differenza di genere e parità retributiva
differenza di genere e parità retributiva
cosa manca?
“La parità salariale nella contrattazione collettiva”
Contributo del Coordinamento Pari Opportunità UIL
al Progetto EQUAL “Igualdad Salarial en los Convenios Colectivos” (numero di riferimento VS/2001/0660)
promosso da UGT – Union General del Trabajo de Espana
finanziato dalla Commissione Europea
cofinanziato dal Ministero del Lavoro spagnolo
partners: UIL (Italia) FNV (Olanda) DGB (Germana) KETHI (Grecia)
Roma, ottobre 2002
…Il primo essere vivente che Xxxxx vide fu Xxxxxx ed il primo che Xxxxxx vide fu Xxxxx.
“…sono stata creata da un impasto di terra esattamente come te, nello stesso modo. Per quale motivo mi vuoi sempre e solo sotto il tuo corpo? E’ vero, siamo diversi fisicamente, ma simili e complementari poiché ognuno di noi due ha qualcosa che l’altro non ha quindi, perché uno solo di noi deve sempre e soltanto soggiacere?...
“…Xxxxxx capi’ che nell’Eden, in quel momento, non c’era posto per lei”...
“…ed allora .Dio fece cadere Xxxxx in un profondo sonno e, mentre dormiva, tolse a lui una costola; da quella creo’ Eva...”
(dalla I e II Genesi)
“...e avvenne un giorno, millenni e millenni dopo, che casualmente Xxxxxx ed Xxx, si incontrassero sullo stesso sentiero.
Non ha importanza quale sentiero fosse; una strada di paese, in riva ad un fiume lavando i panni, sullo stesso banco di scuola, via e-mail o al supermercato.
… Si guardarono negli occhi, si riconobbero, i loro sguardi svelarono affinità e consapevolezze piu’ di quanto qualsiasi parola potesse mai dire.
ad Xxxxxxxxx-Xxxxxx (2002)
Introduzione
Siamo grate alla UGT (Unione General del trabajo) ed in particolare al “Dipartamento della Mujer”, per aver coinvolto – su un tema fortemente complesso come quello della disparità salariale – alcuni tra i paesi dell’Unione che - a ragione - possiamo annoverare quali storici esponenti del sindacalismo europeo.
La ricerca, effettuata dai diversi paesi europei partners del Progetto Equal “Igualdad salarial en los convenios colectivo”, attraverso l’analisi approfondita degli strumenti contrattuali, mostra chiaramente quanto si sia evoluto il movimento sindacale europeo nell’esercizio della propria funzione di tutela delle disposizioni di legge a favore dei lavoratori e delle lavoratrici.
Si è trattato di un lungo cammino che ha profondamente inciso sulla cultura e sulla politica sociale europea e che ha portato - a volte anche in modo contraddittorio - al riconoscimento ed alla affermazione del diritto alla parità sostanziale tra uomo e donna nel lavoro e nella società.
L’evoluzione è stata lenta ma costante e ci piace sottolineare quanto determinante ed incisivo sia stato il contributo del movimento sindacale italiano. Infatti, il sindacato italiano, seppure nelle proprie funzioni di “soggetto di tutela degli interessi e dei diritti collettivi”, ha concorso alla definizione del percorso più complessivo della politica dei redditi, contribuendo in maniera notevole all’evoluzione - iniziata nel secolo appena trascorso - dell’intera società italiana.
L’aumento della presenza femminile nel lavoro, nelle Associazioni, nelle Organizzazioni Sindacali, nella politica è frutto del cambiamento operato nella cultura e nella vita civile del Paese anche grazie alla azione progettuale e di tutela del sindacalismo confederale.
Sicuramente tutto questo non è avvenuto senza difficoltà. Infatti, all’interno del percorso evolutivo definito anche dal recente “libro bianco per l’occupazione”, le donne debbono poter trovare la collocazione giusta che permetta loro di vivere a pieno la propria vita lavorativa senza che questa debba confliggere con la vita personale (ovvero con le necessità familiari ed il lavoro di cura) a discapito di una parità sostanziale, affermata nei contratti ma – spesso - male applicata.
Come ben evidenziato nel rapporto del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro del luglio 2002, due sono stati i passaggi determinanti nella storia recente della negoziazione contrattuale italiana:
1) l’accordo tripartito interconfederale del luglio 1993.
2) ed il cosiddetto “patto di Natale” del 1998 siglato dopo l’ammissione dell’Italia nel primo gruppo dei paesi dell’euro.
Quest’ultimo, in particolare (sottoscritto da ben 32 organizzazioni in rappresentanza delle parti sociali), ha visto la partecipazione anche dei rappresentanti degli enti locali, ed è stato successivamente approvato in Parlamento.
Esso contiene, tra l’altro:
· la programmazione dei “fondi strutturali” per gli anni 2000/2006, in linea con gli
intenti programmatici della Commissione Europea per l’anno 2006;
· gli interventi nel campo del sistema integrato di istruzione, formazione e ricerca
· sviluppo locale e Pubblica Amministrazione
· ipotesi di intervento in materia di sicurezza e certezza del diritto
Quanto elencato suggerisce l’ambizione di questo accordo che ha delineato un programma di ampia portata (sono stati contati ben 200 obiettivi) in materia di relazioni sindacali, di politiche sociali, nonché di interventi per lo sviluppo, l’occupazione e la formazione, tutti elementi di forte potenzialità per l’occupazione femminile.
Un accordo, quindi, altamente inclusivo per l’ampiezza delle materie trattate e per l’impegno preso dai molteplici soggetti firmatari che, già nella premessa, affermano la necessaria continuità con gli impegni assunti in materia di equità sociale.
Venendo al tema centrale della ricerca, ovvero l’esame della parità salariale attraverso l’analisi dei contratti collettivi di lavoro in Italia e nei paesi della Comunità, si è potuto osservare che, nonostante le disposizioni del diritto comunitario, adottate e recepite nelle legislazioni degli Stati membri in questi ultimi venti anni, il gap retributivo, è ancora sfavorevole alle donne.
È, quindi, assolutamente necessario individuare modalità di intervento tese alla progressiva diminuzione (sino alla definitiva eliminazione) del forte divario ancora esistente, coerentemente con l’obiettivo europeo per l’occupazione che è quello di raggiungere per l’anno 2010, il 70% degli occupati.
Come viene evidenziato nel nostro contributo al progetto, tra le maglie dei due accordi precedentemente citati e nelle leggi dal 1993 al 1998, e’ stato possibile individuare (anche se in maniera indotta) alcune misure che potrebbero essere adottate per il superamento del differenziale retributivo.
Un dato, tuttavia risulta certo. I patti del 1993 e del 1998, nella parte riguardante la politica dei redditi (componente centrale delle pratiche di concertazione) hanno continuato a svilupparsi e a vivere attraverso le due sessioni annuali di confronto tra governo italiano e parti sociali (nonostante gli alti e bassi dovuti alle tensioni tra le parti sociali e le divisioni tra i sindacati).
E, nonostante le difficoltà, interessanti accordi si sono raggiunti nelle pratiche concertative a livello decentrato, e nelle articolazioni governative, a livello territoriale sia nell’ambito dello sviluppo che dell’occupazione ( es. in Piemonte, Veneto, Marche, Friuli, Catania, Roma).
Un esempio a parte risulta essere l’accordo per la formazione dei lavoratori “interinali” (all’interno dei quali altissima è la percentuale femminile) i cui termini sono stati poi inseriti, su raccomandazione delle parti sociali, nella legge finanziaria del 2000.
Non possiamo dimenticare che l’Italia nella “stagione concertativa” ha potuto vivere un periodo di
grande respiro sociale. Un periodo nel quale si sono andate affermando aspettative, possibilità e “culture della negoziazione” impensabili sino ad allora; dove, alla necessità di “affermazione d’identità sociale”, alla logica del “io vinco se tu perdi”, si andava man mano sostituendo la “ricerca degli obiettivi comuni” da perseguire unitamente all’altro o agli altri interlocutori sociali, portando comunque a casa un risultato per ciascuno senza nulla togliere all’autonomia ed all’identità di parte.
E’ in questo modo (lo possiamo affermare senza ombra di dubbio), che il sindacato italiano ha potuto rivedere e rafforzare - unitariamente - quella nuova “cultura della negoziazione” come esperienza originale rispetto a quello che accadeva negli altri paesi europei. Essa é una peculiarità sindacale tutta Italiana che continua, nonostante gli eventi, a vivere perché ormai parte del
proprio genoma.
Ed è alla preziosa esperienza di quegli anni, agli accordi ed alle leggi che hanno esperito quel modo di fare contratti, che è necessario guardare per continuare e perfezionare nuovi progetti tesi alla progressiva riduzione, fino all’eliminazione del differenziale salariale. Anche per andare oltre le enunciazioni a carattere neutro che, in Italia, rendono uomini e donne “formalmente uguali” in tutto (retribuzione compresa) ma che poi, nei dati disaggregati relativi alla applicazione delle normative sulla parità (come, ad esempio, nell’applicazione dell’articolo. 9 della legge 125), non risultano tali.
Xxxxx sentiero intrapresndere allora?
In questi ultimi anni tutto, intorno a noi, dalla taratura nella programmazione dei nostri obiettivi alle variabili in gioco per la loro attuazione, sembra essersi improvvisamente velocizzato.
Sentiamo la pressante necessità di capire cosa è praticabile e cosa non lo è più. Ma la scommessa giocata nei diversi vertici della Comunità europea, continua e continuerà ad essere valida anche grazie al suo recente passaggio assai significativo del vertice di Lisbona “…divenire, in dieci anni, l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita durevole accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una grande coesione sociale”.
Le donne – come è logico - non possono essere escluse da questa scommessa, se riteniamo che il loro contributo sia complementare e necessario per l’evoluzione della società europea.. Questo, tuttavia, può essere un obiettivo perseguibile solo a patto che si tenga conto di alcuni importanti fattori:
· l’inadeguatezza della concezione di impresa ancora “fortemente gerarchizzata”
· una maggiore e più efficace comunicazione orizzontale
· maggiore autonomia, corresponsabilizzazione e motivazione della lavoratrice e del lavoratore.
È inevitabile che quanto sopra detto renda più labile la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita.
Questo confluire di tempi senza una distinzione netta, questa capacità di ottemperare a più ruoli, sembra essere una peculiarità prettamente femminile . Le donne, infatti, sono culturalmente più abili a gestire più fronti e più ruoli contemporaneamente, ed a percepire come meno “pericolosa” la flessibilità. Ma per supportare questa necessita’ di flessibilità e l’assunzione di ruoli diversificati, è indispensabile implementare anche “le diverse conoscenze” .
Accanto a tutto ciò, si rende necessario, proprio per iniziare a scalzare quella presunta “neutralità” presente nella contrattazione italiana, prendere atto che “neutro” spesso equivale a “modello culturalmente consolidato”, quindi di fatto “maschile”, spesso obsoleto, superato e non adeguato ai tempi che mutano.
Questo, sia in fatto di figure professionali che di modalità di progressione di carriera; sia di modi e tempi relativi alla formazione che di orari di lavoro. Tale modo di continuare ad operare ha una sola pretesa e quindi un limite:
quello di regolamentare una presunta unità, composta, invece, da due generi; da due modi di vedere le cose spesso complementari; da sensibilità diversificate che possono e devono divenire valore aggiunto l’uno per l’altro , tenendone in considerazione soltanto uno.
Non a caso nel Memorandum sull’apprendimento permanente della Commissione Europea si sostiene che “la risorsa più importante per l’Europa è la sua gente”, intendendo così sottolineare l’assoluta rilevanza strategica che hanno le risorse umane nella competitività delle imprese ma, contemporaneamente, valorizzare la soggettività e, perché no, le peculiarità di genere delle persone nella “economia delle conoscenze e delle abilità”.
Infatti, in misura sempre più crescente, il lavoratore e la lavoratrice, non “affittano” più all’impresa solo il tempo di lavoro, ma la propria personale soggettività, l’intelligenza, la capacità di gestione, la capacità di assumersi responsabilità e rischi e, dunque, si rendono sempre più disponibili a regolare i propri spazi mentali anche in funzione degli obiettivi dell’impresa.
Ma questo può accadere solo se tali obiettivi sono resi condivisibili. E tale condivisibilità non è automatica e non può essere oggetto di determinismo ottimistico o pessimistico ne’ avere come rischio una precarizzazione deregolata. Tra i due poli di organizzazione aziendale (forte gerarchia ed partecipazione attiva) esistono molte possibilità di scelta praticabili e negoziabili, anche contrattualmente, solo a patto che nessuna delle due parti scelga la via dell’identità sociale a discapito di quella del comune terreno di reciproche convenienze.
Non è affatto pleonastico sottolineare che il primo strumento di cui il sindacato dispone, e cioè la negoziazione/contrattazione, deve essere usato a fondo, in modo non rituale, senza dare nulla per scontato, anche tentando di forzare alcuni istituti, al fine di superare la neutrale formalità di
inquadramenti e di figure professionali. Ad esempio, esistono peculiarità ed abilità che, per il solo fatto di essere appannaggio storicamente femminile, non vengono neanche prese in considerazione nei criteri di valutazione del personale. Per quanto concerne la possibilità di forzare alcuni istituti, è utile portare, solo a titolo esemplificativo, alcune possibilità.
Quasi tutti i contratti di categoria, sanciscono da tempo l’importanza della formazione professionale quale diritto del lavoratore e necessità dell’impresa.
Le modalità con cui questo diritto può venire esercitato tengono però conto, ad esempio, delle lavoratrici (tante) e dei lavoratori (pochi) che si trovano a Part-time ? Tengono conto dell’orario in cui questi percorsi formativi vengono collocati? O del luogo ove si effettuano(spesso in altre città)?
E per quello che riguarda il salario incentivante, perché non pensare ad introdurre criteri di raggiungimento degli obiettivi aziendali in proporzione all’orario di lavoro realmente effettuato?
Queste sono soltanto alcune delle possibilità prese in considerazione dalla nostra ricerca. Sarebbe interessante la rilettura dei CCNL con l’occhio attento ai “passaggi neutri” che potrebbero rivelarsi “passaggi differenziati”.
Il fine potrebbe essere quello di una contrattazione più completa e specifica, più attuale, con il solo obiettivo di migliorare ed esaltare le potenzialità presenti - ma sconosciute - di tutti i dipendenti (uomini e donne) rendendo, magari, contemporaneamente, l’impresa un “pochino” più competitiva!
Ecco, la competitività, appunto!
Anche su questo terreno la negoziazione/contrattazione dovrà sempre di più tenere conto dell’importanza della “Economia della Conoscenza” anche se il dibattito lanciato dal Libro Verde “Partenariato per una nuova organizzazione del lavoro” ha avuto in Italia un eco limitata Esistono, comunque, molti segnali di un lento ma progressivo cambiamento in atto nel nostro paese.
L’ISFOL, in una recente indagine sulla formazione continua nella contrattazione collettiva, ha confermato un sostanziale deficit di negoziazione ed una generale sottovalutazione del tema delle competenze e dell’apprendimento.
Ormai, anche le aziende ritenute molto solide (es. le Banche) rischiano di andare in crisi e si ritrovano, per motivi diversi, con esuberi di personale non adeguato alle nuove esigenze.
Lo “strumento” per poter aggiornare il trasferimento di cognizioni più ampie nel nostro Paese esiste già, ed in alcuni casi opera discretamente attraverso gli Enti Bilaterali prendendo il nome di
quel “partenariato” che più sopra abbiamo già preso in considerazione. Sarebbe il caso che, nel quadro negoziale, la formazione e l’accrescimento delle competenze ( anche legate alla progressione della carriera) assumano la stessa importanza dell’orario di lavoro, dell’organizzazione del lavoro e del salario, magari con il supporto degli enti bilaterali e dei tavoli aziendali per la formazione.
