Edizione di martedì 11 giugno 2019
Edizione di martedì 11 giugno 2019
Obbligazioni e contratti
Note in tema di compensazione impropria (o atecnica)
di Xxxxx Xxxxxxxx
Impugnazioni
Ricorso in Cassazione e rimessione in termini ai fini della prova della tempestività della relativa notifica
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Esecuzione forzata
Il creditore del condominio può pignorare i crediti vantati nei confronti dei singoli condomini per i contributi dovuti in base ai riparti approvati dall'assemblea
di Xxxx Xxxxx Xxxxxxxxx
Obbligazioni e contratti
Contratto per persona da nominare: l’electio amici
di Xxxxxxx Xxxxxx
Comunione – Condominio - Locazione
La rilevanza dei rivestimenti esterni pregiati e dei fregi decorativi dei balconi, “cartina di tornasole” per l’attribuzione della spesa di manutenzione al singolo proprietario e/o al condominio
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Diritto successorio e donazioni
La reintegrazione della legittima in via stragiudiziale: profili fiscali
di Xxxxxx Xxxxxxx
Diritto e reati societari
Azione sociale di responsabilità nella S.r.l.: profili processuali in tema di onere della prova
di Xxxx Xxxx Xxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati
Diritto Bancario
L’anatocismo giudiziale
di Xxxxx Xxxxxxxx
Diritto del Lavoro
Danno biologico derivante da mobbing
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Soft Skills
Avvocati: come gestire un pitch con i prospect
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Business Coach e Formatore
Obbligazioni e contratti
Note in tema di compensazione impropria (o atecnica)
di Xxxxx Xxxxxxxx
La c.d. compensazione impropria (o atecnica) è un istituto di elaborazione giurisprudenziale che opera quando le contrapposte ragioni di credito delle parti scaturiscono dal medesimo rapporto giuridico, anche complesso, o da rapporti accessori: il fenomeno si risolve in un mero accertamento contabile del saldo finale di contrapposte partite di dare e avere ed è sottratto
all’applicazione della disciplina predisposta dal legislatore per la compensazione “vera e propria” negli artt. 1241 ss. c.c.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso da una parte della dottrina (v., per tutti, Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1993, 487 s.; Breccia, Le obbligazioni, nel Trattato Iudica-Zatti, Milano, 1991, 718 s.) ma invero tutt’altro che esente da critiche (cfr., tra gli altri, Perlingieri, Dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1975, 264; Xxxxxx, voce «Compensazione», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., Agg. VII, Torino, 2012, 164 s.; Xxxxxxxx, Rapporti di lavoro, compensazione e autonomia fra i crediti reciproci, in Giur. it., 1994, V, 284 ss., Xxxxx, La compensazione volontaria e impropria, in L’estinzione dell’obbligazione senza adempimento, a cura di Paladini, Torino, 2010, 327 ss.), l’operatività della compensazione di cui agli artt. 1241 ss.
c.c. presuppone l’autonomia dei rapporti cui si riferiscono le contrapposte ragioni di credito delle parti e, pertanto, non ricorre in presenza di obbligazioni scaturenti dal medesimo rapporto giuridico, ancorché complesso, o da rapporti accessori: in questi casi ha invece luogo il diverso fenomeno della c.d. compensazione impropria (o atecnica), il quale si risolve in un mero accertamento contabile del saldo finale di contrapposte partite di dare e avere, sottratto all’applicazione della disciplina predisposta dal legislatore per la compensazione “vera e propria”.
Il principale ambito di applicazione della compensazione impropria è il rapporto di lavoro: in questo ambito essa è stata riconosciuta operare, per esempio, tra il credito alla retribuzione o al t.f.r. del lavoratore da un lato e, dall’altro, quello del datore di lavoro alla ripetizione di somme indebitamente versate (v., fra le tante, Cass., 16.5.1981, n. 3230; Cass., 4.7.1987, n.
5874), alla restituzione di denaro dato a mutuo in connessione con il rapporto di lavoro (Cass., 29.3.2004, n. 6214) o al risarcimento dei danni cagionati dalla controparte mediante una prestazione lavorativa non diligente (v., fra le altre, Cass., 20.6.2003, n. 9904; Cass., 17.4.2004,
n. 7337) o la commissione di un fatto illecito (v., ex multis, Xxxx., 5.12.2008, n. 28855; Cass., 6.2.1987, n. 1245). Ma la giurisprudenza applica lo stesso ragionamento per affermare che in questo modo si elidono fino al concorrente ammontare, per esempio: il credito dell’appaltatore al corrispettivo e quello del committente al risarcimento dei danni cagionati dall’inadempimento del primo (v., fra le altre, Cass., 8.8.2007, n. 17390; Cass., 8.8.2002, n.
11943); il credito per la fornitura di merci e quello al risarcimento dei danni derivanti dai vizi delle stesse (Cass., 21.9.2011, n. 19208); il credito del locatore per le spese di amministrazione del bene locato e quello del conduttore per la restituzione del canone pagato in eccedenza (Cass., 6.11.2001, n. 13697); il credito dell’agente alla provvigione o all’indennità di fine rapporto e quello del preponente alla corresponsione di somme riscosse dall’agente per conto della controparte (Cass., 16.1.1988, n. 301) o al risarcimento dei danni cagionati da quest’ultimo esorbitando dai propri poteri (Cass., 25.11.2002, n. 16561) o trascurando di vigilare sull’operato di un subagente (Cass., 29.8.2012, n. 14688); le pretese risarcitorie derivanti dall’incidente stradale dovuto alle concomitanti azioni colpose di entrambi i conducenti dei veicoli venuti a collisione (Cass., 25.8.2006, n. 18498); e così via.
Come si è già accennato, i nostri giudici sono soliti affermare, seppure non senza alcuni contrasti, che la compensazione impropria non è sottoposta alla disciplina sostanziale e processuale prevista per questo istituto. Essa è, quindi, sottratta al divieto di rilievo d’ufficio previsto dall’art. 1242, comma 1°, c.c., sicché il giudice può procedere all’accertamento contabile del saldo risultante dalla somma algebrica delle rispettive poste anche in assenza di formale eccezione di parte o di apposita domanda riconvenzionale, restando inapplicabili le norme processuali che pongono preclusioni o decadenze alla proponibilità delle relative eccezioni (v., in particolare, Cass., 8.8.2007, n. 17390). Va peraltro precisato che il giudice non è investito di poteri officiosi d’indagine quanto all’esistenza dei rispettivi crediti delle parti e può procedere all’accertamento del saldo contabile solamente sulla base di circostanze tempestivamente dedotte in giudizio, diversamente verificandosi un illegittimo ampliamento del thema decidendum: di conseguenza, anche nell’ambito della compensazione impropria permane l’onere, a carico della parte interessata, di allegare e provare le rispettive voci di credito nel rispetto del principio del contraddittorio (Cass., 12.5.2006, n.11030; Cass., 30.3.2010, n. 7624).
Dal punto di vista sostanziale, l’operatività della compensazione impropria è svincolata dai requisiti di esigibilità (Cass., 14.2.1983, n. 1145), liquidità (Cass., 4.3.1970, n. 530; Cass.,
13.5.1982, n. 2968) e omogeneità (Cass., 5.5.1982, n. 2801) dei crediti richiesti dall’art. 1243, comma 1°, c.c. per aversi compensazione legale (in senso contrario v., però, Xxxx., 29.1.2015, n. 1695); allo stesso modo è stata ritenuta inapplicabile la regola, enunciata dal comma 2° dell’articolo da ultimo menzionato, che richiede che il debito opposto sia di pronta e facile liquidazione per dare spazio alla compensazione giudiziale (Cass., 21.9.2011, n. 19208). La compensazione impropria, ancora, è sottratta alla regola sull’arresto della prescrizione prevista dall’art. 1242, comma 2°, c.c. (Cass., 25.11.2002, n. 16561; Cass., 3.11.1986, n. 6426) ed ha luogo anche con riguardo ai crediti impignorabili in deroga all’art. 1246, n. 3, c.c., aspetto che emerge con particolare risalto nell’ambito del rapporto di lavoro, ove viene in rilievo il noto limite del quinto dello stipendio previsto dall’art. 545 c.p.c.
Una recentissima decisione, infine, ha stabilito che la compensazione impropria si sottrae pure alla regola contenuta nell’art. 1248 c.c. riguardante indisponibilità al cessionario, da parte del debitore che abbia accettato puramente e semplicemente la cessione, della compensazione che avrebbe potuto opporre al cedente (Cass., 19.2.2019, n. 4825; in precedenza aveva
adottato la soluzione opposta, invece, Cass., 19.4.2011, n. 8971).
In conclusione, sembra che l’unico requisito della compensazione “vera e propria” che la giurisprudenza mantiene fermo per l’operatività della compensazione atecnica sia quello della certezza dei crediti (v., in particolare, Cass., 23.3.2017, n. 7474; Cass., 29.1.2015, n. 1695), da intendersi anche (e soprattutto) come non contestazione in giudizio secondo la tradizionale impostazione che, pur incontrando la disapprovazione della dottrina maggioritaria (v., per tutti, Xxxxxxxxx – Xxxxxxxx, Della compensazione, nel Commentario Xxxxxxxxxxx, Milano, 2016, 68 ss.), è stata definitivamente consacrata nelle aule di giustizia da una pronuncia delle Sezioni Unite di qualche anno fa (Cass., sez. un., 15.11.2016, n. 23225).
