Associazione
Associazione
Capirsi Down
Monza
Accordo di programma L.285/97 – az. 4:
Comuni di Monza, Lissone, Xxxxxxxx, Sovico, Vedano al Lambro, Villasanta
UONPIA
Unità Operativa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza
Passaggio in Rete
Rete di 16 scuole del Distretto 63 Laboratori territoriali per il successo formativo
COSTRUIRE
IL PIANO EDUCATIVO INDIVIDUALIZZATO:
Il bambino con ritardo mentale – percorsi di integrazione
Questa pubblicazione è realizzata dal centro documentazione del
Progetto Xxxxx Xxx in attuazione della legge 285/97
La pubblicazione è a cura di Xxxxxxxx Xxxxxxx e Xxxxxxx Xxxxx.
Il centro documentazione è un servizio del Comune di Lissone – Assessorato alle Politiche Giovanili; responsabile del servizio: xxxx. Xxxx Xxxxxxx. In collaborazione con:
Anno europeo delle persone con disabilità
Gruppo di lavoro
Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxx
Università di Milano-Bicocca - Clinica di Neuropsichiatria Infantile
Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Università di Milano-Bicocca– Facoltà di Scienze della formazione
PASSAGGIO IN RETE:
Prof. Xxxxx Xxxx - Dirigente scolastico;
Xxxxx Xxxxxxx, Xxxx Xxxxxxxx, Xxxx Xxxxxxxx - insegnanti.
COMUNE DI MONZA:
Xxxxxx Xxxx, responsabile Progetto Xxxxx Xxx
ASSOCIAZIONE CAPIRSI DOWN MONZA:
Xxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx - genitori. Coordinamento: xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxx
Il centro documentazione Xxxxx Xxx si trova in xxx Xxxxxxxx, 00 x Xxxxxxx (Xx).
E’ aperto al pubblico il martedì pomeriggio (ore 14.30 – 18.30) e il mercoledì e giovedì mattina (ore 9 – 13). Per ulteriori informazioni e contatti: tel. 000-0000000 – fax 000.0000000 –
email: xxxxxxxxxxxxxx@xxxxxxxxxxxxxxxx.xx – web: xxxx://xxx.xxxxxxxxxxxxxxxx.xx
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Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
I relatori
Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxx
Università di Milano-Bicocca, Clinica di Neuropsichiatria Infantile
Xxxx Xxxxxxx Xxxxx
Università di Milano-Bicocca, Facoltà di Scienze della formazione
Xxxx. Xxxxx Xxxxx
Università di Milano-Bicocca, Facoltà di Scienze della formazione
Xxxx. Xxxxxx Xxxxxxxxxx
UONPIA – Azienda Ospedaliera X.Xxxxxxx Xxxxx
Xxxx. Xxxx Xxxxxxx
UONPIA – Azienda Ospedaliera X.Xxxxxxx Xxxxx
Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx
UONPIA – Azienda Ospedaliera X.Xxxxxxx Xxxxx
Prof. Xxxxx Xxxx
Dirigente scolastico, Istituto Comprensivo “Koine” - Monza
Xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Dirigente scolastico, Istituto Comprensivo “Paccini” - Sovico
Xxxxxx Xxxx
Responsabile Progetto Xxxxx Xxx
Xxxxxxx Xxxxxxx
Presidente dell’Associazione CAPIRSI DOWN Monza
Coordinatori dei gruppi
Gruppo A Gruppo B Gruppo C Gruppo D Gruppo E
Xxxxxxxxxx Xxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxx Xxxx Frontoso Xxxxxxx Xxxxxx
Responsabile Progetto “Tra il dire e il fare”, Percorsi di accompagnamento alla integrazione scolastica
Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
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Indice
Costruire iI piano educativo individualizzato
Il progetto Xxxxx Xxx pag. 7
La giusta distanza pag. 9
xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxx – Assessore alla Persona e alle Politiche Sociali – Città di Monza
IL CORSO pag. 11
Apprendimento e ritardo mentale
Intelligenza, apprendimento e affetti pag. 13
xxxx. Xxxx Xxxxxxx – Unità Operativa Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza - Lissone
Apprendimento e ritardo mentale: aspetti neurofunzionali pag. 17
xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxx – Docente di Neuropsichiatria Infantile
Apprendimento e ritardo mentale: storie cliniche pag. 23
dott. Xxxxxx. Xxxxxxxxxx – Unità Operativa Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza - Monza
Uno sfondo per integrare pag. 29
xxxx. Xxxxxxx Xxxxx – docente di Pedagogia speciale
Costruiamo il Piano Educativo Individualizzato (PEI) pag. 37
xxxx. Xxxxx Xxxxx – docente Didattica speciale
I bisogni e le risorse
Tavola rotonda
Coordinatore xxxx. Xxxxxxx Xxxxx Contributi di:
Xxxxxx Xxxx, pag. 49
Responsabile Progetto Xxxxx Xxx - Comune di Monza
xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx pag. 53
Unità operativa Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza
xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx pag. 57
Dirigente scolastico
Xxxxxxx Xxxxxxx pag. 62
Genitore – Presidente Associazione “Capirsi Down” - Monza
xxxx. Xxxxxxx Xxxxx pag. 65
Docente di Pedagogia speciale
La valutazione del progetto e del bambino pag. 67
Prof. Xxxxx Xxxx – Dirigente scolastico
IL LAVORO DEI GRUPPI
a cura di Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxx Xxxxxxxx pag. 75
“TRA IL DIRE E IL FARE” pag. 83
Il progetto di accompagnamento all’integrazione scolastica
xxxx. Xxxxxxx Xxxxx – Docente di Pedagogia speciale
Associazione CAPIRSI DOWN Monza – Presentazione pag. 87
Passaggio in Rete – Presentazione pag. 89
Bibliografia pag. 93
Il Progetto Xxxxx Xxx
In un mondo "a misura di adulto" la legge 285/97 riafferma che bambini, bambi- ne, ragazzi e ragazze sono cittadini a tutti gli effetti, e hanno diritto di essere ascoltati, valorizzati e sostenuti, indipendentemente dalla loro condizione so- ciale e culturale e dalla loro etnia. Insieme ad enti pubblici, volontariato, coope- rative sociali e altri enti del cosiddetto terzo settore, la legge promuove azioni per migliorare la vita dei bambini e degli adolescenti.
Il Progetto Xxxxx Xxx è un accordo intercomunale che dal 1998 intende realiz- zare questi obiettivi nel territorio della Brianza compreso tra i comuni di Albiate, Xxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxxx, Briosco, Carate Brianza, Lissone, Macherio, Mon- za, Xxxxxx, Sovico, Triuggio, Vedano al Lambro, Veduggio con Xxxxxxx, Vera- no Brianza, Villasanta. La responsabilità generale e il ruolo del capofila spetta- no al comune di Monza, mentre tutti i comuni lavorano in rete per la realizzazio- ne di diverse azioni locali.
Per il triennio che va dal 2001 al 2003 sono previsti interventi che intendono coinvolgere i bambini in ambiti di progettazione partecipata della città, di ri- qualificazione dei quartieri, di valorizzazione del Parco di Monza, raccogliendo il materiale prodotto in asili e scuole; la progettazione e la costruzione con gli adolescenti di un sito web che diffonda una mappatura dei loro luoghi e delle loro abitudini; l’avvio di interventi di sostegno a minori in difficoltà, tramite spazi socio-educativi di supporto alla crescita favorendo i soggetti più deboli, di attività di orientamento per disabili e minori a rischio, di potenziamento del sostegno extrascolastico attivato dalle varie agenzie educative, di laboratori di animazione integrati tra CAG e scuole medie; la conoscenza e l’incontro con le presenze di culture diverse favorendo l'integrazione soprattutto nelle scuole; la creazione di occasioni e strumenti per favorire l'integrazione tra i servizi e le scuole del territorio e la formazione degli insegnanti; il sostegno di bambini vittime di maltrattamento o abuso, in collaborazione con altri servi- zi; il supporto del ruolo dei genitori nelle varie fasi di crescita dei figli; la rea- lizzazione di spazi neutri per l'incontro fra figli e genitori sottoposti a provve- dimento dell'autorità giudiziaria; la realizzazione di comunità per minori nel territorio del progetto; il supporo ai genitori nelle fasi di separazione conflit- tuale; la formazione per aggiornare gli operatori coinvolti nelle attività rivolte all'infanzia e all'adolescenza; l’attenzione a documentare le esperienze, rac- cogliere i materiali e diffondere le notizie relative agli interventi che rafforzano il benessere dei minori.
Il Centro Documentazione di Lissone è una delle iniziative comprese nel pro- getto intercomunale Xxxxx Xxx; si occupa di raccogliere testimonianze, notizie e strumenti per l’aggiornamento e di promuovere e far circolare l’informazione tra le varie attività, di dare consulenze e di diffondere dati e documentazione
sui risultati ottenuti dal progetto Xxxxx Xxx.
Le attività istituite dal progetto, come spiegato, sono partite nel 1998 con alcu- ne differenze rispetto ai servizi offerti in questo secondo triennio. Nella prima fase del lavoro un grande sforzo è stato impiegato anche per raggiungere le condizioni ideali per consentire la messa in rete di un territorio così ampio e pieno di esperienze diverse. Come primo risultato di questo sforzo, il Centro documentazione Xxxxx Xxx ha progettato una serie di pubblicazioni che diano testimonianza delle attività svolte; in questo modo si restituiscono alla cittadi- nanza i risultati ottenuti negli anni di presenza e di intervento nei vari territori.
In particolare questo fascicolo si occupa di ricostruire e approfondire il lavoro svolto dall’azione denominata La scuola e i servizi... insieme, dedicata a mi- gliorare e rendere più efficaci i processi di osservazione e valutazione di casi nel contesto educativo. Obiettivo dell’azione è quello di meglio orientare l’azio- ne educativa rivolta ai bambini e valorizzare la comunicazione tra scuola e fa- miglia. Tra i vari livelli in cui gli interventi si articolano, questa pubblicazione si concentra su quello di formazione e ricerca/azione, svolto attraverso la realiz- zazione di percorsi formativi annuali, e su quello di costruzione partecipata di strumenti da utilizzare nell’azione educativa. In queste categorie rientra il per- corso di formazione relativo alla costruzione di piani educativi individualizzati (PEI) per minori con ritardo mentale, e la successiva sperimentazione di questi strumenti, di cui questa pubblicazione dà conto.
La giusta distanza
Xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxx
Assessore alla Persona e alle Politiche Sociali Città di Monza
In una fredda giornata d’inverno un gruppo di porco- spini si rifugia in una grotta e per proteggersi dal freddo si stringono vicini. Ben presto però sentono le spine reciproche e il dolore li costringe ad allontanarsi l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li porta di nuovo ad avvi- cinarsi si pungono di nuovo. Ripetono più volte questi tenta- tivi, sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non tro- vano quella moderata distanza reciproca che rappresenta la migliore posizione, quella giusta distanza che consente loro di scaldarsi e nello stesso tempo di non farsi male reciproca- mente.
(Xxxxxx Xxxxxxxxxxxx)
Lavorare in gruppo, collaborare ad una progettualità comune, condividere un obiettivo significa creare un rapporto sinergico in cui esperienza e professiona- lità si possono esprimere in spazi adeguati nel rispetto di ruoli e competenze.
Questo lavoro ha visto al tavolo di progettazione e sul campo nella realizza- zione del percorso formativo individualizzato, diverse istituzioni del pubblico e del privato.
Ma non sono le “istituzioni” a creare sinergia: sono le persone, col loro modo di fare e con il loro modo di rapportarsi e collaborare. E la attuano meglio se han- no alle spalle una storia, una tradizione di collaborazione a cui riferirsi.
Questo gruppo di operatori ha questa storia e questa tradizione: il lavoro qui pubblicato ne è una conferma.
L’integrazione delle diverse soggettività, la valorizzazione di ciascuna di esse e la riflessione sui metodi d’approccio educativo per il raggiungimento di questi fini, sono le basi che hanno mosso la collaborazione tra gli operatori e tutto il loro intervento va nella direzione del cambiamento e dell’innovazione pedago- gica che vede nella diversità una risorsa e non solo problematicità.
Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
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IL CORSO
Il gruppo di progetto
Il gruppo di progetto è nato per iniziativa di alcuni genitori dell’Associazione Ca- pirsi Down Monza. Essi hanno deciso di avvicinarsi alla scuola, momento cen- trale per la crescita dei loro figli, facendosi promotori di un corso di formazione che permettesse di conoscere meglio la Sindrome di Down ma anche che pro- ponesse i genitori come risorse nei confronti del mondo della scuola e dei ser- vizi.
Grazie alla collaborazione con la xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxx, neuropsichiatra, già aiuto della Clinica di NPI dell’Ospedale X. Xxxxxxx e all’adesione di Passaggio in rete, associazione di 18 Istituti Scolastici del territorio ( in particolare di Ele- na Ferrari, Xxxx Xxxxxxxx ed altri insegnanti responsabili di progetti su handi- cap e formazione) si è costituito il gruppo di lavoro, che ha successivamente trovato la collaborazione della xxxx. Xxxxxxx Xxxxx, docente di Pedagogia Spe- ciale a Scienze della Formazione dell’Università di Milano-Bicocca.
Sono poi stati coinvolti il Comune di Monza, ente capofila degli Accordi di Pro- gramma l.285/97, attraverso la partecipazione di Xxxxxx Xxxx, responsabile del- l’Ufficio progetti innovativi.
La metodologia
Il gruppo si è posto l’obiettivo di fornire risposte concrete alle esigenze di infor- mazione/ formazione comune degli insegnanti, dei genitori e degli operatori at- traverso progetti che partissero dai bisogni e dalle risorse del territorio, con al- cuni presupposti comuni:
- la formazione non episodica, ma continua e legata all’operatività: i corsi so- no stati proposti come prosecuzione di quelli precedenti, tenendo conto delle esigenze emerse;
- la formazione intesa non solo come “ascolto”, ma come confronto nel lavo- ro di gruppo tra un sapere teorico e le esperienze personali.
Le giornate di formazione sono quindi state organizzate prevedendo due mo- menti: uno seminariale, condotto da esperti, dal contenuto prevalentemente teo- rico, ed un altro, immediatamente successivo, in gruppi di lavoro tenuti da un conduttore, che aveva il compito di rielaborare la prima parte attraverso le esperienze portate dai partecipanti, al fine di giungere alla definizione di possi- bili modelli operativi.
- La territorialità, cioè interventi di informazione/formazione e di coordinamen- to a partire dalle realtà locali, per costruire punti di riferimento e di collegamen- to tra le scuole e tra la scuola e il territorio;
- l’interdiscipinarietà, come presenza di professionalità, voci, punti di vista differenti, per uscire dai propri ruoli e dai propri problemi per “mettersi nei pan- ni degli altri” e cercare proposte comuni (lavoro di rete). L’esperienza dei tre anni di collaborazione ha fatto apprezzare ad ognuno l’utilità del lavoro tra soggetti di diverse istituzioni anche per lavorare meglio all’interno della pro- pria, rafforzando la convinzione che il confronto con mondi diversi consenta di riflettere e di ripensare al proprio mondo con un maggiore distacco;
- l’handicap come risorsa, l’approccio al bambino diversamente abile come esperienza di crescita e di arricchimento professionale, utile per affrontare la relazione educativa con tutti i bambini e i ragazzi.
L’organizzazione dei corsi è stata possibile grazie alla collaborazione con la Clinica di Neuropsichiatria Infantile diretta dal Xxxx. Xxxxx Xxxxxxxxx e con i ser- vizi territoriali della UONPIA.
Le tappe operative
1 Corso L’inserimento dei bambini Down nella scuola dell’obbligo, organizzato dall’associazione Capirsi Down il 22 Maggio 1999
2 Corso A scuola con il bambino Down: percorsi di fronte alla diversità, cinque incontri: ottobre – dicembre 2001
3 Corso Costruire il P.E.I. Il bambino con ritardo mentale, cinque incontri: ot- tobre – dicembre 2002
4 Accompagnamento all’attuazione del P.E.I. (8 gruppi con la supervisione della dott. Garbo): gennaio - ottobre 2003
La collaborazione avviata con il Comune di Monza ha reso attuabile questo parte del progetto, che è stato inserito nell’Azione 4 del Progetto Xxxxx Xxx, fi- nanziandola con i fondi della legge 285/97.
Il gruppo di progetto sta ora cercando di realizzare, in raccordo con gli inter- venti formativi nell’ambito dell’integrazione scolastica, attività di documentazio- ne, informazione e consulenza: atti del corso, cineforum, sito web…
Perché ciò possa realizzarsi i partecipanti del gruppo sentono l’esigenza di de- finire un quadro di riferimento istituzionale di cui sono stati individuati come soggetti: la rete di scuole, l’università, i servizi territoriali, le associazioni.
Apprendimento e ritardo mentale
Le relazioni di questa prima giornata cercheranno di avvicinarci ai problemi dell’apprende- re, con particolare riferimento al bambino con ritardo mentale, da varie angolature: la pri- ma relazione della xxxx. Xxxxxxx xxxx centrata sugli aspetti relazionali, seguirà poi la dott. Xxxxxxx che metterà in luce alcuni aspetti neuro funzionali e terminerà la xxxx. Xxxxxxxxxx con alcuni casi esemplificativi.
Intelligenza, apprendimento e affetti
Xxxx. Xxxx Xxxxxxx
E’ mio compito oggi parlarvi dei legami tra una funzione com- plessa quale è quella dell’apprendimento e gli aspetti emoti- vo-affettivi che la sottendono e l’accompagnano.
Una prima osservazione è che alla base della capacità di ap- prendere non vi è solo una buona dotazione intellettiva, non si apprende cioè solo perché si è intelligenti, né i deficit di ap- prendimento si correlano solo ad un deficit intellettivo.
Vi è capacità e possibilità di apprendere anche nelle persone con una ridotta dotazione intellettiva così come vi può essere deficit di apprendimento in una persona dall’intelligenza bril- lante. Apprendere è una funzione non solo dell’intelletto ma direi in senso più lato e generale della “mente” che è il luogo in cui avvengono i processi di elaborazione, simbolizzazione, rappresentazione, astrazione, quindi processi che comporta- no la partecipazione di aspetti emotivo-affettivi e del mondo della relazione.
Ad esempio vi può essere uno studente di intelligenza norma- le che può risultare lento a studiare con il bisogno di tornare sempre indietro nello studio per paura di dimenticare qualco- sa, che sente il bisogno di imparare quasi “a memoria” un lin- guaggio estraneo ed esterno che non può usare parole perso- nali ed interne. Questo studente non può generalizzare, né in- teriorizzare, né uscire dal “qui ed ora” per fare di ciò che va leggendo, quasi parola per parola, un patrimonio personale ed interiorizzato. E’ insomma una persona che non è capace di obbedire alla famosa richiesta della maestra “ripeti con pa- role tue” perché non può far suo un “dato” concreto trasfor- mandolo in un “concetto”.
L’apprendi- mento è una funzione della mente stretta- mente collegata agli aspetti emotivo- affettivi.
Dal dato con- creto al concet- to
Questa persona soffre di un disturbo dell’apprendimento no- nostante la sua intelligenza sia normale o elevata come Q.I. e mostri in altre occasioni della vita buona intuitività ed empa- tia.
Ci troviamo qui ad accostarci ad un problema che si sente spesso dibattere negli scambi di informazioni che avvengono con gli insegnanti quando si parla di bambini con deficit co- gnitivo. Chi ha un deficit nella capacità di apprendere è una persona che non sa effettuare processi di “astrazione”. Si os- serva spesso che un bambino può operare con oggetti “concreti”, o riferirsi ad esperienze “concrete”, o riconoscere situazioni “concrete” ma non sa estrapolare da questi oggetti, situazioni o esperienze qualcosa di astratto e generale che le accomuni e le renda sempre riconoscibili e recuperabili nel proprio bagaglio di conoscenze anche in assenza del dato concreto.
Cosa permette questo passaggio che è il passaggio fonda- mentale delle conoscenza? Senza questo passaggio il nostro imparare rimane legato alle cose, alle percezioni, alle sensa- zioni ed accade come se il mondo dovesse essere imparato a memoria o “fotografato”, giustapponendo i vari pezzi o foto- grammi, senza potersi mai staccare da ogni singola percezio- ne, senza poter mai arrivare ad una “rappresentazione” men- tale dei dati percettivi.
Le “lacune co- gnitive” di Pia- get
Un esempio si osserva nella modalità di eseguire il test per- cettivo della figura di Xxx in bambini con difficoltà di rappre- sentazione e incapacità a cogliere la globalità della figura. Al- cuni bambini la copiano pezzo per pezzo, giustapponendo i pezzi, senza poter fare una sintesi simultanea della figura, al- tri bambini, spesso i più piccoli, “inventano” una figura di fan- tasia evocata dalla percezione globale della figura presentata (ad esempio un’astronave). Questi bambini sembrano più li- beri dall’aderire al dato percettivo ed avere migliori possibilità evolutive nell’integrazione visuospaziale.
Ci sembra qui di poter riprendere un punto della teoria Piage- tiana secondo cui un passaggio ad un livello successivo di conoscenza può avvenire solo attraverso una negazione del- l’oggetto da apprendere. Occorre che l’oggetto sia sufficiente- mente distante, sconosciuto, separato da noi, connotato da aspetti negativi di mancanza tali da poter suscitare in noi cu- riosità, desiderio di conoscerlo tanto da spingere la nostra in- telligenza a superare quella “lacuna cognitiva”(così la chiama Piaget) che ci separa dall’oggetto.