L’impresa non e’ piu’ un sistema chiuso!!!
Il “Libro Verde” del 2001 che descrive come “l’integrazione volontaria della preoccupazione sociale ed ecologica delle imprese nelle loro azioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate” sembra proprio andare in quella direzione ormai entrata nell’attuale modo di pensare e conosciuta come “SVILUPPO SOSTENIBILE”.
Il Governo Italiano ha, dal canto suo, inserito le tematiche sopra ricordate nel “Libro Bianco sul Mercato del Lavoro” che dedica un intero paragrafo a questo argomento.
E’ sempre più evidente come la redditività di una azienda non può più essere l’unico parametro sul quale fondare il giudizio che si può formulare su di essa , anche se non esiste obbligo di legge per la redazione di un “bilancio sociale” (qualcosa si può trovare nel d.l. n. 460 del 1997 art.8 istitutivo delle ONLUS) all’interno del quale le donne potrebbero trasformarsi da pura “immagine di marketing” a scelta di bilancio che vada nella direzione di una equità sostanziale e non formale e per questo verificabile (ovvero affermazione del principio della parità effettiva e delle reciproche convenienze).
Anche in questo caso, si potrebbe ipotizzare come materia di negoziazione contrattuale l’utilizzo dello strumento del “bilancio sociale”. Esso infatti, potrebbe essere vantaggioso all’impresa, come immagine esterna, ma anche ai lavoratori/lavoratrici presenti in essa oltreché ai vari stakeholders di riferimento (ivi compreso il sindacato stesso).
Insomma, come auspica la Commissione europea sempre nel “Libro Verde sul Partenariato”, relazioni industriali per gestire il nuovo costruite su “buoni accordi” tra le parti sociali e che gli Enti bilaterali dovranno essere in grado di rappresentare e supportare.
Xxxxx Xxxxxx Xxxxxxx
CAPITOLO 1
La situazione italiana
Accettando di partecipare al Progetto EQUAL, promosso dalla Organizzazione Sindacale UGT in collaborazione con il Ministero del lavoro spagnolo, il Coordinamento Donne della UIL (Unione Italiana del Lavoro), ha inteso dare continuità e concretezza alle ricerche finora effettuate sui differenziali salariali tra uomini e donne, sia a livello europeo che nazionale, in piena sintonia con il progetto spagnolo che, a partire dal titolo “PARITA’ SALARIALE NELLA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA” , si pone il medesimo obbiettivo.
Il principio della parità di retribuzione per donne e uomini: “lavoro uguale per un uguale valore” viene sancito sia dall’art. 119 del “TRATTATO di ROMA”, sia dalla direttiva 75/117 CEE relativa all’applicazione della parità retributiva tra lavoratrici e lavoratori.
Nonostante le disposizioni del diritto comunitario, adottate e recepite nelle legislazioni degli Stati membri in questi ultimi venti anni, il gap retributivo, tuttavia, è ancora sfavorevole alle donne per cui è oramai assolutamente necessario individuare modalità di intervento che diminuiscano – sino al legittimo tentativo di eliminarlo – il forte divario ancora esistente, coerentemente con l’obiettivo europeo per l’occupazione che è quello di raggiungere per l’anno 2010, quello del 70%.
Nel 2001 i dati Italiani sull’occupazione danno percentuali di occupati pari al 68,1% per gli uomini ed un 54,6% per le donne. In questo ultimo dato è compreso il balzo dell’occupazione femminile dal 1994 al 2001 in termini del +5,7 punti in confronto al + 1,4 di quella maschile.
La maggior flessibilità contrattuale ed alcuni cambiamenti nella tipologia del lavoro, hanno aiutato le donne a trovare posto nel mondo della produzione, che meglio si possa conciliare con le esigenze familiari. Anche se, in misura notevole, sulle donne rimane il carico di lavoro e cura nell’ambito della famiglia.
Queste conclusioni emergono con evidenza, dall'approfondimento sul mercato del lavoro italiano contenuto nell'ultimo Rapporto annuale dell'ISTAT. Inoltre, mentre il contesto familiare non muta i dati maschili, tra le donne di 30-39 anni ( ossia quelle che più delle altre hanno acquisito un nuovo atteggiamento verso il lavoro) quelle che vivono da sole hanno un tasso di occupazione quasi maschile (84,3%).
In questa fascia d’età, addirittura il dato arriva al 90%, che diventa 72,7% per quelle che vivono in coppia e precipita al 48,9% nelle coppie con bambini
Questa percentuale tende a decrescere in proporzione all'aumento dei figli, ed a salire nel corso del tempo (era al 46,3% nel '93) con la crescita dei figli stessi.
Per le donne di 40-49 anni sposate e con figli è al 50,5%. Segno che l'uscita dal mercato del lavoro per una parte di esse viene vissuta come condizione temporanea.
Risulta anche che, le donne sposate e con figli, vengono penalizzate nel mercato del lavoro anche quando risolvono altrimenti la questione della cura dei bambini. Infatti, il loro tasso di disoccupazione (riferito sempre alle 30-39enni) è del 12,3%, contro il 6,1% delle single e l'8% delle sposate senza figli. Che i figli siano visti come un handicap da parte dei datori di lavoro lo prova il fatto che per le donne che sono genitore unico il tasso di disoccupazione è a due cifre (11,8%).
Naturalmente, il grado di istruzione gioca un ruolo cruciale sia nella domanda, e quindi nelle opportunità, che nell'offerta, e dunque nei limiti culturali, del lavoro femminile. Le laureate, sempre concentrandosi nell'età 30-39 anni, hanno un tasso di occupazione dell'89,3% se single e del 77,3% se sposate con prole, con una disoccupazione comunque attorno al 6%. Le diplomate vanno dall'88% al 62% e il tasso di disoccupazione raddoppia dal 4,6% se single al 9,3% se sposate con figli. Infine, in assenza di diploma superiore, il tasso di attività precipita al 33,7% per le donne nelle coppie con figli e il tasso di disoccupazione schizza al 18,4%.
Le donne quali produttrici di valore, valori e di ricchezza (in quanto “percettrici di reddito”) erano (e continuano ad essere) in rapida ascesa. Infatti, già nel 1982 le donne rappresentavano il 39%. A metà degli anni ’90 sono passate al 44% e la loro presenza è in continuo aumento come emerge, in quanto dato costante. da tutte le ricerche effettuate in materia.
A questi valori estremamente positivi si contrappone purtroppo, ancora oggi, un forte differenziale retributivo tra uomini e donne che è sensibilmente più elevato se andiamo a prendere in esame, tra i percettori di reddito, le due categorie che maggiormente contribuiscono a deprimere il rapporto uomo/donna nell’aggregato, ovvero:
1. i pensionati, che al loro interno contano molte donne a basso reddito;
2. i professionisti con redditi alti ma al cui interno gli uomini percepiscono quasi il doppio delle donne.
Gli ultimi dati in nostro possesso testimoniano che, a parità di caratteristiche, le donne - nonostante una scolarizzazione ed una istruzione elevata, nonostante titoli di studio e formazione professionale di alto livello - continuano a guadagnare il 18/20% in meno dei loro colleghi maschi anche se, obiettivamente, in moltissimi casi, dovrebbero guadagnare più di essi.
Quale è – in sintesi – la causa di questo notevole differenziale?
Le analisi della situazione, sia quelle recenti sia quelle fatte a suo tempo dall’Istituto di ricerca ITER per conto del Ministero del Lavoro, hanno evidenziato che esso dipende da diversi fattori:
1) l’insufficiente qualità dei dati relativi alla disaggregazione per tipo di occupazione;
2) il permanere di comportamenti discriminatori e di ostacoli alla carriera;
3) l’utilizzo – per molte donne – delle proprie competenze non finalizzato alla carriera e all’aumento del reddito bensì alla conciliazione tra vita relazionale familiare e lavoro;
4) una organizzazione del lavoro e una relativa struttura salariale residui di una cultura non favorevole alla piena emancipazione femminile.
5) Il mancato riconoscimento del valore aggiunto delle specificità femminili (che vengono date per scontate e quindi non retribuite), dovuto a schemi culturali ancora legati agli stereotipi di genere
L’Italia nonostante questo quadro strutturato, a nostro avviso certamente non soddisfacente, nella classifica europea sui differenziali di genere, formalmente occupa una posizione medio alta. Infatti, se si considerano i soli dipendenti “full time” del settore privato e primario, l’Italia, tra i paesi membri, è al 6 posto ed è al 4 se vengono presi in considerazione tutti i lavoratori dipendenti
Se aggiungessimo, però, ai dati conosciuti quelli relativi all’economia sommersa, alle collaborazioni coordinate e continuative e alle forme di lavoro atipiche, la situazione retributiva generale attuale potrebbe essere peggiorata rispetto agli anni 80 anche se i risultati delle analisi effettuate sono ancora insufficienti a delineare con esattezza il quadro nazionale; infatti, pur registrando una maggiore presenza delle donne esse però sono in posizioni lavorative con profili professionali discontinui e redditi bassi.
Questo per quanto attiene il mondo del lavoro: la situazione comunque si ripete anche nel sistema pensionistico: le donne pensionate percepiscono circa il 60% in meno dei loro colleghi (negli ultimi 5 anni il valore è sceso a 57%). La struttura pensionistica attuale, che prevede pensioni integrative, rischia di peggiorare ulteriormente la situazione. Infatti, mentre con il precedente regime veniva dato un implicito riconoscimento – anche se distorto – al valore economico del lavoro di cura svolto dalle lavoratrici, nell’attuale regime, invece, viene riconosciuto, seppure in modo ambiguo, soltanto il lavoro delle casalinghe.
Le donne continuano a non accedere ai livelli dirigenziali e manageriali se non i casi sporadici, anche se per anzianità, competenze e qualifiche mansionistiche questo dovrebbe essere possibile.
Nella nostra analisi, abbiamo cercato di individuare in che modo si fanno evidenti le differenze di genere nel lavoro dipendente. I fattori sono diversi:
1. lo stato civile
2. l’età
3. il grado di istruzione
4. il regime di orario
5. il salario aggiuntivo (comprensivo dei cosiddetti “premi incentivanti” regolati dai CCNL, contratti nazionali di lavoro)
6. le aree geografiche
Il cambiamento avvenuto nel lavoro dipendente nell’ultimo ventennio (che, d’altro canto, registra una più massiccia presenza femminile nel mercato del lavoro) è dovuto a fattori diversi:
1) la sostanziale stabilità dei rapporti di reddito fra i due sessi;
2) la deregolamentazione del mercato del lavoro;
3) il miglioramento della qualità della forza lavoro femminile.
Ognuno di questi punti deve essere approfondito allo scopo di individuare i nodi da sciogliere ed i passaggi critici che contribuiscono al permanere di discriminazioni fra i due sessi.
In concreto, la sostanziale stabilità dei rapporti (e quindi della differenza di reddito) fra i due sessi è strettamente legata da un lato alla riapertura del ventaglio salariale ed all’incremento del lavoro a tempo parziale; e, dall’altro, ai miglioramenti nell’offerta di lavoro femminile, correlati all’età e al grado di istruzione, ed ai sistemi di selezione del lavoro.
Tutti questi fattori, calati nella struttura occupazionale, hanno agito in maniera contrapposta determinando un divario salariale abbastanza contenuto nei primi anni ’80. La successiva deregolamentazione del mercato del lavoro (avvenuta nell’ultimo ventennio), evidenzia che le variazioni/oscillazioni non positive del ventaglio salariale riguardano soprattutto le donne le quali, pur essendo maggiormente inserite nel mercato, sono tuttavia collocate negli strati medio bassi della piramide retributiva.
D’altra parte, anche se la qualità della forza lavoro femminile (notevolmente accresciuta) e la diversa collocazione occupazionale settoriale (sempre più donne nelle pubbliche amministrazioni, soprattutto al Sud, e questo eleva la media nazionale), ci portano a credere ad un innalzamento del reddito femminile, questo, però, é ancora modesto. Infatti, sebbene ci siano stati alcuni positivi cambiamenti in posizioni ritenute “di vertice” (dirigente, magistrato, primario chirurgo, carriera universitaria, ecc.), il dato tuttavia non è così rilevante perché le occupazioni ben pagate nelle quali le donne possono entrare sono ancora limitate.
Lo stesso fenomeno positivo della crescita formativa e culturale delle donne ha soltanto limitato la caduta dei redditi femminili (rispetto a quelli maschili) nelle fasi di chiusura del ventaglio salariale.
La discriminazione, quindi, é ancora forte e ci induce a fare delle considerazioni sulla percezione del problema:
· quanto sono consapevoli le donne di essere discriminate in base al reddito?
· quanto in base alle proprie competenze (riconosciute o potenziali)?
· quanto in base ai carichi familiari?
· Cos’è oggi il lavoro per le donne?
Ebbene, il cambiamento dei costumi e delle modalità di approccio al lavoro delle donne è un dato dal quale ormai non si può più prescindere.
Il lavoro è divenuto un elemento importante nel percorso di autostima e di coscienza di sé intrapreso dalle donne, rendendole sempre più consapevoli della necessità della loro presenza nei processi di cambiamento nella società. Il problema più pressante è quello di poter esercitare liberamente le proprie scelte di vita senza che esse vadano ad influire negativamente sulla sfera personale o su quella professionale.
È proprio sulla base di queste considerazioni che si sviluppa la ricerca sui differenziali salariali, per poter incidere su un necessario cambiamento della struttura del salario e operare per una parità retributiva che non sia soltanto nominale ma effettiva. Che tenga conto che la differenza di genere è un valore da assumere assolutamente nella costruzione di un nuovo modello di lavoro più favorevole alle donne ed ai molteplici compiti che le donne hanno esercitato e continuano ad esercitare all’interno della società.
La maggior parte dei sistemi retributivi è frutto di contrattazioni collettive a livello settoriale o intersettoriale all’interno delle quali, come dichiarato dalla normativa italiana vigente (a cominciare dalla Costituzione), è fatto obbligo di rispettare il principio di parità retributiva per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore (L. 903/77, art. 2).
Attraverso una analisi approfondita dei contratti nazionali di settore e la contrattazione di secondo livello, potremmo evidenziare le criticità maggiormente presenti nel rapporto tra reddito femminile e reddito maschile, contribuendo, attraverso la costruzione di “buone prassi” (ma anche con l’identificazione – a fini di una loro rimozione - di “cattive prassi”, laddove fossero attuate), al cambiamento dell’attuale sistema retributivo, affinché ci sia effettivamente un pari riconoscimento del lavoro degli uomini e delle donne e perché non sia sottovalutato un lavoro individuale a causa di qualsiasi discriminazione basata sul sesso.
Nell’avviarci alla ricerca abbiamo voluto identificare i maggiori punti di criticità sui quali poter intraprendere una azione positiva di cambiamento del sistema retributivo e di reddito delle donne.
Infatti, valutando in maniera non pregiudiziale il regime retributivo di alcuni settori pubblici e privati, vorremmo riuscire a proporre buone pratiche di intervento affinché le specificità femminili, attualmente considerate - in modo approssimativo e miope - residuali per il sistema produttivo, si trasformino in opportunità sia per il personale tutto, che per l’azienda e motivazione condivisa per il miglioramento dell’organizzazione del lavoro e del “clima” interno.
Tanto più oggi che i modelli tradizionali di lavoro stanno mutando repentinamente, come altrettanto rapidamente stanno mutando i soggetti e le esigenze del nuovo mercato del lavoro.