Va segnalato che da questa linea di pensiero si è discostato un indirizzo giurisprudenziale, fatto proprio da un risalente intervento delle Sezioni Unite ma poi confermato solo da poche pronunce successive, secondo cui andrebbe operata una distinzione: la tesi della non compensabilità delle obbligazioni non autonome coglierebbe nel segno quando le obbligazioni derivanti da un unico negozio siano tra loro legate da un vincolo di corrispettività, perché la reciproca elisione di tali pretese verrebbe a paralizzare l’efficacia stessa del negozio, privandolo della possibilità di svolgere la sua funzione; mentre quando le obbligazioni, ancorché aventi causa in un unico rapporto, non siano in posizione sinallagmatica e presentino carattere autonomo, non vi sarebbe ragione per escludere la fattispecie dall’area della compensazione “in senso tecnico” e disapplicarne la disciplina (Cass., sez. un., 16.11.1999, n. 775; in termini analoghi v., poi, Cass., 11.3.2005, n. 5349; Cass., 10.6.2005, n. 12327; Cass., 9.5.2006, n. 10629; Cass., 29.1.2015, n. 1695). Questa ricostruzione non è però convincente, perché le obbligazioni scaturenti dai contratti a prestazioni corrispettive normalmente non sono omogenee e, pertanto, si sottraggono al meccanismo della compensazione già per questa ragione, senza necessità di sviluppare ulteriori ragionamenti (Renda, op. cit., 336 ss.); e d’altro canto, nell’inverosimile ipotesi che venisse stipulato un contratto sinallagmatico avente per oggetto prestazioni omogenee, come tali destinate ad estinguersi per compensazione già nel momento della loro stessa insorgenza, si sarebbe con ogni probabilità di fronte ad un negozio nullo per mancanza di causa (Gragnoli, op. cit., 290), salvo che non si possa ritenere, alla luce delle circostanza del caso concreto, che una siffatta operazione negoziale risponda ad un interesse delle parti serio e meritevole di tutela (Perlingieri, op. cit., 265; Xxxxx, op. cit., 347).
Impugnazioni
Ricorso in Cassazione e rimessione in termini ai fini della prova della tempestività della relativa notifica
di Xxxxxxx Xxxxxxxxx
Cass., ord., 28 marzo 2019, n. 8641; Pres. Campanile – Rel. D’Orazio
Impugnazioni civili – Ricorso per cassazione – Notifica – Omesso deposito dell’avviso di ricevimento entro l’udienza di discussione – Rimessione in termini – Condizioni – (C.p.c. artt. 153, 291; L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 6)
[1] Ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione la prova dell’avvenuto perfezionamento della notificazione a mezzo posta dello stesso deve essere data tramite la produzione dell’avviso di ricevimento entro l’udienza di discussione, che non può essere rinviata per consentire all’impugnante di effettuare tale deposito, in contraddizione con il principio di ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 111 Cost., ferma la possibilità per il ricorrente di chiedere ed ottenere la rimessione in termini, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere, a norma dell’art. 6, comma 1, della l. n. 890 del 1982, un duplicato dell’avviso stesso. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto, in quanto il ricorrente aveva richiesto all’amministrazione postale il rilascio del duplicato della ricevuta di ritorno solo dopo sei anni dalla data di spedizione dell’atto, senza verificare in precedenza la sorte del plico postale).
CASO
[1] Alla vigilia dell’udienza camerale fissata per la trattazione di un ricorso portato al suo esame, la Corte di cassazione ha ricevuto un’istanza di rimessione in termini, avanzata da parte ricorrente, ai fini, primariamente, della rinnovazione della notifica del ricorso e, in subordine, della prova dell’avvenuto e tempestivo perfezionamento della notificazione originariamente eseguita: prova da somministrare mediante la produzione in giudizio del duplicato dell’avviso di ricevimento del ricorso trasmesso a suo tempo a mezzo raccomandata, fatto oggetto di richiesta, tale duplicato, all’Amministrazione postale nei modi regolati dall’art. 6, l. 20 novembre 1982, n. 890.
La Corte ha giudicato insussistenti gli estremi per poter provvedere nel senso indicato dal ricorrente; e, assodato su quella base come non potesse ritenersi conseguita la prova dell’avvenuta notificazione in terminis del ricorso introduttivo, ha respinto quest’ultimo siccome inammissibile.
SOLUZIONE
[1] Il ragionamento che ha consentito al giudice di legittimità di pervenire alla conclusione testé riferita, può essere articolato come segue.
Premesso come non potessero, nella specie, reputarsi sussistenti i presupposti legittimanti la rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.; e così stabilito, pertanto, che, persistendo il ricorrente nell’aspirazione ad una pronuncia sul merito del gravame interposto, quella della remissione in termini si sarebbe profilata come la via obbligata da percorrere: la Corte ha in certo senso invertito l’ordine logico delle questioni, sottoponendo anzitutto ad esame l’istanza di restituzione nei termini formulata in subordine, ossia, come dianzi riportato, ai fini dell’acquisizione della prova documentale attestante l’avvenuta e tempestiva notifica del ricorso.
In proposito, il supremo giudice rammenta che, se la legge non prescrive che al deposito di quel supporto documentale si debba far luogo unitamente a quello dell’atto d’impugnazione, esso, però, soggiace a un preciso limite, rappresentato dall’udienza di discussione. E il ricorrente che non sia in grado di assolvere al proprio onere probatorio nel rispetto di quel limite, non può limitarsi a chiederne lo spostamento, ovverosia a chiedere un mero rinvio dell’udienza, cui drasticamente osta il principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost.: deve necessariamente adire le vie della rimessione in termini di cui all’art. 153 c.p.c. Il problema è, però, che, nel caso di specie – notificazione a mezzo posta e mancata restituzione al notificante dell’avviso di ricevimento, con annessa necessità, per quello stesso soggetto, di procurarsi un duplicato dell’avviso in oggetto mediante richiesta all’operatore postale nei modi di cui al citato art. 6 l. n. 890/1982 -, è principio saldamente acquisito che le vie della rimessione in termini siano proficuamente percorribili solamente in quanto la parte interessata possa allegare di essersi tempestivamente attivata ai fini del rilascio del duplicato de quo: ciò che, nella fattispecie, risultava escluso addirittura per tabulas, dal momento che la richiesta inoltrata a quel fine all’Amministrazione postale recava una data di oltre sei anni successiva a quella di spedizione del plico contenente il ricorso di legittimità.
La Corte non si è, viceversa, misurata direttamente con la richiesta, esperita in via principale, di rimessione in termini per la rinnovazione della notifica del ricorso, limitandosi, a questo riguardo, a richiamare quell’altro suo insegnamento, di portata più generale, per cui, nell’ipotesi di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, quest’ultimo, ove intenda conservare gli effetti della richiesta originaria, è tenuto a riattivare il procedimento notificatorio con assoluta immediatezza, senza, tendenzialmente, superare il limite temporale pari alla metà dei termini di cui all’art. 325 c.p.c. Il principio non si attaglia esattamente alla fattispecie in rassegna. Ma lecito è pensare che, nel rinviare ad esso, la Corte abbia inteso applicarne alla fattispecie la ratio, così che l’immediatezza dell’attivazione di parte, nel rispetto dello stringente limite temporale di cui appena si è detto, abbia a condizionare non soltanto la proficuità della ripresa di un procedimento notificatorio dianzi non giunto a buon fine ma altresì l’accoglibilità dell’istanza di rimessione in termini che si renda del caso, a quello scopo, necessaria: quanto, nel caso di specie, non poteva che condannare all’insuccesso l’iniziativa spiegata a tal fine dal ricorrente, anche sotto questo profilo colpevole di aver atteso oltre sei anni prima di mettersi in moto per la tutela delle
proprie ragioni.
QUESTIONI
[1] Volendo ricapitolare i princìpi, ben radicati nella giurisprudenza di legittimità, di cui la presente ordinanza si lascia apprezzare come naturale reductio ad consequentias, essi possono essere così messi in fila: a) la rinnovazione della notificazione può essere ordinata ai sensi dell’art. 291 c.p.c. allorché la notifica si presenti affetta da un vizio di nullità e non quando se ne debba affermare la radicale inesistenza, come invero predicabile, nelle ipotesi di notifica a mezzo posta, allorquando sia mancata la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento (così, da ultima, Cass. 27 ottobre 2017, n. 25552; Cass. 1° ottobre 2015, n. 19623); b) la prova, per il tramite del deposito dell’avviso di ricevimento, dell’avvenuto perfezionamento della notifica a mezzo posta del ricorso in cassazione può essere offerta sino all’udienza di discussione ex art. 379 c.p.c. ovvero sino all’adunanza camerale di cui al successivo art.
380-bis (Cass., Sez. un., 12 maggio 2010, n. 11429); c) nelle ipotesi in cui sia mancata o non sia possibile la produzione all’udienza dell’avviso di ricevimento comprovante il perfezionamento della notificazione eseguita a mezzo del servizio postale, non può essere accolta l’istanza di mero rinvio dell’udienza medesima, per irriducibile contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata del processo (Cass. 28 aprile 2011, n. 9453); d) la parte che sia costretta a chiedere la rimessione in termini per poter utilmente fornire la prova dell’avvenuta notifica di un suo atto processuale, è tenuta a dimostrare, ove debba servirsi a quel fine del duplicato dell’avviso di ricevimento rilasciato dall’Amministrazione postale a norma dell’art. 6 l. n.
