantaggioso e la denuncia dell’ingiustizia del medesimo, risulte- rebbe accresciuto il peso delle ragioni in favore della seconda. L’incertez- za della prognosi circa l’esito della lite favorirebbe una disponibilità tran- sattiva dell’altro contraente, con conseguente ulteriore incentivazione dei contraenti pentiti alla denuncia del contratto. È lecito dunque ipotizzare una tendenziale approssimazione del numero delle controversie contrat- tuali al numero dei contratti dei quali una delle parti si penta.
I rilevati inconvenienti connessi all’incertezza circa la previsione dell’esito dei giudizi risultano esaltati se, secondo l’ipotesi appena consi- derata, si prospetta il riferimento del sindacato giudiziario sul contratto a un parametro, indipendente da criteri economici di valutazione, squisita- mente etico equitativo, costituito da un ideale modello di equilibrio con- trattuale giusto; la discrezionalità valutativa dei giudici sarebbe infatti in tal caso sostanzialmente illimitata, perché svincolata sia da ogni parametro economico che da ogni correlazione con tipologie di circostanze e di condotte.
Qualora, invece, si assuma l’ipotesi di un giudizio orientato da criteri economici, pur trascurando le serie obiezioni che su altri piani sono state prospettate, altre, non meno gravi, si manifestano in ordine alla stessa i- doneità professionale del giudice a formulare fondati apprezzamenti che, come si è sopra illustrato, sarebbero assai complessi e correlati ad una gamma molto estesa di variabili, così da richiedere una specifica ed eleva- ta competenza tecnica. Ma, soprattutto, richiederebbero capacità e legit- timazione rispetto alla stessa scelta dei parametri e dei metodi valutativi, e implicherebbero un’autonoma definizione di direttive circa il governo au- toritativo degli affari privati. Al riguardo, non sembra davvero si possa pre- supporre che i giudici dispongano della necessaria competenza tecnico economica, né dell’accesso a tutti i dati occorrenti in relazione a tutte le
37 Sulle ragioni a fondamento dell’enforcement of the contract by courts, v. ora X. Xxxxxxx,
Foundations of Economic Analysis of Law, Cambridge (Mass.), 2004, p. 291 ss.
variabili rilevanti, né della legittimazione istituzionale implicata dalle indi- cate funzioni 38.
Per ciò che, in particolare, riguarda l’ampiezza dell’area delle variabili e dei dati ed elementi rilevanti, rispettivamente inerenti al contesto eco- nomico e sociale e alla singola operazione contrattuale da vagliarsi, ne ri- sulterebbe uno sforzo istruttorio davvero imponente, con proporzional- mente ingenti costi e lunghi tempi dei processi. Mentre, per ciò che in particolare concerne la necessità di disporre di adeguate competenze e- conomiche, può attendibilmente ipotizzarsi l’elevata frequenza del ricorso ad una consulenza tecnica nei contenziosi sulla conformità a giustizia dei contratti; ne conseguirebbero ulteriori aggravi di costi e tempi, nonché il serio rischio di una sostanziale delega dal giudice al consulente del delica- to apprezzamento circa la giustizia del contratto, e di ulteriore, conse- guente indebolimento della legittimazione istituzionale del soggetto inve- stito del governo autoritativo degli affari privati.
Inoltre, non potendo trascurarsi l’influenza che sul corrispettivo eserci- ta l’assetto normativo (implicante una distribuzione di costi, oneri, respon- sabilità e rischi), né quella che esercita il primo sul secondo, una valuta- zione complessiva circa la conformità a giustizia dell’equilibrio contrattua- le richiederebbe, al fine di omogeneizzare la stima delle sue due compo- nenti, normativa ed economica, la valorizzazione delle implicazioni delle clausole secondo un’unità di misura monetaria, nonché calcoli attuariali relativi alle eventualità future connesse ai diversi profili della disciplina convenzionale dei rischi. Evidente è l’elevata complessità valutativa e tec- nica di siffatte operazioni e la loro sostanziale imponderabilità, con conse- guente precarietà delle previsioni circa gli esiti dei giudizi.
La generalizzata subordinazione dei contratti ad una omologazione giudiziaria fondata sul sindacato di conformità a giustizia dell’equilibrio economico normativo renderebbe dunque precaria la stabilità dei rappor- ti, mentre sarebbero scarsamente attendibili le stesse previsioni sull’esito del giudizio e, quindi, sul conseguimento della stabilità 39. Non è qui in
38 Per alcune convergenti considerazioni v. M.J. Xxxxxxxxxx, The limits, cit., p. 248 ss.; M. Barcellona, La buona fede, cit., p. 116 ss., paventa che «il controllo e la correzione del contratto» siano «affidati al giudice, che sembra assurgere, in luogo dello Stato, ad autore del riconoscimen- to e censore dell’autonomia dei privati». Ma x. X. Xxxxxxx, Xxxxxxxxxx e usura nei contratti, in Id. (a cura di), Xxxxxxxxxx e usura nei contratti, Padova, 2002, p. 18 ss., il quale vede nel ruolo del giudi- ce un rimedio alla «crisi della sovranità popolare e dello Stato di fronte ai processi di mondializ- zazione e uniformazione di regole», con ciò peraltro implicando la gravità del problema della legittimazione istituzionale.
00 X. X. Xxxxx, X. Xx Xxxx, Xx contratto, Vol. 2, cit., p. 5: «Un legislatore che si impegnasse con troppo entusiasmo nella lotta per la giustizia suggerirebbe al contraente pentito l’impugnativa intito- lata al vizio dell’ingiustizia, e ciò creerebbe un clima di incertezza incompatibile con una delle fun- zioni primarie del contratto, che è quella di offrire alle parti, impegnate nella programmazione della loro attività, l’appoggio che possono offrire rapporti giuridicamente certi e indiscutibili».
questione la salvaguardia del dogma della certezza del diritto, ma quella di una soglia ragionevolmente accettabile di attendibile prevedibilità degli esiti dei giudizi e di stabilità nel tempo degli effetti delle operazioni eco- nomiche.