Per rendere praticabile il principio delle reciproche convenienze, che sempre più spesso travalicano l’impresa stessa sino a coinvolgere stakeholder sociali, non si può prescindere dal coinvolgimento pieno e condiviso di tutti i soggetti interessati (donne, uomini, lavoratori subalterni e responsabili ai vari livelli).
A supporto di una azione di questo tipo, divengono necessari progetti di formazione mirati anche a mettere in discussione atteggiamenti mentali consolidati. Il fine sarebbe quello di un cambiamento culturale teso ad una migliore organizzazione del lavoro che sappia tenere conto di tutte le abilità e le potenzialità presenti.
Un processo di modifica della struttura organizzativa del lavoro e, conseguentemente, dei ruoli delle figure professionali che preveda la sperimentazione di nuovi modelli di gestione delle risorse umane, e quindi anche delle competenze femminili, quali opportunità positive per la qualità del lavoro e delle condizioni di vita in generale.
Si tratta di “energie” tanto più necessarie in tempi di rapide evoluzioni delle trasformazioni in atto, degli assetti proprietari, dei sistemi occupazionali ed organizzativi. Diventa quindi vitale, nell’interesse di tutti, il miglioramento delle performances lavorative e della competitività aziendale non disgiunta, però, dal bene-essere e dall’adeguato riconoscimento del valore del lavoro delle donne e degli uomini che in quella azienda investono il loro essere persone.
Le imprese, oggi, si trovano ad operare in un contesto competitivo molto articolato e difficile, caratterizzato dalla globalizzazione dei mercati e dei fattori produttivi e da un elevato tasso di innovazione tecnologica. Tutto questo ha portato all’emergere di un nuovo modello di impresa che possiamo definire flessibile, focalizzata sul core business e che esternalizza diffusamente tutte le altre attività in una logica di economicità.
Un’impresa fortemente orientata a comprimere i costi e ad aumentare l’efficienza per sostenere i margini di competitività e confrontarsi con la concorrenza. Una azienda la cui capacità progettuale risieda in particolare nella rapidità ad adattarsi al contesto in cui opera che è in continuo cambiamento, cosicché la sua presenza e permanenza nel mercato è sempre più soggetta alla capacità di cogliere tempestivamente e con efficienza le sfide e le opportunità che da esse possono derivare.
Da qui la necessità di un migliore investimento, da parte di queste imprese, sulle risorse umane per: aggiornarne e accrescerne le competenze; coltivane la flessibilità e la capacità di cambiare; trattenerle in quanto detentrici di specificità costose da ricostituire.
In questo mutato contesto lavorativo, i lavoratori e le lavoratrici debbono necessariamente adeguarsi alle performances richieste dall’azienda, con una maggiore capacità e preparazione, ma correre anche i rischi prodotti dalla maggiore frequenza delle fasi di cambiamento e di ristrutturazione delle aziende stesse.
Rischi che possono essere interni, cioè di dover cambiare lavoro o di doversi riciclare, oppure esterni, cioè la necessità di doversi riposizionare sul mercato del lavoro.
In base ai dati statistici sulla presenza delle donne nel mercato del lavoro, abbiamo già detto che esse occupano livelli bassi o medi, medio/alti, arrivando raramente al vertice della carriera. D’altro canto, é indubbio che la differenza di genere costituisce un elemento che, nella valorizzazione
compiuta delle risorse umane, sembrerebbe illogico disconoscere.
E poiché da parte della Aziende è aumentata la disponibilità ad investire di più nei confronti delle risorse umane, laddove la presenza femminile risultasse largamente diffusa, utilizzare le capacità e le potenzialità offerte dalle donne potrà costituire il “valore aggiunto”, sul quale incentrare una diversa strategia aziendale. Quindi una diversa e più equa ridistribuzione dei salari non più legati
– come per il passato – ad una organizzazione del lavoro e del salario basati sulla presenza e sugli incentivi ad essa collegati, bensì alle esperienze maturate nell’ambito lavorativo e alle esperienze personali, offerte come contributo di arricchimento professionale.
Nello scenario così mutevole del mercato del lavoro, il concetto chiave, e quindi la sfida, è dunque l’adeguamento da parte dei sistemi di gestione alle nuove realtà. La estrema velocità che caratterizza l’attuale fase del mercato del lavoro richiede di poter coniugare efficienza e produttività utilizzando e valorizzando le competenze e le capacità personali.
Questo è un ambito in cui le donne sono in grado giocare un ruolo fortemente attivo perché le loro competenze e le loro capacità sono il frutto non soltanto di una professionalità dichiarata ma anche del “vissuto” quotidiano, dei singoli “saperi”, delle caratteristiche personali che, nella logica di un utilizzo ottimale delle risorse umane, non può non portare benefici importanti al mondo del lavoro.
È indubbio, infatti, che il forte gap retributivo tra uomini e donne potrà essere colmato attraverso la ricerca di modalità e strumenti che mettano in relazione le convenienze reciproche; mediante una verifica degli obiettivi e delle esigenze delle lavoratrici (primo fra tutti la ancora difficile conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare) mettendoli in relazione con quelle che sono le esigenze e gli obiettivi delle imprese (parallelismo di opportunità), in un processo attivo nel quale le persone diventino protagoniste, aiutandole a ragionare in termini progettuali e aziendali.
A tale scopo, é sempre più necessario (in linea con gli indirizzi della Conferenza di Lisbona) che lavoratori, lavoratrici ed imprese riflettano sulla valorizzazione delle risorse disponibili, creando condizioni per le quali le persone in generale, e le lavoratrici in particolare, siano più motivate e consapevoli della situazione nella quale l’azienda sta operando, con una maggiore chiarezza delle aspettative di entrambi i soggetti e, di conseguenza, con un abbassamento della soglia dei conflitti nati da aspettative disattese.
Ma come coniugare la cultura della competitività con quella del benessere?
Come rispettare le diversità di approccio con connotazioni specifiche di genere che possono anche voler dire percezione differenziata di benessere o disagio?
Come modificare una visione delle cose con angolatura stereotipata (vuoi per incapacità a cogliere i cambiamenti, vuoi per difesa dell’esistente) con la necessità di utilizzare appieno (riconoscendone quindi il valore) le potenzialità femminili ?
Come evitare che per le lavoratrici esistano soltanto impervi sentieri (quand’anche esistano) per avere riconoscimenti di carriera, mentre i percorsi veloci e piani come autostrade restano per lo più esclusivo appannaggio dei loro colleghi uomini? .
”Culture” ingessate ed approcci con l’obsoleta pretesa di essere “neutri” possono solo portare a risultati scontatamente negativi, irrigiditi dalla burocrazia e, soprattutto, lontani da efficacia, competitività sul mercato e, non ultima, da una politica di equità sociale spendibile anche verso l’esterno .
E’ questo l’esempio del “Bilancio Sociale” che contribuisce notevolmente ad una buona immagine sul mercato di quell’azienda che possa dimostrarsi (dati nero su bianco e, quindi, in misura credibile) di essere sensibile alle questioni sociali sia al proprio interno che nel territorio.
Per superare la barriera degli stereotipi di genere nel lavoro è necessario prendere atto, ponendosi contemporaneamente l’ambizioso ma necessario obiettivo di modifica, che le norme definite “neutre”, neutre non lo sono assolutamente. Questo a causa del fatto che, anche chi definisce e spesso gestisce quelle norme, risente fortemente degli stereotipi culturali che le hanno generate.
Se non si opera concretamente per superare gli atteggiamenti mentali stereotipati che inevitabilmente portano solo a comportamenti ed aspettative stereotipate, difficilmente si potrà pensare di intaccare il divario salariale complessivo tra uomini e donne. Uno dei modi per operare può anche essere attraverso corsi di formazione che rendano consapevoli i responsabili delle risorse umane e le risorse umane coinvolte, di ambo i generi, dei vantaggi e delle convenienze reciproche sviluppate da tale superamento.
Un esempio emblematico è quello dei cosiddetti “premi incentivanti” a fronte del raggiungimento di obiettivi aziendali prefissati.
Uno dei settori analizzati, nel corso della nostra indagine sui differenziali salariali, è quello del Credito. Ebbene, in questo settore l’obiettivo perseguibile (ad esempio, la collocazione di un prodotto finanziario presso la clientela bancaria) viene prefissato dalla Direzione Centrale della Banca in base a parametri tarati per ciascuna filiale locale. Successivamente, i dipendenti presenti all’interno della filiale dovranno cercare di raggiungere tale obiettivo.
Per coinvolgere i clienti ed invogliarli verso il prodotto, sono necessarie abilità e capacità non codificate ed il più delle volte neppure riconosciute come valore aggiunto, bensì date per scontate e naturali, e quindi fruibili a titolo essenzialmente gratuito.
Ad esempio, nel caso del personale femminile, le prerogative di gentilezza, efficacia comunicativa, attenzione ai bisogni della clientela, capacità di porgere le cose sottolineandone i vantaggi anche collaterali, empatia, affidabilità, calore umano, riconoscimento del valore del tempo proprio ed altrui, etc……sono considerate, in linea di massima, di scontato appannaggio - e, quindi, senza valore specifico – delle donne che, pertanto, sono in genere poste più direttamente contatto con il pubblico.
E questa è norma seguita pressoché in tutti quei settori (non soltanto in quello bancario), nei quali il coinvolgimento con l’utenza é forte, come ad esempio il settore delle poste e delle comunicazioni, dell’assistenza, della salute, ecc..
Nel settore Bancario, entrando nel particolare, nessun riferimento contrattuale, nessuna comunicativa aziendale o normativa prende in seria considerazione tali aspetti come capacità riconosciute ai fini del raggiungimento e del mantenimento nel tempo degli obiettivi!
Viceversa, le normative aziendali richiamano fortemente alle responsabilità della macchina operativa, intesa come struttura gerarchica, ed agli obiettivi prefissati in termini di numeri e cifre.
Le risorse interne, torniamo a ripetere, perlopiù femminili ed in genere dotate di quelle competenze personali difficilmente quantificabili e standardizzabili (ma sicuramente efficaci in relazione all’obiettivo) sono poste in prima linea proprio a causa della loro “naturale predisposizione” al contatto umano con il cliente/utente.
Queste lavoratrici vengono assegnate alla mansione di “addetto alla clientela”, qualifica “neutra” ed a basso inquadramento che mantengono, per la verità, per lungo tempo!
Ma cosa accade quando arriva il premio incentivante per la filiale, equivalente ad una somma di denaro da dividere secondo gli apporti individuali al raggiungimento dell’obiettivo?
Nella stragrande maggioranza dei casi ( tranne poche eccezioni) viene diviso con quote calcolate in base alle responsabilità gerarchiche ricoperte all’interno della filiale. Responsabilità gerarchiche che non significano necessariamente né capacità di collocazione e vendita dei prodotti, né assunzione di responsabilità in caso di errori! Vuole dire , semmai, assegnazione dei compiti , verifica formale dei numeri raggiunti e, come costume culturale, il poter restare più ore di altri sul posto di lavoro.
Sappiamo benissimo, come si rileva dalle informazione fornite dalle aziende in base all’applicazione dell’art. 9 della Legge 125 ( legge sulle pari opportunità) , che quanto più elevati sono i ruoli legati alla carriera ed alla posizione gerarchica, tanto più diventa scarsa la presenza femminile!
Anche un recente studio della Federazione Regionale Europea UNI Europa sui settori del Credito e del Commercio evidenzia che ambedue i settori sono tuttora segregati per genere e che le donne restano concentrate nelle posizioni più subalterne, con un persistente divario salariale.
Il contributo delle donne non è riconosciuto né ricompensato, e l’uso del lavoro a tempo parziale
fa pagare a caro prezzo “l’impiegabilità” ridotta spesso solo in termini di tempo ma non di qualità o di risultato.
L’U.E. ha finanziato un progetto chiamato “Servemploi” (innovazioni nei settori della società
dell’informazione) che ha seguito il percorso delle donne che lavorano nel credito e nel commercio in dettaglio di otto paesi e cioè: Danimarca, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito.
E’ stato messo in evidenza che la maggior parte delle Imprese per cui lavorano queste donne sono strettamente legate a delle reti di informazione tecnologica, mentre le donne nei posti esecutivi non lo sono.
La pressione in favore di orari di apertura prolungati e di orari più flessibili per gli impiegati rende la promozione ancora più difficile per le lavoratrici che hanno responsabilità familiari.
UNI – Europa chiede che venga riconosciuto il valore del lavoro delle donne: “noi vogliamo che cessi questo spreco di talenti, e che le donne vengano liberate da questi ostacoli e messe in relazione” ha dichiarato Xxxxxxx Xxxxxxxxx di Uni – Europa. “Se si vuole che le donne escano dal ghetto dei salari bassi esse devono venire integrate nei sistemi di Information Technology. La formazione deve essere fornita nelle ore e in luoghi che permettano alle lavoratrici di parteciparvi. Lo studio mostra che le donne che occupano gli impieghi esecutivi ricoprono spesso compiti di una certa responsabilità ma che questa non viene riconosciuta né ricompensata. Quando le donne raggiungono dei posti quadro ciò spesso coincide con un abbassamento delle autorità conferite a questi posti!”.
Lo studio esorta i Sindacati a identificare meglio i bisogni delle aderenti.
“Se le Imprese devono trovare dei nuovi mezzi per concepire degli impieghi che migliorino la qualità della vita professionale, tocca a noi, Sindacati, il modo per fornire dei servizi alle donne” ha dichiarato Xxxxxxxxx Xxxxxxxx, capo di UNI Finance.
Non dobbiamo sottovalutare un nuovo fattore presente nel credito – uno dei più grandi settori privati impiegatizi – dove le dipendenti vengono trasformate (sempre più spesso) in Promotori Finanziari, formate valutate e ricompensate soltanto per vendere un prodotto.
La deregolamentazione dei servizi finanziari in Europa ha innescato una seria ristrutturazione del settore che ha avuto gravi conseguenze sulle condizioni di lavoro. Ma a pagare il prezzo più alto sono, come sempre le donne, le ultime ad entrare, quando servono, e le prime ad uscire quando non servono più.
CAPITOLO 2
I RIFERIMENTI NORMATIVI
Entrando nel merito della ricerca affidata alla UIL, quale partner del progetto, vorremmo fare una premessa metodologica
Non potremmo iniziare e neppure procedere nel progetto senza una visione chiara del percorso storico/culturale seguito all’evoluzione della legislazione e della normativa italiana in materia di diritto del lavoro con una particolare attenzione alle problematiche di “genere”.
Il percorso messo in atto è soprattutto quello di verificare quanto - nonostante le intenzioni e le volontà dei legislatori, le spinte progressiste dei soggetti sociali interessati, a cominciare dal movimento femminile in tutte le sue accezioni - continuino a sopravvivere forti differenze retributive tra lavoratrici e lavoratori (a discapito- ovviamente – delle prime).
Nell’estensione della ricerca sarà nostro obiettivo approfondire gli aspetti fondanti ed evolutivi che hanno interessato, negli anni, il lavoro l’occupazione italiana in genere con particolare riguardo a quella femminile.
Innanzitutto è necessario dare una definizione esplicativa di cosa sia “IL DIRITTO DEL LAVORO”
in Italia.
Esso è “un insieme di norme ed istituti che regolano l’attività professionale dei lavoratori subordinati privati e ne attuano la tutela giuridica ed economica” e viene formalmente sancito dall’art. 4 della Costituzione italiana.
Si tratta di una materia estremamente vasta e complessa che contiene al proprio interno la branca del “diritto sindacale”.