890/1982, di essersi tempestivamente attivata presso detta Amministrazione allo scopo di procurarsi quel documento (Cass. 1° ottobre 2018, n. 23793; Cass. 30 dicembre 2015, n.
26108); e) nel caso in cui la notifica di un determinato atto di gravame non sia andata a buon fine per ragioni non imputabili alla parte richiedente, questa, appreso dell’esito negativo, può conservare gli effetti legati alla richiesta originaria ma solo attivandosi con assoluta immediatezza per riprendere il procedimento notificatorio, come esclusivamente potrebbe dirsi allorché tale attivazione sappia mantenersi entro il limite di tempo della metà dei termini di cui all’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data rigorosa prova (Xxxx., Sez. un., 15 luglio 2016, n. 14954).
Xxx poco rimane da aggiungere a questo complessivo riguardo. Tutti i princìpi appena passati in rassegna appaiono, chi più chi meno, individuare un soddisfacente punto di equilibrio tra le opposte ragioni della celerità del processo e della garanzia dei diritti di azione e difesa delle parti; e, come tali, vanno recepiti, senza lasciare spazio ad obiezioni o rilievi di tenore meramente formalistico.
Esecuzione forzata
Il creditore del condominio può pignorare i crediti vantati nei confronti dei singoli condomini per i contributi dovuti in base ai riparti approvati dall'assemblea
di Xxxx Xxxxx Xxxxxxxxx
Cass., 14 maggio 2019 n. 12715 – Pres. De Xxxxxxx, rel. Tatangelo
Espropriazione forzata – Crediti vantati dal condominio nei confronti dei singoli condomini – Pignoramento presso terzi ex artt. 543 e ss. c.p.c. – Parziarietà delle obbligazioni condominiali
– Esclusione
Il creditore del condominio che disponga di un titolo esecutivo nei confronti del condominio stesso ha facoltà di procedere all’espropriazione di tutti i beni condominiali, ai sensi degli artt. 2740 e 2910 c.c., ivi inclusi i crediti vantati dal condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti in base a stati di ripartizione approvati dall’assemblea, nelle forme dell’espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 ss. c.p.c. e senza che entri in gioco il principio di parziarietà delle obbligazioni condominiali.
Riferimenti normativi: art.543 e ss. c.p.c., artt. 2740 e 2910 c.c.
CASO
Un creditore agiva in via esecutiva nei confronti di un condominio, pignorando i crediti vantati da quest’ultimo nei confronti di alcuni condomini per contributi dagli stessi dovuti in base a una sentenza di condanna al pagamento di spese processuali. Proponevano opposizione all’esecuzione ex art. 615. c.p.c. il condominio debitore nonché uno dei condomini terzi pignorati. Il Tribunale di Catania rigettava l’opposizione del condominio e dichiarava inammissibile quella proposta dal condomino. La Corte d’appello di Catania confermava la decisione di primo grado. Avverso tale sentenza, il Condominio ed il condomino pignorato hanno proposto ricorso per cassazione.
SOLUZIONE
La Corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso, esaminandone comunque i motivi nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, c.p.c., «in considerazione della particolare importanza della questione di diritto che con esso è posta», cioè la possibilità (o meno) per il creditore del condominio, munito di titolo esecutivo nei confronti del quest’ultimo, di procedere all’espropriazione di crediti presso i singoli condomini, quali debitori nei confronti
del condominio per contributi dovuti in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea. La questione viene risolta in senso affermativo, precisando la S.C. che, in tale ipotesi, l’esecuzione forzata non può che avvenire nelle forme dell’espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 e ss. c.p.c.
QUESTIONI
La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, ammette la possibilità per i creditori del condominio di percorrere un’altra strada al fine di ottenere la soddisfazione dei propri crediti, cioè il pignoramento dei contributi dovuti dai singoli condomini in base agli stati di ripartizione approvati dall’assemblea.
Tale possibilità, in particolare, viene dedotta dall’esistenza di un vero e proprio rapporto obbligatorio tra condominio e singolo comproprietario in relazione al pagamento dei contributi condominiali: il che, ad avviso della Corte, si ricava chiaramente dal disposto dell’art. 63 disp. att. c.c., essendo previsto un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo in favore del condominio e contro il singolo condomino per la riscossione dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea (v., in dottrina, G. A. Parini, La natura delle obbligazioni condominiali nella riforma del condominio e gli strumenti posti a tutela delle ragioni del creditore, in Nuova Giurisprudenza Civile commentata, 2014, II, pp. 115 ss.).
La S.C., in applicazione dei principi generali di cui agli artt. 2740 x.x. x 0000 x.x., xxxxxxxxx che l’espropriazione forzata, potendo avvenire anche sui crediti del debitore (che, nella specie, hanno ad oggetto il pagamento dei contributi condominiali), non potrebbe che svolgersi «nelle forme dell’espropriazione dei crediti presso terzi di cui agli artt. 543 c.p.c. e ss.».
Per meglio comprendere il principio di diritto sancito dalla Corte, si ricordi che il pignoramento presso terzi costituisce una forma particolare di esecuzione forzata, che può avere ad oggetto sia cose mobili di proprietà del debitore, ma in possesso di terzi, sia crediti che il debitore vanta nei confronti di un terzo (c.d. debitor debitoris).
Nel caso specifico, il singolo condomino, con riferimento ai contributi condominiali di sua spettanza, risulta certamente debitore nei confronti del condominio e quest’ultimo, a sua volta, ben può essere debitore nei confronti di terzi soggetti (si pensi al caso in cui il condominio, in persona dell’amministratore, venga condannato al pagamento di una somma in forza di una sentenza). Il singolo condomino assume, dunque, le vesti del debitor debitoris.
Nello specifico, la riscossione delle quote condominiali trova il suo fondamento nel preventivo, nel consuntivo e nello stato di ripartizione approvato dall’assemblea.
In questi termini, il condominio risulta titolare di un credito certo, in quanto approvato dall’assemblea, e liquido, poiché determinato nel suo ammontare.
Tale credito diviene però esigibile in caso di morosità del singolo condomino, coordinandosi
peraltro con quanto disposto dal già richiamato art. 63 disp. att. c.c., in forza del quale il creditore non può agire «nei confronti degli obbligati in regola con i pagamenti, se non dopo l’escussione degli altri condomini». Solo nel caso in cui l’azione ex art. 63 disp. att. c.c. si riveli in tutto o in parte infruttuosa, lo stesso creditore potrà agire giudizialmente, pro quota, nei confronti dei condomini non morosi.
A prescindere da tale possibilità, nella decisione in commento viene affermato che il creditore del condominio che disponga di un titolo esecutivo nei confronti del condominio stesso ha altresì facoltà di procedere all’espropriazione di tutti i beni condominiali, «ivi inclusi i crediti vantati dal condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti in base a stati di ripartizione approvati dall’assemblea».
Tale facoltà, afferma la Corte, non potrebbe affatto condurre a ritenere violato il principio di parziarietà, quale sancito dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 9148 del 8 aprile 2008, se solo si considera che l’esecuzione contro il condominio (debitore per l’intero) e la relativa espropriazione dei beni e diritti di credito – che, proprio in quanto condominiali, appartengono pro quota a tutti i condomini – finirebbe proprio per attuare il richiamato principio di parziarietà.
Sul piano applicativo, le conseguenze di tale scelta sono, per la verità, piuttosto rilevanti, soprattutto se le si raffronti alle indicazioni che emergono dalla legge e, in particolare, dall’art. 63 disp. att. c.c.
Il creditore del condominio, infatti, agendo direttamente contro quest’ultimo (il “vero” esecutato) – e non contro il singolo condomino – ha così la possibilità di pignorare crediti vantati dal suo debitore (condominio) nei confronti dei singoli comproprietari, a prescindere dalla circostanza che quest’ultimi siano o meno in regola con i pagamenti dei contributi condominiali.
Volendo semplificare, il creditore del condominio potrebbe, quindi, agire esecutivamente:
pro quota nei confronti dei singoli condomini, con il rispetto però del principio di previa escussione dei condomini morosi di cui all’art. 63 disp. att. c.c.;
per l’intero, nei confronti di tutti i beni condominiali, ivi inclusi i crediti vantati dal condominio nei confronti dei singoli condomini per i contributi dagli stessi dovuti in base a stati di ripartizione approvati dall’assemblea, senza che operi il meccanismo di previa escussione ex art. 63 disp. att. c.c.
Vero è che l’eventuale inesigibilità del credito vantato dal condominio nei confronti dei singoli comproprietari per le quote condominiali dagli stessi dovute (presupposto, come detto, per l’esperibilità dell’azione ex art. 63 disp. att. c.c.) non esclude affatto la sua possibile espropriazione.
Invero, la possibilità di positivo accertamento del credito in esame e di sua assegnazione in
favore del creditore procedente, ben può avvenire nel procedimento di cui all’art. 548 c.p.c., «pur con il limite derivante […] dalle eventuali condizioni per la sua esigibilità, che […]
potranno avere rilievo esclusivamente nell’ipotesi in cui il creditore assegnatario dovesse porre in esecuzione l’ordinanza di assegnazione» (cfr., da ultimo, Cass. civ., Sez. VI – 3, Ord. n. 15607 del 22 giugno 2017, in Riv. Esec. Forzata, 2018, 1, 221).
Ma se, come detto, l’esigibilità dei contributi condominiali presuppone la morosità dei condomini (essendo il credito già certo e liquido in base allo stato di riparto approvato dall’assemblea), si comprende nuovamente il problematico coordinamento tra il principio espresso dalla Corte e l’art. 63 disp. att. c.c. posto che il pignoramento dei beni condominiali risulterebbe così del tutto indipendente dal meccanismo di tutela del condomino “virtuoso” rispetto alla regolarità dei pagamenti.
