DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE GIURIDICHE
DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE GIURIDICHE
CURRICULUM DI DIRITTO PRIVATO, ITALIANO E COMPARATO, DIRITTO TRIBUTARIO E DIRITTO DEL LAVORO
CICLO XXIX
AUTOTUTELA INDIVIDUALE DEL LAVORATORE E CONTRATTO DI
LAVORO SUBORDINATO
Negri Giulia Matricola n. 702258
Tutore: xxxx. Xxxxxxx Xxxxxxxx
Coordinatore: prof.ssa Xxxxxxxxxx Xxxxxxxx
ANNO ACCADEMICO 2015/2016
Molte meraviglie vi sono al mondo, nessuna meraviglia è pari all'uomo.
(…)
Ha appreso la parola e il pensiero veloce come il vento
e l’impegno civile
(…)
Padrone assoluto dei sottili segreti della tecnica,
può fare il male quanto il bene.
Se rispetta le leggi del suo paese
e la giustizia degli dèi, come ha giurato, nella città sarà considerato grande; ma ne sarà cacciato
se per arroganza lascerà che il male lo contamini.
SOFOCLE, Antigone
Demain de bon matin je fermerai ma porte
au nez des années mortes j'irai sur les chemins
Je mendierai ma vie sur les routes de France de Bretagne en Provence et je dirai aux gens: refusez d'obéir
refusez de la faire n'allez pas à la guerre refusez de partir
XXXXX XXXX, Le déserteur
INDICE
Introduzione
CAPITOLO I
GLI STRUMENTI DI AUTODIFESA CONTRATTUALE NEL
DIRITTO CIVILE
1. Il rapporto vivente tra diritto civile e diritto del lavoro: dalla partenogenesi alla predazione, sino alla simbiosi.
2. La nozione di autotutela nelle diverse branche del diritto: una doverosa premessa.
3. La nozione di autotutela nell’ordinamento civilistico.
3.1. Le origini storiche.
3.2. Le ricostruzioni dottrinali.
4. L’autotutela tra regola ed eccezione.
5. Le caratteristiche dell’autotutela.
5.1. La natura giuridica.
5.2. Presupposti e limiti.
5.3. Le situazioni protette.
6. I molteplici ruoli dell’autotutela all’interno dell’ordinamento giuridico.
6.1. Alcune disambiguazioni in merito al concetto di autotutela.
7. I tentativi di classificazione e i tipi di autotutela.
8. Le tecniche di autotutela estintive o conservative.
9. L’exceptio inadimpleti contractus, principale tecnica di autotutela conservativa.
9.1. Le radici storiche dell’eccezione di inadempimento.
9.2. La configurazione giuridica dell’eccezione di inadempimento: presupposti, ambito di operatività e funzioni.
9.3. Il ruolo centrale della buona fede, quale fondamento e confine dell’eccezione.
CAPITOLO II
L’AUTOTUTELA INDIVIDUALE DEL LAVORATORE
SUBORDINATO
Operatività delle fattispecie di autodifesa contrattuale all’interno del
rapporto di lavoro
1. Peculiarità della materia giuslavoristica: un’asimmetria codificata.
1.1. L’evoluzione della concezione di rapporto individuale di lavoro.
1.2. Il modello regolativo costituzionale e la legislazione successiva.
1.3. La difficile interpretazione di una realtà complessa e le prospettive di sviluppo del diritto del lavoro contemporaneo.
2. La dinamica interna al rapporto di lavoro individuale e i ruoli rispettivamente spettanti ai contraenti.
2.1. (segue) I poteri del datore di lavoro, i corrispettivi obblighi dei lavoratori e la mobile linea di confine tra gli uni e gli altri.
3. L’autotutela quale strumento di tutela dei diritti dei lavoratori.
3.1. Ammissibilità, effetti e rischi connessi all’esercizio dell’autotutela.
3.2. Una distinzione dottrinale dal confine incerto: il rifiuto della prestazione non dovuta e il rifiuto della prestazione dovuta.
4. Le ricostruzioni dottrinali dell’operatività della scriminante concernente il rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione.
4.1. La tesi del principio quod nullum est nullum producit effectum e la tesi dell’aliud pro alio.
4.2. (segue) La tesi della reazione a un ordine illegittimo quale
exceptio inadimpleti contractus.
5. Il giudizio di buona fede ex art. 1460, co. 2, c.c. e gli altri presupposti per avvalersi dell’eccezione di inadempimento: le ricadute nelle pronunce dei giudici.
6. Una sommaria rassegna giurisprudenziale:
6.1. Il mancato pagamento della retribuzione.
6.2. (segue) La mancata esecuzione degli obblighi di sicurezza;
6.3. (segue) Ulteriore casistica.
CAPITOLO III
AUTOTUTELA INDIVIDUALE, CLAUSOLA GENERALE DI BUONA FEDE E PRINCIPI COSTITUZIONALI
Sezione I
Eccezione di inadempimento e ius variandi: un caso di studio.
1. Lo ius variandi del datore di lavoro.
2. La variazione delle mansioni: il problematico concetto di equivalenza professionale, gli obiettivi e le tecniche di tutela.
3. Le principali modifiche apportate all’art. 2103 c.c. dal D.Lgs. n. 81/2015.
4. L’art. 1460 c.c. quale reazione al mutamento illegittimo delle mansioni, ai sensi della precedente formulazione dell’art. 2103 c.c.
5. Applicabilità dell’exceptio inadimpleti contractus al nuovo art. 2103 c.c.: rinvio.
Sezione II
Le potenzialità della buona fede: un’ipotesi ricostruttiva
1. Clausole generali, legislazione per principi e autotutela individuale.
2. Buona fede, integrazione del contratto e principi costituzionali.
3. Buona fede e poteri imprenditoriali.
4. Eccezione di inadempimento e buona fede, una lettura costituzionalmente orientata.
5. Applicabilità dell’exceptio inadimpleti contractus al nuovo art. 2103 c.c.: spunti di riflessione sul valore della professionalità nel rapporto di lavoro.
Bibliografia
Introduzione
L’elaborato si propone di esaminare l’istituto dell’autotutela individuale, categoria complessa e trasversalmente presente in numerose branche del diritto, in un’ottica consapevole delle principali interpretazioni fornite in materia dalla dottrina civilistica (settore d’elezione in cui sorge e si sviluppa detta fattispecie), ma che si concentri poi sulle sue estrinsecazioni all’interno dei rapporti di lavoro subordinato, sino a una riflessione sul possibile recupero di tale rimedio privatistico nell’era del diritto del lavoro derogabile.
Pur apparentemente osteggiata nel moderno stato di diritto da chi vi voglia identificare unicamente un “farsi giustizia da sé” guidato da intenti vendicativi e prevaricatori dei diritti altrui, in aperta antitesi con il sistema di tutele imperniato sull’operato della magistratura discendente dalla separazione dei poteri di stampo illuminista, emerge così una rilettura dell’autotutela individuale quale forma di protezione delle posizioni giuridiche soggettive che, viceversa, consentirebbe di colmare le lacune di tutela lasciate dal tradizionale sistema della giustizia civile, che sempre più spesso si rivela inidonea a sostenere in maniera efficace e rapida le legittime ragioni dei privati (siano essi creditori, danneggiati, ovvero prestatori di lavoro).
Tale fattispecie non giustifica, infatti, un esercizio arbitrario e violento delle proprie ragioni (in ogni caso sanzionato dal codice penale), bensì rappresenta il precipitato di uno dei principi immanenti all’intero ordinamento giuridico, quello secondo il quale “pacta sunt servanda”, nonché una declinazione di giustizia proveniente dai singoli piuttosto che dallo Stato (secondo il Betti, sarebbe «il diritto di tutelare da sé i propri interessi»1).
La mancanza di un’affermazione generalizzata della liceità di tale istituto (che invece è rinvenibile, ad esempio, sin dai primi Novecento all’interno
1 Cfr. Betti, voce Autotutela (diritto privato), in Enc. Dir., IV, 1959, p. 529 e ss.
dell’ordinamento tedesco) nonché di una sua definizione univocamente accettata ed estensibile a tutte le branche del diritto nelle quali – di fatto – è rinvenibile ha di certo contribuito a creare la confusione e la conseguente diffidenza che storicamente circondano questa forma di autodifesa dei consociati.
Nel diritto del lavoro, hanno rappresentato un ulteriore ostacolo alla diffusione di comportamenti di autotutela – ovvero, meglio, una più difficile individuazione dei limiti di operatività di questi ultimi – i peculiari poteri riconosciuti all’imprenditore dal codice civile, gerarchicamente connotati e dotati di una naturale tendenza a prevalere anche a fronte di un’opposta volontà del lavoratore. Dai suddetti poteri direttivo, organizzativo, di vigilanza e controllo nonché disciplinare, cui l’art. 41 Cost. assicura copertura costituzionale (seppur soggetta al contemperamento con gli altri diritti di pari rango) discende, infatti, il particolare vincolo di assoggettamento che contraddistingue il prestatore di lavoro subordinato.
Tuttavia, proprio a causa della sussistenza dei descritti poteri imprenditoriali emerge l’esigenza di garantire una speciale tutela nei rapporti di lavoro: ove questi ultimi venissero semplicemente lasciati all’assetto di interessi scaturente dal rapporto di forza tra i contraenti (al pari di quanto accade in qualsivoglia altro contratto civilistico), si configurerebbe nella maggior parte dei casi un notevole squilibrio a favore del datore di lavoro, in ragione della posizione di debolezza contrattuale intrinsecamente connessa alla figura del prestatore di lavoro subordinato. La medesima esigenza di protezione si rende vieppiù necessaria in ragione del fatto che l’adempimento dell’obbligazione lavorativa coinvolge direttamente la persona stessa del lavoratore (Smuraglia, in proposito, afferma che, con l’avvento della Costituzione, la garanzia della personalità del prestatore
è divenuta «il fondamento di tutto l’apparato protettivo e il criterio guida cui deve ispirarsi l’intera attività giuridica nel settore del lavoro»2).
Si è in tal modo sottovalutata la possibilità di intraprendere una diversa via che, mediante la preventiva riconduzione dei poteri datoriali a una logica prettamente contrattuale, attribuisca (anche) ai rimedi sinallagmatici (già previsti dall’ordinamento a presidio dell’esatto adempimento dell’obbligazione), la garanzia del rispetto dell’originario programma negoziale convenuto dalle parti nonché delle norme imperative di legge.
Tutto quanto premesso, a seguito del progressivo affievolimento delle protezioni storicamente riconosciute al prestatore – affiancato in parallelo da una complementare espansione del raggio d’azione del datore – all’interno del rapporto di lavoro, operato dalle riforme di settore degli ultimi anni (soprattutto mediante il tendenziale superamento delle tecniche di tutela incentrate su norme imperative e mediante la minore incisività riconosciuta alle decisioni giudiziali), pare quantomeno opportuno un serio ripensamento delle potenzialità insite in una diffusa applicazione degli strumenti di autotutela alla materia giuslavoristica, nonché dedicare maggiore attenzione al contratto individuale di lavoro ed alle possibilità fornite dalla disciplina codicistica.
E ciò a maggior ragione, ove si tenga in considerazione altresì il fatto che negli ultimi anni il dibattito civilistico si è particolarmente evoluto in merito allo sviluppo di tecniche di tutela del contraente debole nel rapporto contrattuale, partendo da una generale rilettura del codice civile alla luce dei principi costituzionali che ha portato, e sta tuttora portando (si pensi al vivo dibattito inerente al ruolo della proprietà e dei beni comuni) ad interessanti sviluppi.
2 A tal punto che l’Autore in questione ha dedicato alla tematica un ampio e approfondito studio: cfr. Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Xxxxxxx, Milano, 1967, p. 331.
Di qui l’attualità e la motivazione della presente ricerca. Un’attenta rilettura del principio di autotutela potrebbe divenire, nel rinnovato contesto regolativo, uno di quegli strumenti in grado di continuare a garantire all’interno del rapporto di lavoro l’effettiva applicazione dei principi costituzionali posti a presidio della tutela dell’individuo e – in via mediata – anche della dignità e della personalità del lavoratore, valori sempre immanenti al sistema.
In un periodo storico nel quale la materia giuslavoristica va progressivamente perdendo i connotati di specialità che ne avevano consentito l’emancipazione dal settore civilistico, il recupero di istituti e spunti di riflessione considerati classici del diritto privato – purché riletti alla luce del mutato contesto sociale, economico e politico – costituisce più di un provocatorio esercizio di stile: attraverso l’incidenza dei doveri di buona fede e correttezza sul legittimo esercizio dei poteri di origine negoziale nonché in forza di una (forse più auspicabile che doverosa) lettura costituzionalmente orientata delle norme di riferimento si intende verificare se sia possibile ricondurre ad equità talune delle aporie e delle distorsioni venutesi a creare per effetto delle recenti riforme.
Dal momento che sin dal titolo dell’elaborato è dato rilevare la vastità degli argomenti in cui si intende addentrare la ricerca, nell’introduzione si dà atto dei particolari punti di vista adottati e di una indispensabile delimitazione dell’indagine, funzionalizzata alla verificazione dell’ipotesi sopra illustrata.
Pertanto, si è circoscritto il confronto con il tema dell’autotutela privata intesa quale strumento di protezione di cui può avvalersi l’individuo non solo al fine di ovviare a inefficienze del sistema di giustizia statuale, ma altresì per trasformare conflitti di origine sociale ed economica in esigenze giuridiche nonché per comporre gli attriti tra diritto positivo e foro della coscienza.
Nel primo capitolo, pur dovendo necessariamente richiamare le principali elaborazioni di matrice dottrinale e giurisprudenziale consolidatesi intorno a tale
concetto nel diritto civile, indispensabili chiavi di lettura per poter comprendere l’utilizzo che ne è stato poi fatto nel diritto del lavoro nonché per rivalutarne le logiche al fine di applicarle in senso progressista al quadro normativo giuslavoristico emerso dalle ultime riforme, si è optato per un approccio cauto. Si è proceduto innanzitutto a un inquadramento del principio di autodifesa dal punto di vista giuridico, ricercandone la ratio, le condizioni legittimanti l’utilizzo delle forme di giustizia privata che rientrano nella categoria, nonché i limiti volti a scongiurarne l’abuso. Quindi, si sono affrontati i numerosi tentativi di classificazione operati nel tempo dagli interpreti, che hanno il pregio di porre in evidenza diversi aspetti e attitudini dei mezzi di autotutela: proprio tale poliedricità ne ha consentito la diffusione e ne ha sancito le alterne fortune. Infine, si è soffermata l’attenzione sul principale rimedio manutentivo afferente alla macro-area dell’autodifesa contrattuale, disciplinato nei suoi caratteri più generali dall’art. 1460 c.c. e fondato sul noto brocardo per cui “inadimplenti non est adimplendum”, che tanta fortuna ha riscontrato nella prassi dei rapporti giuridici e nella produzione di origine giurisprudenziale.
L’eccezione di inadempimento costituisce, infatti, un possibile strumento di composizione conservativa dei conflitti sorti tra i protagonisti di un negozio, nonché la manifesta espressione dell’equilibrio sinallagmatico che dovrebbe caratterizzare gran parte dei contratti e, in particolar modo, i contratti di lavoro, posto che la dottrina giuslavoristica maggioritaria ha infine optato (dopo un serrato dibattito) per l’origine negoziale del rapporto di lavoro. Tale fattispecie si estrinseca nel rifiuto di eseguire l’obbligazione cui si sarebbe tenuti in virtù di un rapporto negoziale a prestazioni corrispettive, giustificato dal previo inadempimento (ovvero dalla mancata offerta di adempiere contemporaneamente) dell’altra parte negoziale, e le sue origini si fanno coincidere proprio con la nascita e la progressiva diffusione dei contratti sinallagmatici (risalenti al diritto romano e poi al diritto comune).
Il dettato dell’art. 1460 c.c. ne ha chiarito contenuti e presupposti, ma la formulazione adottata ha lasciato spazio all’interpretazione degli studiosi quanto alla funzione e alla natura giuridica dell’exceptio. A seconda dell’ottica prescelta, vi si è rinvenuto infatti un mezzo di coazione (di tipo “psicologico” in senso lato) all’adempimento, il mezzo per l’esercizio di un vero e proprio diritto potestativo ovvero uno strumento di economia processuale. In ogni caso, è insieme manifestazione naturale e garanzia di conservazione del legame di reciprocità integrato dal sinallagma, quale forma di legittima difesa di stampo contrattuale e strumento di gestione del rapporto negoziale.
Il secondo comma della norma citata, laddove legittima il rifiuto di fare quanto pattuito purché lo stesso non sia contrario a buona fede, è meritevole di specifica trattazione in quanto il rinvio a tale clausola elastica consente di evitare un utilizzo abusivo ed esorbitante dell’istituto: ove la condotta tenuta dall’eccipiente si riveli scorretta, infatti, l’inadempimento di quest’ultimo non verrà considerato “scriminato” ed egli dovrà pagarne le conseguenze risarcitorie alla controparte. La buona fede riveste un ruolo così importante all’interno dell’eccezione di inadempimento proprio perché, da un lato, risponde a tale principio reagire a un comportamento scorretto in modo tale da minimizzarne l’impatto negativo e da consentire di salvaguardare comunque il rapporto contrattuale originario, ma anche, dall’altro, in quanto ne costituisce al contempo il limite esterno, impedendo che si giustifichi il ricorso a tale istituto quando la parte che lo pone in essere intende approfittarsene e trarne un profitto illecito, pur non sussistendone i requisiti.
Nel capitolo successivo, poi, si cala la nozione di autotutela - come ricostruita nei paragrafi precedenti - nel settore giuslavoristico, il quale tuttavia presenta non trascurabili elementi di differenza rispetto a quello civilistico: come noto, infatti, il contratto individuale di lavoro subordinato, pur rientrando formalmente nella categoria privatistica dei contratti a prestazioni corrispettive, attribuisce a
uno solo dei paciscenti una posizione di forte vantaggio sull’altra, che non può essere riequilibrata dal naturale assetto della forza negoziale delle parti, bensì necessita di un intervento parificatore di origine eteronoma (o perlomeno, quanto descritto era ciò che accadeva fino a qualche decina di anni fa). Anche per gli studiosi è stato difficile assimilare i poteri riconosciuti al datore di lavoro alle prerogative creditorie tipiche della dimensione negoziale, tanto è vero che nel tempo si sono succedute diverse teorie che negavano l’origine contrattuale del rapporto di lavoro, benché da ultimo le stesse possano considerarsi superate.
In una simile realtà, in ogni caso, può apparire più complesso rinvenire tracce di studi riguardanti l’applicazione di rimedi connaturati al sinallagma contrattuale; eppure, forme di autotutela sono state sovente poste in essere dai lavoratori proprio al fine di far valere in modo veloce ed efficace i propri diritti nei confronti di un esercizio arbitrario dei poteri imprenditoriali. Infatti, spesso la dimensione giudiziaria non si è dimostrata in grado di garantire la tutela dei diritti fondamentali, limitando il proprio raggio d’azione al solo aspetto risarcitorio. Attraverso l’esercizio dell’autotutela, invece, si può paralizzare nell’immediato gli effetti del potere datoriale, ottenendo – almeno temporaneamente – una protezione in forma specifica.
Per avvalersi di tali strumenti il prestatore di lavoro dovrà pur sempre dimostrare la sussistenza dei requisiti della corrispettività tra gli inadempimenti (in quanto le obbligazioni inadempiute devono porsi su piano di parità o quantomeno di possibile equiparazione), di gravità del primo inadempimento che giustifica il ricorso al rimedio in autodifesa, nonché la proporzionalità della reazione prescelta rispetto allo scopo perseguito.
Il rifiuto del lavoratore di eseguire una determinata prestazione a causa dell’illegittimità dell’ordine datoriale, in particolare, è stato poi ricostruito e giustificato in vario modo dalla dottrina e dalla giurisprudenza: alcuni hanno considerato pienamente operante il principio di cui all’art. 1460 c.c., qualificando
l’ordine illegittimo alla stregua di un inadempimento; altri hanno ritenuto invece tale ordine inidoneo a produrre qualsivoglia effetto in quanto radicalmente nullo, a causa dell’utilizzo abusivo del potere direttivo; infine, altri ancora hanno sostenuto che la prestazione del lavoratore debba considerarsi in simili casi non dovuta, in quanto del tutto estranea all’obbligazione contrattuale (quale diritto a non fare ciò a cui non si è obbligati) ovvero hanno rinvenuto in tali ipotesi gli estremi della figura dell’aliud pro alio, tipica dell’istituto della vendita.
Infine, dopo aver dato conto della (sfortunatamente scarsa) interpretazione fornita sul tema dagli studiosi, si passa a una rassegna il più possibile ragionata della (invece ipertrofica) produzione dei giudici: in particolare, l’eccezione di inadempimento è stata sovente dichiarata legittima a fronte del mancato adempimento dell’obbligazione retributiva (ex art. 2099 c.c.), del mancato apprestamento delle «misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» (ex art. 2087 c.c.), o comunque della violazione delle disposizioni imperative poste a protezione della salute e della sicurezza del lavoratore (si veda il T.U. di cui al D.Lgs. n. 81/2008), ovvero di un trasferimento del lavoratore ordinato pur in assenza di ragioni giustificatrici (ex art. 2103 c.c.).
Una volta traslata l’autotutela nel campo più familiare del diritto del lavoro, nel terzo capitolo si provvede a testare in concreto le potenzialità rimediali dell’exceptio inadimpleti contractus su un istituto tanto tradizionale quanto profondamente innovato di recente come il potere di mutamento delle mansioni del lavoratore di cui al nuovo testo dell’art. 2103 c.c. Già Barassi aveva identificato lo ius variandi quale proiezione esemplare del potere imprenditoriale di organizzare i fattori della produzione, l’estrinsecazione forse più evidente dell’elemento della subordinazione che qualifica l’omonima categoria tipologica contrattuale.
Tali caratteristiche, oltre al fondamentale ruolo svolto nel momento applicativo del suddetto rimedio dal principio di buona fede (ai sensi del dettato dell’art. 1460, comma 2, c.c.), rendono l’eccezione di inadempimento esempio paradigmatico delle potenzialità dell’autotutela individuale nel diritto del lavoro, accresciute proprio dal progressivo indebolimento delle tradizionali tutele di matrice eteronoma ad opera delle più recenti riforme (tra le quali il c.d. Jobs Act si distingue per pervasività d’intervento e prossimità temporale).
Nonostante sia impossibile – per ragioni di coerenza con lo specifico oggetto della ricerca, oltre che per evidenti motivi di spazio – descrivere compiutamente l’ingente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale che si è sedimentata in materia di corretto esercizio dello ius variandi, non si può non soffermarsi almeno brevemente sul concetto di equivalenza delle mansioni che a lungo ha costituito un (quasi) invalicabile baluardo a difesa del bagaglio professionale acquisito dai lavoratori, tranne nei casi in cui tale interesse si trovava a confrontarsi con quello, evidentemente preminente, alla conservazione dell’occupazione e della retribuzione.
Questo contenuto excursus, tuttavia, non ha altro fine che sottolineare le differenze con la nuova disciplina tratteggiata dal D.Lgs. n. 81/2015, all’articolo 3, che ha profondamente innovato l’art. 2103 c.c. Pur essendo ancora presto per poter valutare compiutamente gli effetti della suddetta riforma rispetto agli obiettivi dichiarati dal Governo nonché per poter comprendere quali siano gli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi in materia, si tenta di fornire un primo quadro delle opinioni degli studiosi e, in particolare, delle diverse proposte volte a reperire mezzi giuridici idonei a tutelare ancora la professionalità dei prestatori di lavoro, a fronte dell’ampio potere gestorio assegnato ai datori di lavoro. Tra questi strumenti, un ruolo centrale potrebbe essere rivestito dall’eccezione di inadempimento, proprio per il suo essere al contempo un rimedio conservativo stragiudiziale e uno strumento di coazione
all’adempimento, dal momento che è stata fortemente ridimensionata (almeno nelle intenzioni del legislatore) la possibilità per i giudici di sindacare la decisione dell’imprenditore di demansionare un proprio dipendente.
D’altro canto, è altresì significativo il fatto che la clausola generale di buona fede abbia assunto negli ultimi anni un rilevante ruolo non soltanto quale principale strumento per assicurare l’equilibrio contrattuale, ma avendo anche la funzione «di misurare il contenuto del contratto secondo criteri che tengano conto di valori socialmente rilevanti e costituzionalmente riconosciuti»3. Si tratta di un approccio che ha trovato ampia diffusione nel diritto comparato, fino alla codificazione nei principi Unidroit, in cui il principio di buona fede si pone quale limite interno alla libertà contrattuale. Il ruolo della buona fede, quindi, sarebbe quello di «mantenere il regolamento contrattuale in sintonia non solo con le posizioni e i comportamenti concreti delle parti, ma con i principi ai quali l’ordine giuridico lega la legittimità stessa dell’agire privato»4.
Per identificare il contenuto concreto dei parametri di correttezza e buona fede bisogna innanzitutto riferirsi ai principi costituzionali nella materia dei diritti e dei doveri dei soggetti privati, nonché ai principi di solidarietà di cui l’ordinamento costituzionale è permeato, con specifico riferimento agli articoli 2, 36, 37, 39, 41, 42 Cost.
Appare quindi ineludibile, nella moderna concezione civilistica, che il principio di correttezza possa considerarsi alla stregua di uno strumento di integrazione del contratto e che, nel determinare il contenuto della clausola di correttezza, sia necessario un riferimento diretto alle norme costituzionali (su cui già era intervenuto Mengoni5).
3 Cfr. l’intramontabile contributo di Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Xxxxxxx, Milano, 2004, p. X.
4 Ibidem, p. XII-XIII.
5 Cfr. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in RCDP, 1986, p. 6 e ss.
La correttezza e buona fede, quale criterio di integrazione contrattuale di effettività costituzionale, deve considerarsi un principio che permea l’intera materia contrattuale e si pone come limite sostanziale all’autonomia privata. Nel momento in cui il legislatore ha introdotto una diversa tecnica di tutela della parte debole di un rapporto contrattuale, modificando i limiti contenuti in una norma imperativa e riducendo quindi gli effetti potenziali dello strumento integrativo di cui all’art. 1339 c.c., tale clausola potrebbe continuare a produrre i propri effetti, nei limiti dell’ordinamento codicistico, per garantire l’effettivo estrinsecarsi, con altre modalità, dei principi costituzionali a cui si ispira.
L’eccezione di inadempimento, quale principale strumento di tutela di una posizione giuridica soggettiva, è uno dei più rilevanti istituti in cui tale meccanismo può produrre i propri effetti. In particolare, una accorta valorizzazione del dettato di cui al secondo comma dell’art. 1460 c.c., sopra descritto, potrebbe consentire, attraverso il limite della buona fede riletto alla luce dei principi costituzionali, un più flessibile utilizzo dello strumento rimediale, nei casi in cui il potere datoriale, pur mantenendosi all’interno dei più labili limiti normativi introdotti, si ponga in condizioni di prevaricazione rispetto alla effettiva tutela dei principi di libertà e dignità del lavoratore costituzionalmente tutelati.
Tramite tale meccanismo si potrebbe in sostanza ritenere che, nonostante i nuovi limiti contenuti nell’art. 2103 c.c., la tutela della professionalità del lavoro, quale esplicita espressione dei principi costituzionali di libertà e dignità del lavoro, possa essere garantita senza la necessità di sollevare una questione di legittimità costituzionale, ma attraverso l’esplicito rifiuto da opporsi all’adibizione a mansioni che – pur formalmente rispettose dei nuovi limiti inseriti nella norma citata (che prendono a riferimento i livelli di inquadramento e le categorie legali) – si pongano in sostanziale violazione della professionalità acquisita dal lavoratore fino a quel momento.
CAPITOLO I
GLI STRUMENTI DI AUTODIFESA CONTRATTUALE NEL
DIRITTO CIVILE
1) Il rapporto vivente tra diritto civile e diritto del lavoro: dalla partenogenesi alla predazione, sino alla simbiosi.
L’impianto del presente elaborato prende le mosse dalla crescente consapevolezza che, dall’intricata evoluzione dei rapporti tra diritto civile e diritto del lavoro6, possono emergere prospettive e suggestioni, in grado di rinvigorire un mai sopito dibattito e di rinnovare entrambe le discipline, rendendole maggiormente sensibili a una realtà economico-sociale in perenne e incalzante mutamento.
Così è stato fin da quando la materia giuslavoristica ha reclamato una propria autonomia, emancipandosi dal diritto privato ma senza mai abbandonarlo del tutto, pronta a rivolgervisi alla bisogna, dipanandosi tra i due una classica relazione parentale7. La storia è nota e arriva ai giorni nostri, ma è bene ripercorrerla velocemente per spiegare il motivo che ha indotto ad aprire una tesi di diritto del lavoro con l’illustrazione di una tematica prettamente civilistica.
6 Proprio l’esame di tali rapporti costituisce, infatti, «un topos eterno della letteratura giuridica giuslavoristica», secondo Mazzotta, Diritto del lavoro e categorie civilistiche, in RIDL, 1991, p. 35 e ss.; per una più ampia trattazione del tema da parte del medesimo Autore, si rinvia a Diritto del lavoro e diritto civile: i temi di un dialogo, Giappichelli, Torino, 1994.