Secondo la legislazione e la prassi italiana, il “Diritto del Lavoro” risulta essere:
· Una branca unitaria, in quanto gli istituti che ne fanno parte non sono slegati ed indipendenti tra di loro
· Una disciplina complessa, nella quale si verifica l’incontro di diversi momenti normativi tesi a tutelare la posizione del contraente più debole
I suoi principi fondamentali risultano essere pertanto:
· La tutela del contraente più debole
· La garanzia della professionalità
· L’autotutela
Le “sorgenti” da cui discende il diritto del lavoro italiano sono:
· La Costituzione Italiana/ Codice Civile (Libro V)
· Le Leggi Specifiche in materia
· Gli accordi ed i patti tra le parti sociali coinvolte (governo/sindacato/imprese)
Oggetto centrale del rapporto tra le parti (datore di lavoro e prestatrice/prestatore d’opera)
é:
Il Contratto di Lavoro
Esso é’
uno strumento giuridico attraverso il quale si costituisce il rapporto di lavoro (disciplinandolo)
Che
· regola il pagamento delle retribuzioni (in modo assolutamente neutro e formalmente uguale per tutti) e definisce diritti e doveri delle parti.
All’interno del diritto del lavoro è necessario definire cosa sia il
Diritto Sindacale:
“IL DIRITTO SINDACALE E’ QUELLA PARTE DEL DIRITTO DEL LAVORO CHE CONCERNE IL COMPLESSO DI NORME POSTE DALLO STATO E DALLE STESSE ORGANIZZAZIONI DEI
LAVORATORI E DEGLI IMPRENDITORI, CHE DISCIPLINANO IL CONFLITTO DI INTERESSI, DERIVANTE DALLA INEGUALE DISTRIBUZIONE DEL POTERE” ( Sen. Xxxx Xxxxxx)
Le pietre miliari che hanno permesso l’esercizio del diritto sindacale restano a tutt’oggi:
· Il Codice Civile (1942)
· (titolo III capo 1 sez. 3 denominato: “rapporto di lavoro”) ART. 2096 E 2098 (costituzione del rapporto di lavoro) / ARTT. 2099 E 2113 (diritti ed obblighi delle parti) / ARTT. DAL 2114 AL 2117 (previdenza ed assistenza) ARTT. DAL 2118 AL 2125 (estinzione del rapporto di lavoro) artt dal 2126 al 2129 (disposizioni finali).
· La Costituzione (1947)
· ART. 4 (riconoscimento del diritto al lavoro).
· ART.39 (riconoscimento al sindacato di firmare contratti collettivi).
· ART.37 (parità di trattamento tra uomo e donna ).
· Legge 300 (statuto dei lavoratori / 1970). Al suo interno: diritti dei lavoratori, doveri del datore di lavoro diritti delle rappresentanze sindacali.
La Contrattazione
L’Accordo del 23 luglio 1993 sulla politica dei redditi segna un passaggio fondamentale nella contrattazione italiana. Fino ad allora, infatti, il contratto di lavoro – stabilito da un accordo tra organizzazioni dei lavoratori e organizzazioni imprenditoriali – era per lo più basato sul conflitto tra le parti. Con il 1993 si compie una evoluzione fondamentale nella contrattazione perché con l’introduzione di un terzo soggetto, il Governo, si passa da una fase conflittuale ad una concertativa.
Con il protocollo sulla politica dei redditi il sindacato, con estrema responsabilità, ha ritenuto di legare gli aumenti contrattuali retributivi all’inflazione reale.
Si è trattato di una vera e propria rivoluzione, non subito compresa in Europa (ne fa fede il giudizio di “irresponsabilità” emesso, al tempo, dal massimo sindacato tedesco), nella quale sono state stabilite le regole di “governo” del nuovo modello contrattuale.
In sintesi, il nuovo metodo contrattuale si basa su due livelli.
· Contrattazione di primo livello, con una durata quadriennale, di carattere normativo in quanto fissa le modalità di gestione dei contratti (che a loro volta possono determinare loro stessi aumenti retributivi);
· Contrattazione di secondo livello (suddivisa in due bienni) che definisce la situazione retributiva del lavoratore in relazione al calcolo dell’inflazione programmata e reale.
Le politiche dei redditi hanno stabilito due sessioni di verifica annuali, maggio e novembre, in cui si controlla il tasso di inflazione per procedere ai rinnovi di secondo livello
Dall’accordo del 23 luglio 1993 prescinde anche un nuovo sistema partecipativo che vede il coinvolgimento delle parti in via legislativa tramite gli Enti Bilaterali, le Casse Edili ed i Comitati di indirizzo e vigilanza negli Enti Previdenziali, nonché i sistemi partecipativi che scaturiscono direttamente dalla contrattazione, legando, inoltre, i processi formativi alle necessità occupazionali emergenti.
Per maggiore chiarezza su quanto sopra espresso, abbiamo predisposto uno schema illustrativo sulla “gerarchia normativa” italiana.
SCHEDA “GERARCHIA NORMATIVA”
ESEMPIO DI INTERVENTO/COMPETENZA
SOGGETTI
STRUMENTI
GOVERNO
LEGGE
assegni familiari, oneri sociali, limite parità e pari opportunità etc.
GOVERNO
ACCORDI
Contingenza, ex festività, inflazione programmata.
(concertazione)I
SINDACATI
patti sociali, protocolli d’intesa (es. accordo 23 luglio 1993. Patto per il lavoro).
IMPRENDITORI
ASSOCIAZ. DATORIALI
CCNL/ACCORDI BILATERALI
DI SINDACATI CTG
Stipendio base, aumenti salariali, osservatori (salute, formazione, nuove professionalità,) straordinario, part-time, applicazione migliorativa delle leggi, etc
AZIENDA
ACCORDI II livello.
premi produttività, incentivi, flessibilità orari, commissioni Pari Opportunità e CPO., sicurezza etc.
SINDACATO
AZIENDA
TRATTATIVA INDIVIDUALE
premi ad personam, spostamenti orari, part-time, trasferimenti, ferie etc,
SINGOLO
Gli accordi aziendali o di categoria, possono essere solo migliorativi delle relative leggi di riferimento.
In assenza di accordi aziendali vale la legge di riferimento.
Leggi e Specificità di Genere:
L’Italia ha una sua interessante peculiarità, per quanto riguarda la legislazione relativa alle donne. Tale legislazione è una sorta di specchio della “cultura dei tempi” e delle modifiche sociali avvenute negli anni.
Nella storia delle leggi promulgate nei confronti delle donne lavoratrici, l’attenzione del legislatore si è espressa in forme che sono andate:
Dalla Tutela al Sostegno della maternità, (1950/1971) dalla Parità ed alle Pari Opportunità (1977/1991)
Sino al 1950 non c’era pressoché nulla che garantisse la donna lavoratrice, a parte una legge, risalente al 1902, denominata “tutela delle donne e dei fanciulli sul lavoro”.
Eredità del ventennio fascista era, poi, la visione della donna nel suo prevalente ruolo materno, tanto che continuarono ad esistere per lungo tempo dopo la ricostruzione ( sino allo scioglimento dell’ente) Le “Case della donna e del bambino” strutture dell’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia (OMNI).
Per tornare alla particolarità italiana, occorre dire che le leggi di grande respiro civile e progressista, possono essere di due tipi:
1) le leggi che prendono atto dei cambiamenti avvenuti in ambito sociale e, registrando tali cambiamenti, creano norme che ne codificano l’impatto, al fine di regolamentarli ( ad esempio le leggi sul divorzio, sulla maternità consapevole e l’interruzione di gravidanza, sulla parità’);
2) leggi, molto avanzate e lungimiranti che tendono a modificare la cultura esistente, offrendo una sponda ai cittadini ed alle istituzioni, al fine di contribuire a creare un più alto grado di civiltà nel paese ( alcune di queste leggi, ci sono venute da direttive della Comunità Europea, come ad esempio la legge 125 sulle pari opportunità oppure la 626 a tutela della salute e sicurezza sul lavoro).
Esiste poi un altro modo di “sperimentare “ nuove forme di rapporto sociale e lavorativo, in grado di “spostare” esperienze ed opportunità su un territorio più favorevole, in particolare per le donne: sono le cosiddette “BUONE PRASSI”, in grado di creare un precedente esperenziale valido come riferimento positivo a cui guardare in assenza di legislazione specifica ( es. Bilancio di Competenze, finanziamento di azioni positive atte a favorire la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare, ecc.). Purtroppo, sempre in relazione alle lavoratrici, esistono anche le “CATTIVE PRASSI”, spesso così consolidate nel tempo da divenire invisibili ai più, al pari delle consuetudini acquisite. Dovrebbe divenire costume di ogni società evoluta riconoscerle come tali ed operare , stigmatizzandole apertamente, per superarle.
Naturalmente sia le leggi che determinano profondi cambiamenti culturali, sia l’adozione di forme diverse di rapporto sociale e lavorativo sono aspetti che meriterebbero uno spazio più approfondito di analisi e confronto.
Al momento, per definire in maniera organica il quadro normativo e l’evoluzione sociale ed occupazionale delle donne, è preferibile percorrere solo velocemente, le tappe della legislazione in questione, a partire dalla tutela degli anni 50 sino ad arrivare ai giorni nostri.
· | 1950 | licenziamento, astensione prima/dopo il parto |
· | 1956 | uguaglianza di remunerazione |
· | 1963 | divieto di licenziamento a causa di matrimoni |
· | 1971 | Legge sugli Asili Nido |
· | 1971 | legge di tutela delle lavoratrici madri (estesa, nel 1977 al padre lavoratore) |
· 1977 legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne (divieto di discriminazione diretta basata sul sesso legge parità di trattamento tra uomini e donne (divieto di discriminazione. diretta basata sul sesso, sanzioni - nullità dell’atto ma non rimozione effetti - fiscalizzazione. Oneri sociali etc.)
· | 1984 | art.5 legge 863 (part-time) |
· | 1991 | legge “pari opportunità” (uguaglianza sostanziale, inversione onere |
della prova, promozione e finanziamento di Azioni positive) | ||
· | 1992 | legge azioni positive per imprenditoria femminile |
· | 2000 | legge sui congedi parentali |
· | 2001 | testo unico sulla maternità , paternità e congedi parentali |
· 2000/2001 decreti legislativi su Part-Time
Il cammino verso il riconoscimento della piena dignità delle donne lavoratrici è stato, e continua ad essere, lungo e faticoso. Ciascuna delle leggi elencate meriterebbe una analisi dei suoi contenuti ed una lettura del contesto sociale e politico nel quale si è collocata, i risultati positivi ottenuti, gli scarti tra i punti di forza e quelli di debolezza attuativa e di applicazione.
Abbiamo ritenuto, per questioni di praticità, ai fini del nostro contributo al progetto EQUAL, focalizzare l’attenzione solo su alcune di queste leggi ritenute emblematiche che abbiamo sottolineato in grassetto nell’elenco sopraindicato.
CAPITOLO 3 APPROFONDIMENTO LEGISLATIVO
Legge sulle pari opportunità
Una analisi più approfondita della legge sulle pari opportunità (Legge 125/91) ci porta ad alcune considerazioni di merito.
L’adozione di azioni positive, così come indica la legge, atte a favorire il riconoscimento del ruolo progettuale delle donne all’interno della società, ha certamente portato un cambiamento positivo nella realtà lavorativa italiana, producendo un ripensamento degli stereotipi culturali che vedevano la donna in un ruolo subordinato rispetto a quello maschile. Il cambiamento, tuttavia, non è completo, e secondo recenti statistiche di istituti di ricerca europei, la situazione rimarrà statica per lungo tempo perché, se da un lato è stato riconosciuto il mutato ruolo della donna quale percettore di reddito, contemporaneamente si continua a limitarne la rappresentanza e, quindi, la sua rappresentatività all’interno dei luoghi decisionali.
Questo è riscontrabile nei diversi ambiti della vita sociale del paese, da quello politico a quello più strettamente economico e, quindi, lavorativo.
La legge 125/91 prevede che all’interno delle aziende al di sopra dei 100 dipendenti venga effettuato un monitoraggio periodico dell’evoluzione delle pari opportunità tra uomo e donna nel lavoro (unico Paese della Comunità, in Italia la Consigliera di parità può ricorrere in giudizio qualora ravvisasse chiari elementi di discriminazione nei confronti delle lavoratrici, compresa la disparità salariale).
Dalla sua approvazione ad oggi, questo stralcio della normativa viene parzialmente attuato perché i risultati delle indagini sull’applicazione delle norme di parità continuano a fornire (quando vengono resi noti) dati precisi (e sessuati) solo sui passaggi di carriera di lavoratori e lavoratrici situati ai livelli bassi, medi e medio/alti della loro professione. Il discorso cambia ed i dati divengono imprecisi ed asessuati quando il monitoraggio va a toccare i livelli alti e quelli dirigenziali.
Ed è appunto questa la situazione che impedisce di valutare il cambiamento culturale e sociale obiettivo primario della legge, anche se, con l’approvazione del decreto legislativo 196 del 2000 "Disciplina dell’attività delle consigliere e dei consiglieri di parità e disposizioni in materia di azioni positive…”, si sono riscontrati alcuni piccoli, positivi segnali sulla trasparenza dei dati che inducono a ben sperare in un mutamento di rotta da parte degli imprenditori.
Finora, la promozione ed attuazione di azioni positive (anche attraverso il contributo di risorse comunitarie, nazionali e locali ha sicuramente favorito una maggiore attenzione alle politiche di pari opportunità, sviluppando una diversa considerazione di tutti quegli strumenti che possono contribuire alla evoluzione della parità tra i sessi.
La diversa attenzione posta alle politiche attive del lavoro, comprese quelle formative – abitualmente negate o impedite di fatto alle donne -, ha favorito la diffusione della conoscenza e dello scambio di buone prassi da far confluire nel loro ambito più naturale delle norme contrattuali.
Legge sui congedi parentali
La legge 53/2000 (sui congedi parentali) risulta concepita al fine di offrire nuove opportunità come:
1. stare più vicino ai propri figli
2. fruire di congedi dal lavoro per eventi e cause particolari
3. godere di congedi per motivi di studio e formazione personale
La legge in questione cita come sede legittima per definire gli impegni tra le parti relative alla sua applicazione, i contratti collettivi di secondo livello (azienda e sindacato aziendale). Il dato per noi interessante riguarda la presenza, all’interno della legge, di alcune opportunità potenzialmente in grado di scalzare gli stereotipi di genere che sinora hanno contribuito indirettamente a creare differenziali retributivi reali .
Tali opportunità si inseriscono in un discorso di “reciproche convenienze” che riguardano: sia le lavoratrici che i lavoratori (prevalentemente genitori con bambini sino agli otto anni - o fino ai dodici anni se si tratta di bambini in affidamento o in adozione) e le aziende.
Per le lavoratrici ed i lavoratori consistono nella possibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro attraverso nuove forme di flessibilità di orario ( la legge cita a titolo indicativo il part-time, il lavoro a domicilio ed il telelavoro) e la possibilità di recupero di professionalità al rientro dai congedi attraverso appositi corsi di formazione.
Per le aziende i vantaggi dell’applicazione della legge sono identificabili nei finanziamenti finalizzati sia alla sperimentazione di nuove flessibilità di orari di lavoro (compresi i costi aggiuntivi relativi all’acquisto di postazioni lavorative che dei relativi software) che ai processi formativi correlati.
In diverse piattaforme dei contratti di secondo livello , attualmente in fase di confronto tra le parti, è presente la richiesta di regolamentazione attuativa di questi interessanti aspetti della legge 53/2000.
Un esempio per tutti è quello che segue.
Sono stati inseriti (evitando di farne un capitolo a parte, nell’intento di tagliare trasversalmente la piattaforma per non seguire la sorte dell’extrapolazione come “cose solo per le donne”, di questa materia), i seguenti passaggi nei relativi capitoli:
formazione, addestramento etc…….