Come dire: l’art. 63 disp.att. c.c. prevede un particolare procedimento fondato sulla previa escussione del condomino moroso, ma quello non espressamente vietato dalla legge, vale a dire il pignoramento di tutti i beni condominiali (ivi inclusi i crediti relativi ai contributi condominiali dovuti dai singoli obbligati), rimane pur sempre utilizzabile dal creditore.
La discrezionalità nella scelta di aggredire esecutivamente il patrimonio del condomino o quello dei singoli condomini non è in realtà estranea al panorama giurisprudenziale (di merito) successivo alla riforma del condominio del 2012: sono molteplici, infatti, i Tribunali che hanno affermato la pignorabilità del conto corrente condominiale (v. Trib. Milano 21/11/2017 n.11878; Trib. Pescara, 8.5.2014, in Guida al dir., 2014, n. 31, 32; Trib. Reggio Xxxxxx, 16.5.2014, in Arch. loc., 2014, 583), soprattutto perché, anche in questo caso, il creditore, pignorando il conto corrente condominiale, non agisce nei confronti dei condomini in regola con i pagamenti, ma aggredisce il “patrimonio del condominio” nel suo complesso.
Da questa angolazione, allora, la decisione commentata sembra costituire un’ulteriore tappa del percorso iniziato dalla giurisprudenza, volto a riconoscere una qualche forma di soggettività giuridica all’ente condominiale, separata e distinta da quella dei condomini (cfr., in particolare, Cass., Sez. Un., 18/09/2014, n. 19663), a onta della scelta legislativa emergente dalla c.d. riforma del condominio del 2012 che, nonostante il diverso progetto iniziale, non ha riconosciuto l’autonomia patrimoniale dello stesso.
Obbligazioni e contratti
Contratto per persona da nominare: l’electio amici
di Xxxxxxx Xxxxxx
Cass. civ., sez. II, ord. 21 maggio 2019, n. 13686 – Pres. Xxxxxxxx – Rel. Dongiacomo
[1] Obbligazioni e contratti – Contratto per persona da nominare – Contratto preliminare – Legittimazione – Potere di nomina – Effetto retroattivo – Electio amici – Esecuzione specifica
(Cod. civ. artt. 1401-1403, 2932; C.p.c. art. 360 n. 3,4 e 5).
[1] “Nel contratto per persona da nominare, l’atto di nomina – che è un atto unilaterale recettizio – non richiedendo formule sacramentali, può consistere in qualsiasi dichiarazione con la quale il contraente indica il soggetto che deve acquistare i diritti ed assumere gli obblighi nascenti dal contratto da lui stipulato, purché rivesta, a pena di nullità, la stessa forma che le parti hanno utilizzato per la stipulazione del contratto, pur se non prescritta dalla legge. Ciò, tuttavia, non significa che la nomina debba necessariamente essere consacrata in una formale dichiarazione diretta dallo stipulante all’altro contraente, essendo, al contrario, sufficiente, alla luce del principio generale della libertà di forma e della strumentalità della forma rispetto allo scopo dell’atto, che a questo pervenga una comunicazione scritta che indichi tanto la chiara volontà dello stipulante di designazione del terzo in capo al quale deve concludersi il contratto, quanto l’accettazione della nomina da parte del terzo nominato: comunicazione che, in caso di preliminare, può essere contenuta nell’atto introduttivo del giudizio instaurato per l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto, tanto nel caso in cui la domanda sia stata proposta direttamente dallo stipulante (il quale può ottenere la pronuncia di trasferimento direttamente a favore del terzo che abbia nominato nella domanda giudiziale), quanto nei casi in cui la domanda sia stata proposta congiuntamente da stipulante e terzo nominato ovvero, come nella specie, direttamente dal beneficiario.”
CASO
[1] Con atto di citazione innanzi la Tribunale di Perugia Xxxxx proponeva domanda di esecuzione in forma specifica, ex art. 2932 c.c., dell’obbligo di vendere che Xxxx, con contratto preliminare, aveva assunto nei confronti di Xxxxxxxxx il quale, avendo promesso di acquistare per sé o per persona da nominare, lo aveva nominato con dichiarazione. Il Tribunale rigettava la domanda sostenendo che, seppur il promissario acquirente aveva ritualmente esercitato la facoltà di nominare il terzo, in realtà l’electio amici non aveva conferito a quest’ultimo la legittimazione ad agire per ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre stabilito dal preliminare in ragione della sua completa estraneità rispetto alla stipulazione del contratto medesimo che nei suoi confronti valeva come mera res inter alios acta.
La Corte d’Appello adita, sia pur in base a considerazioni parzialmente differenti, ha confermato la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa aveva escluso la legittimazione attiva di Xxxxx ad ottenere la pronuncia di esecuzione coattiva precisando che l’electio amici era stata comunicata successivamente all’avvio del giudizio e tale circostanza qualificava l’estraneità del terzo nominato rispetto al contratto preliminare atteso che il promittente venditore non aveva conoscenza della nomina.
SOLUZIONE
[1] Per quanto di interesse con il primo motivo di ricorso Xxxxx, lamentando la violazione e l’erronea applicazione degli artt. 1401, 1402 e 1403 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d’appello ha escluso la sua legittimazione attiva. Secondo il ricorrente il giudice d’appello aveva erroneamente valutato un fatto decisivo della controversia ossia che l’electio amici da parte dell’originario contraente era stata tempestivamente ed efficacemente notificata al promittente venditore in conformità a quanto sancito dall’art. 1402 c.c. Tale comunicazione, infatti, era stata ritualmente effettuata con l’atto di citazione e, in quanto anteriore rispetto al termine che le parti si erano date, era sicuramente tempestiva ed oltretutto era stata anche depositata nel corso del giudizio di primo grado alla prima udienza di comparizione delle parti nel rispetto dei termini di rito.
A maggior riprova il ricorrente sostiene che la comunicazione dell’electio non richiede formule sacramentali e può essere comunicata anche da un nuncius e desunta dall’atto di citazione che il terzo abbia notificato all’altro contraente per l’esecuzione del contratto, proprio com’è accaduto nel caso di specie, dove la dichiarazione di nomina è stata formalizzata dall’attore, quale terzo nominato, con l’atto di citazione nel quale si fa riferimento ad una scrittura sottoscritta ed è stata, in seguito, dimostrata in giudizio con il suo deposito in udienza. Tali circostanze, pertanto, dovevano condurre alla conseguenza dell’acquisizione da parte del terzo della legittimazione ad agire in giudizio per l’adempimento del contratto preliminare.
La Suprema Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.
QUESTIONI
[1] L’art. 1401 c.c. prevede che, durante la conclusione del contratto, una parte possa riservarsi la facoltà di nominare, in un secondo momento, la persona che acquisterà i diritti e assumerà i doveri nascenti dal contratto stesso. Se la persona nominata accetta il contratto produrrà l’effetto di sostituire il nominato all’originario stipulante ex tunc ossia con effetto dal momento in cui fu stipulato il contratto.
Il tratto peculiare del contratto per persona da nominare è costituito, infatti, come ribadisce la Corte di Cassazione nella sentenza in epigrafe, dal subingresso di un terzo – per effetto della nomina e della sua contestuale accettazione – che, prendendo il posto del contraente originario (lo stipulante), acquista i diritti ed assume gli obblighi correlativi nei rapporti con
l’altro contraente (promittente) determinando, inoltre, la contemporanea fuoriuscita dal contratto dello stipulante, con effetto retroattivo, per cui il terzo si considera fin dall’origine unica parte contraente contrapposta al promittente e a questa legata dal rapporto costituito dall’originario stipulante. (cfr. Cass. civ. sez. II 17 marzo 1995 n. 3115; Cass. civ. sez. II 2 marzo 2015, n. 4169)
Il subingresso del terzo allo stipulante che l’ha designato, tuttavia, può avvenire solo a condizione che vi sia stata una tempestiva e valida electio amici, restando, in mancanza, applicabile l’art. 1405 c.c., a norma del quale ove la nomina del terzo non sia stata validamente fatta nel termine stabilito dalla legge (e cioè tre giorni dalla stipulazione: art. 1402 c.c.) ovvero dalle parti il contratto produce i suoi effetti nei confronti degli originari contraenti.
In particolare nel caso di preliminare di compravendita nel quale il promissario compratore si sia riservato la facoltà di nominare un terzo fino al tempo del rogito qualora l’electio amici non sia intervenuta prima di tale momento l’unico soggetto legittimato ad agire per l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto è lo stipulante (cfr. Cass. civ. sez. II, 30 aprile 2012, n. 6612).
Nel caso di specie, tuttavia, non risulta contestato che le parti avessero stabilito, nel contratto preliminare, che il termine entro il quale il promissario acquirente poteva dichiarare (e comunicare all’altra parte: art. 1402, comma 1, c.c.) la sua eventuale electio amici era rappresentato dal rogito, vale a dire il momento in cui le parti stesse avrebbero dovuto stipulare il contratto definitivo e, peraltro, non essendo le parti giunte alla stipulazione di tale contratto l’electio amici non poteva essere effettuata in tale sede.