Su un piano che riguarda le relazioni affettive possiamo vede- re qui in parallelo la crescita psicologica del bambino che de- ve ricevere da una madre solo “sufficientemente buona” le frustrazioni ottimali che gli permetteranno di riconoscersi e di riconoscerla come una persona separata, in grado di favorire un processo di sviluppo sia psicologico che cognitivo (Winnicot).
Le “lacune cognitive” di Xxxxxx e le “frustrazioni ottimali” di Xxxxxxxx, non devono essere troppo ampie e persecutorie per il bambino così da permettergli di sviluppare curiosità, interes- se, desiderio, che stanno alla base di ogni conoscenza..
Se ciò non accade vi è un ripiegamento su livelli precedenti di equilibrio, il disinvestimento, la depressione.
Occorre a questo punto sottolineare che i processi qui de- scritti sono possibili e osservabili in tutti gli individui indipen- dentemente dalla loro dotazione intellettiva.
Certamente vi sono bambini che tollereranno e sapranno af- frontare lacune cognitive più ampie e in cui la spinta alla cu- riosità e all’interesse permetteranno più rapidi passaggi co- gnitivi, ma ogni bimbo ha in sé la possibilità di procedere lun- go questa strada se si sapranno individuare le singole tappe del percorso da compiere insieme.
Su questo percorso è fondamentale la figura dell’ ”accompagnatore” vorrei chiamarlo, così come Xxxxxxxxxx lo chiama “mediatore”.
Tale figura ha la funzione di allontanare, staccare il bambino dal dato percettivo (ciò che vede, che sente, che sperimenta) per aiutarlo ad incuriosirsi, a pensare, ad interrogarsi, a fare fantasie su quel dato, ad aiutarlo cioè ad uscire dall’”imitazione” dell’”imparare a memoria” per entrare nell’”immaginare”, “raccontare”, “personalizzare”.
Esempio: la scrittura non più presentata come insieme di re- gole ortografiche ma come un modo per comunicare cose, pensieri, emozioni, fantasie. Così anche per il linguaggio.
Pensiamo ora ad alcuni aspetti della riabilitazione dei bambini con deficit cognitivo. Spesso si parla di logopedia. Occorre in- terrogarsi se non assistiamo ad un susseguirsi di logopedie che si basano sulla ripetitività e ripropongono, anche se in modi diversi, sempre lo stesso livello di “presentazione” del dato percettivo senza mai favorire la “rappresentazione” men- tale di questo.
Così accade che i bambini non possano usare la logopedia perché non possono accedere ad un parlare personalizzato
Le “frustrazioni ottimali”
Il “mediatore”
Presentazione e rappresentazio- ne nella terapia riabilitativa
che serva ad esprimere pensieri emozioni sentimenti affetti.
Occorre dare un senso al parlare, al conoscere, all’imparare per evitare aspetti imitativi e ripetitivi possibili anche in bam- bini con dotazione intellettiva del tutto normale.
Apprendimento e ritardo mentale Aspetti neurofunzionali
Xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxxx
Obbiettivo del nostro corso è quello di riconoscere gli aspetti caratteristici del ritardo mentale come riferimento per osser- vare e per impostare il percorso pedagogico e didattico indivi- dualizzato.
Il primo punto riguarda quindi che cosa è il ritardo mentale: questo termine non definisce una malattia, non è una diagno- si: nel ritardo o insufficienza mentale sono riunite situazioni cliniche molto differenti che hanno come denominatore comu- ne il deficit intellettivo.
Il ritardo mentale è presente in molti quadri malformativi e in sindromi con un’alterazione cromosomica o genetica, può es- sere esito di processi infiammatori (meningiti o encefaliti) su base batterica o virale, può essere associata ad altri disturbi del sistema nervoso centrale come le paralisi cerebrali infan- tili o certe forme di epilessia, o far parte di un quadro di di- sturbo relazionale.
Nel ritardo mentale si differenziano vari livelli di gravità: si fa riferimento normalmente alla valutazioni effettuate con i test intellettivi e si parla di ritardo mentale lieve (Q.I. 70-50) medio (50-35) e grave –gravissimo (sotto 35). Si tratta di limiti con una certa variabilità, che permettono però di prevedere acqui- sizioni possibili e problemi da affrontare.
In questo corso faremo riferimento all’integrazione di bambini che hanno come loro sede di appartenenza la scuola e si ri- tengono suscettibili di apprendimenti scolastici seppur parzia- li e semplificati.
I bambini con Sindrome di Down sono solo un terzo o un quarto di questo gruppo, ma alcune loro caratteristiche, come l’evidenza dei tratti somatici e la diagnosi precoce confermata dalla mappa cromosomica, ne hanno fatto il prototipo della categoria del ritardo mentale.
Il desiderio dei genitori dell’Associazione, insieme al resto del gruppo di progetto del corso, è quello di condividere problemi e proposte, di costruire punti e gruppi di persone come riferi- mento per genitori ed insegnanti.
Nel ritardo mentale sono riunite situazio- ni cliniche dif- ferenti
Vari livelli di gravità
Torniamo al ritardo mentale:
Normalmente noi usiamo come sinonimi i due termini: ritardo mentale e ritardo intellettivo, ma quando parliamo di mente e intelligenza intendiamo la stessa cosa o diamo a questi due termini significati differenti?
Diverse discipli- ne si occupano della mente
“Mente” espri- me il funziona- mento globale, gli aspetti emo- tivi sono stretta- mente connessi alle funzioni in- tellettive
L’intelligenza è una funzione parziale della mente
E’ attualmente condivisa la definizione della “mente” come pro- dotto delle interazioni fra le esperienze interpersonali e le strutture e le funzioni del cervello.
Sono molte le discipline che si occupano di questo campo: quelle relazionali (centrate sullo sviluppo del bambino, sulla relazione madre-bambino o sulle reti sociali di riferimento), quelle sullo sviluppo cognitivo e/o comportamentale e quelle neurobiologiche che si occupano di come gli stimoli vengono registrati, delle cellule nervose, dei potenziali d’azione, delle sinapsi, dei neurotrasmettitori, dei recettori, dell’organizzazio- ne dei circuiti neuronali e dei sistemi di elaborazione delle in- formazioni.
Così mentre da una parte gli enormi progressi nella ricerca neurobiologica favoriscono talvolta un atteggiamento di “determinismo biologico”, come se i disturbi mentali e/o psico- logici fossero determinati da meccanismi biochimici, genetica- mente determinati e scarsamente influenzati dalle esperienze dell’individuo (autismo, disturbi dell’attenzione, disturbi bipola- ri), al contrario le ricerche più recenti dimostrano che lo svilup- po delle strutture e delle funzioni cerebrali dipende dall’inter- azione con l’ambiente, ed in particolare dai rapporti sociali, dalle relazioni umane (rapporti interpersonali), favorendo quin- di un approccio che sappia integrare le conoscenze provenien- ti dalle differenti discipline.
La mente (psiche) esprime il funzionamento globale della per- sona, riguarda lo sviluppo del sé, dell’identità personale, con- sidera gli aspetti emotivi strettamente connessi alle funzioni in- tellettive, al pensare e al capire.
La conoscenza si basa sul rapporto tra il pensiero e la realtà, sulla possibilità di stabilire rapporti di continuità o di disconti- nuità tra cose e persone (oggetti fisici) e le loro rappresenta- zioni mentali: le esperienze elaborate in immagini promuovono l’attività di pensiero.
L’intelligenza rappresenta così solo un aspetto, una funzione parziale che riguarda l’aspetto biologico del cervello, riguarda il conoscere e il capire aspetti della realtà concreta o astratta, che non sempre sono integrati con altri aspetti della persona (scissione).Tutti conosciamo persone che consideriamo molto intelligenti, ma originali e strane.
Entriamo più specificatamente nei due argomenti del titolo: apprendimento e ritardo mentale.
Apprendere, imparare significa aumentare sia le proprie co- noscenze teoriche sia le proprie competenze (capacità, abilità nel fare).
Nell’apprendimento vi è un soggetto che acquisisce e un am- biente che contiene, che propone, che richiede.
In che modo una persona impara?
-spontaneamente ed automaticamente
-per imitazione (copio)
-per adattamento (soddisfo in modo compiacente o subisco la richiesta di un altro passivamente)
-per spinta personale al saper fare, al conoscere vi è un desi- derio di autonomia, una proiezione verso il futuro.
Si tratta di tanti gradini, tutti utilizzabili, purché si tenga pre- sente l’ultimo.
Il secondo polo, l’ambiente passa attraverso la relazione per- sonale, dapprima con la madre, che costituisce il primo me- diatore dell’apprendimento, e sul questa relazione, su questo imprinting su costruiscono le relazioni successive ed in parti- colare quella con l’insegnante.
Le proposte o le richieste fatte al bambino corrispondono ad un’attesa di risposta da parte di chi le fa, la domanda non è mai a senso unico, ma si tratta di uno scambio in cui il bambi- no è rinforzato dall’attesa positiva dell’altro.
Quando il bambino però è molto piccolo non parliamo di ap- prendimento, ma di sviluppo, prevalgono cioè gli aspetti biolo- gici, la spinta maturativa sostenuta dall’organizzazione strut- turale del cervello, in cui alcune funzioni sono già “preimpostate”, per esempio non si insegna a guardare o ad ascoltare, e i bambini imparano a camminare anche senza spinte esterne.
L’ambiente ricco di stimoli influenza la maturazione cerebrale: vi è un aumento di peso del cervello con la creazione di orga- nizzazioni neuronali più ricche e complesse, per una maggior arborizzazione dendritica e per un aumento del numero delle sinapsi (a questo proposito si distinguono attualmente due di- versi tipi di sinapsi: quelle che “aspettano l’esperienza” come per il sistema visivo o uditivo, e quelle che “dipendono dal- l’esperienza”, da cui dipende la variabilità individuale).
Apprendere
Il soggetto
L’ambiente
L’attesa positiva
La maturazione cerebrale
Se pensiamo allo sviluppo del linguaggio ci troviamo di fronte ad un processo più complesso, in cui hanno fondamentale spazio l’ambiente e le relazioni, la motivazione personale per giungere al riconoscimento dell’oggetto come altro da sè, alla rappresentazione interna che diventa poi denominazione con- divisa, ma sono importanti anche altri aspetti strutturali e pre- impostati del cervello, come quelli che riguardano gli aspetti fonologici o generativi della grammatica e delle regole.
Per imparare invece a disegnare, a contare, a scrivere, è prio- ritario l’intervento dell’ “ambiente”.
La complessità
Le attuali teorie sul ritardo mentale
Il bambino che impara qualcosa di nuovo lo fa per tentativi a partire da un desiderio, un’intenzione: elabora un piano d’azione che tiene conto delle informazioni ambientali e degli schemi già in suo possesso che vengono tradotti in stimola- zioni di specifici circuiti cerebrali per produrre un programma d’azione, una risposta motoria. Dei circuiti di feed-back ritor- nano al cervello per verificare la corrispondenza tra program- mazione ed esecuzione.
Penso che si debba tenere in mente la complessità di questo modello quando si propone un compito: non ci si può limitare agli aspetti esecutivi , ma bisogna tener conto degli aspetti motivazionali, della capacità di analizzare le informazioni che servono al compito, delle verifica.
Quando parliamo di apprendimento quindi consideriamo gli apprendimenti curricolari (lettura, scrittura, calcolo ecc..) co- me strumenti da acquisire rispetto ad un obiettivo più impor- tante: favorire la crescita del bambino e del ragazzo poi come persona.
I disturbi dell’apprendimento fanno parte del quadro del ritardo o insufficienza mentale: non si tratta (come per altri aspetti dello sviluppo) solo di un ritardo delle tappe evolutive: per esempio non possiamo paragonare lo sviluppo di un bambino con ritardo lieve di 7 anni ad un bambino di 5 anni “normale”. Secondo le attuali teorie nel ritardo mentale il funzionamento del cervello presenta delle differenze in alcune modalità ope- rative: vi è una ridotta specializzazione delle attività o delle funzioni di base come l’attenzione, la percezione, la memoriz- zazione, ed una ridotta rete di coordinamento tra le diverse abilità
Questo si traduce in
- difficoltà di scegliere fra le informazioni
- scarsa interazione
- rigidità nel collegamento dei dati noti, ignoti, immaginati
- tendenza a generalizzare singole abilità senza avvalersi delle interazioni.
Secondo la scuola Piagetiana l’apprendimento è un processo attivo di riequilibrio a partire dall’analisi dei dati dell’esperien- za, come ci ha appena spiegato la dottoressa Xxxxxxx.
Nel ritardo mentale la struttura è troppo equilibrata e vi è una difficoltà nei processi di analisi e sintesi dei dati esperenziali e nei processi d’astrazione, e questo porta ad una tendenza a stare nel concreto.
Sono queste difficoltà funzionali che condizionano i compor- tamenti descritti come distraibilità, attenzione labile, passività o dipendenza, ripetitività ecc..
Contro questa rigidità, difficoltà ad analizzare ed a fare delle scelte, compito dell’insegnante diventa quello di vincere l’inerzia, evitando di fare richieste per ottenere risposte fisse, ripetitive ed imitative (penso a pagine di ma, mo, mu che non finiscono mai), ma di proporre ipotesi e scelte, di discutere ed immaginare soluzioni differenti (questo vale per la scrittura o per la scelta di un diverso finale di un testo, ecc..).
Richieste troppo rigide rischiano l’adattamento passivo e/o l’opposizione, mentre un eccesso di protezione ed assistenza mantiene nella fusione e nell’imitazione.
Terminerei sottolineando alcuni criteri fondamentali che ri- guardano il lavoro con il bambino con ritardo mentale centrati sul rispetto del bambino come persona.
1) il bambino deve essere preso in considerazione facen- dogli appropriate richieste e proposte.
Non può essere abbandonato a se stesso perché più degli altri tende a perdersi
2) le richieste/proposte debbono essere finalizzate a bre- ve termine. Non “impariamo a scrivere”, ma “vediamo se ricopi bene questa parola e domani te la ricordi “
3) la verifica è fondamentale perché il bambino impari ad impegnarsi per ottenere un risultato, e ad eseguire un compito secondo delle richieste.
Questo modo di trattarlo si rifletterà nei rapporti con i com- xxxxx.
Nel ritardo mentale la struttura è trop- po equilibrata
Richieste rigide rischiano l’adattamento passivo e/o l’op- posizione
Richieste appropriate, finalizzate a breve termine e verificate
Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
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Apprendimento e ritardo mentale Storie cliniche
Xxxx. Xxxxxx Xxxxxxxxxx
Xxxxxxx è un bambino con sindrome di Down all’ultimo anno di scuola elementare; il suo Q.I., valutato all’età di 9 anni, ri- sulta essere di 40, quindi con una insufficienza mentale di media entità; il profilo è sostanzialmente armonico.
I genitori danno molta importanza alle prestazioni scolastiche del figlio e le insegnanti si sentono molto impegnate non sol- tanto nel lavoro diretto con il bambino ma anche in quello d’in- formazione e spiegazione ai genitori che chiedono lo svolgi- mento di un programma il più vicino possibile a quello della classe, a volte cercando di anticipare autonomamente alcune tappe della programmazione.(Ad esempio avevano insegnato il corsivo a casa mentre a scuola veniva utilizzato ancora lo stampatello).
L’apprendimento della scrittura può dirsi sicuramente soddi- sfacente, almeno per quanto riguarda gli aspetti più automa- tizzabili: il bambino è in grado di eseguire un dettato in modo abbastanza corretto, mentre fa estremamente fatica (e non ri- esce se non è aiutato) a scrivere un proprio pensiero di senso compiuto.
Così ha appreso il meccanismo delle 4 operazioni sia pure con numeri semplici, e con ausili (linee di numeri e tavola pi- tagorica), ma ha difficoltà a risolvere un problema a meno che non gli venga facilitato il compito con l’identificazione di “parole chiave” che rimandano alla corretta operazione da eseguire.
Per quanto riguarda le materie di studio è possibile fargli me- morizzare brevi testi semplificati, ma i tempi di permanenza nel ricordo sono brevi.
Così è capace di leggere nel senso di decifrare il testo, ma fa molta fatica a rispondere a domande sulla comprensione, an- che se facilitato e guidato.
Abbiamo qui una notevole discrepanza tra un livello più “esterno” di “prestazioni” verificabili a livello di quaderni pieni d’attività svolte, formalmente di discreto livello, e la possibilità di un utilizzo autonomo e più personale di queste competen- ze, da far sorgere il dubbio agli stessi insegnanti di quanto
Xxxxxxx
Le prestazioni
La spinta del desiderio
Alice
non si tratti più di un “addestramento” che di un apprendimen- to vero e proprio.
La strategia imitativa, la ripetitività, sono molto presenti.
Un giorno desta grandi preoccupazioni perché “sparisce” al- l’uscita di scuola; viene ritrovato davanti casa più tardi, e di- ce:”Sto aspettando la tata che è andata a prendermi a scuola”. In questo caso sulla spinta di un desiderio ( fare come altri compagni che, nell’ambito di una maggiore autonomia, torna- no a casa da soli ) mette in atto una strategia efficace e si na- sconde rispetto al solito punto di incontro all’uscita, si affianca ad altri bambini, cambia strada rispetto al solito percorso, fino ad arrivare alla meta ( casa sua ). Al di là delle preoccupazioni suscitate, da un certo punto di vista possiamo vedere qui una delle “best performance” del bambino dal punto di vista del- l’utilizzo di strategie autonome adattate ad uno scopo.
A partire dall’osservazione del comportamento degli altri bam- bini, riesce a riflettere e “criticare” il suo comportamento abi- tuale per effettuare una scelta autonoma non compiacente che riesce a mettere in atto con una programmazione alternativa adeguata.
In termini più vicini alle attività scolastiche possiamo in seguito vedere buoni risultati ed una “memoria” che permane nella partecipazione del bambino ad un lavoro di drammatizzazione che lo coinvolge molto e in cui sembra poter esprimere più li- beramente emozioni ed affetti.
Questo tipo di lettura degli apprendimenti del bambino implica ovviamente uno spostamento della nostra attenzione sui pro- cessi e sulle rappresentazioni a scapito delle performance, e ci obbliga ad uno sforzo per ricostruire le strutture “invisibili” che organizzano il funzionamento mentale del soggetto, a par- tire dalle sue azioni visibili.
Occorre anche una maggiore apertura e flessibilità sia nelle nostre richieste-proposte, sia nel valutare le risposte del bam- bino.
Ricordiamo brevemente una piccolina di 2 anni con sindrome di Down, Xxxxx, che sembrava non rispondere a nessuna delle prove sulla permanenza dell’oggetto: nascondendo il cubetto sotto la tazza, prendeva la tazza ignorando il cubetto, nascon- dendo la palla dietro la schiena si avvicinava per cercarla ma si fermava lungo il percorso attratta da un altro oggetto. A que- sto punto, alla domanda:” Ma dov’è la palla?” rispondeva col gesto portando le mani dietro la schiena mostrando invece
una capacità di comprensione e di risposta comunicativa im- prevista.
Pensiamo che il poterci trovare di fronte all’imprevisto, il sor- prenderci (vedi anche le fughe da scuola del bambino prece- dente) siano elementi importanti e positivi, perché indicano uno spazio di libertà che si contrappone alla concretezza e ripetiti- vità che così spesso caratterizzano il ritardo mentale.
La capacità intuitiva, spesso buona in questi bambini, e che può permettere molti apprendimenti nell’ambiente educativo con i coetanei e talvolta nel lavoro riabilitativo, può essere un punto di partenza ma va anche travalicata integrando contesto cognitivo e affettivo, e permettendo quindi un effettivo utilizzo dell’acquisizione.
Anche tra scuola, servizi, famiglia, dobbiamo puntare ad una integrazione che non sommi quantitativamente gli stimoli al bambino, ma punti ad un effettiva apertura qualitativa delle possibilità cognitive ed affettivo relazionali del bambino.
Xxxx presenta un ritardo medio- lieve in microcefalia per sof- ferenza perinatale.
Nella valutazione precedente l’inserimento alle elementari, ap- pare molto inibita, con scarse iniziative anche sul piano moto- rio, poco interessata e con notevole labilità attentiva. Nell’ese- cuzione di test l’ansia, il timore di non essere capace, riaffiora- no inevitabilmente anche quando sono accompagnate dall’of- ferta di aiuto, di far insieme (“No, non sono capace”), in alter- nanza col ricercare in modo regressivo le coccole della madre.
Nel lavoro riabilitativo è possibile gradualmente condividere e verbalizzare emozioni della bambina (es. paura di sbagliare), verificare e costruire l’uso di nuove strategie ampliando poi progressivamente il contesto e i margini d’autonomia e iniziati- va della bambina.
La progressiva consapevolezza di poter fare e provare interes- si permette un atteggiamento mutato rispetto al nuovo, non più occasione di fallimento, ma di piacere della scoperta e del fun- zionamento cognitivo.
Nonostante il livello intellettivo deficitario e il non raggiungi- mento dei prerequisiti per l’inserimento in scuola elementare precedentemente evidenziato, Xxxx è in grado di frequentare, grazie anche alla presenza di una valida insegnante e ad un numero ridotto di bambini, la prima elementare acquisendo le basi della lettura scrittura.