“Saranno previsti specifici corsi di formazione per il reinserimento delle lavoratrici e dei lavoratori al termine del periodo di congedo, finanziabili nell’ambito della quota a ciò destinata nel fondo per l’occupazione, ai sensi e per le finalità previste dall’art. 9 della legge 53/2000”
orario di lavoro
“Al fine di conciliare i tempi di vita e di lavoro, potranno altresì essere attivati progetti volti a sperimentare particolari forme di flessibilità e di organizzazione del lavoro, con priorità verso i genitori di bambini sino agli 8 anni (12 se adottivi) fruendo di finanziamenti, nell’ambito del fondo per l’occupazione, come previsto dall’art. 9 della legge 53/2000”.
agevolazioni e provvidenze al dipendente per motivi di studio - congedi per la formazione
“In attuazione delle previsioni e con le modalità previste dall’art. 5 della Legge 53/2000, ai lavoratori che abbiano maturato almeno 5 anni di anzianità e che ne facciano richiesta con almeno 30 giorni di preavviso, può essere concesso (è previsto il ruolo sindacale nel definire le modalità di accesso e fruizione) un periodo di congedo a fini formativi (continuativo o frazionato, fino ad 11 mesi nell’arco dell’intera vita lavorativa, diversi da quelli posti in essere o finanziati dall’azienda (nonché – ad esempio - diversi da quelli previsti dal CCNL credito del luglio 1999) legati all’attuazione ed all’ampliamento della legge 300/1970)”.
Durante tale periodo il lavoratore/ la lavoratrice, conserva il posto di lavoro e non ha diritto a retribuzione
Decreti legislativi sul Part-time
Tra gli obiettivi principali del decreto varato in attuazione della Direttiva 97/81/CE vi è quello di incoraggiare il ricorso a questa tipologia di lavoro anche al fine di allargare la base partecipativa al lavoro per donne, giovani ed anziani.
La nuova normativa, a nostro avviso, ha tenuto conto solo in parte delle aperture offerte dalla Direttiva a cui è ispirata.
Vorrebbe, infatti, rendere più flessibile il rapporto, facilitando - da un lato – il ricorso al lavoro supplementare e - dall’altro – introducendo un sistema di incentivi alle imprese.
Altro obiettivo sembrerebbe quello di perseguire l’eliminazione delle discriminazioni che hanno spesso caratterizzato il rapporto part-time rispetto a quello full-time.
Lascia inoltre alla contrattazione collettiva, la definizione di aspetti importanti quali.
· le modalità temporali di svolgimento del part-time di tipo misto: orizzontale e verticale (per orizzontale si intende meno ore per tutti i giorni della settimana, per verticale si intende meno giorni lavorativi nella settimana-);
· il numero massimo di ore di lavoro supplementare;
· le causali per richiedere l’effettuazione di ore supplementari;
· la percentuale di maggiorazione della retribuzione oraria per il lavoro supplementare;
· ulteriori deroghe al divieto di prestazione supplementari e straordinarie;
· il consolidamento in orario di lavoro delle prestazioni supplementari non occasionali;
Il decreto legislativo n.100/2001 ha integrato, ed in parte corretto il precedente decreto 61/2000 sul part-time
Tra le modifiche apportate si segnalano:
· quelle relative alla istituzionalizzazione del part-time misto, che, da tipologia definibile solo in sede contrattuale, diviene una tipologia legislativa con la conseguente liberalizzazione del suo utilizzo;
· quella relativa alla deroga al tetto delle ore supplementari stabilito dalla contrattazione nazionale ad opera della contrattazione decentrata (territoriale o aziendale);
· quella che prevede come “normale” la maggiorazione per le ore supplementari da definire contrattualmente;
· quella relativa alla possibilità di stabilire contrattualmente, per il diritto di recesso del lavoratore dalla clausola elastica periodi più lunghi dei cinque mesi previsti dalla legge in cambio di una indennità.
Nel nostro Paese questa forma di lavoro continua, purtroppo, ad essere considerata una tipologia
poco adatta alle mansioni con maggior contenuto professionale.
Quindi sono spesso negate di fatto, alle lavoratrici ed ai lavoratori a part-time quegli spazi professionali e di carriera ai quale possono ragionevolmente aspirare i dipendenti full-time.
CAPITOLO IV PROPOSTE
Come dare impulso a valori socialmente più evoluti ed organizzativamente più lungimiranti che, partendo da un minimo comune denominatore, abbiano l’ambizioso obiettivo di lavorare per un massimo comune multiplo?
Ad esempio, il decreto 61/2000 prevede incentivi per le aziende che assumono a part time:
perché non ipotizzare un premio anche per quelle aziende che, nei fatti, non discriminano i propri e le proprie dipendenti in part time ?
Non è facile, ma crediamo che le donne italiane abbiano, in questo momento storico e nonostante tutto, opportunità sinora mai sperimentate. Se ne diverranno sempre più coscienti, sapranno utilizzarle cogliendone le nuove opportunità. Questo non disgiunto dal porsi obiettivi da perseguire, innanzitutto per se stesse, ma anche per coloro che a tutt’oggi sono ancora restii e timorosi davanti ai cambiamenti. Le donne quindi, potranno ragionevolmente aspirare ad essere le indispensabili protagoniste delle necessarie modifiche in senso più equo e più evoluto, sia dell’ambiente del lavoro che di quello degli affetti .
Perché ci sentiamo di affermare questo?
La donna, in quanto poco presente nei posti di potere, ha tutto da guadagnare dalle sperimentazioni di cambiamento e dalla riorganizzazione dell’ambiente in cui opera, vive e lavora. E’ quindi più interessata al riconoscimento del prestatore d’opera (in senso neutro) come persona con tutte le sue peculiarità in interazione con l’ambiente circostante.
Da qui la maggiore sensibilità verso temi come la pace, lo sviluppo sostenibile, la prevenzione della salute, il rispetto della persona a partire da se stessa (ricordiamo che biologicamente è ancora lei a mettere al mondo nuove persone) e della dignità della persona inserita nel “microclima lavorativo.”
Prendiamo ora in esame qualcuna delle possibilità/strumento a cui guardare per lavorare in tal senso:
· la crescente necessità, per le aziende, di poter esibire la certificazione di qualità ed il bilancio sociale. Prassi sempre più necessaria alla competitività della singola azienda (le norme ISO sono state recepite dal oltre 100 paesi. La loro osservanza ha costituito la base per le
certificazioni di qualità.
· il principio europeo di “contemperare la necessità di competitività delle aziende con la necessità di rispetto della tutela della salute e della dignità del lavoratore/lavoratrice” (Normativa europea VISION 2000
· Le opportunità positive offerte da nuove tipologie di organizzazione del lavoro quali il TELELAVORO.
· l’accesso a fondi (comunitari, nazionali e regionali) per azioni positive, per processi formativi etc.
Esaminando in concreto alcune possibilità sopra elencate, possiamo senza dubbio affermare che la certificazione di qualità si va sempre più affermando quale importante strumento di cultura organizzativa, mirata all’adozione di buone prassi di gestione in qualsiasi organizzazione. Le norme ISO sono in continua evoluzione e stanno passando da un primo orientamento della soddisfazione del committente a quello dell’attenzione al cliente/utente (esterno/interno?) nonché all’attenzione crescente verso un miglioramento continuo).
Un esame a parte(e non ci dispiacerebbe affatto se qualcuno stesse lavorando anche per andare in questa direzione) meriterebbe il porsi come obiettivo quello della qualità totale.
Da parte sindacale, si sta ponendo già da tempo una particolare attenzione all’obiettivo qualità del lavoro e nel lavoro. Esso è sicuramente il punto di partenza per arrivare ad una organizzazione del lavoro moderna, capace di coniugare, in maniera positiva, efficienza e produttività con la valorizzazione delle risorse umane. Non a caso, la partecipazione a processi e a progetti di riorganizzazione del sistema lavoro diviene la strada - forse ancora impervia – ma possibile per un cambiamento effettivo delle condizioni lavorative e, al loro interno, per l’abbattimento dei diversi tipi di discriminazione (tra cui quella salariale) che ancora oggi ne frenano l'evoluzione.
Ne è la prova la partecipazione della UIL ad un Progetto Xxxxxxxx, presentato dall’Associazione “PROGETTO DONNA”, il cui titolo “VISION 2000: Il genere nella certificazione di qualità”, indica con chiarezza quali siano le esigenze attuali espresse dalle donne impegnate nel mercato del lavoro della Comunità e le risposte che a tali necessità potrebbero essere date.
È innegabile che l’applicazione delle Pari Opportunità nel mondo delle imprese vive oggi, in Europa, due situazioni opposte e senza alcuna conoscenza l’una dell’altra.
Secondo le direttive della normativa europea Vision 2000, all’inizio del 2003 le aziende (certamente quelle più sensibili al discorso sulla qualità totale) che vorranno conformarsi a tale norma, si doteranno di una certificazione che è fortemente innovativa poiché è incentrata non solo sulle procedure ma anche sulla pianificazione delle Risorse (quindi anche umane). Si andrà dunque a verificare gli aspetti di management relativi alla Ricerca e Selezione del Personale, dei piani di sviluppo di carriera, della formazione, dei mansionari ecc.
Una attenta lettura di questa nuova normativa mette però in evidenza una grave lacuna: le Vision 2000 non prevedono una gestione delle Risorse Umane in un’ottica di genere. La procedura relativa alla selezione del personale, ad esempio, è indifferenziata, non prevede discriminazioni di genere, non è stata inserita quindi alcuna attenzione alla applicazione delle Pari Opportunità nelle imprese.
In una ottica completamente opposta, in Belgio e in Germania vengono indetti Premi di qualità per le aziende che applicano le Pari Opportunità. Per ottenere il premio, le imprese devono sottoporsi ad una sorta di check-up aziendale che va a verificare se è stata rispettata l’ottica di Parità in alcuni processi aziendali.
Non esiste però nessun Strumento/Guida che aiuti le aziende a conoscere ed applicare le Pari Opportunità, in forma di processi, procedure, azioni e strumenti di verifica. (rapporto ISFOL)
Le Pari Opportunità sono lasciate ancora una volta alla sensibilità del singolo manager o dell’imprenditore: non fanno parte dell’organizzazione, non hanno un ruolo chiave in azienda. Ruolo chiave che, incredibilmente, non prevedono neanche le Vision 2000. Inoltre i due mondi sembrano non “parlarsi”, rischiamo quindi di trovarci fra un anno con aziende che ottengono la certificazione sulla pianificazione delle Risorse Umane, pur non applicando specifiche azioni di pari opportunità, e imprese che ottengono premi europei di Qualità per le P.O. che non vedono riconosciuta (perché non prevista) questa loro specificità in una certificazione Vision 2000.
Attraverso questo progetto, quindi, l’obiettivo che vuole essere raggiunto è quello di preparare una Guida per tutti gli attori coinvolti nelle Risorse Umane (Certificatori, formatori della Qualità, Sindacati, Responsabili delle RU, Imprenditori) una sorta di Strumento-Guida, sperimentandolo – al momento – nelle Piccole, medie Imprese - per una gestione del personale con attenzione al genere.
Istruzioni, indicazioni, procedure ecc, quindi, che siano in grado di produrre un effettivo cambiamento culturale sia all’interno della normativa introducendo le Pari Opportunità nelle Vision 2000, sia contribuendo – in concreto – a far conoscere il problema di genere e le soluzioni da adottare nelle PMI, a quei manager che ne fossero totalmente all’oscuro.
La realizzazione, in sintesi, di uno strumento che permetta di praticare le PO nelle PMI; di preparare le aziende europee alle Equality Awards e di mettere in contatto il mondo della Certificazione con i premi Europei sulla Qualità di Genere, in modo che uno aiuti l’altro in un continuo sviluppo
Infatti, secondo il modello europeo di riferimento, un’azienda fa’ qualità totale quando, valorizzando adeguatamente le risorse umane a sua disposizione, soddisfa i clienti; soddisfa i dipendenti; soddisfa l’ambiente che la circonda (pensiamo al bilancio sociale ed agli stakeholder) soddisfa gli azionisti, coniugando equilibratamente competitività aziendale con il soddisfacimento del personale!
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(schema europeo)
Da questo schema é evidente che la soddisfazione dei dipendenti PUO’ ESSERE INTESA come realizzazione che tiene conto della pienezza delle persone coinvolte, comprensiva del genere di appartenenza!
Fermo restando il fatto che il “Sistema Qualità” é un codice di comportamento per tutte le persone presenti in azienda, indipendentemente dalla loro collocazione gerarchica, è condizione indispensabile però che sia conosciuto, condiviso ed utilizzato.
Per attuarlo in pieno non si può prescindere dal definire: CHI FA CHE COSA, COME, QUANDO, PERCHE’ E QUALI SIANO LE SUE POTENZIALITA’ ANCHE INESPRESSE…….
È proprio in queste regole, che reputiamo di fondamentale importanza per una diversa modalità di operare nel mondo del lavoro, la differenza che diviene qualità, plus valore e, quindi, soddisfacente (perché produttiva) per il mondo delle imprese, perché assolutamente correlata ad una corretta gestione delle risorse umane, basata sulla valorizzazione di potenzialità e di crediti personali da porre al servizio dell’economia e della mission aziendale, passando da una cultura organizzativa verbale, in mano a pochi, ad una cultura organizzativa di regole documentate, condivise e conosciute da tutti.
Regole codificate, chiare, di garanzia per tutti gli attori coinvolti che consentano alle aziende di sperimentare gli strumenti di flessibilità necessari ad accompagnare e promuovere i processi di sviluppo; alle persone il raggiungimento di effettive condizioni di occupabilità attraverso una offerta
formativa qualificante; alle istituzioni, la possibilità di operare in un contesto di regole comuni e condivise.
Quale rapporto esiste tra le potenzialità e le capacità di una persona ed il riconoscimento del suo patrimonio culturale e di attitudini personali, quale elemento aggiuntivo del suo curriculum professionale? Che importanza può avere – in termini anche di riconoscimento economico - la professionalità individuale all’interno del mondo del lavoro se questa non viene certificata e quindi definita “soggetto sociale”.
Ultimamente, c’è una crescente attenzione alla identificazione delle qualità “personali” sulle quale costruire professionalità future – alla luce soprattutto della situazione di “flessibilità” introdotta dai nuovi lavori o lavori atipici - e la risposta è nell’evoluzione della certificazione dei percorsi formativi che sta subendo continui e progressivi passaggi. Il Ministero del Lavoro, da tempo, attraverso il suo centro di formazione e ricerca ISFOL, sta valutando le possibilità di certificare competenze ed esperienze lavorative quale integrazione dei crediti formativi. In particolare, il Decreto ministeriale sulla certificazione nel sistema della formazione professionale, insieme al decreto sull’accreditamento delle strutture formative, definisce gli ambiti entro i quali andranno a svilupparsi le azioni di sistema previsti nella programmazione del FSE. Il Decreto indica istituzionalmente ed esplicitamente la competenza quale oggetto di certificazione dando la responsabilità alle Regioni di identificare nel “LIBRETTO FORMATIVO del cittadino lo strumento di raccolta e documentazione delle certificazioni acquisite.
Non sarà certo la “bacchetta magica” o la “pozione” con la quale cambiare radicalmente le cose, tuttavia la certificazione potrà esaltare – regolandole - esperienze, specificità, attitudini personali, culture dei lavoratori e delle lavoratrici operando un cambiamento anche nella struttura stessa del salario e dell’organizzazione del lavoro. Si tratta di un esplicito tentativo di rendere il lavoro meno centrale nella vita delle persone perché è lo stesso bagaglio di esperienze personali a dare valore al lavoro, rimettendo anche ordine nelle profonde discrasie tra attività lavorativa e tempo personale.