7 Di «originali atteggiamenti ancillari e subalterni» seguiti da «rivolte adolescenziali» e da
«conseguenti sussulti autonomistici» parla De Xxxx Xxxxxx, in Introduzione, p. 4-5, in apertura de AA.VV., Il diritto del lavoro nel sistema giuridico privatistico: atti delle Giornate di studio di diritto del lavoro, Parma, 4-5 giugno 2010, Xxxxxxx, Milano, 2011. Perulli, invece, in Diritto del lavoro e diritto dei contratti, in RIDL, 2007, 4, p. 427 e ss., afferma che il diritto del lavoro è
«nato da una costola del diritto civile», evocando in tono volutamente ambivalente tanto la creazione quanto il peccato originale.
Le radici del «giovane e ribelle virgulto»8 affondano proprio nel campo del diritto civile e di matrice civilistica sono anche i primi studiosi che hanno iniziato a occuparsi di diritto del lavoro, Lodovico Barassi9 in primis. Ma è in particolare con la fine del periodo corporativo che la disciplina lavoristica inizia ad assumere i connotati di specialità e autonomia rispetto al retroterra culturale privatistico che ancor oggi la connotano, seppure con un grado di incisività differente.
Infatti, come è stato efficacemente sintetizzato, mentre il diritto civile «nasce dalla libertà», il diritto del lavoro «cammina verso la libertà»10: mentre il primo trova la propria principale forma di espressione nell’autonomia negoziale dei singoli contraenti, il secondo sconta delle intrinseche asimmetrie intercorrenti tra le posizioni e i poteri delle parti del contratto di lavoro11, cui cerca di porre rimedio affidando la concreta gestione e regolazione del rapporto a fonti eteronome quali la legge e il contratto collettivo, le cui norme erano perlopiù volte a compensare la situazione di debolezza contrattuale tipica del lavoratore subordinato.
È vero che costituisce ormai un luogo comune affermare che il moderno diritto del lavoro si è sviluppato quale forma di polemica e di protesta nei
8 Il vezzeggiativo sopra riportato è stato usato da Mengoni, nell’intervista contenuta in Ichino (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia Repubblicana: teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, Xxxxxxx, Milano, 2008, p. 411.
9 Per una lettura critica del pensiero di Barassi in materia di contratto di lavoro e dei suoi rapporti con la cultura giuridica dei suoi tempi cfr., rispettivamente, Garilli, Il contratto di lavoro e il rapporto di impiego privato nella teoria di Xxxxxxxx Xxxxxxx, e Xxxxxxxx, Xxxxxxxx Xxxxxxx e il socialismo di cattedra, entrambi in RGL, 2001, n. 3, p. 375 e ss. e 389 e ss.
10 Cfr. Scognamiglio R., Conclusioni, in Diritto del lavoro e categorie civilistiche. Atti del seminario svoltosi a Roma il 26 maggio 1990 presso l’Università Roma La Sapienza, p. 152, citato da Ichino, Il percorso tortuoso del diritto del lavoro tra emancipazione dal diritto civile e ritorno al diritto civile, in RIDL, 2012, I, p. 59 e ss.
11 Cfr. Perulli, op. cit., 2007, p. 427 e ss., che ritiene tali asimmetrie incompatibili «con gli schemi contrattuali canonici, improntati al principio di reciprocità tra soggetti considerati, almeno astrattamente, come eguali».
confronti del diritto civile12, nondimeno è innegabile che la prima fase di costruzione identitaria della disciplina giuslavoristica sia stata dominata da un desiderio di emancipazione da quello che veniva identificato come un «diritto borghese», cui ha concorso la forte componente ideologica e politica che da sempre accompagna detta materia. Oltre a ciò, però, è altresì riconoscibile un genuino sforzo di trovare un’alternativa più etica13 alla deriva individualistica che minacciava un utilizzo sconsiderato delle forme contrattuali privatistiche, introducendo una dimensione necessariamente collettiva finanche nel contratto individuale di lavoro.
Una volta definitivamente acquisita al diritto del lavoro l’incontestabile dignità di materia a sé stante, i giuslavoristi hanno avviato una riflessione più matura e meno animosa nei confronti delle tecniche e degli istituti privatistici, reputando la dialettica instaurata con questi ultimi quale fattore di arricchimento, più che sintomo di inconciliabilità. Sin dagli anni Settanta, si è pertanto attinto alla disciplina civilistica per trarre argomenti a supporto o a confutazione delle proprie tesi, su diverse tematiche che allora infuocavano il dibattito14.
12 Come rileva Mengoni, L’influenza del diritto del lavoro sul diritto civile, diritto processuale civile, diritto amministrativo. Diritto civile, in DLRI, 1990,1, p. 5, salvo poi riconoscere che come tutti i luoghi comuni racchiude un fondamento di verità.
13 Al dichiarato fine di diversificare il contratto di lavoro rispetto alla categoria prettamente civilistica dei contratti di scambio, e così, in via mediata, per opporsi alla riduzione del lavoro a un mero bene, suscettibile di essere mercificato: cfr. Perulli, op. cit., p. 427, e Mengoni, op. cit.,
p. 6.
14 Si fa qui riferimento, in particolare, alle questioni rammentate da Ichino, op. cit., 2012, vale a dire: la contrapposizione della concezione contrattualistica e di quella acontrattualistica del rapporto di lavoro (a proposito di quest’ultima posizione si rammenta il pensiero, rimasto piuttosto isolato, di Scognamiglio R., Rapporto di lavoro e contratto, in ADL, 2005, n. 3, p. 745 e ss., nonché Id., La disponibilità del rapporto di lavoro subordinato, in RIDL, 2001, I, p. 95 e ss., nonché l’intervento deciso della Suprema Corte, che con un improvviso revirement ha restituito, in casi particolari, rilevanza alla qualificazione del contratto operata dalle parti al momento della stipulazione, concedendo rinnovata importanza al regolamento negoziale: cfr. Cass. civ., sez. lav., 3.6.1985, n. 3310); la contrapposizione tra concezione privatistica e pubblicistica del funzionamento del contratto collettivo; la contrapposizione tra chi negava e chi affermava la necessità di una funzionalizzazione dell’impresa all’utilità sociale; nonché alle ulteriori questioni richiamate da Mazzotta, op. cit., 1994, p. 14, quali la tensione tra subordinazione e
Non solo ma, ancor più di recente, sono andate via via crescendo due parallele tendenze, la cui direttrice, in entrambi i casi, sembra favorire la conversione delle due discipline verso un terreno comune.
Da un lato, infatti, nel settore del diritto del lavoro assistiamo a un progressivo ridimensionamento del ruolo assegnato alla fonte eteronoma15 (quale la legge ma soprattutto la contrattazione collettiva) in favore dell’autonomia negoziale dei contraenti, a uno «spostamento del baricentro delle tutele dal rapporto contrattuale (…) al rapporto di mercato»16 e a un sempre maggiore ricorso, da parte della giurisprudenza17, a strumenti civilistici (quali in particolare le clausole generali di correttezza e buona fede, potenziali «criteri di scrutinio della legittimità delle scelte datoriali unilaterali»18) per colmare l’annoso squilibrio tra le parti del contratto e per ricondurre a equità casi di ingiustizia sostanziale non altrimenti risolvibili.
Dall’altro, nell’ambito del diritto civile, si è abbandonata da tempo l’idea del contratto come «signoria del volere» discrezionale e arbitrario, a favore di una sistematica che veda in esso, piuttosto, il «principale strumento di innovazione giuridica»19: proprio il fatto di essere un istituto di per sé neutro, o «a plurimo impiego», ne determina l’utilizzabilità anche al fine di perseguire interessi
organizzazione all’interno del rapporto obbligatorio, nonché la diseguale distribuzione dei poteri tra i contraenti.
15 Benché, puntualizza Perulli, op. cit., 2007, tale affermazione vada un po’ temperata, in quanto
«l’immagine prometeica del lavoratore che si sottrae alla logica colonizzatrice della disciplina eteronoma (appare) quantomeno discutibile».
16 Cfr. Perulli, op. cit., 2007.
17 Parte della dottrina, d’altro canto, appare molto più cauta nell’abbandonare gli strumenti tradizionali e propri della disciplina di protezione tipica del diritto del lavoro in favore di un recupero delle categorie civilistiche maggiormente atte allo scopo: ad esempio, si veda la posizione di Xxxxxxx Xxxxxxxxxx G., in Appunti sulle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il Jobs Act, WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT, n. 290/2016, p. 12, su cui si tornerà più estesamente nel prosieguo dell’elaborato.
18 Cfr. Mazzotta, op. cit., 1994, p. 24.
19 Cfr. Perulli, op. cit., 2007.
superindividuali20, ovvero come vettore di diritti sociali e valori costituzionali, anche di derivazione comunitaria o comunque sovranazionale, in grado di correggere le possibili distorsioni dei mercati. A mero titolo esemplificativo, si può evidenziare la crescente attenzione, in un’ottica di prevenzione e protezione, rivolta dal diritto positivo, oltre che da dottrina e giurisprudenza, al contraente riconosciuto come più debole, all’interno di un rapporto obbligatorio (caso paradigmatico è naturalmente quello del consumatore), al fine di compensare lo squilibrio sussistente tra le forze economiche contrapposte. Sull’opposto versante, sono stati rafforzati gli obblighi posti a carico della parte forte del rapporto e scaturenti direttamente dalla disciplina di legge in materia contrattuale, la quale si è prefissa di ridurre le asimmetrie informative, assicurare la massima trasparenza e porre dei limiti esterni all’arbitrio dei singoli.
Si è cercato, insomma, di perseguire per il tramite del contratto obiettivi di giustizia distributiva, consentendo in tal modo un’applicazione capillare dei diritti fondamentali dell’individuo, perlopiù formulati come norme di principio21.
Il diritto privato si pone così il problema della c.d. giustizia contrattuale22, ridimensionando l’aura di intangibilità che tradizionalmente ammantava le espressioni dell’autonomia negoziale e sperimentando diverse strategie
20 Cfr. ancora Mazzotta, op. cit., 1994, p. 20.
21 In merito alla funzione protettivo-repressiva, propria di uno stato liberale, e a quella promozionale, propria di uno stato costituzionale, cfr. Bobbio, La funzione promozionale del diritto, in Id., Dalla struttura alla funzione, Nuovi studi di filosofia del diritto. Prefazione di M.G. Xxxxxx, Editori Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 3 e ss.
22 Tale concetto viene definito da Piraino, Il diritto europeo e la «giustizia contrattuale», in EDP, 2015, 2, p. 233 e ss., come comprensiva di tutti quegli «istituti che mirano a garantire una misura sufficiente di proporzione tra le prerogative conferite dal contratto e di attenzione per l’individuo, con particolare riguardo a quelle figure che consentono forme di intervento sul regolamento contrattuale in funzione tanto integrativa quanto correttiva». Sul tema, cfr. ex multis anche Vettori, Contratto giusto e rimedi effettivi, in RTDPC., 2015, 3, p. 787 e ss., nonché Id., Contratto e rimedi, II ed., Cedam, Padova, 2009; Nivarra, Rimedi: un nuovo ordine del discorso civilistico?, in EDP, 2015, 3, p. 583 e ss.; Navarretta, Causa e giustizia contrattuale a confronto: prospettive di riforma, in RDC, 2006, p. 411 e ss.; Gitti – Villa (a cura di), Il terzo contratto, 2008, Il Mulino, Bologna; Volpe, La giustizia contrattuale tra autonomia e mercato, ESI, Napoli, 2004.
finalizzate a ridurre la sperequazione tra le parti caratterizzante, di fatto, gran parte dei rapporti sorti nel libero mercato. Da ultimo, si è optato per l’adozione di una tecnica rimediale che non intacca il concetto di libertà contrattuale e le relative garanzie di autonomia, bensì si rivolge a un istituto codicistico tradizionale quale la clausola generale di buona fede e correttezza, cui affida un ruolo ulteriore e fondamentale, quello di controllare e fungere da canale per eliminare disparità di potere e alterazioni dell’armonia contrattuale, quale applicazione di un «dovere inderogabile di solidarietà ormai costituzionalizzato»23.
Si assiste, inoltre, a un progressivo arricchimento delle tutele tradizionali, predisposte secondo il modello della fattispecie tipica e fondate, rispettivamente, sui casi di invalidità del contratto (ex art. 1325 c.c.) e sulle regole di responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.), mediante la valorizzazione di regole di comportamento, che non hanno ad oggetto l’obbligo di rendere determinate prestazioni, bensì di tenere complessivamente delle condotte orientate dalla buona fede e correttezza nei confronti della controparte e che introducono nuove forme di responsabilità, non derivanti da un inadempimento ma insorgenti per il (solo) fatto di aver cagionato all’altro contraente, per effetto del proprio contegno nella fase negoziale, un «minor vantaggio» ovvero un
«maggior aggravio»24.
23 Cfr. Cass. civ., sez. I, 20.4.1994, n. 3775, richiamata anche da Perulli, op. cit., 2007. Si tratta del noto “caso Fiuggi”, concernente il pagamento del canone di concessione al Comune di Fiuggi per lo sfruttamento delle sorgenti d’acqua, che era stato tenuto abnormemente basso grazie all’intervento di società diverse ma appartenenti allo stesso gruppo dell’ente Fiuggi, il quale deteneva la concessione.
24 Cfr. Cass. civ., sez. I, 29.9.2005, n. 19024, la quale stabilisce che «quando in presenza di comportamenti precontrattuali od esecutivi illegittimi il danno derivi da un contratto valido ed efficace ma sconveniente, il risarcimento deve essere ragguagliato al minor vantaggio o al maggiore aggravio economico determinato dal contegno sleale di una delle parti, salvo la prova di ulteriori danni che risultino collegati a tale comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto». Sul tema, si veda, Di Majo, Una New Age per le tutele contrattuali?,
p. 5, in Mazzamuto (a cura di), Le tutele contrattuali e il diritto europeo, Jovene, Napoli, 2012.
Tutte queste riflessioni, in parte frutto dell’influenza esercitata sul diritto privato da altre discipline ad esso contigue, quale tra le altre anche il diritto del lavoro (in particolare per quanto riguarda la speciale considerazione riservata alla parte debole del contratto), in parte frutto di sollecitazioni provenienti da esperienze di altri Paesi e del diritto dell’Unione Europea, costituiscono oggi delle suggestioni da cui si ritiene che può e dovrebbe attingere la disciplina giuslavoristica25, caratterizzata al contrario da un momento di difficoltà e di crisi dei modelli di riferimento tradizionali, anche per effetto di precise azioni in tal senso del legislatore nazionale26. In un momento storico in cui si assiste a un progressivo smantellamento delle forme tradizionali di tutela fondate sull’intervento della regola eteronoma e su norme inderogabili27, la possibilità di avvalersi di strumenti civilistici potrebbe paradossalmente consentire il recupero e l’attuazione nella prassi di quei valori (sociali e orbitanti intorno alla persona e alla dignità del prestatore di lavoro) che un tempo informavano l’intera materia del diritto del lavoro ma che da ultimo si sono vieppiù trascurati, sull’onda di un ricorso incontrollato alla teoria c.d. di labour law and economics28.
Non solo, ma si ritiene, altresì, opportuno approfittare dell’approccio civilistico che riconosce alla volontà dell’individuo un ruolo centrale nella dinamica dell’obbligazione, non per assecondare derive autoritarie a tutto vantaggio del datore di lavoro (senza dubbio la parte più forte di un contratto di lavoro subordinato), come temeva la dottrina delle origini, ma, al contrario, per
25 Cfr. ad esempio quanto sostenuto ormai da anni Nogler, Diritto del lavoro e diritto contrattuale europeo: un confronto non più rinviabile, in DLRI, 2008, 2.
26 Tra tali azioni emerge, per vastità di intervento e per prossimità temporale, la riforma attuata sulla base della Legge 15 dicembre 2014, n. 183 e dei successivi Decreti Legislativi attuativi, complessivamente denominata «Jobs Act».
27 Cfr., a questo proposito, Voza, L’inderogabilità come attributo genetico del diritto del lavoro. Un profilo storico, in RGL, 2006, 2, p. 229 e ss.
28 Alfiere di tale approccio nel diritto del lavoro è stato Ichino, tra le varie opere in cui ne tratta si veda Id., I giuslavoristi e la scienza economica: istruzioni per l’uso, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 40/2005. Per una critica a tale modello ricostruttivo, cfr. Denozza, Il modello dell’analisi economica del diritto: come si spiega il tanto successo di una tanto debole teoria?, in Ars Interpretandi, 2013, 2, p. 43 e ss.
fornire al contraente più debole ulteriori e più efficaci mezzi di difesa dei propri interessi, rientranti nella categoria civilistica dell’autotutela29. Un valido supporto a tali rimedi è offerto proprio dal ricorso alla clausola di buona fede e correttezza, quale criterio appartenente alla logica contrattuale per valutare tanto la condotta datoriale quanto quella del lavoratore: in entrambi i casi, tale clausola si configura dunque, al contempo, come limite (al di là del quale il comportamento posto in essere dalla parte diventa ingiustificabile e pertanto illegittimo) e fondamento (fornendo le basi concettuali per un controllo dell’equilibrio del sinallagma negoziale dal punto di vista della ragionevolezza e della proporzionalità, parametri diversi e legati a valori differenti da quelli codificati dal diritto positivo)30.
Uno dei settori in cui le prerogative imprenditoriali, già piuttosto ampie di per sé, possono essere attuato nel modo più indefinito è quello dato dall’esercizio dello ius variandi, il potere che consente a uno dei contraenti di incidere unilateralmente sull’assetto contrattuale, eccezionale rispetto alla regola di cui all’art. 1372 c.c. e sottoposto a ulteriori limiti in materia di rapporti di lavoro, ai sensi dell’art. 2103 c.c. Per tale motivo, i casi di modifica unilaterale di parte del regolamento negoziale concordato costituiscono il terreno ideale per testare la tenuta del modello rimediale sinora approssimativamente descritto31, come si proverà a fare nei capitoli successivi.
29 Cfr. Perulli, op. cit., 2007, il quale afferma che «oggi anche i sistemi giuridici assistenziali, del lavoro, antitrust, commerciale, vedono affermarsi o delinearsi nel loro alveo nuovi “diritti privati”: è questa la sfera “riflessiva” del diritto attraverso cui la società di individui ed istituzioni riflette su se stessa, in un’amministrazione riflessiva autoregolata guidata dal principio di “aiutare ad aiutarsi a farcela da soli”» (corsivo mio).
30 Ibidem.
31 Il diritto del lavoro appare sempre più aperto a nuove proposte e nuove soluzioni interpretative provenienti dal diritto privato, pur mantenendo sempre una certa cautela: per adottare le efficaci parole di Mazzotta, Nel laboratorio del giuslavorista, in Labor, 1, 2017, «il diritto del lavoro – più di altre branche dell’ordinamento positivo – da sempre intrattiene un dialogo con valori o principi che esprimono la tensione latente fra gli interessi forti che fanno da sfondo alla relazione giuridica che definiamo contratto di lavoro subordinato. Basti pensare a concetti quali libertà
Qui ci si limita, perciò, ad anticipare quello che sarà l’oggetto di specifica trattazione e sperimentazione nei capitoli successivi, per la cui comprensione, tuttavia, pare indispensabile tratteggiare, almeno in termini sommari, i confini dell’istituto dell’autotutela dal punto di vista civilistico, per utilizzare con maggiore cognizione di causa« gli snodi e le infrastrutture»32 fornite dal diritto civile anche nel prosieguo dell’elaborato, ove si adotterà un punto di vista più giuslavoristico.
2) La nozione di autotutela nelle diverse branche del diritto: una doverosa premessa.
L’indagine che voglia accostarsi ad un tema, quale quello dell’autotutela, trasversalmente presente in quasi tutte le branche in cui si suole suddividere il diritto, dovrebbe razionalmente partire da una nozione basica dell’istituto, in grado di riassumerne i tratti distintivi tipici, rinvenibili in tutte le diverse declinazioni successivamente elaborate dalle singole materie. Bisognerebbe, in altre parole, enucleare sin dall’inizio l’ossatura che si cela all’interno di tutte le fattispecie riconducibili a tale categoria concettuale, il cosiddetto minimo comun denominatore. Ebbene, in realtà già tale prima ricostruzione appare assai complessa e di non pronta soluzione.
L’istintiva collocazione di tutto ciò che afferisce all’autotutela al di là del perimetro dell’ordinamento giuridico (fatte salve le dovute eccezioni previste da apposite norme di diritto positivo), ha probabilmente accresciuto la diffidenza dei giuristi, i quali nella maggior parte dei casi hanno preferito soffermarsi sulle singole ipotesi di autodifesa previste in diversi settori giuridici, piuttosto che
economica, dignità, sicurezza, eguaglianza, libertà sindacale etc., il cui rapporto dialettico si esprime attraverso tecniche di bilanciamento non sempre prefigurate a priori dal legislatore. Di qui la necessità (anzi l’indispensabilità) della ricerca di un metodo che consenta a tali principi- valori di dialogare con il diritto positivo» (p. 6).
32 Secondo l’arcinota definizione adottata da Mengoni, op. cit., 1990, p. 10.
interrogarsi sul fondamento e sull’essenza di qualcosa che si poneva in ontologica contrapposizione con il sistema di giustizia statuale.
Bisogna dunque affidarsi agli strumenti propri di altre materie, quali la linguistica o la filosofia, per tracciare una prima cornice di riferimento. Il sostantivo in esame è significativamente composto dal prefisso riflessivo “auto” (dal pronome greco con valore intensivo «stesso») e dal nome «tutela» (definita come «funzione protettiva o difensiva, salvaguardia; difesa di un diritto»33), traducendosi così il lemma nella «difesa delle proprie ragioni effettuata direttamente dal privato, al di fuori della via giudiziaria»34. Appare pertanto evidente che ciò che connota immediatamente tale concetto, già nell’immaginario comune e in un uso atecnico del linguaggio, è proprio il fatto di costituire un’alternativa ai mezzi di protezione offerti dall’ordinamento. Pur senza voler chiamare in causa la teoria del contratto sociale di Rousseau35, è facile comprendere come il passaggio (o, meglio, la restituzione) del potere di reagire ai torti dallo Stato al singolo cittadino rappresenti un notevole fattore di rischio, agevolando in potenza il ritorno allo stato di natura che da tempo si è tentato di lasciarsi alle spalle. Eppure, spesso sono gli stessi pensatori che hanno elaborato le tesi contrattualiste a prevedere, in taluni casi, la sussistenza di un vero e proprio «diritto di resistenza»36, di cui risulta titolare ciascun membro
33 Questi sono l’etimo e la definizione riportati da Devoto – Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1990.
34 Ibidem.
35 Xxxxxxxx, Il contratto sociale, Xxxxx Xxxxxxxxx, Milano, 2002, ove si afferma la necessità di
«trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima». La tesi del contrattualismo è stata teorizzata e sviluppata altresì, tra gli altri, da Xxxxxx Xxxxxx e da Xxxx Xxxxx.
36 Mentre Xxxxxxxx avversava recisamente la possibilità per i singoli cittadini di resistere alle leggi, qualificando queste ultime come espressione della volontà generale e sovrana, altri pensatori (quali gli stessi Xxxxxx e Xxxxx già citati, nonché Xxxxxxxx Xxxxxxxxx e perfino Xxxxxxxx Xxxxxx, nei giorni nostri) hanno considerato configurabile un simile diritto. In merito specificamente al diritto di resistenza, si segnala l’interessante opera di Buratti, Dal diritto di resistenza al metodo democratico, Xxxxxxx, Milano, 2006. Sul medesimo argomento, si veda
della società e che consiste nel diritto–dovere di opporsi a manifestazioni illegittime del potere pubblico.
In seno alla nostra stessa Assemblea Costituente si tenne un acceso dibattito in merito all’opportunità di inserire o meno, nella Carta costituzionale, l’espressa previsione di un diritto di resistenza, tanto individuale che collettivo, ad atti dei pubblici poteri tali da violare le libertà fondamentali e i diritti costituzionalmente garantiti37. Pur se, alla fine, tale progetto venne abbandonato per ragioni in parte di principio (temendo, taluni, una pericolosa confusione tra resistenza e rivoluzione e, in ogni caso, non volendo legittimare uno strumento in grado di scardinare l’ordine costituito), in parte di opportunità politica, la trattazione dell’argomento da parte di giuristi e filosofi del diritto continuò nei decenni successivi, pur concentrandosi su peculiari forme di autotutela individuali, quali l’obiezione di coscienza e la difesa della dignità della persona umana38.
D’altro canto, rimanendo nell’ambito del diritto pubblico, la branca in cui più si sono colte e sviluppate le potenzialità dell’istituto dell’autotutela è stata quella del diritto amministrativo39: a fronte di una situazione di conflitto (attuale o
altresì Marchesiello, Diritto di resistenza. Come fare la rivoluzione attraverso il diritto, GruppoAbele, 2013.
37 Il Progetto di Costituzione, al II comma dell’art. 50, infatti, in origine sanciva che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Per una ricostruzione dei passaggi in cui si svolse la discussione, prima all’interno della Prima Sottocommissione della Commissione per la Costituzione e poi nelle sedute dell’Assemblea Costituente, tra il 1946 e il 1947, si rinvia al contributo di e alla bibliografia citata da Gianniti, Autotutela e diritto di resistenza, p. 59 e ss., in Gianniti (a cura di), La disciplina dell’autotutela nel diritto costituzionale, civile, penale, del lavoro, amministrativo, tributario, comunitario ed internazionale, Cedam, Xxxxxx, 0000.
38 Cfr. ancora Gianniti, op. cit., p. 88 e ss., nonché, nel medesimo volume, Bettetini, Autotutela e
diritto di libertà di coscienza, p. 99 e ss. Per una trattazione più completa del tema assai delicato dell’obiezione di coscienza, si rinvia a Saporiti, La coscienza disubbidiente: ragioni, tutele e limiti dell’obiezione di coscienza, Xxxxxxx, Milano, 2014.
39 Lo studio di riferimento, a tal proposito, pare essere ancora Benvenuti, Appunti di diritto amministrativo, parte generale, IV ed., Cedam, Padova, 1987, p. 146 e ss.; sempre dello stesso Autore, si veda anche la voce Autotutela (dir. amm.), in Enc. dir., vol. IV, 1959, p. 537 e ss., ove ha definito l’autotutela in tale settore come «quella parte di attività amministrativa con la quale la stessa pubblica amministrazione provvede a risolvere i conflitti, potenziali o attuali, insorgenti
potenziale) tra lo Stato, nella sua veste di Pubblica Amministrazione, e un soggetto privato, il primo può provvedere autonomamente alla salvaguardia e alla realizzazione dell’interesse pubblico di cui è portatore, senza dover passare per l’intermediazione dell’organo giudiziario. Il potere di agire in via di autotutela è stato così considerato un’estrinsecazione della posizione di supremazia e preminenza che, ontologicamente, rivestono i soggetti pubblici nei confronti dei singoli componenti della collettività. Il suddetto potere si esplica, poi, soprattutto, in provvedimenti di controllo, di annullamento o di revoca40. Proprio in quanto strumento che consente di deflazionare il contenzioso, di prevenire possibili contrasti e di assicurare un più pronto e sicuro risultato, l’autotutela è un istituto promosso e incentivato dal diritto amministrativo41 (benché anche in questo settore permangano perplessità e contrasti in dottrina42).
In parte analoga all’autotutela amministrativa è la trattazione dell’istituto da parte del diritto tributario43: anche in tale ultimo settore, infatti, rappresenta un potere spettante alla Pubblica Amministrazione competente44 e si concretizza principalmente nell’annullamento, totale o parziale, di atti pubblici in quanto
con altri soggetti, in relazione ai suoi provvedimenti od alle sue pretese»; nonché, Coraggio, voce Autotutela, I) diritto amministrativo, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, 1988, p. 1 e ss. Più di recente si vedano i contributi di Liberati, L’autotutela amministrativa, Xxxxxxx, Milano, 2006 e Xxxxxxxxx, L’autotutela amministrativa dopo la riforma Madia e il nuovo Codice dei contratti pubblici, Dike giuridica, Xxxx, 0000.
40 Si vedano le discipline, rispettivamente, della revoca (ex art. 21-quinquies della L. 7.8.1990, n.
241) e dell’annullamento d’ufficio (ex art. 21-nonies della L. 7.8.1990, n. 241). Cfr. ancora, al riguardo, Coraggio, op. cit., p. 2; Pazzaglia, L’autotutela decisoria, nell’opera collettiva citata a cura di Gianniti, p. 435, ha chiarito che «L’autotutela rappresenta quindi sempre un’attività sostanzialmente amministrativa, anche se secondaria o sussidiaria nel senso che essa ha lo scopo di verificare la legittimità e l’opportunità nonché di garantire l’efficacia e l’esecuzione degli atti amministrativi precedentemente emanati dalla pubblica amministrazione nell’ambito dei suoi poteri di autarchia».