La madre aiutata a pensare alla figlia in modo nuovo, ha potu- to trovare nuove modalità relazionali con lei: è significativo a
Il sorprenderci
Xxxx
Il timore di non essere capace
Poter fare e provare interes- se
Trovare nuove modalità rela- zionali
questo proposito l’investimento dato al mondo della parola at- traverso la lettura di favole, spazio comune di fantasia ed emozioni ma anche realtà fatta di regole per accedere a un nuovo codice (le fiabe lette con la madre prima dell’addormen- tamento e il lavoro in classe con le immagini ritagliate, i dise- gni, le paroline trascritte).
Il ruolo attivo del soggetto
La diversifica- zione delle pro- poste e la vici- nanza con l’esperienza quotidiana
Una relazione con caratteristi- che di conteni- mento e di spin- ta alla crescita
In conclusione, pensando all’apprendimento del bambino con insufficienza mentale, ci sembra importante mettere al centro il ruolo attivo del soggetto, per individuare un ”tertium” che si colloca tra l’ipotesi aprioristica delle competenze innate (il bambino è intelligente sì o no?) e quella empiristica delle com- petenze acquisite in funzione degli stimoli ambientali. Ritenia- mo importante formulare proposte d’apprendimento che con- sentano al bambino di esercitare i suoi processi di equilibra- zione, valorizzando e scoprendo egli stesso le sue capacità di conoscere.
Più che interventi molto specifici, che poi a volte possono ave- re un loro scopo in momenti definiti e limitati, ci sembra utile allargare lo spazio cognitivo nel quale collocare l’oggetto della conoscenza, curando la diversificazione delle proposte, la loro ricchezza ma anche la vicinanza con l’esperienza quotidiana.
Paradossalmente si potrebbe auspicare un gradiente di ric- chezza e complessità delle proposte inversamente proporzio- nale alle qualità del funzionamento del soggetto, in quanto mentre i bambini con maggiori capacità si adattano facilmente anche a proposte di apprendimento rigide, per i bambini con handicap o con difficoltà è necessario ampliare il campo delle possibilità di costruire schemi d’azione arricchendo gli stimoli.
Un’attenzione volta a favorire l’evoluzione globale dei bambini si deve basare su una comprensione dei processi interni, che fondano la qualità dello sviluppo e dei processi cognitivi.
Ciò rimanda ad un’attitudine degli insegnanti ad offrire ai bam- bini una relazione con caratteristiche di contenimento e di spinta alla crescita, capaci di utilizzare in modo dinamico e sintono gli oggetti del conoscere.
Si tratta di un rapporto che, pur mutuando alcune caratteristi- che di “maternage” (soprattutto nel senso di fornire continuità di attenzione, memoria, significato) sia in grado di articolarsi mediante l’integrazione e l’espressione di tutte le potenziali occasioni di sviluppo e conoscenza.
Al di là del livello intellettivo valutato nei test, l’evoluzione del bambino ci pare infatti correlata alla possibilità di introdurre, nel suo “mondo rappresentazionale” le nuove acquisizioni, creando interno ad esse significati condivisibili nel contesto del suo ambiente e delle sue relazioni significative.
Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
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Uno sfondo per integrare
Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Perché il bambino con ritardo mentale possa vivere una esperienza di formazione personale e significativa nella scuola di tutti è indispensabile che gli altri attori del pro- cesso ( la famiglia, la scuola, il Servizio Sanitario, gli Enti Locali e, più in generale, la comunità), abbiano modo di incontrarsi, e non solo metaforicamente, attorno a un ta- volo, con l’obiettivo di analizzare i bisogni, per individua- re possibili obiettivi comuni e armonizzare gli interventi, per tracciare insieme le linee di un primo progetto di inte- grazione.
Può essere utile, in questa fase, passare in rassegna alcuni dei significati che il termine integrazione assume, nel tentativo di comprendere meglio quali siano i conte- xxxx sui quali ci si potrebbe confrontare nei primi momenti di elaborazione di tale progetto.
Ecco alcune proposte tratte dalla letteratura e dalle rifles- sioni che hanno accompagnato gli ormai quasi trent’anni di storia dell’integrazione scolastica nel nostro paese:
Integrare le cosiddette competenze grezze, individuali e quelle codificate professionali e le diverse discipline per la realizzazione di un progetto pedagogico: in questo ca- so è indispensabile avere una conoscenza delle principa- li parole-chiave, delle terminologie tecniche e della visio- ne che le ha ispirate.
Integrare la tematica della disabilità nei curricola scolasti- ci in un processo di apprendimento che accolga la pre- senza del deficit e dell’handicap come una occasione di approfondimento delle conoscenze.
Integrare le competenze mirate su bisogni speciali con le conoscenze dei processi formativi complessi, integrare la proposta messa a punto per il bambino con bisogni edu- cativi speciali in un progetto per l’intero gruppo classe.
Integrare tecniche, metodi e strategie di intervento in un approccio metodologico rigoroso che consenta di attinge- re di volta in volta a un patrimonio ricco e flessibile, attiva-
Alcuni signifi- cati del termine integrazione
to in risposta all’emergere e al manifestarsi dei bisogni lungo il percorso, in una prospettiva di progettazione partecipata e di co-evoluzione.
La storia del bambino e della sua famiglia
Andare oltre una visione sta- tica e classifica- toria
Integrare l’alterità e la diversità come elemento qualificante dell’educazione in generale e dell’educazione a scuola in particolare, mettendo a disposizione di tutti i bambini, con bi- sogni educativi speciali e non, l’opportunità di incontrarla, avvicinarla e di imparare insieme a comprenderla.
E’ evidente che qualunque sia la sfumatura o l’accezione che noi privilegiamo, o che il gruppo di lavoro sceglierà di adottare, sarà indispensabile poter raggiungere un primo livello di integrazione rispetto alle vicende, alla storia del bambino e della sua famiglia. L’intreccio di difficoltà, di suc- cessi, di potenzialità e preferenze, di desideri e aspirazioni, vale a dire di tutti quegli elementi che possono contribuire a tracciare una sorta di “ritratto non immaginario” di quel bam- bino sarà molto utile per il team che a scuola avrà il com- pito di ideare, progettare e realizzare proposte educative e didattiche che
• abbiano un senso e un significato a livello individuale e nel quadro della programmazione della classe
• permettano di armonizzare il percorso scolastico con il progetto riabilitativo, salvaguardando la specificità dei contesti e offrendo la pluralità dei sostegni necessari
• possano essere iscritte in un più generale progetto di vita, dove il tempo della scuola trova una sua colloca- zione accanto alla vita in famiglia, al gioco o allo sva- go, o alla partecipazione ai diversi momenti della vita sociale.
Per fare questo sarà necessario che il team dei docenti sap- pia andare oltre una visione statica e classificatoria, cercan- do di guardare al bambino reale e alle sue potenzialità in contesto, spostando l’attenzione dalla disabilità al soggetto e all’identificazione dei bisogni educativi speciali di cui oc- corre tener conto per accompagnarlo nel suo percorso sco- lastico.
Se, al di là dei deficit osservabili nel comportamento, nella organizzazione psicologica o nella capacità di entrare in re- lazione con gli altri e l’ambiente, si desidererà riuscire ad in- contrare quel bambino si dovrà cercare di mettere da parte una serie di stereotipi che ancora permeano la nostra cultu-
ra educativa e un’ ideologia dell’integrazione che a vol- te rappresenta uno degli ostacoli più insormontabili alla costruzione di un buon progetto.
Occorrerà cercare di allontanarsi da una logica statica quale quella proposta dalle categorie diagnostiche classiche per orientarsi a una visione funzionale e di- namica, che permetta di incontrare e conoscere le molteplici verità che si nascondono dietro etichette che, utilissime in una prima fase di ricognizione, rischiano successivamente di trasformarsi in vere e proprie lenti deformanti.
FUNZIONI E STRUTTURE CORPOREE
(ex menomazione)
PARTECIPAZIONE SOCIALE
(ex handicap)
ATTIVITÀ PERSONALE CAPACITÀ – PERFORMANCE
(ex disabilità)
Un aiuto importante ed autorevole in questa direzione ci viene dalla nuova ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health, ICF) messa a punto dalla Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 che propone un ripensamento complessivo dei concetti alla base fino a ieri dei processi di integrazio- ne, in una visione fortemente non-discriminatoria dove è possibile rintracciare molte consonanze con gli orien- tamenti e con i principi espressi nella legislazione in vigore nel nostro paese, a partire dalla Legge Quadro 104 del 5 Febbraio 1992. Come è noto l’Italia è uno dei paesi dove la scelta a favore della integrazione e del- l’inclusione è stata radicale, a partire dalla chiusura delle Scuole Speciali e dai primi esperimenti di inseri- mento scolastico nella scuola di tutti degli anni ’70.
La nuova ICF
CONDIZIONI DI SALUTE
(disturbo o malattia)
FATTORI CONTESTUALI
FATTORI PERSONALI
FATTORI AMBIENTALI
Facendosi espressione e testimonianza dell’evoluzione del pensiero attorno alle condizioni di salute e malattia re- gistrata nell’ultimo ventennio, la versione precedente del- l’ICF risale al 1980, la nuova classificazione mette a di- sposizione degli operatori della sanità e della scuola, del- la famiglia e, in ultima analisi, della persona in senso lato, uno “sfondo per integrare” ampio, fortemente connotato in termini dinamici e funzionali.
Parte 1: Funzionamento e disabilità | Parte 2: Fattori contestuali | |||
Componenti | Funzioni e Strutture Corporee | Attività e Partecipazione | Fattori Ambientali | Fattori Personali |
Domini | Funzioni corporee Strutture corporee | Aree di vita (compiti, azioni) | Influenze esterne su funzionamento e disabilità | Influenze esterne su funzionamento e disabilità |
Costrutti | Cambiamento nelle funzioni corporee (fisiologico) Cambiamento nelle strutture corporee (anatomico) | Capacità Eseguire compiti in un ambiente standard Performance Eseguire compiti nell’ambiente attuale | Impatto facilitante o ostacolante delle caratteristiche del mondo fisico, sociale e degli atteggiamenti | Impatto delle caratteristiche della persona |
Aspetto positivo | Integrità funzionale e strutturale | Attività Partecipazione | Facilitatori | non applicabile |
Funzionamento | ||||
Aspetto negativo | Menomazione | Limitazione dell’attività Restrizione della partecipazione | Barriere / ostacoli | non applicabile |
Disabilità |
Da disabilità ad attività perso- nale, da handi- cap a partecipa- zione sociale
In particolare, l’adozione del concetto di attività perso- nale in luogo di disabilità e di diversa partecipazione so- ciale in luogo di handicap più che rispondere alla ne- cessità di adottare una terminologia “politicamente cor- retta” sembra poter offrire un buon quadro di riferimento teorico ed operativo per la lettura dei bisogni educativi speciali: tanto le attività personali che la partecipazione sociale vengono a configurarsi come continuum sui quali va a collocarsi il livello di funzionamento manifesto di un soggetto in un dato momento della sua esistenza. Tale funzionamento manifesto, corrispondente alle pre-
stazioni ma non necessariamente coincidente con le ca- pacità del soggetto, può essere utilizzato come dato di partenza per la progettazione degli interventi individualiz- zati necessari, alla luce della identificazione delle xxxxxx- re che si frappongono ad una espressione piena della ca- pacità.
Fattori contestuali (ambientali e/o personali)
+
-
Performance
Capacità
Barriere
Facilitatori
Capacità | Facilitatore | Performance |
• Capacità articolatorie verbali non presenti • Linguaggio espressivo assente • Capacità nulla | • Tavola di comunicazio- ne con simboli • Persona in grado di de- codificare i simboli | • Performance comunica- tiva espressiva adegua- ta sui bisogni base |
Capacità | Barriere | Performance |
• Capacità verbali buone • Linguaggio espressivo adeguato • Buone capacità | • Fattore contestuale per- sonale negativo: forte ansia sociale in presen- za di estranei | • Performance comunica- tiva espressiva deficita- ria sul versante della partecipazione sociale con estranei o persone poco familiari |
In questa prospettiva, se ci riportiamo sul terreno della qualità della integrazione scolastica, non sarà sufficiente lavorare nel segno della continuità educativa, intesa come opera di costruzione e ricostruzione longitudinale dei per- corsi e delle vicende evolutive che permetta di “ non ripar- tire sempre da zero” – perché si cambia ordine di scuola, perché c’è una variazione del team docente, perché c’è un nuovo insegnante di sostegno o una riorganizzazione nel- l’equipe territoriale. Occorrerà attivarsi per predisporre occasioni di comunicazione e di confronto tra i diversi at- tori del processo che sappiano garantire una sorta di con- tiguità contestuale tra i luoghi della crescita, della cura,
Continuità edu- cativa e conti- guitò contestua- le
della educazione e della formazione. Mi pare che il ter- mine contiguità contestuale possa rendere ragione della necessità di conservare più contesti e sufficientemente differenziati tra loro, elemento che nel caso dei bambini in situazione di handicap, o con livelli diversi di parteci- pazione sociale se desideriamo adottare la nuova termi- nologia OMS, rischia invece di non essere presente per via di un fenomeno pericoloso di appiattimento e omologazione che sembra riguardare sia gli aspetti del- la relazione sia la scelta delle attività proposte.
Il rischio educati- vo delle proposte “rigorosamente” individualizzate
La possibilità di attingere al pro- prio patrimonio di conoscenza e com- petenza professio- nale
Accade spesso che, nel tentativo di offrire occasioni di apprendimento realmente alla portata del bambino, cui possa partecipare traendo vantaggi educativi ed evolutivi gli si propongano attività stereotipate e molto ripetitive, così rigorosamente individualizzate da non poter far par- te di una programmazione condivisa, confinate proprio per questo nella relazione uno-a-uno con l’insegnante specializzato. Si tratta esperienze purtroppo particolar- mente frequenti per i bambini con disabilità cognitive e ritardo mentale: le proposte di gioco o di apprendimento vengono sviluppate a partire da una visione sommativo- lineare dei processi di insegnamento-apprendimento e nella convinzione che l’ingegneria didattica sia lo stru- mento da impiegare per mettere a punto percorsi perso- nalizzati e didatticamente efficaci. Ma se consideriamo le caratteristiche del ritardo mentale e le particolarità che esso introduce nei modi e nei tempi dell’ apprendimento e nella complessiva capacità di riorganizzare e finalizza- re le esperienze, ci rendiamo conto di quanto sarebbe in- vece opportuno adoperarsi attivamente perché la rigidità degli schemi, la mancanza di flessibilità cognitiva, la dif- ficoltà a trasferire le acquisizioni da un contesto all’altro, ecc. fossero tenute presenti dagli insegnanti non come dati acquisiti e immodificabili ma nei loro possibili aspetti evolutivi, nel quadro di una visione più aperta e, in certi termini, più spregiudicata dei processi di inse- gnamento-apprendimento.
Da questo punto di vista, una presenza meno incomben- te degli stereotipi e delle sovra-generalizzazioni che permetta di attingere alla totalità del proprio patrimonio di conoscenza e competenza professionale (non solo a quello che è stato archiviato alla voce handicap, disabili- tà, bambini con bisogni educativi speciali) permetterebbe di sollecitare con maggiore convinzione esperienze più attive, costruttive e partecipate, di destinare tempo ed
energie per aiutare ad emergere potenzialità nascoste o inespresse, di avere una visione più dinamica e creativa dei percorsi possibili.
Momento conoscitivo dei punti di forza/debolezza e bisogni educativi speciali
Momento di definizione di tecniche e risorse di lavo- ro
Gli insegnanti specializzati e non che operano nella classe – ricordo la piena contitolarità dell’insegnante specializzato, assegnato alla classe come supporto al processo di integra- zione e non come risorsa dedicata al bambino in situazione di handicap – dispongono in base alla 104 di numerose oc- casioni per lavorare in questa direzione, a partire dalla ela- borazione del Profilo Dinamico Funzionale (PDF) per mette- re insieme, per integrare i dati preziosissimi raccolti con le osservazioni a scuola con gli elementi di conoscenza emersi nei processi diagnostici condotti dagli specialisti della pato- logia e dai terapisti coinvolti nel progetto riabilitativo, o dall’- équipe del territorio che ha in carico il bambino e la sua fa- miglia. Immaginando che i momenti precedenti dell’iter previ- sto dalla normativa – la certificazione, gli incontri preparato- ri all’accoglienza con la famiglia e con i gli insegnanti dell’or- dine di scuola precedente, la redazione della diagnosi fun- zionale, la richiesta e l’assegnazione dell’insegnante specia- lizzata/o - si siano svolti correttamente, l’elaborazione del PDF segna il momento nel quale occorre realmente mettersi attorno al tavolo e lavorare insieme, scuola, servizi, famiglia ed enti locali.
L’occasione of- ferta dal PDF
Diagnosi
funzionale educativa
Profilo dinamico funzionale
Momento di definizione di obiettivi e di scelte pro- gettuali
Attività, ma-
teriali, metodi di lavoro
Verifica del- l’acquisizione
e dell’appro- priatezza de-
gli obiettivi
Momento di revisione e correzione
Piano educativo individualizzato Progetto di vita
Mettersi attorno al tavolo per la- vorare insieme
I rischi della sottovalutazione e di una inter- pretazione bu- rocratica degli strumenti
Una ipotesi di lavoro che aiuti a sostenere e orientare la cre- scita globale e gli apprendi- menti
Tra la redazione della Diagnosi Funzionale e l’elaborazione del Profilo Dinamico Funzionale si compie una primo passo importante nel percorso di accompagnamento all’integrazio- ne, quando si colgano le implicazioni e le opportunità implici- te (in termini di definizione-ridefinizione degli obiettivi, di oc- casione di avvio/ verifica del gruppo di lavoro, di concreta oc- casione di scambio professionale e confronto interdisciplina- re).
In molti casi però, si assiste ad una svalutazione di questa fa- se del processo, quasi si trattasse di un semplice adempimen- to burocratico-cartaceo, in altri si procede alla delega a uno dei componenti del gruppo di quella che si considera erronea- mente una traduzione meccanica in termini previsionali/ predittivi della Diagnosi Funzionale.
Gli incontri periodici per la redazione e la verifica del PEI so- no dei buoni osservatori per rilevare gli effetti di questa sotto- valutazione, soprattutto quando il percorso del bambino solle- va quesiti di fondo rispetto alla adeguatezza evolutiva degli obiettivi educativi e didattici e alle attese prestazionali.
In effetti, coprendo un biennio che ovviamente non coincide con l’arco temporale di un anno scolastico, il PDF si presenta come una occasione per poter guardare un po’ più in là, con una minore sottolineatura degli aspetti prestazionali (in termini di obiettivi raggiunti o meno) ed una prospettiva più autentica- mente progettuale: tra i componenti del gruppo di lavoro pos- sono circolare in modo non immediatamente finalizzato all’ap- plicazione e alla realizzazione elementi di conoscenza sul bambino che sono stati raccolti in ambiti osservativi e a partire da presupposti diversi che, proprio per questo possono contri- buire a dinamizzare la situazione, mettendo in luce risorse, rendendo manifeste aree di conflitto potenziale, portando in alcuni casi a ridefinire tempi, modi e obiettivi.
Da un dialogo su questi temi possono emergere ipotesi e pro- poste concrete in base alle quali scegliere le esperienze di apprendimento e le attività che a parere del gruppo di lavoro si prestano meglio di altre a sostenere e orientare la crescita globale del bambino nel periodo considerato. Il racconto delle vicende scolastiche da parte degli insegnanti o della vita in famiglia da parte dei genitori, con le innumerevoli occasioni di apprendimento informale che la costellano, possono offrire spunti preziosi per la formulazione di una ipotesi di lavoro condivisa, per tracciare attraverso il PDF le coordinate, le li- nee-guida di una progettualità evolutiva ed educativa che il Piano Educativo Invidualizzato (PEI) dovrà successivamente tradurre in obiettivi specifici, percorsi didattici, attività e indica- zioni operative.
Costruiamo il Piano Educativo Individualizzato (PEI)
Dott. Xxxxx Xxxxxxx Xxxxx
Fino agli anni ’70 i termini diagnosi e profilo funzionale, piano individualizzato ecc. non erano in uso nella scuola, non solo quella comune, ma anche nella scuola speciale o meglio spe- cializzata dove non si faceva appello a termini legislativi per meglio conoscere i problemi dei singoli alunni disabili, né per programmare l’attività sia educativa che riabilitativa.
Era, però, prassi comune consolidata che a partire ovviamen- te dalla diagnosi clinica, tutti gli operatori che in qualche modo intervenivano a sostegno del recupero del soggetto in difficoltà avessero incontri frequenti con la famiglia, avviasse- ro un programma di osservazione sistematica ognuno secon- do le proprie competenze (sanitarie/riabilitative, educative) e promuovessero incontri periodici d’equipe per programmare gli interventi e per valutare gli esiti.
Tutto ciò era frutto di consolidata esperienza che non neces- sitava di un avallo normativo, ma scaturiva dalla situazione che lo richiedeva.
Da una situazione super protetta, accentratrice, monopolisti- ca come quella insita nelle situazioni speciali, siamo passati ad un periodo di frazionamento delle funzioni che tendevano a sezionare il bambino a seconda degli interventi che le sin- gole istituzioni operavano su di lui, giungendo spesso alla deresponsabilizzazione globale del suo recupero.
Recuperare un bambino, impegnarsi nel delicato compito for- mativo richiede in primo luogo una formulazione di obiettivi che debbono essere comuni a tutti coloro che sono coinvolti (famiglia, scuola, servizio sanitario e di riabilitazione).