Sono innegabili gli ampi margini di discrezionalità valutativa di cui il giudice è investito nella risoluzione delle controversie contrattuali; e il giudizio al riguardo non è riducibile al modello di ragionamento positivi- stico, governato dalla necessità logica. Esso è tuttavia pur sempre ancorato a enunciati di clausole contrattuali, a fattispecie definite da norme, a clau- sole generali che, anche in virtù della loro inserzione in una trama di di- sposizioni, esprimono direttive alle quali il giudice deve rapportarsi e con riguardo alle quali deve formare e giustificare il proprio convincimento. Al contrario, un sindacato sulla conformità a giustizia dell’equilibrio contrat- tuale di per sé considerato affranca il giudizio da ogni regola normativa e convenzionale e dall’apprezzamento di condotte e circostanze, e lo esau- risce nell’attuazione di un imponderabile valore di giustizia.
Le esigenze di salvaguardia di un’accettabile soglia di prevedibilità de- gli esiti dei giudizi e di stabilità dei rapporti non appartengono soltanto ad una logica di efficienza economica, ma investono la stessa qualità della convivenza sociale e delle condizioni di vita individuali. Non deve pensar- si allo strumento giudiziario di attuazione della giustizia contrattuale sol- tanto con riguardo ai contratti di massa, o, in genere, ai rapporti tra con- traenti appartenenti a diversi ceti. L’ipotesi di uno spostamento degli strumenti di attuazione di valori di giustizia dalla legislazione al controllo giudiziario, e di una generalizzazione del sindacato sulla giustizia dei con- tratti, porrebbe in causa per tutti i consociati, e per tutti gli scambi, i valori di stabilità dei rapporti e di prevedibilità dei giudizi.
Ecco allora che, anche indipendentemente da ogni considerazione di efficienza economica, si impone la preferenza per una composizione tra quei valori e quello di giustizia del contratto che si riveli più equilibrata di quanto non sia il ricorso ad un generalizzato sindacato giudiziario sul con- tenuto dei contratti. E, in tal senso, si rivela più conveniente la scelta di affidare la salvaguardia delle esigenze di giustizia dello scambio allo stru- mento legislativo, che proceda per categorie di contratti e di contraenti, per definizione di tipologie di anomalie del rapporto (di condotte formati- ve, o di contenuti convenzionali); o anche per clausole generali che però investano la considerazione delle circostanze, condizioni e condotte della fase formativa.
La generalizzazione di un controllo giudiziario sull’equilibrio contrattuale e dei criteri del medesimo, finirebbe con l’omogeneizzare, con effetti im- propri anche sui risultati di giustizia, tipologie disparate: contratti delle im- prese e tra imprese, contratti a contenuti standardizzati e a contenuti nego- ziati e individualizzati, cosiddetti «scambi senza accordo», cosiddetti «affari
borghesi», contratti tra pari e contratti con asimmetria di poteri negoziali, e così via in ragione delle differenze tipologiche di natura e oggetto dei con- tratti, di condizioni dei contraenti, di assetti del mercato rilevante, ecc.
Alle ragioni che sconsigliano l’adozione di un generalizzato sindacato giudiziario sulla conformità a giustizia dell’equilibrio contrattuale non è dato contrapporre un peso, non dico proporzionato, ma neppure apprezzabile, degli interessi, non altrimenti tutelabili, che ne risulterebbero protetti.
Se ci si domanda quali cause possano determinare la stipulazione di un contratto le cui condizioni economiche normative possano dirsi sperequate, può, come già si è visto, pensarsi a ragioni personali ma obiettive (bisogni) o a motivi soggettivi (desideri, preferenze, percezioni di bisogni) o ad anoma- lie delle condizioni soggettive che inducono un contraente ad accettare condizioni sfavorevoli; a condotte non corrette (in vario modo ingannevoli, reticenti, coercitive, speculative) di una parte in pregiudizio dell’altra, e così via. Ma, rispetto a tali eventualità, rimedi calibrati ed efficaci dovrebbero volgersi alla considerazione di quelle cause, e risolversi quindi in strumenti di procedural justice; mentre l’ipotizzato sindacato giudiziario atterrebbe all’equilibrio contrattuale di per se stesso apprezzato, né comporterebbe attendibili presunzioni circa la ricorrenza di quelle cause.
Altri fattori potrebbero determinare lo scostamento delle condizioni di
uno scambio rispetto a quelle rilevate come correnti e normali in senso statistico. Ma già si è visto che, in tali ipotesi, dovrà riconoscersi che le pe- culiarità dell’affare e del suo contesto possono rendere inattendibile il giu- dizio di anomalia e di sperequazione.
A ben vedere, il controllo giudiziario circa la giustizia intrinseca dello scambio appare insostituibile da rimedi fondati sulla considerazione delle condotte e delle circostanze negoziali e formative (opportunamente ap- prestabili dall’ordinamento anche in ambiti più estesi di quelli vigenti) 40 solo qualora si tratti di sperequazioni del tutto inspiegabili, immotivate e irragionevoli, e ove neanche soccorra l’impugnabilità per incapacità natu- rale, che è, del resto, anch’esso un rimedio di procedural justice. Ne risul- ta il carattere del tutto marginale, se non meramente teorico, dell’ambito degli interessi a protezione dei quali il sindacato giudiziario dovrebbe ser- vire. È dunque a questa astratta esigenza di tutela che dovrebbero sacrifi- carsi le così gravi ragioni che sconsigliano il ricorso ad un regime di gene- ralizzata omologazione giudiziaria dei contratti? È, invero, lecita la suppo- sizione che, in realtà, non siano in gioco opportunità di protezione di inte- ressi né finalità di giustizia, ma l’inclinazione ad opzioni ideologiche o a seduzioni intellettuali.
40 Non mi riferisco, dunque, a quelli storicamente accordati da un dato ordinamento, ma a quelli opportunamente accordabili per soddisfare ragioni di giustizia sostanziale con strumenti di procedural justice.
La riflessione circa l’effettiva realizzabilità e l’idoneità allo scopo del controllo giudiziario sulla giustizia dei contratti ha dunque consentito non soltanto di verificarne i gravi inconvenienti pratici, ma di apprezzare altresì le forti ragioni di policy (non conseguenti a opzioni ideologiche o ad as- sunzioni dogmatiche) che ne sconsigliano l’adozione.