41 Cfr. ancora Gianniti, op. cit., p. 1 e ss.
42 Cfr. ancora Coraggio, op. cit., p. 2 e ss.
43 Si rinvia a tal proposito a Xxxxxxx, L’autotutela nel diritto tributario, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 493 e ss.; si veda altresì Muscarà, voce Autotutela, V) diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, vol. IV, 1988, p. 1 e ss.
44 Ex art. 2 quater, comma 1ter, del d.l. 30.9.1994, n. 564, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.11.1994, n. 656, poi integrato dall’art. 27 della l. 18.2.1999, n. 28.
illegittimi o infondati. Tuttavia, a differenza dell’autotutela amministrativa, in campo tributario tale potere viene esercitato in modo non discrezionale, al dichiarato fine di assicurare il rispetto del principio fondamentale della giusta tassazione a seconda della capacità contributiva di ciascuno, ex art. 53 Cost. In tali casi, l’interesse pubblico al ristabilimento di una giusta imposizione coincide con la posizione di vantaggio (che si traduce in un vero e proprio diritto soggettivo, e non in un mero interesse legittimo) del contribuente che vede annullato o revocato il provvedimento a lui sfavorevole.
Vi è sicuramente una dimensione giuspubblicistica ineludibile dell’autotutela, di cui si darà maggior conto nel prosieguo dell’elaborato, ma il punto di vista privilegiato in questa sede resta quello privatistico, secondo il quale il singolo soggetto di diritto può agire autonomamente, in via preventivo-cautelare o reattiva, per difendere una propria posizione giuridica soggettiva considerata degna di protezione dall’ordinamento e ristabilire l’equilibrio giuridico contro l’altrui ingiusta pretesa di mutarlo. In tale ambito, tuttavia, come del resto nel diritto penale, le forme riconducibili all’autotutela sono trattate con maggiore diffidenza.
A tale risultato concorre sicuramente la mancanza, nel corpus normativo civilistico, di una disposizione di diritto positivo che preveda e disciplini nei suoi tratti generali l’istituto45. Tanto nel codice civile quanto nella legislazione
45 Al contrario di quanto accade, invece, nell’ordinamento tedesco, ove al paragrafo 229 del
B.G.B. è prevista una disposizione generale in tema di autotutela, rubricata “Selbsthilfe” (letteralmente, quindi, “autoaiuto”), ove, proprio in virtù del fine di autodifesa, si fornisce una legittimazione a colui che asporta, distrugge o danneggia cose altrui, o a chi ferma il proprio debitore che si sospetta intenda fuggire, ovvero ancora chi supera l’obiezione opposta dall’obbligato nei confronti di un’attività che quest’ultimo è invece tenuto a tollerare, ove non sia possibile ottenere il tempestivo intervento dell’autorità competente e sussista il concreto pericolo che, senza un’azione immediata, la realizzazione della pretesa dell’agente venga frustrata o diventi sostanzialmente più difficile. Xxxxxxxxx Xxxx, tuttavia, in Profili sistematici dell’autotela privata, I , Xxxxxxx, Milano, 1971, p. 47 e ss., considera solo apparente il regime di applicabilità generalizzata dell’autotutela che da un’interpretazione letterale della suddetta norma parrebbe desumersi.
speciale, invece, sono rinvenibili unicamente norme regolanti singole fattispecie che – più o meno pacificamente – possono farsi rientrare nella categoria concettuale dell’autotutela, senza tuttavia esplicitarlo e senza sancirne espressamente la legittimità.
Anzi, l’orientamento maggioritario, seguito dalla dottrina tradizionale46 sino almeno a un paio di decenni fa, era piuttosto fermo nel dedurre dall’ordinamento giuridico nel suo complesso e, più in particolare, dal combinato disposto di cui agli artt. 2907 c.c. e 101 e 102 Cost., una riaffermazione dell’indiscusso primato riservato alla tutela giurisdizionale dei diritti da parte dello Stato, relegando così l’autotutela a ipotesi del tutto marginali e soprattutto eccezionali (per quanto, poi, nella prassi la situazione fosse diversa).
Più precisamente, l’art. 2907 c.c. (unitamente al proprio contraltare procedurale, vale a dire l’art. 99 c.p.c.) sancisce l’ordinaria assegnazione della funzione di tutela dei diritti soggettivi dei privati agli organi giurisdizionali, specificando altresì a tal proposito il principio della tutela su domanda e quello della terzietà del soggetto adito rispetto alle parti coinvolte47. L’affidamento in via esclusiva allo Stato della tutela giurisdizionale dei diritti viene, inoltre, autorevolmente confermato dagli articoli 101 e 102 Cost., norme volte a rammentare l’indipendenza e l’autonomia che devono caratterizzare i giudici chiamati a risolvere i conflitti sorti tra privati.
46 Si rimanda, a tale proposito, a quanto sostenuto da Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., p. 46, lavoro che costituisce un indiscutibile punto di riferimento nello studio della materia. Tale linea di pensiero venne, più o meno uniformemente, seguita dagli Autori successivi che si occuparono nello specifico del tema, quali Betti, voce Autotutela (diritto privato), in Enc. Dir., IV, 1959, p. 529 e Xxxxxxxxx di Xxxxx, Profili dell’autotutela nei rapporti di lavoro, Xxxxxx, Napoli, 1963, p. 15; ma anche dagli Autori della manualistica del settore: cfr., a mero titolo esemplificativo, Torrente
- Xxxxxxxxxxx, Manuale di diritto privato, XXI ed., Xxxxxxx, Milano, 2013, p. 225; Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, XVI ed., Xxxxxxx, Milano, 2005, p. 34 -35; nonché Di Majo, La tutela civile dei diritti, II ed., Xxxxxxx, Milano, 1993, pp. 3 e 5.
47 Di Majo, op. cit., 1993, p. 2, fonda proprio su tale scelta ordinamentale il divieto di autotutela che considera intrinseco al sistema del diritto civile.
Tuttavia, una simile lettura restrittiva del campo di operatività dell’autotutela ha mostrato da tempo i propri limiti, impedendo di utilizzare uno strumento assai duttile al fine di apprestare adeguate risposte ai bisogni che la realtà socio- economica va sempre più manifestando. Inoltre, come è stato sensatamente fatto notare48, il combinato disposto delle norme citate non impone, bensì si limita ad offrire, ai privati la tutela giurisdizionale, che costituisce pertanto una (ma non necessariamente l’unica) delle vie a disposizione del soggetto titolare di un interesse meritevole di tutela leso o messo in pericolo49.
Persino nell’ambito del diritto penale, intrinsecamente connotato da principi quali la tipicità e il divieto di applicazione analogica delle proprie disposizioni, l’approccio al tema dell’autotutela è stato di maggiore apertura. Da un lato, quelli che potremmo definire come i «limiti esterni» della facoltà di autotutela sono rinvenibili nel dettato degli articoli 392 e 393 c.p. che vietano l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza, rispettivamente, sulle cose o sulle persone50. Dall’altro lato, sono state introdotte e circoscritte le fattispecie in cui la lesione di un altrui diritto è legittimata o, quantomeno, scriminata: si fa riferimento, ovviamente, agli articoli 52 e 54 c.p. che, unitamente alle corrispondenti norme civilistiche sul tema (articoli 2044 e 2045 c.c.), disciplinano la legittima difesa e lo stato di necessità51.
48 Xxxxxxx, Contributo allo studio dell’autotutela privata, Xxxxxxx, Milano, 1983, p. 27.
49 Si veda, in tal senso, anche l’ampio sviluppo dei procedimenti di Alternative Dispute Resolutions, che è possibile riscontrare in gran parte degli ordinamenti giuridici.
50 Ciò che si vuole impedire, in altre parole, non è l’esercizio tout court delle proprie ragioni, bensì quello che sia contraddistinto da arbitrarietà e violenza. Vi è stato perciò chi, dalle citate disposizioni, ha desunto – ragionando a contrario e in virtù del principio di libertà immanente al nostro ordinamento, a mente del quale tutto ciò che non è espressamente vietato sarebbe consentito – che viceversa l’autotutela sarebbe riconosciuta come facoltà in via generale, entro i limiti esplicitamente posti da norme quali gli artt. 392 e 393 c.p.: si fa qui riferimento a Xxxxxxx, op. cit., p. 25-26.
51 In merito alla legittima difesa e allo stato di necessità, per tutti, si veda Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, Xxxxxxx, Milano, 1964.
Malgrado la cautela che ha tradizionalmente contraddistinto la trattazione della tematica dell’autotutela, si ritiene dunque che i tempi siano maturi per una nuova e più coraggiosa riflessione sull’argomento, libera dal preconcetto per cui la migliore tutela sarebbe sempre e comunque quella derivante dal processo davanti a un giudice terzo e imparziale.
3) La nozione di autotutela nell’ordinamento civilistico.
Per arrivare al cuore del presente elaborato, consistente nell’esame dei meccanismi di attuazione dell’autotutela individuale all’interno dei rapporti di lavoro, è però necessario prima soffermarsi sul regime di operatività del medesimo istituto all’interno della sistematica propria del diritto civile, che ne costituisce un antecedente logico necessario.
3.1) Le origini storiche.
Le origini storiche dell’autotutela (definibile anche quale «difesa privata» o
«giustizia privata»52) in ambito privatistico affondano in un passato lontano nel tempo ma per molti aspetti ancora attuale, ove trovava applicazione il diritto romano53. Già all’epoca, infatti, si riscontravano diverse procedure di carattere non giudiziario per la tutela di diritti di soggetti privati in via di autotutela individuale, non coincidenti con le forme più primordiali di vendetta personale ma quali veri e propri strumenti di attuazione dei diritti senza la mediazione statale54. In seguito, gli strumenti di autotutela conobbero alterne fortune, a
52 Cfr. ancora Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 38.
53 Per una più completa trattazione storica dell’argomento si rinvia a Rossi, Immagini e dimensione storico-giuridica del rapporto tra singolo e poteri costituiti, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 17 e ss.
54 Con ciò si intende che non era consentito farsi liberamente ragione da sé, nel senso che «gli interessi suscettibili di venire protetti con la forza erano solo quelli che le regole giuridiche o
seconda dei diversi contesti storico-culturali: poco utilizzati nel periodo classico del diritto romano, tornarono in auge con l’avvento del diritto comune, per poi essere nuovamente arginati dal progressivo accentramento del potere di accertamento e tutela dei diritti in capo allo Stato sovrano moderno55 e, infine, trovare nuovi spazi di operatività, almeno astrattamente, con l’avvento del costituzionalismo, quali facoltà dei singoli individui di agire unilateralmente a difesa di propri interessi giuridicamente rilevanti56.
I tratti caratterizzanti tutte le esperienze di autotutela citate possono forse sintetizzarsi nel concetto di «farsi giustizia da sé», con tutta l’ambiguità inevitabilmente intrinseca alla nozione di «giustizia», nonché nella circostanza per cui le parti coinvolte (vale a dire il soggetto che pone in essere atti di autodifesa e il soggetto che li subisce senza poter legittimamente opporsi ad essi) si trovano su un piano di parità giuridica, al contrario di quanto si è osservato nel caso del diritto amministrativo.
3.2) Le ricostruzioni dottrinali.
giuridico-religiose in vigore avevano già qualificato meritevoli di protezione. (…) Per lo più la forza poteva essere impiegata solo con l’osservanza di un dato rituale, costituito di parole e gesti prestabiliti. L’esistenza di questo rituale escludeva che l’autotutela in questione fosse puramente privata»: cfr. Pugliese, Istituzioni di diritto romano - sintesi, II ed., Giappichelli, Torino, 1998, p. 117-118. In merito alla “romana concezione privatistica della tutela individuale” si veda altresì Ferrara Xxxxxxxxxx, La giustizia privata, Jovene, Napoli, 1937, p. 15 e ss., il quale conclude che
«quello che con certezza si può ritenere è che anche nel diritto romano, più o meno antico, la giustizia privata, come autodifesa, ammessa e secondata dall’ordinamento giuridico, concorse efficacemente alla tutela individualistica dei diritti e quindi all’amministrazione della giustizia». 55 Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 55, fornisce una lettura quasi negativa di questo contenimento forzato dell’autotutela da parte dello Stato, essendo a sua volta fortemente influenzato dalle dottrine corporativistiche dell’epoca: «mentre, sin dai tempi della Rivoluzione francese, quando ancora era forte lo spirito d’individualismo, si cercava di porre l’individuo in una specie di fortezza di diritti assoluti, in modo da costituirgli intorno una specie di solida rete di difesa, i suoi continui sforzi di affermazione e di autotutela, sono stati sempre, più o meno fatalmente, contenuti, non tanto da quella che ora si chiama la cooperazione sociale, quanto da quella possente, diffusa e durevole coalizione suprema, che è lo Stato» (corsivi dell’autrice).
56 Cfr. ancora Rossi, op. cit., p. 19 e ss. e Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 17 e ss.
Nel tempo si sono succeduti alcuni tentativi da parte della dottrina di effettuare uno studio complessivo e una ricostruzione sistematica dell’istituto, con risultati più o meno soddisfacenti ma in ogni caso imprescindibili per il presente elaborato. Appare perciò quanto mai opportuno premettere una rapida rassegna dei principali lavori che si sono occupati della tematica, estrapolandone per ora solo lo spirito interpretativo adottato e la concezione di autotutela che ne emerge.
In ordine cronologico, il primo a occuparsi in un’opera monografica dell’argomento è stato Ferrara Santamaria57, il quale, malgrado scriva ottant’anni fa durante la vigenza del codice civile del 1865, propone delle riflessioni ancora attuali in materia di autotutela. Innanzitutto, le motivazioni che spingono l’autore a occuparsi di quella che chiama anche «autodifesa» sono del tutto analoghe a quelle che anche oggigiorno impongono una maggiore attenzione sull’argomento, vale a dire: il sempre più elevato costo dell’accesso alla giustizia, che finisce per diventare proibitivo per i meno abbienti; la crisi riguardante il ruolo, l’attività e la professionalità degli avvocati; la sempre maggiore diffusione dei c.d. A.D.R. (acronimo per «alternative dispute resolutions», traducibile come «metodi alternativi di risoluzione delle controversie», tra i quali spiccano per importanza e diffusione l’arbitrato e la mediazione); l’aumento delle conciliazioni, giudiziali o stragiudiziali, quali strumenti di definizione delle controversie e la corrispondente diminuzione delle decisioni giudiziarie58.
Forse quale effetto della teoria del Vico in merito a corsi e ricorsi storici, evocata proprio dal medesimo Autore nell’opera citata59, l’interpretazione ivi
57 Si fa qui riferimento a Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit.
58 Cfr. ancora Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit. p. 9-10, il quale – pur non utilizzando il termine “A.D.R.”, all’epoca non ancora diffusosi – si sofferma sui metodi di risoluzione delle controversie che consentivano di non andare in giudizio.
59 Cfr. ancora Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 31.
fornita del ruolo che l’autotutela (denominata sin dal titolo, mediante un termine onnicomprensivo, «giustizia privata») potrebbe, allora come oggi, rivestire all’interno dell’ordinamento giuridico appare di una sconcertante modernità e risulta probabilmente la proposta ricostruttiva più coraggiosa rispetto a tutte quelle successive. Ferrara Xxxxxxxxxx, infatti, sicuramente influenzato dal clima culturale corporativo60 proprio dell’ordinamento fascista (che, pur rispettando l’iniziativa economica privata, richiedeva che tutte le categorie produttive cooperassero alla realizzazione di interessi pubblici superiori, ma che d’altra parte si rivolgeva ad organismi collettivi quali i sindacati, più che ai singoli individui), ritiene che l’autodifesa fosse un mezzo di tutela personalissimo in grado di operare «collateralmente allo Stato», in virtù del «rafforzato senso dei vincoli e dei doveri contrattuali e per più intimo sentimento di solidarietà umana» che all’epoca andavano sempre più affermandosi nella società, «nella sua funzione di effettiva cooperazione sociale»61.
Propone, pertanto, una prospettiva dell’autotutela completamente ribaltata rispetto a quella tuttora decisamente prevalente, che la considera con cautela, quale vestigia di un passato remoto e selvaggio da costringere ad un ruolo marginale e del tutto sussidiario rispetto alla giustizia statale: al contrario, l’Autore afferma decisamente che tale istituto può e dovrebbe essere il perno fondamentale del sistema di tutele offerte dall’ordinamento, in quanto più rapida e duttile rispetto alla tutela processuale e di certo meno onerosa di questa62.
60 In merito all’ideologia corporativa e alle influenze che questa ha avuto sulla dottrina e sulla legislazione dell’epoca si rinvia a Romagnoli, Il diritto sindacale corporativo e i suoi interpreti, in Lavoratori e sindacato fra vecchio e nuovo diritto, Il Mulino, Bologna, 1974, p. 187 e ss.; di recente, una rilettura storica dell’evoluzione del diritto del lavoro è stata proposta da Gaeta, Il diritto e il lavoro. Un percorso storico, Cacucci, Bari, 2013: per quanto riguarda il periodo corporativo, si veda p. 31 e ss.
61 Cfr. ancora Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 36.
62 Anzi, Ferrara Xxxxxxxxxx dichiara inequivocabilmente che «la tutela giuridica statale, come protezione ufficiale integrativa, deve sottentrare solo allora e solo in quanto non sia possibile altrimenti effettuare, per gli interessi singoli o collettivi, una vera ed armonica autodifesa preventiva o repressiva, cioè, una giustizia privata» (op. cit., p. 48); che è necessario abbandonare
A parte qualche altro lavoro che si è occupato tangenzialmente del tema63, la successiva trattazione più significativa, che ancora oggi vale come punto di partenza per lo studio dell’autotutela, è l’omonima voce enciclopedica curata dal Betti64, il quale affronta l’argomento sforzandosi di estrapolare una nozione generale dall’analisi delle numerose fattispecie rientranti in tale categoria rinvenibili nel codice civile. Egli giunge a definire l’autotutela come il «diritto di tutelare da sé i propri interessi» e nel suo studio è contenuto un primo tentativo di classificazione65 e rivisitazione sistematica dei singoli istituti codicistici che ha riscosso un duraturo successo in dottrina, dal momento che anche gli studiosi che hanno voluto discostarsene l’hanno utilizzata comunque come punto di riferimento indefettibile66, e al di là di talune modifiche e adattamenti è tuttora in uso corrente.
In seguito, sarà il lavoro monografico di Xxxx Xxxxxxxxx Geri67 a proporre una nuova e diversa sistematica dell’autotutela, dedicandole per la prima volta un’intera opera monografica, in controtendenza rispetto allo scarso interesse dimostrato sin ad allora dagli studiosi. L’Autrice rileva, infatti, come in dottrina i
«l’inutile ed erroneo mito della giustizia esclusivamente statale» (ibidem, p. 48); che «oggi il concetto della giustizia privata, sotto le più varie e proteiformi manifestazioni dell’autonomia contrattuale dei singoli e delle collettività, si pone accanto alla giustizia statale con propria sfera di competenza, e reclama la sua costituzionale autonomia di posizione e il suo riconoscimento ufficiale, in nome di quella stessa vindice cooperazione sociale, dalla quale politicamente sorge lo Stato» (ibidem, p. 53).
63 Si fa qui riferimento, in particolare, a Giorgianni, Il negozio di accertamento, Xxxxxxx, Milano, 1939.
64 Betti, voce Autotutela (diritto privato), in Enc. dir., 1959, p. 529 e ss. La medesima voce è stata in seguito aggiornata ad opera di Bianca, voce Autotutela, in Enc. dir., aggiorn., vol. IV, 2000, p. 131 e ss.
65 Cfr. infra, par. 7.
66 Si veda, ad esempio, Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., p. 86 e ss., ove – dopo aver dato atto della citata classificazione – precisa che già la distinzione tra autotutela unilaterale e consensuale proposta dal Betti «può determinare una non indifferente confusione».
67 Si fa qui riferimento, in realtà, tanto all’opera già citata, del 1971, quanto al prosieguo della stessa, edito nel 1974 quale secondo volume della precedente: Profili sistematici dell’autotutela privata, II, Xxxxxxx, Milano. Come già accennato in precedenza, l’Autrice si era posta in posizione critica rispetto al lavoro del Betti, pur tenendolo nel dovuto conto.
riferimenti all’autotutela e finanche al più generale concetto di tutela fossero imprecisi e sovente utilizzati a sproposito, dal momento che si attribuivano significati diversi a seconda del contesto e del fine perseguito68. Così, mediante un’operazione ricostruttiva effettuata, in prima battuta, in merito alle nozioni di tutela e di lesione in generale69, si perviene altresì a fornire dell’autotutela un significato più preciso e coerente con l’ordinamento giuridico in cui in ogni caso risultano iscritti i singoli istituti riconducibili a tale categoria.
Si precisa che, a fronte di un evento lesivo o pericoloso, l’ordinamento giuridico, oltre a poter riconoscere al titolare della situazione soggettiva violata o a rischio il diritto di agire in giudizio per ottenere la tutela offerta dagli organi statali a ciò preposti, che si esplicherà sul piano processuale, ha almeno altre due alternative egualmente percorribili: provvedere direttamente e d’imperio all’eliminazione della lesione, oppure attribuire al soggetto citato «il potere (rectius, diritto) di provocare il relativo superamento (c.d. tutela normativa)»70. In questo secondo caso, sorgerà sul piano sostanziale «una nuova situazione attiva e di vantaggio (diritto) diversa, peraltro, sia dal credito, perché rientrante tra le c.d. facoltà di formazione, sia dall’azione, perché attuantesi fuori dal
68 Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 9.
69 Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, al termine dell’operazione ricostruttiva giunge a definire più precisamente la tutela quale «strumento predisposto dall’ordinamento giuridico per l’eventualità che l’equilibrio stabilito dalla norma rischi di essere o sia, in concreto, compromesso da un “fatto” proveniente (…) dall’altrui sfera giuridica e che contrasti col principio di regolarità fissato dalla norma stessa, sicché si renda indispensabile procedere alla relativa conservazione o ricomposizione» (p. 29); in tale definizione è già presente in nuce il concetto di lesione accolto dall’Autrice, che ricorre «tutte le volte in cui l’interesse di un soggetto (…) ovvero la posizione complessiva che, più in generale, il soggetto stesso rivesta in uno specifico rapporto giuridico o in una diversa situazione di rilevanza di interessi, vengano pregiudicati – in quanto ne sia impedito in toto o messo in pericolo il soddisfacimento in via fisiologica ovvero rischi di esserne alterato l’equilibrio – da un “fatto” proveniente dalla sfera giuridica altrui, che, in definitiva, si esaurisca o trovi la sua causa od il suo possibile sviluppo in un comportamento (attuale o soltanto potenziale) non corrispondente all’esercizio – perché non sorretto da ovvero eccedente i limiti – di una situazione libera (diritto soggettivo) o, rispettivamente, necessitata sull’an (potestà, obbligo), ovvero non altrimenti “autorizzato”» (p. 19-20).
70 Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 32.
processo»71. L’autotutela consisterà perciò «nella difesa extraprocessuale delle situazioni soggettive private per atto unilaterale della parte interessata»72 e tale concetto varrà quale «espressione riassuntiva di singole situazioni che consentono al soggetto, il cui interesse sia stato (effettivamente) leso o (soltanto) messo in pericolo, di superare ex se le conseguenze negative di tale fatto, influendo più o meno decisamente sulla sfera giuridica di colui che si presenta, comunque, come “autore” della lesione»73.
È sicuramente apprezzabile, dunque, lo sforzo compiuto da Xxxxxxxxx Xxxx al fine di riconoscere e, in ultima istanza, restituire all’autotutela la dignità di autonomo oggetto di studio, imprescindibile per gli interpreti in quanto parte integrante dell’ordinamento. Tuttavia, talune delle conclusioni cui l’Autrice giunge, dettate anche dall’urgenza di porre un perimetro il più possibile preciso intorno a tale istituto, al fine di segnare una netta cesura rispetto alla confusione del passato, risultano oggi troppo tranchantes e in definitiva non condivisibili74.
Più moderna, da questo punto di vista, appare sicuramente l’opera di Xxxxxxx, il quale a sua volta ritiene necessario tentare di dar vita ad un nuovo inquadramento sistematico dell’autotutela75 e, dopo averne analizzato gli elementi costitutivi, i caratteri e la natura giuridica, fornisce un’innovativa definizione della categoria, più complessa ed elaborata rispetto a quelle del passato. Il fenomeno viene così ricondotto a «il potere generale di difendere
71 Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 36.
72 Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 38.
73 Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 41.
74 Si fa qui riferimento, soprattutto, all’esclusione - dalle varie sottocategorie in cui è possibile ripartire l’autotutela - di quella c.d. consensuale (cfr. ancora Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p.86- 87), nonché della sostanziale propensione per il carattere eccezionale e tipico degli istituti di autodifesa, che formerebbero perciò una sorta di elenco tassativo (cfr. ancora Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 46). Si veda, altresì, la critica che alla ricostruzione effettuata da tale Autrice è stata avanzata da Buoncristiano, in Profili della tutela civile contro i poteri privati, Cedam, Padova, 1986, p. 19 e ss..
75 Ciò malgrado l’opera di Xxxxxxxxx Xxxx venga definita «un pregevolissimo lavoro», in quanto rimasto in ogni caso un unicum nella dottrina dell’epoca: cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 3.
direttamente il proprio interesse legalmente riconosciuto e protetto, mantenendo inalterata la situazione esistente e consolidata ovvero ripristinando – nei casi consentiti dalla legge – quella anteriore alla costituzione di un determinato rapporto obbligatorio»76, per poi fornire una più dettagliata spiegazione delle singole locuzioni di cui si compone il concetto esposto.
In particolare, l’Autore precisa che con l’espressione «potere generale» si intende l’esercizio della capacità giuridica del soggetto di produrre delle modifiche nel sistema giuridico delle relazioni umane, modifiche le cui conseguenze venivano poste dall’ordinamento a carico di altro soggetti, formalmente suoi pari77. Inoltre, specifica che mediante il ricorso a strumenti di autodifesa si possono legittimamente tutelare due tipologie di situazioni: da un lato, quelle collegate a diritti reali o al possesso (e allora il potere di autotutela sarà rivolto al mantenimento dello stato di fatto esistente e consolidato contro le altrui turbative); dall’altro, quelle collegate a diritti relativi (e allora il risultato cui tende l’autotutela sarà quello di incidere sul rapporto obbligatorio sussistente tra due o più parti, modificandone o estinguendone gli effetti, con conseguente eventuale ripristino dello status quo anteriore alla stipulazione, a condizione che l’autotutela si manifesti in tali casi quale atto solo giuridico, mai materiale, e che si rispettino i limiti e le previsioni normative)78.
Gli aspetti di maggiore rottura rispetto al passato dell’opera di Xxxxxxx, tuttavia, riguardano più propriamente il carattere generale che egli riconosce all’autotutela (ammettendo così l’esistenza di mezzi di autodifesa atipici) e la peculiare operazione ricostruttiva della natura giuridica dell’istituto, su cui si tornerà estesamente nei paragrafi seguenti. Per ora, ciò che può dirsi del contributo in questione è che ha l’indiscusso merito di aprire prospettive originali
76 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 62.
77 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 65.
78 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 69-72.
e convincenti sull’autotutela, che influenzeranno gli interpreti successivi79 e che consentiranno alla categoria di adattarsi meglio ai cambiamenti giuridici, culturali e sociali sopravvenuti.
4) L’autotutela tra regola ed eccezione.
Il principale sintomo della diffidenza nutrita dal nostro ordinamento civilistico nei confronti dell’autotutela è dato, oltre che dalla penuria di letteratura specifica sull’argomento, dal fatto che per lungo tempo il carattere di eccezionalità che connoterebbe l’istituto è stato considerato una verità assiomatica e di per sé evidente, senza che gli interpreti si sforzassero di motivarla analiticamente e senza che si sviluppasse un vero e proprio dibattito sul tema.
Malgrado l’assenza (tanto di una norma che legittimi in via generale l’autotutela80, quanto) di una norma che ponga un espresso divieto di ricorrere a tale istituto nei rapporti interprivati, e a dispetto – viceversa – della nutrita serie di fattispecie, disciplinate nel codice civile e nella legislazione speciale, pacificamente qualificabili come rientranti nella suddetta categoria sistematica81, nella manualistica tradizionale82 e persino nei trattati civilistici83 l’autotutela
79 In merito agli strumenti di autodifesa privata che consentono al creditore di somme di denaro di conseguire l’esecuzione con la propria azione non giurisdizionale si veda Xxxxxxxxx, L’autotutela esecutiva, Xxxxxxx, Milano, 1984.
80 A tal proposito, si veda quanto già illustrato al par. 2.
81 Si pensi, a mero titolo esemplificativo, al potere di riscatto, alle ipotesi di recesso unilaterale, all’eccezione di inadempimento, alla legittima difesa, al patto di solve et repete, al diritto di ritenzione, alla revoca del proprio consenso ovvero di organi societari, etc.