Il percorso educativo diventa coerente e compatibile solo se è tracciato nel consenso e solo se nasce da una chiara iden- tificazione dei bisogni, delle difficoltà e soprattutto delle po- tenzialità del soggetto.
Non è certo il mio un nostalgico richiamo alle situazioni pre- cedenti, avendo io anche partecipato negli anni ’70 alle batta- glie per il riconoscimento di una scuola comune non selettiva, aperta a tutti con l’obiettivo di una integrazione costruita pas- so passo e non proiettata nel futuro della vita del singolo, quando ormai la separazione vissuta negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza avevano reso incompatibile e difficile una
partecipazione comune alla vita sociale.
Ma certo nell’utopia dell’inserimento, come sola taumaturgica via all’integrazione, si è dimenticato di garantire anche la ne- cessaria integrazione delle competenze e l’indispensabile pro- gramma comune di intervento nella costruzione di un progetto di vita per il soggetto in difficoltà.
L’alone magico delle “diagnosi”
Xxxxxxxx quindi i primi problemi dovuti ad atteggiamenti di- versi: quello dell’insegnante che pretendeva di conoscere la diagnosi medica dell’alunno, quello del medico che si trincera- va dietro il segreto professionale e quello della famiglia che per pudore o per desiderio di riservatezza negava la presenza nel figlio delle difficoltà accertate.
Anche per quanto riguarda la “certificazione” che avrebbe da- to il via all’atto amministrativo che assegna alla scuola gli in- segnanti specializzati sono stati necessari ampi dibattiti, di- squisizioni culturali e linguistiche, chiarimenti di responsabilità professionali per giungere alla comprensione definitiva della sua funzione.
L’alone magico che investe sempre le definizioni tecniche scientifiche non di uso comune, aveva dato l’illusione alla scuola di poter, tramite queste “diagnosi”, comprendere le reali difficoltà degli alunni e di poter trarre indicazioni per una programmazione e un insegnamento individualizzato mirato alle singole situazioni. Al tempo stesso aveva accreditato nel- la classe medica la convinzione di essere responsabile dell’at- tribuzione alla scuola di risorse di aiuto (insegnanti specializ- zati) di cui riteneva di dover decidere la presenza e il numero. Spesso con fatica si è dovuto chiarire che la richiesta di inse- gnanti per il sostegno è una responsabilità della stessa scuola la quale, a seconda delle situazioni, delle difficoltà accertate, della programmazione in atto poteva decidere di avvalersi del- la diagnosi medica per richiedere personale o anche solo per ridurre il numero degli alunni per classe (da 25 a 20). L’infor- mazione data ai docenti dalla diagnosi clinica d’altronde risul- tava piuttosto lacunosa e soprattutto non forniva elementi de- scrittivi del comportamento dell’alunno dal punto di vista emo- tivo, relazionale, cognitivo e dell’apprendimento.
Le difficoltà che la scuola incontra per risolvere o meglio su- perare e ridurre gli “effetti disfunzionali” indotti dalle diverse menomazioni agli obiettivi che essa si pone per l’autonomia, la socializzazione, l’apprendimento dei singoli alunni pongono un problema ben più ampio di quanto non sia quello indicato dalla diagnosi clinica. L’itinerario per uno sviluppo evolutivo del soggetto si rileva praticabile solo se si snoda in un clima di convinzione comune e solo se nasce da una chiara identifi-
cazione dei suoi bisogni, delle sue difficoltà e soprattutto delle sue potenzialità.
La legge n.833 del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Na- zionale, prevede che
“le prestazioni sanitarie dirette al recupero funzionale e so- ciale dei soggetti affetti da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali dipendenti da qualunque causa, siano erogate dalle Unità Sanitarie Locali attraverso i propri servizi: ”
La diagnosi medica costituisce dunque il primo adempimento delle prestazioni sanitarie previste dalla norma.
I Nuovi Programmi (non più nuovi perché approvati il 12.2.1985) stesi per la scuola elementare, che hanno tuttavia valenza pedagogica generale, hanno richiamato l’attenzione sull’importanza, per assicurare la continuità dello sviluppo dei singoli di:
“conoscere e valorizzare le attitudini individuali, le conoscen- ze acquisite e le sicurezze raggiunte sul piano affettivo, psi- cologico e sociale. Pertanto è essenziale, per procedere al loro (i.e. dei bambini) potenziamento, accertare fin dai primi giorni le abilità di base esistenti, relative al piano percettivo, psicomotorio e manipolativo, ai processi di simbolizzazione, alle competenze logiche, espressive, comunicative e sociali, alla rappresentazione grafica, spaziale e ritmica ecc…”
Ora a chi è attribuito il compito di “accertare” abilità e difficoltà e “assicurare la continuità dello sviluppo individuale” di un bambino che presenta difficoltà e ritardi tali da compromettere il suo sviluppo armonico?
Se è arduo definire il soggetto in situazione di handicap, al- trettanto difficile è promuovere l’integrazione scolastica. L’in- tegrazione comprende aspetti pedagogico-didattici, psicologi- co-sanitari, socio-assistenziali e culturali che devono unifor- marsi in un programma comune.
Ciò implica collaborazione tra scuola, i servizi medico-sanitari e assistenziali del territorio e le famiglie. Ogni operatore, me- dico, insegnante psicologo, terapeuta è chiamato ad elaborare un profilo del ragazzo, in base alla specifica competenza, ri- portando i dati delle proprie osservazioni e le proprie ipotesi di intervento.
I vari dati vengono confrontati e collegati tra loro per superare una visione “unilaterale” e permettono, da una parte, di defini- re la situazione dell’alunno in modo più completo e articolato e, dall’altra, di stabilire l’iter di intervento più efficace.
Conoscere e va- lorizzare le atti- tudini indivi- duali
La diagnosi funzionale non è un semplice referto medico
L’Osservatorio Permanente sull’handicap
Tutto ciò era stato delineato già nel 1985 con la C.M. 250 che invitava tutti gli operatori coinvolti a redigere una “diagnosi funzionale” così definita:
“la diagnosi funzionale dovrà porre in evidenza, accanto ai dati anagrafici e familiari e a quelli risultanti dalle acquisite certificazioni dell’handicap, il profilo dell’alunno dal punto di vista fisico psichico, sociale ed affettivo, comportamentale e dovrebbe mettere in rilievo sia le difficoltà di apprendimento conseguenti alle situazioni di handicap e le relative possibili- tà di recupero, sia le capacità ed abilità possedute, che de- vono essere sostenute, sollecitate e progressivamente raf- forzate e sviluppate.”
Si intuisce chiaramente che una diagnosi siffatta non si identi- fica con un semplice referto medico, che essa non si traduce in un accertamento di condizioni bio-fisiologiche, ma abbraccia anche una valutazione delle capacità conseguite e delle po- tenzialità collegate a ciascuna fase di sviluppo
Se tutto questo si richiede alla Diagnosi funzionale, chi dovrà formularla? Il medico? Lo psicologo? L’educatore? Evidente- mente nessuno di loro è in grado di fornirla da solo. Essa ap- pare piuttosto il risultato di un lavoro di équipe nel quale con- fluiscono gli apporti dei vari “punti di vista”.
L’operatore della scuola dovrà rilevare soprattutto i bisogni educativi del soggetto e proporre i modi più adeguati per sod- disfarli. Ma soddisfare i bisogni educativi (che sono in gran parte bisogni di relazione e di apprendimento) di soggetti che presentano disturbi psichici/ fisici presuppone la capacità di ri- cevere dagli specialisti dei messaggi decifrabili e traducibili nell’azione quotidiana della scuola
Gli anni conseguenti all’emanazione delle norme citate hanno visto svilupparsi una notevole conflittualità tra istituzioni dovu- ta alla carenza di carattere cogente delle norme stesse rivolte di fatto nei confronti del solo mondo scolastico. Al contrario in molte situazioni si è sviluppata una ricca collaborazione tra operatori diversi che coinvolgendo la famiglia dell’alunno con “bisogni educativi specifici” (definizione che in Europa tende a sostituire il termine handicappati) che hanno dato vita alle esperienze più significative sul territorio, molte delle quali han- no richiamato l’attenzione dell’Europa all’esperienza italiana.
Il M.P.I. istituisce nel 1990 l’Osservatorio permanente sul- l’handicap che tramite i suoi Gruppi di lavoro (composti da operatori del mondo della scuola, della sanità e delle associa- zioni in rappresentanza delle famiglie e degli utenti) tenta di far chiarezza sui compiti e sulle competenze.
Il 5 febbraio del 1992 esce la legge n.104 “Legge-quadro sull’assistenza. L’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”.
L’art. 12 punto 5 così stabilisce:
“All’individuazione dell’alunno come persona handicappata ed all’acquisizione della documentazione risultante dalla diagnosi funzionale, fa seguito un profilo dinamico- funzionale ai fini della formulazione di un piano educativo individualizzato, alla cui definizione provvedono congiunta- mente, con la collaborazione dei genitori della persona han- dicappata, gli operatori delle unità sanitarie locali e, per cia- scun grado di scuola, personale insegnante specializzato della scuola, con la partecipazione dell’insegnante opera- tore psico-pedagogico individuato secondo criteri stabiliti dal Ministero della pubblica xxxxxxxxxx.Xx profilo indica le ca- ratteristiche fisiche, psichiche e sociali ed affettive dell’alun- no e pone in rilievo sia difficoltà di apprendimento conse- guenti alla situazione di handicap e le possibilità di recupe- ro, sia le capacità possedute che devono essere sostenute, sollecitate e sviluppate nel rispetto delle scelte culturali del- la persona handicappata.”
E al punto 6:
“alla elaborazione del profilo dinamico-funzionale iniziale seguono, con il concorso degli operatori delle unità sanita- rie locali, della scuola e delle famiglie, verifiche per control- lare gli effetti dei diversi interventi e l’influenza esercitata dall’ambiente scolastico.”
Per i compiti attribuiti alle unità sanitarie locali si rimanda al- l’Atto di indirizzo da emanarsi ai sensi della legge n.833/78.
Ed, infatti, il D.P.R. del 24 febbraio 1994 “Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap” così recita all’art. 3 “Diagnosi funzionale”:
1. per diagnosi funzionale si intende la descrizione analiti- ca della compromissione funzionale dello stato psico- fisico dell’alunno in situazione di handicap, al momento in cui accede alla struttura sanitaria per conseguire gli interventi previsti dagli articoli 12 e 13 della legge n.104 del 1992.
La Legge quadro 104/92
2. Alla diagnosi funzionale provvede l’unità multidisciplinare composta: dal medico specialista in neuropsichiatria in- fantile, dal terapista della riabilitazione, dagli operatori sociali in servizio presso l’unità sanitaria locale o in regi- me di convenzione con la medesima. La diagnosi funzio- nale deriva dall’acquisizione di elementi clinici e psico sociali. Gli elementi clinici si acquisiscono tramite la visi- ta medica diretta dell’alunno e l’acquisizione dell’even- tuale documentazione medica preesistente. Gli elementi psico-sociali si acquisiscono attraverso specifica relazio- ne in cui siano ricompresi:
a) i dati anagrafici del soggetto;
b) i dati relativi alle caratteristiche del nucleo familia- re (composizione, stato di salute dei membri, tipo di lavoro svolto, contesto ambientale, ecc…)
e inoltre
4. La diagnosi funzionale, essendo finalizzata al recupe- ro del soggetto portatore di handicap, deve tenere parti- colarmente conto delle potenzialità registrabili in ordine ai seguenti aspetti:
a) cognitivo
b) affettivo-relazionale
c) linguistico
d) sensoriale
e) motorio- prassico
f) neuropsicologico
g) autonomia
e ancora all’Art.4 “Profilo dinamico funzionale”:
0.Xx sensi dell’art. 12, comma 5, della legge n.104 del 1992, il profilo dinamico funzionale è atto successivo alla diagnosi funzionale e indica in via prioritaria, dopo un periodo di inserimento scolastico, il prevedibile livello di sviluppo che l’alunno in situazione di handicap dimostra di possedere nei tempi brevi (sei mesi) e nei tempi lun- ghi (due anni). Il profilo dinamico funzionale viene redat- to dall’unità multidisciplinare di cui all’art. 3, dai docenti curriculari e dagli insegnanti specializzati della scuola, che riferiscono sulla base della diretta osservazione ov- vero in base all’esperienza maturata in situazioni analo- ghe, con la collaborazione dei familiari dell’alunno.
Riferendomi, allora, a quanto affermato all’inizio desidero sot- tolineare almeno tre aspetti importanti:
• indispensabilità di un lavoro d’équipe e di collabo- razione tra le istituzioni
• l’importanza di evidenziare non solo le difficoltà del soggetto, ma soprattutto le sue abilità residue
• la collaborazione dei familiari dell’alunno
Il profilo dinamico funzionale costituisce perciò il quadro di rife- rimento per ogni programma di recupero. Nella scuola esso di- viene uno strumento per definire il Progetto Educativo Indivi- dualizzato (P.E.I.) già previsto dalle circolari ministeriali n.258/83 e 259/85 ed infine codificato dalla legge n.104/92 (art.12 comma 5)
Al di là della definizione operazionale di piano didattico, mi sembra che rivesta particolare importanza, in questo contesto, la parola “educativo” perché essa pone in evidenza un quadro generale di progettualità che deve trovare concordi e consape- vole tutti gli adulti coinvolti.
Senza nulla togliere al piano didattico di primaria competenza della scuola, vorrei sottolineare ciò che oggi viene definito con il Piano dell’Offerta Formativa (POF) e cioè che non vi può es- sere insegnamento se non all’interno di un piano educativo che coinvolge tutta la personalità degli alunni, la loro affettività, le loro sicurezze, i loro giudizi di valore. Ora il “Piano educati- vo individualizzato” (PEI) non può prescindere da riflessioni siffatte, da consapevoli scelte che responsabilizzano ogni adulto ad esplicitare e a concordare con gli altri non solo le li- nee educative generali, ma anche la prassi e le modalità in cui quelle linee si realizzano. Il ruolo educativo deve essere as- sunto responsabilmente in un confronto continuo di équipe tale da indurre dinamiche omogenee di rapporti e atteggiamenti coerenti. Il piano esige, in sostanza, che ciascuno ponga nel- l’esercizio della propria funzione anche la sua “persona”, cioè quell’insieme di conoscenze, esperienze, acquisizioni culturali, sensibilità che proiettano la competenza oltre il ruolo che le è formalmente assegnato.
La famiglia è ovviamente coinvolta in questo processo, nelle
intenzioni del piano essa non è né un oggetto, né un riferimen- to e neppure una cassa di risonanza dell’azione rieducativa e didattica. La famiglia è un attore che deve essere, semmai, ini- ziato al lavoro comune senza alcun artificioso appesantimento dei suoi compiti, senza alcuna obbligatoria supplenza di fun-
Il PDF come quadro di riferi- mento per ogni programma di recupero
Il PEI come oc- casione per concordare li- nee educative generali ma an- che prassi e modalità di at- tuazione
zioni istituzionali.
In definitiva la programmazione indica agli insegnanti le se- guenti tracce di azione:
1- l’analisi dei dati raccolti (frutto degli incontri con i genitori, con i colleghi dell’ordine di scuola precedenti, dei dati di osservazione ecc);
2- l’osservazione delle modalità di espressione del bambino finalizzate alla comunicazione con riferimento così ai codi- ci linguistici come a quelli espressivi;
3- la valutazione dei vari comportamenti relativi alle tre aree: relazionale, motoria, cognitiva;
4- predisposizione di strategie educative e didattiche idonee a costituire i prerequisiti per l’apprendimento.
Come rilevato da diversi ricercatori ed operatori sul campo tra- mite anche l’analisi di oltre ottocento PEI sul territorio torinese, le proposte incluse nel piano educativo individualizzato risulta- no rafforzate quando:
- riportano indicazioni dettagliate e coerenti circa gli obiettivi generali e specifici;
- esplicita una metodologia precisa: indicando i percorsi educativi e didattici che si intendono at- tivare, nel quadro dell’organizzazione delle risor- se della scuola, percorsi calibrati sui bisogni e sulle potenzialità dell’alunno, al fine di raggiun- xxxx gli obiettivi proposti.
Precisare la fruizione speci- fica dell’inse- gnante di soste- gno
Ed inoltre, il piano educativo è maggiormente funzionale quan- do sottolinea e precisa la funzione specifica dell’insegnante di sostegno:
- anzitutto nei suoi rapporti con gli altri insegnanti di classe e di scuola, a cui è affidato collettiva- mente l’alunno;
- nella sua funzione di “mediatore della comunica- zione” tra tutti coloro che operano con l’alunno;
- nelle sue relazioni, concrete e dettagliate di sup- porto e di integrazione dell’alunno nel contesto di classe e di scuola, senza atteggiamenti di tuto- raggio e di isolamento.
Un altro aspetto importante va rilevato nell’effettiva collabora- zione tra tutti i componenti dei “Gruppi scuola” (insegnanti, é- quipe, genitori) nell’impostare una metodologia comune per
l’integrazione dell’alunno. In caso di mancata partecipazione dei genitori è bene che se ne motivi l’assenza. La compilazio- ne definitiva del piano, pur con la massima informazione e col- laborazione da parte delle équipe e della famiglia, si ritiene debba essere della scuola che accoglie l’alunno, in quanto so- lo essa è in grado di valutare le risorse disponibili, impostare l’organizzazione complessiva e i percorsi educativi e didattici.
Per le competenze specifiche relative al Piano Educativo Indi- vidualizzato, si rimanda comunque all’art. 12 del DPR del 24 febbraio 1994
Va da sé che la programmazione del recupero di un alunno in difficoltà presume, oltre che un concerto di intenzioni, una coerenza di adempimenti non facilmente eludibile. Solo in cir- costanze eccezionali si può ammettere che le scadenze degli interventi vengano turbate dall’accidentalità del quotidiano; le attività dei soggetti interessati all’azione di recupero (scuola - servizi riabilitativi – famiglie) si intrecciano in una serie di vin- coli di natura amministrativo-gestionale non alterabili senza che vi sia compromissione della consequenzialità logica delle fasi dell’intero processo. La caduta di un “momento” di incon- tro tra scuola e le strutture sanitarie può, ad esempio, alterare la continuità e la razionalità di un progetto pedagogico/ didattico.
Per altro verso ad una rigidità dello schema di attuazione della programmazione deve far fronte una duttilità della revisione dei contenuti.
Anche la gestione del recupero si confronta continuamente con la gestione: il feed-back fra ciò che si intende fare e ciò che si fa è ingrediente indispensabile di una corretta proget- tualità educativa.
Attraverso questa verifica dei nessi tra pensiero ed azione, tra dato di conoscenza ed intenzionalità, l’insegnante potrà sot- trarsi agli effetti devastanti che sulla sua professionalità eser- cita una opinione corrente che razionalizza in termini di margi- nalità le difficoltà reali del recupero. L’osservazione “guidata” della realtà (raccolta delle informazioni, sintesi degli incontri, verifiche, notazioni di scadenze, ecc.) può offrire all’insegnan- te (in particolare all’insegnante dedicato al sostegno) quella routinizzazione di attività che costituisce la premessa indi- spensabile per il riconoscimento e l’esercizio di un ruolo.
Una verifica dei nessi tra dati di conoscenza e intenzionalità
IL BAMBINO
con disturbi
cognitivi
di relazione vista – udito
SCUOLA
COMPETENZE PEDAGOGICHE:
osservazione accoglienza
provengono da
conoscenza meccanismi di apprendimento
interventi metodologico-didattici
COMPETENZE ORGANIZZATIVE
PROCEDURE
COMPETENZE
provengono da
richiedono
motori
ATTIVA
SERVIZIO SANITARIO
diagnosi funzionale
interventi terapeutici e riabilitativi
permettono
rapporti inter e intra istituzionali
continuità
profilo funzionale
contribuiscono alla
contribuiscono alla
P. E. I.
stesura del
stesura del
collabora
si avvale di
si avvale di
conoscenza e storia familiare
AMBIENTE FAMILIARE
I bisogni e le risorse
Tavola rotonda – coordinatore Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Contributi di:
Xxxxxx Xxxx,
Responsabile Progetto Xxxxx Xxx - Comune di Monza
xxxx. Xxxxxxxx Xxxxxx
Unità operativa Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza
xxxx. Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Dirigente scolastico
Xxxxxxx Xxxxxxx
Genitore – Presidente Capirsi Down - Monza
Xxxxxxx Xxxxx
Docente di Pedagogia speciale
Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
48
Xxxxxx Xxxx
Responsabile Progetto Xxxxx Xxx - Comune di Monza
Ho accolto con interesse l’invito da parte dell’associazione e dell’università a collaborare alla realizzazione di questo per- corso formativo perché ritengo che, nonostante le indicazioni della legge 104 siano state recepite, ci sia ancora molto da dire e da fare in merito all’inserimento e all’integrazione dei bambini con problematiche di handicap.
Penso che l’innovazione non vada intesa come l’ampliamento di ambiti d’intervento, spesso influenzata da fenomeni sociali che smuovono l’interesse garantendo visibilità, ma come at- teggiamento mentale dei singoli e culturale della comunità, volto alla ricerca e alla sperimentazione permanente in qua- lunque problematica s’intenda affrontare.
Mettere a disposizione le risorse del servizio progetti innova- tivi e della progettazione con la L.285/97 mi è sembrato signi- ficativo per sostenere percorsi di confronto tra i diversi attori coinvolti nell’applicazione degli strumenti indicati dalla 104.