Finalità di giustizia contrattuale, o, secondo una formula più realistica e meno ambiziosa, di protezione di categorie di interessi meritevoli e di cor- relativa compressione dell’autonomia privata, sembrano invero più age- volmente ed efficacemente perseguibili mediante strumenti diversi da quello di un generalizzato sindacato giudiziario sul contenuto dei contrat- ti. Appare preferibile, sotto tutti i punti di vista che abbiamo considerato, la via, già battuta dalla legislazione interna e dalla normativa comunitaria, di una disciplina protettiva che operi per categorie di contratti e di contra- enti, per tipologie di clausole, e di fattispecie di anomalie formative, e che consenta di limitare, controllare, correggere specifiche ipotesi di squilibrio negli assetti negoziali stabiliti dalle parti.
Innanzitutto, tecniche siffatte di intervento normativo sui contratti, non implicando una generalizzata omologazione giudiziaria dei medesimi, possono governare la compressione dell’autonomia privata in modo com- patibile con il sistema giuridico economico di mercato. Inoltre, la produ- zione normativa, a ragione degli organi da cui promana, riposa su di una legittimazione all’intervento autoritativo sugli affari privati ben più solida di quella che possa vantare un sindacato giudiziario che non sia fondato su definite direttive di legge.
Ma ciò che più rileva sul piano delle implicazioni pratiche è il diverso, minor impatto sull’attendibilità delle previsioni degli esiti giudiziari e sulla stabilità dei rapporti contrattuali. La disciplina che disponga sì un sindacato sui contenuti delle convenzioni, ma operando per categorie di contratti e di contraenti, per tipologie di clausole, e di anomalie formative, circoscrive, infatti, la discrezionalità valutativa del giudice in corrispondenza con la defi- nizione normativa di tali fattispecie. In questo senso, diversamente da quan- to accadrebbe rispetto ad un generalizzato sindacato giudiziario sull’equi- librio contrattuale, appaiono già originariamente ponderabili dai contraenti i fattori di incertezza dell’esito dei giudizi e i rischi di instabilità dei rapporti (del resto ineliminabili in qualsiasi regime dei contratti).
Non si vuole dunque propugnare l’indifferenza dell’ordinamento ri- spetto ad istanze di giustizia dell’equilibrio contrattuale; si tratta però di selezionare accuratamente gli strumenti adeguati, da un lato, alla prote- zione degli interessi e alla sanzione dei comportamenti ai quali possono riferirsi le cause degli squilibri, e, dall’altro, alla salvaguardia della compa- tibilità con altre esigenze sulle quali si fonda la disciplina dei contratti.
13. Xxxxxxxx generale di buona fede ed equilibrio contrattuale
Abbiamo visto come la funzione della buona fede integrativa della con- venzione si esplichi in un senso solidale al programma contrattuale stabilito dai contraenti e coadiuvante di un’attuazione del rapporto ad esso coeren- te. È in tal senso che i significativi contributi giurisprudenziali alla definizione di regole concrete di risoluzione dei conflitti di interesse tra i contraenti non specificamente disciplinati dalla convenzione trovano fondamento e criterio nell’interpretazione complessiva dei patti e nella ad essa congruente identi- ficazione dell’equilibrio contrattuale degli interessi. E ho avvertito come tut- to ciò corrisponda all’articolazione del sistema delle fonti del regolamento contrattuale, che vede in posizione sovraordinata le norme imperative e l’ordine pubblico, quindi la convenzione, e la buona fede in funzione inte- grativa e coadiuvante della medesima, quindi le norme dispositive di legge, gli usi e infine l’equità. In tal senso, pur non essendo i contenuti assiologici della correttezza riducibili alla mera dimensione contrattuale, tuttavia essi, in quest’ambito, si traducono in valori omogenei o quantomeno compatibili rispetto a quelli propri del singolo programma negoziale.
Questa visione esclude che alla buona fede, e al giudice che risolve i conflitti alla stregua della medesima, possa essere attribuito un ruolo anta- gonistico rispetto all’autonomia privata e al frutto pattizio della sua espli- cazione; e che il controllo giudiziale secondo correttezza possa trascende- re dall’ambito dell’integrazione del regolamento convenzionale e attingere un vero e proprio giudizio di validità del contratto e delle sue clausole. Le ragioni di tale ultima conclusione risiedono dunque, in primo luogo, nella ricostruzione già svolta, e testé richiamata, del significato e della funzione stessi della buona fede contrattuale e della sua collocazione nel sistema delle fonti del regolamento.
Né sembra che una concezione e un impiego della correttezza in senso antagonistico rispetto all’autonomia privata potrebbero sposarsi con la condi- visione dell’opinione che le attribuisce la funzione di desumere dall’assetto negoziale stabilito dai contraenti regole ulteriori, nella convenzione inespres- se, per risolvere i conflitti tra essi insorti; opinione che, come si è visto, è soli- damente radicata in dottrina e dalla quale la giurisprudenza, in una ormai im- ponente quantità di decisioni, ha tratto molteplici e persuasive applicazioni per la soluzione di una serie molto ampia e diversificata di controversie.
Suscita gravi perplessità la stessa ipotesi che l’ordinamento possa e- sprimere una clausola generale, per così dire «strabica», che rechi in sé sia la funzione di assicurare l’attuazione del programma contrattuale, sia quella di contrastarlo mediante la comminatoria di invalidità. Se si assume che il valore portato dalla clausola generale possa vincere le pattuizioni che si giudichino in conflitto con esso, non ha più senso indagare circa la coerenza di una regola del conflitto desunta dalla correttezza rispetto
all’assetto contrattuale stabilito dai contraenti e alla composizione di inte- ressi che esso determina: se la buona fede esige una certa soluzione del conflitto insorto, questa dovrà essere comunque adottata, quali che siano i contenuti pattizi, che, se non ad essa conformi o con essa compatibili, do- vrebbero comunque cedere, risultandone la loro invalidità. Riconoscendo- si il valore cogente della buona fede e la sua rilevanza in termini di con- trollo di validità, ci si dovrebbe dunque sbarazzare, come di un inutile ba- xxxxxx, della giurisprudenza sulla buona fede degli ultimi trenta anni.