La necessità, infatti, di conciliare la vita lavorativa con quella familiare e quella del tempo per sé e per gli affetti, è sempre più avvertita nella sua urgenza sia dalle lavoratrici che dai lavoratori. La ricerca di diverse modalità di lavorare diviene una necessità per gli stessi datori di lavoro (perlomeno quelli più sensibili e preparati) che vedono nelle nuove tipologie l’opportunità da cogliere, con l’intento di tenere insieme gli obiettivi di produttività, efficienza, efficacia, qualità e soddisfacimento della politica aziendale.
Un esempio di questa opportunità viene offerto dall’impiego del telelavoro nel pieno rispetto delle indicazioni della Comunità e dell’applicazione delle normative sulla conciliazione e riorganizzazione dei tempi di vita e tempi di lavoro, ma anche come possibile opportunità (certamente non esente da rischi) per superare il divario salariale.
Lo studioso francese Xxxxxx Xxxxx nel volume “ La grande mutation du travail et de l’emploi” ha scritto:
“ il telelavoro può spingere a rimettere definitivamente in discussione il nostro modo di valutare la quantità di lavoro eseguito. Nell’organizzazione del lavoro, secondo il modello tradizionale, si misura solo marginalmente il lavoro compiuto e si misura, invece, anzitutto, la durata della presenza sul luogo di lavoro.”
Lo spunto ci serve per ragionare, serenamente e laicamente su questa possibilità.
Uno dei timori più diffusi riguardo il telelavoro a domicilio è quello che concerne il rischio di un eccessivo isolamento ed emarginazione di chi lo pratica che potrebbe essere identificato nel:
· non incontrare i colleghi/colleghe quotidianamente
· non confrontarsi con la realtà esterna, con il suo contenuto sia negativo che positivo (ma è poi vero, visto che oggi può essere la realtà esterna ad entrare nelle case?)
· essere, stanti le modalità correnti di contatto, praticamente irraggiungibili dal sindacato (ma chi lo ha detto che anche il sindacato, servendosi delle nuove tecnologie non possa rivedere il proprio modo di porsi?)
· isolarsi di fatto, nel chiuso del proprio appartamento, con il rischio di ricadere nel ruolo preponderante della “casalinga” anche quando non scelto prioritariamente (riflettiamo su quanti rapporti nel condominio o nel quartiere perdiamo, stando tutto il giorno lontani!)
· a questi timori legittimi, si contrappongono vantaggi non indifferenti, ovvero:
· gestire liberamente il proprio tempo
· diminuire lo “stress da spostamento” contribuendo a diminuire il traffico e l’affollamento nelle ore di punta nelle ore di punta, specialmente nelle grandi città
· migliorare quindi la qualità della vita personale ed il guadagno di tempo per se’
· organizzare meglio la necessità di contemperare il lavoro con gli affetti
Da queste considerazioni – fatte in modo estremamente schematico, emerge chiaramente che le donne della nostra generazione, ed anche quelle della generazione precedente, hanno vissuto (parlando in termini generali) il lavoro fuori casa, come: un segnale ed una possibilità di emancipazione, che le poteva sottrarre al ruolo (apparentemente senza alternative) di casalinga, moglie e madre. La possibilità, cioè, di incrementare il reddito famigliare – prima - ed una possibilità di autonomia economica poi, ma anche una grande fatica, per l’ansia di essere presenti su vari fronti ( essere buona madre; essere brava lavoratrice; essere curata nell’aspetto ma saper cucinare per la famiglia; fare…..(difficilissimo) carriera; militare in un partito o in un sindacato etc. etc. (sino alle ironiche interpretazioni della nostra brava Xxxxxx Xxxx nel famoso pezzo teatrale “Tutta casa, letto, chiesa, lavoro…etc”).
E’ anche vero che qualche illuminazione sul proprio stato (prontamente rimossa dai vari sensi di colpa) comunque affiorava . La si potrebbe agevolmente riconoscere nella frase di X. Xxxxx “…la vita è quello che succede mentre noi pensiamo ad altro”. E la vita di moltissime donne è stata quella dei loro molteplici impegni!
Quanto detto sin qui, vuole essere solo uno spunto di riflessione da cui partire per ragionare insieme, al fine di non cadere, anche noi, negli stereotipi su noi stesse e rifiutare le eventuali possibilità che le tecnologie offrono in termini di occupazione, di occupabilità, di progresso e – non ultimo – di reddito.
Per cui, alle obiezioni che possono venire dall’utilizzo di nuove forme di lavoro, ricordiamo che le “prigioni” non sempre sono equivalenti alla situazione di persona isolata. Le prigioni possono anche essere celle con dentro tre o quattro o più colleghi, non sempre graditi e, quindi, possono anche somigliare di molto più agli uffici delle aziende che non alla nostra casa e che si può essere “alienati” sia stando in azienda che stando al telelavoro a domicilio.
L’alienazione è l’incapacità di comprendere che si è sfruttati, anche se lo si percepisce inconsciamente. E si può essere sfruttati, senza accorgersene, sia stando sul lavoro sia stando tra le mura domestiche. Dipende da quanto possiamo scegliere tra opportunità diverse e dalla volontà con la quale fare queste scelte.
Tornando all’inizio del nostro discorso, è importante (e necessario, vorremmo aggiungere) che la valutazione sia della quantità che della qualità del lavoro non segua solo parametri tradizionali quanto obsoleti.
Paramentri che mantengono la donna lavoratrice in una condizione subordinata e dipendente rispetto all’evolversi della società in relazione al diritto alla liberazione dai bisogni ed al riconoscimento professionale e il soddisfacimento della propria attività lavorativa.
Sulla base degli obiettivi definiti lo scorso anno a Nizza, a supporto di un progressivo miglioramento delle condizioni dei propri cittadini e cittadine, l’Italia ha varato il NAP, Piano nazionale per lo sviluppo dell’occupazione, contro l’esclusione sociale e la povertà. Attraverso piani di integrazione e di inserimento delle fasce più deboli della società (donne, disoccupati e giovani in cerca di prima occupazione, anziani, ecc) si cercherà di ridurre sensibilmente il fenomeno dell’emarginazione sociale che sicuramente va ben oltre il problema della disoccupazione e dell’accesso al lavoro. Infatti essa tocca le diverse forme di disagio sociale che impediscono la piena partecipazione in ambiti quali l’istruzione, l’assistenza, la cultura, la casa, la formazione e, in ultimo, le opportunità di lavoro - e quindi di reddito .Interventi significativi di lotta all’esclusione sociale consentirebbero alle donne lavoratrici di superare la situazione di subordinazione economica e sociale nella quale continuano a dibattersi.
La mancanza di servizi di supporto alle famiglie è una delle cause del forte differenziale di reddito tra uomini e donne, ed è anche uno degli impedimenti alla piena realizzazione delle donne all’interno della società. Il NAP si inserisce nell’ampio processo di riforma e organizzazione dei servizi recentemente avviato in Italia con la L. 328 del 2000. Si tratta di un intervento globale che si pone l’obiettivo della costruzione di un sistema sociale caratterizzato dall’integrazione dei sistemi economici e finanziari con quello sociale. In questa prospettiva, sarà determinante la partecipazione degli attori sociali, Governo, sindacati, imprenditori, enti locali, Pubbliche Amministrazioni, allo sviluppo di una politica di programmazione partecipata che coinvolgerà negli interventi direttamente il territorio e su di esso si svilupperà.
CAPITOLO V
Esperienze - documenti e proposte a supporto della ricerca
L’obiettivo di una effettiva parità salariale, come abbiamo visto, non può essere raggiunto se, nel mondo del lavoro, non vengono dati strumenti ed opportunità a coloro che, per diversi motivi, sono tagliati fuori da percorsi di carriera, siano essi uomini o donne.
E gli strumenti sono: adeguata formazione, valorizzazione delle risorse umane, organizzazione del lavoro più flessibile. Sono anche gli strumenti di sostegno necessari alle imprese per rimanere nel mercato con elevati standards di competitività in quanto propedeutici ad una politica di impresa attenta al valore delle diversità e all’obiettivo delle “reciproche convenienze”.
L’obiettivo della reciproca convenienza porta sicuramente ad una attenta riflessione sull’attuale organizzazione del lavoro e sul modello imposto dalle esigenze della globalizzazione e dai cambiamenti del mercato. Si tratta di una rivoluzione profonda che investe non soltanto il mondo delle imprese ma l’intera società, perché cambia - rivoltandola di 180 gradi - l’ottica del lavoro e la sua centralità rispetto all’uomo. La stessa frammentazione dei lavori, le nuove tecnologie, la necessità di maggiori flessibilità per coniugare adeguatamente il tempo lavorato con il tempo vissuto, richiedono strumenti nuovi di valutazione e di valorizzazione delle risorse umane.
Già da due anni la programmazione del Fondo Sociale Europeo ci indica alcune strade da seguire ed individua nell’utilizzo del bilancio delle competenze lo strumento funzionale alla politica ed alla strategia occupazionale e ed al sistema delle imprese. Le sua potenzialità - come rilevato dall’ISFOL, l’ente di formazione e ricerca del Ministero del Lavoro – sono state sperimentate sul territorio nazionale italiano fino a raggiungere, in alcune Regioni, il carattere di prassi e di risposta alle richieste di servizi personalizzati.
Del resto, il ricorso a questo strumento è previsto nell’ambito della programmazione dell’obiettivo 3 del FSE per 2000/2006.
L’impiego del BdC è previsto nell’ambito dell’organizzazione dei servizi e delle specifiche esigenze di interventi per l’occupazione (Asse A); è stato indicato come strumento per la riqualificazione degli operatori e per la creazione di nuove figure professionali nei servizi per l’Impiego (Asse A1).
È stato altresì ritenuto funzionale all’identificazione di percorsi “individualizzati ed integrati” per l’ammissione di giovani ed adulti in percorsi di formazione e di supporto all’inserimento e al
reinserimento lavorativo (Asse A2);
Infine, è stato indicato dalle Regioni quale strumento di orientamento ed aiuto alle persone al fine di valorizzare le esperienze lavorative pregresse e le competenze spendibili in percorsi formativi e lavorativi (Asse A3).
La pratica del BdC è prevista, inoltre, nell’Asse C come strumento per regolare la scelta di percorso individualizzato in relazione alle motivazioni e specificità dell’utente” (Rapporto ISFOL).
L’Ente Poste Italiane S.p.A - nel suo passaggio da Ministero delle Poste e Comunicazioni ad Ente privato (1999/2000) – dovendo attuare una strategia di risanamento adeguandola alle esigenze di un servizio che fosse contemporaneamente efficiente, efficace e concorrenziale, ha operato una profonda trasformazione al suo interno che sicuramente ha dovuto fare i conti con una organizzazione del lavoro burocratica e statica oltreché dannosa per la mission della nuova azienda che si stava costituendo. Si è trattato di un restyling certamente non facile, e tantomeno indolore perché innanzitutto bisognava agire sul risanamento del bilancio, allora fortemente passivo, con significativi tagli alle spese. Per evitare effetti traumatici di riduzione dei costi e aumentare in prospettiva i ricavi si è dovuto fare i conti con un costo del lavoro estremamente pesante (90%) e, in un’ottica tipicamente aziendale, la soluzione più logica poteva essere quella di operare drastici tagli del personale.
In questo scenario, l’Ente Poste SpA ha messo a punto un progetto – al quale hanno partecipato le Organizzazioni sindacali CGIL CISL, UIL e la C.I.Q., Confederazione Italiana Quadri, imperniato sull’utilizzo del Bilancio delle Competenze quale strumento tecnico per proporre soluzioni innovative di intervento individualizzate e personalizzate per la valorizzazione delle risorse umane.
Nel perseguire una politica di risanamento radicale e non desiderando, tuttavia, attuare al suo interno i licenziamenti previsti, l’Ente Poste SpA, ha voluto compiere una operazione - che potremmo definire di inclusione sociale - sperimentando il Bilancio delle Competenze quale mezzo per il raggiungimento dell'obiettivo delle reciproche convenienze e, quindi, di una diversa valutazione del personale visto – appunto - come risorsa e non “peso morto”.
In questa operazione l’Ente Poste SpA, ha voluto investire sulle risorse umane verificandone le potenzialità, le attitudini, le esperienze, giudicando che queste fossero il valore aggiunto sul quale l’Azienda poteva contare per il suo avvio. Il personale del vecchio Ministero Poste e Telecomunicazioni era in grandissima parte composto da donne, sia impiegate, sia nelle posizioni di responsabilità (30/32%), con una presenza cospicua (24%) anche tra i dirigenti. In una analisi complessiva di valutazione delle risorse, non si poteva non tenere conto di questa presenza e del prezioso apporto di tante professionalità. Puntare sulle donne, sulle loro capacità professionali e personali, è stato dunque, per il nuovo Ente Poste, il “PLUS” da valorizzare nel radicale processo di risanamento e ristrutturazione in atto. Il passaggio da struttura istituzionale, burocratica ed ingessata nel sistema gerarchico dei ruoli , ad Ente privato di servizi all’utenza, ha inevitabilmente portato ad operare cambiamenti importanti in relazione ai compiti ed ai mestieri tradizionali del settore, aiutati in questo da una richiesta sempre più forte da parte del cittadino e dall’apporto delle nuove tecnologie.
La sottorappresentazione delle donne, anche nelle posizioni di responsabilità, è stata la molla che
ha portato i Dirigenti dell’Ente a fare una prima sperimentazione proprio tra il personale femminile. L’obiettivo, infatti, era quello di vedere come specificità femminili e nuove tecnologie potessero coniugarsi e “rendere” all’azienda in termini economici, di competitività e di presenza nel mercato, ed in termini di immagine (soprattutto come azienda nuova, attenta e sensibile ai suggerimenti che la Comunità invia in materia di professionalità e di occupazione).
L’iniziativa è stata rivolta a 60 donne/quadro, dirigenti di struttura territoriale, ed è stato interessante osservare come, nel momento del cambiamento, alcune attitudini tipicamente femminili, abbiano giocato positivamente nel gestire con flessibilità il passaggio dei ruoli (differentemente dalla rigidità dei loro colleghi maschi a staccarsi da schemi tradizionali e consolidati) dando un sostanziale contributo al rinnovamento della struttura.
Le competenze personali, ovvero il bagaglio di saperi, di vissuto, di professionalità e di esperienze maturate, sono divenute il focus della sperimentazione, fornendo contemporaneamente uno strumento innovativo per la valorizzazione delle risorse umane e la conseguente crescita formativa e di carriera.
Accordo CGIL, CISL, UIL e CONFAPI sull’applicazione dell’articolo 9 - LEGGE 53/2000
Firmato dalle Confederazioni Sindacali CGIL, CISL, UIL e dalla Confapi l’Accordo “Azioni positive volte a conciliare tempi di vita e di lavoro nelle piccole e medie imprese” è il primo accordo in applicazione dell’art. 9 della L.53/ per una possibile e migliore conciliabilità tra i tempi di vita ed i tempi di lavoro per le lavoratrici ed i lavoratori.
La firma di questo accordo, risponde ad una sollecitazione rivolta dai Coordinamenti Donne di CGIL, CISL e UIL, e i rispettivi competenti Servizi Confederali, alle Associazioni imprenditoriali invitandole ad una pronta applicazione delle norme che prevedono il miglioramento della vita lavorativa in rapporto alla vita familiare e affettiva – come previsto dall’articolato di legge.