Nel concordare l’intervento di oggi si è valutato opportuno puntare su aspetti concreti legati alla mia esperienza di ope- ratore sul territorio di Monza partendo da una “domanda” che si può formulare in
“Cosa funziona e cosa non funziona”
Ho quindi pensato di partire da un momento di verifica attuato nel novembre 97 che ha visto attorno ad un tavolo operatori delle equipe territoriali, neuropsichiatri della U.O.N.P.I.A., Di- rettori Didattici allo scopo di valutare il primo periodo di appli- cazione dell’Accordo di Programma L.104 (Provveditorato, Di- stretto Scolastico 63, Scuole, Ente Locale, USSL 29) e del protocollo operativo tra Servizi Sociali e Clinica di Neuropsi- chiatria Infantile Ospedale X.Xxxxxxx per la città di Monza.
Ai tempi era già in uso il parlare di lavoro di rete ma era, in qualche modo, difficile applicare un modello teorico ad un am- bito più connotato in senso operativo da aspetti clinici- pedagogici-psicopedagogici che sociali.
Nei servizi territoriali vi era la convinzione che il sociale fosse il grande contenitore, che il Clinico fosse l’unico Sapiente In-
Ce’è ancora molto da fare in merito all’inte- grazione
Nel novembre 1997: verifica dell’Accordo di Programma
Lavoro di rete
terprete della patologia e che l’insegnante avesse la cono- scenza reale, il Quotidiano, del bambino.
La consapevolezza che il lavoro di rete potesse essere un ri- ferimento metodologico per sostenere i principi formatori della 104 era latente.
Eppure un lavoro di questo tipo non poteva essere pensato e realizzato se non da operatori che, usciti dall’ottica dell’altro come cliente (dipendente e fruitore di consulenza), comincia- vano a considerare l’altro come partners in un “progetto alla persona” mettendosi in rete.
Posso affermare che tutti gli attori in quel momento si erano dichiarati positivamente: le cose funzionavano. Soprattutto per quanto riguardava i servizi c’era soddisfazione nel lavora- re integrando competenze e riflessioni su come affrontare l’applicazione della normativa.
Il PDF
Come coinvol- xxxx i genitori
Restava non sempre chiaro se il grosso lavoro di stesura del
P.D.F. fosse poi ripagato da una reale utilità per l’insegnante nel formulare il P.E.I.
La domanda era:
il prodotto di un lavoro di osservazione clinica, psicopedagogi- ca, educativa che consta di tempi notevoli e di grande atten- zione alle relazioni e alle comunicazioni è poi utile all’inse- gnante?
E per utile si intendeva:
lo riceve o si ferma in direzione? Il contenuto e/o il modo di esprimerlo è quello che gli serve per pianificare l’intervento in contesto scolastico?
La normativa, inoltre indicava i luoghi in cui coinvolgere i ge- nitori ma non affrontava il “come” sottovalutando alcuni aspet- ti significativi dell'esperienza emotiva degli stessi. Ogni realtà sperimentava modalità diverse con grande attenzione ai se- gnali che i genitori manifestavano secondo le richieste fatte loro.
La domanda era:
come coinvolgere i genitori garantendo il necessario rispetto per ogni singola "storia" senza delegare loro i compiti della scuola o dei servizi ?
Con i neuropsichiatri con cui lavoravo spesso, nel rileggere i PDF, ci domandavamo se eravamo davvero riuscite a “raccontare” quel Bambino e nell’Incontro con i genitori e le insegnanti ci aspettavamo un riscontro in merito.
C’era grande interesse per quanto si muoveva.
Sono soltanto cinque anni fa. Molto lavoro si è fatto e credo che per molti bambini si sia riusciti a fare un lavoro utile.
Attualmente c’è più consapevolezza nell’uso degli strumenti PDF e PEI soprattutto nel considerarli come strumenti all’in- terno delle diverse fasi di lavoro del Progetto Educativo.
Tuttavia ritengo che, se per progettare si intende prefigurarsi quali cambiamenti si ritiene opportuno introdurre in una data situazione e immaginare attraverso quali strategie operative si possono conseguire, è fondamentale per una progettazione integrata condividere un metodo e il linguaggio.
Scuola e servizi, e servizi tra loro, si stanno movendo su bina- ri paralleli, e l’uso di termini come progetto, programma, pro- grammazione, bisogni e risorse, rete è ormai frequente.
Credo che sia il momento di capire se abbiano per tutti lo stesso significato e soprattutto se sia possibile realizzare le sinergie indispensabili affinché la rete non sia solo un’immagi- ne mediatica, ma la reale risorsa di una comunità che si pren- de cura dei bambini. Se non facciamo questo passaggio, che è quello di andare verso la definizione di un metodo di lavoro che, facendo tesoro dell’esperienza, risponda alle necessità operative di tutti gli attori coinvolti, eliminando le ridondanze e rispettando le diverse competenze, continueremo ad avere vuoti invece che reti.
Mi sembra infatti di cogliere una leggero calo di interesse da parte delle istituzioni, soprattutto nei livelli gestionali, con una ricaduta sugli attività degli operatori che non sempre riescono a far fronte a tutte le richieste.
Se gli operatori sono le stesse persone che hanno iniziato an- ni fa il percorso comune, riescono, sulla scorta di un linguag- gio ormai condiviso e una fiducia nell’operare dell’altro a far fronte ai compiti previsti dalla legge mantenendone un suffi- ciente contenuto progettuale, altrimenti ci si limita a compilare la modulistica allontanandosi sempre di più dal senso e dal si- gnificato stesso del Progetto Educativo e della filosofia della 104.
Forse è il destino delle leggi che segnano e accompagnano i cambiamenti culturali. Riscontro la stessa dinamica, in questo
Condividere metodo e lin- guaggio
Un calo dell’in- teresse
periodo, in altre normative che hanno come “forza culturale” la qualità delle prestazioni e delle offerte ai cittadini, anche se, essendo normative più recenti, hanno previsto nelle circolari applicative la destinazione di fondi che andranno ricompresi, si spera anche nel senso, nella attuazione della L.328/00.
La legge 104 è una legge di “principio”, indica compiti ma la- scia agli enti l’autoregolamentazione nella destinazione delle risorse umane ed economiche.
Questo spiega il perché di alcuni disinvestimenti cui stiamo assistendo che si traducono in diminuzione di operatori sul territorio e/o in ad un ampliamento degli ambiti di lavoro.
Una cornice per l’integrazione
Mi sembra che i punti su cui lavorare, forse discostandomi un po’ dallo specifico del corso, ma con l’intento di orientare l’at- tenzione sugli aspetti di cornice che potrebbero essere altret- tanto utili in questo momento per presidiare il patrimonio di sensibilità, competenze e capacità fin qui acquisito, siano:
• La rete: come i servizi, la scuola, i genitori e la realtà territoriale possono integrarsi, valutando i processi più che i risultati.
• Il gruppo come risorsa: i team di insegnanti, le equi- pe debbono imparare a lavorare in gruppo all’interno e con l’esterno. Xxxxx, funzioni e compiti chiari e condivisi sono presupposti per il lavoro di progettazione integrata.
• I diversi livelli: come si raccorda il lavoro del gruppo di progetto (sia per il singolo progetto educativo che per progetti che vanno ad incidere su problematiche più am- pie) con il livello gestionale, amministrativo e politico.
• La normativa: la legge 104 e altre normative (carta dei servizi direttiva 254/95; progetto genitori C.M.n°47 /92; L.285/97 promozione dei diritti dei minori e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza; L.23/97 osservatorio re- gionale per l’infanzia art.4 commi 4 e 5; L.284/98 progetti sperimentali a favore di persone cieche; L.162/98 misure di sostegno alle persone con handicap grave; L.388/2000 art.80 e 81) come risorse che vanno integra- te.
• La formazione: finalizzare i percorsi formativi all’inter- no della progettazione stessa co-progettando con i for- matori.
Xxxxxxxx Xxxxxx
Unità Operativa Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza
Il mio intervento è il frutto della riflessione e del lavoro di al- cuni anni nell'ambito della presa in carico e dei rapporti con la scuola nelle situazioni di handicap secondo le normative della legge 104 e dell'intesa di programma che ne è scaturita. Pensare in termini di nuovi progetti implica la possibilità di ri- vedere l'esperienza, potendo conservare e consolidare ciò che funziona e modificare, migliorare, rivedere ciò che invece non sembra funzionare.
Certamente ci sono procedure che possono snellire e facilita- re il percorso ed altre che possono incepparlo o addirittura ostacolarlo.
Così se possono essere individuate modalità condivise chiare e semplici e ogni istituzione sa cosa gli spetta avendolo defi- nito reciprocamente, i rapporti diventano più facili.
Ancora piuttosto difficile è ottimizzare i tempi quando sono più istituzioni a convergere, e trovare momenti comuni diven- ta più complicato se le parti in gioco si moltiplicano.
Sono importanti anche gli strumenti di lavoro che vengono condivisi e sicuramente c'è da affinarli perchè siano sempre più usabili, ma bisogna che siano a disposizione, poichè ca- pita che nel passaggio di ciclo il nuovo team di insegnanti non sappia che può trovare nella cartella personale di quel bambino un profilo dinamico funzionale del ciclo precedente, che può dare un idea abbastanza articolata anche se sinteti- ca del modo di funzionare di quel bambino.
Per quanto riguarda il profilo dinamico funzionale credo che gli aspetti che potrebbero essere resi sempre più adatti ad una buona fruizione riguardano l'uso del linguaggio, necessa- riamente meno tecnico e il più possibile esplicito sulle abilità ed i comportamenti pur riuscendo a darne una visione unita- ria e sistematica ed un senso generale del funzionamento (il rischio altrimenti è quello di guardare ad aspetti frammentari). Questo implica un tempo e delle energie che anche in campo sanitario trovano relativo riconoscimento nella tendenza ad andare verso un ottica aziendale.
Se poi consideriamo il passaggio al piano educativo persona- lizzato possiamo verificare che non è ancora semplice fare il
Legge 104 e intesa di pro- gramma
Il PDF
Il PEI
passaggio e tener conto del profilo funzionale come base di riferimento, perchè la tendenza è all'uniformazione (obbiettivi ridotti, facilitazioni, obbiettivi specifici che vengono global- mente attribuiti, non sempre tenendo conto delle caratteristi- che peculiari).
Sicuramente non è sempre facile tradurre il PDF in una pro- gettazione educativa, specialmente se cambia il riferimento e dalle aree di funzionamento si passa alle aree disciplinari, in particolare man mano che si sale nel grado di scuola.
Se poi gli obbiettivi sono troppo generici la programmazione può essere ambigua e termini altisonanti possono riferirsi a compiti semplici attuabili in modo concreto, così come ad altri molto più astratti e complessi nello stesso ambito ed il PEI perde la sua utilità di essere leggibile da altri per proseguire il lavoro interrotto, perchè di fatto spesso (forse troppo) suc- cede che le persone che si occupano di questo lavoro cambi- no (e questo turnover non giova alla continuità dei progetti ne alla relazione con chi ha particolari difficoltà).
Ma credo che fondamentalmente siano poi i modi di concepi- re il ruolo educativo della scuola e di investire secondo le di- verse finalità che hanno il maggior peso nella possibilità che le cose funzionino.
Sto parlando di investimenti non solo in termini economici (ma sappiamo che in questa epoca anche questo è fonda- mentale), a partire da quelli che possono consentire lo svi- lupparsi di risorse (intendo come personale a disposizione e mi riferisco anche ai tagli sugli insegnanti di sostegno, ma anche al materiale strutturato ed agli ausili necessari ed agli spazi in cui poter realizzare i progetti).
Mi riferisco inoltre ad una cultura che vada verso la possibili- tà di accogliere la diversità.
Differenziazio- ne degli obietti- vi e delle meto- dologie
Nella mia esperienza le cose possono funzionare, in termini di una possibile integrazione di chi ha difficoltà particolari, quando ad esempio è possibile continuare ad avere in mente che gli obbiettivi e le metodologie possono e devono essere differenziati per ciascun individuo e che questo è particolar- mente vero in un' epoca in cui convergono nella scuola realtà estremamente eterogenee con vari gradi di differenze e disa- gio (dall'immigrazione al disagio socio-culturale, alla margi- nalità).
Questo si verifica ad esempio quando è possibile conserva-
re, specie nei primi anni della scuola elementare metodiche che tengano conto della fondamentale esigenza del bambino di passare, per apprendere in modo utile e significativo dal- l'esperienza vissuta, dalla manipolazione e dal gioco indipen- dentemente dal suo livello, ma anche solo tenendo conto che le capacità operatorie vengono acquisite solo verso la fine del primo anno e che comunque è ben diverso se un bambino è nato in gennaio oppure in dicembre, anche se la riforma Xxxxxxx sembra tenerne poco conto.
Le cose vanno meno bene quando gli insegnanti sono affan- nati a rincorrere i programmi ministeriali che chiedono sem- pre di più a loro e ai bambini, che si devono adattare a qual- cosa che sembra sempre più andare verso un eccesso di sti- molazione e richiesta di prestazione, o puntare alla qualifica- zione dell'offerta formativa della scuola in un terreno competi- tivo dove la qualità sembra essere misurata solo in base al- l'immagine ed alle capacità di marketing.
Si rischia quindi di dimenticare che nell'educare la cosa fon- damentale è poter integrare le conoscenze e le capacità con i vissuti, l'esperienza e la propria maturazione emotiva.
Tutte queste aspettative si ripercuotono sui bambini ed in particolare su quelli più fragili che non riescono a stare al passo e non trovano riconosciuto il loro ruolo che può più fa- cilmente diventare quello dell'elemento di disturbo attraverso i comportamenti problematici cui sono sottese richieste e co- municazioni di disagio (che ovviamente non nascono solo da questo, ma che certo in questo non trovano risposta).
Solo se si parte da certi presupposti, con l'idea che possa fa- re bene a tutti apprendere dall'esperienza ed in modo alter- nativo, possono trovare una significativa espressione i gruppi di lavoro, le classi aperte o i laboratori che possono davvero servire ad una buona integrazione, ognuno con la sua possi- bilità e con il diverso contributo, piuttosto, specie questi ultimi che rischiare altrimenti di essere qualcosa a se stante.
Sicuramente non si può pensare che l'integrazione, possa consistere nel partecipare alla didattica curricolare ed ai suoi obbiettivi e sia direttamente proporzionale al tempo trascorso all'interno della classe, occorre che non sia richiesto un ade- guamento impossibile e comunque faticoso a chi ha difficoltà significative: ci sono situazioni in cui insistere con l'omologa- zione può determinare un' inevitabile autoemarginazione (obbiettivi inaccessibili, tentativo di falso adattamento con conseguente frustrazione e caduta dell'autostima e ritiro).
Fondamentale è l’integrazione tra conoscenze e vissuti emotivi
Gruppi di lavo- ro, classi aperte e laboratori possono servire a una buona integrazione
Questo non deve essere considerato un ridimensionamento delle aspettative o un disinvestimento, poichè deve comun- que tendere alla promozione della maggiore autonomia pos- sibile, se pur su livelli differenti per ciascun individuo.
Xxxxxxxxx Xxxxxxxxx
Dirigente scolastico
Inizio da un'esperienza che, secondo me, costituisce una “buona prassi”: da anni portiamo avanti nella nostra scuola l'esperienza del lavorare in gruppo su un tema o su un pro- blema, compensando così quel turnover di persone che è inevitabile. In questo modo il frutto del lavoro in gruppo resta nella scuola, trasmettendosi tra le persone. Primo e minimo obiettivo è quello di permettere ai nuovi docenti di familiariz- zare con l'ambiente e con il proprio compito.
Il gruppo che lavora non è costituito dei soli insegnanti che si occupano del bambino portatore di handicap o del bambino che deve essere integrato, ma deve essere un gruppo di in- segnanti della scuola, che ritiene importante che la scuola si occupi di integrazione, sia dell'handicap che del disagio.
In questo modo il gruppo che si costituisce ha buone garan- zie di continuare ad aver delle persone fisse al suo interno, perché i docenti con contratto a tempo indeterminato costitui- scono dei riferimenti fissi per tutti. La costituzione di un grup- po misto non è facile, perchè nella scuola è evidente la ten- denza a rinchiudersi a rinchiudersi nell’ambito della proria materia:" io sono insegnante di classe mi occupo di scienze e aritmetica e questo è il mio ambito''.
Xxxxxxx invece che l'insegnante si senta insegnante della classe e sia disposta a lavorare in sinergia con gli altri colle- ghi che si occupano degli altri “pezzi” delle varie discipline, ed eventualmente, se c’è, con l'insegnante di sostegno e con l'aiuto educativo.
Il nuovo modello BH di segnalazione, che ho visto in bozza, giustamente, oltre alla parte riservata allo specialista per la diagnosi, indica le risorse che si possono attivare; le risorse interne alla scuola e le risorse del Comune o dei servizi sul territorio. Nelle risorse interne alla scuola noi troviamo anche, per esempio, i collaboratori scolastici che possono svolgere un ruolo importante e i servizi offerti dai Comuni; l'intervento del collaboratore scolastico non è un elemento di dequalifica- zione del lavoro dell'insegnante: indica invece che tutte le ri- sorse della scuola devono essere impegnate.
E’ una nuova cultura che deve passare: quella che il bambino portatore di handicap, di disagio e di difficoltà non è solo del-
Il gruppo di la- voro della scuo- la
La sinergia de- gli interventi
Le risorse
Compiti e obiet- tivi del GLH
Integrazione delle esperienze e delle profes- sionalità
Quattro incon- tri annuali
l'insegnante di sostegno.
Il gruppo di lavoro all'interno dell’Istituto può aggregarsi ini- zialmente attorno a quella sigla, che hanno tutte le scuole, GLH, Gruppo di Lavoro sull'Handicap, in realtà da quando l'intesa precedente è scaduta e non è stata ancora rinnovata, in molte scuole il GLH non si è più riunito perchè mancava un'intesa che lo rendesse obbligatorio. Nel GLH dovevano essere presenti uno o più referenti di classe, un docente di sostegno referente degli altri insegnanti, un genitore rappre- sentante degli altri genitori di alunni disabili che voleva farne parte, i servizi sociali con un loro referente e l'UONPIA con gli specialisti.
Il GLH non ha il compito di discutere la situazione di ogni sin- golo bambino, ma quello di vedere come la scuola può orga- nizzare la risposta ai bisogni all'interno di essa, tanto è vero che nella mia scuola questo gruppo non si occupa solo del- l'handicap ma anche delle difficoltà e del disagio.
Quando nell'anno 2000 si sono creati gli Istituti Comprensivi su tutto il territorio nella realtà dell' istituto alla Scuola Media si è aggiunta la Materna e l'Elementare; quindi si sono dovu- te integrare delle esperienze e delle professionalità diverse ma la priorità su cui ho insistito inizialmente è stata quella di ricostituire il gruppo GLH che comprendesse materna, ele- mentare e media.
Il primo anno è stato abbastanza difficile, perchè i membri di questo gruppo non capivano perchè dovevano occuparsi an- che di altri bambini che erano presenti nella scuola, il loro problema era il bambino della loro classe; poi invece pian piano si è avuta la consapevolezza che tutta la scuola è im- portante per risolvere i problemi del singolo o del gruppo di bambini che hanno difficoltà, perchè così si muovono delle sinergie interne alla scuola: l'insegnante che fa parte del gruppo diventa referente dei suoi colleghi, li sollecita, passa le informazioni, questo è indispensabile anche perchè il diri- gente non è il veicolo migliore per il passaggio delle informa- zioni, così come non è ben vista l'ingerenza del servizio so- ciale che chiede a cosa serva un aiuto in più quando ci sono già tanti insegnanti nella classe.
Per risolvere queste incomprensioni ecco il valore del grup- po, perchè il gruppo di lavoro sa quante risorse ha e quante risorse servono.
Non ci vogliono tanti incontri, ne bastono quattro nell'arco dell'anno: un incontro a settembre per la ricognizione e l'ana- lisi della situazione cioè quanti siamo, quanti bambini ci sono da seguire, quanti bambini certificati, quanti bambini nuovi in- seriti, quanti bambini hanno manifestato delle difficoltà nel
corso dell'anno. Quante risorse abbiamo? Quanti insegnanti di sostegno? Quante ore da utilizzare? Quanti aiuti educativi? Quante ore di aiuto educativo? Quanti bidelli ci possono dare una mano? Di quali associazioni sul territorio possiamo usu- fruire per avere un aiuto? Quanti progetti con i fondi dell'auto- nomia si possono attivare?
Per esempio si può fare un progetto di psicomotricità che co- involge tutta l'area di carenze che sono state rilevate. Si può fare un progetto di drammatizzazione, con i fondi dell'autono- mia viene pagato l'esperto che può migliorare qualche altro aspetto.
Le risorse della scuola devono essere messe a servizio dei bisogni.
La scuola a volte si occupa di aspetti settoriali: un insegnante si occupa del teatro, un altro della psicomotricità e dell'area motoria, bisogna che il gruppo invece abbia al suo interno un sufficiente numero di persone che abbiano una conoscenza più ampia o che se la facciano, senza pensare di essere dei "rompiscatole", poi purtroppo fra i docenti c'è anche questo atteggiamento. L'insegnante si chiede perchè gli vengono fat- te certe richieste in più, che già ha i suoi problemi in classe, già fa fatica a far lavorare gli alunni giornalmente, a farli leg- xxxx e adesso deve anche preoccuparsi di altro, ma se si fan- no queste esperienze ci si accorge che aiutano, quindi si esce dal proprio problema metodologico didattico quotidiano. L'insegnante sa che può avere ad un certo punto un aiuto per un progetto, per un' attività che può risolvere qualche pro- blema.