Ma, a ben vedere, la stessa ipotesi di un controllo di validità sul contratto imperniata sulla conformità o meno a buona fede dei contenuti pattizi ri- schia di risultare addirittura incomprensibile se non le si attribuisce un con- tenuto assiologico differente da quelli che sono presupposti dall’attribuzione alla clausola generale dell’indicata funzione integrativa, solidale al pro- gramma definito dai contraenti. Si dovrebbe infatti presupporre che le pat- tuizioni contrattuali possano dirsi contrarie a correttezza nel senso che sia il loro stesso contenuto a qualificare come non conforme a buona fede la condotta del contraente che ne abbia ottenuta, a proprio vantaggio, la stipu- lazione. Ecco allora che il tema si congiunge con quello dell’equilibrio con- trattuale, inteso quale equilibrio giusto; se il contratto è squilibrato a favore di un contraente, deve giudicarsi non corretta la sua condotta consistente nella stipulazione in danno della controparte, talché giudizio di buona fede quale regola di comportamento e giudizio sulla conformità a correttezza dei contenuti contrattuali finiscono per compenetrarsi.
Rispetto a tale significato che voglia attribuirsi al controllo di validità alla stregua della correttezza, si manifesta un’ulteriore connessione tematica: quella tra buona fede contrattuale e precontrattuale. Se il contratto, o sue clausole, contrastano con la correttezza, in quanto un contraente di buona fede non avrebbe dovuto conseguirne, e quindi prima ancora perseguirne, la pattuizione, l’asse della valutazione necessariamente si sposta dal contratto di per sé considerato alla fase della sua formazione. E allora, ancora una volta, si manifesta l’insufficienza di un giudizio che sia circoscritto all’equilibrio con- trattuale, di per se stesso considerato, senza estendersi alle circostanze e alle condotte che costituirono il contesto e la genesi della conclusione dell’ac- cordo. Altrimenti detto appaiono inappaganti un controllo di validità o, co- munque, rimedi correttivi del contratto, alla stregua della correttezza, che siano circoscritti nell’angusta considerazione dei contenuti contrattuali avulsi dalla valutazione delle circostanze e delle condotte della fase formativa.
La denuncia dei rischi di «rottura» dello «equilibrio sistematico» che comporterebbe la trasposizione della buona fede in criterio di validità 41, si
41 A. di Majo, La nullità, in Trattato di diritto privato, diretto da X. Xxxxxxx, Vol. 13.7, Tori- no, 2002, pp. 87 ss. e 90 ss. e v. U. Breccia, Prospettive nel diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 2001, p. 161 ss.
accompagna al rilievo secondo cui la valutazione di correttezza non po- trebbe esprimersi se non avendo riguardo «alle circostanze concrete» della condotta, che, qualificandola, sole possono «consentire un giudizio di fa- vore e/o di sfavore» 42. In questo senso, le obiezioni che già ripetutamente, e sotto diversi profili, ho mosso ad un giudizio circoscritto all’equilibrio contrattuale di per sé considerato, assumono un rilievo specifico in senso ostativo all’assunzione della clausola generale di buona fede a fondamen- to di un giudizio di invalidità a ragione dello squilibrio, che prescinda dalla valutazione delle circostanze e delle condotte inerenti alla fase di negozia- to e formazione del contratto.
14. Inderogabilità dell’art. 1375 c.c. e potenzialità cogenti della buona fede
Il problema del rapporto tra correttezza e autonomia privata, che coin- volge quello della interferenza della prima col giudizio di validità del con- tratto, è stato ricondotto a quello della derogabilità o inderogabilità del precetto di buona fede. Si è al riguardo affermato che la correttezza costi- tuirebbe «una limitazione in senso tecnico dell’autonomia privata, quale è comunemente intesa, e più precisamente» una «indicazione che incide sui poteri attribuiti ai privati dal c. 1 dell’art. 1322» 43, e si sono poste tali as- serzioni in relazione con quella della «inderogabilità della normativa di correttezza da parte dei privati» 44.
Dal «valore di ordine pubblico» della buona fede si desume che essa sarebbe «fonte primaria d’integrazione del rapporto, prevalente anche sul- le determinazioni contrattuali» 45. E, in tal senso, l’obbligo imposto dalla buona fede a ciascuna parte «di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio» proprio 46 impegnerebbe
«ciascuna parte a tenere conto dell’interesse dell’altra pur se si tratta di un interesse che non trova specifica tutela nella pretesa contrattuale o in altri diritti» 47. Dove non pare ci si voglia limitare a sottolineare la funzione in- tegrativa della buona fede, in virtù della quale vengono imposte regole di
42 A. di Majo, La nullità, cit., p. 91 ss.
43 X. Xxxxxx, Le fonti, cit., pp. 177-178.
44 Ivi, pp. 179 ss. dove tuttavia si esclude che l’integrazione giudiziale del contratto alla stregua della correttezza possa «piegare la norma contrattuale al fine di metterla in condizione di realizzare direttamente finalità divergenti da quelle a cui l’operazione economica era stata rivolta».
45 C.M. Xxxxxx, Il contratto, cit., pp. 501 e 520; v. già Id., La nozione di buona fede quale re- gola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 206.
46 C.M. Xxxxxx, Il contratto, cit., p. 505.
47 Ivi, p. 520.
comportamento ulteriori rispetto a quelle dettate dalla legge o dalla con- venzione, ma sembra si voglia affermare che tali regole operino indipen- dentemente dall’assetto di interessi stabilito dalle parti e anche in conflitto con esso. Tanto che si precisa che «il governo della discrezionalità delle parti» affidato alla buona fede «richiede, per il suo esercizio, un riferimen- to a valori che possono non essere stati tenuti presenti dalle parti», e ciò nel senso «della interferenza con le valutazioni private di valori desumibili dallo stesso ordinamento (attraverso i principi) o espressivi di tendenze o di posizioni esistenti nella società», concludendosi che «il contratto viene così ad essere, eventualmente, punto di incidenza di diversi ordini di valu- tazioni, perfino confliggenti con quelle tenute presenti dalle parti, sì che il criterio di risoluzione degli eventuali conflitti può essere costruito con rife- rimento a considerazioni di opportunità sociale» 48, di «coerenza tra ope- razione privata e finalità generali perseguite dall’ordinamento» 49, di «sal- vaguardia di equilibri sociali» 50.