82 Cfr. Mazzamuto (a cura di), Manuale del diritto privato, Giappichelli, Torino, 2016; Nivarra – Ricciuto - Scognamiglio, Istituzioni di diritto privato, VIII ed., Giappichelli, Torino, 2016; Bessone (a cura di), Istituzioni di diritto privato, XXX xx., Xxxxxxxxxxxx, Xxxxxx, 0000; Alpa, Manuale di diritto privato, IX ed., Xxxxxxx Kluwer - CEDAM, Assago, 2015; Bianca, Istituzioni di diritto privato, 2014, Xxxxxxx, Milano; Torrente - Xxxxxxxxxxx, op. cit.; Trimarchi, op. cit.
83 Trattato del contratto, diretto da Roppo, Vol. 5, Rimedi 2, a cura di Roppo, Xxxxxxx, Milano, 2006;.Xxxxxxxxx Xxxx – Busnelli - Ferrucci, Artt. 2900-2969, in Commentario cod. civ., Libro VI: della tutela dei diritti, II ed., Utet, Torino, 1980; Di Majo, op. cit., 1993; Trattato di diritto
viene solitamente liquidata rimarcando l’esclusione della possibilità per i singoli soggetti giuridici di porre in essere autonomamente delle azioni di protezione dei propri interessi idonee ad avere effetti sulla sfera giuridica altrui.
Una simile apodittica affermazione serve, usualmente, alla dottrina per consolidare il monopolio statale sulla giustizia, rimarcando il dovere, per i singoli individui, di rivolgersi agli appositi organi giurisdizionali per la tutela civile dei loro diritti, salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente prevista dalla legge la possibilità di agire in prima persona per ottenere il medesimo risultato. A mero titolo esemplificativo, si richiama la posizione assunta in proposito da Xxxxxxxxx Xxxx nell’opera monografica sopra citata, nella quale in un primo momento pare ammettere quale conclusione del proprio ragionamento la possibilità che i caratteri propri dell’autotutela da lei stessa elaborati siano riscontrabili «anche in certe ipotesi non specificamente previste ma qualificabili sulla base di disposizioni sostanzialmente di ordine più generale»84; salvo poi battere in ritirata prima di dover affrontare le conseguenze di tale affermazione, dichiarando che, in mancanza di una norma legittimatrice onnicomprensiva, non sarebbe possibile ritenere sussistente un potere generale e unitario di autotutela immanente all’ordinamento, e rimarcando viceversa tipicità ed eccezionalità delle singole fattispecie normativamente previste85.
Tuttavia, ove si rifletta sulla circostanza per cui la vera ratio posta alla base di questo genere di ragionamenti è, di fatto, il mero timore che un’eccessiva diffusione dei mezzi di autotutela possa costituire una minaccia alla preminenza della tutela processuale dei diritti, senza che dunque ostino a una diversa soluzione motivazioni di ordine sistematico o giuridico, ma solo di opportunità,
privato, diretto da Xxxxxx Xxxxxxxx, La China, Tutela dei diritti: tomo primo, II ed., Utet, Torino, 1997.
84 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 41.
85 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 46.
diventa possibile prendere in seria considerazione l’ipotesi di modificare l’impostazione tradizionale.
Così ha fatto la maggior parte della dottrina più recente86, che ha cominciato ad ammettere forme di tutela innominate o atipiche, in parte a ciò indotta da ragioni altrettanto contingenti (quali quelle già accennate, riguardanti la crescita dei costi della giustizia, l’incertezza e la notevole durata delle tempistiche necessarie per ottenere l’intervento statale, la sempre maggiore difficoltà per gli operatori del diritto di porre in esecuzione i provvedimenti giudiziari e ottenere risultati in grado di ristabilire efficacemente l’equilibrio violato, in sintesi la crisi che sta attraversando il sistema giudiziario in senso ampio), in parte sull’onda del ripensamento generalizzato dell’apparato rimediale che sta sempre più impegnando gli studiosi di diritto privato al dichiarato fine di reperire strumenti di tutela più duttili, in grado di rispondere a nuovi bisogni, e diversi da quelli tradizionali, rivelatisi invece poco efficienti87.
I percorsi argomentativi seguiti allo scopo di ammettere l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di fattispecie di autotutela non previamente inquadrate e tipizzate dal diritto positivo, sono stati i più diversi.
Partendo dal presupposto che sia più semplice giustificare le ipotesi di autotutela consistenti in comportamenti di resistenza, meramente passivi,
86 Si fa riferimento, ovviamente, ai già richiamati Xxxxxxx, op. cit., p. 42 e ss. (il quale mediante un’analisi ragionata delle diverse norme che disciplinano singole fattispecie di autotutela deduce un principio generale di liceità, su cui v. più estesamente infra); Bianca, Autotutela (voce) cit., 2000, p. 134, il quale tuttavia si limita ad ammettere la possibilità di procedere a un’interpretazione analogica invece di spingersi ad affermare la sussistenza di un vero e proprio principio generale di autotutela nell’ordinamento civilistico; si veda altresì l’originale conclusione proposta da Xxxxxxxx, il quale però rivolge il focus della propria opera all’esercizio degli strumenti di autotutela nel diverso campo del diritto del lavoro: cfr. Xxxxxxxx, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Giappichelli, Torino, 2004, p. 212 e ss. Tuttavia, il vero precursore di tale prospettiva di apertura (ma pur sempre regolata) all’autotutela è stato in realtà Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit..
87 Cfr., ex multis, Mazzamuto (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo,
Giappichelli, Torino, 2002; Gitti – Villa (a cura di), op. cit., 2008; Volpe, op. cit., 2004.
piuttosto che casi di autotutela attiva, si è affermato88 che – anche nei casi in cui manchi l’inadempimento di controparte e risulti quindi non applicabile l’art. 1460 c.c., che altrimenti rappresenta la fattispecie dall’applicazione più generalizzata – sia sempre possibile invocare la sopravvenuta e incolpevole inesigibilità89 della prestazione; nonché, nel caso in cui l’astensione da una certa condotta sia riconducibile a motivi etici o religiosi, in forza del principio di buona fede in executivis, si è sostenuto che sia legittimo addurre la sussistenza di un diritto di obiezione di coscienza anche al di là dei casi in cui è espressamente previsto dalla legge90. Quest’ultima prospettiva interpretativa, in particolare, potrebbe evidenziare dei risvolti interessanti nel settore giuslavoristico ove,
88 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 214 e ss.
89 Si fa qui riferimento alla c.d. «teoria dell'inesigibilità della prestazione», che trova le proprie origini nell'ordinamento giuridico tedesco e che prende avvio dal dibattito sull'imputabilità dell'inadempimento. La dottrina, infatti, pur tra molte incertezze, è passata da un'accezione
«materiale» a una «ideale» di inesigibilità, conferendo rilevanza giuridica alle sopravvenienze non patrimoniali quali eventi che, in forza di un bilanciamento d’interessi, consentono a uno dei contraenti di reagire, nella fase esecutiva di un rapporto obbligatorio, a squilibri non già economici ma riconducibili ad alterazioni della sfera esistenziale del debitore. L’inadempimento che ne consegue è in tal modo “scriminato”, pur non versando né in un’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione né in un’ipotesi di stato di necessità; l'inesigibilità si caratterizza, piuttosto, come una vicenda modificativa dell’obbligazione che ne determina l'incoercibilità, pur consentendo un eventuale adempimento spontaneo, modulando in modo più equo il rapporto. Cfr. Clarizia, Sopravvenienze non patrimoniali e inesigibilità nelle obbligazioni, XXX, Xxxxxx, 0000. Anche in tal caso, l’espediente ricostruttivo prediletto dagli interpreti è stato quello di valorizzare la portata del principio della buona fede contrattuale come fonte di obblighi reciproci a carico del creditore e del debitore, ex artt. 1175 e 1375 c.c. Uno dei settori in cui tale categoria concettuale trova maggiore applicazione è proprio quello del diritto del lavoro, quale forma di tutela ulteriore per la persona del lavoratore, come noto particolarmente implicata nell’esecuzione del rapporto. Così, ad esempio, ove il lavoratore sia affetto da una malattia non abbastanza grave da integrare l’ipotesi di impossibilità (fisica) di adempimento, si ritiene generalmente che la relativa prestazione sia divenuta inesigibile da parte del datore di lavoro, che ove invece obbligasse il lavoratore a renderla violerebbe non solo il principio di buona fede ma altresì l’art. 2087 c.c. Su questo specifico profilo si veda Ichino, Il contratto di lavoro, Cicu – Messineo – Mengoni, Trattato di diritto civile e commerciale, Xxxxxxx, Milano, vol. I 2000, vol. II e III, 2003, cap. 13, par. 365.
90 Nel nostro ordinamento, una volta venuto meno il servizio militare obbligatorio (e a parte il
riferimento all’obiezione di coscienza che è rimasto nel Codice dell’ordinamento militare, di cui al D. Lgs. 15.3.2010, n. 66), casi di obiezione di coscienza sono previsti in materia di sperimentazione animale (dalla Legge 12.10.1993, n. 413) e, in ambito medico, nei casi di interruzione volontaria di gravidanza (dalla Legge 22.5.1978, n. 194).
come noto, la persona del lavoratore in generale e il principio della dignità umana più specificamente rivestono una notevole importanza nei bilanciamenti d’interessi.
Si è altresì tentato di enucleare uno spazio di liceità assicurato all’autotutela ragionando a contrario dalle norme penalistiche (in particolare quelle, già illustrate in precedenza, di cui agli artt. 52, 391 e 392 c.p., la prima di portata generale mentre le ultime due definiscono e sanzionano ipotesi specifiche di reato91), sulla base del famoso brocardo in base al quale tutto ciò che non è espressamente vietato deve essere considerato consentito92, almeno fino a prova contraria. Seguendo il suddetto percorso argomentativo, «chi intenda tutelare il proprio diritto, attraverso una azione (violenta e) diretta, risponde del reato di ragion fattasi anche qualora il diritto sia fondato, salvo che per il caso in cui manchi la possibilità di ricorrere utilmente all’autorità giudiziaria»93. In questo modo, si troverebbe una legittimazione anche per quei comportamenti (reattivi o preventivi che siano) che non consistono in una mera omissione, bensì si concretizzano in azioni incidenti sulla sfera giuridica altrui; e anche questo risultato sarebbe della massima importanza nell’ambito del diritto del lavoro, in ragione dell’inevitabile coinvolgimento di vari aspetti della persona umana, valore protetto dalla nostra Costituzione in diverse accezioni.
Secondo la lettura ora esposta, l’azione diretta del singolo individuo a tutela delle proprie ragioni dovrebbe considerarsi ammessa dall’ordinamento in tutti
91 Si tratta, rispettivamente, della scriminante della legittima difesa e dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose ovvero sulle persone; questi ultimi, in particolare, costituiscono ipotesi di reato contro l’amministrazione della giustizia, mirando a evitare che il privato cittadino si faccia ragione da sé in modo arbitrario e violento, compromettendo così la pubblica pace. Tali norme, tuttavia, non introducono un divieto generale dell’autotutela privata, intendono solo delimitarne esternamente l’ambito di operatività: cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 20 e ss.
92 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 224. Nello stesso senso e con identica argomentazione si veda Xxxxxxx, op. cit., p. 25-26.
93 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 219.
quei casi in cui: vi sia un’offesa in corso da parte di un altro soggetto, il ricorso all’autorità giudiziaria sia impossibile o comunque molto meno utile dell’azione diretta, si rispetti il principio di proporzionalità tra offesa e reazione, non ci sia altro modo di impedire la lesione e «strutturalmente l’ordinamento non sia in grado di garantire la tutela dei beni fondamentali contro il pericolo di una loro compromissione derivante dall’azione di un terzo»94.
Infine, si è contestato che il combinato disposto di cui agli articoli 2907 c.c. e 101 e 102 Cost. possa implicare l’interdizione per i privati di avvalersi di forme di autodifesa alternative all’agire in giudizio per ottenere la tutela delle proprie ragioni, salvo che nelle ipotesi in cui è espressamente consentito dalla legge. Ciò, secondo un Autore95, sarebbe frutto di un equivoco creato dall’assimilazione dell’autotutela a una vera e propria giurisdizione privata, in grado di svolgere funzioni di accertamento e attuazione dei diritti, cosa che invece non è e non pretende nemmeno di essere, ponendosi solo quale strumento a disposizione dei singoli per proteggere senza indugio il proprio interesse dal pericolo o da un attuale lesione96.
94 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 227. L’Autore prosegue affermando che «tale conclusione appare già acquisita per i casi in cui sussista in concreto un obbligo di non fare, tutte le volte che sia in gioco una lesione ad un diritto costituzionalmente garantito, non risarcibile se non per equivalente: resta ora da vedere in che misura essa possa essere estesa anche agli obblighi di pati, quando una prestazione tardiva sarebbe priva di interesse per il creditore, ovvero, tutte le volte che dall’obbligazione derivi il credito ad un determinato comportamento, quando la minaccia di un diverso agire si presenti come non più rimediabile – come tipicamente nel rapporto di lavoro per tutte le obbligazioni che riguardano la tutela della persona del lavoratore» (corsivo mio).
95 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 26 e ss.
96 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 30, in particolare il passaggio dove l’Autore per spiegare l’equivoco in cui è incorsa gran parte della dottrina precedente dichiara che «in altre parole, il concetto di autotutela, esattamente inteso come sinonimo di autodifesa, è stato poi tradotto in autogiustizia e quindi in autogiurisdizione». Su tale punto è d’accordo anche Rappazzo, op. cit., p. 12-13, ove afferma che «può dirsi un punto acquisito un punto essenziale: l’autotutela non è atto giurisdizionale né evita la giurisdizione», pur concludendo per la perdurante eccezionalità dell’autotutela, in quanto «l’esercizio di tale facoltà deve muoversi lungo i binari predeterminati dalla legge e dalla clausola generale di buona fede» Eppure, l’Autore si rende conto che tali binari possono condurre a risultati innovativi, ulteriori rispetto a quelli predeterminati dal diritto
Se dunque sembra difficile ritenere che nel nostro ordinamento sussista un principio generale di autotutela in grado di giustificare qualsiasi azione lesiva della sfera giuridica altrui solo in quanto motivata dall’intento di difendere un proprio interesse, nondimeno dalle argomentazioni sinora esposte appare manifesto il fatto che il sistema giuridico debba quotidianamente fare i conti con un numero sempre crescente di episodi atipici di autotutela, i quali, malgrado non siano esplicitamente contemplati da una norma, perseguono un fine degno di rilevanza giuridica e meritevole di tutela, e possano pertanto essere considerati legittimi.
5) Le caratteristiche dell’autotutela.
Dopo aver tentato di delineare il perimetro di una nozione quanto più possibile univoca di autotutela, bisogna ora dar conto – almeno a grandi linee – dei suoi tratti caratterizzanti, in merito ai quali le opinioni dottrinali e giurisprudenziali continuano a divergere.
5.1) La natura giuridica.
In primo luogo, ci si è interrogati sulla natura giuridica dell’autotutela privata. Vi è chi97 ha sostenuto che apparirebbe calzante la qualificazione in termini di
positivo: «è verso questa “nuova frontiera” che, sia pure con molta cautela, si muove la più recente giurisprudenza della Corte Suprema» (ibidem, p. 15).
97 Si intende qui richiamare, in particolare, la posizione in proposito di Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., p.
60 e ss., la quale ha precisato che «la già sottolineata piena coincidenza, sotto il profilo teleologico, tra tutela diretta e tutela giurisdizionale giustifica la natura potestativa dei diritti di autotutela, sia che questi (analogamente al diritto potestativo d’azione) tendano all’affermazione (benché sul piano sostanziale) di un diritto o di altra situazione soggettiva, sia che, invece, (in via di eccezione, ma sempre sul medesimo piano) siano diretti a respingere una richiesta altrui». Tale ricostruzione è stata adottata altresì da Rappazzo, op. cit., p. 16 e ss.
diritto potestativo98, motivando tale opzione interpretativa mediante il richiamo dei caratteri di unilateralità della tutela e di impossibilità per il soggetto passivo di opporsi in modo efficace all’esercizio dell’autodifesa.
In effetti, il meccanismo proprio dell’esercizio dei diritti potestativi risulta calzante in tutte quelle ipotesi in cui al ricorso a una misura di autotutela da parte di un soggetto corrisponda la soggezione della controparte (vale a dire chi ha in qualche modo reso necessaria l’autodifesa), la quale non può quindi sottrarsi a provvedimenti (presi in diretta conseguenza di un suo comportamento illecito o, in ogni caso, non iure) che incidono direttamente la sua sfera giuridica, alterandola99.
Tuttavia, anche solo passando in rassegna i numerosi istituti riconducibili all’autotutela previsti dal codice civile e dalle leggi speciali, risulta evidente che il modello di funzionamento del diritto potestativo non è l’unico rinvenibile, mal adattandosi in particolare a tutte quelle ipotesi in cui la condotta in autodifesa si concretizza in un atto di mero arginamento del comportamento aggressivo altrui, senza per questo arrecare un danno o comunque provocare una modificazione diretta nella situazione giuridica dell’altro soggetto100.
98 I diritti potestativi, nel nostro ordinamento, rappresentano una categoria di diritti soggettivi e si caratterizzano per il fatto di attribuire al loro titolare il potere di costituire, modificare o estinguere situazioni soggettive correlate a rapporti con uno o più soggetti, senza che questi ultimi possano opporsi o debbano attivarsi per prestare la propria cooperazione per l’attuazione del citato diritto (come avviene, invece, nel caso dei diritti relativi in generale). Quali figure esemplificative di diritti potestativi si possono richiamare il diritto di ciascuno dei comproprietari di un bene indiviso appartenente a una pluralità di soggetti di chiedere e ottenerne la divisione (ex art. 1111 c.c.), ovvero il diritto di recesso unilaterale del committente da un contratto di appalto (ex art. 1671 c.c.), ovvero ancora la libera revocabilità del mandato, salvo i casi particolari previsti dall’art. 1723 c.c. stesso. Sul tema si vedano altresì Carpino, voce Diritti potestativi, in Enc. Giur., XI, 1988 e Torrente - Xxxxxxxxxxx., op. cit., p.80.
99 Tra i molti esempi possibili, si richiamano ovviamente la legittima difesa (ex artt. 2044 c.c. e
52 c.p.), la vendita e l’acquisto del bene per autorità del creditore (ex artt. 1515 e 1516 c.c.), l’uccisione dei volatili altrui che danneggiano il fondo (ex art. 638 c.c.), il taglio delle radici e dei rami protesi (ex art. 896 c.c.), etc.
100 Si richiamano, tra gli altri, l’eccezione di inadempimento (ex art. 1460 c.c.), la sospensione dell’esecuzione della prestazione per mutate condizioni patrimoniali dell’altro contraente (ex art.
Pertanto, se questa similitudine tra autotutela e diritto potestativo può fornire spunti suggestivi non è possibile affermare una vera e propria riconduzione della prima al secondo; come è stato sottolineato101, le due figure differiscono altresì per i risultati ottenibili e per gli obiettivi prefissati. Da un lato, se l’effetto tipico del diritto potestativo è, in definitiva, quello di consentire l’imposizione di un soggetto giuridico su di un altro, intervenendo sulla sfera giuridica di quest’ultimo e apportandovi dei cambiamenti, l’esito dell’autotutela è quello di proteggere e mantenere inalterata la situazione giuridica del soggetto agente avverso le minacce di modificazioni provenienti dall’esterno; dall’altro lato, se il fine proprio dell’esercizio del diritto potestativo è quello di porre in essere il relativo potere e soddisfare così direttamente chi ne è titolare, nel caso dell’autotutela si prescinde dal soddisfacimento e dall’attuazione delle pretese dell’agente, risolvendosi piuttosto nella salvaguardia dello status quo.
D’altro canto, altrettanto suggestiva pur se non pienamente condivisibile senza alcune precisazioni è l’interpretazione di chi102 ha voluto assimilare l’autotutela a una surrettizia forma di sanzione, o meglio l’ha intesa come un insieme di poteri derivanti da norme di tipo sanzionatorio; tali poteri, pertanto, sarebbero consentiti solo ove e in quanto espressamente tipizzati dal diritto positivo e non sarebbero suscettibili di interpretazione estensiva analogica.
Il recupero del concetto di sanzione è sicuramente calzante nella misura in cui in tale categoria si ricomprendano alcuni strumenti di conservazione del sistema
1461 c.c.), la ritenzione dell’usufruttuario per imposte, pesi e passività gravanti sul nudo proprietario (ex art. 1011 c.c.), etc. Inoltre, aderire alla tesi del diritto potestativo implicherebbe altresì negare che possano sussistere fattispecie di autotutela in mancanza di una previsione espressa, di origine legale o negoziale, mentre l’opzione ricostruttiva che pare più convincente è quella secondo cui esista invece «l’autotutela libera, non regolata da alcuna norma, che vive nello spazio giuridico, come un animale selvatico che non sia ancora stato scoperto e condotto in cattività» (cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 204-205), optando così per l’ammissibilità di comportamenti atipici in virtù del loro intento di autotutela.
101 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 74.
102 Cfr. Betti, op. cit., p. 531.
(quale ordinamento giuridico nel suo complesso) caratterizzati dal fatto di costituire una qualche forma di reazione o di risposta ad una violazione dell’equilibrio del sistema stesso103. Anche le singole fattispecie in cui si esplica il potere di autotutela, infatti, possono considerarsi accomunate dal fatto di essere volte al rafforzamento del c.d. ordine costituito104 e, quando si renda necessario, a porre rimedio alle conseguenze dell’inosservanza delle norme che costituiscono il fondamento dell’ordinamento giuridico, consentendo agli individui di limitare gli effetti dannosi di un illecito altrui105 ovvero di tutelare i propri interessi dalle minacce esterne106.
Tuttavia, pur avendo il pregio di porre in luce la comunanza di scopo che presentano l’autotutela e la sanzione giuridica, tale impostazione estende alla prima caratteristiche proprie della seconda che, in realtà, non sono rinvenibili nelle ipotesi di autodifesa. Le sanzioni giuridiche, infatti, presuppongono la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa nonché dell’imputabilità107 in capo al soggetto che ha posto in essere una condotta
103 Nel tentativo di afferrare il significato e il ruolo del termine «sanzione» all’interno della teoria generale del diritto e del nostro ordinamento giuridico è imprescindibile partire da Bobbio, voce Sanzione, in Nov. Dig. It., XVI, 1969, p. 530 e ss.
104 Ordine costituito da intendersi nel senso suggerito da Torrente - Xxxxxxxxxxx, op. cit., p. 16, quale insieme degli interessi e dei valori condivisi da una collettività che l’ordinamento giuridico tende a salvaguardare mediante la predisposizione di un apparato coercitivo, ovvero mediante l’attribuzione ai singoli del potere di autotutela.
105 L’esecuzione coattiva per inadempimento del compratore o del venditore, a difesa del creditore dell’obbligazione, ex artt. 1515 e 1516 c.c., sembra essere il caso più paradigmatico, ma ad esempio anche l’azione surrogatoria ex art. 2900 c.c. svolge la medesima funzione.
106 Classiche ipotesi di autotutela che hanno tale manifesto scopo sono la sospensione dell’esecuzione della prestazione dovuta in caso di mutamento nella condizione patrimoniale della controparte (ex art. 1461 c.c.) ovvero la chiusura del fondo da parte del proprietario che intende impedirne l’acceso ai terzi (ex art. 841 c.c.).
107 Sul tema dell’irrilevanza dell’elemento psicologico cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 23-24, nota n. 45; per quanto riguarda la capacità legale si vedano Scognamiglio R., Responsabilità civile e danno, Giappichelli, Torino, 2010. L’art. 2046 c.c., rubricato «Imputabilità del fatto dannoso», subordina la risarcibilità del danno extracontrattuale alla sussistenza dell’imputabilità, ossia alla capacità di intendere e di volere dell’autore del fatto lesivo, non rilevando invece la sussistenza della capacità legale. Quest’ultima è richiesta in materia di obbligazioni, mentre, in caso di fatto illecito, l’ordinamento ritiene che anche un minore, purché capace di intendere e di
contraria ai dettami dell’ordinamento; inoltre, la sanzione trova la propria origine unicamente in una norma espressa108 e la sua comminazione spetta, ordinariamente, agli organi giurisdizionali dello Stato, costituendo per questi ultimi un vero e proprio atto necessitato, una volta accertata la violazione di una norma109, derivando da norme imperative e non da norme permissive o facoltative.
L’autotutela, invece, richiede elementi diversi da quelli sinora citati: difatti, non presuppone affatto la presenza di un elemento psicologico particolare in capo al soggetto che ha realizzato la minaccia o la lesione cui l’atto di autodifesa risponde, e nemmeno la stessa capacità legale di costui, ben potendosi configurare invece legittime forme di autotutela nei confronti di un soggetto minore ovvero affetto da patologia mentale (ciò che rileva, infatti, è l’elemento oggettivo dato dal pericolo o dalla realizzazione di un’offesa ingiusta, nel senso di non iure, in quanto non legittimata o giustificata da alcuna norma giuridica)110. Per di più, come già indicato in precedenza, l’esercizio dell’autodifesa costituisce sempre e solo una possibilità, per il singolo individuo,
volere, sia in grado di comprendere le conseguenze dannose che da un certo comportamento possono derivare e, per converso, che un maggiore d’età, anche se legalmente capace, può non essere in condizione di capire il significato delle proprie azioni e di autodeterminarsi. Per quanto riguarda, invece, le regole che riguardano l’imputabilità all’interno della disciplina della responsabilità contrattuale, si rinvia a quanto disposto dagli artt. 1176 e 1218 c.c.: vi sarà inadempimento imputabile quando non sussista un’impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore (cfr. Iorio, Ritardo nell’adempimento e risoluzione del contratto, Xxxxxxx, Milano, 2012, p. 35 e ss.).
108 Bobbio, a tal proposito (riprendendo la distinzione già proposta da Xxxxxx, in Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1967, p. 70), distingue tra norme giuridiche di primo e di secondo grado, riconducendo a queste ultime la previsione di eventuali sanzioni:
«l’ordinamento giuridico può essere considerato come un sistema normativo complesso, come un sistema in cui non vi sono soltanto norme regolatrici della condotta dei consociati o norme di primo grado, ma vi sono anche norme di secondo grado, che regolano il modo di produrre e il modo di far rispettare le norme di primo grado», cfr. op. cit., p. 538. La medesima distinzione è richiamata anche da Di Majo, op. cit., 1993, p. 59.
109 In merito alle critiche mosse all’impostazione del Betti si veda ancora, in particolare, Xxxxxxx, op. cit., p. 75 e ss.
110 Cfr. Scognamiglio R., voce Responsabilità civile, in Nov. Dig. It., XV, 1968, p. 654.
e giammai un obbligo: ciò, logicamente, si collega al fatto che l’autotutela costituisce solo uno dei diversi mezzi predisposti dall’ordinamento per ricomporre l’equilibrio infranto dalla condotta di un soggetto, residuando in ogni caso la possibilità, per la persona lesa o messa in pericolo dalla suddetta condotta, di agire in giudizio per ottenere tutela dagli organi statali a ciò preposti111.
Quanto alla natura giuridica dell’autotutela, pare più appropriato allora rifarsi alle conclusioni offerte sul tema da un altro Autore112, il quale – ben conscio delle difficoltà ricostruttive sinora esposte – ritiene che debba riconoscersi all’istituto in esame una natura complessa, in cui possono cogliersi almeno tre profili distinti. Vi è, in primo luogo, una componente reattiva rispetto alla lesione o all’esposizione al pericolo di un interesse giuridicamente rilevante, che mira a riaffermare quest’ultimo e a disinnescare gli effetti dannosi di una condotta altrui, conferendo così all’autotutela un profilo di natura sostanziale quale sanzione privata. In secondo luogo, non si può negare che, conferendo almeno in astratto a un individuo la possibilità di incidere direttamente sulla sfera giuridica di altri individui, i quali non possono opporvisi, l’autotutela abbia altresì natura di potere, almeno in parte. In terzo e ultimo luogo, non configurandosi mai come atto necessitato ma sempre quale strumento ulteriore a favore dei singoli, applicabile ai rapporti tra pari e non a quelli caratterizzati dalla supremazia di una parte sull’altra, l’autotutela partecipa anche della natura delle facoltà113.
111 A proposito della facoltatività del potere di autotutela, Rappazzo, op. cit., p. 19, precisa non solo che non vi sono vincoli che obblighino il soggetto a ricorrere all’autotutela, potendo egli sempre, in alternativa, rivolgersi subito al giudice, ma anche che, viceversa, il mancato esercizio del potere di autotutela non può comportare delle conseguenze negative per il soggetto che vi sarebbe autorizzato; in tal senso, la decisione di non avvalersi degli istituti di autodifesa non giustifica eventuali lamentele da parte del soggetto passivo circa la scelta tra i vari strumenti a disposizione dell’agente, né tantomeno richieste di risarcimento o analoghe iniziative.
112 Cfr. ancora Xxxxxxx, op. cit., p. 82.
113 Ibidem.
Se l’impostazione ora riportata presta il fianco a delle critiche, in quanto non riesce a fornire una risposta univoca alla questione avente ad oggetto la natura giuridica dell’autotutela, bisogna comunque riconoscerle il merito di aver messo in luce la dimensione problematica, dinamica e in un certo qual modo caleidoscopica della suddetta categoria, che cambia aspetto a seconda del punto di vista adottato dall’interprete e dal concreto contesto in cui vi si fa ricorso114.