Finora solo le Piccole Imprese si sono mostrate sensibili e pronte al cambiamento auspicato dalla legge sui Congedi parentali. Con questo accordo sarà facilitato lo sviluppo della bilateralità nelle politiche di pari opportunità tra donne e uomini nel quadro delle relazioni industriali tra le Parti, dando opportunità di reinserimento – attraverso iniziative congiunte – a lavoratrici e lavoratori, dopo il periodo di congedo per maternità, favorendo quindi quella condivisione del lavoro di cura che è una delle cause più rilevanti alla base della discriminazione salariale tra i sessi.
Anche l’ABI, Associazione Bancaria Italiana, attraverso l’Ente Bilaterale per il Credito (ENBICREDITO) ha promosso una iniziativa che coglie ambedue le opportunità, ovvero offrire azioni positive esclusivamente alle lavoratrici e analizzare i profili professionali connessi alla crescita professionale del personale femminile al rientro dal loro periodo di astensione dal lavoro per maternità.
CAPITOLO VI
Osservazioni e suggerimenti
Del Coordinamento pari Opportunità UIL
Interessanti possibilità - come già visto con l’esperienza ENBICREDITO - possono venire dal terreno degli Enti Bilaterali.
Si tratta di Enti costituiti volontariamente tra le parti sociali (Associazioni padronali e Sindacati Nazionali di categoria) paritetiche e con compiti definiti statutariamente ( nella stesura dello statuto si potrebbe tenere conto della necessità di superare il divario salariale come obiettivo condiviso).
COMPITO PRIMARIO DEGLI ENTI BILATERALI E’ QUELLO DI PROMUOVERE IL DIALOGO TRA LE PARTI SOCIALI.
Tra i loro compiti specifici (definiti per statuto) ci sono:
· promuovere attività formative
· promuovere ed assumere ogni iniziativa utile all’accesso ai finanziamenti comunitari, nazionali, regionali
· promuovere ogni iniziativa utile a fornire e certificare le competenze professionali come da legge 196/97
· realizzare ogni attività collegata all’attuazione degli impegni contrattuali in materia di formazione
Schede dei settori più significativi individuati nell’indagine
SETTORE CREDITO
I dati si riferiscono ad un campione di istituti di credito appartenenti a diverse tipologie, grandi, medie e banche a carattere locale, presenti sul territorio nazionale e dislocate (con le loro Direzioni Generali) sia al Nord, al Centro e al Sud, nonché firmatarie del CCNL Credito del 1999.
I dati sono stati estrapolati da ricerche e studi di A.B.I. Banca d’Italia, excell e dalle scarse e
spesso incomplete informative aziendali (art. 9 Legge 125)
Presenza femminile media
all’interno del settore Credito:
36%
(crescita percentuale di due punti in due anni), quindi lenta ma progressiva
all’interno della dirigenza del Credito:
0,03%
All’interno dei quadri direttivi del Credito:
· complessivamente scarsa, concentrata comunque ai livelli più bassi della categoria anche se in lento ma costante aumento.
La denominazione delle mansioni viene ricondotta ad aree e profili professionali con carattere di neutralità.
Le cosiddette competenze femminili, capacità relazionale, capacità di lavoro a rete o a gruppi, ecc. – non trovano specifiche descrizioni e menzioni, ma nei fatti vengono utilizzate per profili o qualifiche professionali per le quali siano necessarie abilità intesa come affidabilità, accoglienza, gentilezza, cortesia e cura (es. addetti alla clientela, retail in senso generico)
Orario di lavoro
· 37,30 ore settimanali (ovvero 7 ore e 30 minuti giornalieri X 5 giorni) al cui interno possono essere previste forme di flessibilità con “nastri standard” dalle ore 8.00 alle ore 17,45 ed extra standard dalle ore 7.00 alle ore 19,30.
· Sono previste procedure di confronto sindacale su flessibilità ed orari particolari.
Tipo di Contratto
· tempo indeterminato donne = 33,79%
· tempo determinato donne = 54,55%
· contratto formazione lavoro donne = 39,10%
· part time donne = 91,09% | |
Permessi per Maternità | |
Utilizzati dal personale femminile | 98% |
Utilizzati dal personale maschile | 2% |
Ore di Formazione |
Meno di 1/5 del totale delle ore annuali viene dedicato al personale femminile
Retribuzione annua lorda per Livelli/Mansioni
Nel settore Credito si riscontra uno dei differenziali più alti del mondo del lavoro in Italia:
· l’85% sul totale delle retribuzioni dell’area impiegatizia
Cause individuate:
· inquadramento di ingresso ai livelli più bassi
· minore anzianità di servizio
· maggiore incidenza del part time
· minore attribuzione di premi ed incentivi in quanto sottovalutato il contributo femminile fatto di competenze non riconosciute
· minore incidenza delle diarie per missioni e trasferte
· maggiore incidenza dei permessi non retribuiti
Come si può notare, il 36% di presenza femminile all’interno del settore è indicativa di un valore contenuto nelle percentuali, se non addirittura basso. La stessa esigua percentuale di donne dirigenti è emblematica di un sistema sociale e di una organizzazione del lavoro ancora coniugate al maschile all’interno delle quali forti sono le resistenze all’abbattimento degli stereotipi di genere: La mancanza di una cultura di superamento di questi stereotipi produce la marginalità delle donne nel lavoro. Il non riconoscimento delle caratteristiche e specificità femminili come competenze professionali è senza dubbio di ostacolo al processo di cambiamento che sta subendo attualmente il mondo del lavoro in Italia e nel resto dell’Unione Europea.
È un’ottica miope che, per mantenere “privilegi” tradizionalmente accreditati agli uomini, rischia di rendere – ancora per molto tempo – estremamente difficile il processo di modernizzazione culturale imposto (in modo assolutamente perentorio) dall’economia globale e dalle esigenze dei mercati.
Nel concreto, se andiamo ad analizzare le singole voci che costituiscono l’impianto del regime retributivo, ci rendiamo conto che – a partire dall’orario di lavoro fino alla retribuzione annua lorda suddivisa per di diversi livelli di mansione - le discriminazioni retributive nei confronti delle donne lavoratrici sono evidenti e certificabili
Infatti, se nel settore Credito l’orario di lavoro medio settimanale è di 37 ore e 30 minuti, l’impiego del part time utilizzato in maniera così massiccia dal personale femminile (91,09%) è indicativo di una situazione di reddito femminile tendente al ribasso. Chiaramente lo strumento del part time è una scelta obbligata se si vogliono conciliare vita lavorativa e vita familiare, tuttavia se vi fossero le condizioni politiche e sociali (con l’attivazione di servizi family friendly, migliore utilizzo dei congedi parentali, orari di lavoro flessibili, part time orizzontale anche ai livelli più bassi, turnazioni e utilizzo del job sharing, ecc.) riteniamo che sarebbero molte le donne che opterebbero per il full time, accedendo in tal modo a tutti quei benefits (dai premi incentivanti al salario aggiuntivo legato non solo alle performances ma alla presenza) che elevano il reddito di molti punti percentuali.
La stessa formazione rimane appannaggio dei lavoratori. Infatti, in questo settore soltanto 1/5 del totale del monte ore annuo, previsto contrattualmente viene utilizzato (o, meglio, messo a disposizione) dalle donne. Questo evidentemente preclude eventuali progressi di carriera che – come é logico - vanno a ripercuotersi sul reddito annuo. Inoltre, esaminando i dati - incrociandoli con quelli relativi alla formazione – i permessi di maternità utilizzati dal personale maschile sono solo del 2% contro il 98% utilizzati dalle lavoratrici.
Le cause individuate ci permettono di valutare ulteriori discriminazioni di salario.
È pur vero che l’inquadramento di ingresso avviene per livelli e quindi uguale per uomini e donne; sono comunque le donne a rimanere per lungo tempo al medesimo livello di entrata. Anche la minore anzianità di servizio e la sottovalutazione delle competenze specificatamente femminili comporta un salario inferiore ed una diminuzione dell’attribuzione di premi ed incentivi; come, pure, incide con effetti negativi sulla retribuzione, la scarsa propensione e, più spesso, l’indisponibilità delle donne ( impedite in questo da impegni familiari non condivisi con i propri coniugi) ad andare in trasferta in missione.
INPS
Istituto Nazionale di Previdenza Sociale
Contratto nazionale di Lavoro: Pubblico Impiego
Dipendenti 33.499
Di cui
Uomini 15.872
Donne 17.627
Dirigenti 1.439 Di cui
Uomini 1.099
Donne 346
ANALISI DEL SETTORE
(dal rapporto 2001 del Comitato di Pari Opportunità dell’INPS)
L’ultima indagine (2000) del rinnovato Comitato per le Pari Opportunità sulle risorse umane dell’INPS e sulle loro potenzialità, allo scopo di evidenziare l’attuale presenza femminile nei diversi percorsi professionali ci ha portato alla considerazione che la sperequazione tra uomini e donne aumenta man mano che progredisce il percorso di carriera, a conferma del fatto che quando le scelte diventano discrezionali anche gli ostacoli alla valorizzazione delle risorse femminili diventano più forti.
L’Istituto vanta una presenza femminile notevole, pari ad oltre la metà dei dipendenti, Nonostante ciò, le donne sono poco presenti nelle posizioni di maggiore prestigio. Le dirigenti rappresentano, infatti, solo il 20,5% del totale dei dirigenti INPS, (Contro il 22, 4% di presenza femminile dirigenziale nella Pubblica Amministrazione, come rilevato dal documento di verifica dell’applicazione della direttiva Prodi-Finocchiaro del 7 marzo 2000) e la percentuale dal 1994 (anno del primo rilevamento statistico) ad oggi, è rimasta pressoché immutata nonostante che nell’ultimo decennio siano state assunte molte laureate, fortemente motivate all’impegno e allo sviluppo professionale, con requisiti culturali e professionali che le rendono idonee a ricoprire posizioni di vertice. Ciò che le penalizza è il consolidamento di scelte organizzative che le estranea dai circuiti e dai percorsi che contano. A questo si aggiunga una generalizzata mancanza di considerazione del notevole potenziale che le donne rappresentano in termini di energie e di conoscenze oltre che di professionalità.
Dai dati forniti dalla Direzione Centrale Sviluppo e Gestione Risorse Umane scaturisce che:
1.- Dei 599 dirigenti attualmente in servizio, solo il 20,5% (pari a 123 dirigenti) è rappresentato da donne, mentre il restante 79,5% (476 dirigenti) dei posti è occupato da uomini.
2.- Delle 123 dirigenti donne, solo due, pari all’1,6% del loro totale, hanno incarico di dirigente generale. Delle due, una è dirigente di 1^ fascia e l’altra è di 2^ fascia con incarico dirigenziale generale. La maggior parte delle dirigenti (121 pari al 98,4%) è invece di 2^ fascia.
Il numero dei dirigenti generali uomini (30 unità, di cui 10 di 2^ fascia con incarico generale) rappresenta il 6,3% del loro totale.
3.- Considerando in particolare i dirigenti generali (prima fascia), si rileva che solo una donna ricopre tale qualifica. Data l’esiguità dei numeri (il loro totale è infatti di sole 21 unità), la presenza femminile rappresenta il 4,8% del totale, contro il 95,2% dei maschi.
Analoghe considerazioni valgono per i dirigenti di seconda fascia con incarico di livello dirigenziale generale. Anche in tal caso figura una sola donna che rappresenta il 9,1% del totale degli 11 dirigenti considerati.
Considerando, infine, i dirigenti di seconda fascia (al netto di quelli appena analizzati), risulta evidente che la presenza femminile cresce notevolmente, raggiungendo il 21,3% del totale.
4.- Volendo analizzare più in dettaglio le tre categorie dirigenziali, si è tenuto conto, per ciascuna fascia, dell’età media, dell’anzianità media di lavoro e dell’anzianità media nella qualifica.
I dirigenti di prima fascia sono, nel loro insieme, mediamente più anziani (61 anni di età) di quelli di seconda fascia (55 anni di età).
Anche l’anzianità media di lavoro e quella nella qualifica dirigenziale registrano lo stesso tipo di divario:
· dirigenti di prima fascia: 36 anni medi di lavoro e 22 anni medi di anzianità nella qualifica;
· dirigenti di seconda fascia: 27 anni medi di lavoro e 8 anni medi di anzianità nella qualifica.
Considerando gli elementi suddetti distintamente per maschi e femmine, è possibile concludere, come si evince dai grafici successivi, che le dirigenti sono mediamente più giovani dei colleghi, hanno una minore anzianità di lavoro e una minore anzianità nella qualifica.
5.- In merito al titolo di studio posseduto dai dirigenti si rileva che, in generale, solo 32 dirigenti, pari al 5,3% del totale, possiedono il diploma, mentre il rimanente 94,7% è laureato. Tra le donne si registra una maggiore incidenza delle diplomate sul totale delle dirigenti, rispetto alla analoga percentuale riferita ai dirigenti: 7,3% contro 4,8%.
6.- Particolarmente interessante risulta l’analisi dei dirigenti per posto funzione ricoperto.
Considerando in particolare i dirigenti regionali di 1^ fascia si rileva che nessuna donna ricopre tale
incarico. Negli attuali 15 posti funzione compaiono, infatti, quindici uomini e zero donne.
Considerando poi i dirigenti di 2^ fascia si nota che il 90,9% del totale femminile è responsabile di area, l’8,3% è dirigente provinciale e solo lo 0,8% è dirigente regionale. Per gli uomini invece la situazione è diversa: i responsabili di area sono il 69,3%, i direttori provinciali il 29,8% e quelli regionali lo 0,9%.
I successivi grafici mostrano la distribuzione dei tre posti funzione in percentuale rispetto al sesso. La maggiore presenza femminile è concentrata tra i responsabili di area con il 26% del totale, mentre tra i direttori provinciali le donne rappresentano solo il 7%. Relativamente ai direttori regionali di II livello, la presenza femminile balza al 20% per merito dell’unica donna presente su un totale di sole cinque unità .
7.- La distribuzione dei dirigenti sul territorio ed il conseguente peso tra i sessi nelle varie regioni, risente del fatto che la Direzione Generale assorbe buona parte della Dirigenza, rappresentando, per ovvi motivi, un notevole polo d’attrazione per i più alti vertici dell’Istituto. Le uniche due donne con incarico di prima fascia dirigenziale operano, infatti, in Direzione Generale.
La distribuzione dei dirigenti di 2^ fascia per regione di lavoro, al netto di quelli che lavorano in Direzione Generale e al netto di quelli con incarico dirigenziale generale, evidenzia una differente presenza dei due sessi sul territorio nazionale. Scendendo dal Nord al Sud le donne dirigenti diminuiscono notevolmente a favore di una più folta presenza di dirigenti
AGIP PETROLI SpA
Stabilimento di Gela - Sicilia
Il contratto nazionale di lavoro (CCNL) è quello del settore energia
Numero di Dipendenti 1471
di cui uomini 1429
donne 42 (3,5%)
La presenza femminile è concentrata soprattutto nei livelli impiegatizi con la presenza di un solo quadro/donna
La situazione quindi è la seguente:
· Operatori di impianto
· Tecnici/addetti di laboratorio/esperti (la presenza femminile è del 15%)
· Quadri Uomini 92
Donne 1
· Dirigenti uomini 9
Donne 0
La denominazione delle mansioni viene ricondotta ad aree e profili professionali con carattere di neutralità.
Le cosiddette competenze femminili capacità relazionale, capacità di lavoro a rete o a gruppi, ecc.
– non trovano specifiche descrizioni e menzioni e – apparentemente - non esistono fattori discriminanti nelle caratteristiche indicate nella mansione
Orario di lavoro settimanale è di ore 37.40 (orario giornaliero ore 7,45,dalle ore 7.57 alle ore 17.00)
La retribuzione media mensile è di 1500 euro (annua 21000 euro)
È previsto il salario di partecipazione legato non alla presenza bensì ad obiettivi di produttività e redditività dell’azienda con premi “Una Tantum” o assegni “ad personam” .