Su questa linea, enunciazioni favorevoli al valore cogente della buona fede e a un controllo di validità del contratto alla stregua della correttezza sono state argomentate con l’inderogabilità del precetto 51. Si tratta però di questioni che non possono essere confuse né legate sul piano argomenta- tivo. Sembra invero doversi distinguere il problema della derogabilità dell’art. 1375 c.c. da quello della interferenza tra valori metacontrattuali desumibili dalla correttezza e valori intrinseci al contratto. E deve al ri- guardo chiarirsi che l’inderogabilità, non certo contestabile e per certi ver- si ovvia, può intendersi soltanto nel senso che sarebbe nulla la pattuizione che disponesse la non applicabilità al rapporto della clausola generale 52, la previsione negoziale che escludesse la sindacabilità della condotta dei contraenti alla stregua della correttezza e la integrazione del contratto in virtù di regole di risoluzione dei conflitti desunte dalla buona fede. In altre parole: «è inammissibile una deroga generalizzata e in bianco al princi- pio», mentre «è ammissibile derogare, in modo individualizzato, alle sin-
48 X. Xxxxxx, Conclusione, in AA.VV., Il principio di buona fede, Milano, 1987, p. 268 s.
49 X. Xxxxxx, Le clausole generali, in X. Xxxx, X. Xxxxxxx (a cura di), I contratti in generale, Vol. 1, cit., p. 406.
50 Ibidem.
51 X. Xxxxxxx, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, in Contr. e impr., 1997, p. 423; e x. Xxxx. xxx., 00 xxxxxx 0000, x. 0000, xx Xxxx xx., 1989, I, c. 2750.
00 X. X. Xxxxx, X. Xx Xxxx, Xx contratto, Vol. 2, cit., p. 404, ove si sviluppa l’argomento con riferimento all’integrazione secondo gli usi e l’equità; e v. X. Xxxxxxxxxx, La buona fede, cit., p. 540; And. X’Xxxxxx, Le promesse unilaterali, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da X. Xxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000, p. 277. E x. X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 494 s., che, esprimendosi in senso contrario alla «integrazione cogente» alla stregua della buona fede, il riferimento alla quale
«non potrebbe mai condurre ad affermare la nullità del contratto», rileva che sarebbe, invece,
«illecito, per contrarietà all’ordine pubblico, l’accordo con cui le parti escludono una volta per tutte, in modo indifferenziato, che al loro rapporto si applichi il principio di buona fede».
gole applicazioni concrete (che hanno perciò valore suppletivo)» 53.
Non può invece intendersi l’inderogabilità in un diverso senso che comporti l’appartenenza all’ordine pubblico degli stessi contenuti attribui- bili, di volta in volta ed in concreto, alla buona fede, e che legittimi un in- tervento giudiziale sul contratto consistente nella costruzione di regole da applicarsi al rapporto indipendentemente dalla considerazione dei valori intrinseci allo stesso, e nella inserzione nel regolamento delle prime, as- sunte come inderogabili, con prevalenza sui secondi. Non può intendersi cioè in un senso che assuma la buona fede a generale criterio di giudizio sulla validità del contratto e di ogni sua pattuizione, anziché di quelle sol- tanto che siano volte ad escludere il sindacato di correttezza sulle condot- te dei contraenti.
15. Buona fede, autonomia privata e precetti costituzionali
La considerazione complessiva degli orientamenti favorevoli al ricono- scimento del valore cogente dei contenuti della clausola generale di buo- na fede e ad un controllo giudiziale di validità del contratto alla stregua della medesima rivela come sulla loro formazione abbia esercitato in- fluenza significativa il riferimento a principi costituzionali e, in particolare, la propensione a elaborare una correlazione sinergica tra la correttezza e il valore di solidarietà sociale enunciato dall’art. 2 Cost. 54. Ciò non soltanto al fine di consentire alla clausola generale di mutuare i contenuti attribui- bili alla solidarietà in virtù della sua connotazione in senso «sociale», ma
53 Ivi, p. 495.
54 La tendenza a stabilire e valorizzare la relazione tra buona fede-correttezza e principio co- stituzionale di solidarietà sociale, che oggi spesso si manifesta con accenti che hanno il sapore di formule di stile, ha radici lontane, nel clima culturale maturato tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui si manifestava una crescente attenzione della civilistica italiana, sull’esempio di quella tedesca, per la normativa costituzionale, e che vedeva consolidarsi il riconoscimento dell’immediata efficacia precettiva delle norme costituzionali nei rapporti tra privati e, nel con- tempo, affermarsi gli indirizzi volti all’intervento pubblico nell’economia anche mediante stru- menti di programmazione economica: è d’obbligo al riguardo il richiamo alle opere di X. Xxxxxx, Le fonti, cit., part. pp. 172-184; P. Barcellona, Intervento statale, cit., part. p. 227 ss.; e, con più specifico riguardo all’equità, X. Xxxxxxx, Equità e autonomia privata, Milano, 1970, p. 389 ss.; e
v. anche X. Xxxxxxxxx, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970 e X. Xxxxx, Utilità sociale e autonomia privata, Milano, 1975. V. altresì le indicazioni di X. Xxxxxx, L’attuazione del rapporto obbligatorio, Vol. 1, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da X. Xxxx e X. Xxxxxxxx,
Milano, 1974, pp. 34 e 36 s. In giurisprudenza, tra le tante che accostano buona fede e solidarie- tà, x. Xxxx. civ., 18 luglio 1989, n. 3362; Cass. civ., 9 marzo 1991, n. 2503; Cass. civ., 13 gen-
xxxx 1993, n. 343; Cass. civ., 20 aprile 1994, n. 3775; Cass. civ., 26 ottobre 1995, n. 11151;
Cass. civ., 19 giugno 1997, n. 5481; Cass. civ., 19 ottobre 1999, n. 11733; Cass. civ., 24 marzo
1999, n. 2788; per un esplicito richiamo all’art. 2 Cost., x. Xxxx. civ., 13 gennaio 1993, n. 343 e
Cass. civ., 20 aprile 1994, n. 3775; Cass. civ., 22 maggio 1997, n. 4598; Cass. civ., 5 novembre
1999, n. 12310; Cass. civ., 27 settembre 2001, n. 12093; Cass. civ., 4 marzo 2003, n. 3185.
anche a quello di corroborare la buona fede con la forza che sembra po- tersi su di essa riflettere in virtù del superiore rango costituzionale del principio enunciato dall’art. 2 Cost.