Una volta enucleate le differenze che impediscono di assimilare l’autotutela a figure giuridiche analoghe ma distinte, si può ora tentare di individuarne i presupposti, vale a dire gli elementi posti alla base (e dunque sempre ricorrenti) delle numerose ed eterogenee fattispecie riconducibili a tale categoria e previste dal codice civile e dalle leggi speciali.
5.2) Presupposti e limiti.
Prendendo le mosse dalla concezione dell’autotutela or ora illustrata, che la inscrive tra i mezzi che l’ordinamento predispone e utilizza al fine di rafforzare e riaffermare se stesso ogniqualvolta ne venga messa in dubbio l’autorità, si evince immediatamente che ciò che ne costituisce l’elemento caratteristico qualificante115 è la lesione ovvero l’esposizione al pericolo di un bene giuridicamente qualificato, provocata da un agente esterno. Anche l’autotutela, in fondo, altro non è che una forma particolare di tutela, uno dei compiti primari dell’ordinamento giuridico116, e in quanto tale mira a garantire efficacia alle norme che ne costituiscono l’impianto organizzativo e a potenziarne il momento applicativo contro le deviazioni e le infrazioni compiute dai consociati117.
114 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 195.
115 Chi usa tale terminologia è ancora Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 18.
116 Cfr. ancora Di Majo, op. cit., p. 1.
117 È sempre Bobbio, op. cit., p. 530, a spiegare che «l’ordinamento giuridico è tra i sistemi normativi uno di quelli che per la complessità della sua funzione, che consiste nell’organizzare la
Insieme alle norme sanzionatorie, le norme che prevedono la possibilità di ricorrere all’autotutela, insomma, partecipano della funzione del diritto come
«specifica regola sociale»118, contribuendo a salvaguardare la convivenza civile degli individui che compongono la collettività di riferimento e a coordinare gli interessi privati con quelli dello Stato.
Affinché si assista al concreto operare dei meccanismi di autotutela, tuttavia, è indispensabile il confronto con una condotta posta in essere in modo mediato o immediato da un soggetto che sia in qualche maniera pregiudizievole per gli interessi di un altro individuo, il quale sarà allora legittimato a ricorrere a mezzi di autodifesa; oppure, deve sussistere perlomeno un fatto giuridico che, pur riguardando principalmente la sfera giuridica di un certo soggetto, colpisca altresì negativamente la posizione di un terzo119. In taluni casi, tuttavia, basta persino un evento di origine naturale120 (che, per esempio, può aver creato per un soggetto le condizioni di cui all’art. 2045 c.c., in tema di stato di necessità) a giustificare il ricorso a misure di autodifesa.
Al di là dell’intensità del collegamento esistente tra l’evento potenzialmente dannoso e il comportamento di che ne è, in un modo o nell’altro, l’autore o il
vita di gruppo al fine di permetterne la sopravvivenza e la continuità, consta di norme la cui osservanza è generalmente penosa ed è spesso messa in questione».
118 Cfr. Xxxxxx, op. cit., p. 68.
119 Così si esprime, ad esempio, Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., p. 17.
120 Una parte minoritaria della dottrina, in realtà (quali Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 17 e Bianca, op. cit., 2000, p. 132) tendono a escludere che nel concetto di tutela rientrino altresì le misure di protezione contro fatti lesivi non causati dall’uomo, nemmeno in via mediata. Nondimeno, vi sono diversi argomenti che inducono a non condividere tale esclusione, quali la pacifica possibilità di avvalersi della legittima difesa (di cui all’art. 2044 c.c.) anche per difendersi dal fatto della persona non imputabile, dell’animale o perfino della cosa, nonché la già accennata irrilevanza dell’elemento psicologico proprio dell’autore del fatto lesivo (cfr. ancora Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654). Di questo secondo parare è anche Xxxxxxx, op. cit., p. 10. Quali esempi paradigmatici di strumenti di autotutela ontologicamente pensati contro «eventi naturali» si possono citare gli articoli 924 e 925 c.c. (rispettivamente riguardanti la fuga di sciami di api o di animali mansuefatti).
propulsore, è opportuno rimarcare che non è necessario, invece, che la lesione121 si sia effettivamente realizzata per l’attivazione del potere di autotutela, ben potendo quest’ultimo essere esercitato anche da chi intende solo cautelarsi contro un possibile danno futuro122. Sarà, quindi, sufficiente il mero pericolo dell’offesa, vale a dire la concreta possibilità che un determinato fatto comprometta il mantenimento di una situazione giuridica protetta ovvero l’acquisto di un’utilità pacificamente spettante, per legittimare l’utilizzo delle ipotesi di autodifesa. Anche in forza di ciò, a maggior ragione si comprende come mai non sia necessario il verificarsi di un danno e come ciò non contrasti con quanto sinora affermato, in quanto ben vi può essere una compiuta lesione pur senza che si crei un pregiudizio economicamente valutabile123 (che andrebbe in ogni caso risarcito secondo le regole proprie della responsabilità civile).
121 Circa il significato da attribuire al concetto di «lesione rilevante», pare esaustivo quanto indicato da Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 19-20, ove lo collega a «tutte le volte in cui l’interesse di un soggetto (…) ovvero la posizione complessiva che, più in generale, il soggetto stesso riveste in uno specifico rapporto giuridico o in una diversa situazione di rilevanza di interessi, vengano pregiudicati – in quanto ne sia impedito in toto o messo in pericolo il soddisfacimento in via fisiologica ovvero rischi di esserne alterato l’equilibrio – da un «fatto» proveniente dalla sfera giuridica altrui, che, in definitiva, si esaurisca o trovi la sua causa od il suo possibile sviluppo in un comportamento (attuale o soltanto possibile) non corrispondente all’esercizio – perché non sorretto da ovvero eccedente i limiti – di una situazione libera (diritto soggettivo) o, rispettivamente, necessitata sull’an (potestà, obbligo), ovvero non altrimenti
«autorizzato»; sia, poi, che l’autore di questo assuma, rispetto alla situazione lesa o messa in pericolo, la posizione di controparte, sia che si presenti, invece, come assolutamente estraneo (terzo)».
122 Tra i numerosi strumenti di autotutela con spiccata funzione preventiva rispetto a una lesione non ancora occorsa si possono citare il diritto di ritenzione (si veda ad esempio la previsione dell’art. 748 c.c.: il coerede che conferisce un immobile in natura può ritenerne il possesso sino all’effettivo rimborso delle somme dovute dagli altri coeredi per le spese e i miglioramenti), la possibilità di sospendere il pagamento del prezzo per il compratore di un bene soggetto a pericolo di rivendica da parte di terzi (ex art. 1481 c.c.), o anche l’eccezione di inadempimento, di cui all’art. 1460 c.c., e la possibilità di sospendere l’esecuzione della propria prestazione a fronte di un mutamento nelle condizioni patrimoniali del coobbligato che mettano a rischio l’adempimento di quest’ultimo, ex art. 1461 c.c.
123 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 24. A tale ultimo proposito, tuttavia, Xxxxxxx, op. cit., p. 10, precisa che, pur in mancanza di danno, l’interesse deve essere leso almeno sotto il profilo del suo possibile soddisfacimento o comunque che sia ostacolata la pretesa che ne scaturisce.
In ogni caso, la lesione può essere causata da un’altrui condotta attiva (ad esempio, un’azione violenta su un bene) ovvero passiva (ad esempio l’inadempimento o l’adempimento parziale di una propria obbligazione, che costituisce anche il caso più frequente nella prassi). Inoltre, l’offesa o la minaccia di lesione, secondo la maggior parte della dottrina124, devono possedere il carattere dell’attualità125, vale a dire devono essere in atto o almeno oggettivamente incombenti, nonché devono assumere dei contorni specifici.
Infine, la lesione contro cui si può reagire in via di autotutela non dev’essere in alcun modo giustificata e pertanto concessa dall’ordinamento: non si deve, cioè, trovare dinanzi a un’ipotesi di c.d. «atto lecito dannoso», categoria di origine dottrinale dagli incerti confini che mira a identificare quelle fattispecie126 in cui il legislatore ha effettuato un peculiare bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco, consentendo eccezionalmente il compimento di un’azione produttiva di un danno nei confronti dei terzi ma imponendo il pagamento, da parte dell’agente, quantomeno di un indennizzo liquidato in via equitativa se non proprio di un risarcimento integrale del danno127, in modo da ridurre il più
124 Di opposto avviso, dunque favorevole all’esercizio dell’autotutela anche in assenza di un pericolo imminente o di una lesione in corso, è il Betti, op. cit., p. 529, che ammette invece un’autodifesa attiva di carattere anticipato e prodromico al verificarsi dell’offesa.
125 La giurisprudenza, soprattutto di matrice penalistica in tema di legittima difesa ex art. 52 c.p., ha avuto modo nel tempo di precisare il concetto di pericolo attuale, che può aversi solo in relazione a un preciso comportamento dell’antagonista, indicativo di un’offesa ingiusta in termini di concretezza ed imminenza, richiedente una pronta reazione difensiva: cfr., ex multis, Cass., sez. I penale, 22.10.2015, n. 47177.
126 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 20-21, nota n. 44. Si ritiene che possano farsi rientrare in tale categoria le ipotesi in cui il proprietario di un fondo non può negarne l’accesso a terzi e deve subirne le eventuali conseguenze negative (ex artt. 842 e 843 c.c., ovvero ex artt. 924 e 925 c.c.), il caso in cui colui che ha effettuato una proposta contrattuale la revochi con atto unilaterale recettizio (ex art. 1328 c.c.) o, ancora, il caso in cui il committente receda dal contratto di appalto tenendo indenne l’appaltatore delle spese sostenute e del mancato profitto ex art. 1671 c.c.
127 È discussa, tra gli studiosi, la natura della responsabilità derivante da atto lecito dannoso: vi è chi come Bianca M., Diritto civile. La responsabilità, vol. 5, Xxxxxxx, Milano, 2012, ritiene che, mancando il carattere di ingiustizia del danno così provocato (invece richiesto dall’art. 2043 c.c.), non rientri nella responsabilità civile da fatto illecito; ma vi è anche chi, come Xxxxx, La risarcibilità del danno da atto lecito nel diritto civile, in Riv. dir. civ., 1967, I, p. 264 e ss., riconduce anche tali ipotesi alla figura dell’illecito aquiliano.
possibile il sacrificio imposto al soggetto danneggiato. Questa particolare categoria interpretativa, peraltro, presenta alcuni punti di contatto con quella dell’autotutela, in quanto legittima in via del tutto straordinaria il fatto che un soggetto possa incidere direttamente sulla sfera giuridica di un altro individuo, comprimendola; nel caso dell’atto lecito dannoso, tuttavia, la ratio è quella di trovare un compromesso tra più diritti o interessi inconciliabili, ma comunque degni di contemporanea tutela, mentre il fondamento dell’autodifesa è la risposta a un’esigenza di protezione innescata da un’azione o un’omissione scorrette altrui.
Al di là dell’elemento della lesione o del pericolo, che costituisce il vero requisito di tutte le ipotesi di autotutela, le singole fattispecie prevedono poi, di volta in volta, ulteriori presupposti per un corretto esercizio del relativo potere, avvalendosi spesso di clausole generali ovvero di aggettivi generici per definirli e rimettendo così all’operato degli interpreti la circoscrizione concreta di tali elementi128. L’utilizzo di questa tecnica regolativa consente (ed anzi, in molti casi impone) dunque di calare meglio la norma nel caso concreto, sollecitando la parte cui viene consentito di proteggere attivamente i propri interessi a soppesare attentamente le posizioni giuridiche coinvolte e a calibrare meglio la propria azione/reazione, in modo tale da non passare dalla parte del torto. È proprio grazie alle finestre aperte da queste clausole elastiche che le varie figure di autotutela recepiscono le istanze provenienti da una realtà di relazioni giuridiche e sociali in costante mutamento (soprattutto in un ambito ancora più soggetto degli altri alle trasformazioni indotte dall’esterne quanto dall’interno, quale il
128 Si pensi, ad esempio, alla valutazione secondo il criterio della buona fede del rifiuto di rendere la propria prestazione, a fronte dell’inadempimento della controparte, di cui all’art. 1460 c.c.; oppure, “l’evidente pericolo” di perdere la controprestazione che potrebbe giustificare la sospensione dell’esecuzione della propria obbligazione, ex art. 1461 c.c.; oppure ancora la ricchissima produzione giurisprudenziale che si è sviluppata intorno ai concetti di legittima difesa, di stato di necessità e delle condizioni che devono sussistere affinché tali scriminanti possano operare, ex artt. 2044 e 2045 c.c. (in combinato disposto, rispettivamente, con gli artt. 52 e 54 c.p.).
diritto del lavoro), sopravvivendo e mantenendosi valide anche con il passare del tempo grazie alla propria sensibilità e adattabilità.
5.3) Le situazioni protette.
La situazione giuridica protetta dall’esercizio del potere di autotutela viene generalmente descritta come un interesse129 giuridicamente rilevante, considerato meritevole di tutela da parte dell’ordinamento. In tale ampia definizione rientrano sicuramente i diritti soggettivi e le potestà130, ma si è optato appositamente per l’utilizzo di una terminologia generica, in modo tale da poterla estendere ad altre posizioni giuridiche comunque importanti per il soggetto, quali alcune situazioni di fatto qualificate (come, ad esempio, il possesso131) ovvero le aspettative132 (situazioni giuridiche attive che mirano ad assicurare la possibilità
129 Il concetto giuridico di interesse viene definito quale aspirazione a un bene o a una situazione, cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 48.
130 Quale esempio di autotutela esercitata a difesa di una potestà (nel caso di specie, quella genitoriale), Xxxxxxx, op. cit., p. 52, indica la fattispecie di cui all’art. 318 c.c., che consente ai genitori di richiamare il figlio minore per riportarlo nella residenza familiare da cui si era allontanato e precisa che il ricorso al giudice tutelare è previsto solo ove necessario, da cui si può desumere a contrario che nella generalità dei casi saranno i genitori stessi ad agire direttamente. 131 In questo caso l’autotutela mira a difendere il mantenimento di uno status quo contro l’altrui aggressione, analogamente a quanto previsto dalle azioni c.d. possessorie, salva sempre la possibilità per colui che voglia contestare la legittimità del possesso di agire in giudizio per ottenere una sentenza che accerti la mancanza di un valido titolo a fondamento della situazione di fatto.
132 Così si spiega perché l’acquirente di un diritto soggetto a condizione sospensiva possa, ai
sensi dell’art. 1356 c.c., difendere la propria legittima aspettativa di avveramento della condizione da eventuali azioni contrarie provenienti da terzi. Cfr. Cass. civ., sez. I, 1.3.2010, n. 4863, ove i giudici hanno affermato che non può del pari disconoscersi una, sia pur limitata, tutela sostanziale al titolare di un’aspettativa (quale va, appunto, qualificato l’acquirente di un diritto subordinato a condizione sospensiva), tesa ad impedire eventi – materiali o, come nella specie, giuridici – suscettibili di prevaricarla irrimediabilmente. Dalla disciplina della condizione deriva, infatti, la tipizzazione di una gamma di facoltà che eleva l’aspettativa al rango di situazione di diritto: incluso, perfino, il potere di disporre del diritto condizionato, significativo, per antonomasia, di una signoria sulla cosa.
del sorgere di un diritto vero e proprio), o ancora la posizione complessivamente rivestita da un soggetto nell’ambito di un rapporto obbligatorio133.
Possono pertanto difendersi tanto i diritti della personalità quanto i diritti reali e quelli di credito, benché parte della dottrina ritenga che il legislatore si sia speso più in difesa degli interessi del creditore di un’obbligazione che a protezione del titolare di un diritto assoluto134. Allo stesso modo, sono considerati meritevoli di tutela tanto gli interessi patrimoniali che quelli non patrimoniali135. In ogni caso, ove si consideri rientrante fra i mezzi di autotutela anche la legittima difesa di cui all’art. 2044 c.c., si amplierà ulteriormente il campo di applicazione della relativa categoria136. Restano invece esclusi dal novero di situazioni giuridiche legittimanti l’autodifesa quelle derivanti da obbligazioni naturali (in quanto sprovviste del carattere di giuridicità, salva solo l’irripetibilità di quanto spontaneamente prestato in ottemperanza ai sensi dell’art. 2034 c.c.), gli interessi legittimi e le mere facoltà137.
6) I molteplici ruoli dell’autotutela all’interno dell’ordinamento giuridico.
133 Esempi paradigmatici di tali interessi sono quelli che consentono al titolare del potere di autodifesa di rifiutare ovvero sospendere la propria prestazione, pure dovuta, all’interno di un rapporto obbligatorio con un soggetto che si è reso (o si sospetta possa rendersi) inadempiente con riferimento alla prestazione a suo carico: si vedano gli artt. 1460 e 1461 c.c..
134 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 91, che si rifà ad una valutazione quantitativa delle ipotesi di autotutela previste dal codice civile
135 Ciò in coerenza con quanto previsto dall’art. 1174 c.c. in materia di obbligazioni. La Relazione del Ministro Guardasigilli Xxxx Xxxxxx al Codice Civile del 4 aprile 1942, a commento della suddetta previsione normativa, riporta: «L’interesse alla prestazione non deve essere necessariamente pecuniario, perché il diritto mira a realizzare e a tutelare anche le più alte idealità: basta che includa uno scopo ritenuto utile secondo l’apprezzamento predominante nella coscienza sociale, cioè indipendentemente dal giudizio subiettivo che ne possa fare il soggetto del rapporto».
136 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 90-91.
137 Cfr. Xxxxxxx, op. cit., p. 55 e ss.
Parafrasando ciò che un illustre Autore ha asserito in un suo famoso studio su un concetto fondamentale quale quello di «sanzione»138, l’unico modo davvero efficace per comprendere il reale significato dell’autotutela è cercare di rispondere alla domanda «a che cosa serve?», quindi capire quale sia la funzione concretamente attribuitale dall’ordinamento giuridico in cui è iscritta.
Dalla trattazione sinora fatta dell’argomento, tuttavia, è già emerso che la soluzione del quesito può rivelarsi più complessa e meno univoca di quanto si pensi, dal momento che i ruoli attribuiti all’autotutela sono diversi a seconda del punto di vista adottato.
Prendendo a riferimento il soggetto cui si riconosce il potere di difendere da sé un proprio interesse, risulta evidente l’inserimento dell’istituto nel più vasto insieme dei rimedi predisposti dall’ordinamento al fine di riportare equilibrio in una situazione in qualche misura sbilanciata. Costituisce, perciò, una forma di tutela139, caratterizzata dal fatto di non provenire da un soggetto terzo e imparziale ma dal soggetto che più è interessato alla sua realizzazione. Egli potrà, in virtù di tale potere, reagire a una condotta altrui che minaccia o danneggia la propria sfera giuridica, alterando lo stato di fatto preesistente ovvero compromettendo il soddisfacimento di un suo diritto; l’esercizio dell’autotutela gli consentirà, inoltre, di rimediare alla lesione eventualmente subita, eliminandone le conseguenze dannose, oppure di realizzare direttamente
138 Ci si riferisce a Bobbio, op. cit., p. 537.
139 Per la definizione del concetto di tutela, si richiama Di Majo, op. cit., 1993, p. 1 e ss.; in particolare, ricca di spunti appare la seguente notazione del medesimo Autore: «Il diritto privato è la sede non solo in cui si realizza la funzione di tutela dei diritti dei singoli ma anche di interessi, a carattere più generale, che hanno riguardo, ad esempio, alla sicurezza del traffico giuridico, alla tutela dei terzi di buona fede, a valori superindividuali (v. ad esempio, la tutela dell’ordine pubblico e del buon costume) che non possono subire deroga ad opera dei privati. La legislazione postcodiscistica è venuta accentuando tali aspetti». Parallelamente al potenziamento della tutela di diritto positivo, tuttavia, si assiste anche a una tendenza contraria: «v’ha anche il fenomeno (…) in base al quale vecchi e nuovi diritti del singolo ricevono oggi un surplus di tutela ad opera delle norme costituzionali, con la rottura del tradizionale monopolio che in subiecta materia hanno sempre esercitato il codice civile e le cosiddette leggi civili».
la propria pretesa (garantita dall’ordinamento) soddisfacendo il proprio interesse; o ancora, di prevenire il sorgere della situazione di danno o di pericolo, paralizzando la minaccia incombente140.
Di per sé, l’autotutela rappresenta altresì una forma di responsabilizzazione dei singoli consociati, i quali, in primo luogo, sono chiamati a collaborare attivamente con lo Stato al fine di rafforzare, complessivamente, la tenuta dell’ordinamento giuridico ristabilendo l’ordine costituito; in secondo luogo, sono messi nella posizione di poter salvaguardare i propri diritti a patto di essere disposti ad attivarsi a tal fine in prima persona, senza poter più addossare la colpa del mancato soddisfacimento degli interessi o, addirittura, della preventiva rinuncia a ottenere una protezione a (presunte o reali) inefficienze del sistema giudiziario civile.
Gli strumenti di autodifesa, per di più, presentano degli indubbi vantaggi rispetto a quest’ultimo apparato: la tutela così apprestata è immediata, viene attuata direttamente sul piano sostanziale senza la necessità di mediazioni e non giunge solo dopo un considerevole lasso di tempo; il costo che deve sobbarcarsi il soggetto agente è sicuramente più contenuto (ove presente) di quello stabilito da provvedimenti statali per adire un giudice141, senza considerare poi l’alea del
140 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 199 e 202.
141 Cfr. il Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, come modificato, da ultimo, dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, che stabilisce gli importi dovuti a titolo di contributo unificato per instaurare un processo civile. Si pensi, altresì, alle modifiche che hanno interessato ancora di recente l’art. 92 c.p.c., norma che regola la distribuzione delle spese processuali a seconda dell’esito della lite: il secondo comma è stato dapprima aggiornato con la L. n. 69/2009, ai sensi della quale i «giusti motivi» che in precedenza giustificavano la compensazione delle spese sono stati sostituiti dalle
«gravi ed eccezionali ragioni», che già delimitavano alquanto l’ambito di discrezionalità dei Giudici, per poi specificare ulteriormente la casistica che legittima la compensazione ai sensi del
D.L. n. 132/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 162/2014, che ha riscritto il comma nella versione attualmente vigente (che recita «Se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero»), qualificando così la compensazione come evento del tutto eccezionale, a tutto discapito della parte economicamente più debole.
giudizio; il risultato ottenibile mediante l’autotutela è di norma maggiormente rispondente alle esigenze del titolare dell’interesse (dal momento che il meccanismo ordinario della responsabilità civile, invece, si basa sul risarcimento del danno per equivalente più che sulla reintegrazione in forma specifica).
Adottando, invece, il punto di vista del soggetto che subisce l’esercizio dell’autotutela, questa può essere considerata alla stregua di una sanzione, non solo nel senso generale del termine quale espediente predisposto dall’ordinamento per rafforzare l’osservazione delle proprie norme e, se del caso, per riparare gli effetti delle violazioni142, ma anche quali misure sia preventive (aventi scopo dissuasivo, deterrenti particolarmente efficaci, considerati tutti i vantaggi sopra delineati a favore del titolare del potere di autodifesa, nonché mezzi di induzione all’adempimento, seppur tardivo, nel caso in cui si tratti di un rapporto obbligatorio) che successive (sia con funzione retributivo-punitivo sia con funzione riparatoria) rispetto all’infrazione143. Inoltre, quale ulteriore effetto dissuasivo per il potenziale soggetto passivo dell’autotutela è opportuno rammentare il fatto che, ove desideri a sua volta salvaguardare i propri interessi, minacciati o violati (benché lecitamente) dalla reazione del soggetto agente, sarà costretto a ricorrere al sistema giudiziario, con tutti gli oneri economici e probatori che ne conseguirebbero, non avendo alcuna alternativa a sua disposizione.
Infine, considerando la citata categoria quale componente dell’ordinamento giuridico, oltre alla funzione di autoconservazione di quest’ultimo (svolta incentivando i singoli individui a rispettarne le regole e quindi a riconfermare, implicitamente, la propria adesione e il proprio supporto al sistema), si può dedurre che l’autotutela si presta anche a costituire uno strumento di politica
142 Cfr. ancora Bobbio, op. cit., p. 530.
143 Per la classificazione dei modelli di sanzione astrattamente possibili e di quelli concretamente rinvenibili nel sistema giuridico, cfr. ancora Bobbio, op. cit., p. 563.
attiva a favore della parte più debole144 di un rapporto obbligatorio o di una situazione giuridica complessa, nonché una tecnica di regolazione (seppure indiretta, venendo rimessa pur sempre all’iniziativa e alla volontà dei singoli consociati) del mercato, contribuendo a stabilire una distribuzione dei costi maggiormente equa tra le parti coinvolte.
6.1) Alcune disambiguazioni in merito al concetto di autotutela.
L’istituto in questione si pone su un binario parallelo alla tutela offerta dal processo civile, mantenendosi su un piano prettamente extragiudiziale; invero, se l’autotutela è ontologicamente rimessa all’azione del diretto interessato, l’intervento del giudice non potrà che essere meramente eventuale e non indispensabile. Ove, tuttavia, il soggetto passivo dell’autodifesa agisca nelle forme processuali canoniche, la sentenza che concluderà il processo civile avrà ad oggetto l’accertamento dei presupposti legittimanti il ricorso all’autotutela. Le notevoli differenze che permangono tra quest’ultima e la tutela offerta dal potere giudiziario (caratterizzato da principi cardine del tutto assenti nei casi di autotutela, quali l’imparzialità del giudice, la sua terzietà rispetto alle parti coinvolte e all’oggetto della controversia, la parità delle armi a disposizione dei litiganti e il contraddittorio tra questi ultimi prima di addivenire a una decisione) fanno sì che si possa affermare con una certa sicurezza che l’autotutela non costituisce una forma surrogata di giurisdizione, ma si pone su un piano completamente diverso da quest’ultima.
144 Per una trattazione più completa delle misure attuate dal diritto positivo per tutelare la parte più svantaggiata di un rapporto obbligatorio si rinvia a Scarso, Il contraente «debole», Giappichelli, Torino, 2006, il quale ravvisa una relazione di proporzionalità inversa tra l’aumento della protezione riservata dalla legge al soggetto in questione e la sempre maggiore restrizione, operata dal legislatore, degli ambiti di esplicazione del potere creativo di diritto riconosciuto alla volontà privata (e, dunque, dell’autonomia e, indirettamente, dell’autotutela privata): op. cit., p. 2-3.
La giurisdizione privatistica, infatti, consiste nell’attività amministrativa diretta ad attuare le norme giuridiche del diritto civile ai casi particolari e non può prescindere dall’accertamento dei diritti di cui la parte attrice domanda la realizzazione e la tutela; pur potendo poi svolgere anche funzioni ulteriori, l’accertamento resta un passaggio imprescindibile per gli organi giudicanti allo scopo di risolvere una controversia. In ciò si distingue nettamente dall’autotutela, la quale invece mira solo al mantenimento dell’ordine giuridico esistente, in ciò manifestando la propria adesione e il proprio supporto all’ordinamento statale145. Inoltre, l’esercizio dell’autotutela non impedisce la possibilità di ricorrere, in ogni momento, all’autorità giudiziaria, giacché non si pone quale alternativa esclusiva ma solo come uno strumento in più a disposizione dei privati, a seconda dell’obiettivo che intendono raggiungere146.
L’autotutela si differenzia altresì dall’autonomia privata147: con quest’ultimo concetto, infatti, si intende il potere dei singoli consociati di creare a loro volta il diritto, ponendo delle norme aventi un valore riconosciuto dall’ordinamento e disciplinando diverse tipologie di rapporti. Come nel caso dell’autotutela, soccorre l’etimologia che conferma la traducibilità letterale del termine, formato dal prefisso autos e dal sostantivo nomos, in «dare legge a se stessi». Tradizionalmente, l’autonomia privata è stata valorizzata sia come strumento di autodeterminazione del singolo, mediante le proprie manifestazioni di volontà (e
145 Cfr. a questo proposito Xxxxxxx, op. cit., p. 37, ove dichiara che, per mezzo dell’autotutela,
«l’ordine viene mantenuto dagli stessi consociati, sul cui consenso si regge» mentre «la giurisdizione entra in gioco solo nell’ipotesi di controversie per dirimere le quali occorre accertare il diritto (iuris dicere)».
146 Tra i molti che ribadiscono tale concetto si veda, ad esempio, Rappazzo, op. cit., p. 19.
147 Cfr. ancora Xxxxxxx, op. cit., p. 35 e ss, nonché p. 88 e ss.; cfr. anche Rappazzo, op. cit., p. 22 e ss. Pare opportuno ricordare la nota tesi sostenuta da parte della dottrina (cfr. Xxxxxx Xxxxxxxxx, Autonomia privata, Xxxxxxx, Milano, 1957), che ha classificato i poteri privati di cui si comporrebbe l’autonomia privata in normativi, esecutivi e giurisdizionali, riconducendo a questi ultimi l’autotutela e stabilendo così un rapporto tra il concetto di autonomia privata e quello di autotutela che si potrebbe definire «di genere e specie». Tale tesi non risulta però convincente, portando a una sovrapposizione di concetti invece diversi e indipendenti l’uno dall’altro (ben si possono avere, infatti, atti di autotutela che non seguono atti di autonomia privata).
finendo così per coincidere con l’autonomia contrattuale di cui all’art. 1321 c.c.), sia come diritto di libertà, dotato di copertura costituzionale148.