Viene riconosciuta l’anzianità di servizio come elemento di promozione e passaggio di carriera (la
percentuale attuale è tuttora a favore degli uomini : 92 a 1).
L’orario straordinario viene effettuato soltanto occasionalmente e per lo più dagli uomini.
Il part time viene utilizzato raramente: dall’ultimo rapporto aziendale risulta che sono soltanto 2 le dipendenti che attualmente lavorano a tempo parziale.
Ancora meno vengono utilizzati i congedi parentali: attualmente i fruitori di tale strumento sono 5 di cui:
uomini 2
donne 3
Il rapporto aziendale relativo all’evoluzione annua delle retribuzioni e conseguenti progressioni di carriera dei dipendenti e delle dipendenti dell’AGIP Petroli SpA ci offre un quadro apparentemente positivo. In questa azienda le donne sono soprattutto impiegate o analiste di laboratorio. Non esiste alcuna donna inquadrata al livello operaio per cui, al momento dell’assunzione, la donna ha un buon livello di inquadramento; tuttavia, anche se non esiste alcuna discriminazione nel cosiddetto salario di entrata o di inquadramento rispetto agli uomini, sono poche le donne che passano dal livello impiegatizio più basso ad uno più elevato o a quello di “quadro”, con una lunga permanenza nel medesimo livello di ingresso che rende statica la situazione retributiva (evidenziando, da parte dell’azienda, comportamenti se non discriminatori, certamente poco sensibili all’applicazione corretta di politiche di Pari Opportunità) ripercuotendosi in maniera negativa sul reddito femminile.
Sono ancora le donne ad utilizzare i permessi non retribuiti per sopperire alle necessità del lavoro di cura e, anche se in apparenza non ci sono ostacoli alla partecipazione ai premi incentivanti (Una Tantum o assegno ad personam”) questi sono percepiti soprattutto dai dipendenti uomini in virtù della loro maggiore disponibilità ad effettuare ad esempio, qualora richiesto, orario straordinario, e in virtù della dinamicità della mansione relativa all’inquadramento.
Le stesse promozioni, che pure hanno riguardato un numero limitato di uomini divenuti dirigenti, hanno visto soltanto una donna passare dal livello impiegatizio a quello di quadro.
Le ore di formazione dedicate alle donne sono nettamente inferiori a quelle utilizzate dagli uomini. Questo purtroppo è un dato comune ad altri CCNL, e dimostra in modo inequivocabile quanto importante sia la formazione in relazione alle politiche aziendali e essa incida sul sistema retributivo. Quindi un minore utilizzo degli strumenti formativi (a causa soprattutto di orari poco flessibili e non compatibili con le necessità familiari) costituisce per le donne un handicap difficilmente superabile e che inevitabilmente si ripercuote sui percorsi di carriera e sugli avanzamenti professionali e quindi salariali.
CERAMICA SANT’XXXXXXXX - Ferrara
Azienda Ceramica (produzione di piastrelle e refrattari)
CCNL Ceramica - settore Chimica
Dipendenti 370
Uomini 249
Donne 121
di cui 90 operaie in produzione 31 impiegate
livelli di inquadramento:
Uomini
A;
X0, X0; X0; X0 X0; C2; D2; X0 X0; X0
Xxxxx
X0; C1; D1; E1; F C2; D2 C3; D3
La maggioranza delle donne è inquadrata nel livello D3.
La descrizione delle mansioni non tiene assolutamente conto delle specificità femminili evidenziando in tal modo una palese discriminazione tra uomo e donna alla quale, ancora troppo spesso viene chiesta una maggiore flessibilità (intesa come disponibilità ad accettare nella pratica lavorativa ruoli inferiori alle mansioni di inquadramento) a discapito della professionalità.
Le donne all’entrata in servizio sono impiegate soprattutto nel settore Produzione, (livello F/D) o negli uffici. Gli uomini nel settore produzione e al livello D di inquadramento. Tra le qualifiche è prevista quella degli apprendisti - livello D senza ipo.
La retribuzione media (categoria D) è di circa 1.000,00 euro mensili.
È previsto come premio incentivo il superminimo contrattuale (in busta paga)
Caratteristiche discriminanti:
· superminimo in realtà percepito in massima parte dagli uomini
· permessi non retribuiti utilizzati solo dalle donne
· congedi parentali utilizzati solo dalle donne
· orario straordinario effettuato solo dagli uomini perché alle donne non richiesto
· Formazione quasi esclusivamente maschile
Azienda VODAFONE OMNITEL SPA
Si tratta di una azienda nata dalla ristrutturazione della OLIVETTI al momento del suo ingresso nel settore delle telecomunicazioni. Il contratto nazionale di riferimento è tuttora quello Metalmeccanico.
L’Azienda conta 1176 dipendenti:
Uomini 431
Donne 745
L’inquadramento contrattuale prevede il livello impiegatizio e il livello quadro/dirigente.
Tra gli impiegati Uomini 404
Donne 741.
Tra i quadri/Dirigenti Uomini 27
Donne 4
All’interno del settore, a parità di lavoro, non esistono mansioni diverse per uomini e donne, e la descrizione delle mansioni è assolutamente neutra e non tiene conto delle competenze femminili che in tale settore sono utilizzate ma non valorizzate.
L’orario di lavoro giornaliero (pause escluse) è di 4 ore (8.30 – 12.30 - 13.30 - 17.30) per i centralinisti.
Viene attuata una articolazione dell’orario diversificata per i turnisti part time/full time in quanto la caratteristica del settore (Call Center) copre l’intero arco delle 24 ore (08,30 – 24.00)
Al momento dell’entrata in servizio sia uomini che donne vengono assunti con la qualifica di Impiegato/impiegata e l’anzianità media riconosciuta è di 3/5 anni.
La retribuzione base è quella prevista dal CCNL e – come premio complementare - è previsto il “premio di risultato” ovviamente legato alla presenza.
L’Azienda dispone di un Fondo di solidarietà grazie al quale le lavoratrici in congedo facoltativo per maternità percepiscono, per il periodo corrispondente (6 mesi), lo stipendio per intero anziché, come stabilito per legge, il 30% della retribuzione.
Giudichiamo questa prassi aziendale assai favorevole alle donne come, al momento della sua entrata in vigore, lo era quella relativa alla fruizione di turni agevolati per le neo mamme fino al terzo anno di età del bambino.
Agli inizi dell’attività, il servizio di call center era affidato ad un numero limitato di personale femminile e, in quel periodo, fu concessa alle donne in maternità la possibilità scegliere, per i primi tre anni di età del bambino, un turno “amico” con l’intento di conciliare le necessità lavorative con quelle legate all’assistenza ed alla cura dei piccoli. Questa articolazione dei turni prevedeva che le le lavoratrici in questione effettuassero sempre il turno mattutino (ovvero dalle 08,30 alle 13,30 e che potessero rimanere a casa durante il sabato e la domenica. Era stata una opportunità concessa volentieri dall’azienda che probabilmente non aveva valutato a fondo lo sviluppo dell’attività dei call center e dei servizi ad esso connessi, e conseguentemente, dell’aumento della domanda di occupazione femminile. Attualmente, quella che all’inizio era una concessione autonoma dell’azienda (non legata ad accordi sindacali) destinata a pochissime lavoratrici, e quindi spendibile in termini di immagine e buona prassi, sta divenendo onerosa in termini di costi perché l’articolazione dei tempi di lavoro rischia di non essere più praticabile. Un dato è certo: sicuramente non verrà riproposta in occasione del prossimo rinnovo contrattuale.
CONCLUSIONI
In Italia sta per aprirsi una non facile fase di rinnovi contrattuali, immediatamente successiva all’entrata in vigore della moneta unica e condizionata dalle difficoltà di un mercato del lavoro in profondo mutamento, da una economia caratterizzata dalla grave crisi dei settori industriali e gravata da un’inflazione in ripresa strisciante.
Questa situazione si ripercuote pesantemente nella vita reale del Paese con implicazioni notevoli sul reddito dei lavoratori ed in particolare delle lavoratrici, rischiando di far perdere di vista, ahinoi! le progressive conquiste sociali ottenute, seppure lentamente, in questi ultimi 10 anni.
La partecipazione della UIL al progetto “Igualdad salarial en los convenios colectivos” è stata l’occasione per esaminare con un’ottica diversa, di partecipazione attiva, il forte gap retributivo tra lavoratrici e lavoratori tuttora esistente in Italia e che costituisce un notevole elemento di discriminazione.
La debolezza economica delle lavoratrici italiane, come emerge dalla ricerca, è imputabile a diversi fattori, tra i quali, non ultimo, il cambiamento e l’evoluzione del ruolo della famiglia che, se da un lato ha visto le donne sempre più protagoniste, sempre più spesso indipendenti, sempre più spesso capofamiglia, dall’altro le ha viste anche più sole e meno assistite in tutte quelle funzioni che tradizionalmente la donna aveva sempre svolto, ovvero l’attività di cura ed assistenza all’interno del proprio nucleo.
La nostra ricerca ha messo in evidenza alcuni degli elementi di debolezza che impediscono alle lavoratrici italiane il raggiungimento della piena uguaglianza retributiva con i loro colleghi uomini.
Ne esistono però anche di positivi che abbiamo analizzato con interesse e che sono frutto della mediazione che il sindacato italiano ha fatto e che continuerà a fare anche nella prossima stagione contrattuale. Questo ci consente di guardare al problema della disparità salariale con maggiore ottimismo anche perché il contributo di altre ricerche avvenute in altri Paesi della Comunità, sarà lo stimolo necessario per le lavoratrici a ricercare – attraverso l’istituto della contrattazione – l’affermazione del diritto ad una “retribuzione uguale per un lavoro di uguale valore”.
La nostra ricerca ha dimostrato, senza ombra di dubbio, che la donna lavoratrice è sempre più soggetto attivo del sistema produttivo italiano e la massiccia presenza femminile in ambiti nuovi legati alla new economy o alle nuove tipologie di lavoro, costituisce – anche se con prezzi non indifferenti da pagare - un elemento essenziale dell’evoluzione del mercato del lavoro, all’interno del quale le donne, dunque, sono sempre più protagoniste del cambiamento sociale ed occupazionale del Paese.
Ne consegue che non è più pensabile escludere le donne dalla gestione dei processi, delle inevitabili flessibilità, degli strumenti (sperimentati, concertati o contrattati, ma sempre condivisi) necessari per concorrere utilmente e con efficacia al governo ed allo sviluppo della persona, del suo lavoro, della sua professionalità. Né è possibile escludere la lavoratrice, proprio perché “percettrice di reddito” che contribuisce allo sviluppo dell’economia del suo paese, nella definizione della sua posizione in seno alla società.
Questa “chiave” di lettura ci pone tutti, in primo luogo il sindacato, di fronte alla necessità di una riflessione approfondita sul tradizionale modello contrattuale e sul mutato concetto di rapporto di lavoro.
Ci consente anche di prendere atto che, di fronte al continuo cambiamento che le imprese debbono operare, il rapporto che la lavoratrice ed il lavoratore stringono con esse aumenta il valore del rinnovato “patto”, in quanto sempre più basato sul principio di convenienze utili ad entrambe le parti e sul mantenimento - seppure costantemente ridefinito e rinegoziato - di questo equilibrio,.
L’azienda moderna e proiettata nella globalizzazione, oggi chiede, infatti, ai propri dipendenti soprattutto flessibilità e disponibilità al cambiamento; ampliamento e specializzazione delle competenze, maggiore partecipazione e maggiore coinvolgimento nei piani di impresa.
La donna lavoratrice – al pari dei suoi colleghi uomini – è direttamente coinvolta in questo processo, quindi, se vuole viverlo da protagonista e in modo non marginale, ha bisogno, anch’essa, di conoscere gli obiettivi ed i programmi dell’azienda; di essere più coinvolta nelle scelte che la riguardano e di essere certa di costituire un elemento forte di investimento attivo che risulti soprattutto coerente con le proprie peculiarità.
Solo in questo modo la lavoratrice può essere in grado di costruire e gestire il proprio progetto professionale in una condizione di assoluta parità, anche retributiva, che può contribuire a cambiare una situazione di inferiorità vissuta con disagio dalle donne e dalla quale si può emergere solo con strumenti contrattuali chiari e condivisi.
La ricerca ha individuato alcuni strumenti ed azioni che, nella loro applicazione, potranno sicuramente costituire un elemento di novità contribuendo ad un miglioramento delle condizioni lavorative delle donne a vantaggio anche del loro reddito personale.
Il bilancio delle competenze – ad esempio (sperimentato già in Francia) - per la sua flessibilità e versatilità di ottimizzazione, valutazione e impostazione, può sostenere la valorizzazione della diversità di genere concorrendo efficacemente al rinnovamento del modello delle relazioni tra lavoratori/lavoratrici ed azienda – ed anche tra le parti sociali. Uno degli obiettivi che attraverso il
B.d.C. si potranno raggiungere è, a nostro avviso, quello della parità salariale attraverso lo strumento della contrattazione collettiva, in un’ottica di valorizzazione piena delle specificità di genere.
La presupposta neutralità del Contratto Collettivo di lavoro – lo abbiamo potuto constatare durante tutto il lavoro d’analisi - non mette in evidenza le differenze che producono discriminanti nel trattamento retributivo delle lavoratrici.
Il superamento di soluzioni “standardizzate” che tengano conto di quanto precedentemente detto, non significa togliere valore al CCNL. La nostra sfida e la nostra ragion d’essere stanno nel riuscire a portare la contrattazione collettiva ad una nuova articolazione sino (magari) a raggiungere e rappresentare- il più possibile - le esigenze specifiche delle persone e dei loro obiettivi.
Perché questo avvenga è opportuno che le proposte contrattuali e la pratica dei sindacati di categoria accettino, comprendano pienamente – valorizzandole - le caratteristiche professionali specifiche delle lavoratrici. La professionalità femminile, infatti, non è solo frutto di “saperi” e di “saper fare”, ma anche di capacità di esprimere e di promuovere collaborazione;
di capacità e volontà di affermarsi in un percorso di carriera; di assunzione (anche individuale) di responsabilità;
di capacità di essere protagonisti della competizione aziendale e di sistema (nell’economia nazionale e nel sistema Europeo).
Questo deve necessariamente portare ad un riconoscimento anche di carattere retributivo La ricerca sui differenziali salariali ci offre l’occasione di identificare e delineare con chiarezza quali dovranno essere gli obiettivi specifici della prossima stagione contrattuale: chiedere a tutte le categorie impegnate nei rinnovi contrattuali, di sviluppare un confronto sul tema delle differenze salariali e sulle proposte per il loro abbattimento. Proposte che potrebbero essere l’applicazione di buone prassi e non vere e proprie formulazioni rivendicative, giacché queste potranno venire solo nell’articolazione e nell’autonomia delle varie categorie e dei vari livelli di contrattazione.
Questo nostro contributo ad una indagine sui differenziali salariali, proposta dalla UGT spagnola e che ha coinvolto diversi Paesi della Comunità (Spagna, Olanda, Germania, Grecia e Italia), è stato reso possibile grazie alla collaborazione ed all’impegno di care amiche che qui di seguito vogliamo menzionare. A loro va il nostro ringraziamento e la nostra soddisfazione per il lavoro compiuto.
Xxxxxxx Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxx Xxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxx Xxxx Xxxxx Xxxxx Nirvana Nisi
Xxxxx Xxxxx
per il contributo dato alla ricerca, é d’obbligo una menzione particolare per i testi del prof. de Xxxx e per i dati forniti dalla Uilca, dall’Abi, dall’Istat e dall’Isfol.