Noi abbiamo affiancato al gruppo GLH anche un gruppo in- serimento stranieri, che mette in campo delle altre risorse perchè non è lo stesso problema. Devo dire che noi abbiamo avuto molti aiuti, come scuola noi abbiamo partecipato a "Passaggio in rete" che opera su un territorio più vasto, e quindi ci siamo confrontati, abbiamo usufruito per un certo nu- mero di anni di una docente distaccata, per altro docente di sostegno la quale è stata un veicolo, un "trait d’union", colei che ha acconsentito di passare quest'idea non attraverso la mia voce, ma attraverso la sua che è docente come gli altri e questo è molto importante; ma, se non vi è il docente distac- cato, ci può essere all'interno della scuola un docente refe- rente; non dimentichiamoci che nella scuola c'è il fondo di isti- tuto utile a compensare l'istituzione di una commissione, di un gruppo che si occupa di questo specifico problema.
Altro discorso è quello del PEI: non è facile fare un PEI come lei auspica e come in effetti sta scritto ed era già previsto tor- nando alle origini nel '77 con la legge 517.
Le risorse al servizio dei bi- sogni
“Passaggio in Rete”
Il PEI
La collegialità degli interventi
La continuità degli interventi
Il rapporto con la famiglia
Sappiamo che è difficile fare un piano di lavoro individualizza- to perchè è difficile individualizzare l'insegnamento e che per questo sono necessari degli aiuti.
Un aiuto valido dovrebbe essere la compilazione del PDF in- sieme con lo specialista, questo è fondamentale; pero` anche lo specialista dovrebbe essere in grado di dare spiegazione della DF. Spesso questo non accade perchè ci sono bambini con una DF compilata in prima elementare, che arrivano in quinta e la DF è sempre quella e questo non ci consente di la- vorare, allora dobbiamo rivolgerci all'esperienza dei colleghi, dobbiamo essere quelli che vanno a colloquio con lo speciali- sta che non ha mai visto il bambino e chiede all'insegnante sue notizie.
Spesso al colloquio si trova l'insegnante di sostegno, che è nuova, con una sola insegnante di classe, perchè i colloqui vengono fatti in orario scolastico per cui non tutti gli insegnan- ti possono andarci. Qui effettivamente c'è un nodo problemati- co rivelato in una riunione di dirigenti con il dirigente che è in- caricato di promuovere la stipulazione dell'intesa. Questo pro- blema esiste e non possiamo non tenerne conto, ci dobbiamo tutti muovere perchè quando abbiamo una continuità nell'in- tervento le cose funzionano meglio.
Voglio ringraziare pubblicamente una vostra collega che ha lavorato tanti anni con noi, la dott.ssa Xxxxxxxxx e devo dire che questa continuità è stato un elemento di forza notevolissi- mo e non averla più nell'equipe è per il nostro territorio una gravissima perdita, perchè aveva instaurato una continuità e quindi “sapeva” dei bambini e li aveva seguiti.
Posso dire ancora che a volte il PEI è troppo “magro” perché si prendono tutti gli obiettivi della classe e si scrive se sono semplificati o individualizzati, a volte mi trovo a leggere questi PEI; però se l'insegnante dallo specialista non è aiutato ad in- dividuare quali sono i punti di forza del bambino dove può ar- rivare? Con quale forza l'insegnante può parlare con il genito- re e dirgli che è inutile insegnare al bambino la divisione o la moltiplicazione, lo si frustra e basta, gli facciamo solo sentire i suoi elementi di debolezza, si introduce una bella calcolatrice così si superano le difficoltà. A volte sia l'insegnante e sia il genitore dicono che così il bambino non impara a fare i calco- li, ma se c'è uno specialista che insieme ha dato questa indi- xxxxxxx non nascono problemi.
Porto questo esempio: a volte si pretende che in quinta un bambino faccia un ragionamento astratto paragonando un fat- to storico con un altro evento storico, non si dichiara nel PEI che quell'aspetto non verrà fatto. Perchè non si può dire? Si può dire: se è inutile far collegare avvenimenti in astratto, al- lora non lo si fa, si fa altro. C'è gente non in disagio, non por-
tatrice di handicap che non lo sa fare, quindi non è una cosa così incredibile. Però questo crea dei problemi nella scuola, crea dei problemi nel rapporto con la famiglia.
Ribadisco: la creazione di un gruppo di lavoro su questa area, costituito da docenti di sostegno, operatori dei servizi e genitori è fondamentale in ogni scuola: può costituirsi come commissione o come gruppo di studio sull'handicap con un congruo numero di ore, si può chiedere di avere dieci ore pro capite per i membri da retribuire con il fondo di istituto. Un gruppo che si unisce periodicamente; io credo che questo si possa fare dappertutto, spezzando l'unità classe, cioè il team o il consiglio di classe, il gruppo deve essere costituito da più persone all'interno della scuola, e non necessariamente da persone che abbiano nella classe portatori di handicap, possono essere anche persone che sono interessate ad af- frontare queste problematiche o che hanno delle idee o che hanno qualche esperienza.
Creare un gruppo di lavoro stabile e dedicato
Xxxxxxx Xxxxxxx
Genitore – Presidente Capirsi Down
Stare seduta a questa tavola rotonda mi fa sentire anzi uso il condizionale, mi dovrebbe far sentire ad un livello più basso perché comunque sono al tavolo con dei personaggi quali neuropsichiatri e dirigenti….mentre io sono soltanto un geni- tore!!
Ma quando si parla dei propri figli, penso che il genitore sia la persona che li conosce più di tutti.
Nella scuola de- ve esserci la vo- ce del genitore che spiega che cosa fa il bimbo a casa
Cambiare il modo di pensare delle persone
Nella scuola, quando si tratta di osservare, di raccontare un bambino disabile deve esserci anche la voce del genitore che spiega cosa fa questo bimbo a casa, come si muove in certe situazioni, la paura che ha di entrare al cinema perché c’è buio piuttosto che altri comportamenti particolari.
Torniamo al tema del dibattito: cosa funziona e cosa non fun- ziona nella scuola?
La legge 104 è del ’92, sono passati 10 anni, anche se qual- cuno si aspettava qualcosa in più, qualcosa è cambiato e funziona meglio.
Il cambiamento fondamentale riguarda l’aspetto culturale: quando ci sono nuove leggi la difficoltà maggiore sta nel cambiare modo di pensare delle persone.
Sulla carta ci sono nuove regole, ma poi siamo noi persone che dobbiamo cambiare. Non è facile, in tutte le situazioni della vita: per far questo occorre una disponibilità a guardare un po’ oltre a quello che noi già conosciamo, ad imparare tutti i giorni qualcosa di nuovo.
Compito nostro, come genitori dell’associazione, non è quel- lo di insegnare a leggere e scrivere ai nostri figli, ma di spez- zare una lancia a loro favore, di far conoscere agli altri che cosa significa essere considerati “handicappati”.
Quello che ancora non funziona ancora è che non si hanno le idee chiare su come comportarsi con la disabilità.
Nella mia esperienza di genitore di una bambina con sindro- me di Down di sette anni, supportata anche dalle esperienze di molti altri genitori che in questi cinque anni ho incontrato, con figli più piccoli o più grandi, con i quali ci siamo scambia- ti idee e opinioni sui vari percorsi dei nostri figli, mi sono fatta un’idea sul mondo della scuola.
Spesso mi sono ritrovata a chiedermi perché tante cose non funzionano in alcune situazioni, mentre in altre il messaggio
della legge 104 sembra recepito e messo in pratica, si sono trovati metodi di lavoro che danno la possibilità anche al bambino con difficoltà di essere accolto integrato e istruito al- l’interno di una classe di scuola normale.
Un errore fondamentale è quello di non considerare il bambi- no con sindrome di Down come una persona, ma come il rap- presentante di una categoria con caratteristiche fisse e rico- noscibili dai tratti del viso, definite dalla trisomia 21.
Si rischia in questo modo di partire da un preconcetto che im- pedisce di conoscere predisposizioni e capacità del singolo bambino come persona unica ed irripetibile.
Anche i genitori fanno un percorso per arrivare a considerare i propri figli Down, figli e basta; c’è chi lo fa in un attimo c’è chi lo fa in tre anni, anche in questo caso non è uguale per tutti. Anche per gli altri cominciare a guardare alla categoria dei Down in un’altra maniera richiede tempo.
Cominciare però a pensare che anche questo bambino può avere delle potenzialità e può avere la possibilità di sviluppa- re alcune sue peculiarità è importante per trovare poi delle strategie d’aiuto laddove le sue capacità sono ridotte, affin- ché anche lui possa pian piano diventare autonomo.
Non riuscirà ad imparare a fare la divisione, benissimo, meno male che hanno inventato la calcolatrice! Questo significa da- re delle chances anche a questo bambino. Non fossilizziamo- ci sui problemi o sui gradini; vediamo se troviamo una strada anche un po' più lunga o diversa per arrivare ad ottenere dei risultati.
Può esserci un bambino che non sa parlare (e questo mi toc- ca da vicino). Mi ricordo che mi era stato detto che il linguag- gio è un prerequisito per la lettura e la scrittura, ma è anche possibile che la lettura e la scrittura siano d’aiuto per impara- re a parlare.
Ed è proprio ciò che sta succedendo a mia figlia: le abbiamo dato la possibilità di andare avanti e di non fermarsi davanti al gradino che per lei era più alto degli altri.
In questo caso tutti ci abbiamo creduto, gli insegnanti hanno dato la possibilità a Xxxxxxxxx di mettersi comunque alla pro- va e le hanno proposto di provare a scrivere e a leggere co- me facevano i suoi compagni. Le difficoltà sono sempre tan- te, ma ogni giorno si fa un pezzo di strada, non si sta ad aspettare.
Non considerare il bambino con sindrome di Down come rap- presentante di una categoria
La collaborazio- ne tra scuola e famiglia
Credere nel bambino e dar- gli fiducia
L’insegnante di sostegno non si deve occupare in esclusiva di no- stro figlio
I genitori chie- dono di essere coinvolti
La collaborazione tra la famiglia e la scuola è fondamentale. Quando ci sono delle difficoltà se ne deve parlare aperta- mente con i genitori fin dall’inizio del percorso scolastico, co- sicché tutti ci si renda conto delle difficoltà del bambino ma anche del modo attraverso cui si può aiutarlo a superarle. La consapevolezza del limite a volte fa male ma poi diventa co- struttiva.
Non tutti i genitori chiedono di poter essere presenti agli in- contri in cui si parla del proprio figlio: alcuni non osano, altri non sanno nemmeno che è un loro diritto.
La scuola dovrebbe saper accogliere, oltre al bambino con difficoltà, anche i genitori invogliandoli e spronandoli a parte- cipare per il bene del proprio figlio: è importante conoscere il bambino con difficoltà anche attraverso gli occhi dei genitori, come questo bambino si comporta a casa, con gli amichetti, con i fratelli, quello che gli piace fare e quello che non gli piace. Dovrebbe esserci uno scambio, in cui l’insegnante o l’operatore mi possono dare dei suggerimenti su cosa fare con il bambino.
Concludendo le due cose fondamentali sono: credere nel bambino e dargli fiducia: anche quando sembra che una co- sa non la può fare, mettiamolo comunque alla prova, poi strada facendo risistemiamo le aspettative e se la strada è troppo in salita cercheremo una soluzione più semplice. Tut- to questo cercando di trovare nel programma di classe dei pezzetti, delle semplificazioni adatte a lui, evitando di fargli fare qualcosa di completamente diverso dagli altri.
Noi genitori dobbiamo non cadere in contraddizione quando chiediamo che l’insegnante di sostegno si occupi solo di no- stro figlio, ma dobbiamo imparare che l’insegnante di soste- gno è assegnata alla classe e non ai bambini e che può an- che cambiare senza che il mondo crolli.
Le insegnanti di mio figlio sono il team d’insegnanti di classe e di sostegno, anche se all’insegnante di sostegno spette- rebbe di fare da tramite con tutti gli altri in modo che le cose funzionino, anche se questo capita raramente.
Quindi anche noi genitori dobbiamo imparare, però dateci la possibilità di farlo, nel senso che a volte le cose non le sap- piamo e facciamo fatica a chiedere, ma dall'altra ci aspette- remmo un discorso un po’ più forte, in cui sia richiesto il no- stro coinvolgimento.
Xxxxxxx Xxxxx
Docente di Pedagogia speciale
Sono state formulate decine di varianti sulle indicazioni e gli schemi per la redazione di un buon piano educativo indivi- dualizzato, il che ha probabilmente migliorato la conoscenza di base da parte degli insegnanti che hanno avuto la possibi- lità di lavorare con tali strumenti ma non sempre ha potuto trasformarli in reali risorse per l’integrazione.
Come si è osservato negli interventi precedenti, sono spesso la motivazione e una spinta autentica ad adoperarsi verso questo obiettivo a fare la differenza. Il processo di in- tegrazione passa quasi inevitabilmente attraverso un cam- biamento di mentalità che non avviene in astratto, ma è al contrario permeato di elementi materiali: vuol dire che pri- ma le cose si facevano in un modo e da quel momento in avanti si sceglie, giorno dopo giorno, concretamente, di farle in modo diverso. Perché questa scelta anziché esiste- re solo come desiderio isolato e personalissimo di un geni- tore, obiettivo educativo di un insegnante o come precisa in- tenzionalità di un professionista della sanità o dei servizi si trasformi in capacità di fare e in risorsa spendibile, occorre riuscire ad aggregare attorno al progetto dei compagni di strada, facendo convergere attorno a finalità, obiettivi e mo- dalità di intervento le diverse competenze necessarie ad av- viare ed accompagnare un processo complesso come l'inte- grazione scolastica.
Per molti anni ho avuto occasione di lavorare per una asso- ciazione che si occupa di persone disabili e delle loro fami- glie, ho fatto colloqui con insegnanti, genitori e operatori del territorio, sperimentando in prima persona la centralità del “come” dell’integrazione, osservazione condivisa dai par- tecipanti alla nostra tavola rotonda.
In altri termini, se tutti siamo d'accordo sul che cosa e i per- chè delle integrazione, i quesiti più importanti riguardano le modalità e la qualità del processo. I quattro incontri in cui si è articolato il corso hanno permesso di maturare un orienta- mento condiviso su alcune tematiche fondamentali nel per- corso scolastico di una persona con ritardo mentale, si è trattato di un risultato e non di un punto di partenza, dato troppo spesso ed erroneamente per scontato nei gruppi di lavoro che si occupano di handicap .
Un dialogo in- terdisciplinare e interistituzionale alla ricerca di buone prassi
Uno sfondo per integrare più ricco, articolato e condiviso
Che cosa è possibile fare a questo punto per trasformare una visione, un orientamento e delle conoscenze condivise in prassi e, possibilmente, in buone prassi? La scelta del gruppo di progetto che ha organizzato il corso è stata quella di provare, a partire da un atteggiamento genuinamente spe- rimentale, a seguire da vicino la costruzione di percorsi personalizzati di integrazione scolastica per i team che aven- do partecipato al corso ne faranno richiesta. Seguire da vici- no nel senso di individuare insieme modi, tempi e contenuti dei progetti, a partire da un lavoro interdisciplinare che sap- pia tradurre i contenuti nella Diagnosi Funzionale di quel bambino lì/di quella bambina lì nella prospettiva evolutiva tracciata dal Profilo Dinamico Funzionale e nelle attività edu- cative e didattiche finalizzate, giorno dopo giorno, alla pa- ziente realizzazione del Piano Educativo Individualizzato.
La cosa non è semplice e ha tra le sue pre-condizioni il dia- logo interdisciplinare cui si accennava e la realizzazione di una progettazione corale alla quale ciascuna delle agenzie implicate abbia la possibilità di contribuire in modo specifico e significativo.
Alla luce del confronto di idee di oggi, in un tavolo che ben rappresenta negli attori e nei contenuti la collaborazione in- teristituzionale, gli orientamenti e gli strumenti previsti dalla normativa, le buone prassi e le oggettive difficoltà a render- le esperienze concrete per i bambini e le loro famiglie, pos- siamo lavorare nella prospettiva dell’integrazione su uno sfondo realistico che grazie al confronto si è fatto più ricco, articolato e condiviso.
La valutazione del progetto e del bambino
Dott. Xxxxx Xxxx
Benché siano già trascorsi 10 anni dall'introduzione della leg- ge n.104, sia stata attuata l'autonomia scolastica e sia stato introdotto l'articolo 112, l'approccio nei confronti dell'integra- zione e quindi nella realizzazione del diritto alla crescita è an- cora troppo medicalista.
La ricerca didattico pedagogica non si è ancora trasformata in prassi e non è riuscita a frenare la generale tendenza a con- centrarsi sul sé individuale che, rendendo ancora più pesante il divario tra i vari soggetti, può portare all'individualismo più che alla cooperazione.
E' quindi indispensabile creare le condizioni che consentano la reale attuazione del diritto di crescere: diritti del bambino, diritti dell'handicap, diritti della famiglia.
Tutti devono creare le condizioni per l'attuazione di questo principio comunicando tra loro e stabilendo delle autentiche relazioni: ognuno offrirà specificità e apporti diversi in una lo- gica di coerenza integrandosi e coordinandosi in reti di rela- zioni.
Non ci si può trincerare dietro al potere attribuito da una leg- ge per emettere sentenze che non siano prima discusse dai vari soggetti coinvolti. Spesso i Servizi non conoscono le ri- sorse che la Scuola può mettere in atto perché manca una ve- ra comunicazione: decidono e la Scuola subisce. E' anche ve- ro che molto spesso la Scuola si limita a richiedere ai Servizi certificazioni che autorizzino un aumento delle ore di soste- gno.
Bisogna ricercare connessioni per giungere ad una reale inte- grazione: c'è una rete di soggetti con specificità, ruoli, culture diverse che bisogna integrare seguendo una logica coerente e soprattutto progettuale.
Occorre il lavoro di squadra su un progetto realistico e fattibi- le, che preveda una serie d’azioni e d’assunzioni di responsa- bilità da parte dei vari soggetti incaricati di compiere quelle azioni.
A 10 anni dalla legge 104
Creare le condi- zioni per l’attua- zione
Ricercare connessioni
Tutti i soggetti della rete devo- no essere inter- pellati
Non si può pro- gettare senza va- lutare
Il progetto si fonda sull’anali- si del contesto
E' la logica dialogica che si costruisce attorno ad un proble- ma che diventa "il problema", l'obiettivo di tutti in cui ciascu- no apporta le proprie specificità. Non ci dovrebbero essere più situazioni in cui qualcuno impone agli altri soluzioni pre- costituite, perché ci dovrebbe essere il dialogo; tutti i sogget- ti della rete dovrebbero essere interpellati per trovare la so- luzione migliore per quel bambino.
Ci sarà una progettazione in cui ci si prefigura un cammino che deve essere costantemente monitorato e verificato da tutte le persone coinvolte: è un progetto comune in cui ognu- no ha la sua parte e ognuno deve essere anche pronto a ri- metterlo in discussione se si verificano situazioni impreviste.
Si deve valutare anche l'aspetto organizzativo, l'impegno di risorse richiesto dal progetto stesso.
Tutti i soggetti coinvolti sono chiamati ad esprimere la loro valutazione: gli studenti, i docenti, i genitori, gli operatori esterni, chiunque partecipi all’azione.
Il progettare è strettamente collegato al valutare: non si può progettare senza valutare. Per progettare si deve elaborare, realizzare, revisionare. Nel momento in cui si elabora, si de- ve fare una diagnosi, si deve rilevare il bisogno, vedere la si- tuazione, fare una valutazione. Prima si valuta e poi si realiz- za. La realizzazione va costantemente monitorata: ci si può rendere conto che bisogna cambiare percorso, o semplice- mente modificarlo o adeguarlo meglio agli obiettivi e ai biso- gni rilevati. La valutazione del percorso non è fatta da un so- lo soggetto ma dai soggetti coinvolti che effettueranno anche il controllo finale, il controllo dei risultati per stabilire se è ne- cessario rivedere la realizzazione del progetto stesso.
E' evidente che le azioni sono in parallelo. Non c'è un’azione del progettare che non sia legata ad una valutazione, sono due operazioni inscindibili.
Un progetto è valutabile quando si fonda su un'analisi del contesto: può essere un bisogno del bambino o della classe, del territorio, del quartiere e così via e definisce una strate- gia d'azione coerente con l'ipotesi progettuale.
Se per esempio in una classe di bambini un po' depressi e poco motivati è stato inserito un bambino che a causa del suo handicap è altamente demotivato, bisogna creare una si- tuazione d’alta motivazione e a questo punto ci si deve prefi- gurare un cammino, fare un'ipotesi progettuale.
Quale situazione si può creare per aumentare la motivazione dei ragazzi? Quali sono i desideri di questi bambini? Si può
arrivare a creare un ipertesto perché c'è un certo interesse sull'uso del computer, non tutti lo sanno usare, ci sono vari li- velli d’utilizzo, c'è chi non è in grado di scrivere bene come chi non è in grado di trovare le informazioni storiche. Il fatto motivante può diventare questo prodotto finale e l'ipertesto prevede un percorso in cui si possono mettere in gioco una serie di competenze: ci sarà il bambino in difficoltà che potrà mettere in ordine alfabetico la bibliografia, ci sarà quello che invece sa già usare lo scanner o power point e potrà occu- parsi delle immagini.