I due concetti sono, perciò, accomunati dal fatto di estrinsecarsi in attività, in senso lato, di garanzia di interessi individuali (per il tramite di negozi o contratti nel caso dell’autonomia, e per mezzo di specifiche convenzioni – nel caso dell’autotutela c.d. consensuale – ovvero di azioni protettive – nel caso di autotutela c.d. unilaterale) e di risoluzione di conflitti, ma per il resto divergono nettamente in quanto, se l’autotutela è diretta a conservare intatto lo status quo, l’autonomia è invece finalizzata a modificare l’ordine giuridico esistente, proponendone uno diverso più rispondente alle esigenze dei singoli individui149.
Per finire, pare appropriato delineare rapidamente anche le difformità sussistenti tra l’autotutela e un’altra figura assai rilevante per l’economia del sistema che però non trova fondamento in una espressa disposizione di legge generale, ma solo riferimenti in singole previsioni normative: si tratta dell’abuso del diritto150.
148 È dibattuto in dottrina quale sia il fondamento costituzionale dell’autonomia privata, dal momento che tale valore non è espressamente richiamato dal testo normativo: vi è, allora, chi, come Sacco, Trattato di diritto civile, Il contratto, vol. I, Utet, Torino, 2004, p. 30 e ss., riconduce la tutela dell’autonomia privata all’art. 2 Cost., dal momento che anche mediante la conclusione di negozi idonei a regolare i propri interessi e a instaurare rapporti giuridici il cittadino realizza ed estrinseca la propria personalità. Altri, invece, come Mengoni, Autonomia provata e Costituzione, in Banca, borsa e titoli di credito, 1997, I, p. 1 e ss., hanno criticato tale impostazione, in quanto ciò che l’art. 2 Cost. mira a tutelare non è tanto la libertà contrattuale in generale, quanto le singole manifestazioni dell’autonomia privata volte a dar vita alle formazioni sociali, dove si svolge la personalità dell’individuo. Si è proposto allora di rinvenirne il fondamento nell’art. 41 Cost., che nel tutelare esplicitamente la libertà di iniziativa economica privata garantirebbe l’autonomia contrattuale quantomeno degli operatori economici, essendo i due concetti strettamente connessi.
149 Tale concetto è reso chiaramente da Xxxxxxxx, op. cit., p. 202, il quale spiega che l’autotutela è
volta a difendere una norma già posta, mentre non potrebbe mai aversi la protezione in via di autotutela di un interesse di mero fatto: in tale ultimo caso, infatti, si verserebbe piuttosto in un’attività di autonomia privata, creando lo strumento atto a realizzare un proprio interesse non considerato dall’ordinamento.
150 Ciò è dovuto all’evoluzione storica della figura dell’abuso del diritto nel nostro ordinamento, ben tratteggiata da Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione
Analogamente a quanto illustrato in precedenza riguardo all’autotutela, anche questo concetto è considerato immanente al nostro ordinamento giuridico, quale limite all’esercizio indiscriminato dei poteri di autonomia privata. Nella suddetta circostanza si esaurisce il tratto di prossimità tra l’istituto al centro della presente trattazione e l’abuso del diritto: al di là della natura di linea di confine per i poteri privati, infatti, quest’ultimo si verifica ogniqualvolta «il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti»151.
7) I tentativi di classificazione e i tipi di autotutela.
Dopo aver delineato i caratteri generali dell’autotutela, si può comprendere meglio i criteri utilizzati dalla dottrina nel tentativo di ordinare all’interno della categoria i numerosi istituti previsti dal diritto positivo.
Come già accennato nei paragrafi precedenti, la classificazione considerata ancora attuale più citata dagli studiosi è quella proposta dal Betti152.
Betti, infatti, propone un’iniziale distinzione, tra l’autotutela c.d. unilaterale e quella c.d. consensuale. La prima sottocategoria trae il proprio tratto
teleologicamente orientata del traffico giuridico, in RDC, 2, 2014, p. 467 e ss. Vi fu, infatti, una vera e propria ostilità, da parte di molti studiosi, all’inserimento di un precetto generale che prevedesse l’abuso del diritto nel codice, preferendo piuttosto decentrarne e scomporne il dispositivo in singolo istituti, per liberarlo dal pericolo dell’indeterminatezza calandolo in casi concreti, quali, ad esempio, il divieto di atti emulativi di cui all’art. 833 c.c., la responsabilità anche in fase di trattativa e precontrattuale ex art. 1337 c.c., la minaccia di far valere un diritto quale possibile causa di annullamento del contratto ai sensi dell’art. 1438 x.x., xxx.
000 Xxxx. xxx., xxx. XXX, 00.0.0000, n. 20106, in G.Comm., 2, 2011, p. 295 e ss. con nota di Barcellona, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale.
152 Cfr. Betti, op. cit., p. 529 e ss.
caratterizzante dal fatto di operare «per fatto della sola parte interessata, senza previo o attuale accordo dell’altra parte in conflitto»153, mentre la seconda «si fonda sul preventivo consenso dell’altro soggetto del rapporto giuridico alla cui attuazione è preordinata»154. A sua volta, l’autotutela unilaterale può essere attiva, ove «abbia per contenuto una condotta positiva e per risultato un mutamento protettivo dell’attuale stato di fatto», ovvero passiva, quando «abbia per contenuto una omissione e per risultato il mantenimento dello stato di fatto esistente contro l’altrui pretesa di mutarlo»155. Infine, l’Autore suggerisce che l’autotutela unilaterale attiva possa ulteriormente distinguersi, a seconda della funzione concretamente svolta, in preventiva, quando «chi ha un bene protetto dal diritto mira a tutelarlo con la forza contro la minaccia di lesione o l’altrui tentativo di menomarglielo, prima ancora che avvenga il fatto lesivo», ovvero reattiva, per «respingere con la forza la lesione quando è in corso» o per
«provvedere da sé alla rimozione di uno stato di fatto lesivo e al ripristino dello stato di cose conforme al diritto»156. L’autotutela consensuale, invece, viene a
153 In realtà, gran parte della dottrina e della giurisprudenza successive si limiteranno a considerare propriamente rientranti nella categoria dell’autotutela solo le fattispecie che il Betti ricomprende nella sottocategoria di autotutela unilaterale. Cfr., a questo proposito, Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 87, ove dichiara «In realtà, giova ripeterlo, l’autotutela può dirsi veramente tale quando la difesa di un interesse dipenda dall’esclusiva attività del suo titolare. Sotto il profilo per così dire dinamico – che è, poi, quello che vale a caratterizzare il fenomeno – essa è, dunque, e non può che essere, sempre unilaterale». Tuttavia, vi è chi ancora di recente ha seguito tale classificazione, occupandosi proprio di autotutela consensuale e facendovi rientrare - tra gli altri - gli istituti dell’arbitrato, della transazione e del pegno: Grande, L’autotutela consensuale, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 227 e ss.
154 Cfr. Betti, op. cit., p. 532.
155 Cfr. Betti, op. cit., p. 529. Sulle ipotesi di autotutela unilaterale attiva si tornerà più specificamente nella nota successiva, quanto invece all’autotutela unilaterale passiva si rammentano, quali esempi paradigmatici, l’art. 1460 c.c. in materia di eccezione di inadempimento, che sarà oggetto di analisi approfondita nel prosieguo dell’elaborato, e l’art. 2756 c.c., nella parte in cui (III comma) stabilisce il diritto di ritenzione della cosa soggetta al privilegio in favore di coloro che vantano un credito per le prestazioni e le spese di conservazione e di miglioramento di beni.
156 Cfr. Betti, op. cit., p. 529-530. Possono farsi rientrare nella categoria dell’autotutela unilaterale attiva con funzione preventiva sia le ipotesi di autodifesa che non incidono sulla sfera giuridica altrui, sia le ipotesi in cui invece ciò accade: un esempio del primo caso è dato dall’art. 841 c.c., relativo al potere del proprietario di chiudere il proprio fondo in ogni tempo; esempi del secondo
propria volta ripartita in sottocategorie a seconda dello scopo perseguito, distinguendo l’autotutela consensuale a scopo di accertamento, di esecuzione (da intendersi nel senso di funzione satisfattoria dell’interesse o del diritto tutelato) ovvero di garanzia (da intendersi nel senso di funzione cautelare dell’interesse o del diritto tutelato)157.
In seguito, sarà il lavoro monografico di Xxxx Xxxxxxxxx Geri158 a proporre una diversa classificazione degli istituti qualificabili come strumenti di autotutela, utilizzando quale criterio discretivo il tipo di risultato che il soggetto titolare dell’interesse leso può ottenere, a sua volta variabile a seconda del tipo di lesione o di mero pericolo fronteggiato. In tal senso, l’Autrice distingue gli istituti di autotutela aventi una funzione cautelare, di carattere prevalentemente conservativo (volti alla preservazione e alla protezione dello status quo non ancora violato ma minacciato, in quanto corrispondente alla situazione di diritto o di interesse di cui è titolare l’agente), da quelli aventi funzione reattiva (vale a dire strumenti utilizzabili dal soggetto in risposta a un comportamento lesivo altrui), in senso ripristinatorio, al fine di ristabilire lo status quo compromesso da
tipo, invece, sono la fattispecie di cui all’art. 2045 c.c. (come precisata poi dall’art. 54 c.p.) in materia di stato di necessità, ove l’agente ponga in essere delle misure di autotutela avverso la minaccia di una lesione proveniente da terzi ovvero dall’incombere di una calamità naturale; o anche la fattispecie di cui all’art. 924 c.c., che regola l’inseguimento di sciami d’api su fondi altrui. Nella medesima categoria ma con funzione prevalentemente reattiva, invece, può essere ricompresa la fattispecie di cui all’art. 2044 c.c. (come precisata dall’art. 52 c.p.) in materia di legittima difesa, ove l’agente contrattacchi ad aggressioni esterne; ovvero le fattispecie di cui agli artt. 1515 e 1516 c.c. che disciplinano la vendita coattiva in caso di inadempimento, rispettivamente, del compratore o del venditore. A tal proposito, si veda altresì Clementel, L’autotutela unilaterale attiva, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 114-115.
157 Cfr. Betti, op. cit., p. 532. Si rafforza così l’idea dell’autotutela quale vera alternativa alla
tutela giurisdizionale statale in quanto esercitata dai privati, estrapolando e riproponendo in tale ambito le funzioni tradizionalmente assegnate al processo. La concezione proposta dal Betti in materia di autotutela consensuale, tuttavia, ritenuta legittima solo ove espressamente riconosciuta dall’ordinamento (cfr. ancora op. cit., p. 535), non troverà fortuna presso gli studiosi e gli interpreti successivi, al contrario di quanto avvenuto per gli esiti dello studio dell’autotutela unilaterale.
158 Si fa qui riferimento, in realtà, tanto all’opera già citata, del 1971, quanto al prosieguo della stessa, edito nel 1974. Come già accennato in precedenza, l’Autrice si era posta in posizione critica rispetto al lavoro del Betti, pur tenendolo nel dovuto conto.
detto comportamento, ovvero in senso satisfattivo, ove il fine perseguito sia quello di conseguire coattivamente il vantaggio dovuto all’agente (e invece ostacolato dalla citata condotta), o ancora da quei mezzi di autotutela aventi funzione mista, in parte ripristinatoria e in parte satisfattiva159.
Al di là delle ricostruzioni sistematiche ora illustrate, che possono soccorrere nel tentativo di fornire un inquadramento razionale alla materia, vi sono ulteriori considerazioni da farsi in merito alle tipologie di autotutela.
In primo luogo, vi è da rilevare che – almeno dal punto di vista fenomenico – qualunque strumento di autotutela viene innescato e utilizzato da un unico soggetto: non può che essere così, ove si consideri che la ratio in forza della quale viene concesso il relativo potere è sempre quella di permettere a un singolo individuo di attivarsi per proteggere un proprio interesse leso o in pericolo. Pertanto, secondo questa prospettiva, l’autotutela sarebbe sempre unilaterale.
Anche nei casi di c.d. autotutela consensuale, dunque, l’esplicazione del potere di autodifesa sarà attuato da uno solo dei contraenti di propria iniziativa e a proprio vantaggio160, senza che rilevi la circostanza per cui la fonte immediata
159 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1971, p. 88-89. L’Autrice, inoltre, elenca una serie di fattispecie rientranti nelle diverse categorie proposte. Vengono citati quali esempi di autotutela avente funzione conservativa o cautelare l’eccezione di inadempimento (ex art. 1460 c.c.), il diritto di ritenzione (previsto da diverse disposizioni del codice civile), la sospensione dell’esecuzione della prestazione (ex art. 1461 c.c.), l’esercizio extragiudiziale dell’azione surrogatoria (ex art. 2900, II co., c.c.). Quali casi rientranti nella categoria dell’autotutela con funzione ripristinatoria si richiama il diritto di risolvere unilateralmente un rapporto obbligatorio (in forza di una diffida ad adempiere non rispettata ovvero avvalendosi di una clausola risolutiva espressa, ex artt. 1454 e 1456 c.c.), mentre quali ipotesi di autodifesa con funzione satisfattiva si richiama ancora una volta la vendita posta in essere per autorità del creditore (sia esso il compratore o il venditore del bene, ex artt. 1515 e 1516 c.c.). Infine, quale esempio di istituto avente, potenzialmente, sia funzione preventiva che funzione reattiva (in via alternativa o contestuale) si indica la legittima difesa (ex art. 2044 c.c.).
160 Questo vale, naturalmente, a patto di non annoverare tra i casi di autotutela consensuale anche
l’arbitrato (metodo alternativo di risoluzione delle controversie che dovrebbe essere scelto liberamente dalle parti in quanto conveniente per entrambe); esclusione che appare coerente con la volontà di distinguere l’autotutela dalla giurisdizione, come ben argomentato ad esempio da Xxxxxxx, op. cit., p. 84.
di tale potere è costituita dall’accordo delle parti. Benché lo specifico mezzo di autotutela possa, in tal caso, discendere da un atto di autonomia negoziale, infatti, ciò che consente a quell’atto di avere effetti giuridici è pur sempre una previsione di legge autorizzativa, che si pone pertanto come fonte indiretta ma indispensabile.
Infine, come già accennato nell’incipit del capitolo, si rammenta che, accanto all’autotutela individuale, si sono regolamentate ed esplorate anche fattispecie di autotutela collettiva161: l’ipotesi paradigmatica appartiene all’ambito del diritto del lavoro e coincide essenzialmente con il diritto di sciopero, già sancito e garantito dall’art. 40 Cost.
Tuttavia, al di là della scelta di circoscrivere il focus del presente elaborato sul tema dell’autotutela individuale, è necessario rilevare come tale ultima categoria presenti notevoli differenze rispetto alla propria dimensione collettiva già sul piano concettuale. Se la prima, infatti, consiste nel potere spettante al singolo soggetto di salvaguardare l’ordine giuridico che lo riguarda contro una minaccia o una lesione proveniente dall’esterno, lo sciopero risponde ad esigenze diverse e ha una natura difforme162. Quest’ultimo, infatti, è finalizzato alla difesa di un interesse collettivo, vale a dire comune agli scioperanti, e non invece alla tutela
161 In argomento, si rinvia a Xxxxxxxxx F., Lavoratore subordinato e autotutela collettiva, Xxxxxxx, Milano, 1993; Ales, Lo sciopero nei servizi pubblici in Europa tra interesse generale ed autotutela: spunti comparatistici, Giappichelli, Torino, 1995; Ballestrero, Diritto sindacale, III ed., Giappichelli, Torino, 2010; Carinci F., Il diritto di sciopero: la nouvelle vague all’assalto della titolarità individuale, DLRI, 2009, p. 423 e ss. Xxxx Xxxxxx, in Diritto Sindacale, Cacucci, Bari, 2014, afferma che «L’autotutela degli interessi collettivi costituisce una delle manifestazioni essenziali della coalizione sindacale. Essa può esprimersi in una varietà di comportamenti: lo sciopero dei lavoratori è la forma più tipica, ma ve ne sono anche altre praticate dai lavoratori» (e qui l’Autore si riferisce allo sciopero bianco, all’occupazione d’azienda, al blocco delle merci, al boicottaggio, nonché a quelle forme anomale di sciopero quali lo sciopero del rendimento, lo sciopero delle mansioni etc. su cui si tornerà nella trattazione successiva) «così come vi sono forme di autotutela praticate dai datori di lavoro» (vale a dire la serrata).
162 Sul tema si veda la posizione di Xxxxxxxxx di Xxxxx, op. cit., p. 32 e ss.
di una somma di interessi individuali dei lavoratori coinvolti163; pertanto riveste, all’interno dell’ordinamento, un ruolo di garanzia dell’attività sindacale e del suo principale strumento, il contratto collettivo.
È pur vero che, complice la mancata attuazione da parte della legge ordinaria della definizione dei limiti del diritto di sciopero, a dispetto del rinvio contenuto nell’art. 40 Cost., vi sono alcune ipotesi ibride in cui è materialmente difficile distinguere tra «astensione concertata dal lavoro per la tutela di un interesse professionale collettivo»164 e inadempimento contrattuale tout court165. Da quando una nota sentenza della Corte di Cassazione166 ha statuito che rimane estranea alla nozione di sciopero qualsiasi delimitazione attinente all’ampiezza dell’astensione e qualsiasi considerazione della dannosità degli effetti per l’azienda, e dopo l’emanazione della legge che regolamenta lo sciopero nei servizi pubblici essenziali (L. 12.6.1990, n. 146, modificata e integrata dalla L. 11.4.2000, n. 83), i dubbi sono rimasti riguardo a talune modalità particolari di sciopero, quali il c.d. sciopero dello straordinario e il c.d. sciopero delle mansioni167, nonché agli espedienti cui sono ricorsi talvolta i lavoratori per eludere la rigida disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali168,
163 Cfr. Carinci F., op. cit., p. 462.
164 Definizione usata da Xxxxxxx Xxxxxxxxxx F., Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, Napoli, 1978, p. 56.
165 In merito alla differenza tra inadempimento, sciopero legittimo e il c.d. “sciopero delle mansioni” cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav. 12.1.2011, n. 547, in RIDL, 2011, 3, p. 814 e ss., con nota di Erboli, Brevi note sullo sciopero delle mansioni. ovvero, della (non così) sottile soglia che separa sciopero e inadempimento; Cass. civ., sez. lav., 5.12.2014, n. 25817; Cass. civ., sez. lav., 10.7.2015, n. 14457, in D&G, 2015, 13 luglio, con nota di Scofferi, Lo sciopero o è integrale o non è sciopero.
166 Si fa qui riferimento alla nota sentenza Cass. civ., sez. lav., 30.1.1980, n. 711.
167 Cfr. Cass. civ., sez. lav., 25.11.2003, n. 17995, ove si afferma che il rifiuto di esecuzione di una parte delle mansioni non costituisce esercizio legittimo del diritto di sciopero e può configurare una responsabilità contrattuale e disciplinare del dipendente.
168 Sul tema si rinvia a Tiraboschi, Diritto di sciopero ed eccezione di inadempimento, in DRI, 2008, p. 1210 e ss.
invocando altre forme di autotutela individuale quale l’eccezione di inadempimento169.
8) Le tecniche di autotutela estintive o conservative.
Il terreno d’elezione su cui testare l’efficacia degli strumenti di autotutela sopra descritti è quello dei diritti obbligatori e, più in particolare, di quelli nascenti da rapporti contrattuali. Nell’ambito dei diritti assoluti, infatti, l’ordinamento assume una posizione netta manifestando con chiarezza il bene giuridico meritevole di tutela (ad esempio la proprietà, o il possesso), mentre nel caso dei rapporti obbligatori la posizione del sistema resta maggiormente super partes, limitandosi a conferire alle parti la libertà di autodeterminarsi e i mezzi idonei a tutelare i diritti scaturenti dal rapporto in questione, astrattamente di pari pregio.
169 Si vedano le delibere e i verbali della Commissione di Garanzia, consultabili nei due volumi di cui si compone la Raccolta sistematica degli orientamenti interpretativi della medesima Commissione: talvolta, i lavoratori dei vari settori di servizi pubblici essenziali hanno invocato l’eccezione di inadempimento per non perdere la retribuzione (in certi casi, non più erogata da mesi da parte del datore) e per non incorrere nelle sanzioni previste dalla L. n. 146/1990, quando si vedevano costretti ad astenersi dalla prestazione lavorativa a fronte di un inadempimento datoriale. In alcuni casi, la Commissione di Garanzia ha fatto propria la qualificazione di tali condotte alla stregua di un’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (cfr., ad esempio, delibera n. 08/367 del 17.7.2008, Vol. I, p. 169, sulla scorta del fatto che il rifiuto della prestazione non era stato intermittente e a scelta dei lavoratori ma continuo sino all’adempimento della controparte, della brevità dell’astensione, dell’esiguo numero dei partecipanti e del mancato disservizio all’utenza; verbale n. 998 dell’8.7.2013, Vol. II, p. 204 e verbale n. 1104 dell’11.1.2016, a fronte si situazioni di perdurante ritardo nell’adempimento della prestazione retributiva da parte del datore di lavoro). Altre volte, invece, la Commissione ha ritenuto che non fossero sussistenti i presupposti di cui all’art. 1460 c.c. e ha qualificato quale sciopero contrario alle disposizioni di cui alla L. n. 146/1990 alcune forme di astensione dal lavoro (cfr., ad esempio, delibera n. 05/10, Vol. I, p. 167, ove si afferma che il ritardo nel pagamento degli stipendi, o di altri emolumenti, non è, di per sé, una motivazione tale da esimere le organizzazioni sindacali ed i lavoratori dal rispetto della legge n. 146 del 1990, mentre della gravità dell’inadempimento datoriale la Commissione potrà tener conto nella valutazione del comportamento delle parti; delibera n. 07/451 del 26.7.2007, Vol. I, p. 158, in un caso di c.d. sciopero pignolo da parte del personale navigante di cabina).
Inoltre, negli ultimi anni il diritto civile (sulla scorta del diritto privato europeo), si è indirizzato verso una crescente valorizzazione della dimensione contrattuale170, non solo in quanto di per sé più versatile e maggiormente pervasiva – in quanto il contratto si presta ad essere il mezzo concesso ai singoli per creare, modificare e gestire rapporti giuridici patrimoniali171 secondo interessi personali – ma anche in ottica rimediale. Con quest’ultima espressione si intende un approccio alla materia contrattuale che si concentri sull’aspetto della tutela, vale a dire della protezione riservata ai diritti e alle pretese collegate al contratto, come obiettivo privilegiato di gran parte delle discipline più recenti provenienti dal diritto europeo172.
Tanto i diritti soggettivi, categoria concettuale ricorrente nei paesi di Civil Law, quanto i «rimedi»173, propri dei sistemi di Common Law, infatti, sono posti dagli ordinamenti giuridici al fine di conferire rilevanza giuridica ai diversi ordini di interessi che si manifestano nella realtà174. In quest’ottica, dunque, assumono un ruolo fondamentale i c.d. rimedi contrattuali175, vale a dire quegli strumenti disposti dall’ordinamento per risolvere una situazione di crisi della
170 Per una lettura diversa delle ultime tendenze del diritto civile, tuttavia, si rinvia a Scarso, op. cit., p. 2 e ss.
171 Sul tema dei contratti si rinvia, tra i numerosi studi, a Roppo , Il contratto, in Iudica - Zatti (a cura di), Trattato di diritto privato, Xxxxxxx, Milano, 2001.
172 Secondo tale tesi, il legislatore comunitario piuttosto che dilungarsi a definire le singole fattispecie in modo analitico, non potendo prevederne qualsiasi possibile utilizzo, preferirebbe dedicarsi alla predisposizione di strumenti efficaci di tutela, in modo da poter fornire una valida risposta alle numerose istanze di protezione che i singoli tipi di contratto sollevano. A questo proposito si rinvia a Di Majo, Le tutele contrattuali, Giappichelli, Torino, 2009, p. 1 e ss., il quale cita ad esempio le discipline di matrice europee riguardanti particolari settori delle operazioni di mercato (quali la circolazione dei beni di consumo, i viaggi, le multiproprietà, etc.) e particolari soggetti in essi coinvolti (quale il consumatore).
173 Mazzamuto, ne Il contratto di diritto europeo, II ed., Giappichelli, Torino, 2015, p. 185, li definisce quali dispositivi tecnici di reazione ad un ordine violato o inattuato per un ostacolo frapposto: un dispositivo che si pone immediatamente a ridosso del bisogno di tutela e presuppone un impulso di parte ed una qualche valutazione del giudice in termini di apprezzamento o bilanciamento di interessi.
174 Cfr. Di Majo, op. cit., 2009, p. 4 e ss.
175 Sul tema si veda Sacco, I rimedi sinallagmatici, in Sacco - De Nova, Il contratto, IV ed., II, Utet Giuridica, Torino, 2016.
vicenda contrattuale, concretandosi di volta in volta in facoltà, poteri o rimedi in senso tecnico176. Essi hanno come campo di applicazione i contratti con prestazioni corrispettive (altresì detti sinallagmatici, o di scambio) che si contraddistinguono per il nesso di interdipendenza che lega le prestazioni delle parti177.
Inoltre, anche nel diritto privato europeo, come già nel diritto civile italiano, i rimedi contrattuali appaiono degni di una attenta considerazione da parte degli interpreti in quanto costituiscono uno dei canali con cui il legislatore (comunitario o nazionale) coinvolge l’accordo e le parti contraenti nella realizzazione di più ampie strategie di mercato178. Pare così opportuno provare a superare il tradizionale binomio del nostro ordinamento, costituito dai diritti riconosciuti dalle norme sostanziali e dalle azioni destinate a farli valere per via processuale, per verificare se altre figure rimediali, quali quelle dell’autotutela contrattuale, possano produrre risultati soddisfacenti nello sforzo di ristabilire una situazione di equilibrio all’interno del singolo rapporto obbligatorio e del sistema generale.
Oltre alle azioni giudiziali poste a disposizione del singolo al fine di ottenere la realizzazione dei propri diritti contrattuali anche in via coattiva, a discapito dell’altro contraente e in definitiva del rapporto obbligatorio stesso, che ne risulta inevitabilmente compromesso, possono soccorrere alcune tecniche che rientrano nel concetto di autotutela. Alcune di esse possono essere classificate
176 Cfr. Mazzamuto, op. cit., 2015, p. 187, classifica i rimedi contrattuali in diversi modi: sul versante funzionale, li divide in alternativi o cumulativi, satisfattori (pretese di assetti distributivi ancora in fieri) o restitutori (pretese di ripristino di assetti distributivi già dati), risarcitori o in forma specifica (esecuzione diretta, tutele costitutive, ordini inibitori assistiti da misure di esecuzione indiretta), inibitori ad effetto permanente o temporaneo (nullità, inefficacia, annullabilità, risoluzione, rescissione, recesso, eccezione d’inadempimento) o manutentivi. Sul versante soggettivo, invece, li distingue in unilaterali (giudiziali o stragiudiziali) oppure consensuali e in dispositivi od officiosi (nei quali l’impulso di parte è più remoto).
177 Cfr. ancora Roppo, op. cit., 2001, p. 942 e ss.
178 Cfr. ancora Mazzamuto, op. cit., 2015, p. 187.
«estintive», perché come reazione all’inadempimento altrui consentono di porre termine al contratto e di farne cessare gli effetti, eliminando del tutto il sinallagma (esempio paradigmatico di tale categoria è la risoluzione per inadempimento, ex art. 1453 x.x., xxxxxxxxxxx xx xxxxxx xxxxxxx xxx xxx xxxxx xxxxx xxxxxx che su quello teorico179). Altre, invece, vengono dette «conservative», perché consentono di minimizzare i danni derivanti dall’altrui inadempimento per il soggetto che vi ricorre e, al contempo, di mantenere in vita il rapporto contrattuale, che ha così la possibilità di riequilibrarsi e tornare ad essere vantaggioso per entrambe le parti, contribuendo a rendere più dinamico e produttivo il settore dei rapporti di scambio invece di depotenziarlo eliminando alla radice l’obbligazione.
Tra le fattispecie di autodifesa contrattuale180 conservative si annoverano l’eccezione di inadempimento (ex art. 1460 c.c.), la facoltà di sospendere l’esecuzione della prestazione in caso di mutamento nelle condizioni patrimoniali della controparte (ex art. 1461 c.c.) nonché la c.d. clausola «solve et repete» (ex art. 1462 c.c.).