Non è certo questa la sede per – né, come si vedrà, ai nostri fini occorre
– ripercorrere le vicende dottrinali e giurisprudenziali che hanno interessato le complesse problematiche che investono la relazione tra principi costitu- zionali e autonomia privata, libertà negoziale o, in genere, il fenomeno con- trattuale: esistenza e significato di una tutela costituzionale, diretta o indiret- ta, dell’autonomia e della libertà contrattuale; incidenza dei valori costitu- zionali di solidarietà e utilità sociale sulla disciplina del contratto, in termini di direttive impartite alla legislazione ordinaria ovvero di precetti immedia- tamente operanti e, quindi, giudizialmente applicabili; configurabilità delle istanze sociali come fondamento di limiti normativi esterni dell’autonomia, o come «limite interno» che imprima una subordinazione funzionale alle sue esplicazioni e alle posizioni giuridiche, attive e passive, che ne scaturi- scono 55. Rispetto al nostro tema possiamo circoscrivere la problematica co- stituzionale ad alcune questioni più specificamente rilevanti.
Credo che non occorra tanto domandarsi se il principio di solidarietà economica e sociale enunciato dall’art. 2 Cost. sia riferibile anche all’ambito dei rapporti contrattuali, quanto, piuttosto, con quali modalità e in quali e- ventuali limiti potrebbe in esso operare, avuto riguardo ai propri contenuti, alla complessità e articolazione del regime legale dei contratti, ad altre diret- tive espresse dalla stessa costituzione in materia di rapporti economici.
Possono in astratto prospettarsi diverse modalità di esplicazione dei valo- ri costituzionali di solidarietà sociale nel campo dei rapporti contrattuali: come direttive alle quali deve conformarsi la legislazione ordinaria nella di- sciplina dei contratti; come precetti cogenti che il giudice deve applicare anche in contrasto con le pattuizioni dei contraenti, dichiarando la nullità di queste ed eventualmente conformando ad essi le regole del rapporto; come criteri di giudizio per la risoluzione di controversie contrattuali, autonomi o coadiuvanti rispetto a clausole generali integrative espresse dalla legislazione ordinaria, ma non implicanti l’invalidità di pattuizioni contrattuali.
Solo la terza modalità sembra possa concernere la buona fede. Infatti, mentre è evidente la sua estraneità alla prima, rimessa all’attività legislativa o al controllo di costituzionalità, la seconda si salda con il diverso strumen- to codicistico dell’ordine pubblico. Poiché le norme costituzionali si limi- tano ad enunciare i valori di solidarietà, utilità, finalità sociali, senza svol-
55 Mi limito ad alcune indicazioni essenziali, che costituiscono momento di autorevolezza e di rappresentatività degli orientamenti e guida per ulteriori approfondimenti anche giurispruden- ziali: X. Xxxxxxxxxx, Le norme sull’affitto con canone in cereali, in Giur. cost., 1962, I, p. 93 ss.; X. Xxxxxxxx, L’autonomia dei privati, in Iustitia, 1967, p. 3 ss.; X. Xxxxxx, Le fonti, cit., part. pp. 172- 184; X. Xxxx, Introduzione alla nuova giurisprudenza, cit., p. 16 ss.; X. Xxxxxxx, Autonomia priva- ta e costituzione, in Banca borsa tit. cred., 1997, p. 5.
gerne le concrete implicazioni in definiti precetti proibitivi o impositivi, conformativi, rispetto a fattispecie determinate, talché se non se ne trag- gono disposizioni imperative, le direttive cogenti che possano desumerse- ne non potranno che operare con le stesse modalità ed effetti che sono propri dell’ordine pubblico 56. E a questo proposito la clausola generale di buona fede non sembra poter offrire alcun contributo normativo o valuta- tivo. Appare inappropriato, e non utile allo scopo, affidare l’attuazione cogente in ambito contrattuale di valori costituzionali al veicolo della buona fede, per se stesso inidoneo ad assicurare per virtù propria la loro introduzione imperativa nella disciplina del rapporto 57.
Ma può davvero riconoscersi che il principio di solidarietà sociale possa fondare, quale valore d’ordine pubblico, il controllo giudiziale di validità, ed eventualmente di conformazione, dei contratti, che abbiamo escluso possa basarsi sulla clausola generale di correttezza? Non è certo al riguardo in questione la forza imperativa del precetto, del resto espressamente enuncia- to («doveri inderogabili») dell’art. 2 Cost. Né la sanzionabilità di convenzioni il cui oggetto o contenuto si ponga in contrasto con la dignità umana, ri- chiamata nell’art. 41, comma 2, Cost., o, in senso più generale, con i valori della persona, ovvero riveli il perseguimento da parte dei contraenti di fina- lità (di discriminazione, di boicottaggio, di sfruttamento) direttamente con- trastanti con il dovere di solidarietà sociale, che facilmente, del resto, ca- drebbero nell’ambito di altri più specifici, inderogabili precetti dell’ordina- mento. Si tratta piuttosto di comprendere se da quel precetto possano trarsi anche direttive attinenti ai rapporti contrattuali che, pur con il grado di in- definizione propria dei principi e delle clausole generali, tuttavia siano ido- nee, e nello stesso disegno costituzionale volte, a fondare un controllo giu- diziario cogente sui contenuti dei singoli, concreti contratti, relativamente al loro equilibrio economico e normativo.
A questo proposito occorre considerare la relazione dell’art. 2 con l’art. 41 Cost. e con i riferimenti di questo all’utilità e ai fini sociali in rap- porto all’iniziativa economica privata, della quale nessuno dubita che il contratto, quale modalità elementare di azione e autodeterminazione nel- la sfera economica, costituisca imprescindibile strumento. Indipendente- mente dalle opinioni ermeneutiche, spesso connotate da forti impronte ideologiche, che possano professarsi circa la protezione costituzionale di-
56 Sull’inerenza di valori costituzionalmente affermati all’ordine pubblico rilevante nei rap- porti tra privati, v. G.B. Ferri, Voce Ordine pubblico (dir. priv.), in Enc. dir., Vol. 30, Milano, 1980,
p. 1054; e C.M. Xxxxxx, Il contratto, cit., p. 619 s.; X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 404; U. Breccia,
Prospettive, cit., p. 169 ss.