Il promissario acquirente, pertanto, nella qualità di contraente in favore del quale era stata prevista la facoltà di nomina del terzo, poteva esercitare tale diritto al più tardi con la domanda che egli stesso ha proposto ai sensi dell’art. 2932 x.x., xxxxxxxxxxx, xx xxxxxxxx, xxx xxxx xx xxxxxx xxx xxxxx sia avvenuta nel corso di giudizio, la sua tardività, con il conseguente consolidamento degli effetti del contratto in capo all’originario contraente.
Poste queste premesse la Suprema Corte afferma, inoltre, che per principio consolidato nel contratto per persona da nominare, l’atto di nomina – atto unilaterale recettizio – non richiedendo formule sacramentali, può consistere in qualsiasi dichiarazione con la quale il contraente indica il soggetto che deve acquistare i diritti ed assumere gli obblighi nascenti dal contratto da lui stipulato, purché rivesta, a pena di nullità, la stessa forma che le parti hanno utilizzato per la stipulazione del contratto, pur se non prescritta dalla legge (cfr. in tal senso Cass. civ. sez. II 29 settembre 2000 n. 12965; Cass. civ. sez. III 29 settembre 2006 n. 21254).
Ciò, tuttavia, non significa che la nomina debba necessariamente essere consacrata in una formale dichiarazione diretta dallo stipulante all’altro contraente, essendo, al contrario, sufficiente, alla luce del principio generale della libertà di forma e della strumentalità della forma rispetto allo scopo dell’atto, che a questo pervenga una comunicazione scritta che
indichi tanto la chiara volontà dello stipulante di designazione del terzo in capo al quale deve concludersi il contratto, quanto l’accettazione della nomina da parte del terzo nominato. (cfr.
Cass. civ. sez. II 29 novembre 2001 n. 15164; Cass. civ. sez. II 30 ottobre 2009 n. 23066; Cass.
civ. sez. II 1° settembre 2014 n. 18490)
Tale comunicazione, poi, in caso di contratto preliminare, può essere contenuta nell’atto introduttivo del giudizio instaurato per l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto, tanto nel caso in cui la domanda sia stata proposta direttamente dallo stipulante (il quale può ottenere la pronuncia di trasferimento direttamente a favore del terzo che abbia nominato nella domanda giudiziale), quanto nei casi in cui la domanda sia stata proposta congiuntamente da stipulante e terzo nominato ovvero, come nella specie, direttamente dal beneficiario.
Secondo la Suprema Corte, quindi, nel contratto per persona da nominare, la comunicazione all’altro contraente della dichiarazione di nomina può essere fatta anche dal terzo nominato ed, in ogni caso, può essere contenuta o, comunque, inequivocabilmente desunta dall’atto di citazione che il terzo stesso abbia notificato all’altro contraente per l’esecuzione del contratto. Nello stesso modo, l’accettazione del terzo nominato può essere contenuta in qualsiasi atto che ne manifesti chiaramente la volontà e, quindi, anche nell’atto introduttivo del giudizio promosso dal terzo nei confronti dell’altro contraente per ottenere l’esecuzione del contratto a norma dell’art. 2932 c.c. (cfr. Cass. civ. sez. II 29 novembre 2001 n. 15164; Cass. civ. sez. III 4 novembre 2004, n. 21140; Cass. civ. sez. III 29 settembre 2006 n. 21254)
In conclusione la Seconda Sezione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata in quanto la Corte d’Xxxxxxx, non attenendosi ai predetti principi di diritto, al fine di riconoscere all’attore la legittimazione ad agire in giudizio a norma dell’art. 2932 c.c., non aveva considerato che l’electio amici dell’attore, dichiarata dallo stipulante, era senz’altro contenuta nell’atto di citazione notificato ai promittenti venditori e, quindi, per tale via, ritualmente comunicata ai promittenti venditori nel termine stabilito dal preliminare e che lo stesso atto di citazione, in quanto notificato ai promittenti venditori direttamente dal terzo nominato, valeva come accettazione, altrettanto tempestiva, della nomina ricevuta da parte di quest’ultimo.
Comunione – Condominio - Locazione
La rilevanza dei rivestimenti esterni pregiati e dei fregi decorativi dei balconi, “cartina di tornasole” per l’attribuzione della spesa di manutenzione al singolo proprietario e/o al condominio
di Xxxxxxx Xxxxxxx
Tribunale di Roma, Sez. V^ civile, Sentenza n.20202 del 23 ottobre 2018, Xxxxxxx Xxxx. Xxxxxxx Xxxxxx
Art. 1117 c.c.
“Pertanto i balconi aggettanti non costituiscono proprietà comune fra i condomini e non hanno funzione comune ma esclusiva sì che gli oneri di manutenzione debbono essere sopportati solo dai proprietari dei balconi aventi tali caratteristiche. Solo laddove i balconi rechino rivestimenti esterni pregiati o fregi decorativi ed ornamentali sì da conferire al fabbricato un profilo estetico più gradevole, tali parti dei balconi debbono considerarsi comuni.[1]”
FATTO
Con atto di citazione un condomino chiamava in giudizio il condominio chiedendo l’illegittimità di una delibera condominiale, che aveva ad oggetto la ripartizione di spese inerenti lavori straordinari per il restauro di facciate, balconi e frontalini; nella delibera i condomini decidevano di suddividere al 50% le spese di rifacimento (“frontalini, sottobalconi, pali, ponteggi, intonaco, travi posteriori e copertine travi posteriori, copertine terrazzo e copertine muretti balconi posteriori”) con i singoli proprietari. Parte impugnate sosteneva che le spese aventi ad oggetto i balconi aggettanti in oggetto, senza valore artistico e/o particolare pregio architettonico, pr l’estetica complessiva del fabbricato, non potessero rientrare tra le competenze dell’assemblea condominiale (“nessun potere aveva l’assemblea condominiale di deliberare spese di manutenzione”), ma dovessero essere decise ed eventualmente attribuite in via esclusiva ai proprietari degli appartamenti, cui balconi inerivano.
Il condominio si costituiva eccependo che la delibera impugnata decideva il criterio di riparto spese per sostenere dei lavori futuri, ancora da sottoporre al vaglio assembleare (c.d.: delibera di indirizzo); non imponeva nessun lavoro sulle parti private. Inoltre, addiceva che per tali lavori avrebbe seguito i criteri di legge e regolamentari, visto che i frontalini dei balconi e la parte inferiore degli stessi avevano una precisa funzione di decoro, armonia ed estetica tali da renderli beni comuni ed in pregio all’intero fabbricato condominiale, indipendentemente dall’assenza di fregi.
SOLUZIONE
Il tribunale capitolino, rilevata la natura di vera e propria delibera di “contenuto precettivo”, indipendentemente dall’assunzione di uno specifico impegno di spesa al riguardo, dichiarava la nullità della delibera condominiale: “per avere deciso in ordine ai criteri di riparto di spesa non inerente beni comuni” .
QUESTIONI
La decisione in esame analizza la funzione e la caratteristica dei balconi, oggetto della disputatio condominiale ed in particolare si interroga sulla natura comune e/o esclusiva di essi, in quanto a seconda della prospettiva con la quale si intenda procedere all’inquadramento giuridico, muta il regime di spese applicabili e conseguentemente, per quanto ivi interessa, la legittimità o meno della delibera.
L’assunto da cui il Tribunale muove le premesse risulta essere “lapalissiano”, poiché afferma che l’assemblea di condominio ha potere di deliberare solo sulle parti comuni dell’edificio, in quanto diversamente la delibera sarebbe affetta da nullità, non potendo il condominio assumere decisioni in ordine ai criteri di riparto “afferenti beni in proprietà solitaria”.
Il tribunale richiama consolidata giurisprudenza di legittimità, inerente la definizione di balconi aggettanti, che devono essere considerati come prolungamenti delle corrispondenti unità immobiliari e per questo appartengono in via esclusiva al proprietario di queste[2].
Inoltre, considerato che, non hanno funzione divisoria tra i piani, non fungono da copertura al piano inferiore poiché autonomi dal punto di vista strutturale, non costituiscono proprietà comune fra i condomini per cui non avendo tale funzione, ma solo esclusiva, gli oneri di manutenzione dovranno essere ripartiti solo dai rispettivi proprietari dei balconi.
Il punto da chiarire è se i balconi possono risultare sempre come beni privati esclusivi o viceversa essere assoggettati a beni condominiali, con il che, in tale ultima ipotesi, le rispettive spese di manutenzione essere ripartite tra tutti i condomini.
L’art. 1117 c.c., comprende al suo interno un elenco di parti comuni, non tassativo ma meramente esemplificativo, il quale però fa riferimento a “cose” che si presumono condominiali; questo comporta che un bene pur non indicato può essere qualificato come tale.
La presunzione di condominialità può essere superata sia da un titolo contrario, quindi un contratto, che attribuisca diversamente la titolarità, sia la destinazione oggettiva della cosa, che ben può essere non comune.
Il Tribunale sottolinea come a mente dell’art. 1117 x.x. , xxx xxxxx xxxxx xxx xxxxxxx aggettanti che possano ritenersi tali (frontalini e sottobalconi), da ricomprendersi nella facciata condominiale.
Tuttavia, allorquando i balconi rechino rivestimenti esterni pregiati o fregi decorativi ed ornamentali, da conferire al fabbricato un profilo estetico più gradevole, tali parti debbono considerarsi comuni (Cass. n. 218 del 2011 o la n. 21641 del 2017), con la conseguenza che la spesa relativa alle riparazioni e manutenzioni ricade su tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno e secondo i criteri deliberati dall’assemblea in ottemperanza alla legge.