Si utilizzano le competenze di tutti cercando di elevare tutti ad un fatto conclusivo e contemporaneamente si utilizzano gli argomenti disciplinari.
Questa può essere un'ipotesi progettuale in cui ci si prefigu- rano dei risultati che vanno dalla partecipazione alla vita sco- lastica più motivata ad un miglioramento nelle varie discipli- ne.
Nella valutazione di un progetto si valutano il processo, il prodotto e se si è in ambito scolastico gli apprendimenti di- sciplinari, trasversali o educativi/formativi.
La ricaduta in termini organizzativi è valutata soprattutto per i progetti interistituzionali o d’interclasse che hanno bisogno di una buona organizzazione.
Il processo e gli apprendimenti si tengono costantemente sotto controllo durante la realizzazione delle varie fasi in cui è suddiviso un progetto e alla conclusione; sono gli elementi che ci aiutano a monitorare il cammino o indicano la necessi- tà di cambiare strada. A conclusione ci sarà la valutazione sommativa che la vecchia Scuola chiamava voto.
A distanza ci sarà la ricaduta d’effetti così globali come la for- mazione dell'uomo e del cittadino, o la capacità di comunica- re o di esprimersi attraverso forme artistiche. Durante la rea- lizzazione del progetto si possono solo individuare dei se- gnali premonitori che fanno capire la direzione verso la quale i ragazzi si stanno dirigendo.
Un progetto in cui sia previsto il lavoro di un gruppo è valuta- to anche secondo altri criteri quali la collegialità, l'interistitu- zionalità (se si vuole rispondere ad un bisogno del territorio), il protagonismo o il coinvolgimento dei vari soggetti, la modi- ficazione del clima, dei destinatari, delle relazioni.
E' molto importare controllare la partecipazione e la condivi- sione degli obiettivi da parte di tutti i componenti dell'équipe
Criteri di valuta- zione del proget- to
Partecipazione e condivisione
di progetto, dei destinatari e il livello di coinvolgimento. Per misurarli si devono individuare degli indicatori.
Ma cosa è un "indicatore"? Secondo il Xxxx. Xxxxx è " un fe- nomeno osservabile con la capacità di indicare un evento che ricade su uno qualsiasi dei cinque sensi". Sempre se- condo Romei "è la spia rossa del cruscotto: se in una mac- china c'è qualcosa che non va, si accende la spia rossa ed è visibile". Nel momento in cui si lavora su un progetto si devo- no cercare queste spie rosse che aiutano a valutare e che devono essere usate da chiunque perché facili, praticabili: devono anche essere misurabili e pertinenti rispetti all'obietti- vo stabilito. Se si vuole valutare il coinvolgimento di una clas- se durante la lezione, non si andrà certo a valutare il colore dell'abito dei ragazzi, ma il numero di quelli che prendono appunti, fanno domande, intervengono…
Devono essere, secondo il Xxxx. Xxxxx, sanzionabili, ossia devono indicare chiaramente se bisogna fermarsi, tornare in- dietro, revisionare il percorso senza per questo dover abban- donare il progetto.
Xxxxxxxx non è giudicare
Si devono pro- gettare e valuta- re gli insegna- menti
Xxxxxxxx non è giudicare, perché non è emettere un giudizio, ma dare un valore, un peso ai risultati che si ottengono in re- lazione agli scopi che si volevano ottenere e che non dovreb- bero nascere dal bisogno di un singolo operatore, ma dalla necessità di favorire l'apprendimento dei ragazzi risponden- do ai loro bisogni.
Nella valutazione di un progetto in campo educativo è inte- ressante controllare il rapporto tra insegnamento e apprendi- mento. Insegnare è sperimentare, trovare soluzioni, fare ri- cerca per trovare quello che può favorire l'apprendimento, trovando le cause che possono aver portato ad un errore.
Prima di valutare gli apprendimenti si devono valutare gli in- segnamenti e ancor prima bisogna progettarli valutando con- temporaneamente modalità di realizzazione, fattibilità ed economicità o sforzo richiesto.
Nella valutazione formativa è necessario avere "spie rosse e verdi" che segnalino la bontà del cammino o la necessità di cambiamento di rotta.
Nella valutazione finale o sommativa si deve fare un'analisi e un bilancio di tutto il processo.
Facciamo un esempio uscendo dal campo scolastico, per ca- pire meglio.
Immaginiamo che si decida di fare un viaggio per rasserena-
re il clima famigliare: ci sono a disposizione delle vacanze, delle risorse economiche in base alla quali ci si può conce- dere un viaggio di una decina di giorni con quattro tappe. Si stabiliscono delle priorità nelle cose da vedere, si decide di andare in macchina perché è il mezzo più economico e si può percorrere all'occorrenza qualche chilometro in più, fare delle deviazioni…
Tutto è organizzato: si parte e il secondo giorno per un gua- sto alla macchina ci si deve fermare un giorno in più, però si approfitta della situazione per visitare una località interes- sante ma non prevista dal progetto iniziale.
Si prosegue nel viaggio e a conclusione si valutano i costi (che sono rimasti nell'ambito del budget nonostante l'impre- visto perché si è risparmiato nei ristoranti e nell'albergo) e si fa una valutazione finale. È stato raggiunto l'obiettivo stabili- to: il clima famigliare è più sereno e si sono trascorse delle belle vacanze.
La valutazione e il bilancio vanno fatti globalmente anche in campo scolastico indipendentemente dagli incidenti di per- corso che in campo scolastico possono essere un compito, un’interrogazione non andati bene…
Per misurare gli apprendimenti scolastici ci sono delle misu- re: l'assoluto che è una prestazione ottimale rispetto ad uno standard che ci si era prefigurati; il dinamico, ossia il pro- gresso del singolo in rapporto agli altri a pari condizioni.
Se due alunni con le medesime caratteristiche sono partiti dalla stessa posizione però uno è arrivato più avanti dell'al- tro, si valuta questo rapporto tra i punti d’arrivo dei soggetti presi in esame. L'ipsativo valuta il progresso rispetto al sé e si ha quando si dice per esempio: il punto di partenza era zero ed è arrivato ad uno, c'è stato un progresso.
C'è anche il nomotetico in cui si confrontano i risultati con gli standard. Esiste uno standard con tutta una serie di caratte- ristiche/requisiti e il punto d’arrivo dello studente in oggetto: attraverso questo confronto si attribuisce una valutazione.
La nostra legge non accetta questi tipi di valutazioni che co- stituirebbero degli errori nel caso fossero utilizzati, ma pre- vede una valutazione a criterio ossia un confronto tra il risul- tato atteso e quello ottenuto.
Spaltro definisce il criterio come "una serie di misure con le quali vengono confrontate le misure ottenute da un test".
Quando si fa un test su un giornale, viene detto che rispon-
Misure e criteri per la valutazio- ne degli appren- dimenti
dendo in un certo modo si ottiene un punteggio da 5 a 10… ancora una volta è il confronto tra quello che si ottiene e il criterio stabilito.
Un'altra definizione di criterio dice " Descrive non contenuti ma abilità cognitive di tipo operativo attivate dai contenuti scelti" come potrebbe essere quella di eseguire delle addizio- ni attivata da una serie di operazioni in cui si possono usare oggetti concreti come pere o mele, il pallottoliere… qualsiasi altra strategia utile all'obiettivo stabilito.
Si può tornare all'immagine della "spia rossa" che è stata usata nei confronti del progetto anche per quanto concerne gli apprendimenti: infatti lo scarto che si avrà quando si ac- cende la "spia rossa" dell'apprendimento di un alunno e quel- lo che si era stabilito come apprendimento atteso, dà la valu- tazione. E' ovvio che nel momento in cui si valuta un bambino con delle disabilità, per il quale è stato stabilito un preciso percorso che è stato costantemente monitorato ed eventual- mente modificato e per il quale sono state trovate strategie particolari, non ci potrà essere un giudizio insufficiente per- ché lavorando in questo modo e stabilendo dei risultati attesi, non ci potrà essere un grosso scarto con quelli ottenuti.
Verifiche duran- te il cammino
I " sufficiente, ottimo, distinto" sono voti certificativi, uno stru- mento di verifica in rapporto al percorso e non hanno valore valutativo. Molto spesso sia insegnanti che genitori attribui- scono al voto un valore che non ha, può essere considerato "uno stimolo" per acquisire più stima in se stessi e migliorare o può diventare "una punizione": il voto invece è un elemento certificativo, serve per valutare la differenza tra il risultato at- teso e quello ottenuto e tutto il percorso compiuto. Ripren- dendo l'immagine del viaggio che è stata usata precedente- mente, il viaggio sarà complessivamente positivo anche se c'è stato un problema iniziale.
Le verifiche che si effettuano durante il cammino servono per tenere sotto controllo gli apprendimenti, il processo e il pro- getto. Valutando il percorso, parlo con i vari soggetti e si sta- bilisce la strada da seguire: questo è l'obiettivo delle verifi- che; non ha senso attribuire una votazione certificativa a un monitoraggio attraverso il quale cerco le "spie rosse e verdi". E' molto difficile far percepire questo aspetto non solo ai ra- gazzi ma anche ai genitori e agli altri operatori.
Prima della verifica si devono esplicitare gli obiettivi che si in- tendono verificare. Potrebbe essere per esempio l'ortografia del verbo essere e avere. Durante la correzione, si sottoli-
neeranno gli errori e alla fine si scriverà che il verbo essere è stato sbagliato tre volte e il verbo avere due.
E' stata fatta una valutazione specifica di quel lavoro e del percorso compiuto: bisogna dare delle spie rosse e verdi, dei criteri per far capire se c'è bisogno di cambiare rotta o se va tutto bene. Al limite, in quest'ottica, anche un sei o sette po- trebbero essere usati, ma non certamente come premio o ca- stigo. Con il semplice voto (sei o sette….) non si esprime il criterio in base al quale si è attribuita la valutazione mentre è fondamentale capire il tipo di apprendimento che non è stato effettuato per trovare la strategia per recuperare.
Se si scrivono semplicemente dei giudizi, non si tiene sotto controllo la tipologia di errori e non lo fa neppure il soggetto in apprendimento a cui non si offre l'opportunità di avere la consapevolezza di quello che potrebbe fare per migliorare la propria preparazione.
La valutazione è un momento che serve per programmare, per proseguire nel processo e nel cammino e ha bisogno di essere sostenuta.
Alla fine dell’anno c'è un fatto certificativo perché la normativa lo richiede. Molto spesso ci si ferma al valore numerico e non si giunge al punto nevralgico del problema: capita anche agli insegnanti che valutano e mettono 4 alla versione di latino perché nella traduzione c'è il verbo essere senza accento o perché nel compito di matematica c'è un errore di ortografia.
Il problema deriva dalla mancanza di esplicitazione degli obiettivi che si volevano verificare; questo non esclude che l'ortografia debba essere corretta, ma, una volta segnalato l'errore, non influisce sulla valutazione della verifica di latino o matematica dell'esempio.
Nella valutazione di un tema non si può semplicemente asse- gnare il voto "sei", ma occorre esprimere i criteri che hanno portato a quella valutazione: " Hai utilizzato correttamente lo schema della relazione, non hai utilizzato a pieno, manca la parte relativa all'ipotesi progettuale… xxxx ampliare questa parte…".
I criteri indicati e utilizzati debbono essere verificabili, sanzio- nabili, praticabili e utili.
L'esame invece ha un valore certificativo ed educativo perché nella vita ci sono degli esami ed è giusto far cogliere que- st'aspetto soprattutto ai soggetti con inabilità tali per cui non
A fine anno c’è un fatto certifi- cativo
possono aspirare a livelli superiori o universitari. E' giusto che si mettano alla prova e imparino a fare gli esami anche perché la 104 fa sempre riferimento alla scuola obbligatoria e dà queste indicazioni.
Famiglia e scuola insieme
Anche gli insegnanti hanno spesso una mentalità giudicante che è a sua volta il frutto di un ambiente che li giudica a livel- lo personale. E' proprio questo stereotipo che si deve abbat- tere perché il giudizio non può essere a livello personale: ci possono essere tante variabili che non hanno funzionato o non hanno potuto funzionare come per esempio l'insegnante stesso o il Consiglio di classe, i genitori che non hanno trova- to la strategia adatta. Bisogna in ogni caso eliminare questa visione della scuola estremamente giudicante e sanzionato- ria.
La famiglia adesso è molto più attenta al benessere, all'affet- to e la scuola fa richieste che non sempre sono comprese: dobbiamo lavorare assieme altrimenti creiamo soltanto condi- zioni conflittuali e divergenti invece di situazioni convergenti che integrano. Bisogna dialogare e cercare insieme la solu- zione ai problemi che si presentano.
IL LAVORO DEI GRUPPI
a cura di Xxxxxxxx Xxxxxxx, Xxxxxxx Xxxxxx, Xxxx Xxxxxxxx
I gruppi di lavoro hanno condotto la loro attività con il coordinamento di:
Gruppo A Gruppo B Gruppo C Gruppo D Gruppo E
Arabia Xxxxxxxxxx Xxxxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxx Xxxxxxxx Xxxx Xxxxxx Xxxxxxx
76
Progetto Xxxxx Xxx – Costruire il Piano Educativo Individualizzato
Ogni gruppo era formato da 15 partecipanti ed era stato co- stituito tenendo presente i seguenti criteri:
- stabilità del conduttore e dei partecipanti al gruppo;
- interdisciplinarietà;
- team (genitore, docente, operatore sociali e sanitari) mantenuto nello stesso gruppo;
- divisione in due fasce di utenza: materna/ elementare ed elementare /media.
Nella pratica si è dovuto far fronte ad iscrizioni e sostituzioni dell’ultimo momento, e non tutti questi criteri sono stati pie- namente rispettati.
L’ attività dei gruppi ha occupato la seconda parte del pome- xxxxxx dopo la relazione: in questo modo quanto era stato ascoltato ed elaborato da ognuno secondo i propri vissuti e le proprie conoscenze, veniva messo in comune per essere rianalizzato e rielaborato collettivamente.
La partecipazione è stata molto attiva, vivace e coinvolgen- te. Le discussioni sono continuate spesso oltre l’orario in piccoli gruppi.
I coordinatori dei gruppi hanno favorito il confronto delle esperienze dei singoli partecipanti rispetto al tema di ogni giornata; la loro attenzione è stata rivolta anche all’acco- glienza di bisogni concreti e talvolta a contenere e a rielabo- rare conflitti e contraddizioni esplicitati dai componenti.
Durante il corso si è creato un ambiente di collaborazione in- torno al presupposto comune: la condivisione tra famiglie, in- segnanti ed operatori della preoccupazione di assicurare al bambino un ambiente che sostenga e faciliti la massima espressione delle sue potenzialità cognitive e relazionali.
Questo spazio condiviso è diventato luogo di scambio di co- noscenze, di esperienze, di informazioni, ma anche di un modo di relazionarsi.
Il raccontare e il sentirsi ascoltati, l’ascoltare esperienze pro- venienti da prospettive differenti (genitori, insegnanti, vari ti- pi di operatori) ha permesso ad ognuno di imparare, di pas- sare da posizioni personali e di ruolo autocentrate ed auto- referenziali, ad identificarsi con gli altri, modificandosi ed ar- ricchendosi.
I problemi discussi e condivisi, sono diventati più affrontabili, ed il gruppo è stato sentito come sostegno e protezione ed ha spesso permesso di esprimere sentimenti e vissuti di soli- tudine, di inadeguatezza, di ansia, di rabbia.
L’elaborato dei vari gruppi è stato raccolto e rielaborato in- sieme dai conduttori che hanno prodotto del materiale rias- suntivo, sia durante che alla fine del lavoro: vengono qui di seguito evidenziati i temi principali e condivisi da tutti i grup- pi.
Il P.E.I.
Il tema centrato sul P.E.I. ha permesso di confrontare ed ela- borare un aspetto specifico dell’esperienza dell’integrazione, cioè quello relativo ad un documento che dovrebbe essere, per legge, scritto a più mani contemporaneamente per deli- neare il cammino del bambino disabile nell’arco della vita scolastica, una carta quindi che lo accompagna per essere riconosciuto ed accolto adeguatamente nei passaggi tra ordi- ni di scuole diversi, fino all’affacciarsi al mondo dell’adultità.
L’analisi, la discussione e l’elaborazione di materiale su DF, PDF e PEI ha portato tutti ad una miglior conoscenza di que- sti strumenti, essenziali per una loro utilizzazione consape- vole e responsabile.
Il P.E.I. si è poco alla volta trasformato da atto burocratico a vero e proprio modello operativo per lo studio e la riflessione sul bambino, oltre che a mezzo di comunicazione tra le per- sone coinvolte nel progetto di integrazione e strumento fun- zionale all’organizzazione del lavoro di ciscuno, in modo si- nergico e non più parcellizzato, atomizzato e scollegato co- me prima.
Intorno all’uso degli strumenti DF, PDF, PEI sono emerse grandissime discrepanze, sia rispetto alla conoscenza degli strumenti che alla loro effettiva utilizzazione.
Aspetti positivi:
- volontà e necessità di uniformare le procedure di se- gnalazione e di trasmissione
- così da permettere un lavoro di confronto, guida, veri- fica
- e da favorire e promuovere una programmmazione interdisciplinare
Nodi problematici:
gli strumenti:
- complessità intrinseca degli strumenti con eccessiva frammentazione che non permette un quadro globale ed integrato;
- il linguaggio tecnico spesso non chiaro, terminologie spesso equivocabili, difficoltà ad uniformare il linguag- gio clinico e quello scolastico;
- nei P.E.I. sono presenti molti obiettivi e poca metodo- logia;
- difficoltà nel fare le previsioni di sviluppo, soprattutto a lungo termine;
- strumenti considerati come prassi burocratica e perciò non funzionali all’attività scolastica;
la comunicazione e i livelli di collaborazione:
- i rapporti con i servizi per acquisire la documentazione sono spesso difficili;
- la scarsa e non definita collaborazione con le famiglie non permette un dialogo costruttivo, una crescita co- mune intorno al bambino;
- la difficoltà ad integrare il PEI con il programma della classe ( rapporto bambino/ compagni);
- la collaborazione fra insegnante di classe e docente di sostegno risulta essere un tradimento della legge sul- l’integrazione se chi ne è il simbolo non viene ricono- sciuto, o non è preparato, per essere un esperto di di- dattica speciale, collaborativa ed integrante;
- il GLH quasi mai attivato o parzialmente utilizzato, molto spesso ridotto a fare un lavoro in sordina, diffi- cilmente portato a conoscenza di tutto il Collegio e dei genitori della scuola.
Possibili risposte:
Dall’analisi degli aspetti positivi e dei nodi problematici emer- si all’interno dei diversi gruppi di lavoro, è possibile indivi- duare una linea comune di strumenti, risorse, soluzioni orga- nizzative che permettono di ottimizzare gli interventi possibili in risposta a bisogni specifici relativi alla realtà dell’handicap.
La vera difficoltà infatti, da qualsiasi angolazione/ruolo la si
xxxxxxx, è data dall’affrontare la complessità della realtà del- l’handicap, sapendone leggere, riconoscere e distinguere tutte le sue molteplici sfaccettature.
Il percorso operativo dei diversi gruppi, così come altre esperienze di formazione inerenti l’handicap e naturalmente la professionalità del quotidiano e la sua spendibilità, hanno permesso di individuare come elementi orientanti della com- plessità stessa:
• coordinamento fra docenti, operatori, spe- cialisti e la famiglia; nell’uso degli strumenti, nella stesura dei documenti; lungo le fasi progettuali, per le procedure di verifica; nelle situazioni di ingresso nelle diverse strutture; per l’accoglienza; nei momenti di passaggio
• raccolta esperienze coordinata e condivisa fra docenti, operatori e specialisti – tenendo conto dei contributi offerti dalla famiglia lungo il percorso; per la stesura dei documenti e delle progettazioni; per la trasferibilità delle esperienze; per una “banca dati” di riferimen- to
• pianificazione degli spazi e dei tempi fra do- centi, operatori, specialisti e la famiglia; nel- l’uso degli strumenti e nella stesura dei docu- menti; come parte integrante della progettua- lità; per l’accoglienza; nei momenti di passag- gio.
• progettualità come buona prassi coordinata di interventi dei docenti, operatori, specialisti e della famiglia; come stesura coordinata di documenti; come utilizzo organizzato di stru- menti e risorse; come continuità fra le diverse esperienze formative dell’alunno ed anche professionali per i docenti, gli operatori e gli specialisti
• continuità fra ordini di scuola per la proget- tualità di un percorso continuo e unitario, per uno scambio esperienziale fra docenti e realtà di ordine differente; come percorso di lavoro unitario e continuo fra docenti, opera- tori, specialisti; per la gestione di un’ acco- glienza mirata ai bisogni “di percorso” del- l’alunno e della famiglia.
• Accoglienza come momento progettuale d’ingresso dell’alunno diversamente abile; co-
me lettura e rilevazione delle risorse esistenti nel nuovo contesto d’ingresso; come pianifica- zione di spazi e tempi e modelli di intervento; come costruzione di un percorso “in continui- tà”.
• Strategie e metodologie alternative alla lezio- ne frontale come flessibilità operativa; come individuazione delle diverse risorse che la scuola, la classe, gli insegnanti, i compagni possono offrire; come individuazione di spazi, tempi di lavoro adeguati; come scelta di offerte formative laboratoriali; come organizzazione di- sciplinare a classi aperte in orizzontale e in verticale; come organizzazione disciplinare a piccolo o grande gruppo.