57 X. Xxxxx, X. Xx Xxxx, Il contratto, Vol. 2, cit., p. 417, rilevano che, quando si tratta di porre limiti all’autonomia privata a tutela dell’interesse collettivo o a protezione di un contraente dall’abuso dell’altro, vi è già «un veicolo: che si chiama rilevanza dell’ordine pubblico o del buon costume. Non conviene chiamarlo buona fede, o correttezza o equità».
retta o indiretta della libertà e dell’autonomia contrattuale, quale essenzia- le strumento dell’iniziativa economica privata; e circa gli equilibri che pos- sano ravvisarsi tra quella protezione e le direttive di limitazione, controllo, indirizzo a fini sociali dell’iniziativa economica e dell’autonomia contrat- tuale; non può dubitarsi che la costituzione assicuri a quest’ultima quan- tomeno una protezione, strumentale a quella dell’iniziativa economica, corrispondente a un suo contenuto minimo che ne costituisce il proprium. I contraenti, muovendo da esigenze complementari, le soddisfano compromettendo i rispettivi, confliggenti interessi, nella composizione dei quali il contratto appunto consiste. Rispetto a questo nucleo elementare del fenomeno contrattuale, l’imposizione di un dovere di solidarietà socia- le può supporsi, alternativamente, o come vincolo al perseguimento di in- teressi diversi da quelli dei contraenti che confluiscono nella composizio- ne negoziale, ovvero come vincolo reciproco alla salvaguardia dell’inte- resse della controparte, anch’esso inteso come espressione di socialità, pur
nel microcosmo del singolo rapporto.
È già intuitivamente evidente come in entrambi i casi il precetto di soli- darietà sociale sia di per se stesso inespressivo di un parametro da cui si possa desumere la misura del sacrificio dell’interesse proprio che ciascun contraente, nella composizione negoziale, sia tenuto ad accettare per la sal- vaguardia dell’interesse estraneo ai contraenti o di quello della controparte.
Rispetto alla prima ipotesi, alla stregua della sola considerazione del valore di solidarietà sociale è addirittura impossibile comprendere a quali interessi ciascuno dei contraenti dovrebbe subordinare il proprio, in qual modo, in che misura 58. Si tratta dunque di un valore che, rispetto a que- sta prospettiva di sua attuazione, si rivela del tutto inespressivo. E addirit- tura priva di senso apparirebbe l’imposizione di un dovere siffatto e l’attribuzione al giudice di un corrispondente controllo in termini di validi- tà del contratto. Ben si comprende, invece, come finalità sociali sovraor- dinate a quelle dei contraenti possano richiedere una disciplina di rapporti e di attività economiche che traduca il valore di solidarietà in definite re- gole predeterminate e imposte in modo cogente ai privati, secondo diret- tive specifiche e articolate in considerazione di settori di attività, categorie di contratti e di contraenti, tipologie di operazioni e di contenuti pattizi. È in tal senso che l’art. 41, comma 3, Cost. riserva alla legge ordinaria la de- terminazione dei programmi e controlli dell’attività economica, e, dun- que, in genere, le limitazioni all’autonomia privata, rimettendo alle scelte
58 P.G. Xxxxxxxx, Abuso del diritto e simmetria della proprietà, in Diritto privato, Vol. 3, 1997, p. 120, rileva come, a volte, «i discorsi sulla socialità dei diritti … nascondano in realtà riallocazioni tra privati, in cui un privato guadagna ingiustificatamente un vantaggio non compen- xxxx. La compressione senza compensazione del diritto di una delle parti private coinvolte sareb- be giustificata solo se si mostrasse un guadagno sociale diverso dal vantaggio perseguito dalla con- troparte».
legislative la definizione degli equilibri normativi tra autonomia e socialità. Ecco allora che si comprende il fondamento dell’autorevole opinione secondo la quale i valori costituzionali «possono vincolare la libertà di contratto solo con la mediazione della legge e nella misura in cui sono specificati dalla disciplina legale degli atti di autonomia» 59. Secondo la consolidata massima della Cassazione, «dall’art. 41 c. 2 non discende un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare quella astratta
tutela» 60.
Le ragioni di tale opinione sono tanto più forti ed evidenti quando si tratti di sindacare alla stregua della solidarietà sociale lo stesso equilibrio economico normativo del contratto. E ciò rispetto alla seconda ipotesi che ho sopra prospettato: quella in cui si voglia vedere nella solidarietà sociale la fonte diretta di un vincolo reciproco dei contraenti alla salvaguardia de- gli interessi della controparte. Non avrebbe senso infatti gravare indiscri- minatamente e imponderabilmente ciascun contraente di sovvenire ad esigenze di protezione economica e sociale della sua occasionale contro- parte, non potendo certo utilmente affidarsi a tale modalità l’attuazione di valori di giustizia e di solidarietà sociale. Può invece darsi che ragioni di protezione sociale di ordine generale impongano il divieto e la predeter- minazione di contenuti regolamentari di rapporti contrattuali, così da pre- costituire equilibri normativi o economici inderogabili. Ma in tal caso la tutela del singolo contraente trova fondamento nella corrispondenza del suo interesse a una categoria di interessi che merita protezione sociale, talché quest’ultima dovrà essere assicurata in via generale dalla legislazio- ne ordinaria che provvederà per categorie di contratti e di contraenti, per tipologie di operazioni economiche e di pattuizioni.
Infine, se si riconosce che l’autonomia privata gode di una, pur indiret- ta e strumentale, salvaguardia costituzionale, ed è quindi dalla stessa carta
59 Così X. Xxxxxxx, Autonomia privata, cit., p. 4; e v. X. Xxxxx, X. Xx Xxxx, Il contratto, Vol. 2, cit., p. 11; X. Xxxx, L’ordine giuridico, cit., p. 87. Con riguardo all’analoga questione dell’applicabilità diretta del principio di eguaglianza quale limite all’autonomia privata, ritiene occorra la mediazione della legislazione ordinaria X. Xxxxx, Il contratto, cit., p. 82 s. E si conside- ri che la dottrina costituzionalistica, con riferimento all’art. 2 Cost., in senso generale riconosce che «in ogni caso, i doveri costituzionali, siano essi di solidarietà politica, economica e sociale, sono destinati a tradursi a livello delle posizioni giuridiche individuali tramite obblighi puntuali stabiliti, nel quadro del testo costituzionale, dal legislatore ordinario» (X. Xxxxxxx, Sub Art. 2, in Commentario della Costituzione, a cura di X. Xxxxxx, Vol. 1, Bologna e Roma, 1975, p. 99).