Nel caso in questione però, il Tribunale, dopo aver preso in esame le fotografie prodotte, riportanti i frontalini dei balconi, riteneva che non apportassero alcun pregio architettonico e proprio per questo motivo le spese inerenti il loro restauro dovessero essere divise solamente tra i proprietari dei balconi e comunque la delibera invalidata, in quanto affetta da nullità, avendo l’assemblea deliberato una spesa non inerente beni comuni.
[1] Cass. Civ. n. 21641 del 2017
[2] Cass. Civ. n. 14576 del 2004; Cass. Civ. n. 15913 del 2007; Cass. Civ. n. 587 del 2011
Diritto successorio e donazioni
La reintegrazione della legittima in via stragiudiziale: profili fiscali
di Xxxxxx Xxxxxxx
Cassazione Civile, Sez. 5, Ordinanza n. 1141 del 17/01/2019
TRIBUTI ERARIALI INDIRETTI – IMPOSTA DI REGISTRO – APPLICAZIONE DELL’IMPOSTA – IN
GENERE Accordi tra i legittimari – Natura – Qualificazione – Conseguenze – Fattispecie.
Gli accordi diretti a reintegrare i diritti dei legittimari sono assoggettati all’imposta di registro ai sensi dell’art. 29 del D.P.R. n. 131 del 1986, e non a quella di successione, ove non abbiano natura meramente ricognitiva dell’inefficacia delle disposizioni testamentarie lesive, ma siano volti a modificare e/o integrare le stesse, poiché le attribuzioni concordate tra gli interessati non hanno natura ereditaria ma concretano un trasferimento.
Disposizioni applicate
Articolo 29 D.P.R. n. 131 del 26/04/1986; articolo 43 D.Lgs. n. 346 del 31/10/1990; articolo 1965 cod. civ.
[1] Nel corso di un giudizio civile, Xxxxx (nominato, con testamento, erede universale della propria madre Xxxxx) e Xxxx (beneficiato con un legato in sostituzione di legittima avente ad oggetto beni immobili) raggiunsero un accordo in forza del quale Xxxx rinunciava alla disposizione a titolo di legato a lui fatta (e per tale via, conseguentemente l’immobile oggetto di legato sarebbe stato trasferito a Tizio, erede universale), accettando una somma di denaro che lo reintegrasse dei propri diritti di legittimario. L’accordo veniva suggellato in un verbale di conciliazione ove si chiedeva l’applicazione della imposta sulle successioni, ai sensi dell’art. 43, D. Lgs. n. 346 del 1990, nella formulazione vigente al momento dell’apertura della successione testamentaria, anziché della imposta di registro.
L’Ufficio del registro emetteva un avviso di liquidazione per imposta di registro pari al 3% della somma versata a favore di Xxxx, ai sensi dell’articolo 29, D.P.R. n. 131 del 1986.
Xxxxx presentava ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale, la quale lo respingeva, confermando la sentenza di primo grado e ritenendo, in particolare, che “gli accordi transattivi tesi a reintegrare i diritti di legittima (purché risultanti da atto pubblico o scrittura privata autenticata, quindi rivestiti di forma solenne)” sono cosa diversa dalla conciliazione giudiziale; come quella nel caso di specie, da ricondurre all’art. 29 D.P.R. n. 131/1986,
trattandosi “sostanzialmente di transazione tra due parti“, e che va “tassata in relazione agli obblighi di pagamento che ne derivano, in quanto transazione che non importa trasferimento di proprietà o trasferimento o costituzione di diritti reali“, avendo il notaio “semplicemente effettuato la trascrizione dell’accettazione di eredità formulata da Xxxxx, originariamente erede universale“, essendo, viceversa, inapplicabile l’imposta sulle successioni.
Xxxxx adiva, dunque la Cassazione, fondando il proprio ricorso su tre motivi.
2] Con il primo motivo, il ricorrente evidenziava come la sentenza impugnata non spiegasse le ragioni per le quali il citato articolo 43 del Testo Unico sull’imposta di successione non potesse trovare applicazione anche con riferimento ai verbali di conciliazione giudiziale, trattandosi di atti a fede privilegiata, con sottoscrizione delle parti resa certa dalla presenza del giudice e del cancelliere, assimilabili ad un negozio di diritto privato.
Tale rilievo è stato ritenuto fondato dalla Suprema Corte, che ha dichiarato, altresì, così assorbiti il secondo e terzo motivo.
Con il secondo motivo in particolare, venivano dedotte, in via subordinata: “violazione degli articoli 523 e 551 c.c., 1, comma 497, L. n. 266 del 2005, omessa valutazione di un punto decisivo della controversia, motivazione assente, in relazione all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e n. 5, giacché ove non fosse applicabile l’imposta sulle successioni, l’imposta di registro, come subordinatamente richiesto dal contribuente, avrebbe dovuto essere quantificata con riguardo al valore dei cespiti, determinato ai sensi dell’art. 52, commi 4 e 5, d.p.r. n. 917 del 1986 (TUIR), (…) non potendo condividersi la tesi, fatta propria del giudicante, secondo cui Xxxx, beneficiario di legato in sostituzione di legittima, ai sensi dell’art. 551 c.c., non sarebbe mai diventato proprietario dei beni legatigli dalla madre, avendo rinunciato agli stessi, di tal che il verbale conciliativo non avrebbe trasferito alcunché a Xxxxx, atteso che, nella esaminata fattispecie, il legatario è anche legittimario, e la proprietà dei beni oggetto di legato si acquista in maniera automatica alla morte del testatore, ai sensi dell’art. 649 c.c., senza necessità di accettazione alcuna”;
Il terzo motivo di impugnazione verteva sulla nullità dell’impugnato avviso di liquidazione, in quanto privo di scheda esplicativa.
Per quanto qui di interesse, ovviamente, sono le questioni di cui ai primi due motivi, che meritano un approfondimento.
Gli Ermellini espongono un ragionamento che porta ad una conclusione favorevole per il contribuente, ma che non può dirsi pienamente coerente.
Sebbene la Suprema Corte, come visto, dichiari assorbito il secondo motivo all’accoglimento del primo, non si ferma a ciò ed analizza nel dettaglio la natura del verbale di conciliazione per affermarne la riconducibilità ad un’ipotesi disciplinata dall’art. 43.
Lo sviluppo del pensiero dei giudici può così essere sintetizzato.
Un legittimario, leso nella propria quota di riserva, può adire la via giudiziale ovvero addivenire ad un accordo negoziale con i beneficiari delle disposizioni lesive. “A tale tipologia di accordi, i quali tengono luogo della sentenza che accoglie la domanda di riduzione delle disposizioni lesive, viene generalmente attribuita natura non transattiva, ma meramente ricognitiva, di accertamento, in quanto i soggetti interessati riconoscono l’inefficacia delle disposizioni testamentarie lesive”. La citata norma tributaria, sottrae tali accordi “dall’ambito di applicazione dell’ordinaria imposta di registro, per assoggettarlo all’imposta di successione, in coerenza con l’effetto che gli è proprio, l’acquisto ex lege (a causa di morte) della quota di legittima del patrimonio del defunto, tant’è che esso va trascritto, ai sensi degli artt. 2648, comma 3, e 2650 c.c., nonché annotato, ai sensi dell’art. 2655 c.c., ai margini della trascrizione dell’originario acquisto lesivo, al fine di assicurare la continuità delle trascrizioni”.
La Corte precisa e ribadisce, poi, come al legittimario non sia precluso di stipulare un accordo di natura transattiva disciplinato dall’artico 1965 cod. civ., “ma in tal caso la tassazione dell’accordo segue le ordinarie regole in tema di imposta di registro, avuto riguardo ai concreti effetti (anche eventualmente traslativi) voluti dalle parti contraenti, in quanto le attribuzioni concordate tra gli interessati non hanno natura sostanzialmente ereditaria, e non sono soggette, quindi, all’applicazione dell’imposta sulle successioni, ma si inseriscono, attraverso il meccanismo delle reciproche concessioni, nella composizione di una lite, attuale o futura, originata da una pretesa lesione dei diritti di legittima”.
La decisione si concentra dunque sulla necessità di esattamente individuare la natura dell’accordo oggetto del verbale di conciliazione, “occorrendo accertare se le parti abbiano inteso esclusivamente reintegrare i diritti di legittima lesi, ovvero modificare e/o integrare in via negoziale l’assetto della successione, rispetto a quanto disposto dal testatore”.
E la conclusione cui giunge è che “dal verbale di conciliazione emerge che i litiganti sono addivenuti ad una determinazione pattizia della legittima e della reintegra conseguente, ed a tal fine è irrilevante che le parti, invece di procedere ad una nuova determinazione dell’asse ereditario e delle quote spettanti ad ognuno, abbiano convenuto che la legittima dovesse ritenersi correttamente reintegrata mediante l’attribuzione di una somma di denaro, a Xxxx, destinatario di legato in sostituzione di legittima, a fronte della sua rinuncia a conseguire la parte dei beni ereditari spettantegli ex lege, e, comunque, a conservare anche solo in parte il legato”, così riconoscendo l’applicabilità della norma di cui al più volte richiamato art. 43.
[3] Se le conclusioni cui giunge la Suprema Corte sono condivisibili (a giudizio dello scrivente sarebbe auspicabile un’interpretazione meno restrittiva della norma tributaria e xxxx a ricomprendere nel suo ambito di applicazione anche ipotesi di natura transattiva, se effettivamente volte a dirimere vertenze in tema di reintegrazione della legittima), esse non paiono perfettamente collimare con la ricostruzione dell’istituto posta a sostegno della decisione.