Sulla prima di tali figure, che rappresenta la principale misura sospensiva della prestazione, si tornerà estesamente nei paragrafi successivi. Per il momento, sia sufficiente dire che l’eccezione di inadempimento è in grado di salvare il contratto, in quanto consente di paralizzare l’eventuale domanda di risoluzione avanzata dalla controparte. Uno dei presupposti della risoluzione per
179 Sul tema della risoluzione per inadempimento, si rinvia all’esaustiva trattazione di Iorio, op. cit., 2012.
180 La citata terminologia è stata adottata da Benedetti, Le autodifese contrattuali: artt. 1460 – 1462, in Xxxxxxxxxxx (fondato da), Busnelli (a cura di), Il Codice civile. Commentario, Xxxxxxx, Milano, 2011. Nell’introduzione, l’Autore rileva che gli istituti in questione sono stati a lungo considerati, dalla maggior parte della dottrina, quale propaggine della disciplina della risoluzione per inadempimento, in quanto privi della necessaria autonomia per meritare un approfondimento a sé stante, malgrado l’importanza rivestita nella pratica; in ogni caso, il cuore e il tratto caratteristico che ne consente una comune trattazione è rinvenuto proprio nell’autodifesa, evidenziata sin dalla denominazione prescelta. Roppo, op. cit., 2001, p. 985, le chiama, invece, “eccezioni sospensive”, mentre Sacco, op. cit., 2016, le fa rientrare tra le “eccezioni dilatorie”.
inadempimento, infatti, è proprio il fatto che tale inadempimento sia ingiustificato, mentre, nel caso in cui si possa sollevare l’eccezione in questione, questa vale a giustificarlo sulla base del previo (o contestuale) inadempimento dell’altro contraente.
La seconda delle figure sopra richiamate, invece, rubricata «mutamento nelle condizioni patrimoniali dei contraenti»181 all’interno del codice civile, permette al contraente – che sia debitore di una prestazione – di sospenderne l’esecuzione ove abbia ragione di temere che il conseguimento della controprestazione sia messo in pericolo da un cambiamento peggiorativo intervenuto sul patrimonio dell’altro contraente182, salvo che quest’ultimo abbia prestato idonea garanzia.
A differenza dell’eccezione di inadempimento183, costituisce un rimedio preventivo, la reazione alla minaccia di un inadempimento futuro e non a una lesione già consumatasi; inoltre, può essere invocata per congelare l’adempimento di una prestazione il cui termine naturale scadrebbe prima della controprestazione a rischio184.
181 L’art. 1461 c.c. letteralmente prevede: «Ciascun contraente può sospendere l’esecuzione della prestazione da lui dovuta, se le condizioni patrimoniali dell’altro sono tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della prestazione, salvo che sia prestata idonea garanzia».
182 La modifica delle condizioni patrimoniali di cui trattasi non deve essere equiparabile a tutti gli effetti alla situazione di insolvenza di cui all’art. 1186 c.c. ovvero, addirittura, di quella che rappresenta il presupposto oggettivo per la dichiarazione di fallimento, bastando una situazione patrimoniale peggiore rispetto a quella sussistente o nota al momento della stipula del contratto: cfr. Benedetti, op. cit., p. 99 e ss.
183 Gli istituti di cui agli artt. 1460 e 1461 c.c. sono diversi, ma di certo strettamente connessi: vi è chi, come Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 12, li definisce «aspetti diversi di uno stesso istituto, dotato di un’identica natura e di analoga funzione». Per quanto tale affermazione sia sicuramente suggestiva, non ci si sente di condividerla appieno, dal momento che le due figure sono sì complementari nella funzione ma presentano comunque consistenti differenze: v. infra.
184 Cfr. ancora Roppo, op. cit., 2001, p. 990. L’art. 1461 c.c. offre così un mezzo di tutela alla parte tenuta ad adempiere prima dell’altra, secondo le tempistiche previste in contratto, in quanto il suddetto contraente non potrebbe giovarsi dell’eccezione di inadempimento, che vale nei casi contrari, in cui l’eccipiente è tenuto ad adempiere dopo o al più contestualmente alla controparte inadempiente: v. infra.
La giurisprudenza ha provveduto a chiarire alcuni dei presupposti di tale fattispecie, precisando che «il pericolo di non conseguire la controprestazione da parte dell’altro contraente deve essere attuale e manifesto; deve cioè sostanziarsi in un deterioramento della capacità patrimoniale del primo, tale da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione»185. Il suddetto pericolo deve sussistere, perciò, nel momento in cui la prestazione «congelata» avrebbe dovuto essere eseguita e deve essere originato da un serio mutamento in peius della situazione economico-patrimoniale della controparte186. Inoltre, per rendere applicabile la norma non è necessario che tale modifica sia intervenuta in un momento successivo alla conclusione del contratto, essendo invece sufficiente che la parte opponente non ne fosse a conoscenza allora (e non avesse potuto conoscerla usando la normale diligenza)187.
Per evitare che il contraente che vede in pericolo il proprio interesse alla realizzazione della controprestazione si possa avvalere dell’eccezione sospensiva, la controparte può adottare solo due vie: eseguire anticipatamente l’obbligazione su di lei gravante e ritenuta a rischio, oppure prestare «idonea garanzia» che neutralizzi la minaccia e tuteli il potenziale eccipiente dalle conseguenze dannose di un eventuale inadempimento188. In ogni caso, trovando sempre applicazione il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto189, il
185 Ex multis, cfr. Cass. civ., sez. II, 4.8.1988, n. 4385, rinvenibile in Giust. civ., 1988, I, p. 2913 e ss. con nota di Costanza, Sul legittimo uso della facoltà di sospendere la prestazione.
186 Sempre secondo la Suprema Corte, il mutamento in parola, per giustificare l’eccezione di sospensione, dev’essere dato dal sopravvenire di circostanze incidenti sulla sostanza qualitativa e quantitativa del patrimonio dell’altro contraente, che rendano più incerto il conseguimento della controprestazione e, in ipotesi, più difficile l’utile esperimento della procedura esecutiva. La situazione di pericolo viene assimilata all’eventus damni che, al verificarsi delle condizioni richieste, consente il ricorso ai rimedi conservativi della garanzia generica del credito, quali le azioni surrogatoria e revocatoria o il sequestro conservativo: cfr. Cass. civ., sez. II, 24.2.1999, n. 1574.
187 Xx xxxxxx, xxx. Xxxx. xxx., xxx. XX, 00.0.0000, n. 4320.
188 Cfr. Benedetti, op. cit., p. 106.
189 Benché non venga espressamente ripetuto nel testo dell’art. 1461 c.c., sarebbe applicabile anche a tale norma il 2° comma dell’art. 1460 c.c.: cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 128.
rifiuto della prestazione sarà considerato giustificato ove l’inadempimento prospettato non sia di lieve importanza.
La terza fattispecie, invece, è la c.d. «clausola limitativa della proponibilità di eccezioni»190, la quale è volta a circoscrivere la possibilità di inserire nel contratto una simile previsione, escludendo quantomeno i casi in cui è la stessa validità del contratto a essere messa in discussione (poiché, ove fosse l’intero negozio ad essere invalido, verrebbe meno la fonte stessa delle prestazioni). In altre parole, mediante l’apposizione di una clausola «solve et repete» all’interno del testo negoziale, si evita che la parte che sarebbe tenuta a rendere una determinata prestazione possa opporre delle eccezioni, in merito alle quali sarebbe chiamato a decidere un giudice, dilatando notevolmente i tempi per la realizzazione dell’interesse di controparte. Avvalendosi della formula citata, invece, colui che intendesse avanzare degli argomenti contrari alla pretesa contrattuale dell’altro paciscente sarebbe comunque tenuto a soddisfarla e solo in un secondo momento potrebbe farla valere in giudizio, per ripetere quanto versato (si tratta, normalmente, di obbligazioni pecuniarie)191.
Mediante la clausola «solve et repete», peraltro, non si intende distorcere l’equilibrio interno al sinallagma contrattuale a tutto vantaggio di un’unica parte e a discapito dell’altra; al contrario, la ratio è proprio quella di proteggere il contraente corretto da quelli che potrebbero essere meri espedienti dilatori, posti in essere dall’altra parte per rinviare a data da destinarsi l’esecuzione della propria obbligazione. In ultima istanza, quindi, la clausola in parola è uno strumento offerto dall’ordinamento per rafforzare, non per indebolire, il vincolo
190 Disciplinata dall’art. 1462 c.c., il quale prevede: «La clausola con cui si stabilisce che una delle parti non può opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta, non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullabilità e di rescissione del contratto. Nei casi in cui la clausola è efficace, il giudice, se riconosce che concorrono gravi motivi, può tuttavia sospendere la condanna, imponendo, se del caso una cauzione».
191 Cfr. Roppo, op. cit., 2001, p. 992.
contrattuale192. La possibilità di proporre eccezioni ove si ritenga di avere validi motivi per rifiutarsi di rendere la prestazione cui ci si era impegnati è prevista dall’ordinamento nell’interesse delle parti, pertanto queste ultime sono libere di rinunciarvi193.
Il legislatore, consapevole dei possibili abusi che avrebbero potuto farsi della norma in questione, ha introdotto due correttivi espressi: in primo luogo, come già precisato, la clausola è inefficace in tutti i caso in cui l’argomento da eccepire contro la pretesa altrui consista in una forma di invalidità del contratto; in secondo luogo, quale specificazione nella singola fattispecie del principio di buona fede, si permette all’organo giudicante di disapplicare la clausola (anche se formalmente efficace) ove vi siano serie ragioni per farlo (ad esempio, quando sin da una delibazione superficiale l’eccezione appaia fondata). Infine, la disciplina codicistica prevede altresì che, ove la clausola sia apposta a un contratto generico, la stessa richieda una specifica sottoscrizione da parte
192 La Corte Costituzionale, con pronuncia n. 256 del 12.11.1974, ha respinto le questioni di legittimità costituzionale avanzate nei confronti dell’art. 1462 c.c. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. In tale occasione, la Consulta ha precisato che la clausola in questione trova la sua fonte in un contratto liberamente stipulato (dunque nel principio di autonomia negoziale) e non costituisce ostacolo all’instaurarsi di un valido rapporto processuale, avendo solo l’effetto di consentire la pronta soddisfazione della pretesa creditoria della controparte senza far luogo all’esame delle eccezioni del debitore, le cui ragioni potranno essere fatte valere dopo l’adempimento. Inoltre, il fatto che tale formula sia stabilita a carico di un solo contraente è giustificato, se si considera che essa è diretta ad assicurare la parte normalmente tenuta ad eseguire per prima la propria prestazione, circa il puntuale adempimento della prestazione corrispettiva della controparte, differito nel tempo. Tale clausola trova infatti frequente applicazione nei contratti di compravendita, di somministrazione e di locazione immobiliare, nei quali siano accordate dilazioni per il pagamento del prezzo, o stabiliti termini successivi per il pagamento delle singole somministrazioni, ovvero pattuito il regolare pagamento del canone secondo una determinata periodicità; ed ha precisamente lo scopo di garantire il venditore o fornitore, che ha consegnato la merce, e il locatore, che ha immesso il conduttore nel godimento della cosa locata, contro pretestuose eccezioni dilatorie. Inoltre, la sua validità ed efficacia è configurabile, per effetto dei limiti previsti espressamente nell’art. 1462 c.c., solo nei confronti delle eccezioni aventi il loro fondamento nell'inesatto o imperfetto adempimento da parte dell'attore, cioè delle exceptiones inadimpleti, e più propriamente non rite adimpleti contractus. In proposito, cfr. Benedetti, op. cit., p. 121 e ss.
193 Cfr. Torrente - Xxxxxxxxxxx, op. cit., p. 654.
dell’aderente194 quale garanzia di una consapevole approvazione; ove invece la suddetta clausola sia contenuta in un contratto concluso tra un consumatore e un professionista, essa sarà considerata vessatoria195.
9) L’exceptio inadimpleti contractus, principale tecnica di autotutela conservativa.
Dopo aver illustrato il contesto sistematico in cui affonda le proprie radici l’istituto cardine del presente elaborato, vale a dire l’eccezione di inadempimento, è possibile illustrarne le caratteristiche che le sono proprie, alla luce delle chiarificazioni e degli aggiustamenti apportati nel tempo dalla giurisprudenza e dalla dottrina civiliste, per poi esplorare nei prossimi capitoli le evoluzioni che potrebbero intervenire nell’utilizzo di questo strumento all’interno di un settore percorso da logiche parzialmente diverse, com’è quello del diritto del lavoro, alla luce delle più recenti modifiche legislative sopravvenute.
L’eccezione di inadempimento196, quale positivizzazione del brocardo
«inadimplenti non est adimplendum» già immanente nel nostro ordinamento e
194 Si veda quanto disposto dall’art. 1341, 2° co., c.c., che in assenza della firma prevede quale sanzione l’inefficacia.
195 Si fa qui riferimento all’art. 33, 2° co., alle lettere r) e t), cod. cons., ai sensi del quale si presumono vessatorie le clausole che hanno per oggetto o per effetto, rispettivamente, «limitare o escludere l’opponibilità dell’eccezione di inadempimento da parte del consumatore» ovvero
«sancire a carico del consumatore (…) limitazioni della facoltà di opporre eccezioni».
196 Sul tema si possono richiamare le seguenti opere: Dalmartello, Eccezione di inadempimento, in Noviss. Dig. it., vol. VI, 1960, p. 365 e ss.; Realmonte, Eccezione d’inadempimento (voce), in Enc. Giur., XIV, 1965, p. 222 e ss.; Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 14 e ss e 191 e ss.; Xxxxxxx, op. cit., p. 129 e ss.; Saturno, L’autotutela privata. I modelli della ritenzione e dell’eccezione d’inadempimento in comparazione col sistema tedesco, ESI, 1995; Bianca, Eccezione di inadempimento e buona fede, in Il contratto. Silloge in onore di Oppo, Cedam, Padova, 1992, p. 515 e ss.; Rappazzo, op. cit., p. 48 e ss.; Vecchi, L’eccezione di inadempimento, in Mazzamuto S. (a cura di), Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Giappichelli, Torino, 2002; Xxxxxxxx, op. cit., p. 119 e ss.; Di Majo, op. cit., 2009, p. 234 e ss.; Cappuccini, L’autotutela unilaterale passiva, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 143 e ss.; Benedetti, op. cit., p. 5 e ss..
tuttora vigente anche nel diritto internazionale197, è stata disciplinata espressamente dall’art. 1460 c.c. Tale norma prevede che «nell’ambito dei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto. Tuttavia, non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede».
Per mezzo di tale strumento, la parte (che rivesta la doppia qualità di debitore e di creditore all’interno di un contratto sinallagmatico) può198 validamente resistere alla contestazione, mossagli dall’altro contraente, di non aver adempiuto alla propria prestazione a causa dell’inadempimento della controparte stessa. È un rimedio di carattere generale, rimesso all’iniziativa e alla volontà delle parti, può essere sollevato in giudizio dal convenuto oppure in via stragiudiziale, non richiede forme particolari affinché sia validamente esperito e si concretizza in un rifiuto legittimo di adempiere alla propria obbligazione.
In questo modo, insomma, il contraente che abbia mantenuto una condotta corretta e che, malgrado la rottura del vincolo contrattuale causata
197 Cfr. Pavoni, L’autotutela nel diritto comunitario e internazionale, in Gianniti (a cura di), op. cit., p. 570 e ss. Si rammenta, inoltre, la previsione di cui all’art. 71 della Convenzione di Vienna sui contratti di compravendita internazionale di merci (adottata a Vienna l’11.4.1980, resa esecutiva con L. 11.12.1985, n. 765), più simile però alla disposizione sulla sospensione della prestazione di cui all’art. 1461 c.c. che non all’eccezione di inadempimento. Allo stesso modo, all’interno dei Principles of European Contract Law vi è una disposizione (sec. 9:201) rubricata “Right to withold performance” che prevede «1. A party who is to perform simultaneously with or after the other party may withhold performance until the other has tendered performance or has performed. The first party may withhold the whole of its performance or a part of it as may be reasonable in the circumstances. 2. A party may similarly withhold performance for as long as it is clear that there will be a non-performance by the other party when the other party's performance becomes due». Cfr., al riguardo, le notazioni di Vecchi, op. cit., p. 379, e di Benedetti, op. cit., p. 22, nota n. 54.
198 In merito al concetto di «facoltà del creditore» nella disciplina generale delle obbligazioni,
classificate in satisfattive, dispositive e sanzionatorie, si rinvia a Iorio, op. cit., 2012, p. 9 e ss.
dall’inadempimento della controparte, non voglia avvalersi della risoluzione prevista dall’art. 1453 c.c., ma intenda invece mantenere in vita il rapporto obbligatorio, può farlo, riducendo al contempo i danni provocatigli dalla mancata realizzazione del sinallagma ed evitando di dover rendere a propria volta una prestazione che l’inadempimento altrui ha reso priva di giustificazione; ciò almeno sino a quando l’eccepito non abbia almeno offerto il proprio adempimento. Grazie allo strumento in questione, si conserva una sorta di equilibrio tra le posizioni sostanziali dei contraenti, che altrimenti sarebbe destabilizzato dall’inadempimento originario.
Allo stesso tempo, dopo la consistente esposizione della categoria sistematica dell’autotutela, è appena il caso di sottolineare che l’eccezione di inadempimento costituisce un rimedio che l’ordinamento mette a diretta disposizione dei singoli soggetti delle obbligazioni199, i quali vengono così posti nella condizione di paralizzare la pretesa avversaria senza dover subire per questo conseguenze negative (almeno astrattamente) e senza dover attendere i tempi necessari a un giudice per valutare la situazione e l’eventuale sentenza costitutiva, che sancisca lo scioglimento del vincolo contrattuale e la conseguente liberazione dai reciproci obblighi. Grazie al suddetto strumento, il paciscente fedele al vincolo contrattuale può legittimamente difendersi dalla violazione commessa dalla controparte, avere il tempo di valutare le proprie opzioni e nel contempo tentare di indurre l’altro contraente all’adempimento senza dover necessariamente sostenere le spese e l’alea di un processo.
Nella maggior parte dei casi, infatti, l’eccezione di inadempimento viene sollevata prima e al di fuori di un giudizio, essendo pienamente efficace già sul piano stragiudiziale; tuttavia, nulla impedisce che venga fatta valere anche nel
199 La Suprema Corte ha più volte affermato la natura di strumento di autotutela della norma di cui all’art. 1460 c.c.: ex multis, si vedano Cass. civ., sez. II, 5.7.2012, n. 11304; Cass. civ., sez. II, 31.5.2010, n. 13231; Cass. civ., sez. II, 24.5.1996, n. 4780.
corso di un procedimento200. L’eccezione d’inadempimento, infatti, agisce non solo sul piano sostanziale, ma anche su quello processuale201: in tale ultimo caso, l’istituto in parola potrà essere opposto dalla parte convenuta in giudizio non solo per controbattere all’eventuale richiesta di adempimento da parte dell’attore, ma altresì, se del caso, per neutralizzare la domanda di risoluzione per inadempimento proposta da quest’ultimo202. La rilevabilità dell’eccezione, tuttavia, coerentemente con la natura di mezzo di autodifesa, è rimessa all’iniziativa del soggetto convenuto, non potendo il giudice esaminarla d’ufficio203.
200 Cfr. Cass. civ., sez. II, 26.5.2003, n. 8314, ove si afferma il principio per cui l’eccezione di inadempimento può essere dedotta per la prima volta in sede giudiziale, anche ove non sia stata opposta in precedenza per giustificare il rifiuto dell’adempimento ex adverso richiesto, in quanto la facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, a fronte di un grave inadempimento della controparte, non è subordinato ad alcuna condizione, né alla previa intimazione di una diffida né ad alcuna generica contestazione dell’inadempimento.
201 Cfr. Cass. civ., sez. II, 11.8.1997, n. 7480, che ribadisce tale principio spiegando che
«l’exceptio inadimpleti contractus consente non solo di paralizzare la domanda di adempimento ma pur di escludere il diritto della controparte di far accertare o di domandare la risoluzione del contratto». In senso conforme, cfr. anche TAR Latina, 1.9.2005, n. 662.
202 Cfr. Cass. civ., sez. I, 3.5.1979, n. 2549, ove si afferma testualmente che «La disposizione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 1453 c.c., secondo cui dalla data della domanda di risoluzione l'inadempiente non può più adempiere la propria obbligazione, non preclude alla parte convenuta in giudizio per la risoluzione del contratto di sollevare l'eccezione "inademplenti non est adimplendum", al fine di far accertare che il proprio inadempimento trova la sua giustificazione nell'inadempimento dell'altro contraente, in quanto l'eccezione di cui all'art. 1460
c.c. non ha solo la limitata funzione di paralizzare la domanda di adempimento, ma può anche essere impiegata per escludere il diritto della controparte alla risoluzione del contratto, previa valutazione comparativa del comportamento dei contraenti, in riferimento all'elemento cronologico delle rispettive inadempienze e ai rapporti di causalità e proporzionalità degli inadempimenti rispetto alla funzione economico-sociale del contratto». In senso conforme, anche Cass. civ., sez. II, 23.5.1980, n. 3400, che ritiene possibile paralizzare altresì la domanda di accertamento di una risoluzione “ope legis” a seguito di una sterile diffida ad adempiere.
203 Cfr. Cass. civ., sez. III, 29.9.1999, n. 10764. Della stessa opinione è Roppo, op. cit., 2006, p. 419, il quale sostiene che l’orientamento circa la natura sostanziale delle eccezioni dilatorie è ormai assolutamente prevalente e trova conferma nella formula utilizzata da molte pronunce giurisprudenziali, per cui «L’exceptio inadimpleti contractus di cui all’art. 1460 costituisce un’eccezione in senso proprio, rimessa, pertanto, alla disponibilità ed all’iniziativa del convenuto, senza che il giudice abbia il dovere di rilevarla o di esaminarla d’ufficio»: cfr. ad esempio Cass. civ., sez. II, 5.8.2002, n. 11728 e, in dottrina, Vecchi, op. cit., p. 378 e Xxxxxxxx, op. cit., p. 169; quest’ultimo, però, effettua delle distinzioni, propendendo per la non rilevabilità
9.1) Le radici storiche dell’eccezione di inadempimento.
Benché alcuni interpreti ritengano di poter far risalire le origini dell’istituto in commento sino al diritto romano204, le prime tracce riconducibili in modo più certo a tale figura si possono rinvenire piuttosto nel diritto intermedio, quando si è iniziato a considerare ingiusto costringere un contraente a rendere la propria prestazione in favore di un altro contraente che, al contrario, non dimostra alcuna volontà di prestar fede al contratto in essere tra le parti, arricchendosi in modo ingiustificato. A seconda, poi, che l’obbligazione non adempiuta avesse ad oggetto il dovere di dare ovvero di facere, i mezzi per salvaguardare il sinallagma contrattuale consistevano in una ritenzione del bene o della prestazione (in altre parole, una sospensione dell’azione dovuta)205.
I primi rimedi avverso simili frangenti, esperibili in via di autodifesa dai privati cittadini, iniziano ad essere accolti nel diritto positivo alle soglie del XX secolo, in gran parte dell’Europa continentale (in particolare, ne abbiamo notizia
d’ufficio in caso di mancata proposizione dell’eccezione da parte del convenuto regolarmente costituitosi (il quale avrebbe così deciso di rinunciarvi liberamente) e, invece, sostenendo la possibilità per il giudice di respingere la domanda attorea in virtù del previo inadempimento dell’agente, nel caso di contumacia del convenuto, il quale però abbia sollevato l’eccezione in via stragiudiziale e ciò risulti agli atti. Voce minoritaria seppur autorevole è costituita da Sacco, op. cit., 2004, p. 644 e ss., il quale non ritiene che l’art. 1460 c.c. integri un’eccezione sul piano sostanziale.
204 Per una motivata critica a tale impostazione, si rinvia a Fascione, Profili storici dell’inadempimento, in RIDL, 1993, II, p. 704 e ss. e anche Benedetti, op. cit., p. 7 e ss. A favore invece delle radici romanistiche si vedano Auletta, La risoluzione per inadempimento, Xxxxxxx, Milano, 1942, p. 16 e ss. e Ferrara Xxxxxxxxxx, op. cit., p. 113, il quale riconduce la fattispecie dell’eccezione d’inadempimento all’exceptio doli generalis. Uno studio di Vacca, Profili della “risoluzione” nella compravendita e nella locazione fra storia e comparazione, in Europa e dir. priv., 1998, 2, p. 493 e ss., ritiene che la giurisprudenza romana dell’età classica fosse già riuscita a individuare «i principi che regolano le conseguenze dell’inadempimento» e avesse utilizzato i criteri del bonum et aequum quantomeno in riferimento alla vendita consensuale. Il giudice poteva dunque esaminare il rapporto contrattuale nel suo complesso, senza aver bisogno di un’apposita exceptio al fine di valutare comportamento ed eventuali scorrettezze di entrambi i contraenti.
205 Xxxxxxxx, op. cit., p. 121. Cfr. anche Benedetti, op. cit., p. 9 e ss.
in Germania206 e in Francia207). Tuttavia, durante la vigenza del codice civile del 1865, malgrado dottrina e giurisprudenza riconoscessero la sussistenza nel nostro ordinamento del principio inadimplenti non est adimplendum, considerandolo un precipitato del principio di buona fede, o dell’equità, o della facoltà del creditore di avvalersi della risoluzione in caso di inadempimento, o di una serie di altre norme208, il legislatore aveva optato per non introdurlo nella codificazione quale rimedio di carattere generale209. Tale inserimento avverrà solo nel 1942, all’art. 1460 c.c. già riportato e in una serie di previsioni specifiche all’interno delle varie tipologie contrattuali210. Oltre all’eccezione di inadempimento verrà codificato anche il diritto di ritenzione, ma solo all’interno della disciplina dei singoli contratti, senza l’inserimento di un’analoga norma nella parte generale.
206 Saturno, op. cit., p. 1 e ss..
207 Risalente nel tempo, Cassin, De l’exception tirée de l’inexécution dans les rapports synallagmatiques (exceptio non adimpleti contractus) et de ses relations avec le droit de rétention, la compensation et la résolution, Xxxxxxxxx xx xx Xxxxxxx xx Xxxxxxx Xxxxx, 0000. Richiama questo autore, e altresì quello della nota precedente, anche Roppo, Rimedi-2, in Trattato del contratto, vol. 5, Xxxxxxx, Milano, 2006, p. 414.
208 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 127, Fascione, op. cit., p. 709, e Benedetti, op. cit., p. 15.
209 Se non in via mediata, nella disciplina di alcuni particolari contratti (come, d’altronde, era già avvenuto nel Code civil francese dell’epoca, che ne costituiva l’archetipo), quale ad esempio la compravendita, v. artt. 1469 e 1510 del codice civile del 1865, rispettivamente a favore del venditore e del compratore: cfr. Benedetti, op. cit., p. 15. Lo studio che per primo ha avuto il merito di ricostruire la storia dell’exceptio inadimpleti contractus nel nostro ordinamento, riconoscendole la dignità di istituto autonomo e generale, è quello di Scaduto, L’ “exceptio non adimpleti contractus”nel diritto civile italiano, in Annuali del Seminario giuridico, Palermo, 1921. Benedetti (op. cit., p. 18) afferma che Scaduto, a questo proposito, ha fatto per l’Italia quello che Cassin ha fatto per la Francia.
210 Si pensi agli artt. 1481 e 1482 c.c., in materia di compravendita, che prevedono la possibilità per il compratore di sospendere il pagamento del prezzo ove vi sia pericolo di rivendita da parte di terzi, ovvero se la cosa acquistata sia oggetto di garanzie reali comunque o gravata da vincoli in favore di terzi; all’art. 1565 c.c., in materia di somministrazione, che prevede la possibilità per il somministrante di sospendere l’esecuzione del contratto a fronte di un inadempimento della controparte di non lieve entità; all’art. 1901 c.c., in materia di assicurazione, che stabilisce la sospensione dell’assicurazione in caso di mancato pagamento del premio da parte dell’assicurato.
9.2) La configurazione giuridica dell’eccezione di inadempimento: presupposti, ambito di operatività e funzioni.
I presupposti dell’operatività dell’eccezione di inadempimento desumibili dalla lettera della norma e precisati dagli studiosi211 consistono essenzialmente nel rapporto di corrispettività che lega le prestazioni reciproche delle parti del contratto, in una particolare concatenazione temporale delle suddette prestazioni (che distingue, come abbiamo già accennato, l’art. 1460 c.c. dal successivo art. 1461 c.c.), nell’inadempimento di uno dei contraenti (il quale, secondo certa dottrina, dovrebbe possedere determinate caratteristiche per rilevare ai sensi dell’art. 1460 c.c.), nonché nel rispetto di una particolare declinazione del principio di buona fede (su quest’ultimo aspetto, che riveste un’importanza particolare anche nel prosieguo dell’elaborato, ci si soffermerà più estesamente in un apposito paragrafo).
Il primo elemento su cui si è concentrata l’attenzione degli interpreti è dato dal nesso sinallagmatico212 che deve intercorrere tra le prestazioni del contratto (quella inadempiuta e quella sospesa), il quale rappresenta al contempo un requisito e un oggetto di tutela dell’eccezione: infatti, se da un lato quest’ultima si giustifica solo ove si tratti di un contratto a prestazioni corrispettive213, dall’altro l’esperimento dell’exceptio mira a rinsaldare il vincolo contrattuale e a garantire una certa reciprocità negli adempimenti (sia in positivo che in
211 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 131 e ss.; Dalmartello, op. cit., p. 357; Realmonte, op. cit., p. 227; Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., p. 14 e ss.; Benedetti, op. cit., p. 28 e ss.