60 Cass. civ., 29 maggio 1993, n. 6030, in Dir. maritt., 1995, p. 389; Cass. civ., Sez. un., 29
maggio 1993, n. 6031, in Foro it., 1993, I, c. 1794 ss. (1812); Cass. civ., Sez. un., 1 ottobre 1993,
n. 9801, ivi, 1994, I, c. 1825 ss. (1834); Cass. civ., Sez. un., 17 maggio 1996, n. 4570, ivi, 1996, I, c. 1990 ss.; Cass. civ., 25 gennaio 1996, n. 557, in Dir. lav., 1996, II, p. 413. Sul fondamento della garanzia costituzionale dell’autonomia privata, in quanto «strumentale dell’iniziativa eco- nomica» x. xxx Xxxxx xxxx., 00 aprile 1965, n. 30, in Giur. cost., 1965, p. 283.
xxxxxxx come socialmente proficua 61, la sua soggezione a limiti, controlli, indirizzi, a ragione di altri valori di solidarietà e utilità sociale non può comprimerla oltre una soglia minima necessariamente implicata da quella salvaguardia. E certo questa soglia sarebbe superata se si affidasse ai giudi- ci un generalizzato controllo dell’equilibrio economico e normativo di tutti i contratti, subordinando il riconoscimento dell’ordinamento e il giudizio di validità a una vera e propria omologazione giudiziaria. Potrebbe anzi dubitarsi della stessa legittimità costituzionale di una norma di legge che disponesse in tal senso (della quale, invero, come abbiamo potuto verifi- care, non vi è traccia nell’ordinamento).
Nella presente fase di declino degli interventi pubblici, diretti e di pro- grammazione, nell’economia, può certo avvertirsi la distanza tra la «costi- tuzione economica, solennemente enunciata nella Carta del 1948» e il
«reale ed effettivo svolgersi dell’economia italiana» 62 e comunitaria. E pos- sono comprendersi i rinnovati appelli alle istanze solidaristiche di fronte a direttive di regolamentazione del mercato che si giudicano prioritariamen- te orientate ad assicurare il miglior funzionamento del medesimo 63. Ma non pare davvero che possa realisticamente e legittimamente caricarsi il giudizio sulle controversie contrattuali del compito di rimediare all’inade- guata attuazione o, sia pure, alla mortificazione dei valori di solidarietà nella disciplina interna e comunitaria del mercato e dei contratti (salvi, ov- viamente, i profili di legittimità costituzionale).
Resta ora da considerare la terza modalità di esplicazione dei valori co- stituzionali di solidarietà sociale che si era prospettata: quella di criteri di giudizio per la risoluzione di controversie contrattuali, analoghi alle clau- sole generali espresse dalla legislazione ordinaria, e rispetto ad esse auto- nomi o coadiuvanti. Escluso, per le ragioni già indicate, che dalla saldatura tra buona fede e solidarietà sociale possa scaturire un valore cogente che comporti l’invalidità di pattuizioni contrattuali, si tratta di verificarne le implicazioni rispetto alla integrazione della convenzione per la risoluzione dei conflitti da essa non regolati.
Avvertendosi l’esigenza che, in questa prospettiva, la solidarietà sociale venga tradotta in termini omogenei alla dimensione contrattuale dei rap- porti, e assumendosi che il principio costituzionale si specifichi nella clau- sola generale di buona fede 64, si finisce con l’attribuire al primo, nell’am-
61 Pur senza giungere ad affermare che «la funzione sociale del contratto è il mercato» e che è solo grazie a questo che si accede ai «traguardi imposti dalla costituzione», X. Xxxxx, G. De Nova, Il contratto, Vol. 2, cit., p. 16.
62 X. Xxxx, L’ordine giuridico, cit., p. 20.
63 V. gli autori cit. alla nt. 33.
64 G.M. Uda, Integrazione del contratto, solidarietà sociale e corrispettività delle prestazioni, in Riv. dir. comm., 1990, I, x. 000 xx.
xxxx negoziale, lo stesso significato e contenuto che è proprio della corret- tezza: la solidarietà sociale diventa solidarietà contrattuale 65 e si «concre- tizza e si specifica in obblighi concreti, relativi al funzionamento del con- tratto, cioè alla sua economia» 66. La contrapposizione tra i rispettivi inte- ressi delle parti trova nell’accordo negoziale un equilibrio compositivo che costituisce la specifica modalità e misura della solidarietà che le lega nel vincolo giuridico che esse reciprocamente assumono, talché della solida- rietà tra i contraenti non potrà che avere come riferimento i valori propri della composizione da essi stabilita.
Dunque, in tal senso, il riferimento alla solidarietà sociale nulla aggiunge alla buona fede e in nessun modo ne modifica i criteri di attuazione. E si rivela puntuale la riflessione che, nel «riferimento ai principi costituzionali come parametri interpretativi della clausola della correttezza e della buona fede», vede «più un valore retorico persuasivo che una funzione argomenta- tiva fondante» 67; e che «l’art. 2 Cost. ha svolto piuttosto una funzione di rinnovamento della precomprensione della dottrina del diritto privato a- prendola a una progressiva rivalutazione di questa clausola generale» 68.
65 Xxx, p. 334; e v. già C.M. Xxxxxx, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in Riv. dir. civ., 1983, I, p. 205 ss.
66 G.M. Uda, Integrazione del contratto, cit., p. 332 ss. Ma, allora, si tratta soltanto di stabilire un’allocazione di costi e benefici tra i contraenti e non di soddisfare un interesse sociale «diverso dal vantaggio perseguito» da uno dei contraenti: P.G. Xxxxxxxx, Abuso del diritto, cit., p. 89 ss.
67 Così X. Xxxxxxx, Autonomia privata, cit., p. 9.
68 Ivi, p. 10.
56 Nuova fede e giustizia contrattuale