Il caso di specie, infatti, vedeva la rinuncia al legato in sostituzione di legittima da parte di Xxxx ed il riconoscimento a questi di una somma a tacitazione dei propri diritti di legittimario.
Ora, è certamente vero che il bene immobile oggetto del legato non viene ritrasferito da Xxxx a Xxxxx per effetto dell’accordo raggiunto (il “trasferimento” non avviene: Xxxxx diviene titolare del bene in quanto erede universale e a seguito della rinuncia al legato da parte del proprio fratello). Ma, proprio in virtù della rinuncia al legato, Xxxx (come ritenuto dalla dottrina e giurisprudenza assolutamente dominanti) non acquista in alcun modo la qualità di erede, e si trova nella posizione di qualsiasi altro legittimario totalmente pretermesso.
Se, dunque, in tale momento le parti addivengono ad un accordo che va a tacitare i diritti del legittimario (pretermesso) con il riconoscimento di una somma di denaro – a fronte, ovviamente, della rinuncia ad azionare (o continuare) un giudizio di riduzione –, quest’ultimo certamente non acquista la qualità di erede.
Xx è a questo punto che il ragionamento della Corte perde di coerenza. Se, come da essa affermato la ratio che giustifica la sottrazione degli accordi di reintegrazione di legittima all’ambito di applicazione dell’imposta di registro è da rinvenirsi “in coerenza con l’effetto che gli è proprio, (ossia) l’acquisto ex lege (a causa di morte) della quota di legittima del patrimonio del defunto”; non si vede come possa tale effetto verificarsi nel caso di specie: la somma di denaro non viene acquisita da Xxxx ex lege, né a causa di morte. Tant’è che egli, a rigore, non diviene erede.
In quelli che la dottrina prevalente qualifica come veri e propri accordi di reintegrazione di legittima, i soggetti interessati si limitano a riconoscere l’inefficacia delle disposizioni testamentarie o liberali eventualmente lesive dei diritti dei legittimari. Detti accordi, come riconosciuto dalla stessa sentenza qui in commento, si distinguono da quelli aventi natura traslativa, dovendosi qualificare come di mero accertamento.
Solo tali negozi potrebbero giovarsi dell’agevolazione fiscale di cui all’articolo 43 D.Lgs. n. 346/1990.
E sempre sotto il profilo fiscale, merita di essere posta l’attenzione su di un altro aspetto troppe volte ignorato o sottovalutato.
Il raggiungimento di un accordo che vada a “reintegrare” i diritti del legittimario, ma non inquadrabile nei veri e propri accordi di reintegrazione, come detto, sconterebbe l’imposta di registro (pari al 3%). E proprio il pagamento di tale imposta viene spesso tenuto in considerazione nella valutazione della convenienza della proposta transattiva.
Tuttavia, l’accordo raggiunto, ritenuto “opportuno” sulla base delle considerazioni anche fiscali così effettuate, potrebbe rivelarsi ben poco soddisfacente per colui che dovesse ricevere un bene o una somma di denaro a tacitazione dei propri diritti di legittima.
Non può, infatti, non tenersi conto del parere dell’Agenzia delle Entrate in argomento.
In un caso in cui, a fronte della rinuncia a proseguire nella propria azione di riduzione, un
legittimario si era visto trasferire un bene immobile, con la risposta a interpello n. 129 del 28/12/2019, l’Agenzia, dopo aver richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui “il legittimario non ha la posizione di chiamato all’eredità, quando sia stato pretermesso dal testatore” – e sottratto, conseguentemente, dall’ambito di applicazione dell’art. 43 gli accordi di natura transattiva -, giunge a concludere che “pertanto, poiché gli istanti non hanno assunto la veste di eredi, l’importo di euro …. che è il valore degli immobili trasferiti a titolo transattivo, valore risultante dal medesimo atto transattivo, costituisce una componente reddituale riconducibile alla disposizione di cui all’art 67, comma 1, lettera l) del TUIR, secondo cui vanno assoggettati a tassazione quali redditi diversi quelli derivanti “dall’assunzione di obblighi di fare, non fare (cui sono equiparate le ipotesi di rinuncia ad esercitare un’azione, n.d.r.) o permettere.” Precisa, ancora, “che la transazione estinguendo la lite, ha creato dei rapporti inter vivos diversi da quelli
di successione”
Per l’Agenzia, dunque, non solo l’accordo transattivo sarebbe assoggettato all’imposta di registro; i valori oggetto dell’accordo stesso dovrebbero, altresì, essere inseriti nella dichiarazione dei redditi di colui che li riceve.
Tale posizione deve essere tenuta in debita considerazione da parte dei professionisti nello svolgimento della propria attività di consulenza ed assistenza, al fine di individuare una soluzione consapevole
Diritto e reati societari
Azione sociale di responsabilità nella S.r.l.: profili processuali in tema di onere della prova
di Xxxx Xxxx Xxxxxx - Studio Pirola Pennuto Zei & Associati, Xxxxxxxx Xxxxxxxx - Studio
Pirola Pennuto Zei & Associati
Tribunale di Milano, Sezione specializzata in materia di impresa B, Sentenza n. 1508/2019 del 24 gennaio 2019 (pubblicata il 15 febbraio 2019)
Parole chiave: azione sociale di responsabilità – natura contrattuale – risarcimento del danno – danno patrimoniale – danno non patrimoniale – onere della prova.
Xxxxxxx: “L’amministratore di società di capitali che venga convenuto in giudizio per violazione dei doveri gestori, a fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio su di lui gravante, deve essere ritenuto responsabile per gli inadempimenti ai doveri gestori addebitatigli dall’attore e condannato al risarcimento del relativo danno.”
Disposizioni applicate: artt. 2393, 2476 c.c. – 24 Cost.
Con la sentenza n. 1508/2019 del 24 gennaio 2019, in commento, il Tribunale di Milano coglie l’occasione per riaffermare taluni principi in materia di azione sociale di responsabilità, esercitata dalla società (una S.r.l.), focalizzandosi in particolare sulla natura giuridica di tale azione e sui conseguenti profili in tema di onere probatorio a carico delle parti del giudizio.
La norma di cui all’art. 2476 cc, com’è noto, disciplina alcune fra le più rilevanti novità della riforma societaria in tema di S.r.l., prevedendo espressamente, fra l’altro, l’azione di responsabilità “promossa da ciascun socio” (comma 3°), di natura contrattuale; nonché l’azione risarcitoria individuale, di natura aquiliana, dei singoli soci e dei creditori, direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli amministratori (comma 6°).
In particolare l’azione sociale di responsabilità, a seguito della riforma, è stata oggetto di un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Secondo un filone interpretativo ormai superato (ma che aveva trovato consensi anche in talune pronunce del Tribunale di Milano) non sussisterebbe per le S.r.l. una legittimazione attiva della società all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori: ciò sulla base, essenzialmente, del dato letterale della norma (art. 2476 c. 3 c.c.) secondo cui “L’azione di responsabilità … è promossa da ciascun socio”. Il Legislatore della riforma l’avrebbe pertanto affidata “esclusivamente alla legittimazione diffusa di ogni singolo socio” (Cfr. Tribunale Milano, 27 febbraio 2008).
D’altro canto, se è pur vero che la norma tace in merito all’esercizio dell’azione ad iniziativa della società, tuttavia, l’opinione prevalente (e preferibile), ha osservato come negare il diritto di agire alla società comporterebbe un’ingiustificata compressione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) di quest’ultima posto che, in ogni caso, gli amministratori sono innanzitutto responsabili “verso le società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo”. Il singolo socio è certamente portatore di un autonomo diritto di agire, ma ciò non toglie che si tratti pur sempre – secondo l’insegnamento della Suprema Corte – di una responsabilità verso la società “rifluendo l’eventuale condanna dell’amministratore unicamente nel patrimonio sociale e potendo solo la società (non il socio) rinunciare all’azione e transigerla.” (Cfr. ex multis Cassazione civile, Sez. I, 4 luglio 2018, n. 17493).
L’azione, è bene ricordarlo, necessita peraltro di una previa delibera assembleare o, comunque, di una decisione dei soci che ne autorizzi l’esercizio, essendo altrimenti, secondo l’opinione maggioritaria, “improcedibile”: la previa delibera è infatti il presupposto per promuovere l’azione (e la sua mancanza può essere rilevata anche d’ufficio) (Cfr., in tal senso, Tribunale Milano 12 gennaio 2015).
Peraltro – a differenza dell’art. 2393-bis cc in tema di S.p.A. – il Legislatore non ha previsto per le S.r.l. che la società medesima debba essere chiamata in giudizio; tuttavia, non si dubita che la stessa debba partecipare al processo, trattandosi di un’ipotesi di litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.) (Cfr. Cassazione civile, Sez. I, 04 luglio 2018, n.17493, citata).
Nel caso di specie, una società a responsabilità limitata (in liquidazione) promuoveva l’azione sociale di responsabilità (ai sensi degli artt. 2476 e 2393 cc) nei confronti dell’ex amministratore unico, chiedendo i) la condanna alla restituzione delle ingenti somme distratte dalle casse sociali; ii) il risarcimento degli ulteriori danni patrimoniali conseguenti alle distrazioni (che avrebbero dato luogo allo scioglimento della società, per riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, ex art. 2484 n. 4 cc) nonché iii) il risarcimento dei danni non patrimoniali.
L’amministratore convenuto nel giudizio non si costituiva e ne veniva dichiarata la contumacia.