212 Cfr. Dalmartello, op. cit., p. 354 e ss., ove si dichiara che l’eccezione di inadempimento sarebbe una manifestazione minore del sinallagma funzionale, mentre la risoluzione per inadempimento ne costituirebbe la manifestazione maggiore; l’Autore rammenta che con il termine «sinallagma», la cui etimologia discende dal greco, si intende fornire una formulazione sintetica in grado di racchiudere il nesso sussistente tra due obbligazioni reciproche, che si manifesta tanto nella fase costitutiva del contratto (c.d. «sinallagma genetico») sia nella fase esecutiva dello stesso (c.d. «sinallagma funzionale»).
213 La particolare struttura del contratto a prestazioni corrispettive fa sì che ciascuna delle parti abbia assunto la propria obbligazione in considerazione del raggiungimento contestuale della controprestazione, per cui sia disposta ad adempiere solo ove lo faccia anche l’altra.
negativo, in modo da non destabilizzare la posizione di uno solo dei contraenti a vantaggio – peraltro illecito – dell’altro).
Gli studiosi si sono interrogati in merito a quali tipi di rapporti obbligatori potessero rientrare nella definizione di contratti sinallagmatici e, soprattutto, nell’ambito di quali potesse sollevarsi legittimamente il mezzo di autotutela in questione. Se di certo vi rientrano i contratti c.d. onerosi e, tra questi, i contratti di lavoro subordinato, ad esempio, è invece dubbio se ricomprendervi anche i
c.d. contratti bilaterali imperfetti214, che prevedono l’assunzione dell’obbligo a carico di una sola delle parti.
Un altro quesito la cui soluzione potrebbe avere riflessi rilevanti per il prosieguo dell’opera è quello che riguarda l’operatività dell’eccezione anche per quelle prestazioni che non costituiscono l’obbligazione principale, bensì degli obblighi accessori a quest’ultima. Mediante tale definizione ci si intende riferire ai c.d. «obblighi di protezione»215, quei doveri che corredano l’oggetto precipuo dell’obbligazione, affinché siano protetti la persona e il patrimonio dell’altro contraente durante l’esecuzione del rapporto, quali applicazioni concrete delle clausole generali di correttezza e buona fede che conformano a sé l’intero settore delle obbligazioni. Parte della dottrina civilista italiana, in realtà, propende cautelativamente per l’ammissibilità dell’eccezione di inadempimento solo a fronte di prestazioni che siano l’oggetto primario del contratto o, al massimo, immediatamente accessorie ad esse216. Vi è, tuttavia, chi ha invece considerato calzante anche a tale norma una nozione unitaria217 di prestazione, che tenga
214 In termini dubitativi si veda Xxxxxxxx, op. cit., p. 131 e ss, in termini recisamente negativi cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 16.
215 Per un’esaustiva comprensione della tematica indicata, pare imprescindibile partire da Mengoni, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzo» (studio critico), in RDComm, 1954, I, p. 180 e ss., nonché da Xxxxxxx, op. cit., p. 53 e ss.; in generale, cfr. Xxxxxxxxxx, Obblighi di protezione (voce), in Enc. giur., vol. XXI, Roma, 1990.
216 Cfr. Realmonte, op. cit., p. 224 e ss.
217 Cfr. Xxxxxx, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Cicu e Messineo (diretto da), Trattato di diritto civile e commerciale, XVI, t. 1, Xxxxxxx, Milano, 1974, p. 12 e ss., il quale ritiene che i
conto sia della fase statica che di quella dinamica (vale a dire l’attuazione) del rapporto obbligatorio e che comprenda «tutte le attività che, anche se non esplicitamente dedotte in obligatione, appaiono indissolubilmente concatenate in funzione di quel risultato»218. Seguendo questo ragionamento, si potrebbe altresì aprire la strada per l’inclusione nelle obbligazioni inadempiute che giustifichino l’exceptio di quelle nascenti nel corso dell’esecuzione del rapporto e risultanti da condotte assunte nell’esplicazione di un’attività dovuta219. La questione può dirsi ancora aperta ma sarà ripresa nel prosieguo, in quanto un’eventuale soluzione positiva consentirebbe spunti di tutela meritevoli di attenzione anche nell’ambito del diritto del lavoro.
Per quanto riguarda il requisito costituito dall’inadempimento legittimante, si è discusso se dovesse rivestire i caratteri previsti dall’art. 1455 c.c.220 con
doveri integrativi o accessori di protezione non abbiano in realtà alcuna autonomia rispetto alla prestazione principale.
218 Questa è la posizione di Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 21 e ss., la quale a sua volta cita Xxxxxx, L’attuazione del rapporto obbligatorio, in Messineo (diretto da), Trattato di diritto civile e commerciale, t. 2, Xxxxxxx, Milano, 1967, p. 105. Anche Vecchi, op. cit., p. 394 e ss., sembra auspicare una simile soluzione, dopo aver richiamato la dottrina tedesca che è prevalentemente orientata proprio nel senso che «una volta concluso il contratto, (questi obblighi) vengano ad integrarne il contenuto, arricchendolo di situazioni di dovere che non solo gravano su entrambe le parti, ma concorrono al perseguimento dei risultati da queste perseguiti, di modo che il loro inadempimento può consentire il ricorso a tutti i rimedi contrattuali, compreso quello in esame». Il medesimo Autore, inoltre, trova una possibile dimostrazione del fatto che anche gli obblighi di protezione, quale quello di sicurezza, possa giustificare l’eccezione di inadempimento nei casi, appartenenti al settore lavoristico, in cui il datore di lavoro abbia violato obblighi diversi da quelli della retribuzione, quali l’adibizione a mansioni non corrispondenti alla qualifica, ovvero il trasferimento ingiustificato.
219 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 24.
220 L’art. 1455 c.c., rubricato “Importanza dell’inadempimento”, prevede che quest’ultimo dev’essere di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse della controparte che lo subisce. Da tale norma deriva che la gravità dell’inadempimento vada valutata considerando la situazione di entrambe le parti. La giurisprudenza è intervenuta più volte a specificare cosa si intenda per inadempimento di non scarsa importanza; cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 28.6.2010, n. 15363, ove si è precisato che tale principio va adeguato a un criterio di buona fede contrattuale, perciò la gravità dell’inadempimento non va commisurata all’entità del danno, che potrebbe anche mancare, ma alla rilevanza della violazione del contratto con riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto interesse dell’altra parte all’esatta e tempestiva prestazione.
esplicito riferimento all’inadempimento che giustifica, invece, la risoluzione contrattuale. Pur se in giurisprudenza vi sono state alcune pronunce in cui, evidentemente influenzati dalla norma citata, i giudici hanno ritenuto necessario rimarcare che – anche nel caso dell’eccezione – l’inadempimento legittimante è solo quello grave, venendo altrimenti violato il principio di buona fede di cui al 2° comma dell’art. 1460 c.c.221, la dottrina si è ormai distaccata da tale approccio, ribadendo la profonda differenza esistente tra il rimedio in questione e la risoluzione del contratto. Può pertanto capitare che vi siano inadempimenti che giustifichino l’exceptio, pur non consentendo la risoluzione222.
Inoltre, è possibile estendere l’ambito di operatività dell’eccezione anche nei casi in cui l’inadempimento consista in un adempimento inesatto, in quanto parziale ovvero difforme da quello dovuto. Tale conclusione è corroborata a contrario dalla previsione di cui all’art. 1218 c.c., per cui l’unico adempimento in grado di liberare il debitore è quello esatto. Pertanto, oltre all’exceptio inadimpleti contractus, si sostiene che sussista nel nostro ordinamento anche l’exceptio non rite adimpleti contractus223, figura del tutto analoga alla prima e soggetta alle medesime regole, benché maggiormente soggetta al rischio di abuso: sarà infatti più difficile valutare la proporzionalità tra un adempimento quantitativamente o qualitativamente inesatto e un inadempimento assoluto, ma anche solo verificare la non pretestuosità dell’eccezione, dal momento che la qualità è un fattore soggetto a un alto grado di relatività224.
È opportuno rilevare altresì come, da certa parte della dottrina, non sia reputato necessario neppure che l’inadempimento sia imputabile alla
221 Cfr. Cass. civ., sez. II, 22.1.2000, n. 699.
222 Cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 46, Benedetti, op. cit., p. 55 e Cass. civ., sez. III, 26.1.2006, n. 1690, che non vi ravvisa alcuna contraddizione. Ciò non significa, naturalmente, che tra i due inadempimenti (quello addotto come giustificazione e quello da scriminarsi) non debba intercorrere un rapporto di proporzionalità, come si dirà più ampiamente infra.
223 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 129; cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 39 e ss., nota 47.
224 Cfr. Benedetti, op. cit., p. 62 e ss.
controparte, in quanto non ci sarebbe bisogno di alcuna valutazione in termini di dolo o colpa, dal momento che l’inadempimento rileverebbe sul piano oggettivo225. Ultima caratteristica che deve presentare l’inadempimento, discendente dalla funzione dilatoria dell’istituto, è data dalla circostanza che non deve essere irreversibile226: ove lo fosse, infatti, l’unico rimedio a disposizione della parte sarebbe la risoluzione per inadempimento e l’eventuale domanda di risarcimento danni, in quanto il rapporto contrattuale sarebbe già stato incrinato irrimediabilmente.
Altro presupposto implicito della fattispecie in esame è dato dall’ordine temporale delle prestazioni: secondo la lettera della norma, il rimedio è utilizzabile dal contraente che deve adempiere contestualmente all’altra parte, ogniqualvolta l’adempimento sia previsto come simultaneo. In dottrina227 e in giurisprudenza228, poi, si è affermato l’orientamento per cui l’area di applicabilità dell’eccezione si estenderebbe altresì al contraente che debba adempiere dopo la controparte; per il contraente chiamato ad adempiere per primo, invece, lo strumento di autotutela previsto è quello di cui all’art. 1461 c.c.229.
225 In questo senso, cfr. Xxxxxxxxx Xxxx, op. cit., 1974, p. 34 e ss e Benedetti, op. cit., p. 54. Sul criterio di imputabilità dell’inadempimento contrattuale, pur se nell’ottica della risoluzione, cfr. Iorio, op. cit., p. 35 e ss. Ciò tuttavia non impedisce che gli elementi soggettivi vengano recuperati e assumano un valore all’interno della valutazione di buona fede ex art. 1460, 2° comma, c.c.: cfr. Benedetti, op. cit., p. 53.
226 Cfr. Sacco, op. cit., p. 641. La non irreversibilità dell’inadempimento può qualificarsi requisito “implicito” della fattispecie: il termine è usato da Benedetti, op. cit., p. 61.
227 Cfr. Realmonte, op. cit., p. 228 e ss., ove vi si fa riferimento come a un argomenti a fortiori.
228 Parte della giurisprudenza, in realtà, si è spinta anche oltre, ammettendo l’esperibilità dell’eccezione ex art. 1460 c.c. anche in favore del contraente tenuto ad adempiere per primo, a fronte di situazioni di pericolo di inadempimento particolarmente elevato: cfr. Cass. civ., sez. III, 14.3.2003, n. 3787. Tale orientamento non sembra però condivisibile, in quanto l’exceptio inadimpleti contractus non può essere sollevata avverso a un inadempimento solo prospettato, a meno di non volerne snaturare l’essenza di rimedio di autotutela contro una lesione già in atto.
229 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 135 e ss. Per quanto riguarda più specificamente l’art. 1461 c.c., v. il paragrafo precedente. Vi sono in realtà delle pronunce giurisprudenziali che estendono l’esperibilità dell’eccezione di inadempimento anche alla parte che debba adempiere entro un
L’ultimo dei requisiti elencati nell’incipit del paragrafo è costituito dalla conformità dell’exceptio al principio di buona fede: data l’importanza di quest’ultima valutazione e del ruolo della buona fede nell’economia dell’intero elaborato, si ritiene di dedicarvi un intero paragrafo230.
Quanto invece alla funzione e alla natura giuridica dell’eccezione, questa appare ancora soggetta alle dispute degli interpreti, per quanto le relative posizioni ormai non si discostino radicalmente l’una dall’altra e colgano tutte in qualche misura nel segno, esaltando un aspetto in particolare dei molti che un istituto così poliedrico e duttile possiede.
Innanzitutto, alcuni vi hanno ravvisato una funzione di coazione psicologica, dal momento che per il tramite dell’eccezione la parte fedele al sinallagma contrattuale tenta di indurre la parte che è venuta meno ai proprio obblighi contrattuali ad adempiere231. In particolare, il suddetto meccanismo risulta efficace ogniqualvolta si sia in presenza di un adempimento parziale o inesatto, in quanto la controparte che ha adempiuto non recte si assume così un doppio rischio: quello di perdere la prestazione resa (per quanto parziale o inesatta) e quello di non conseguire quella a propria volta attesa.
Vi è stato poi chi ne ha sottolineato la funzione di salvaguardia del sinallagma contrattuale, destabilizzato dall’inadempimento di uno dei contraenti, per evitare alla parte rimasta fedele all’accordo negoziale di essere costretta ad adempiere comunque232 e subire così, oltre al danno, la beffa. L’eccezione d’inadempimento, quale rimedio provvisorio233, svolge altresì una funzione
termine diverso e successivo a fronte di un evidente pericolo di perdere la prestazione, ma non appare condivisibile: cfr. Cass. civ., sez. II, 10.8.1998, n. 7823.
230 V. infra.
231 Cfr. Realmonte, op. cit., p. 239, e Di Majo, La tutela civile dei diritti, Milano, 1993, p. 272, il quale vi ravvisa, letteralmente, una “funzione compulsoria all’adempimento”.
232 Cfr. Dalmartello, op. cit., p. 355 e Bianca, op. cit., 1992, p. 519..
233 Cfr. Bianca, op. cit., 1992, p. 518.
dilatoria o sospensiva, al fine di stimolare una successiva e regolare attuazione del sinallagma contrattuale234.
Analogamente, dunque, l’eccezione può essere considerata come una garanzia a vantaggio del contraente corretto, al fine di giustificarne il temporaneo inadempimento ed evitargli al contempo di dover rendere subito la propria prestazione, in quanto poi molto difficilmente potrebbe recuperare quanto prestato anche se successivamente intervenisse una risoluzione. Ove l’exceptio sia proposta prima dell’inizio dell’esecuzione, inoltre, la stessa garantisce l’integrità patrimoniale235.
Appare invece superata l’opinione dottrinaria236 secondo la quale l’eccezione d’inadempimento rivestirebbe una mera funzione preparatoria rispetto alla risoluzione237, malgrado se ne ritrovi ancor oggi traccia nella giurisprudenza, all’evidente fine di circoscrivere quanto più possibile in via cautelare l’ambito di operatività di uno strumento di autotutela, prediligendo invece il mezzo giudiziale. Tale approccio interpretativo, tuttavia, presta il fianco alla critica, più volte sottolineata, per cui la tutela che possono offrire gli organi giudiziari è sovente molto meno efficace e soddisfacente di quella ottenibile per mezzo dell’exceptio: la prima si risolve, generalmente, in un risarcimento del danno per equivalente, il cui conseguimento è peraltro messo in pericolo dal sempre più frequente sottrarsi dei soggetti soccombenti all’esecuzione dei provvedimenti
234 Cfr. Benedetti, op. cit., p. 58, il quale, a sua volta, richiama la definizione data da Roppo, op. cit., 2001, p. 985, alle eccezioni sospensive: «difese con cui una parte, cui l’altra chieda l’adempimento e/o imputi l’inadempimento, può nell’immediato bloccare le pretese rivolte contro di lei, opponendo fatti che giustificano, almeno temporaneamente, il suo rifiuto di adempiere». Cfr. anche Dalmartello, op. cit., p. 355.
235 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 178-179.
236 Esponente di tale corrente di pensiero è, per esempio, Auletta, op. cit., p. 300 e ss, il quale attribuisce all’eccezione di inadempimento uno strumento volto ad assicurare la fruttuosità di una futura sanzione esecutiva.
237 Un elemento testuale a favore di questa opzione è sicuramente dato dalla collocazione dell’art. 1460 c.c. all’interno del capo dedicato alla risoluzione del contratto e, più specificamente, della sezione relativa alla risoluzione per inadempimento, benché le conseguenze nell’esperimento dei due rimedi siano affatto diverse (cfr. Codice civile, libro IV, titolo II,.capo XIV, sezione I).
giudiziali, eludendo le limitate azioni esecutive esperibili; la seconda, invece, si realizza di per sé in forma specifica ed evita così di cadere nell’area di operatività dell’incoercibilità degli obblighi di fare (che, per esempio nel settore del diritto del lavoro, rappresenta una restrizione consistente, anche dopo le modifiche apportate dall’introduzione nel codice di procedura civile dell’astreinte di cui all’art. 614-bis c.p.c., che, come è noto, esclude esplicitamente dal proprio ambito applicativo le controversie di lavoro).
9.3) Il ruolo centrale della buona fede, quale fondamento e confine dell’eccezione.
Il secondo comma dell’art. 1460 c.c., come illustrato, dispone che «non può rifiutarsi la esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede». Il principio di buona fede cui fa riferimento la norma dev’essere inteso in senso oggettivo238 come dovere di correttezza, quale criterio discretivo in base al quale stabilire l’ammissibilità o meno dell’exceptio nel caso concreto239. Il ruolo assegnato alla clausola generale, allora, è di capitale importanza, quale parametro in base al quale valutare se l’inadempimento addotto sia tale da giustificare il mancato svolgimento della prestazione dovuta dall’excipiens.
Pertanto, qualora si verta della legittimità dell’eccezione sollevata da uno dei contraenti, citato in giudizio dalla controparte che invece richiede la risoluzione per inadempimento, ovvero l’adempimento, talvolta insieme al risarcimento dei danni, l’organo giudicante dovrà procedere a quell’esame di buona fede evocato dalla norma riportata, assicurandosi che vi sia equivalenza tra la prestazione non
238 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 147 e Bianca, op. cit., 1992, p. 515: con tale terminologia ci si riferisce essenzialmente alla buona fede cui deve uniformarsi l’intera fase esecutiva del contratto, ex art. 1375 c.c., che mira a garantire l’esatto adempimento del programma negoziale originario. 239 Cfr. Xxxxxxxx, op. cit., p. 142 e ss.
resa in origine e quella successivamente rifiutata, nonché che l’exceptio non sia stata sollevata pretestuosamente, violando il dovere di comportarsi con lealtà nei confronti della controparte. Come concretamente egli debba effettuare la suddetta valutazione, riempiendo di contenuto la clausola generale240, non è però altrettanto univoco, dal momento che la giurisprudenza (piuttosto vaga od ondivaga sul punto) ha seguito, di volta in volta, orientamenti diversi.
Secondo una linea interpretativa, che ha trovato un certo seguito nelle pronunce dei giudici, l’operazione in questione si tradurrebbe in sostanza in un giudizio che accerti la gravità dell’inadempimento241, in quanto solo nei casi in cui quest’ultimo possa essere definito grave l’exceptio sarebbe legittima. Se, da un lato, questo orientamento risente evidentemente della concezione (come già detto, ormai sorpassata) dell’istituto in parola quale mezzo propedeutico alla risoluzione per inadempimento, dalla cui disciplina trarrebbe il requisito di un mancato adempimento di non scarsa importanza, dall’altro risponde al comune buon senso il fatto che l’inadempimento che consente il ricorso all’autotutela debba essere solo quello dotato di un impatto lesivo di una certa consistenza sulla tenuta dell’assetto contrattuale nel suo complesso.
Un altro orientamento, il più percorso dagli interpreti, invece, ha tradotto la valutazione alla luce del principio di buona fede (considerato come un precetto integrativo del rapporto contrattuale che impone a ogni contraente di
240 Bianca, op. cit., 1992, p. 516 e ss. ha provato ad elencare le varie formule adottate da giurisprudenza e dottrina per identificare la buona fede invocata dalla norma.
241 Tale orientamento è stato criticato e respinto da Bianca, op. cit., 1992, p. 517 e ss, in quanto l’Autore ritiene che, limitando la proponibilità dell’eccezione ai casi in cui l’inadempimento sia di non scarsa importanza, si introdurrebbe arbitrariamente un presupposto che la legge prevede solo per la risoluzione; ciononostante, il suddetto ragionamento è stato sovente utilizzato dai giudici della Suprema Corte: cfr. Cass. civ., sez. III, 11.5.1998, n. 4743; Cass. civ., sez. lav., 16.5.2006, n. 11430; Cass. civ., sez. II, 16.6.2014, n. 13685; da ultimo, anche Cass. civ., sez. II, 4.5.2016, n. 8912, ove si afferma ancora una volta che ove il giudice rilevi che «l’inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l'eccezione non è grave ovvero riveste scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455 c.c., deve ritenere che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e, quindi, non sia giustificato ai sensi dell'art. 1460, comma 2, c.c.».
comportarsi lealmente e salvaguardare l’utilità della controparte242) in un giudizio sulla proporzionalità tra gli inadempimenti, ponendo a confronto la prestazione non eseguita sin dall’inizio e quella successivamente rifiutata dall’excipiens.
È noto che la proporzionalità costituisce, all’interno del nostro ordinamento, un principio fondamentale che soccorre nel caso in cui sia necessario bilanciare interessi opposti, quale precipitato dell’art. 3 Cost.243 Proprio facendo leva su questo espediente, gli organi giudicanti sono riusciti a pervenire a una determinazione equa in molti dei casi specifici sottoposti al loro vaglio. In alcune di tali occasioni, la Suprema Corte ha avuto modo di esplicitare il ragionamento seguito: «nei contratti con prestazioni corrispettive, ai fini della pronuncia di risoluzione per inadempimento in caso di inadempienze reciproche è necessario far luogo ad un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambo le parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi ed all'oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma; tale accertamento è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato»244.
242 Cfr. Bianca, op. cit., 1992, p. 520.
243 Cfr. Perulli, Buona fede e diritto del lavoro, in RGL, 2002, p. 19 e ss.
244 Cfr. Cass. civ., sez. II, 8.6.2006, n. 13365. In senso conforme si vedano, ex multis, Cass. civ., sez. lav., 15.4.2002, n. 5444, Cass. civ., sez. III, 1.6.2004, n. 10477; Cass. civ., sez. lav., 16.5.2006, n. 11430; nonché Cass. civ., sez. III, 11.4.2006, n. 8425, ove si precisa che la valutazione della proporzionalità tra i rispettivi adempimenti va condotta non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che ne facciano le parti, bensì in relazione alla situazione oggettiva. Cfr. altresì Cass. civ., sez. lav., 7.11.2005, n. 21479, che specifica che il giudice di merito deve valutare comparativamente non solo la quantità dei contrapposti inadempimenti (e cioè quanta parte dell'obbligazione assunta sia rimasta inadempiuta), ma anche e soprattutto la qualità di essi (e cioè la loro rilevanza sull'economia del rapporto contrattuale). Cfr. anche Cass. civ., sez. lav., 2.4.2004, n. 6564, la quale stabilisce che è necessaria una valutazione comparativa dei comportamenti, che tenga conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche di quello logico, essendo necessario stabilire se vi sia relazione causale ed adeguatezza, nel senso della proporzionalità rispetto alla funzione economico - sociale del contratto, tra l'inadempimento dell'uno e il precedente inadempimento dell'altro. Peraltro, il rifiuto di adempiere, come reazione
Inoltre, grazie al richiamo letterale a non meglio specificate «circostanze»245 riportato nel 2° comma dell’art. 1460 c.c., gli interpreti potranno valorizzare anche tutta una serie di altri elementi che appaiono non trascurabili ai fini della valutazione: potranno, in tal modo, trovare ingresso all’interno di questa sia elementi oggettivi (quali la natura principale o accessoria della prestazione non adempiuta, il valore economico delle obbligazioni, l’interesse dei creditori all’adempimento etc.) sia elementi soggettivi (quali la chiarificazione delle ragioni reali dell’inadempimento originario, l’eventuale tolleranza dell’altrui inadempimento da parte dell’eccipiente; il momento temporale in cui è stata sollevata l’eccezione rispetto all’esecuzione del contratto)246 che concorreranno a una definizione della questione più equa e più rispondente al caso concreto247.
Già da questa necessariamente sintetica illustrazione emerge la doppia anima che racchiude in sé il principio di buona fede nei confronti dell’eccezione di inadempimento, costituendone allo stesso tempo il fondamento e il limite248.
Che la clausola generale di buona fede si ponga a fondamento dell’istituto emerge dal fatto che lo stesso è volto a consolidare un vincolo contrattuale che sta attraversando un momento di crisi e che sarebbe contrario alla correttezza esigere, in un rapporto sinallagmatico, la prestazione altrui senza adempiere od offrirsi di adempiere la prestazione a proprio carico. In questo senso, l’exceptio è
al primo inadempimento, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e della lealtà, deve risultare ragionevole e logico in senso oggettivo, trovando concreta giustificazione nella gravità della prestazione ineseguita, alla quale si correla la prestazione rifiutata.
245 Già Realmonte, op. cit., p. 230, sottolineava che la legittimità o meno dell’esperimento dell’eccezione andasse valutata non solo sulla base dell’entità dell’inadempienza, ma tenendo conto anche di tutte le circostanze concrete.
246 Cfr. Benedetti, op. cit., p. 53.
247 Tuttavia, secondo un orientamento condiviso da dottrina e giurisprudenza, qualora i contraenti abbiano liberamente inserito nel testo negoziale un’apposita e preventiva valutazione dell’importanza e del rapporto di proporzionalità delle reciproche prestazioni, il tribunale chiamato a giudicare della fondatezza dell’eccezione di inadempimento sollevata da una delle parti dovrebbe attenersi a quanto stabilito dalle stesse in sede di stipula, poiché la loro libera stima è quella davvero rilevante: cfr. Bianca, op. cit., 1992, p. 515, nota 1.
248 Cfr. Benedetti, op. cit., p. 50.
un rimedio esperibile in via di autodifesa contro la scorrettezza del contraente infedele, a patto che si rispetti, a propria volta, il dovere di correttezza.
Tuttavia, il principio in esame rappresenta anche un limite249, in quanto ove l’eccezione sia sollevata da uno dei contraenti in violazione della regola di buona fede, allo scopo di mascherare un proprio inadempimento (o comunque in forza di un motivo non corrispondente alle finalità per cui tale potere è stato previsto e concesso dalla legge), essa non potrà giovare alla parte che l’ha sollevata, restando del tutto priva di effetto. Il contraente in malafede sarà così tenuto a realizzare la prestazione dovuta alla controparte senza potersi legittimamente rifiutare, ovvero sarà comunque esposto alle azioni di risoluzione contrattuale e di risarcimento del danno che all’altro pacificamente spetteranno.
249 Cfr. Bianca, op. cit., 1992, p. 522, il quale elenca i casi in cui il rifiuto di uno dei contraenti di eseguire la propria prestazione risulterebbe abusivo.
CAPITOLO II
L’AUTOTUTELA INDIVIDUALE DEL LAVORATORE
SUBORDINATO
Operatività delle fattispecie di autodifesa contrattuale all’interno del
rapporto di lavoro
Dopo aver impostato la questione concernente l’autotutela in termini civilistici, la si può ora finalmente affrontare sul piano del diritto del lavoro; tuttavia, proprio perché ci si propone di testare uno strumento spurio rispetto a quest’ultima materia, è quanto mai opportuno ripercorrerne i profili di specialità che, se da un lato possono complicare l’applicazione di istituti di autodifesa tout court, d’altro canto ne rendono anche più interessanti e imprevedibili gli esiti e i risvolti.
Mediante questa panoramica “a volo d’uccello”250 si intende solo richiamare taluni snodi problematici fondamentali, su cui gli interpreti, gli studiosi e gli operatori lavoristici hanno a lungo dibattuto (senza perciò poter rendere tutti gli aspetti approfonditi e sviscerati dai soggetti richiamati, ma solo per evidenziare la complessità e l’origine stratificata di tali tematiche), in quanto questioni che rivestiranno un ruolo di primo piano nel processo di regolazione, accomodamento e configurazione sistematica degli istituti di autotutela nell’ambito dei rapporti di lavoro.
250 L’excursus diacronico che occupa i primi paragrafi del presente capitolo è sembrato un passaggio doveroso ed ineliminabile della presente trattazione, contaminata fin nel suo impianto dalla non sempre pacifica compresenza di approcci civilistici e giuslavoristici a identici argomenti; tuttavia, occorre altresì precisare che si è affrontata questa apparente digressione introduttiva con la piena consapevolezza della difficoltà di una simile operazione, e della necessità di sintesi dettata dall’economicità e dalla coerenza dell’elaborato, senza alcuna pretesa di completezza considerato l’amplissimo respiro dei molti temi toccati ma con l’intento di non indulgere, per quanto possibile, in un approccio eccessivamente riduzionistico.