Si tenga presente, di fronte alla complessità della realtà han- dicap il macro-obiettivo da perseguire è quello della continui- tà: perché continuo deve essere il percorso formativo del- l’alunno; continuo deve essere il suo vissuto, sia nella dimen- sione scolastica sia in quella extrascolastica e famigliare; con- tinuo deve essere il percorso di presa di coscienza da parte della famiglia nei confronti della realtà del figlio; continua de- ve essere l’azione di monitoraggio, progettazione e riprogetta- zione da parte del Team docenti; continuo deve essere il percorso di relazione e di condivisione fra famiglia-scuola- enti.
E’ la continuità infatti che offre la possibilità di punti di riferi- mento orientanti rispetto alla complessità della realtà stessa, che conducono a metabolizzare all’interno dell’istituzione sco- lastica, buone prassi.
BANCA DATI di
riferimento
BUONE PRASSI
TRASFERIBILITA’
delle esperienze
DOCUMEN- TAZIONE ra-
gionata
COORDINAMEN- TO E CONDIVISIO-
NE tra docenti, operatori e fami- glia
Nell’uso degli stru- menti
RACCOLTA ESPERIENZE
Tra docenti, operatori, specialisti e famiglie
Per l’accoglienza, nei momenti di passag- gio
Per le procedure di verifica
COORDINAMENTO
“TRA IL DIRE E IL FARE”
Il progetto di accompagnamento all’integrazione scolastica
Xxxx. Xxxxxxx Xxxxx
Il progetto, pensato come parte integrante del corso “Costruire il PEI” è scaturito dalla convinzione che le espe- rienze dei bambini in situazione di handicap nella scuola pos- sano essere migliorate e che questo non dipenda necessaria- mente dalla introduzione di nuove figure professionali o dallo sviluppo di dispositivi avanzati di ingegneria educativa, quan- to piuttosto da un uso più attento e meglio orientato delle ri- sorse e degli strumenti esistenti.
Questa considerazione, che ha occupato un posto centrale nella riflessione del Gruppo di Progetto, ha avuto origine an- che da una valutazione condivisa degli ampi mezzi e dell’im- pegno - parliamo di risorse economiche, scientifiche, politico- amministrative e professionali - destinati alla realizzazione di iniziative mirate a garantire il diritto all’educazione e all’istru- zione delle persone disabili nel territorio considerato, come parte essenziale di un più ampio orientamento a garantire il diritto alla piena cittadinanza.
Grazie all’attenzione, accordata in modo abbastanza continuo negli anni, la storia dell’integrazione ha potuto mettere radici profonde, producendo nuovi assetti organizzativi ed istituzio- nali, e suggerendo soluzioni innovative per i servizi del territo- rio. Accanto a queste valutazioni positive, ampiamente condi- vise nel Gruppo di Progetto, restano alcuni quesiti a cui pen- siamo valga la pena di cercare una risposta, interrogando esperienze e percorsi concreti.
Come mai le occasioni di formazione proposte su questa te- matica hanno destato tanto interesse e raccolto tante adesio- ni? Perché dai racconti delle famiglie emergono storie di or- dinaria non-integrazione, ossia percorsi difficili e dagli esiti in- soddisfacenti, che vedono la scarsa partecipazione del bam- bino alla vita della classe e della scuola, suggerendo un’ ap- partenenza solo virtuale o geografica, parente stretta della marginalità? A che cosa si deve il fatto che le riunioni di pro- grammazione siano in molti casi incontri ritualizzati (una sor- ta di teatrino dell’integrazione, una rappresentazione vuota
Impegno ampio e continuo per l’integrazione
Storie di ordinaria “non- integrazione”
che si limita a salvaguardare gli aspetti formali) a volte adempimenti piattamente burocratico-amministrativi, altre volte (non poche) momenti di conflitto e di forte incompren- sione tra i diversi attori del processo? E’ possibile parlare di integrazione quando l’insegnante di sostegno redige il PEI in solitudine, magari con il supporto di un/una collega “sensibile”, vivendo una condizione professionale di distan- za, di totale alterità e di difficoltà di comunicazione con gli al- tri insegnanti, la scuola, i servizi?
Che cosa accade all’assistente educatore che a causa della riduzione dei posti di sostegno si trova proiettato nella neces- sità di lavorare “come” insegnante di sostegno senza averne le competenze, il ruolo e il potere negoziale? La didattica e la programmazione di classe tengono conto e, se sì, in che modo, della presenza di un allievo in situazione di handicap? Xxxx accade nelle relazione tra i bambini/ragazzi in classe? E fuori dall’orario scolastico? Le risorse presenti sul territorio per le attività ricreative e del tempo libero vengono considera- te nel progetto di integrazione, sono oggetto di confronto e condivisione tra famiglia, scuola e servizi?
Si è potuto creare nel tempo un gruppo di lavoro stabile e competente, che possa realmente contribuire alla vicenda evolutiva del bambino e della sua famiglia? E’ possibile conci- liare la continuità del contributo dei Servizi con i vincoli po- sti dai programmi di efficienza gestionale e di razionalizzazio- ne avviati in questi anni?
Interdisciplina- rietà e coinvolgi- mento attivo del- la famiglia
Forse l’aspetto realmente innovativo del progetto sta nel par- tire dal presupposto che il carattere interdisciplinare del gruppo di lavoro e il coinvolgimento attivo della famiglia sia- no ingredienti indispensabili della qualità del processo, e che questo derivi proprio dal complesso intreccio di bisogni e di responsabilità che caratterizza la situazione di handicap: le diverse voci e le possibili letture del percorso evolutivo, educativo e didattico risultano essere elementi fondanti per il progetto individuale e la qualità dei risultati ottenuti dipende in larga misura dal come le varie componenti del PEI vengono messe assieme, rese compatibili e integrate.
In molti casi, in nome di valutazioni improntate a “realismo, ef- ficacia ed economicità”, si sceglie purtroppo di sacrificare questo aspetto qualitativo. In altri si assiste invece a duplica- zioni e sovrapposizioni, con costi elevati sia in termini di da- naro che in termini di farraginosità e macchinosità del proces- so.
Nel pensare a come strutturare la formazione abbiamo privile- giato un lavoro di ascolto, di analisi delle esperienze e di con- fronto in gruppi eterogenei dai quali potessero emergere le molteplici prospettive e le aporie nella comunicazione, gene- rate dai linguaggi e dai paradigmi di riferimento delle diverse componenti che, tanto nel xxxxx xxxxxx xxx xxxxxx xxx xxxxxxx- xxx, xx incontrano con l’obiettivo di ideare, costruire e verificare il PEI.
Il lavoro dei cinque gruppi ha permesso di identificare una se- rie di nodi problematici che abbiamo scelto di utilizzare come focus della “sperimentazione”, nel tentativo di rilevare buone prassi e di mettere a punto possibili indicatori di qualità:
• la complessità e la frammentazione degli strumenti, una loro interpretazione prevalentemente burocratica
• la difficoltà di reperire linguaggi comuni tra clinica, edu- cazione e formazione
• l’orientamento a focalizzare i progetti più su cosa fare e con quale finalità, che su come farlo
• la problematicità nel ricostruire le storie dei bambini e nel reperire la documentazione dei percorsi
• gli ostacoli che si frappongono alla costruzione di un dia- logo significativo e alla collaborazione tra scuola, fami- glia e servizi
• il fraintendimento di base sul ruolo, le competenze e le funzioni del team docente, incluso l’insegnante di soste- gno
• la scarsa integrazione fra il percorso individualizzato, il lavoro in classe e le altre attività educative e didattiche offerte dalla scuola
• un utilizzo molto parziale e riduttivo dei GLH
• il coinvolgimento non sempre soddisfacente del collegio docenti e dei genitori di tutti gli alunni sulle tematiche dell’integrazione.
I nodi proble- matici indivi- duati dai gruppi di lavoro hanno aiutato a mette- re a fuoco gli obiettivi del pro- getto
Che cosa intendiamo per “sperimentazione”
Le virgolette che racchiudono il termine sperimentazione so- no un dato utile a comprendere il senso del lavoro del Grup- po di Progetto:
• indicano una certa riluttanza a considerare sperimenta- le la costruzione di percorsi previsti per legge da oltre vent’anni,
• suggeriscono la necessità pensare in modo innovativo a come questi percorsi possano essere costruiti, giorno dopo giorno,
• situano il lavoro sui casi in una prospettiva di ricerca- azione, grazie alla quale i team (genitori, operatori, in- segnanti) che richiedono consulenza sul singolo per- corso si fanno a loro volta promotori della condivisione degli esiti del progetto di formazione-sperimentazione all’interno dei rispettivi quadri istituzionali.
Gli incontri di consulenza e supervisione (tre di due ore cia- scuno) sono rivolti a genitori, insegnanti e operatori diretta- mente coinvolti nel lavoro sul caso e possono essere desti- nati a momenti di gruppo, a colloqui individuali, a osservazio- ni in contesto. Al termine del ciclo, è prevista una restituzio- ne del percorso, aperta al gruppo di lavoro, al dirigente e agli altri soggetti interessati (docenti, operatori, GLH) tesa a condividere l’esperienza e ad aprire un confronto sulla tema- tica dell’integrazione a livello di istituto.
Associazione CAPIRSI DOWN Monza
Presentazione
“Le persone che hanno la Sindrome di Down sono, come tutti i bambini e i ragazzi, una diversa dall'altra.
Come tutte le persone, al di là dei loro tempi e modalità di ap- prendere, interagire e crescere, se sono rispettate, sanno essere individui autonomi e risorse per tutta la collettività.
Ma il rispetto non é congenito, non viene da solo, lo si raggiun- ge attraverso l'ascolto, la conoscenza, la condivisione e soprat- tutto la fiducia nell'altro.
Se avere un cromosoma in più ha significato per anni essere in- capace di…oggi i nostri ragazzi ci hanno insegnato che hanno, come tutti, un originale progetto di crescita, un desiderio di vi- cinanza con l'altro, la voglia di apprendere, di conoscere e di essere riconosciuti.”
Da "Colla: un incontro straordinario"
a cura del C.E.P.S. Bologna
L'Associazione CAPIRSI DOWN Monza nasce nel Novembre del 1997 per l'ini- ziativa di un gruppo di genitori di bambini affetti da sindrome di Down seguiti dall'ambulatorio pediatrico dell'ospedale di Monza.
Già da tre anni la nostra associazione raccoglie fondi per finanziare la borsa di studio che permette la presenza di un ulteriore supporto medico presso l'ambu- latorio pediatrico dell'Ospedale di Monza. Ciò ha permesso di rispondere alle esigenze di un numero sempre crescente di famiglie che si rivolgono all'ambula- torio.
Dopo la salute, un altro obiettivo fondamentale per la crescita dei nostri ragazzi e' l'istruzione.
E' importante coinvolgere insegnanti e strutture pubbliche e territoriali affinché si riesca a costruire per loro un percorso educativo appropriato alle loro esigen- ze, al fine di favorire una reale integrazione. L'integrazione scolastica e so- ciale e lo sviluppo cognitivo sono i due aspetti integranti di un progetto edu- cativo completo.
E' importante pensare alle persone Down non attraverso la categoria a cui ap- partengono ma per le caratteristiche individuali che possiedono.
Lo scopo primario e' quello di aiutare i bambini, i ragazzi, le persone con sindro- me di Down a crescere, a diventare autonomi, a garantire loro una migliore qua-
lità di vita e più ampie prospettive di partecipazione attiva alla società; in una parola: a diventare adulti.
La serenità familiare nel crescere i propri figli, l'aiuto da parte dei servizi pubbli- ci territoriali e la maggior conoscenza da parte della gente comune delle poten- zialità e delle necessità di questi ragazzi sono ingredienti fondamentali perché il processo di crescita avvenga.
Gli obiettivi principali sono:
1 permettere lo scambio di esperienze tra genitori.
2 offrire ai genitori un punto di riferimento informativo utile per conoscere i diritti dei propri figli.
3 formulare varie proposte nei confronti delle strutture pubbliche e svol- xxxx una efficace pressione sociale.
Sede:Ospedale Nuovo - Villa Serena, Xxx Xxxxxxxxx, 000 - 00000 Xxxxx
Tel:000.0000000 e-mail:xxxx@xxxxxxxxxxx.xx Sito internet: xxx.xxxxxxxxxxx.xx
Passaggio In Rete
Presentazione
LA DEFINIZIONE NORMATIVA
L’art.7 “Reti di scuole” del DPR 8 marzo 99 n.275 “Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell'art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59” afferma:
1. Le istituzioni scolastiche possono promuovere accordi di rete o aderire ad essi per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali.
2. L'accordo può avere a oggetto attività didattiche, di ricerca, sperimentazione e svi- luppo, di formazione e aggiornamento; di amministrazione e contabilità, ferma re- stando l'autonomia dei singoli bilanci; di acquisto di beni e servizi, di organizzazione e di altre attività coerenti con le finalità istituzionali; se l'accordo prevede attività di- dattiche o di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di formazione e aggiornamento, è approvato, oltre che dal consiglio di circolo o di istituto, anche dal collegio dei docenti delle singole scuole interessate per la parte di propria competenza.
3. L'accordo può prevedere lo scambio temporaneo di docenti, che liberamente vi consentono, fra le istituzioni che partecipano alla rete i cui docenti abbiano uno stato giuridico omogeneo. I docenti che accettano di essere impegnati in progetti che pre- vedono lo scambio rinunciano al trasferimento per la durata del loro impegno nei pro- getti stessi, con le modalità stabilite in sede di contrattazione collettiva.
4. L'accordo individua l'organo responsabile della gestione delle risorse e del rag- giungimento delle finalità del progetto, la sua durata, le sue competenze e i suoi po- xxxx, nonché le risorse professionali e finanziarie messe a disposizione della rete dalle singole istituzioni; l'accordo è depositato presso le segreterie delle scuole, ove gli in- teressati possono prenderne visione ed estrarne copia.
5. Gli accordi sono aperti all'adesione di tutte le istituzioni scolastiche che intendano parteciparvi e prevedono iniziative per favorire la partecipazione alla rete delle istitu- zioni scolastiche che presentano situazioni di difficoltà.
6. Nell'ambito delle reti di scuole, possono essere istituiti laboratori finalizzati tra l'al- tro a:
a) la ricerca didattica e la sperimentazione;
b) la documentazione, secondo procedure definite a livello nazionale per la più ampia circolazione, anche attraverso rete telematica, di ricerche, esperienze, documenti e informazioni;
c) la formazione in servizio del personale scolastico;
d) l'orientamento scolastico e professionale.
7. Quando sono istituite reti di scuole, gli organici funzionali di istituto possono esse- re definiti in modo da consentire l'affidamento a personale dotato di specifiche espe- rienze e competenze di compiti organizzativi e di raccordo interistituzionale e di ge- stione dei laboratori di cui al comma 6.
8. Le scuole, sia singolarmente che collegate in rete, possono stipulare convenzioni con Università statali o private, ovvero con istituzioni, enti, associazioni o agenzie operanti sul territorio che intendono dare il loro apporto alla realizzazione di specifici obiettivi.
9. Anche al di fuori dell'ipotesi prevista dal comma 1, le istituzioni scolastiche posso- no promuovere e partecipare ad accordi e convenzioni per il coordinamento di attività di comune interesse che coinvolgono, su progetti determinati, più scuole, enti, asso- ciazioni del volontariato e del privato sociale. Tali accordi e convenzioni sono deposi- tati presso le segreterie delle scuole dove gli interessati possono prenderne visione ed estrarne copia.
10. Le istituzioni scolastiche possono costituire o aderire a consorzi pubblici e privati per assolvere compiti istituzionali coerenti col Piano dell'offerta formativa di cui all'arti- colo 3 e per l'acquisizione di servizi e beni che facilitino lo svolgimento dei compiti di carattere formativo.
UNA DEFINIZIONE “LOCALE”
Le organizzazioni imparano dal personale che le compone se sono organizzazioni e non solo sommatorie di singoli, se i saperi circolano…
Gli anni di lavoro sulla dispersione scolastica avevano insegnato ad un gruppo di Dirigenti scolastici e di docenti – ma anche ad alcuni Dirigenti e funzionari di Comuni ed enti del territorio – che autonomia non può coincidere con autar- chia, che la cooperazione e lo scambio – di saperi innanzitutto – è una fatica ma è anche un guadagno. Di qui il tentativo, che ha assunto nel tempo diverse for- me – anche organizzate – di costruire collegamenti tra scuole, con gli enti del territorio, reti di persone e spazi strutturati di confronto.
“PASSAGGIO IN RETE” OGGI
Nel giugno del 2001 i Dirigenti scolastici di 16 Istituti della zona di Monza han- no sottoscritto un “Accordo di rete”, nel quale si sono impegnati a:
“costituire una rete territoriale per contribuire al pieno raggiungimento delle finalità isti- tuzionali della singola istituzione scolastica in particolare per le classi ponte ( 2° e 3° media e biennio superiore) attraverso attività didattiche e di sperimentazione svolte in modo coordinato utilizzando al meglio le risorse umane, strutturali e finanziarie anche in relazione all’art.1 c.3 della legge 9/99; un servizio di comunicazione e documentazio- ne in rete; relazioni col territorio; attività di formazione, consulenza al personale”
Si tratta di dichiarazioni ambiziose. Quello che in realtà si riesce a realizzare è un piccolo sottoinsieme del possibile, lo scambio di docenti tra scuole è una possibilità che ancora nessuno riesce ad immaginare come fattibile. Tra le scuo- le prevalgono logiche di concorrenza, di marketing, e il grosso dei “P.O.F.” è au- toprodotto e autoreferenziale. Ma ci sono degli scambi. C’è un lento movimento di persone che cercano fuori ciò che faticano a trovare dentro, che confrontano pezzi, scambiano materiali e idee, imparano da altri.
Nel territorio monzese continuano da alcuni anni azioni sinergiche tra scuole e con enti del territorio su una serie di ambiti.
Se ne elencano alcuni:
1. PROGETTO DI RICERCA - FORMAZIONE PER DOCENTI DI SOSTE- GNO E DI CLASSE, GENITORI, OPERATORI in collaborazione tra Uni- versità Statale Milano Bicocca – Facoltà di Scienze della Formazione – cattedra di pedagogia speciale; Facoltà di Medicina, Neuropsichiatria; Associazione “Capirsi Down”; Comune di Monza. Capofila l’Istituto Comprensivo “Koinè” di Monza, dal giugno 2003 responsabile dello Snodo Handicap Brianza.
2. SPORTELLO ORIENTAMENTO per docenti di terza media e prima su- periore. Si svolge da vari anni presso l’Istituto Olivetti, e serve a favorire la progettazione di interventi individualizzati per alunni disabili nei mo- menti di passaggio tra scuola media e scuola superiore.
3. REVISIONE DELL’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA, come esito del lavoro tra medie e superiori. Capofila l’IPSIA di Monza.
4. EDIZIONE MONZESE DI “SCIENZA UNDER 18”: capofila l’Istituto Comprensivo “Paccini” di Sovico, in collaborazione con la Direzione Regionale, la SMS Rinascita di Milano, il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Prevede l’organizzazione di un evento monzese in cui le classi di scuole di ogni ordine mostrino i propri lavori sperimentali al pubblico. Gia realizzato nel maggio 2003 presso la SMS “Confalonieri” di Monza, si replicherà nel maggio 2004 sul tema “Energia e ambiente”
5. MINI – STAGE ORIENTATIVI per le seconde medie (primavera 2003) co- ordinati tra tutte le scuole della rete e in collaborazione con tutti gli Istituti superiori monzesi.
6. SERVIZIO “DISEL” Diritto allo Studio e al Lavoro rivolto a studenti disagiati, disabili e stranieri in obbligo formativo - zona di MONZA: capofila l’Istituto Olivetti, è un progetto finanziato dalla Direzione Sco- lastica Regionale per costruire un servizio territoriale di informazione e consulenza orientativa che consenta un accompagnamento individualiz- zato dei ragazzi in situazione di disagio e delle loro famiglie: ascolto dei bisogni, consulenza orientativa, progettazione di percorsi individualizzati. I destinatari sono i ragazzi in ritardo alla scuola media o in età regolare in prima superiore. Si è realizzato nel 2002-03.
LA BIBLIOGRAFIA
BIBLIOGRAFIA GENERALE
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xxx.xxxxxxxxxxxxxxx.xx xxx.xxxxxxxxxx.xx xxx.xxxxxxxx.xx
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Si ringraziano tutti i partecipanti:
I genitori (n. 16)
Gli insegnanti di classe e di sostegno
delle Scuole Materne (n. 26) delle Scuole Elementari (n. 28) della Scuole Medie (n. 9)
delle Scuole Superiori (n. 1) Gli operatori dei Comuni (n. 12)
Gli operatori dei Servizi di NPI (n. 6)
tutti provenienti rispettivamente dai seguenti Comuni:
Monza (n. 33 partecipanti), Xxxxxxx (x. 0), Xxxxxxxxx x Xxxx- xx (x. 6) Bovisio M. e Desio (n. 5) Usmate e Vaprio d’Adda (n. 4) Almè (n. 3) Giussano, Milano e Villasanta (n. 2) Bias- sono, Xxxxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxxxxx, Xxxxx, Xxxxxx, Xxxx- xx, Xxxxxx, Xxxxxx (x. 1)