Il tema dell’onere probatorio si lega peraltro alla natura giuridica dell’azione di responsabilità di cui all’art. 2476 c.c. che, ricorda il Collegio, citando anche alcuni precedenti della Cassazione, ha natura contrattuale. Per inciso, la società attrice, aveva dedotto e allegato prove circa l’utilizzo di fondi sociali da parte dell’amministratore, per un ammontare (circa
350.000 €) corrispondente all’importo dei bonifici e degli assegni elencati specificatamente sia nelle proprie memorie sia nella comparsa conclusionale.
Ebbene, alla luce della vicenda processuale, il convenuto amministratore, osserva il Tribunale, “onerato – a fronte di tale specifica allegazione – della dimostrazione del proprio adempimento … non ha fornito alcuna prova al riguardo, rimanendo contumace in giudizio ed, anzi, prima del giudizio sostanzialmente riconoscendo di aver sottratto importi dalle casse sociali e provvedendo a
restituzioni per l’importo di euro 50.000,00 complessivi”.
A fronte del mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sul convenuto (e del principio di non contestazione), il Collegio lo ha condannato ritenendolo dunque “responsabile per gli inadempimenti ai doveri gestori addebitatigli dall’attrice e condannato al risarcimento del relativo danno, corrispondente all’ammontare degli importi indicati dall’attrice come distratti dalle casse sociali”. E ciò senza necessità di dare ingresso alle prove orali – sebbene richieste dall’attrice – ritenute dal Collegio “superflue data la ripartizione dell’onere probatorio”.
Il Tribunale ha invece rigettato le ulteriori domande risarcitorio in ordine agli asseriti danni i) patrimoniali e ii) non patrimoniali conseguenti, in quanto “solo enunciati” e genericamente dedotti, ma rimasti entrambi privi di qualsiasi specifica allegazione nonché di ogni illustrazione da parte della società.
Da ultimo, si ritiene di dover dar conto, ancorché solo con brevissimi cenni, dell’aggiornamento intervenuto medio tempore sul dato normativo: il Legislatore della riforma fallimentare (D.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14), nell’ambito di un processo di riorganizzazione e uniformazione dei doveri e dei compiti degli amministratori, è intervenuto modificando numerose norme del Codice Civile. In particolare all’art. 2476 è stato aggiunto un nuovo comma che riproduce, in buona parte, la disciplina dell’art. 2394 c.c. “Gli amministratori rispondono verso i creditori sociali per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale. L’azione può essere proposta dai creditori quando il patrimonio sociale risulta insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti. La rinunzia all’azione da parte della società non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali. La transazione può essere impugnata dai creditori sociali soltanto con l’azione revocatoria quando ne ricorrono gli estremi”. In tal modo il Legislatore ha risolto espressamente la questione fra coloro i quali interpretavano estensivamente il disposto dell’art. 2394 cc, e coloro che sostenevano l’opposta tesi “restrittiva” (costringendo nella pratica i creditori sociali della S.r.l. a “ripiegare” sul rimedio generale ex 2043 c.c.).
Diritto Bancario
L’anatocismo giudiziale
di Xxxxx Xxxxxxxx
Il divieto di pattuizione degli interessi sugli interessi scaduti, stabilito dall’art. 1283 c.c. consente, come regola di carattere generale, la capitalizzazione solo a determinate condizioni, ovvero dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza degli interessi e sempre che siano scaduti da almeno sei mesi.
Riguardo all’anatocismo giudiziale, gli interessi anatocistici sono ammissibili solo nella misura in cui sia fatta specifica ed espressa domanda diretta ad ottenerli (Cass., Sez. Un., n.
10156/1998; Cass. n. 5218/2011; Cass. n. 21340/2013; Cass. n. 24160/2014; Cass. n.
8156/2017). Qualora la domanda sia ambigua e suscettibile di essere interpretata sia come volta ad ottenere il riconoscimento degli interessi anatocistici sia come richiesta degli interessi moratori destinati a maturare dopo la domanda e fino all’effettivo pagamento, il giudice del merito non può ritenere proposta la domanda di interessi anatocistici ogni qualvolta l’esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto che costituiscono le ragioni della domanda (alla quale egli deve far riferimento per risolvere quell’ambiguità) non fornisca argomenti in tal senso, incorrendo altrimenti nel vizio di violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (Cass., Sez. Un., n. 10156/1998; Cass. n.
5218/2011; Cass. n. 24160/2014).
Resta altresì escluso che all’assenza di siffatta domanda in primo grado possa rimediarsi mediante la sua formulazione per la prima volta in appello, sia pure limitatamente agli interessi prodotti dalla data di tale domanda sul capitale rappresentato dagli interessi scaduti sino a quel momento (Xxxx., Sez. Un., n. 670/1975; Cass. n. 9474/2004; Cass. n. 11261/2007; Cass. n. 24160/2014).
Riassumendo: il giudice può condannare al pagamento degli interessi sugli interessi solo se sia accertato a) che alla data della domanda giudiziale erano già scaduti gli interessi principali sui quali calcolare gli interessi secondari, cioè che il debito era esigibile e che il debitore era in mora (Cass. n. 10434/2002); b) che l’attribuzione degli interessi anatocistici sia stata oggetto di una specifica domanda giudiziale del creditore (Cass. n. 5271/2002 e Cass. n. 15838/2001) o di una convenzione posteriore alla scadenza degli interessi; c) che la mora si sia protratta, anteriormente al giudizio, per almeno sei mesi, cioè che si tratta di crediti ultrasemestrali scaduti (Cass. n. 10434/2002; Cass. n. 1964/2002).
Diritto del Lavoro
Danno biologico derivante da mobbing
di Xxxxxxxxxxx Xxxxxx
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, 5 marzo 2019, n. 6346
Salute e sicurezza sul lavoro – Danno biologico da mobbing – Copertura assicurativa Inail – Sussiste
MASSIMA
Deve ritenersi che il danno biologico derivante da mobbing accertato a carico del lavoratore nella misura dell’8 per cento sia qualificabile quale malattia professionale non tipizzata, conseguente a prestazione di attività lavorativa e dunque coperta dall’assicurazione obbligatoria dell’Inail, nella sussistenza dei presupposti per l’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro.
COMMENTO
La Cassazione, con la sentenza in commento, ha statuito che – in tema di malattia professionale – la tutela assicurativa INAIL va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione e l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione e anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella dovendo il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata. Nel caso di specie, la Corte territoriale condannava la società datrice di lavoro al pagamento, in favore della ex dipendente, a titolo di risarcimento del danno biologico da mobbing da questa subito, della somma di € 9.350,00 oltre accessori dalla data di collocamento in quiescenza al soddisfo, rigettandone invece le altre domande e così riformando la sentenza di primo grado che aveva condannato la società datrice anche al pagamento della somma di € 4.675,00 a titolo di danno morale. La Suprema Corte adita dalla società, in accoglimento del ricorso proposto, ha cassato con rinvio la sentenza impugnata; nello specifico, secondo il ragionamento giuridico impostato dal collegio territoriale i danni lamentati dalla lavoratrice dovevano essere ascritti alla condotta datoriale di mobbing e, pertanto, ricondotti all’inadempimento della società al debito di sicurezza prescritto dall’art.
2087 c.c.. Invero, secondo la Corte di Cassazione, in tema di malattia professionale, la tutela
assicurativa INAIL va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell’attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l’organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella. Ciò posto il lavoratore sarà chiamato a dimostrare soltanto il nesso di causalità tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata. Aggiunge il Supremo Collegio che il giudice può procedere alla verifica di applicabilità dell’art. 10 d.p.r.
nell’interezza del suo articolato meccanismo anche d’ufficio ed indipendentemente da una richiesta di parte, in quanto si tratta dell’applicazione di norme di legge al cui rispetto il giudice è tenuto. In conclusione, la Cassazione accoglie il ricorso specificando che il motivo di doglianza ritenuto fondato non è relativo al difetto di legittimazione passiva fatto valere dalla società datrice, ma, bensì, a quello della non effettiva titolarità dell’azienda del rapporto fatto valere in giudizio in quanto l’accertamento a carico della lavoratrice di un danno biologico dipendente da mobbing (ben qualificabile come malattia professionale non tipizzata conseguente a prestazione di attività lavorativa) in misura dell’8% è coperto dall’assicurazione obbligatoria dell’Inail stante inoltre la sussistenza dei presupposti per l’esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro.
Soft Skills
Avvocati: come gestire un pitch con i prospect
di Xxxxx Xxxxxxx Xxxxxxxxx - Business Coach e Formatore
Eccoci di fronte ad un nuovo potenziale cliente. Siamo carichi di buone intenzioni, vogliamo fare una bella figura e siamo pronti a sciorinare tutte le doti professionali nostre e del nostro studio. Quello che stiamo per intraprendere si chiama pitch, cioè una presentazione della nostra attività con lo scopo di farci scegliere dal potenziale cliente.
Un tempo tutto ciò avveniva in modo molto più fluido, informale e occasionale: i clienti arrivavano con il passaparola, senza necessità di presentarci e dover convincere nessuno, mentre altre volte gli incontri erano del tutto casuali. I tempi sono cambiati e soprattutto con il target business, quindi aziende, le cose hanno preso decisamente una piega diversa. Chi si occupa di procurement di servizi legali all’interno delle aziende ora vuole scegliere consapevolmente, confronta e spesso deve dare conto del come e perché ha effettuato certe scelte.